di Paolo Repetto, 2013
L’altra sera ho partecipato ad un incontro con Duccio Demetrio. Il tema era intrigante: in cosa credono quelli che non credono. Demetrio portava la testimonianza di un non credente in un contesto, un convegno teologico che si svolgeva in un auditorium parrocchiale, dove tutti (tranne il sottoscritto) erano credenti.
L’intervento di Demetrio mi è piaciuto. Lui è una persona distinta, ha una figura elegante e slanciata, folti capelli candidi che incorniciano un volto tirato ed ieratico. Usa un eloquio raffinato ma semplice, scandisce perfettamente le parole e i periodi, e tuttavia non risulta né freddo né distaccato. Se avete letto la sua “Filosofia del camminare” riconoscerete perfettamente lo stile. Parla come scrive. Non entusiasma, ma convince.
Vi chiederete tutto questo cosa c’entra: per me è fondamentale. Non è importante solo quello che si dice, ma anche il modo in cui lo si dice. Pensate in quanti modi diversi si possono pronunciare le stesse parole d’amore, e che effetti differenti possono provocare. Come i sentimenti, anche le idee necessitano di una esposizione coerente con la figura di chi le esprime. Non ci sono un unico linguaggio e un solo tono col quale esprimerle: l’essenziale è che il linguaggio e il tono “appartengano” davvero alla persona, e siano garanti delle idee stesse. Per questo mi piace conoscere le persone di cui leggo cose che mi intrigano (e preferisco che chi legge le mie mi conosca). Perché non sempre questa coerenza la ritrovo, e in quel caso le idee non mi sembrano affatto convincenti.
Come si valuta la coerenza? Non c’è un criterio. È una cosa che funziona a istinto. La senti nella voce e la leggi nella figura che hai di fronte. Il resto, la conoscenza dei retroscena, di eventuali vizi, delle ambiguità, può solo confermare le tue impressioni, oppure risultare assolutamente irrilevante. In genere è difficile che mi sbagli. Se credessi nella metempsicosi, penserei di aver vissuto la vita precedente come cane da tromboni.
Ma torniamo alla relazione di Demetrio, questa perfettamente in tono con la persona. In maniera chiara e semplice, appoggiandosi a citazioni di Enzo Bianchi, di David Maria Turoldo, di Sergio Quinzio, e soffermandosi sui testi delle più recenti encicliche del duo Ratzinger-Francesco, ha evidenziato come siano percepibili nella Chiesa un’attenzione ed un rispetto particolari (ma non nuovi: in realtà, ha ricordato, erano già presenti nello spirito che animava il Concilio Vaticano secondo) per i non credenti, o almeno per quelli che percorrono da non credenti gli stessi sentieri di ricerca sui quali si può camminare con la fede. Ne è scaturita una testimonianza sincera, senza concessioni eccessive all’uditorio e all’occasione. «Io non credo allo stesso modo e nelle stesse cose in cui credete voi, ha detto in sintesi Demetrio ai suoi ascoltatori, ma credo nella necessità di porsi l’esistenza come un problema e la resistenza come uno scopo. Paradossalmente, credenti e non credenti parrebbero accomunati dalla volontà di evitarsi il problema dell’esistenza, gli uni risolvendolo nella presenza e nella volontà divina, gli altri semplicemente ignorandolo. Ciò che invece accomuna i credenti e i non credenti “pensosi” (credo che il termine sia mutuato dal lessico del cardinal Martini) è il porsi il problema gli uni anche in presenza di Dio, gli altri proprio per la sua assenza».
Ciò che Demetrio intendeva dire è che l’incontro avviene, al di là delle risposte che si danno, sulle domande che si pongono. E quando gli incontri avvengono sulle domande si possono fare pezzi di strada di ricerca assieme. Si possono apprezzare i contributi che arrivano da ogni parte, se non per fare più luce, almeno per avere meno paura del buio.
Mi sono ritrovato appieno nelle parole di Demetrio. Le ho trovate di una “laicità” perfetta (e a questo ha contribuito il fatto che non abbia mai pronunciato la parola “laico”) e mi sono sembrate molto adatte all’uditorio. Perché la parole valgono in ragione della loro contingente opportunità. Anche l’uditorio infatti mi è parso “laico”, non condizionato da chiusure pregiudiziali. Ultimamente questa impressione l’ho provata più volte, in presenza di credenti. Forse sono solo fortunato, forse frequento le persone giuste, forse nella Chiesa sta accadendo qualcosa di veramente importante, e Francesco non è solo un fenomeno mediatico (Questo, sia chiaro, non toglie che io rimanga convinto dell’impossibilità della Chiesa di essere altro da quello che è, e che ciò che di veramente importante potrebbe accadere nella Chiesa porterebbe inevitabilmente alla fine della Chiesa stessa). Non è comunque il risvolto teologico che mi interessa, ma quello umano. Ci sono un sacco di persone intelligenti lì in mezzo, e questa è un’ottima cosa, al di là della sua contraddittorietà. Vorrei trovarne altrettante nella sinistra.
Demetrio era naturalmente solo un pretesto. Mi ha offerto un’ottima occasione per fermarmi a riflettere su un problema che a dire il vero, come i non pensosi, cerco in genere di dribblare. In cosa credo? E prima ancora: è necessario credere in qualcosa?
Comincio dall’ultima domanda, la prima in ordine logico, che in realtà andrebbe riformulata in: è naturale, credere? Se ci atteniamo alla nostra condizione animale la risposta è ovviamente no – a meno di utilizzare il termine all’uso leopardiano, nel significato di affidarsi (La primavera). Gli animali, a quanto risulta sino ad oggi, non credono. Dal momento però che siamo animali un po’ particolari, che hanno impresso una svolta al loro stesso processo di evoluzione, dovremmo rispondere si, perché la svolta fa comunque parte del processo evolutivo, quindi in qualche modo tutto ciò che ha comportato rientra in quel processo. Ci rientrano anche l’astrazione simbolica e la conseguente possibilità di elaborazione fantastica, così come la comparsa di una consapevolezza non puramente istintuale del mondo e di una coscienza non puramente utilitaristica del nostro essere nel mondo. Direi dunque che per l’uomo credere è naturale, e quindi necessario, già sotto un semplice profilo biologico; ma lo è anche in un altro senso, quello che esce dalla determinazione genetica e attiene invece alla specialissima autonomia umana, quella della possibilità di scegliere.
Mi rendo conto però che, a differenza di Demetrio, sto rischiando pericolosamente di avvitarmi. Mettiamola giù più semplice. Con tutto l’amore che posso avere per gli animali, e a dispetto del fatto che conosco cani molto più intelligenti dei loro padroni, non ho problemi ad affermare che noi umani siamo animali non solo particolari, ma speciali (con buona pace di tutti i patetici animalismi che vanno oggi di moda). Siamo speciali perché possiamo scegliere di dare risposte diverse, complesse, non determinate dall’istinto, agli stimoli dell’ambiente, ma soprattutto perché siamo in grado di porre noi stessi delle domande all’ambiente. Porre delle domande significa interloquire, presumere o immaginare un interlocutore, qualcuno o qualcosa che dia delle risposte. Significa, né più né meno, credere. Non porre delle domande significa vanificare il singolarissimo percorso che ci ha condotti all’attuale condizione, rifiutare la qualifica di umani. Quindi, per l’uomo il problema non è credere o non credere, ma piuttosto, in cosa credere. E questo ci porta alla domanda vera, la prima.
Nel suo intervento Demetrio ha intelligentemente evitato ogni accenno all’“oggetto” del credere, nel senso che non ha tirato in ballo creazionismo, disegno intelligente, evoluzionismo ateo duro e puro. Eppure, la titolazione che era stata data sembrava richiederlo. Io non penso sia stato solo un diplomatico escamotage per evitare di entrare in questioni controverse e per non dispiacere gli uditori. Credo di avere inteso bene quel che Demetrio non ha detto, ma ha dato per presupposto, e di poterlo riassumere così. “Ai fini della mia presenza qui, del cammino di conoscenza che credo di poter fare insieme a voi, “quel” particolare problema, il problema che per certi versi pare essere il muro contro il quale si infrange ogni tentativo di incontrarsi, è assolutamente irrilevante. Sinceramente, non mi interessa sapere se c’è o non c’è un Dio, e nella prima ipotesi come è fatto e cosa pensa e vuole: mi importa trovare una linea di comportamento tale, nei confronti vostri, di tutta l’umanità e del mondo intero, per cui l’esistenza o meno di Dio non mi sposti una virgola. Non di ontologia sono venuto a parlare, ma di etica”. Ecco, questo io ho letto tra le righe, anzi, nelle brevi pause tra le sue parole. Forse perché era quello che volevo sentire.
Penso di non aver mai fatto mistero che ciò in cui credo si riassume tutto nell’eticità, intesa in una formulazione molto vicina a quella kantiana. Ma mi rendo anche conto che l’eticità è il risvolto “pratico”, che per Kant stesso può conseguire solo ad un percorso fatto con la ragione “pura”. È l’agire che consegue al pensiero. Quindi dovrebbe darsi un pensiero puro, una conoscenza più o meno critica delle cose, che induce a prendere partito, a comportarsi di conseguenza. Questo pensiero puro, o meglio, le sue risultanze, rimangono in effetti il primo oggetto della domanda.
Qui Kant mi soccorre poco. Rimane un po’ ambiguo, o almeno io l’ho percepito tale. Dice e non dice: dice che arrivati ad un certo punto ci troviamo di fronte al noumeno, e siamo costretti a distogliere lo sguardo. Non dice se questo avviene perché la luce è troppo abbagliante, o perché ciò che vediamo è troppo angosciante. Io propendo per questa seconda interpretazione, che farebbe di Kant l’aprifila di una linea di pensiero che passa per Leopardi e arriva a Camus. E tuttavia, le conseguenze etiche sono comunque le stesse. Prendi atto della realtà, e ti dai da fare per conferirle quel senso che non ha, o almeno, che non ha per noi.
Io credo in questo. Credo che se anche l’universo, il mondo, la nostra stessa storia, naturale e non, hanno un senso, un Logos, non l’hanno certo per noi. E allora è inutile insistere a volerlo trovare. In effetti ciò che facciamo quando mettiamo in fila gli avvenimenti per costruire una storia, o le idee per costruire una filosofia, non è trovare un senso, cosa che suppone che il senso ci sia e stia nascosto dietro, ma darglielo, ciò che suppone che non ci sia. E quindi lo costruiamo noi.
Allo stesso modo, vista la limitatezza del nostro tempo, nostro come individui e nostro come umanità, è importante dare un senso almeno a noi stessi. Questo non significa rinunciare a conoscere per buttarsi nell’agire: significa volgere il nostro desiderio di conoscenza ad un ambito nel quale abbia qualche possibilità di successo, o almeno di non trovarsi il percorso sbarrato. Significa anche assumersi la responsabilità di costruire, che è ben maggiore di quella di trovare. Presunzione? Dipende dai punti di vista.
Eppure, ogni tanto mi capita di soffermarmi un attimo in più, e di ragionare su queste cose: si, va bene, c’è il Big Bang, l’origine dell’universo, lo scatenamento di una forza immane che agisce ancora oggi, dopo quattordici miliardi di anni. Ma prima? Si dice che questa esplosione sia partita da un nucleo con una concentrazione e un peso specifico addirittura impensabili, per i quali non sono nemmeno immaginabili le cifre. Ma prima? Come cavolo ha fatto la materia a concentrarsi in questo nucleo?
Per fortuna dura poco. Il cuor si spaura, direbbe Leopardi, e devo tornare subito indietro. Sto rasentando l’angoscia, perché non riesco più a pensare a nulla, e allora non mi sembra molto diverso rispondere che prima c’era un Dio non creativo (pensoso?) o che prima c’era dell’antimateria. L’una e l’altra risposta mi rispediscono alla domanda: ma prima?
A questo punto mi dichiaro sconfitto, ma senza alcun senso di frustrazione. Mi capita come di fronte a certe pareti in montagna. Capisci che non sono per te, che l’andare oltre sarebbe al di là delle tue forze e delle tue capacità, sarebbe stupido orgoglio. È lì che viene fuori la vera motivazione per la quale vai in montagna. Se non riesci a toglierti dalla testa quella parete, se hai bisogno assoluto di scalarla, sei lì per dominarla, per provarti qualcosa. Se non riesci a guardarti attorno, e a vedere che in mezzo a quella meraviglia non hai che da scegliere, e ringraziare di essere lì, stai sprecando il tuo tempo e le tue occasioni di felicità
È una forma di suicidio, fisico e morale, che non mi piace. E nemmeno mi disturba il fatto che altri possano farcela: non significa che possa anch’io, significa che sono più bravi loro (Ammiro chi sale sull’Everest con una gamba sola, vuol dire che se ne avesse avute due avrebbe potuto farlo di corsa – o magari non gli sarebbe mai venuto in mente di provarci. Ma questo non significa che tutti coloro che hanno una gamba sola potrebbero salire – e nemmeno quelli che ne hanno due.).
Lo stesso vale per la verità ultima. C’è gente che scorge la luce e tiene fisso su di essa lo sguardo. Io la luminosità eccessiva la patisco, e volgo altrove gli occhi. Torno a guardarmi attorno. Ci sono un sacco di cose da vedere, prima di arrivare lassù. Ne vale la pena. E se ogni tanto sfioro la vetta, quando mi fermo a riflettere non dico: “non c’è nulla”, ma “non ho visto nulla”. Così come quando rinuncio ad una cima non penso: “non si può fare”, ma “non la posso fare”. E questo, ripeto, non mi procura frustrazioni.
Il non conoscere né il principio né il fine ultimo non mi sembra un grosso scandalo. Sulla terra ci sono talmente tante formiche che la loro massa è dieci volte maggiore rispetto a quella degli umani. Se le pensiamo come individui, tenendo conto della durata della loro esistenza e del fatto che esistono da un tempo cento volte più lungo di quello degli umani, dobbiamo elevare il dieci ad una potenza a due cifre. Ebbene, che senso ha, che senso ha avuto la loro esistenza? Non sono certo lì per noi, non devono realizzare nessuna utopica società dell’eguaglianza e della giustizia (non perché l’abbiano già realizzata, anzi, secondo i nostri parametri il loro sistema sociale risulta spaventosamente crudele), non sono in attesa di una redenzione o di un giudizio universale. Quindi? È inutile che vantiamo la nostra differenza, il nostro sviluppo tecnologico e morale, ecc… Con tutto il suo sviluppo la nostra specie non durerà certamente quanto la loro; al contrario, se lo sviluppo non si ferma l’umanità ha già gli anni contati. Quindi bando alla presunzione, e prendiamo l’esistenza per quello che è.
Ma arrivati a questo punto, quali sono gli sbocchi pratici?
Un atteggiamento conseguente potrebbe essere quello del nichilismo, che a sua volta potrebbe essere declinato secondo il modello epicureo o secondo quello pessimista. Non c’è nulla, e allora tanto vale prendere tutto il piacere che viene; oppure non c’è nulla, e allora non vale la pena fare qualcosa che vada oltre il necessario per la pura sopravvivenza. L’altro atteggiamento possibile è quello etico, che è riassumibile nel “Non so che cosa ci sia, ma so di dover fare qualcosa”. Anche qui le interpretazioni del ruolo possono essere differenti. C’è infatti un’eticità allargata, che considera comuni alcuni principi e pretende vengano rispettati da tutti, e c’è un’eticità ristretta, individualistica, che pratica i principi indipendentemente dal fatto che siano condivisi e praticati dagli altri. Entrambe le posizioni sono difficilmente applicabili senza cedere qualche bastione: se pretendi che tutti siano etici passi la vita a predicare e ad irritarti perché non ti ascoltano o non ti capiscono; se tenti di essere etico per i cavoli tuoi ti scontri costantemente con un mondo che viaggia in un’altra direzione, vivi una vita marciando contromano.
È qui che si inserisce la mia posizione. Che vorrei definire quella del non credente pensante, piuttosto che pensoso. Il credente o il non credente pensoso mi rimandano ad un dipinto raffigurante San Girolamo nel suo studio, immerso tra libri e carte ma con lo sguardo un po’ trasognato, come a significare che in quelle carte e in quei libri non c’è ancora tutto quel che serve, e occorre distogliersi e meditare. È un pensare meditabondo, quello di san Girolamo. Il pensare di chi, dando per scontata l’esistenza di Dio, ogni tanto si ferma a chiedersi: Si Deus est, unde malum? Poi l’aggiusta, ma il tarlo del dubbio lavora sotto. Il non credente pensoso è invece quello che, dando per scontata la non esistenza di Dio, non può fare a meno di chiedersi il perché di tanta bellezza, o magari di tanta miseria senza riscatto, attorno a lui. L’uno e l’altro sono pensosi perché in attesa di risposte.
Io, non credente pensante, non do per scontato nulla. Ho un paio di foto che mi ritraggono nel mio studio, e in entrambe ho lo sguardo su un libro aperto, anche se si capisce che non sto leggendo, ma riflettendo su ciò che ho appena letto (non so se davvero si capisce, ma l’idea che volevo trasmettere era quella). Bene, lì sta la differenza. Pensare è un atto indipendente dai libri, da quanto si conosce; riflettere significa soffermarsi su quanto si è appena appreso o letto, è legato appunto alla conoscenza. Allo stesso modo, sempre rimanendo nell’atmosfera della montagna, c’è chi davanti ad un panorama, ad uno scorcio particolarmente suggestivo o inquietante, è portato a meditare: si stacca un attimo dalla sua situazione concreta e viaggia con la mente, oltre le vette circostanti, in direzione dell’infinito. In un eventuale ritratto sarebbe meditabondo. Io davanti allo stesso panorama rimango a bocca aperta, anche perché in genere per arrivarci ho dovuto mettere sotto pressione i polmoni, e mi abbevero gli occhi e la mente con quello che c’è, non con ciò cui mi rimanda. Quella vista non è un link sul quale cliccare per aprire un altro file. “Penso” quella, letteralmente “la rifletto”; mi basta ed avanza. Al più sento la struggente malinconia che sempre ti coglie in quei momenti, all’idea che non potrai vivere costantemente in un simile incanto (che poi, se ci vivessi sempre, non sarebbe neppure più un incanto).
Quindi, riassumendo: in cosa credo?
Tutto sommato, credo negli uomini. Devo dire che ce la mettono tutta per insinuarmi dei dubbi, ma tengo duro. Credo negli uomini per quello che sono, e non per quello che dovrebbero essere, anche se non mi spiacerebbe che lo fossero (e anche se faccio da una vita un lavoro che mira a farli diventare tali). Questo mi consente di apprezzare l’esistenza di un sacco di gente che val la pena conoscere, con la quale intrattenere rapporti di amicizia, alla quale rivolgersi e per la quale costituire un qualche riferimento. Forse sono davvero particolarmente fortunato; o forse mi accontento di poco.
Ma non è così, perché credo nell’intelligenza. Anche qui, a volte risulta difficile, ma diradando i rapporti con la televisione e con le folle delle spiagge e dei centri commerciali ci si può fare. L’incontro con l’intelligenza ogni volta mi stupisce e mi fa felice. La mia perplessità infatti va in direzione contraria a quella di san Girolamo. La didascalia sotto la mia foto dovrebbe recitare: se esiste Berlusconi, da dove arriva questo libro?
Credo soprattutto nella realtà naturale che mi circonda, e non ho bisogno di immaginarne altre. Fossi vissuto sei secoli prima di Cristo sarei stato uno ionico, e non un eleatico. Ho avuto la fortuna di trascorrere la gran parte della mia vita in un luogo bellissimo, e di frequentarne altri altrettanto belli. In più, ho vissuto un rapporto non domenicale con la natura. Come contadino l’ho conosciuta in tutte le sue manifestazioni, l’ho sofferta, amata, stramaledetta, rispettata. Pur senza idealizzarla ne ho maturato una concezione panica. Il che significa che la natura non è né buona né cattiva, fa il suo mestiere.
E quando certe sere, finito il lavoro in campagna, siedo qualche minuto a fumare con lo sguardo alle montagne oltre le quali tramonta il sole, non mi chiedo chi ci sia dietro tutto questo: me ne riempio gli occhi e la mente, mi sembra naturale che sia così, così come mi sembra naturale pensare che un giorno non le vedrò più. Non sento la necessità di immaginare qualcosa o qualcuno dietro tanta bellezza. A volte mi sfiora l’idea che la mia sia una regressione verso una condizione animalesca: ma poi, guardando le mucche che pascolano lungo la collina di fronte, mi dico che nessuna di loro si è seduta a guardare il sole e a fumare una sigaretta. Io penso. Loro no.
Ho scritto queste righe seduto in macchina, sul fare della sera, nel parcheggio del Bellavita, che è un enorme complesso comprensivo di albergo, multisala, palestre, piscine tropicali e non, pizzeria, piazzato nel deserto della periferia alessandrina, con vista direttamente su una discarica e su un’ormai fatiscente area industriale. Quando ho terminato sono rimasto a guardare la fauna che entrava e usciva dal complesso: per l’hotel turisti dell’estremo oriente e congressisti, per la palestra giovani e meno giovani omologati dalle borse, dalle tute e dallo sguardo leggermente assente. Per il cinema era ancora presto.
Mi sono chiesto per un attimo se fosse il caso di rivedere qualche punto del mio credo, almeno per la parte riguardante gli uomini. Ma è stata la malignità di un attimo: subito dopo mi sono detto che si trattava di un soprassalto di stupida superbia. Perché quella gente, turisti e congressisti e faticatori della cyclette, pensosa o no, cerca confusamente di dare delle risposte alle stesse domande che altrettanto confusamente mi pongo io. Magari sono risposte condizionate, dalla televisione, dalle mode; ma anche le mie lo sono, dai libri che ho letto, dalle frequentazioni che ho intrattenuto.
A differenza delle mucche, queste persone si sono già soffermate a guardar tramontare il sole. Non lo faranno tutti i giorni, ma qualche volta capita anche a loro. In quei momenti affermano la loro dignità, la loro autonomia, il loro diritto di scegliere, e quindi di credere. In cosa, non importa. Ciò che importa è che in quei momenti sappiano di non essere sole.