E il povero Abele?

di Paolo Repetto, 2013

D’accordo, siamo stirpe di Caino;
ma ricordiamoci anche dello zio.

Quasi mezzo secolo fa, negli “anni formidabili” in cui la mia generazione giocava a cambiare il mondo senza accorgersi che il mondo era già cambiato da un pezzo, per conto suo e nella direzione opposta, io ero molto impegnato a verificare le possibilità di una rappresentazione terrena di quel sogno: ma avevo anche già imparato a prendermi intervalli di istruttiva ricreazione. Avevo ad esempio scoperto che per capire qualcosa della vita era più utile frequentare le aule dei tribunali (come spettatore, naturalmente) che quelle universitarie, e che il banco degli imputati era un’ottima cartina di tornasole per ogni laboratorio di chimica sociale.

Seguivo, al palazzo di giustizia di Genova, nelle pause tra un esame e un’assemblea e quando il lavoro part-time me lo consentiva, le cause più clamorose o le vicende più bizzarre. Un giorno mi trovai ad assistere ad un processo che vedeva alla sbarra un magnaccia di mezza tacca, accusato di aver ucciso a coltellate la convivente nei bagni di un cinema. L’imputato ad un certo punto, dopo aver ammesso il fatto (era difficile fare diversamente, l’avevano beccato col coltello in mano), proruppe in un pianto dirotto, proclamando che la sua mano era stata forzata dalla gelosia, perché lui quella donna l’amava. Davanti a me sedevano due anziani e assidui frequentatori delle udienze, due maestri di sarcasmo che parevano la versione dal vivo dei vecchietti dei Muppets. Il lapidario commento di uno dei due alla scena fu: “Meschinettu, u l’è ‘n sentimentale”.

Se paragono l’efficacia corrosiva di quelle tre parole alla melassa ipocrita che trasuda oggi dal teleschermo e dalla carta stampata, ho l’idea di una distanza vertiginosa, di una caduta a picco nel vuoto. Il “poveretto” icasticamente liquidato dalla più spiccia delle giurie popolari oggi sarebbe un personaggio della nuova mitologia mediatica. Sarebbe inondato da lettere di ammiratrici, apostole della redenzione o semplicemente amanti del brivido. Godrebbe di più passaggi televisivi del papa o di Berlusconi. Diverrebbe un’icona.

Forse nel frattempo è successo qualcosa.

A dire il vero, era iniziato tutto già duemila anni fa. Prima le cose andavano in un altro modo, erano molto più semplici. Quando Caino aveva ucciso Abele, Dio lo aveva maledetto e condannato a sputare sangue. Il principio era chiaro: sbagli, paghi. I discendenti di Caino avevano capito e avevano tradotto l’insegnamento divino nella legge del taglione. Come poi la legge fosse applicata, a favore di chi, con quali eccezioni e con quali aberrazioni, col principio c’entra poco, nel senso che non lo inficia. Tutto ciò che è umano ha qualche problema a rimanere in linea coi principi.

A complicare la faccenda venne però duemila anni fa la parabola del figliol prodigo, col povero primogenito che dice: “Ma padre, io sono rimasto qui buono buono, ho lavorato per voi, e nessuno mi ha mai detto grazie. Questo se ne va, si fa i cavoli suoi fregandosene di tutti, e come torna, solo perché probabilmente non ha nessun altro posto dove andare, gli imbandite persino il vitello grasso?” La domanda era condannata a rimanere senza risposta, perché uno che ti dice: “E vabbé, lui era perduto e lo abbiamo ritrovato, tu sei sempre stato qui, cosa dovremmo festeggiare?” non ti sta rispondendo: ti sta prendendo a schiaffi (e sta prendendo a schiaffi il principio). Ti sta dicendo che sei normale, che sei un buono, che non hai nemmeno nulla di cui pentirti, se non forse di non essertene andato prima di tuo fratello, e quindi non fai notizia.

Non raccontiamoci storie, ormai è così che funziona. Esiste in Italia (ma forse è diffusa in tutto il mondo) un’associazione che si chiama “Nessuno tocchi Caino”, rifacendosi direttamente all’ingiunzione divina (se però vogliamo stare alla lettera della Bibbia, Dio stesso marchia fisicamente Caino). Trovatemene una che si intitoli “Ricordati anche di Abele”. Non c’è. Il povero Abele ormai è andato, e pace all’anima sua. Magari avrebbe potuto essere ancora vivo, se qualcuno avesse scaldato al momento giusto la schiena di Caino: ma questo non si può dire, è politicamente scorretto.

E allora, seppelliamo velocemente Abele, magari salutando con applausi l’uscita della bara (è un bel preludio allo spettacolo, e liquida il risarcimento alla vittima). Poi offriamo a Caino la ribalta. Che non è più il banco degli imputati, ma vede sfilare in un crescendo di passerelle mediatiche ex detenuti pluriomicidi, ex brigatisti rossi o neri, ex tossici o alcolizzati che hanno sterminato mogli e figli. Sono importanti, si dice: testimoniano che ce la puoi fare, che c’è una speranza per tutti. Certo, per tutti quelli che possono concedersi il lusso di essere degli ex qualcosa. Non per le loro vittime, ad esempio. Ma neppure per altri, per quelli che, senza essere vittime, non sono stati nemmeno carnefici. Non ho mai visto ospitata la testimonianza di un ex operaio di fonderia. Uno che ha lavorato per quarant’anni ad un altoforno senza finire drogato o alcolizzato, o senza pensare che magari una rapina ben riuscita poteva cambiargli la vita, o che far fuori qualche alto dirigente poteva rendere migliore quella di tutti. Non sarebbe questa una testimonianza efficace? “Ragazzi, badate che ci si può fare, lo fanno in tanti: si può essere consapevoli dell’iniquità, laddove esista, della condizione propria e altrui, e combatterla con le armi lecite della dignità e del coraggio. Si può essere orgogliosi del proprio lavoro, addirittura della propria fatica, affidandogli il senso, o gran parte del senso, del proprio esistere”. Ma così è troppo banale. La parabola del figliol prodigo è stata tradotta nel “solo chi cade può risorgere” delle canzonette. Messaggio fantastico, perfettamente in tono col “fratello, pecca tranquillo, che la misericordia di Dio è infinita”. E chi poveraccio non cade? Chi ce la mette tutta e regge coi denti, perché non vuole cadere, perché crede nel dovere di essere normale?

Non basta. Ad aggiungere un’ulteriore beffa al danno è arrivata la sindrome del perdonismo. Come a Dio, anche alle vittime viene chiesto di esercitare una misericordia infinita. Da quando Wojtyła ha perdonato al suo attentatore (e nel suo caso non si vede che altro potesse fare, stante il ruolo e soprattutto il fatto che ne è uscito vivo) va in scena una squallida farsa. Alle vittime prima ancora di soccorrerle vengono cacciati a forza in bocca i microfoni per strappare parole di perdono. A figli che hanno appena persi i genitori, e magari nemmeno ancora lo sanno, a genitori che hanno vissuto per giorni lo strazio di non avere notizia dei figli, per poi vederseli restituiti scempiati e morti, una schiera di mentecatti stringe un vergognoso assedio, a caccia di dichiarazioni che insaporiscano la notizia. Dall’altra parte, delinquenti e maniaci recitano compunti le frasi di pentimento che gli avvocati mettono loro in bocca, e provano davanti alle telecamere i toni e gli sguardi per quando saranno chiamati anche loro nel circo a portare testimonianza.

È quanto già stanno facendo i nuovi protagonisti, quelli destinati a riempire il palinsesto della prossima stagione. La più recente versione della tragedia originaria vede infatti nella parte di Caino i persecutori e gli uccisori di donne, così che l’Abele dei nostri giorni sembra essere diventato dovunque e nel suo assieme l’universo femminile. Non a caso l’ultimo successo librario su scala mondiale è stato “Uomini che odiano le donne”. Il fenomeno è stato anche debitamente titolato, naturalmente con un termine anglosassone, stalking, che significa né più né meno persecuzione. Ma in Italia il termine ha dovuto essere aggiornato in senso peggiorativo: la persecuzione si sta traducendo in un vero e proprio sterminio, e a sottolineare l’esistenza di una tipologia di omicidio dalla forte connotazione “di genere” è stato coniato un bruttissimo neologismo, femminicidio. Non so quanto questa sottolineatura aiuti o complichi la percezione di ciò che sta realmente accadendo, ma non è il caso di perdersi nelle sottigliezze semantiche. “Femminicidio” sta ad evidenziare l’incredibile aumento delle violenze mortali perpetrate nella sfera domestica o comunque affettiva. E che non si tratti solo dell’effetto di una passeggera sovraesposizione mediatica, (quella per intenderci che produce un paio di volte l’anno, ai cambi di stagione, i titoli sulla pedofilia o sugli stupri degli extracomunitari), lo dimostrano i numeri e le percentuali, che crescono in maniera esponenziale. In Italia la metà delle donne vittime di morte violenta sono uccise da mariti, fidanzati e conviventi, quasi sempre ex: la media mondiale è di poco superiore al dieci per cento. Siamo in linea con i paesi islamici e con le aree più arretrate del mondo.

Le cifre a dire il vero erano già alte da prima, come si conviene ad un paese che ha contemplato sino agli anni ottanta il “delitto d’onore” nel suo codice penale e lo conserva ancora oggi in quello etico. Ma il fenomeno odierno ha poco da spartire col vecchio delitto d’onore, anche se al fondo permane la stessa concezione “padronale” del rapporto di coppia da parte maschile. Questo residuato di millenni di androcrazia cozza oggi con un atteggiamento femminile che nel giro di mezzo secolo si è radicalmente “occidentalizzato”, e che non accetta più la sudditanza: ragion per cui i maschi “mediterranei” si trovano completamente spiazzati, e sembrano saper rispondere solo con reazioni istintive ed esasperate. Non sono più messi in questione “l’onore” e l’identità pubblica, ma l’autostima, il ruolo e l’identità privata.

Sappiamo tutte queste cose perché della crisi del maschio, e di quello latino in particolare, discettano da tempo in tivù sociologhe, psicologhe e filosofe di vaglia, oltre ai femministi equi e solidali: e non ho dubbi che la loro analisi sia fondata. Ma, al di là del fatto che può essere applicata solo ai paesi mediterranei, perché le donne nordiche sono emancipate da un pezzo e tuttavia la violenza è in aumento anche a quelle latitudini, a cosa approda poi, in definitiva, tutto questo chiacchiericcio? A setacciare i libri di testo a caccia di immagini o espressioni scorrette (perché è sempre la mamma a preparare la cena?), alla richiesta di declinare al femminile gli appositivi di ruolo (si può usare magistrata?) e di bandire quelli che già lo sono, ma in negativo (perché si usa la spia anche per i maschi?), a sollecitare la rivalorizzazione dell’apporto muliebre in tutti gli ambiti, pretesa che in molti casi si rivela ridicola o insensata (come faccio a rivalutare il ruolo della donna nella musica classica, se non ci sono state grandi creatrici di sinfonie o di opere liriche? Ma soprattutto, è poi così importante?), a proporre una cultura della differenza che viene poi contraddetta dalla richiesta di quote rosa nell’esercito, nel giornalismo calcistico e in parlamento. Messa in questo modo, tutto finisce in sostanza per essere ricondotto ad una versione aggiornata dell’eterna rivalità tra uomini e donne, ad una resistenza dei primi allo sparigliamento dei ruoli determinato dal modo di produzione industriale. E le analisi vengono inframmezzate da inserti pubblicitari che naturalmente degradano a merce l’immagine femminile, o alternate a trasmissioni nelle quali l’esibizione di seni, glutei e dentature ricorda il mercato degli schiavi.

Io credo ci sia ben altro. La spiegazione dello spiazzamento, al di là dei modi in cui è stata fatta propria dalla cultura del salotto televisivo, che la condisce di testimonianze e di lacrime in diretta – di quelle dei soli carnefici, per ovvie ragioni –, non è affatto sufficiente. Rimane in superficie e alla fine, se anche non assolve, è in qualche modo “comprensiva” nei confronti dei violenti.

Se davvero vogliamo invece capire cosa sta accadendo dobbiamo risalire più a monte: guardare non solo al femminicidio, ma ad un insieme crescente di comportamenti in apparenza insensati e che tuttavia configurano un nuovo modello culturale. La ragione profonda sta infatti nel trionfo di un relativismo etico che da sempre è presente nel cromosoma cattolico del nostro paese – per questo dicevo che ha avuto inizio duemila anni fa – ma che è diventato carattere dominante negli ultimi quarant’anni. Sulle responsabilità del relativismo la penso dunque esattamente come Ratzinger; siamo meno d’accordo sulle sue cause e sulla sua natura. Quello che Ratzinger non dice, infatti, è che allo sfascio odierno ha contribuito la Chiesa stessa, proprio per come ha indirizzato e interpretato il proprio ministero (ammetto comunque che gli ultimi sviluppi della carriera dell’ex-pontefice me lo hanno fatto sentire più vicino).

In sostanza: è in atto una de-valorizzazione di ogni valore, che è altra cosa dalla trasvalutazione di Nietzsche, ancorché a Nietzsche più di uno dei suoi teorici si rifaccia, e che sta ribaltando la prospettiva entro la quale si era andata costruendo, nel corso di tutto il secondo millennio, l’etica occidentale. Quell’etica era il frutto dell’ibridazione tra le due radici della nostra cultura, quella ebraica e quella greca: Dio che dice ad Abramo “Prenditi la responsabilità di decidere con la tua testa” e Socrate che dice al suo discepolo “Prima di farlo, però, guardati dentro”. Si fondava quindi sull’idea di una responsabilità individuale, conseguente la libertà dell’uomo di scegliere tra diversi possibili comportamenti. In origine si trattava ancora di una libertà molto condizionata, perché il fato in Grecia e Jahvè in terra di Palestina, nonché i vincoli creati dalla “organicità” al gruppo, continuavano a metterci il becco: ma era già un bel passo avanti rispetto alla totale eteronomia che caratterizzava le società più antiche. Alla confluenza tra i due percorsi, nella “volgarizzazione” cristiana, questa idea la si era annacquata e resa più digeribile a tutti, reintroducendo un ampio margine di “non responsabilità”: in quanto mortali e imperfetti gli uomini devono essere aiutati e orientati dall’alto nelle loro decisioni, e qualora sbaglino, purché lo riconoscano, possono sperare nella misericordia divina (eccolo, il figliol prodigo!). Come a dire: le regole che l’uomo trova stampate nella coscienza le ha dettate Dio, evidentemente a propria misura. È implicito che per gli umani valga un po’ di tolleranza, altrimenti sarebbe un gioco impari.

Un’etica veramente laica, quella che oggi riconosciamo come tale perché suppone che a dettarsi le regole sia l’uomo stesso, e quindi sia tenuto a rispettarle senza sconti, aveva cominciato a farsi strada solo nel Medio Evo, e si era infine imposta nel secolo di Spinoza e del libertinismo. Kant ne aveva poi data la formulazione più alta, fondandola da un lato sull’autonomia assoluta del singolo, dall’altro su una determinazione “formale” (il “tu devi”). Siamo umani, possiamo fare solo quello che possiamo; ma almeno questo dobbiamo farlo. “Da un legno storto, come quello di cui l’uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente diritto. Solo l’approssimazione a questa idea ci è imposta dalla natura”. Ne scaturiva che il “diritto” è ciò che l’uomo si conquista assolvendo con senso di responsabilità al proprio dovere, e che il dovere sta nel rispetto incondizionato, volontario e disinteressato di valori evidenti e assoluti, presenti alla coscienza di ciascuno, quale che sia la sua formazione culturale (“Tutte le nazioni hanno onorato come virtù la bontà, la compassione, l’amicizia, la fedeltà, la sincerità, la riconoscenza, la tenerezza paterna, il rispetto filiale”, aveva scritto Diderot). Nell’imperativo kantiano è lasciato ben poco spazio al pentimento, tanto alla sua versione cattolica che prevede un riscatto intermediato quanto a quella protestante che lo risolve nella disperazione individuale: il senso di responsabilità deve guidare la scelta, non attivarsi a posteriori e ridursi a senso di colpa. Fosse stato il padre della parabola, Kant avrebbe detto al primo figlio “tu stai facendo solo il tuo dovere, e dovresti già essere appagato perché lo fai”; ma non avrebbe certo ucciso il vitello grasso, e forse nemmeno una gallina, per quello prodigo.

Bene, tutto questo sembra oggi far parte di un mondo che non c’è più, come quei paesaggi che compaiono nelle vecchie foto di famiglia e che sono a stento riconoscibili nella bruttura contemporanea. Kant era ancora in vita e già gli si rimproverava, alla luce di quanto stava accadendo in Francia, di aver celebrato troppo precipitosamente l’uscita dell’Uomo “dalla minorità”, fingendo di ignorare quanto il maestro di Könisberg fosse invece consapevole della distanza intercorrente tra questi e l’Umanità (e non solo lui. Diderot, che anticipa molti aspetti del pensiero di Kant e riassume quello dei philosophes, scrive: “In tutto il mondo è stata imposta agli uomini non la migliore legislazione che si potesse dar loro, ma la migliore che essi potessero ricevere”) e che la sua era, prima e oltre che un auspicio, una proposta programmatica. Il paradosso è che Kant viene tacciato di utopismo per aver chiesto al singolo uomo di mirare alto, anzi, di guardarsi dentro e di essere “etico” per sé, per dare senso qui e subito alla propria esistenza, senza attenderne il riscatto da improbabili future palingenesi: mentre realistiche sarebbero quelle concezioni che attribuiscono a masse “irresponsabili” la volontà e la capacità di realizzare, opportunamente guidate, una società giusta. O quelle che semplicemente, preso atto che l’umanità cresce come un “legno storto”, abdicano ad ogni speranza di raddrizzarlo.

Di fatto, nei due secoli successivi da ogni direzione all’individuo è stata nuovamente negata quell’autonomia di scelta che comporta una piena assunzione di responsabilità; e questo in nome di volta in volta della natura, di Dio, dello stato, della storia, della comunità, del progresso, da ultimo persino del mercato. La sfiducia nell’uomo tant’è ha prevalso: evidentemente è più comodo considerarlo un eterno minore, incapace di dettarsi dei fini, e ricondurlo velocemente sotto tutela, come era accaduto in reazione all’illuminismo greco. In questo modo l’individuo diventa insignificante strumento, sacrificabile a fini sempre più grandi di lui: una volta scaricato della responsabilità verso se stesso potrà essere caricato facilmente della soma di incubi e utopie che altri sognano per lui.

Anche le critiche più fondate all’eccesso di soggettivizzazione dell’etica kantiana (provenienti tanto da destra che da sinistra, da Spengler ai francofortesi), quelle che paventavano i rischi di una deriva individualistica, alla fine hanno fatto gioco solo alla demolizione del vecchio impianto di valori, senza proporre nulla di nuovo o di alternativo. Tra i molti che presagivano come questa deriva avrebbe portato alla cancellazione delle individualità in una massa indistinta, pochi hanno capito che tra il rimbambimento totalitario e la solitudine disperata di fronte all’assurdo rimaneva sempre una terza via, coerente negli esiti, se non nelle premesse, con la formulazione di Kant. Da Leopardi a Camus, si contano sulle dita di una mano.

Risultato: la demolizione dei valori “forti” illuministici, iniziata da subito, con Fichte e l’idealismo e proseguita ininterrottamente sino ad oggi, ha sollevato un polverone in cui alla fine tutti gli uomini diventano grigi, tutte le azioni sono leggere e tutte le idee risultano intercambiabili. Sotto questa nuvola c’è un deserto di terra bruciata, sulla quale può crescere solo un “pensiero debole”; un insaccato di macerie, informe e dilatabile sino a contenere e a giustificare tutto. La debolezza del pensiero, la negazione dell’esistenza di un sistema di valori interiori di riferimento, l’educazione degli individui alla non-responsabilità creano peraltro l’humus ideale per l’affermazione del totalitarismo. E infatti quest’ultimo, sconfitto nel secolo scorso in quelle incarnazioni politiche che ne facevano una bandiera, ha trionfato alla fine nella versione post-moderna, sotto le spoglie “democratiche” del mercato e della finanza, ed ha imposto il credo della produzione e della crescita illimitate. In aggiunta, la crisi tardonovecentesca delle ideologie, collassate sotto l’incalzare dell’indifferenza unica (nel senso sia soggettivo, del non cercare un senso, che oggettivo, di non averlo) non ha significato affatto la scomparsa dell’ideologismo: ha solo banalizzato le prime e ha reso impossibile combattere il secondo, che è sopravvissuto come scoria e ha inquinato in profondità le falde del pensiero.

Questo avvelenamento ha prodotto una concezione prettamente garantista e sofistica del diritto. Il diritto non è interpretato oggi come progressiva e consapevole conquista interiore, da porre poi a fondamento dei rapporti esterni, ma come una fiammella pentecostale che la storia ha fatto scendere sugli uomini, a proteggerli e deresponsabilizzarli preventivamente piuttosto che a illuminarli e responsabilizzarli. L’idea che non sia trasmissibile come un immobile di padre in figlio o da una generazione all’altra, e che ciò che va trasmesso è semmai il terreno libero sul quale ciascuno sarà poi chiamato a coltivarlo, riesce particolarmente indigesta. Non solo ai legulei, che sulle interpretazioni a senso unico del diritto ci campano, ma a tutti quanti, compresi legislatori e sindacalisti. La nostra è ormai una cultura del diritto acquisito, non di quello conquistato: e se le parole hanno un senso, questa è la differenza nei confronti del mondo che Kant sognava, guardando sì al futuro, ma anche al suo presente.

L’arroccamento su questa concezione del diritto come pura corazza difensiva presuppone che gli individui vengano sollevati dalla responsabilità piena delle loro azioni. Se nessuno è considerato capace di agire in totale autonomia, si configura una sorta di collettiva incapacità di intendere e di volere. Ma dal momento che con qualcuno bisogna pur prendersela, nel minestrone culturale del post-moderno il ruolo che era attribuito un tempo al fato o all’arbitrio divino viene oggi imputato alla “società”. Al termine del gioco al rimpallo la “paglia” finisce ad una generica società matrigna, colpevole di tutto perché ingerisce e condiziona, e del suo contrario perché è assolutamente indifferente e fredda (Leopardi, che queste cose le pensava della natura, attribuiva però la responsabilità alla presunzione umana di esserne al centro). Così, quando viene chiamata in causa quale responsabile, e cioè in ogni caso in cui non si possano scaricare sui più prossimi le colpe, la società è percepita come presenza esterna, o addirittura estranea, con la quale ci si scontra, anziché sentirsene partecipi. Quando invece la si evoca in positivo (la fantomatica “società civile” che resiste, che si indigna, che è migliore dei suoi governanti), allora sembra comprendere una ristretta cerchia di persone (in pratica, la nostra). Che sia null’altro che l’insieme dei singoli e ne sommi le attitudini, e che il risultato non sia superiore alla somma ma ne rappresenti la media, è una evidenza che non riesce ad imporsi. A seconda dei casi torna comodo giocare al rialzo o al ribasso. Soprattutto però non viene presa in considerazione la possibilità e la pretesa che il livello medio delle coscienze individuali si alzi, e che tutti si sentano parte della comunità con responsabile coerenza: dato che la maggioranza è “minorenne”, occorre applicare uno statuto etico più morbido. É il trucco dell’atrazina nell’acqua: dal momento che non riusciamo a rispettare i livelli minimi di tollerabilità, alziamo i valori ammessi e l’acqua torna miracolosamente potabile.

Dietro il fenomeno della violenza sulle donne c’è dunque ben altro. Non è distorta solo la percezione dell’immagine femminile, lo è quella globale della vita e del suo senso. Il balordo che dopo aver strangolato la fidanzata telefona ai carabinieri dicendo: “Ho fatto una cavolata” userebbe la stessa espressione dopo aver causato una strage guidando ubriaco, o dopo aver dato fuoco ad un barbone. Il problema vero è la riduzione di tutto ad una “cavolata”, e la strada che conduce a questa distorsione è perfettamente ripercorribile, anche se ricorda quel giochino da settimana enigmistica nel quale si univano i puntini numerati per scoprire una figura. Il percorso parte come abbiamo visto dall’ostracismo intellettuale decretato ai “valori forti”, passa per la delegittimazione a priori di ogni istituzione, avvalorata a posteriori dallo scandaloso comportamento di chi le istituzioni dovrebbe rappresentarle e difenderle, e attraverso una serie di giri viziosi arriva al garantismo inossidabile dei genitori nei confronti di qualsiasi comportamento idiota dei figli (lo conosco bene, è un bravissimo ragazzo, magari un po’ influenzabile, ma a casa non si è mai comportato così” – che implica “siete voi che me lo rovinate”) o a quello farisaicamente ideologico dei difensori ad oltranza dei diritti del persecutore (qualche anno fa una circolare ministeriale sul bullismo invitava a considerare come prima vittima, negli episodi di bullismo, proprio colui che compie il gesto. Abele si rivolta ancora nel suo tumulo). È inevitabile che la figura che compare alla fine sia un mostro.

Sarà il caso allora di cominciare a lavorare proprio dalla scuola, come del resto predicano nei talk show e nei convegni le psicologhe e sociologhe e i femministi. Ma non certo per espungere le massaie col grembiule dai libri di testo, o per dare a Giovanna d’Arco altrettanto spazio che a Napoleone. Il lavoro da farsi è ben altro, è arduo e quasi impossibile, perché va a cozzare contro le resistenze congiunte delle famiglie, della burocrazia ministeriale, dei garantisti d’ordinanza, nonché delle corporazioni stesse degli indagatori della psiche, individuale e collettiva, che ogni giorno inventano sindromi nuove. È evidente, ad esempio, che il bulletto o ragazzino caratteriale che a scuola diventa un soggetto con Bisogni Educativi Speciali, e anziché essere alzato per le orecchie gode di particolari attenzioni e piani di studio personalizzati, e fa il suo percorso alla pari con gli altri ma faticando meno, così da potersi ritagliare tutto il tempo e le occasioni per rompere agli altri le scatole, continuerà per tutta la vita a pensare alle sue azioni come a “cavolate”: e se contrariato distruggerà la vita di un’altra persona, sia essa l’ex compagna, o il coinquilino che protesta, o l’automobilista incrociato all’autogrill, con la stessa indifferenza con la quale a scuola rovinava quella degli sfortunati compagni e distruggeva magari i loro libri o i loro cappotti. Allo stesso modo incendierà cassonetti o auto o caterpillar, non appena gli si presenterà l’occasione di una ribalta e di una bandiera che ammanti la sua nichilistica idiozia di una qualche confusa idealità: magari appellandosi alla militanza in un movimento anarchico del quale, nella sua perfetta e pervicace ignoranza, non sa un accidente (qui è lo spirito di Berneri e di Malatesta a rivoltarsi). E troverà la “comprensione” proprio di chi dovrebbe invece sentirsi due volte offeso, per lo sfregio stupido al civismo e per la ferita inferta a idealità generose e sincere.

Non sto dicendo che quattro calci nel sedere risolverebbero il problema e ammansirebbero ragazzi allevati allo stato brado. Sto dicendo che per aiutarli davvero, loro e quelli che con loro hanno a che fare, la scuola non ha bisogno di reti di buone pratiche e di corsi di formazione dove si racconta la favola del brutto anatroccolo, e nemmeno di tutto l’armamentario di laboratori informatici e registri elettronici che sembra diventato la panacea di ogni problema: ha bisogno di gente che a sua volta nei valori ci creda, li conosca, li pratichi e non si sia già arresa alla loro scomparsa. Che non dia per scontata l’impotenza dell’istituzione a difendere le vittime, i miti, coloro che frequentano ancora con la voglia e col piacere di imparare, dalla prevaricazione e dalla violenza impunita, e dalla delusione che questa impunità crea. Perché ogni gesto di violenza tollerato, sottovalutato o persino in qualche modo “giustificato” non si porta dietro solo il danno immediato o remoto alla vittima (tra gli stalker non ci sono solo i persecutori per vocazione, ma anche quelli per reazione, quelli che hanno accumulato rancore proprio per non essersi sentiti protetti), ma anche quello, forse maggiore, inferto agli occhi di tutti alla credibilità dei valori più elementari della convivenza. E davvero crea un danno allo stesso persecutore, perché lo rafforza nella convinzione che non ci siano dazi da pagare, che tutto sia insomma “una cavolata”.

Esiste sul serio la possibilità di fare argine al progressivo scivolamento nell’”indifferenziato”? É difficile crederlo. Mi sono soffermato sulla scuola perché la ritengo l’ultimo ridotto dal quale si potrebbe ipotizzare una resistenza, ma non credo ci si debbano fare troppe illusioni. Degli altri fronti poi, da quello della famiglia a quello della politica, non val nemmeno la pena parlare. Lì la guerra è già persa da un pezzo, e non è necessaria un’indagine sociologica per capirlo. È sufficiente guardarsi attorno. Ciò che vediamo somiglia sempre di più all’immagine televisiva: e non perché sia la televisione a rispecchiare il mondo, ma perché è ormai quest’ultimo a conformarsi a un modello di comunicazione e di rapporti costantemente urlati, si tratti di pubblicità come di politica, di sentimenti come di cultura. Questo mondo a modello unificato offre il terreno della rivincita agli ignoranti, e ne diventa ostaggio. Sono loro gli “utenti” più fedeli, meno critici, più manovrabili: e per attrarli, a loro deve sempre più somigliare. Dal momento che in tutti i casi l’obiettivo è vendere qualcosa, per allargare il bacino dei possibili acquirenti si tara al minimo la richiesta di un impegno intelligente. Anzi, possibilmente la si esclude. L’offerta marcia in conseguenza. Non si fa audience tra gli idioti con chi dice cose intelligenti, ma con chi litiga e insulta. Non c’è posto per i figli che rimangono a casa, ma per quelli che scappano.

Se anche le fosse consentito, quindi, la scuola si troverebbe a combattere una guerra solitaria. Eppure di questa guerra deve farsi carico. È rimasta l’unica istituzione a poter educare i giovani al fatto che non c’è convivenza senza un sistema di regole, che le regole valgono per tutti allo stesso modo e che non sono arbitrarie restrizioni, ma poggiano sul riconoscimento di valori positivi universali. Questi valori li può raccontare attraverso la narrazione storica, li può rintracciare nella tradizione letteraria, li può dimostrare con l’analisi scientifica, soprattutto li può inverare affermandoli e difendendoli nella quotidianità delle relazioni interne. Può naturalmente anche metterli in discussione, o meglio, mettere in discussione le interpretazioni che ne sono state date, le strumentalizzazioni e le distorsioni cui sono stati piegati: anzi, deve farlo, ma senza mai perdere di vista la verità che solo il riferimento ad un sistema di valori consente di pensare un futuro, perché impone di fare un progetto della propria vita, di attribuirle un fine, e quindi di darle un senso.

Per spiegare tutto questo la scuola dovrebbe recuperare senso al linguaggio: ridare alle parole il loro significato, ripristinare la loro aderenza alle azioni e alle cose. L’impoverimento progressivo del linguaggio, l’uso improprio o approssimativo dei termini, la loro perdita di peso e di sostanza, non sono solo una spia ma anche la concausa della confusione e della povertà morale. La scuola può insegnare che un omicidio non è una cavolata proprio restituendo al termine tutto il suo peso e all’azione tutto il suo carico di responsabilità.

Avremmo tutti più che mai bisogno di una bella ripassata alla grammatica della vita: ma per i miei coetanei e per i nostri figli maggiori temo sia purtroppo già tardi. Non resta che guardare ai più giovani: non per un melenso giovanilismo, perché la giovinezza non è una virtù, ma una condizione, e la percentuale di idioti non varia tra le fasce d’età, quanto semplicemente perché sono ancora in tempo ad imparare qualcosa. E perché sono le giovani generazioni a pagare il prezzo più alto della sparizione di valori. Lo pagano nell’indeterminatezza del presente, ma soprattutto nell’azzeramento di ogni possibile futuro: questo vuoto impedisce infatti loro di pensare a qualcosa che valga al di là dell’immediato e del contingente, le induce a lasciarsi trascinare dagli eventi e dagli istinti, soprattutto le assolve da responsabilità nei confronti delle generazioni più sfortunate ancora che seguiranno.

Vista in questa prospettiva, la strage delle donne è dunque solo una delle tante disastrose conseguenze di quella delle idealità. E allora non troverà riparo nei telefoni rosa o nei centri d’ascolto, e nemmeno nelle leggi ad hoc e nei sit in di solidarietà o di protesta, ma solo in un colpo di reni che ci rimetta in piedi, per quanto storti, e restituisca a noi la dignità di sentirci responsabili delle nostre azioni e alle vittime almeno l’amaro conforto di essere riconosciute come tali. Per intanto, però, si potrebbe intraprendere l’azione educativa col restituire la responsabilità ai Caino di turno, e soprattutto col togliere loro la ribalta. Non è necessario arrivare alla damnatio memoriae. Basta molto meno. Mi sembra di sentirli, i miei due vecchietti, se potessero assistere alle ignobili farse dei pentimenti “ in diretta”: Cosse ti veu, ‘sun tuti ‘nnamué.

Ma per fortuna, dove siedono ora, non c’è televisione.

 

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