Tre vagabondi

Gorkij, Hamsun e London a zonzo nell’abisso

di Paolo Repetto, 30 dicembre 2014

Tre vagabondi copertina

A zonzo nell’abisso

Maksim Gorkij

Il vagabondo nella letteratura russa

Gorkij, o dell’utopia

Jack London

Il vagabondo nella letteratura anglosassone

London, o della fisicità

Knut Hamsun

Il vagabondo nella letteratura del nord-Europa

Hamsun, o della natura

Bibliografia

A zonzo nell’abisso

All’origine di questo lavoro ci sono le circostanze già raccontate nell’introduzione a “Intellettuali e potere in Russia”, alla quale rimando. Qui basterà accennare che il tutto ha preso avvio dalla casuale ricomparsa nella mia cerchia di interessi dei “Pensieri Intempestivi” di Maksim Gorkij. Il ritrovamento mi ha spinto a rispolverare altre opere del romanziere russo, ma soprattutto ad approfondire la conoscenza delle sue vicende personali. Di lì è partito un susseguirsi di scoperte e rimandi: ho intanto conosciuto un altro Gorkij, ben diverso da quello imbalsamato nel ruolo di “intellettuale organico” allo stalinismo che ricordavo: poi ho intravisto nella sua biografia più di un tratto comune con quella di Jack London. Quest’ultimo, a sua volta, lo avevo nel mirino già da un pezzo, e questo spiega perché l’accostamento mi sia venuto così naturale: che non fosse comunque peregrino lo dice l’avere i due fatto a lungo coppia fissa sugli scaffali delle biblioteche di sezione dei partiti socialisti o delle camere del lavoro di tutta Europa. Confesso anche che non m’è parso vero approfittarne per saldare con London un vecchio debito, contratto più di mezzo secolo fa. Il risarcimento è riuscito solo a metà, e dovrò prima o poi pensare al conguaglio: per intanto ho cominciato a pagare gli interessi.

Il terzo protagonista di queste pagine, Knut Hamsun, è arrivato invece di sponda: mai più avrei pensato di rileggerlo, a quarant’anni dal primo e tiepido incontro. L’aver focalizzato l’attenzione sul vagabondaggio me lo ha invece quasi imposto, dal momento che lo avevo conosciuto proprio con “Vagabondi”. E anche questa si è rivelata una felice riscoperta, a dimostrazione che oltre una certa età si dovrebbe procedere, piuttosto che a nuove letture, a sorprendenti riletture.

A seguire è poi venuta la voglia di indagare se e come l’esperienza di vita che accomuna i nostri tre eroi sia stata condivisa e interpretata da altri esponenti delle letterature e delle culture cui appartenevano. E perché abbia determinato scelte e modi dell’impegno politico e civile così diseguali.

L’intento di partenza era quello di scrivere delle brevi biografie autoconclusive, e almeno formalmente ho proceduto così. Le tre storie hanno finito però con l’intrecciarsi ad un punto tale che credo la trilogia debba essere presa come un blocco unico. Ho praticamente sorvolato sul ruolo politico e culturale di Gorkij durante e dopo la rivoluzione d’Ottobre, perché è stata sviluppata proprio in “Intellettuali e potere”. Ho anche tralasciato gran parte della produzione di London, perché non era connessa ai temi che intendevo trattare: ma, ripeto, ho intenzione di tornarci su, magari infilandoci anche il mio amatissimo Curwood. Allo stesso modo, l’ultimo periodo dell’esistenza di Hamsun, che pure sarebbe stato interessante indagare e confrontare con altre vicende di scelte disperate, non ha trovato spazio in queste pagine perché mi avrebbe portato in un campo che non va attraversato con eccessiva superficialità.

Anche se non parrà, nelle considerazioni poste in calce alle storie dei nostri eroi ho cercato di contenermi, dopo essermi reso conto di aver superato ogni soglia tollerabile di richiesta di attenzione. Ho dato un taglio, ma una tra le tante riflessioni occorse mi è rimasta lì, forse perché riguarda me quanto loro. Approfitto allora di questo spazio introduttivo per liberarmene.

Nessuno dei tre autori di cui vado a trattare ha avuto un buon rapporto con la vecchiaia. Uno nemmeno c’è arrivato, gli altri l’hanno vissuta in maniera amara. Sarà una coincidenza, ma alla luce di tutte le altre analogie che ho creduto di rintracciare nelle loro vite, nelle loro opere e nel loro modo di pensare, forse è qualcosa di più. L’impressione che ricavato da questi percorsi paralleli è che si tratti delle conseguenze di una vita vissuta in maniera terribilmente intensa sin dalle prime pagine. Questo ha segnato le esistenze in modo talmente profondo da non permettere forse successivi adeguamenti. Intendiamoci, non c’è nulla di male in questa intensità: molto meglio di un piatto grigiore prolungato. Il mio è solo un tentativo di dare una spiegazione di qualcosa che parrebbe rovinare un po’ il quadro, di una impressione che permane anche quando si è appurata la consequenzialità e la non contraddittorietà di certi comportamenti.

La butto lì, senza azzardare analisi più approfondite, per invitare un ipotetico lettore a rifletterci sopra. In fondo, credo che la scrittura che si limita a porre dei problemi sia molto più positiva di quella che pretende di spiegarli o risolverli.

Resterebbe da chiarire in che senso la cosa mi coinvolge, al di là del dato oggettivo dell’età. Ma questo, se permettete, è un problema mio.

Maksim Gorkij

Maksim Gorkij non considerò mai le sventure della sua infanzia come un “utile apprendistato alla vita”, nemmeno col senno di poi, in quella rielaborazione in chiave epica che caratterizza spesso le narrazioni autobiografiche, e che non manca neppure nella sua. In qualche modo invece lo furono, e proverò a spiegare in queste pagine quanto influirono sulle sue idealità politiche. Maksim riuscì a sopravvivere, e ne venne fuori forgiato nel bronzo: ma non avrebbe augurato a nessuno questo percorso iniziatico. «Oggi, rievocando il passato, faccio fatica a credere che sia stato proprio così come è stato, e molte cose desidererei discutere e confutare, troppo piena di crudeltà mi pare la cupa vita della “razza irragionevole”. Ma la verità è superiore alla compassione, e io non racconto queste cose per me, ma per quell’angusto e soffocante ambiente di spaventose impressioni in cui ho vissuto» scrive nelle prime pagine dell’Autobiografia.

Era nato in una famiglia di artigiani non particolarmente poveri ma nemmeno agiati, attaccati ad ogni singolo copeco più che ai consanguinei. A cinque anni aveva perso il padre, e la madre lo aveva affidato ai propri genitori per potersi risposare; ma era morta a sua volta poco dopo. L’ingresso nella famiglia materna fu salutato con la fustigazione di un cuginetto: entro la prima settimana toccò anche a lui. Venne battuto dal nonno fino a svenire e rimase a letto febbricitante per una settimana. Era la prima di una lunga serie di lezioni che avrebbero potuto spezzare il suo carattere e abbrutirlo, e ne fecero invece un consapevole ribelle.

Il racconto della sua infanzia ha nulla da invidiare alle narrazioni dickensiane: un impasto di odi familiari, di violenza, di avidità e avarizia, di bambini picchiati a sangue per ogni minima mancanza e donne pestate per scaricare l’ubriachezza e la frustrazione. L’unica figura positiva in quel tetro panorama risultava quella della nonna Akulina, dalla quale ereditò il gusto del fantasticare e l’amore per le leggende popolari; ma nemmeno lei, e nemmeno il fatto di aver iniziato a lavorare già ad otto anni in un calzaturificio artigianale, gli evitarono di essere ad un certo punto buttato fuori casa dal nonno, un uomo violento, a suo modo tormentato e intelligente, ma indurito dalle difficoltà, e per di più un “dogmatico” imbevuto di un’ortodossia tutta formale, che gli disse senza tanti complimenti: “Caro Leksjei, non sei una medaglia che deve starmi attaccata al collo; qui non c’è posto per te, vattene tra la gente”. Gorkij, come lo stesso amato Dickens (“Dickens è rimasto per me l’autore davanti al quale mi inchino reverente. Egli era un uomo che comprese mirabilmente la difficilissima arte di amare gli uomini”), dovette quindi imparare molto presto ad arrangiarsi.

Cacciato di casa a dieci anni cominciò a vagabondare, facendo per strada i mestieri più disparati: il calzolaio, l’apprendista pittore di icone, il giardiniere, lo sguattero. Mentre lavorava come aiutante di cucina a bordo di un battello sul Volga ebbe però la fortuna di imbattersi nel cuoco filosofo Smuri, che invece di umiliarlo e tiranneggiarlo lo prese a benvolere e gli trasmise la passione per la lettura. In un terreno come l’animo di Maksim quel seme era destinato ad attecchire e a dare frutti eccezionali. A casa dei nonni Gorkij aveva imparato a compitare sul libro dei Salmi e su un salterio: da questo momento, partendo dalle Vite dei santi, divorò letteralmente le opere dei maggiori romantici e realisti russi e francesi, da Puskin a Balzac, da Gogol a Dumas, da Turgenev a Flaubert. E anche il Manifesto di Marx ed Engels. Scrive: “Prima di conoscere quel cuoco avevo odiato i libri e tutta la carta stampata, compreso il passaporto. Dopo i quindici anni cominciai a sentire un ardente desiderio di studiare, e a questo scopo andai a Kazan, pensando che là l’istruzione fosse impartita gratuitamente. E invece nulla”.

Per oltre dieci anni percorse in lungo e in largo l’immenso territorio tra il Don, il Volga e gli Urali, continuando a sostenersi con occupazioni saltuarie come fornaio, corista in una compagnia operistica ambulante, scaricatore di porto, giovane di studio presso un avvocato, casellante e custode di notte. L’irrequietudine fisica era lo specchio di quella spirituale: la coscienza di sé acquisita come autodidatta non gli consentiva di accettare il destino scritto nelle sue origini. Conobbe momenti di sconforto, nei quali non vedeva alcuno sbocco, e arrivò anche a tentare il suicidio: ma non si rassegnò. Continuava a leggere, provava a scrivere, filtrava le esperienze attraverso la lente della cultura. Poi, improvvisamente, la svolta. Nel 1892 un giornale di Tiflis pubblicò un suo racconto, Makar Čudra. Il racconto piacque, e quel piccolo successo gli cambiò l’esistenza.

Queste cose, e le molte altre che si possono apprendere dalla splendida trilogia (Infanzia, Tra la gente e Le mie università) dedicata da Gorkij al suo percorso di formazione, ci dicono per quale motivo lo scrittore simbolo dell’ortodossia culturale sovietica e del “realismo socialista” in realtà non sia mai stato del tutto “organico” ad alcun potere. La spiegazione è proprio nel difficile rapporto instaurato da subito con la vita. Chi cresce alla maniera di Gorkij finisce per indurirsi dentro, corazzarsi contro le emozioni: se non fa così non sopravvive. È portato a pensare: ce l’ho fatta io, significa che si può fare, e ad essere molto severo con gli altri, oltre che con se stesso, a non concedere attenuanti alle debolezze o spazio all’autocommiserazione. Tale atteggiamento implica una risposta individualistica al pessimismo sociale: non sono le riforme, le condizioni esterne, le appartenenze di classe, in poche parole tutto ciò che attiene alla sfera della politica, quindi del negoziabile, a fare l’uomo; è la sfera dell’etica a determinare la coscienza, ed è quest’ultima a muovere la volontà, quella di conoscere e quella di fare.

In qualche caso però, quando le varie vicissitudini sono assimilate attraverso un filtro culturale robusto, che le libera dalle scorie della contingenza personale per diluirle in una comune esperienza umana del dolore, il rigore etico può convivere con la compassione, con una partecipazione consapevole alle sofferenze dei propri simili. E questo atteggiamento ha in genere poco a che vedere con qualsivoglia disciplina di partito.

Gorkij comunque non sceglie la strada: letteralmente, ce lo sbattono. Questo va sempre tenuto presente, se si vogliono capire certe sue apparenti contraddizioni. Quando a posteriori rievocherà i tempi del vagabondaggio potrà magari gettarli sul piatto, per dimostrare di conoscere bene la realtà di cui sta parlando. Ma al momento in cui in quella realtà era immerso non se ne compiaceva affatto, e quando la racconta non ne ha alcuna nostalgia. “Perché racconto tali abominazioni Ma perché le conosciate, egregi signori:; perché vedete, tutto questo non è passato, non è affatto passato! A voi piacciono le scene paurose inventate, gli orrori raccontati con arte; le cose fantasticamente terribili vi eccitano piacevolmente. Ma io conosco ciò che è realmente terribile, l’orrore quotidiano, ed ho l’innegabile diritto di commuovervi in modo spiacevole con il racconto di tutto ciò, affinché ricordiate come vivete e di cosa vivete! Io amo molto gli uomini, e non voglio far soffrire nessuno, ma non si può essere sentimentali …”.

Gli anni di vagabondaggio sono pertanto vissuti nella costante speranza di raggiungere una condizione diversa, di liberarsi dallo spettro di quel lavoro fisico che nella situazione russa non poteva essere che degradante e umiliante. Non è la curiosità a spingerlo, ma la necessità, la voglia di riscatto: vuole dimostrare qualcosa a sé e agli altri, e capisce di poterlo fare solo attraverso l’istruzione e la conoscenza. La prima, quella che passa per i libri, se la conquista con una volontà di ferro; la seconda la trae affrontando le prove che la vita gli impone, anziché col rancore della vittima, con lo spirito di un involontario ma partecipe testimone. La sua università sono quindi i bassifondi di Kazan, quelli descritti nell’opera teatrale che consacrerà in patria e all’estero la sua fama (Bassifondi, appunto, da noi conosciuto come L’albergo dei poveri), i moli sui quali fatica come scaricatore, le bettole dove assiste a risse e a colossali ubriacature, e annota mentalmente storie e personaggi. L’essersene tirato fuori equivale ad una laurea a pieni voti.

Quanto infine alle origini, Gorkij non ha un legame diretto con la terra. La sua, per quanto povera, è pur sempre una famiglia di artigiani, che tutto si considerano tranne che paria contadini. Anche se nell’autobiografia gioca al ribasso, per crearsi delle credenziali proletarie (del padre dice che era un tappezziere, quando invece era stato anche amministratore di una piccola società di navigazione), le sue radici rimangono “piccolo borghesi”, o perlomeno affondano in quel terreno sul quale, a suo parere, all’epoca della rivoluzione si sarebbe dovuta coltivare la base della tanto invocata intelligencija tecnica. La presunzione di superiorità nei confronti del mondo contadino, passivo, inerte, analfabeta, reazionario per indole, lo accompagna per tutta la vita. Arriva a scrivere: “Per tutta la vita sono stato perseguitato dall’analfabetismo delle campagne …”. In effetti la chiusura della sua autobiografia (che avrebbe dovuto essere provvisoria) coincide proprio con un episodio tragicamente significativo. Dopo il tentativo di suicidio Maksim viene invitato a vivere a Krasnovidivo, un villaggio sulle rive del Volga, dove l’ucraino Michail Romas, conosciuto nell’ambiente della cospirazione studentesca a Kazan, e il pescatore Izot stanno cercando di organizzare i contadini e i proprietari di orti per strapparli dalle mani degli speculatori. Anziché aiutarli, i piccoli contadini locali, aizzati da quelli più ricchi e dai mercanti che li sfruttano, arrivano ad uccidere Izot e a bruciare l’isba dove Romas tiene le merci. Ucciderebbero lo stesso ucraino e Maksim, se questi non si dimostrassero disposti a vendere cara la pelle.

Malgrado questa esperienza, il battesimo rivoluzionario Gorkij lo riceve attorno ai vent’anni proprio dai narodniki (populisti). Entra nelle fila dei derevenščiki, gli agitatori legati a Zemlja i volia (Terra e libertà) che operano nelle campagne anche dopo il fallimento della andata al popolo, e svolge attività di propaganda tra i contadini. Ne trae solo la conferma di quanto già pensava: da quel mondo non ci si può attendere alcuna trasformazione. “Il contadino è zarista – gli aveva spiegato Romas – Aspetta il giorno in cui lo zar gli spiegherà il significato della libertà. E allora arrafferà chi potrà. Tutti aspettano quel giorno e ognuno lo teme, ognuno vive in apprensione dentro di sé: teme di lasciarsi sfuggire il giorno decisivo della distribuzione universale: e teme se stesso. Vuole molto e molto c’è da prendere, ma come prenderlo? Tutti aguzzano i denti verso la stessa cosa”.

In compenso viene quasi subito arrestato e schedato come sovversivo. Constata quindi, e sconta sulla propria pelle, quanto velleitaria sia l’idealità populista e quanto confusa sia la sua riorganizzazione in un partito, quello social-rivoluzionario, pesantemente infiltrato dagli agenti provocatori dello zarismo e pericolosamente incline allo spontaneismo. Si sposta quindi ben presto sul versante socialdemocratico, e quando all’interno di questo si delineano due diverse strategie rispetto alle potenziali alleanze, con la borghesia per un programma di graduali rivendicazioni democratiche o con le campagne per una lotta armata, anche a carattere terroristico, abbraccia senza alcuna esitazione la prima.

Ciò non significa che si risparmi. La sua fama, soprattutto dopo la pubblicazione di Bassifondi e di un’altra opera teatrale, Piccoli borghesi, si è rapidamente espansa. I suoi lavori vengono tradotti e portati in giro per l’Europa, ciò che gli assicura subito una dimensione internazionale, mentre in patria è un sorvegliato speciale. In dieci anni, gli ultimi dell’Ottocento, passa dall’indigenza all’agiatezza, dalla disperazione al successo. Sente di dovere qualcosa anche al destino, oltre che a se stesso, e paga il suo debito con un impegno crescente, che se richiama l’attenzione di Lenin tiene in allerta anche quella della polizia, tanto che nel 1901 finisce nuovamente in carcere. Viene rilasciato a furor di popolo, ma confinato in pratica in Crimea.

La detenzione e l’esilio sono quasi un percorso obbligato per l’intellettuale russo: Nekrasov, Dostoevkij, Korolenko, passano tutti per il carcere e la Siberia. Gorkij il carcere lo conosce un’ennesima volta, sia pure per poche settimane, durante la rivoluzione del 1905. Nello stesso periodo incontra anche Lenin. Tra i due nasce un rapporto stranamente altalenante: si stimano sul piano umano, ma non saranno mai d’accordo quasi su nulla.

Quando esce dal carcere Makxim si rende conto che per lui in Russia non è più aria: è un sorvegliato speciale, ha la polizia politica sempre alle calcagna. Elude quindi la sorveglianza e va ad infoltire l’ampia schiera di esuli socialisti, Lenin compreso, dispersi per tutta l’Europa. Può farlo senza patemi, è famoso ed è coperto economicamente anche all’estero. Compie dapprima un giro in Francia e in Inghilterra, poi si imbarca per l’America. È stato incaricato ufficialmente dai socialdemocratici di raccogliere fondi per aiutare i rivoluzionari in carcere o costretti all’esilio: ma è anche molto curioso di quel mondo che agli occhi degli europei personifica l’immagine stessa della libertà e dell’uguaglianza. Là lo aspettano tra l’altro gli intellettuali progressisti vicini al socialismo, come Mark Twain, o i militanti socialisti come Jack London. Il primo impatto è folgorante: “Qui si deve venire – scrive ad un amico – è una sorprendente fantasia di pietra, vetro e ferro … costruita da pazzi giganti, mostri che aspirano alla bellezza, anime tempestose piene di selvaggia energia”.

Dura poco. Ben presto il viaggio si rivela un fallimento: la stampa conservatrice lo attacca per essersi presentato non con la moglie (si era sposato giovanissimo con un’attrice appartenente ad una compagnia di girovaghi) ma con la nuova compagna, ancora un’attrice teatrale, Maria Gelabuskaija, cosa che contravviene alle leggi sull’immigrazione; gli intellettuali si stancano presto e nel giro di un paio di settimane lo abbandonano a se stesso; lo scrittore, dopo gli entusiasmi iniziali per il livello tecnico raggiunto dagli occidentali, comincia ad esprimere pareri sempre più impietosi sulla società americana. Prima che siano trascorsi sei mesi lo invitano a togliere il disturbo senza fare troppe storie, in quanto persona non gradita.

La vicenda irrita parecchio Gorkij, che si vendica appena tornato nel vecchio continente pubblicando un libretto velenoso (Le città del diavolo giallo) e che conserverà sempre un ricordo estremamente negativo dell’America. Per il suo esilio sceglie l’Italia, e più precisamente Capri, allo scopo di curare una affezione polmonare causata a suo tempo dal tentativo di suicidio. Nell’isola lo scrittore affitta una villa e ne fa la base per un esperimento di scuola di partito, non senza suscitare apprensione nelle autorità e ostilità nella popolazione (si teme che la presenza dei rivoluzionari tenga lontani i turisti più facoltosi). A Capri sono in effetti suoi ospiti quasi stabili Lunačarskij e Bogdanov, e vengono fatti arrivare semiclandestinamente gruppi di operai e tecnici socialdemocratici che dovrebbero costituire i quadri della sospirata intelligencija tecnica”. La cosa non funziona, anche perché Lenin, che è in guerra con Bogdanov per la leadership nel partito bolscevico, mette i bastoni tra le ruote (ma non avrebbe funzionato comunque, per un sacco di altri motivi).

Nel 1913, in seguito ad una amnistia concessa da Nicola II, Gorkij rientra in patria. Nel frattempo ha pubblicato La madre, destinato ad essere il suo romanzo più conosciuto e a diventare una sorta di lettura propedeutica obbligata per i proletari di tutta Europa. Di lì a poco è chiamato a schierarsi contro la guerra, e deve constatare come la solidarietà tra i vari socialismi nazionali valga zero, dal momento che messi con le spalle al muro tutti o quasi si sono arresi al nazionalismo (a favore della guerra si pronunciano persino anarchici come Kropotkin).

La rivoluzione del febbraio 1917 sembra finalmente muovere un primo passo nella direzione giusta. Gorkij però non è affatto tranquillo. Teme che gli eccessi favoriscano la controrivoluzione, e dalle pagine della Novaja Zižn’ dà vita ad una campagna per coalizzare le forze “di buon senso” e isolare gli estremisti (i bolscevichi). Questi lo ripagano con la stessa moneta. In una delle Lettere da lontano, datata 25 marzo 1917 e intestata “Come ottenere la pace”, Lenin scrive: «Si prova un senso d’amarezza a leggere questo scritto (la dichiarazione di Gorkij sulla necessità di una pace senza condizioni con i tedeschi), tutto imbevuto di pregiudizi filistei molto diffusi. L’autore di queste righe, durante i suoi incontri con Gorki nell’isola di Capri, ha avuto modo di metterlo sull’avviso e di rimproverargli i suoi errori politici. A questi rimproveri Gorki ha opposto il suo affascinante sorriso e una dichiarazione molto sincera: “So di essere un cattivo marxista. Del resto, noi artisti siamo tutti un po’ irresponsabili”. Non è facile obiettare qualcosa.

Gorki ha senza dubbio un talento artistico prodigioso, con cui si è già reso e si renderà ancora molto utile al movimento proletario internazionale. Ma per quale motivo deve intromettersi nella politica?».

A ottobre il colpo di mano di Lenin lo sorprende, anche se da Lenin si aspetta di tutto: o meglio, lo sorprende il fatto che abbia successo. E lo spaventa. Come le cose vadano a finire è raccontato proprio in Pensieri intempestivi, attraverso il dibattito che lo contrappone ai bolscevichi.

La piega presa dagli eventi lo costringe, sia pure a denti stretti, a collaborare col nuovo potere, in una posizione però politicamente defilata. Fonda la “Casa delle Arti”, che dovrebbe curare la formazione delle “avanguardie culturali”, e una casa editrice per offrire lavoro e protezione agli intellettuali che non hanno provveduto in tempo a salire sul carro dei bolscevichi. Negli anni del governo dei Commissari del popolo si prodiga per salvare la pelle a qualche amico, ma ne vede molti altri finire in carcere o assassinati.

Alla fine accetta il consiglio (in realtà, un ordine) di Lenin di tornare a curarsi in Italia. Ha davvero grossi problemi di salute, ma a preoccuparlo sono soprattutto quelli che potrebbero aggiungersi insistendo a fare la fronda nel cuore della guerra che si gioca in Russia tra le forze rivoluzionarie stesse, e che sta dando luogo ad un nuovo Terrore. Riesce a rientrare in Italia solo nel 1924, dopo un soggiorno in Germania, perché paradossalmente come “amico” di Lenin non è gradito; e qui rimarrà, questa volta a Sorrento, fino al 1928, tornandoci poi a più riprese per prendere boccate d’aria sino a 1932. Nel frattempo in Russia il potere è passato nelle mani di Stalin.

Per richiamarlo in patria vengono date a Gorkij ampie assicurazioni, sia politiche che finanziarie; gli si garantisce anche un ruolo centrale di organizzatore della cultura, malgrado molti degli uomini della cerchia di Stalin non lo abbiano in particolare simpatia. Il suo ritorno è celebrato da tutta la stampa, la cittadina in cui è nato viene ribattezzata col suo pseudonimo. A motivarlo sono anche considerazioni economiche, perché rischia di perdere i diritti per la sua opera in URSS, e le pressioni della sua ultima compagna, Marija Budberg, che è al soldo dei servizi segreti sovietici. Sulla decisione dello scrittore pesano però soprattutto la nostalgia e la sensazione che lontano dal suo popolo e dalla sua terra la vena si stia esaurendo. Inizia così un ambiguo rapporto anche con Stalin, giocato sull’equilibrio dei reciproci interessi.

Al contrario di quanto accadeva con Lenin, tra i due non c’è una intesa umana. È vero che ancora nel ‘31, dall’Italia, Gorkij scrive al georgiano: “La scorsa estate a Mosca, le ho esternato i miei sentimenti di simpatia e stima amichevole e profonda. Mi sia consentito ripeterlo. Non si tratta di complimenti, ma del naturale bisogno di dire a un compagno: io ho di te una stima sincera, tu sei un’ottima persona, un autentico bolscevico. Il bisogno di dire queste parole solo di rado può essere soddisfatto, lei lo sa benissimo”. Ma non tarda a ricredersi. Due anni dopo confida all’amico Bukarin:“Se ingrandissi alcune migliaia di volte una comune pulce vedresti l’animale più spaventoso della terra, che nessuno sarebbe abbastanza forte da dominare. Ma le smorfie più mostruose della storia producono simili ingrandimenti anche nel mondo reale. Stalin è una pulce che la propaganda bolscevica e l’ipnosi della paura hanno ingrandito fino a dimensioni impensabili”.

Eppure, su molti aspetti del decorso della rivoluzione, ad esempio sulla questione contadina, sulla necessità di spingere l’industrializzazione, sulla alfabetizzazione a tappeto, la pensano allo stesso modo. Nel ’29 Gorkij scrive: “I nostri lavoratori comprendono perfettamente lo scopo dei propri governanti. Ciò è testimoniato dal fatto che il popolo partecipa appassionatamente allo sviluppo della nazione. Chi coopera alla modernizzazione del paese, coopera al rafforzamento della libertà”. Questo spiega perché nell’estate del 1933, dopo aver guidato un gruppo di scrittori a visitare i lavori del canale tra il Mar Bianco e il Mar Baltico, si presti poi a ricavarne una pubblicazione propagandistica collettiva (Il canale Stalin) che descrive l’impresa in toni epici, sottolineando come l’opera sia stata compiuta in tempi da record (“diavoli di uomini, non vi rendete neppure conto di quello che avete fatto!”) e tacendone il costo umano, la morte di decine di migliaia di deportati. Questi vengono anzi presentati come dei “deviazionisti” che hanno avuto nel lavoro forzato l’occasione di un riscatto (il che suona anche come un efficace monito per i visitatori). A proposito delle baracche dei detenuti, afferma addirittura che “non sembrano affatto prigioni […], in alcune stanze ho visto pure dei fiori”. Del resto, già nel 1929, dopo una visita al gulag di Solovetcky, aveva commentato che si trattava di “un nuovo tipo di istituzione, un grande esperimento, in cui a dei criminali è data la possibilità di trasformarsi in cittadini sovietici”.

Ciò che davvero lo entusiasma è però, almeno inizialmente, la politica culturale. Aveva già apprezzato e sostenuto la lotta all’analfabetismo ingaggiata dal Commissario all’Istruzione, il suo amico Lunačarskij, che in undici anni, dalla rivoluzione al ’29, aveva ridotto la percentuale degli analfabeti dall’ottanta al trenta per cento. Gli era preso invece un mezzo infarto quando nel 1923 la moglie di Lenin, la Krupskaja, aveva redatto una lista di proscrizione delle opere da eliminare dalle biblioteche, comprendente Platone, Kant e lo stesso Tolstoj (in tale occasione aveva meditato di farsi revocare la cittadinanza russa). Tanto più apprezza quindi le iniziative volute da Stalin: la creazione e la diffusione in milioni di copie di una biblioteca universale popolare da destinare ai lavoratori gli sembra la realizzazione più alta dei suoi desideri e degli scopi spirituali della rivoluzione. Questo lo porta ad assumere spontaneamente una posizione in perfetta linea con quella del potere anche per quanto concerne il ruolo degli intellettuali, e dei letterati in particolare: anzi, a dettare la linea lui stesso. Al congresso degli scrittori sovietici del ’34 dirà: “Il realismo socialista […] richiede all’artista una rappresentazione veridica e storicamente concreta del reale, nel suo sviluppo rivoluzionario. Con ciò, la veridicità e la concretezza storica della rappresentazione artistica del reale devono unirsi all’obiettivo del mutamento ideologico e dell’educazione dei lavoratori nello spirito del socialismo”, che tradotto in spiccioli significa: signori, lasciate perdere le vostre fantasie e mettetevi sotto a raccontare i nostri successi. “La letteratura sovietica[…]  dev’essere organizzata come un insieme collettivo, come un’arma potente della cultura socialista […]. Il realismo socialista stabilisce l’esistenza di un’attività creativa il cui scopo è di promuovere ininterrottamente lo sviluppo delle preziose capacità individuali dell’uomo perché vinca le forze della natura, si conservi a lungo e in salute, per la grande felicità dell’uomo che vive sulla terra che egli, nel continuo aumento delle sue necessità, vuole trasformare in una splendida dimora per l’umanità riunita in una grande famiglia”. È quindi naturale che a Platonov, che gli ha inviato in visione un suo manoscritto, risponda: “Ho letto il suo racconto: mi ha impressionato. Lei scrive con forza ed espressività, ma proprio per questo – in questo caso – ancora di più si sottolinea e si rivela l’irreale contenuto del racconto, al limite di una terribile fantasticheria febbrile”. Ovvero: ragazzo, cambia registro.

È anche naturale che a Stalin Gorkij come narratore piaccia: ma soprattutto gli serve. È l’autore russo del momento più conosciuto all’estero, rappresenta agli occhi del mondo una garanzia dell’impegno sovietico a promuovere la cultura nel paese, e di conseguenza la democrazia. Gorkij per parte sua si illude di poter essere utile alla causa di una umanizzazione del regime, di una maggiore attenzione nei confronti degli intellettuali. Quando però Stalin avverte che il prestigio dello scrittore, compromesso proprio dalla sua collaborazione col potere, è ormai appannato, e che da un Gorkij sempre più insofferente non possono venire altro che grane, non esita un istante a farlo liquidare. Non può permettersi di lasciare in vita un amico di Bucharin e Kamenev, che si accinge a eliminare. In più, se da vivo Gorkij sta diventando un problema, da morto può essere beatificato e diventare un’icona del regime. Maksim Gorkij muore quindi nel 1936, ufficialmente per complicazioni polmonari, in realtà avvelenato dai suoi stessi medici curanti. Tre mesi prima era stato assassinato suo figlio, Max Peskov.

Gli ultimi anni sono proprio quelli cui mi riferivo quando all’inizio parlavo del personaggio pubblico. Lo scrittore li vive in una sorta di prigione dorata. Non è libero di muoversi, di spostarsi: non ha più alcun contatto con la sua gente, con quel popolo che aveva abitato i suoi libri migliori: è circondato da una corte di parassiti, di intellettuali adulanti e arrivisti che cercano il suo patrocinio per avere incarichi e prebende, conservando nel contempo una patina di eterodossia. È spiato persino in casa: la sua corrispondenza verrà consegnata dalla Budberg alla polizia segreta, mettendo nei guai un sacco di persone che confidavano in lui. Presiede congressi nei quali si ripete stancamente il rituale dell’incensazione del regime e della professione di lealtà della classe intellettuale: vede anche il suo nome speso, senza neppure consultarlo, per avvallare attacchi feroci che preludono alla liquidazione di intellettuali scomodi o di avversari politici.

Questo non ne fa una vittima. È vero che dalle più recenti ricerche negli archivi sovietici sono uscite lettere indirizzate a Stalin molto critiche sulla politica culturale del regime; che in esse definisce i commissari politici voluti da Stalin stesso alla guida dell’Unione degli scrittori “degli ignoranti privi di principi, ipocriti e desiderosi di circondarsi di uomini ancora più insignificanti”; che difende autori come Babel, prima perseguitati e poi eliminati: ma non basta ad assolverlo dai troppi silenzi di comodo e da una pur relativa complicità. In Arcipelago Gulag Aleksandr Solženicyn racconta la sciagurata visita dello scrittore al campo di lavoro di cui egli stesso era malauguratamente ospite, condita di apprezzamenti per l’opera di rieducazione svolta dallo stalinismo (addirittura lo accusa di aver provocato in quell’occasione la morte di un detenuto). E d’altro canto ancora nel gennaio del 1936, pochi mesi prima della morte, Gorkij scrive: “Tra una cinquantina d’anni, quando le cose si saranno calmate un po’ e la prima metà del XX secolo apparirà come una stupenda tragedia e un’epopea del proletariato; allora forse l’arte, e anche la storia, chiariranno lo straordinario lavoro culturale di tanti semplici cekisti nei campi”. Il dramma è che lo pensa davvero, e il perché nutra questa convinzione cercherò appunto di spiegarlo più avanti.

Persino la sua morte viene usata dal regime come un’occasione autocelebrativa. Ai funerali partecipa una folla immensa, che segue il feretro non dell’uomo Maksim, ma del “massimo scrittore proletario”.

Ripeto, tutto questo non ne fa una vittima: ma nemmeno può far dimenticare ciò che Gorkij aveva fatto e significato per la cultura e per il popolo russi nei sui primi cinquant’anni, il coraggio delle sue denunce, la sincerità delle sue testimonianze, la sua partecipe difesa di tutti gli oppressi. È una fine ben triste, per uno che nei primi racconti aveva infuso, secondo Prampolini «con i suoi nuovi e insoliti eroi, i ‘bosjakì’ (letteralmente: piedi scalzi), nella grigia atmosfera feudo di Čecov un inebriante soffio di vita libera, sana, forte».

E proprio di questo andiamo a parlare.

Il vagabondo nella letteratura russa

In realtà non è affatto Gorkij a introdurre nella letteratura russa la figura del vagabondo. Già a partire dal Seicento nei testi devozionali o nelle raccolte di vite esemplari compaiono monaci erranti, pellegrini, Vecchi Credenti costretti a una diaspora costante. Un universo di emarginati, stanziali e non, vien fuori anche dalle pagine del Viaggio da Pietroburgo a Mosca di Radiščev. Come in ogni altra epoca il tema del viaggio e degli incontri propiziati dal viaggio è una fonte inesauribile di ispirazione: e tanto più lo è, nel clima romantico, quella disposizione al viaggio che non contempla il perseguimento di una meta, per la quale importante è il percorso (peraltro non definito) anziché la destinazione, e che è propria appunto dei vagabondi.

La consacrazione letteraria di queste figure arriva nella prima metà dell’800, con Puskin. Il protagonista del poema Gli zingari, Aleko, va in cerca presso i nomadi di quel diverso senso della vita che non gli riesce di trovare in mezzo alla sua gente. Aleko è un po’ il simbolo degli intellettuali russi alla ricerca degli ideali universali o del riposo nel grembo della natura: quegli ideali, come dirà Dostoevskij, “che oggi non trovano più negli accampamenti degli zingari, ma nel socialismo, e lavorano in esso zelantemente con la fede che animava anche Aleko, di raggiungere i propri fini e la felicità non solo per sé ma per tutto il mondo”. Aleko non è uno zingaro, è un gağò: un “normale” che rinnega le sue origini, odia la cultura da cui proviene, è indignato nei confronti di un potere ipocrita e spietato, e per questo motivo si pone contro la legge. Ciò facendo diventa il prototipo di un nuovo protagonista della società di quel periodo; Aleko rappresenta cioè l’eterno viandante, l’eterno infelice russo destinato per necessità storica a staccarsi dal popolo. In realtà ne personifica, come sottolinea ancora Dostoevskij, anche il fallimento: finisce infatti per uccidere quella zingara libera e selvaggia di cui si è innamorato e che ha idealizzato, ma che proprio perché libera non ha alcuna intenzione di corrispondere alle sue aspettative. La vicenda sarà poi ripresa a fine secolo da Rachmaninov, in un’opera lirica che prende il titolo dal protagonista, ma nella quale si bada soprattutto alle suggestioni create dell’atmosfera e delle musiche tzigane: il che è significativo di quanto la Russia e il mondo siano nel frattempo cambiati.

Nella seconda metà dell’Ottocento il realismo positivista affolla di diseredati la ribalta letteraria europea, proponendoli di volta in volta come umili, come vinti, come miserabili, come prodotti di scarto della selezione naturale e sociale. Accade anche in Russia, dove però la letteratura non traspone per il grande pubblico i risultati di un’attenzione sociologica “scientificamente” fondata, ma ne fa le veci, e dà pertanto spazio soprattutto a quelli che si ribellano alla loro condizione e si mettono in cammino alla ricerca di una via d’uscita, spinti a muoversi da motivazioni sia religiose che sociali. Nel 1861 l’emancipazione dei servi, pur scuotendo una cappa secolare di schiavitù, ha in realtà provocato un peggioramento delle condizioni dei contadini. Molti di essi non sono in grado di riscattare la terra alla quale prima erano vincolati, possono solo rimanere come fittavoli o braccianti, senza neppure le garanzie minime della servitù: tanto vale per loro lasciarla e mettersi in cerca d’altro. Si crea pertanto una sacca enorme di forza lavoro irregolare, sottopagata, che si sposta in lungo e in largo per il paese, a rimorchio dei cantieri che preparano la strada alla nascente industrializzazione (strade, dighe, porti, ferrovie). Le condizioni dello sfruttamento sono terrificanti, ma è almeno consentita, ai più ribelli e ai più intraprendenti, una mobilità che è preludio alla conoscenza del mondo e alla conseguente coscienza dell’ingiustizia del proprio stato.

Proprio nell’anno della riforma Nikolaj Nekrasov pubblica Gli ambulanti, che contiene una Canzone del vagabondo destinata a diventare famosa nella trasposizione per coro di Musorgskij. Nekrasov mette a fuoco le sofferenze di un popolo costantemente sfruttato e umiliato dalle classi dominanti. L’intellettuale si fa da parte, abbandona l’egoismo romantico introspettivo che sarà stigmatizzato anche da Gorkij e diventa testimone della drammatica realtà sociale che lo circonda. Il romantico Aleko lascia la scena a prosaici braccianti che non hanno problemi esistenziali, ma lottano per sopravvivere, e sono tormentati dalla fame piuttosto che dalla noia.

La denuncia diventa ancora più esplicita in Chi è felice in Russia?, poema del 1877 dello stesso Nekrasov. Sette contadini vagabondano per tutto il paese cercando una spiegazione alla loro infelice condizione, e la trovano nell’inerzia di una nobiltà terriera arretrata, del tutto incapace di cogliere le dimensioni della tragedia che incombe sul popolo russo. “Ma se davvero abbiamo/ mal compreso il dovere che incombeva/ su di noi, e la nostra missione/non era di serbare il nome antico,/la dignità di nobile,/con l’uso della caccia,/i banchetti fastosi e ogn’altro lusso,/e di vivere col lavoro altrui,/perché non ce l’han detto in precedenza?” piagnucolano i latifondisti, che nemmeno conoscono il numero dei loro servi. Nekrasov diventa immediatamente il poeta sociale per eccellenza, per come sa esprimere la sofferenza collettiva e perché esclude ogni possibilità di riforma dall’alto (naturalmente è snobbato, in patria e fuori, proprio per la sua “facilità”). Il paradosso è che l’efficacia di questa rappresentazione nasce in realtà dall’espressione di un particolare disagio personale. Nekrasov non mette in scena un nuovo Aleko, ma nella vita gli somiglia molto. Gorkij farà dire a Romas, l’ucraino: “Da voi in città tutti leggono e recitano Nekrasov. Ebbene, sapete, con Nekrasov non si va lontano. Ai contadini bisogna dire: amico, tu non sei malvagio per natura, ma vivi male, e non sai affatto come rendere migliore la tua vita …”.

Nello stesso periodo è in atto, in Russia come in tutto l’occidente europeo, un risveglio religioso che mira al ritorno alla purezza originaria, al superamento di una devozione sclerotizzata e tutta formale, al rifiuto di un apparato compromesso col potere o addirittura ad esso asservito. Di questo clima è espressione un altro classico della letteratura russa, Il viaggiatore incantato (1873), nel quale un domatore di cavalli, soggetto ad una sorta di incantesimo per essere stato promesso in voto dalla madre a Dio, racconta le avventure più improbabili e sconcertanti. Da questo Mille e una notte della taigà Nicolaj Leskov fa scaturire una folla di vagabondi, prostitute, saltimbanchi, gente senza radici, che però si muove, o almeno brulica, all’interno di una società che rimane invece immobile nel tempo. Ivan, il protagonista, non è il cantore di questo mondo, ma uno strumento di connessione, nelle mani di Dio e in quelle dell’autore, per legare assieme le varie storie e dare ad esse un senso, farle alla fine cogliere nella loro unitarietà: che è data dal significato profondamente religioso del tutto, una sorta di disegno provvidenziale nel quale anche il dolore, il peccato, l’irregolarità hanno un loro ruolo.

In analoga direzione vanno i Racconti di un pellegrino russo, pubblicati anonimi nel 1881 ma scritti almeno vent’anni innanzi, prima della riforma (il titolo originale è Resoconto sincero di un pellegrino al suo padre spirituale). Il pellegrino che attraversa la Russia e l’Ucraina cerca una guida, e alla fine si rende conto che la guida gliela offrono proprio le persone che incontra lungo il cammino. Siamo già sulla strada della “costruzione di Dio” (tra l’altro, questo è il libro che mette in crisi la protagonista in Franny e Zooey di Salinger).

La lezione poetica di Nekrasov viene invece raccolta in prosa da Vladimir Korolenko, nei racconti de In cattiva compagnia, dove è presentata una strepitosa galleria di reietti, sbandati, perseguitati. Nei suoi personaggi non brucia però quel fuoco di ribellione radicale verso la società, quel rancore sordo che era presente in Puskin. Sono dei semplici, dei poveracci che trascinano una vita miserabile, vessati e sfruttati dalla nascita fino alla morte, e trovano consolazione solo nella vodka. Il contadino Makàr (ne Il sogno di Makàr), giunto al termine della sua esistenza, ha un moto di rivolta solo quando anche il giudice supremo sembra intenzionato a condannarlo: “Rivide la sua vita amara. Come aveva potuto sino allora sopportare quel peso spaventoso? Lo aveva portato perché dinanzi gli balenava sempre, come stella in mezzo alla nebbia, una speranza. Finché viveva, poteva darsi che avesse ancora da sperimentare la parte migliore … ora egli era alla fine, e quella speranza era spenta. Dimenticò dove era, davanti a chi stava, dimenticò tutto fuorché la sua collera”. Lo sguardo di Korolenko è compassionevole, ma non sembra scorgere indizi di una possibilità prossima di cambiamento. In compenso fa trapelare un’attenzione e una sensibilità per la natura che suonano talvolta persino consolatorie rispetto alla miserevole condizione umana, quasi a dire: non avete altro, non potete sperare altro, godetevi almeno quella.

Una categoria di erranti un po’ speciale, quella degli esuli e dei perseguitati politici, Korolenko la incontra invece durante il soggiorno obbligato in Siberia cui è costretto per le simpatie populiste, e la racconta negli Schizzi di un turista siberiano, del 1885. Tra costoro vi è proprio quel Romas presso il quale Gorkij vivrà a Krasnovidovo: e da essi Korolenko trae l’unico segnale di speranza.

Korolenko è l’ultimo degli scrittori propriamente “populisti”, ed è anche lo scopritore di Gorkij, oltre che un amico sincero: quando a quest’ultimo sarà revocata dallo zar la nomina all’Accademia delle Scienze si dimetterà per protesta, assieme a Čecov. Boccia senza mezzi termini le sue opere in versi, ma dopo aver letto i suoi primi racconti lo aiuta e lo incita a perseverare: “Questo è il mondo di cui dobbiamo parlare”, gli scrive.

Si riferisce a quei reietti che Gorkij rende visibili con Bassifondi, ma che prima ancora popolano i suoi racconti e successivamente le narrazioni autobiografiche di Tra la gente e de Le mie università. Già negli Schizzi e racconti, la raccolta d’esordio, del 1898, Gorkij celebra un’epopea al contrario, quella di una umanità che tenta disperatamente non solo di sopravvivere, ma di accedere ad una vita degna di essere vissuta. Sono vagabondi divenuti tali in molti casi perché rifiutati dalla società, in altri per loro scelta, ma che si sono comunque mantenuti interiormente liberi. Sono inconsapevoli ribelli a quella noia cronica, a quello spleen tipicamente russo che ha radici antiche nel fatalismo e nell’apatia propri di questo popolo, e cause più recenti nella miseria e nell’ignoranza nelle quali l’autocrazia lo ha sprofondato. Gorkij ne rende una efficace percezione fisica: “Una noia fredda spira per ogni dove: dalla terra ricoperta di neve sudicia, dai grigi cumuli di neve sui tetti e dai mattoni rosso-carne degli edifici; si leva dai comignoli col fumo grigio e striscia sul cielo basso, vuoto e cinerino; noia fumigano i cavalli e respirano gli uomini. Essa ha il suo odore: un odore pesante e sordo di sudore, di grasso, di olio di canapa, di pasticcini e di fumo; quell’odore ti serra il capo, come un berrettone tiepido e stretto e, infilandosi nel petto, vi suscita una strana ebbrezza, un oscuro desiderio di chiudere gli occhi, di urlare disperatamente, di fuggire chissà dove e di sbattere il capo di corsa sul primo muro”.

Gli uomini che Gorkij racconta sono quelli che, pur confusamente, si riscuotono dall’inerzia, e cercano rimedio al loro male di vivere nell’autoaffermazione, in una tensione sia fisica che spirituale verso sempre nuovi orizzonti: ma vengono respinti dall’indifferenza di un sistema sclerotizzato e disumano, per il quale risultano quando va bene solo invisibili, ma in genere anche pericolosi, e che li ricaccia impietoso nella condizione miserabile dalla quale hanno cercato di evadere.

Il calzolaio Grishka Orlov trova per un attimo la sua ragione di vivere quando può prodigarsi per gli altri durante un’epidemia di colera (credo che Camus abbia amato molto questo racconto): smette di ubriacarsi ogni sera e di bastonare a sangue la povera moglie, scopre finalmente la gioia del sentirsi parte attiva del mondo. “Qui non c’entra il denaro, ma la pietà verso il prossimo: essi (i dottori) hanno pietà del prossimo, questo è il motivo per cui non risparmiano se stessi … tutti sanno chi è Mishka! Un ladro … eppure curano Mishka, e appena s’è potuto alzare dal letto, tutti ridevano contenti. Anch’io voglio provare questa gioia, perché quando ridono così m’entra una spina nel cuore, mi sento male, l’anima mi brucia …” Ma non regge, e alla fine, quando la moglie lo umilia dimostrandosi più forte di lui, sputa fuori, sia pure per una miserabile ripicca, quello che davvero lo rode e gli impedisce di credere in una resurrezione: “Siete sicuro, voi, di capire quello che fate? Curate i malati, e intanto le persone sane crepano di miseria”. E non solo di fame: “Io sono sano, ma ho l’anima malata. Non posso vivere così, non posso rassegnarmi. Valgo meno di quei malati?”. E quando incontra l’autore in una bettola, gli confida: “Il mio destino è di essere un vagabondo. C’è nel mondo miglior condizione di questa? Sei libero … e dappertutto soffochi”.

È la stessa conclusione cui arriva Konovalov, il gigante buono e tormentato che Gorkij conosce mentre lavora al forno: “Io, fratello, ho deciso di andarmene per il mondo in tutte le direzioni. Ci può essere qualcosa di meglio? Tu cammini, e vedi sempre cose nuove … non pensi a nulla! Il vento ti soffia in faccia: sembra che voglia scacciare via tutta la polvere dalla tua anima. E ti senti libero e leggero. Nulla ti disturba. Se hai fame, ti fermi, lavori qualche giorno per cinquanta copeche; se non trovi lavoro, chiedi del pane, e quello te lo danno”. E l’autore commenta: “Il tono con cui pronunciò quell’ultima frase, non poté altro che confermarmi che il mio amico era rimasto tale e quale come l’avevo conosciuto: un cercatore irrequieto, insaziabile. La ruggine del dubbio, il veleno dei sogni rodevano quell’uomo gagliardo, venuto al mondo, per sua disgrazia, con un cuore sensibile”.

Gorkij è solidale con questa umanità di reietti perché scorge in essi quella carica vitale, quel barlume di orgoglio e dignità che manca invece alla massa della popolazione contadina. Il contrasto è perfettamente esemplificato nel racconto Celkash, il cui omonimo protagonista appare come l’incarnazione del furfante: “Era noto tra la gente del porto come un ubriacone, audace e scaltrissimo ladro … Il volto da gufo, lungo, aguzzo … Lungo, ossuto, un po’ curvo, girava attorno il naso adunco e gettava intorno vive occhiate facendo brillare gli occhi freddi e grigi … I baffi, neri, folti e lunghi, apparivano mossi e inquieti come quelli di un gatto … Anche là, in mezzo a centinaia di esseri simili a lui, attirava l’attenzione per la sua somiglianza con lo sparviero della steppa”. Celkash è il tipo che non fa sconti a nessuno, ma è mosso da una istintiva simpatia per il giovane contadino Gavrilka, dai grandi occhi azzurri e innocenti, anche fisicamente ai suoi antipodi, un modello di robustezza sana, di proporzione, di solarità: forse perché crede di riconoscere in lui le occasioni perse di un’esistenza diversa, onesta e laboriosa. Non appena però si profila la possibilità di un grosso guadagno il contadino si rivela per quello che è: una mescolanza di avidità, perfidia, viltà, autocommiserazione. Alla chiusa del racconto Celkash si allontana, traballante per un colpo a tradimento ricevuto da Gavrilka, e anziché uccidere quest’ultimo, come potrebbe e come da lui ci attenderemmo, gli lascia con disgusto tutto il denaro ricavato dalla loro losca impresa. Col suo gesto Celkash assurge alla dignità di un eroe romantico, e lasciando in segno di disprezzo i suoi soldi al contadino in pratica lo marchia. Gavrilka diverrà un mugik, uno degli avidi contadini ricchi sui quali calerà pesante la mano di Stalin, con la benedizione di Gorkij stesso.

Questi personaggi anarcoidi sono i protagonisti della prima fase della produzione letteraria di Gorkij. Non sono mai eroi positivi, nel senso corrente del termine: la loro vita è tutt’altro che esemplare, ma è improntata ad una fondamentale coerenza. Se non si pretende da loro un comportamento “regolare”, sono molto più affidabili di qualsiasi persona normale. Ne Il ghiaccio si muove, parlando del caposquadra che guida i suoi operai e Maksim stesso ad attraversare il Volga all’inizio del disgelo, scrive: “Sto ad ascoltarlo, ma di quel discorso imbrogliato capisco poco. E non voglio capire. Non saprei dire se Ossìp mi piace o no; so questo: accanto a lui andrei dovunque: attraverserei ancora il fiume col ghiaccio che mi scivola sotto i piedi”. Sono eroi popolari, ma non populisti, perché agiscono e reagiscono a titolo individuale, senza alcun altro disegno che non sia la difesa strenua della loro scelta di anticonformismo. “Vedi, – dice Konovalov al giovane Maksim – talvolta l’angoscia mi afferra. Ti dirò, una tale angoscia che in quel momento è impossibile vivere, assolutamente impossibile. Come se fossi l’unico uomo al mondo e, tranne me stesso, nulla esistesse di vivo. Allora tutto mi sembra odioso, opprimente, e anche se tutti gli altri morissero non me ne importerebbe”.

Una scelta della quale, come si diceva, non sono affatto consapevoli, nel senso che non è loro dettata da una coscienza di classe, ma dall’istinto: ma non per questo ne sono meno convinti. “C’è qualcosa in me che non è bene – dice Gvodzev l’attaccabrighe –. Vuol dire che non sono nato come si deve nascere. Tu ora mi dici che tutti gli uomini sono uguali. Io vado per una strada diversa … E non soltanto io, molti altri della mia specie. Siamo gente fatta a modo nostro, non compresa in nessun ordine e rango”.

Queste cose Gorkij le scrive quando l’esperienza diretta del vagabondaggio è in lui ancora viva, l’atteggiamento è ancora improntato ad un individualismo che apprezza la ribellione per se stessa, finalizzata ad un riscatto individuale che prescinde dal risultato, che sta già nell’impazienza di agire e di reagire. Quando ancora l’irrequietudine di quel mondo è pienamente condivisa. “Bisogna essere nati in mezzo a una società di gente bene ordinata e istruita per avere la pazienza di durarla per tutta la vita e non provare mai il desiderio di lasciare un ambiente di noiose convenzioni, di piccole menzogne velenose che l’uso ha ormai consacrate, di ambizioni gracili, di angusto settarismo, di forme diverse d’ipocrisia, in una parola di tutte quelle vanità delle vanità che raffreddano il cuore, corrompono lo spirito. Ma io sono stato educato e sono cresciuto lontano da questa società, e per mia gioia e fortuna non posso accettare la cultura in dosi così forti senza poi provare immediatamente la necessità di uscire dai suoi ranghi e rinfrescarmi lo spirito ben lontano dalle raffinatezze morbose di quel genere d’esistenza. In campagna c’è tuttavia tristezza e noia come in mezzo alla gente istruita. C’è molto più gusto ad andarsene per le strade più miserabili delle città, dove potrai sì trovare del sudiciume, ma anche molta sincerità e semplicità; oppure proverai soddisfazione ad andartene per i campi e lungo le strade maestre: ciò è sempre interessante, ti bastano un paio di buone gambe, il tuo morale ne godrà”. È la voce dell’autore, sta parlando in prima persona.

Nei primi racconti anche l’impatto con la modernità è negativo. “Quegli uomini, sul fondo scuro della montagna, apparivano piccoli come vermi: e come vermi brulicavano tra i mucchi di pietre, di tavole di legno, di rottami d’ogni specie, sotto il sole ardente di mezzogiorno … L’aria era pesante; vi aleggiava come un rumore di gemiti; gli sterratori colpivano la terra, le ruote delle carriole cigolavano, un gran pilone di ferro batteva e batteva sulle palafitte … Echeggiavano colpi d’ascia, e a squarciagola tutti quegli uomini grigi urlavano, urlavano …”. Sembra un girone infernale; e lo è, a tutti gli effetti. Il Gorkij entusiasta dell’industrialismo, quello che scriverà “la riuscita dell’industria condiziona strettamente la salvezza del nostro paese, la sua europeizzazione …” è ancora lontano. Altrove scrive: “Ferro granito e legno uomini e navi, tutto vuole esprimere l’inno furioso e appassionato cantato al dio Mercurio. Ma le voci degli uomini, che appena si distinguono, sembrano deboli e ridicole; coperti di stracci sporchi, curvi sotto i loro pesanti fardelli, si agitano e si agitano in turbinii di polvere, in un’atmosfera di grande calore e di grande strepito: piccoli, miseri uomini rispetto ai colossi di ferro che li circondano, alle montagne di merci, ai rumoreggianti vagoni e a tutte quelle cose che essi hanno creato con le loro stesse mani. Sono servi della loro opera, privi ormai di ogni personalità”. E ancora: “I pesanti e giganteschi vapori all’ancora fischiano, profondamente sospirano: in ogni suono che emettono si sente come una nota di sprezzo verso gli uomini che si arrampicano sui loro ponti, piccoli esseri grigi e meschini che riempiono le stive con il prodotto di un lavoro da schiavi”.

All’alba del nuovo secolo, in Bassifondi, scompare anche l’ultimo residuo di romanticismo: lascia il posto ad uno sguardo obiettivo e realistico che avvolge tutti i reietti, gli sconfitti dalla vita. Gorkij racconta un microcosmo miserabile di ladri, ubriaconi, prostitute, intellettuali falliti, usurai, vecchi che hanno perso ogni radice, di esseri umani che la società respinge e che trovano un minimo di conforto solo nella condivisione dell’infelicità. “Un essere umano infelice – scrive – cerca sempre un altro essere umano infelice: è contento quando lo trova”. In questa gente il primo Gorkij non cercava Dio, e nemmeno un suo sostituto terreno. Erano davvero gli ultimi, i rassegnati. Ora invece questa rassegnazione non l’accetta più. Vuole che il popolo “diventi Dio”, vuole che il riscatto sia collettivo, e passi non più per la ribellione individuale, destinata comunque allo scacco, ma per la consapevolezza universalmente diffusa dell’ingiustizia e per la volontà condivisa di combatterla. Questa è la “costruzione di Dio”.

La descrizione che fa del mondo degli ultimi non è mai fine a se stessa: non mira a muovere a compassione, ma ad accendere una reazione. Avvicinandosi al socialismo democratico Gorkij comincia a pensare in termini di coscienza collettiva. Senza dimenticare che quest’ultima è la somma di tante coscienze individuali che vanno risvegliate: “Ma perché tu ragionavi male – diceva già Konovalov – Tu racconti come se la vita non dipendesse da te, ma da non si sa quale persona che deve farla. E tu dov’eri, allora? Perché non ti sei messo contro il destino? E perché mai ci lamentiamo sempre degli uomini, quasi che non fossimo uomini anche noi?… Bisogna costruire la vita in modo tale che tutti vi si trovino a loro agio, e nessuno sia sacrificato. Chi è che deve ricostruire l’esistenza? domandava con aria di trionfo; poi, come temendo che gli rubassero la risposta, subito rispondeva: Noi, soltanto noi!”.

Gorkij non arriva a credere di coinvolgere in questo Noi i contadini, che la sua amara esperienza induce a considerare una massa amorfa e pericolosamente reazionaria, divisa al più in animali inerti o bestie avide, come Gavrilka. ”Ogni contadino vede soltanto se stesso, considera il lavoro per la collettività una galera” gli dice Izut. E lui stesso osserva: “Si vedeva chiaramente che tutti gli abitanti del villaggio vivevano a tentoni come i ciechi, temevano sempre qualcosa, diffidavano l’uno dell’altro. C’era in loro qualcosa del lupo”. Come lupi se li troverà infatti attorno, pronti a sbranare lui e Romas, dopo aver spaccato il cranio a Izut e aver distrutto il magazzino. E la sua resistenza, con un’ascia in mano, schiena contro schiena con Romas, a fronteggiare quel branco assetato di sangue, ma interiormente vile, sarà raccontata con tutti i ricami del caso da un fantasioso bracciante loro amico e diverrà leggenda lungo le sponde del Volga.

Dati per persi i contadini, e in assenza ancora di una classe operaia capace di autocoscienza, Gorkij non può che sperare nell’energia cinetica positiva prodotta nei suoi bosjakì dall’istintivo senso della dignità: ritiene che essa non debba più essere dispersa nella ribellione individuale ma vada incanalata nell’azione rivoluzionaria, proprio per scongiurare il trionfo dell’“asiatismo”, di quello che considera il male oscuro del popolo russo. “Asiatici!” ripete disgustato il cuoco Smuri, quando i passeggeri del battello si accaniscono stolidamente a prendere in giro di un povero soldato morto di paura, e poi a loro volta si fanno vincere dal panico ad ogni sobbalzo dell’imbarcazione. “Asiatici! Cammelli!”.

Nelle opere posteriori al fallimento rivoluzionario del 1905 gli splendidi irregolari dei primi racconti sono scomparsi. I nuovi protagonisti sono rivoluzionari coscienti: è quella parte di popolo personificata da Pelageja Vlàsova, la protagonista de La madre, moglie maltrattata e schiavizzata di un fabbro ubriacone, ma madre di un operaio socialista, che dopo la morte del marito e l’imprigionamento del figlio si libera da ogni timore e diventa una propagandista dell’idea rivoluzionaria, fino a pagare la sua nuova fede con la vita. Pelageja diventa l’icona della nuova Russia rivoluzionaria. La sua trasformazione è la trasformazione, auspicata ma anche già in atto, e divenuta tangibile proprio nel movimento fallito, di un intero popolo. All’inizio timorosa, avvilita, rassegnata ad una vita senza alcuna prospettiva, né più né meno come tutto il villaggio in cui vive, annegato nel grigiore di una quotidianità resa ancor più squallida dagli eccessi alcoolici e dalla violenza insensata, e come tutto il paese cui il villaggio appartiene, soffocato dalla noia e dalla paura, Pelageja modifica poco alla volta il suo comportamento. Spinta dall’esempio del figlio impara ad esigere rispetto per la propria libertà e per la propria esistenza, ma soprattutto a rispettarsi, acquisendo con testarda fatica gli strumenti culturali che le consentiranno di emanciparsi psicologicamente da ogni sudditanza, familiare e politica.

Questo è il nuovo modello; e non è privo di significato il fatto che si tratti di una figura femminile. Anche nei primi racconti, in fondo, erano donne come Matrena, la moglie del calzolaio Orlov, a rinascere a una nuova dignità in maniera più convinta e definitiva, mentre la ribellione dei loro compagni non andava oltre la scelta del vagabondaggio. La coscienza delle donne si allarga, quasi per necessità biologica, a comprendere i propri figli, la propria famiglia, la comunità di appartenenza, e si concretizza in un impegno sociale: questa è una prospettiva rivoluzionaria, della quale le donne diventano giustamente le avanguardie. Tanto più che per Gorkij la rivoluzione si attuerà attraverso l’educazione, prima e piuttosto che con i fucili: e in questo campo le vere protagoniste saranno loro.

A ben guardare, in tutte le sue opere il riferimento più saldo nel presente è costituito dalle figure femminili, mentre alle figure positive maschili è legata piuttosto la speranza per l’avvenire. Nonna Akulina rappresenta per tutta l’infanzia e l’adolescenza il porto nel quale Maksim si rifugia dopo ogni burrasca. Apparentemente rassegnata e sottomessa, è invece una vincente; attraversa una vita tempestosa e piena di dolori, di delusioni, di umiliazioni, che le vengono da marito, figli, sorella, forte di una superiorità conferitale dalla bontà di carattere che gli altri vedono, e soffrono, in primis il marito. Non giudica nessuno, ma capisce ed è sempre disponibile a comprendere tutti, anche quando le fanno del male, e proprio questo mette gli altri, volenti o nolenti, in rispetto. Trova un motivo in più di resistenza in quel nipote del quale intuisce l’intelligenza e l’animo, e che a sua volta, crescendo, si rende sempre più conto della forza insita in tanta bontà.

Ma ci sono anche molte altre figure che di volta in volta gli fanno intravvedere il potenziale di una vita femminile interpretata con rispetto di sé e non accettazione delle brutture del mondo: la signora della casa accanto, la “Regina Margot”, che gli fa conoscere i grandi poeti russi ed europei, la lavandaia Natascia, che sacrifica tutto per far vivere alla figlia una vita diversa dalla sua (Dio ci manda qui come stupidi ragazzini, ma ci vuole indietro intelligenti!), la piccola sfortunata Ljudmila, con la quale Maksim condivide magici ed innocenti momenti di comunione spirituale. Sono figure che si stagliano rispetto alla quotidianità delle piccolezze, delle meschinità, del pettegolezzo, delle invidie e delle liti familiari. Donne intelligenti e, ognuna a suo modo, colte; la nonna stessa, analfabeta, conosce a memoria una miriade di ballate, ed è una narratrice fantastica, che lascia stupefatti ed ammirati anche uomini di grande cultura e di profonda sensibilità.

Nell’Autobiografia ricompaiono anche i vagabondi: ma qui quel filo che nei racconti è sotterraneo diventa visibile, e crea una sottile ironia, nel significato letterale di distacco. Il distacco è nello sguardo diversamente consapevole col quale lo scrittore li coglie. Pur intagliando le figure con la stessa maestria Gorkij non le isola e non le incastona più nella sterile epica di un titanismo popolaresco. Gli irregolari e i ribelli non sono più fuochi d’artificio nella notte, belli quanto inutili: testimoniano come sotto la superficie piatta ribolla l’indignazione, e fanno presagire il ritorno del giorno. L’autobiografia ricompone tutto il tessuto narrativo in un ordito che segue la nascita e lo sviluppo di una doppia coscienza, quella dell’autore e quella del mondo attorno a lui. Le singole figure hanno rispetto ad un assieme più composito un rilievo individuale minore, le istantanee diventano sequenze. A dare unità alle vicende che scorrono in primo piano sono il fondale, la grande terra russa rappresentata di volta in volta dai diversi quartieri della città, dalla galleria del mercato, dal cantiere, dal fiume e dal battello, dal villaggio rurale, e soprattutto le due immagini familiari: quella della nonna che attraversa gli anni senza perdere nulla della sua dolcezza e della sua fermezza di fondo, e quella del nonno, che invece conosce la parabola totale della discesa, da padre padrone e artigiano con lavoranti a mendicante, una sconfitta dietro l’altra, senza mai imparare nulla, senza essere mai ammorbidito dalla compassione. I due diventano metafora del doppio volto della Russia: la bontà profonda, l’altruismo, la capacità di sopportazione, la conservazione di una dignità anche nelle situazioni peggiori da un lato, la crudeltà, l’avidità, il fariseismo, dall’altro. La ribellione di Maksim, che da sempre si è manifestata a livello istintivo, diventa cosciente proprio quando atterra il nonno che sta per batterlo un’ennesima volta.

I vagabondi, si diceva, non mancano in questa narrazione: ma o sono di una tempra diversa, persone che non si chiamano volontariamente fuori, e vengono piuttosto tenute fuori dalla meschinità dominante (il mite e misterioso Buona Cosa, deriso perché si è entusiasmato e commosso per una poesia della nonna, il fuochista Iakov Schumov, ecc.), o sono gli stessi dei racconti, letti però in una chiave più prosaica (Ossip). Ci sono anche altri occasionali maestri (il dogmatico Piotr Vasiliev), che quanto meno esprimono insofferenza per la vita che fanno. E infine i giganti: il cuoco Smuri, e poi soprattutto l’Ucraino, e Izuv, coloro che hanno ormai una coscienza piena della situazione.

Allo stesso modo, nelle opere mature è mutata radicalmente anche la considerazione della modernità. In mezzo c’è l’avvento dell’industria, che a cavallo del secolo è stata forzosamente introdotta anche in Russia, che sta modificando la realtà e la percezione dei rapporti sociali e che Gorkij vede come uno strumento di riscatto, l’occasione di rompere quella cappa di immobilismo che ha paralizzato e istupidito il popolo russo per secoli. Quando arriva a New York scrive: “Il socialismo dovrebbe essere realizzato prima qui. È la prima cosa che pensi quando vedi le sorprendenti macchine, case, ecc…”. Salvo poi, ne “Le città del diavolo giallo”, darne un’immagine completamente diversa: “Tutto – il ferro, le pietre, l’acqua, il legno – sembra protestare con energia contro questa esistenza che non ha sole, canzoni, felicità, contro questa vita prigioniera di un lavoro gravoso … Tutto geme, stride, ulula, piegandosi al volere di una forza misteriosa e ostile all’uomo … una forza fredda, malvagia e invisibile … l’uomo è una piccola vite, un punto invisibile nella sudicia e orribile trama di ferro e legno …”. Ma non è la modernità quella rifiutata da Gorkij: è il suo stravolgimento in una tirannia della finanza, degli interessi economici. È l’assenza totale di una “religiosità” della vita che non sia il culto del dio denaro. In una società di questo tipo il riscatto dall’istupidimento della miseria non avviene: c’è solo la sostituzione con un altro istupidimento, quello prodotto dall’avidità e dal consumo: “Si notano molti visi energici, ma su ogni volto vi colpiscono anzitutto i denti. La libertà interiore, la libertà dello spirito non risplende negli occhi di nessuno”. Il modello capitalistico occidentale è per Gorkij degradante: ne L’affare degli Artamanov ne dà un quadro spietato, attraverso la storia dell’ascesa e del crollo di una dinastia industriale; ma già prima, in Foma Gordeev (1899) e ne I tre (1900) ne aveva preso le distanze, attraverso le ribellioni di Foma e Gracev al “Moloch”, alla brutalità delle guardie e dei capi-reparto, alla disumanità dei turni di sedici ore. La modernizzazione che invoca passa invece per una scienza e una tecnica poste direttamente al servizio dei lavoratori, e non usate per schiavizzarli. Gorkij tiene conto del “bisogno di credere” della popolazione russa, della sua profonda e radicata religiosità: la liberazione spirituale cui fa costante riferimento consiste nello spostamento dell’oggetto di questa fede da Dio all’umanità, ed è resa possibile solo da un sapere scientifico capace di asservire la natura, di trasferire all’uomo quelle che erano prerogative divine e di emanciparlo dal bisogno. “A fianco di questa lotta inevitabile (la lotta di classe) si sviluppa sempre più una forma di lotta per una esistenza diversa, superiore, la lotta dell’uomo contro la natura, e solo in questa l’uomo svilupperà fino alla perfezione le sue forze spirituali”. Un mondo più libero, più giusto, più uguale può nascere solo da una trasformazione che non si limiti a modificare le modalità produttive, ma investa i rapporti, il valore e il senso dell’esistenza stessa.

In cento anni, da Aleko ad Alesa, sono cambiati radicalmente sia gli obiettivi che della posizione dell’intellettuale: il vagabondo di Puskin voleva sottrarsi all’ipocrisia delle convenzioni ritrovando il contatto con la natura, tornando all’innocenza naturale di Rousseau. Per Gorkij invece la natura, intesa tanto come ambiente che come indole, è selvaggia, talvolta anche bestiale, e va addomesticata. Il compito di domarla e sottometterla spetta appunto agli intellettuali, a coloro che hanno avuto a qualsiasi titolo, per merito, per ceto o per censo, accesso alla cultura: ed è una loro responsabilità fare di quest’ultima un uso non egoistico. La soluzione non può essere quindi la fuga da una società corrotta, ma l’impegno a risanare quella società dalla corruzione, cominciando col ridare dignità a coloro che ne sono stati troppo a lungo privati, rendendoli visibili, rispondendo alla loro domanda di senso.

È quanto fa dire a Konovalov, che si chiede: “Io, per esempio. Cosa sono io? un vagabondo, uno scalzacane, un ubriacone, uno toccato al cervello. La mia vita è priva di significato. A pensarci bene, perché sono sulla terra e a chi sono necessario?” ma che nello stesso tempo è affascinato dalle storie che parlano di persone come lui, e indica quindi la strada: “Gli scrittori. È gente che vive, che guarda la vita; soffrono tutto il dolore degli altri. Guardano la vita, ne provano tristezza e versano la tristezza nei loro libri”.

Lo stesso chiedono altri personaggi, già nei primi racconti. Gvodzev, l’attaccabrighe, ne fa una sintesi perfetta: “E intanto la vita mi opprime, non c’è per me via d’uscita. Perché? Perché non sono abbastanza istruito? Ma voi, voi che siete istruiti, voi non dovreste trascurarmi: io sono un frutto del vostro stesso campo: mi dovreste sollevare dal basso verso di voi, dal basso in cui marcisco nell’ignoranza e nell’amarezza”.

All’intellettuale spetta dunque, e abbiamo già visto che questa concezione rimarrà invariata attraverso gli sviluppi della rivoluzione, il doppio compito di indicare la strada e di educare i mezzi per percorrerla, risvegliando coscienze da secoli assopite e intorpidite. Ma prima ancora che quella altrui, è la coscienza dell’intellettuale stesso a dover essere risvegliata: ed educata a zavorrarsi col realismo. Romas gli dice: “Avete bisogno di studiare, è vero, ma in modo che il libro non crei una barriera tra voi e gli uomini. Gli uomini insegnano in modo più doloroso, più rozzo dei libri, ma la loro scienza rimane molto più impressa nell’animo”. Già nei primi rapporti con i populisti ha la percezione che in realtà si continui a giocare su un equivoco: “Quando discutevamo del popolo, io con stupore e sfiducia verso di me sentivo che su questo tema non potevo pensarla come loro. Per loro il polo era l’incarnazione della saggezza, della bellezza spirituale e della bontà d0’animo, un essere quasi simile a dio e a lui consustanziale, depositario dei principi di tutto ciò che è bello, giusto e grande. Non conoscevo tale popolo”. E Romas glielo conferma: “Là, da voi, gli studenti ciarlano molto di amore per il popolo, ma io dico loro: non è possibile amare il popolo. Sono parole: l’amore per il popolo …”. Parlare del popolo, più in generale degli uomini, senza conoscerli, conduce a ciò che gli prospetta un suo amico operaio: “Voi ragionate come un intellettuale, ormai, non siete dei nostri, ma un uomo intossicato per il quale l’idea è più alta dei piccoli uomini. Come gli ebrei, voi pensate che l’uomo esiste per il sabato”. È un rischio del quale Gorkij è perfettamente consapevole, e attorno al quale continua ad interrogarsi: fino a decidere ad un certo punto che vale la pena correrlo, che senza un’idea, pur sapendo che gli uomini sono così, non si può vivere. È una responsabilità che ci si deve assumere, anche dopo aver raggiunto la consapevolezza del reale livello umano. Il problema a quel punto non è più se ha senso o meno intervenire: esiste sempre qualcuno per il quale vale la pena battersi, occorre decidere semmai come farlo. È un ruolo strategico sul quale Gorkij insiste, come si è visto nella introduzione a Pensieri intempestivi, anche nel corso della polemica con Lenin e con i bolscevichi, ricavandone l’accusa di voler difendere la categoria. Ci crede sul serio: l’educazione al bello dal suo punto di vista è anche una educazione alla modernità, ed è l’imprescindibile presupposto del civismo.

Questo ruolo Gorkij se lo attribuisce, o meglio lo scopre, fin dall’adolescenza. Riceve l’investitura dai poeti che lo affascinano a quindici anni, dai Canti di Béranger: “Ma perché non mi avete insegnato/ non avete dato un fine alla forza selvaggia?/ sarei morto abbracciando dei fratelli:/ora morendo, vecchio vagabondo, / vado invocando vendetta sugli uomini!” e la sperimenta precocemente nella magia dei rapporti che riesce ad instaurare proprio attraverso la magia dei libri. Prima ancora di Konovalov sono i suoi compagni di scorribande, la “banda del cimitero”, a cadere affascinati dalla sua lettura e dai suoi racconti; e poi le reclute, i lavoratori del cantiere, il fuochista, il gruppo dei pittori di icone. “Sitanov guardò il libro, depose il pennello sul tavolo e, cacciate le lunghe braccia tra le ginocchia, si mise a dondolarsi sorridendo. Sotto di lui la sedia scricchiolava.

Silenzio, fratelli, disse Larionyc e, anche lui lasciando il lavoro, si avvicinò alla tavola accanto alla quale io leggevo. Il poema mi agitava tormentosamente e dolcemente, la voce mi si spezzava, vedevo male le righe dei versi e mi venivano le lacrime agli occhi. Ma ancora di più mi commuoveva il sordo, cauto movimento di tutto il laboratorio, che si voltava pesantemente come se una calamita volgesse tutti quegli uomini verso di me. Quando finì la prima parte, quasi tutti mi stavano accanto, addossandosi l’uno all’altro e abbracciandosi, accigliati e sorridenti.

Leggi, leggi – diceva Gichariev, curvandomi la testa sul libro”.

Il giovane Maksim assiste al miracolo di persone che vengono ammaliate dalla conoscenza, senz’altro dalle storie, ma anche dai modi della narrazione: perché attraverso queste storie intravvedono la possibilità di altre esistenze, mai immaginate, assolutamente non pensabili nel grigiore della loro rassegnata e trascinata vita quotidiana. E le loro reazioni, che a volte possono sembrarci esagerate, pianto, commozione, ira, sono invece estremamente verosimili in chi si rende conto di essere defraudato di un’esistenza con un senso, o meglio del senso dell’esistenza, e prima ancora della conoscenza della sua possibilità.

Gorkij, o dell’utopia

Adesso però tiriamo un po’ le fila. Nella biografia di Gorkij ci sono momenti e personaggi che da soli giustificherebbero tutto il tempo e le pagine che gli ho dedicato. Penso allo Zingarello che interpone il suo braccio tra il corpo di Maksim e la verga del nonno; alle serate con Buona Cosa, sull’aia, a ragionare delle stelle, del mondo e degli uomini; alla notte trascorsa per scommessa al cimitero, a dieci anni, sdraiato su una tomba a forma di bara (con la nonna che quando viene a saperlo si congratula); alla disperata determinazione con la quale fronteggia, sul cadavere di Izuv, i contadini, col volto annerito dal fumo, i capelli strinati e un’ascia in mano, come Aiace Telamonio in mezzo ai troiani; all’incanto delle serate nel laboratorio delle icone, con i pittori che poco alla volta lasciano i loro posti, i loro tavoli, per assieparsi attorno a Maksim che legge. Sono situazioni così epiche, e così vere al tempo stesso, che pensi che chi ha vissuto momenti tanto emozionanti debba per forza poi avere un alto concetto della vita e pretenderlo dagli altri.

Ma credo sia anche evidente che Gorkij non mi ha intrigato solo per i risvolti avventurosi della sua biografia o per l’ingiusto oblio cui è stato condannato. C’è dell’altro. Mi ha costretto a pormi nuovamente delle domande alle quali credevo di avere già risposto.

Per spiegarmi devo ripartire da quelli che appaiono gli aspetti più oscuri e ambigui della sua storia, le contraddizioni, reali o apparenti che siano, che la macchiano: la mancata denuncia dello sterminio dei contadini, il giudizio sui gulag, una concezione “strumentale” della letteratura che finisce per asservirla al potere. Gorkij in sostanza è accusato di non essersi opposto allo stalinismo sia per paura che per opportunismo (godeva di un appannaggio favoloso). Di essere un cinico, che ha sacrificato le idealità alla propria comodità e sicurezza.

Io mi sono fatta un’idea un po’ diversa. Non nego che una componente di vanità nel suo atteggiamento ci fosse: in fondo era venerato, per calcolo o per convinzione, come il più grande scrittore proletario. Ma quanto alla paura, ci andrei piano: al rientro in Russia era al corrente della situazione, e se avesse avuto paura sarebbe rimasto tranquillamente a Sorrento. Certo, godeva della protezione di Bucharin, ma sapeva benissimo che il padrone era Stalin. Una volta poi in Russia, dove a partire dal 1933 in pratica visse una prigione dorata, assumere una posizione di aperto dissenso avrebbe significato sparire subito, cosa che non avrebbe giovato né a lui né agli amici per i quali sino all’ultimo continuò a battersi. Che il fatto di chinare la testa non sia valso a nulla non può essere portato come elemento ulteriore a suo carico. Un allineamento non totale in patria, quando si è ostaggio di un regime, vale quanto e forse più di una aperta opposizione dall’esterno. In fondo, malgrado tutte le pressioni ricevute Gorkij non volle scrivere mai una biografia apologetica di Stalin, mentre ne aveva scritta una di Lenin, nella quale tra l’altro gli riconosceva di aver visto giusto nel 1917: e questo rifiuto, già di per sé, era un modo per operare dei distinguo.

Se vogliamo provare a capire dobbiamo quindi scendere più in profondità. Gorkij non agisce come agisce per paura, per tornaconto individuale o per cinismo, ma perché non potrebbe per la sua natura e per la sua storia fare diversamente. Non è entusiasta dello stalinismo, anzi, lo detesta, ma lo considera il male minore, e in qualche caso addirittura uno strumento positivo. Non gli piacciono i lavori forzati, ma nemmeno nutre grande simpatia per coloro che li stanno scontando. Ignora, o finge di ignorare, che sei o sette milioni di kulaki vengono sterminati, ma lui i kulaki non li ha mai amati, anzi, li ha sempre considerati il vero ostacolo alla realizzazione di una società più giusta (“Un contadiname ignorante e smidollato, intriso di un individualismo feroce, da proprietari, che immancabilmente dichiarerà una guerra spietata alla classe operaia”). Vede negata la democrazia, ma non è mai stato del tutto convinto che una democrazia totale in Russia possa essere praticata: almeno nella Russia che ha conosciuto. Questo, ripeto ancora, non lo assolve: ma almeno consente di capire che il suo comportamento non è così incoerente come lo si vorrebbe dipingere.

Proviamo a metterci dal suo punto di vista. Gorkij ha esplorato in profondità e sperimentato sulla propria pelle, e non in senso figurato, la Russia ignorante, crudele e retriva, non solo quella rurale ma anche quella urbana, artigianale e piccolo borghese. Ritiene si debba fare qualcosa, che questo qualcosa possa passare solo attraverso l’educazione e la cultura e che farlo abbia un senso e una qualche probabilità di riuscita perché esistono spiriti liberi, indipendenti, dignitosi, che se avessero a disposizione gli strumenti potrebbero dare una svolta alla propria esistenza e fornire indicazioni ed esempi per quella degli altri.

Ci sono però dei problemi. Il primo è che a suo giudizio gli spiriti liberi crescono solo là dove non è radicato l’anelito alla proprietà materiale di base, quella della terra. Quindi sono incompatibili col mondo contadino. Nell’ambiente mercantile e in quello artigianale il senso del possesso non è altrettanto radicato: si possiedono solo gli strumenti (e tutto, dal capitale alle attrezzature, è strumento), si interviene sulla materia, su essa si esercitano delle capacità, dell’inventiva, ad essa si aggiunge valore: ma la materia va e viene nelle loro mani, e l’uso della strumentazione non produce un legame inalienabile. Si può produrre o commerciare ovunque. Lo stesso sarà domani per gli operai. L’investimento di rischio che opera un mercante, quello di abilità e di lavoro di un artigiano e di un operaio hanno un ritorno in termini monetari. Quello del contadino sulla terra fa invece cumulo nella terra stessa. Mettere a dimora una pianta, un vigneto, dissodare un terreno, significa legarsi per la vita a quell’impianto, a quel terreno. Per questo il contadino non si schioda dalla fissa della terra propria, del possesso permanente: perché il suo investimento è sul lunghissimo periodo. Il contadino, pensa Gorkij, è refrattario ad ogni discorso di comunità o collettività, a dispetto di quanto sostenevano gli slavofili e i populisti, che vedevano nell’obscina, la comunità del villaggio, la testimonianza di una atavica disposizione socialista. Anche senza trarne le stesse conclusioni, sulle premesse, sulla refrattarietà del mondo contadino ad ogni idea di comunitarismo non posso che essere d’accordo: e lo dico con cognizione di causa, perché sono nato e sono rimasto contadino.

L’altro problema è che questi spiriti liberi sono una sparuta minoranza, che la maggioranza composta da ignoranti e “asiatici” costantemente schiaccia e respinge. Nella polemica con Lenin Gorkij invoca il rispetto delle regole democratiche: in realtà crede nelle regole, ma non crede nella democrazia diretta e “maggioritaria”. Pensa piuttosto ad un modello alla Rousseau, di “democrazia controllata”. In questo è in linea con Lenin: solo che Lenin ha in mente un controllo operato dal partito, mentre Gorkij pensa ad una guida “tecnica” di scienziati, intellettuali, al limite di “aristocrazie operaie”. Lenin vuole quindi il potere subito per cambiare poi la società, mentre Gorkij vuole educare la società per procedere poi a cambiare le forme del potere. Per il primo la rivoluzione si fa con chiunque ci stia, anche con motivazioni e finalità diverse; per il secondo è troppo pericoloso mettere in moto una massa priva di cultura e affamata di possesso. Di fatto, nessuno dei due crede nella democrazia, o almeno nella possibilità di arrivare democraticamente al potere. Entrambi ritengono che in certe fasi ed entro certi limiti sia necessaria la costrizione. Lenin lo dice chiaramente, Gorkij lo pensa. E quando arriva Stalin li mette tutti d’accordo.

Per quanto mi riguarda, ho una concezione senz’altro elitaria della democrazia: la ritengo auspicabile dovunque, ma possibile solo là dove sia diffusa una consapevolezza piena dell’equilibrio necessario tra diritti e doveri. La democrazia deve essere partecipazione, critica e libera, ma comunque fattiva e informata. Non esiste un diritto alla democrazia, se non quello che ci si conquista aderendo interiormente al dovere civico e adempiendo esteriormente ad esso. Alla democrazia bisogna quindi educare, non ha senso costringere. Ma educare persone che non vogliono essere educate è già una costrizione: e non mi si venga a dire che queste persone non lo vogliono solo per ignoranza, perché non conoscono: sarà in parte così, ma molti, i più, non lo vogliono e basta. E comunque, Lichtemberg diceva giustamente che il paradosso dell’educazione è di essere l’unica cosa che non può essere insegnata. Quindi ci troviamo di fronte ad un cane che si morde la coda.

Per uscire dall’impasse dobbiamo prendere atto che ogni utopia, comunque la si voglia mettere, nasce da una realtà nella quale non esiste affatto una coscienza diffusa non dico delle soluzioni, ma neppure del problema. Il che è lapalissiano, perché se questa coscienza fosse diffusa le cose già funzionerebbero, e non ci sarebbe alcun bisogno di utopia. L’aporia dell’utopismo sta nel voler cambiare gli uomini, i quali in realtà non vogliono assolutamente essere cambiati. Ma allora, come la mettiamo? Bisogna rinunciare all’utopia? Si accetta il mondo com’è?

La soluzione che io cerco di praticare è quella del “vivere come se”: comportarsi in maniera tale da realizzare almeno in piccolissima scala qualche tratto del proprio sogno, senza imporlo agli altri, solo proponendolo attraverso l’esemplarità. Ma mi rendo benissimo conto del limite di una simile proposta. Può avere senso, se ne ha, in una situazione come quella in cui ho avuto la ventura e la fortuna di vivere io, di una convivenza bene o male civilmente impostata: credo che non ne avrebbe avuto alcuno in quella in cui si trovava a vivere Gorkij. La responsabilità nei confronti degli altri va assunta e interpretata anche alla luce delle contingenze storiche e sociali.

Una soluzione intermedia parrebbe esserci, ed essere la più ragionevole. C’è differenza in effetti, al di là dei paradossi logici e terminologici, nel voler realizzare una società migliore attraverso l’educazione o attraverso la coercizione: tra riformismo e rivoluzione, per dirlo alla maniera socialista, tra Gorkij e Lenin, per tenerci alla nostra specifica vicenda (e per gli ultimi suoi sviluppi tra Gorkij e Stalin – ma su Stalin andrei cauto, mi sembra rientrare in una casistica già patologica). E tuttavia, come abbiamo visto, anche le strade diverse conducono spesso allo stesso approdo; e non è solo questione di rapporti di forza. In una lettera scritta nel 1929, a Sorrento, quindi ben lontano dalle grinfie di Stalin, e indirizzata ad una corrispondente che gli rimproverava il silenzio, se non la connivenza, su quanto di terribile avveniva nell’Urss, Gorkij afferma: “[…] odio nel modo più schietto e incrollabile una verità che per il novantanove per cento è abiezione e menzogna – e si riferisce alle notizie circolanti sui gulag e sulla repressione – perché ciò che conta è la crescita rapida e di massa dell’uomo nuovo, il quale non ha bisogno della verità meschina e maledetta in mezzo alla quale vive, ma ha bisogno dell’affermazione della verità che lui stesso crea”. Sta dicendo in sostanza, ed è ciò che tutto il movimento comunista ha sostenuto per decenni, che per poter guardare con speranza al futuro bisogna a volte avere il coraggio di chiudere gli occhi sul presente: ma anche, è sottinteso, l’onestà di ricordare il passato.

Gorkij ha vissuto un’infanzia terrificante. Non vuole che accada mai più, a nessun altro bambino. Cresce, studia, sopporta, con una sola idea in testa: questo non va, e io devo fare qualcosa per cambiarlo. Sente questo dovere perché ama gli uomini, non perché si è infatuato di un’idea. Ci prova, in effetti, e constata che anche con tutta la buona volontà non è facile: lo constata prima, quando fa propaganda tra i contadini e in risposta vede ammazzato un amico e rischia lui stesso la medesima fine. Ne ha la riconferma quando, dopo aver mantenuto un atteggiamento critico nei confronti della rivoluzione, ma solo perché gli sembravano prematuri i tempi e rischioso il tentativo, deve schierarsi a sua difesa contro le forze controrivoluzionarie che la stanno minacciando. Deve scegliere, e lo fa ricordando tutto ciò che si era proposto di cambiare, e che i controrivoluzionari rappresentano. Decide che una volta avviata, seppure per vie diverse da quelle che lui auspicava, la rivoluzione deve essere portata fino in fondo. Anche se si dovrà farlo con le cattive. Non si nasconde quanto pericoloso sia usare le cattive, e come questo contrasti con l’idea stessa di rivoluzione da lui elaborata. Ma si può lasciare che tutto torni com’era?

Quando si parla della deriva dei sogni rivoluzionari, del loro stravolgimento in distopie, si rimpiangono società semplici e solidali disintegrate, equilibri millenari sconvolti, arcadie povere ma belle tragicamente perdute. Ma è davvero chiaro di cosa stiamo parlando? Quali fossero realmente i modelli sociali, i rapporti tra gli uomini, o tra loro e la natura? Si depreca, e giustamente, la negazione della parità dei diritti agli omosessuali a Cuba. Ferma restando la gravità di questa sperequazione, ricordiamo qual era nell’isola lo stato dei diritti di tutti, e non solo degli omosessuali, alla fine degli anni cinquanta, quando scoppiò la rivoluzione? E non raccontiamoci che le cose sarebbero cambiate comunque. Abbiamo presente come stiano oggi a poche centinaia di chilometri, ad Haiti, dove purtroppo di rivoluzioni non ce ne sono mai state? Abbiamo un’idea di quanti contadini morissero ogni anno di fame in Cina prima del ’49, per poter fare un raffronto con i disastri umanitari causati dalla politica dei cento fiori prima e dalla rivoluzione culturale poi? Ci rendiamo conto di come vivessero le donne del popolo in Russia prima del 1917, e di come vivano ancora oggi in mezzo mondo? Possiamo davvero permetterci di rimpiangere culture distrutte, società disintegrate, senza ricordare di che mondo si trattava?

L’importanza degli scritti di Gorkij sta proprio in questo: ci mostra una società invivibile, una palude di “noia”, di vita senza un senso, di sofferenza senza un riscatto, nella quale persino i sentimenti più nobili, quando si manifestano, affondano nel generale squallore. Il quadro è impietosamente riassunto da Grigorij Orlov, nella sua disperata accusa: “Curare cento colerosi, quando fuori sono milioni che vivono come bestie!” Questo taglia la testa ad ogni possibilità di compromesso. Non è sufficiente la compassione, non è nemmeno sufficiente che la compassione si traduca in opere di misericordia, di conforto: occorre che maturi in solidarietà vera. E nella solidarietà concreta, radicale, non c’è spazio per la nostalgia nei confronti di una società del genere. Non si può rimpiangere lo sfruttamento bestiale dei ricchi sui poveri, degli uomini sulle donne. Forse i morti per fame sono meno pesanti delle vittime dei gulag?

Non sto cercando di giustificare in qualche modo lo stalinismo o il regime di Pol Pot. È evidente che si tratta di vicende criminali, di veri e propri genocidi che hanno coinvolto decine di milioni di esseri umani, e foss’anche si trattasse di qualche migliaia, o centinaia, o decine di vittime, bene, nessuna idea che si rispetti può metterle in conto come effetti collaterali tollerabili. Vorrei solo ci evitassimo le ipocrisie che fanno alibi all’indifferenza, e ci chiedessimo se, quando, sino a che punto e in quale misura è lecito forzare gli uomini a comportarsi diversamente da quanto vorrebbero, in nome di idealità umanitarie. E che lo facessimo, per quanto possibile, a mente sgombra, mantenendo il giusto equilibrio tra la delusione per gli esiti disastrosi che la storia ci racconta, la necessità e la fondatezza delle motivazioni che hanno invocato il cambiamento e la coscienza delle ricadute che a lungo termine anche gli esperimenti falliti determinano. Questo non riscatta le sofferenze delle vittime sacrificate in quegli esperimenti, ma almeno ci impone di non dimenticare le altre vittime, quelle macinate da una tragedia quotidiana che nemmeno ha l’onore di rimanere nella memoria.

Il problema che mi pongo è: di fronte all’evidenza del dolore e dell’ingiustizia (e un bambino affamato o maltrattato, una donna picchiata e segregata, una persona qualsiasi, senza sottolineature di genere, di età, di condizione fisica o sociale, prevaricata e umiliata, sono evidenze) ho o non ho il dovere di intervenire? E se sento questo dovere, fino a che punto può spingersi il mio intervento? Poi provo a moltiplicare questo caso per migliaia, per milioni, e mi trovo nei panni di Gorkij.

Le obiezioni che possono essere avanzate a questo punto sono diverse. La più semplicistica è quella che comunque la sofferenza è congenita alla condizione dell’uomo, che il sogno di liberarlo dalla sofferenza è già di per sé contradditorio e pericolosamente velleitario. Di buone intenzioni è lastricata la via di ogni gulag. Non c’è dubbio. Ma anche i bordi e il fondo delle paludi sono lastricati di scetticismo. E allora, che si fa? Se vedo un bambino in procinto di annegare lo lascio andare, perché comunque un giorno morirà lo stesso? Il sogno non è privo di senso, quando mira a cancellare se non altro le sofferenze più immediate, più intollerabili. È normale che gli uomini non accettino di soffrire e di veder soffrire.

La seconda obiezione è che i contadini descritti da Gorkij magari si annoiavano, nel senso che vivevano malissimo, ma almeno erano in vita. Dopo il passaggio di Stalin hanno smesso anche di annoiarsi. È sacrosanto. Ed è per questo che ho premesso di prescindere dagli esiti storici. Questi sogni si sono mutati quasi sempre in incubi, e ciò dipende molto dal fatto che le idee vengono in genere gestite, quando gli idealisti cadono, dai funzionari. E i funzionari ragionano in termini di “costi sostenibili”, riferendosi in questo caso a quelli umani, determinando il tasso di sostenibilità sulla base delle proprie convenienze, emergenze o paranoie politiche. Ed è altrettanto vero che l’aporia è comunque a monte, perché anche gli idealisti, se sono davvero tali e non solo degli sprovveduti, sanno benissimo che senza coercizione non si ottiene nulla (e che si ottiene poco anche con la coercizione). Si torna quindi daccapo: se per convincere qualcuno a prendere una medicina che potrebbe salvargli o migliorargli la vita devo dargli una mazzata in testa, col cinquanta per cento di probabilità di stenderlo, a cosa devo guardare? Ai cinquanta che posso salvare, o ai cinquanta che potrei liquidare?

La terza obiezione è: chi può arrogarsi il diritto di stabilire cosa è bene per gli altri, cosa debbono volere? Chiaramente, nessuno. Ma esistono delle condizioni minime per la coesistenza che risultano evidenti. Non è necessario ricorrere alle esemplificazioni paradossali, agli eventuali problemi di convivenza con antropofagi. Possiamo benissimo rimanere nella quotidianità per trovarne di altrettanto seri. Lo abbiamo già visto: di fronte a mogli massacrate, a figli seviziati, a gente che muore di fame nell’indifferenza di chi spreca, fino a che punto devo aspettare di vedere se funziona l’educazione? Devo continuare a provarci, e limitarmi nell’attesa a dare conforto morale alle vittime, o di fronte ad un primo insuccesso devo ricorrere al convincimento pesante?

Infine, ultima obiezione: non si può affrontare un argomento del genere in maniera così semplicistica. Per secoli, anzi, millenni, da Platone in giù, il problema è stato sviscerato da ogni lato: senza peraltro venirne a una. Appunto. La questione è così complessa, le variabili che entrano in gioco sono tante e tali che non esiste una risposta buona per qualsiasi situazione. A meno di interpretare alla lettera l’imperativo categorico kantiano, di applicare una regola universale che valga in quanto regola, e non per la sua maggiore o minore efficacia o bontà. È un principio bellissimo, dovrebbe essere il fondamento di ogni etica, privata o pubblica: ma dubito ci sia qualcuno in grado di metterlo in pratica. La realtà è che funziona se fai tutti i giorni il giro della piazza di Könisberg, non se vagabondi per le pianure che si stendono tra il Don e gli Urali, vedi la miseria materiale e morale che le appesta, senti il suo odore che impregna l’aria.

Voglio dire che quelli che pongo non sono problemi accademici, e neppure esercitazioni retoriche. Mi confronto con questi interrogativi da una vita e, come dicevo, ero convinto di aver trovato delle risposte argomentate e convincenti. Ma non è così, e basta una vicenda come quella di Gorkij a rimettere tutto in discussione. Va di moda, di questi tempi, sparare sugli utopisti, alla luce dei disastri che avrebbero combinati. Popper da un lato e il pensiero debole dall’altro hanno stilato in nome di un presunto realismo nuove liste di proscrizione, mettendo in guardia contro chi ama troppo l’Uomo e poco gli uomini. Ma quelli come Gorkij, dove li mettiamo? Amava talmente gli uomini, anche loro malgrado (quella che chiamava la difficile arte di Dickens), credeva talmente in loro, da farne il soggetto di una vera e propria “religione”. Non sopportava di vederne la mortificazione, l’umiliazione, il degrado assunti a condizione di vita. Ha creduto nella possibilità di cambiare quella situazione, e nell’urgenza di farlo. Ad ogni costo.

Cinico? Utopista? André Gorz ha scritto giustamente che “utopista oggi non è chi ritiene che la situazione debba essere cambiata, ma chi crede che possa continuare a reggere così com’è”. Non ci vuole molto a verificarlo. Sta incombendo sulle nostre teste una catastrofe ecologica e demografica rispetto alla quale non possiamo continuare a chiudere gli occhi. O interveniamo noi umani, e subito, o ci penserà la natura stessa, che ragiona per astuzie che non sono quelle di Hegel ma nemmeno quelle nostre. Qualsiasi intervento si programmi non sarà indolore, non può esserlo; ma ancor meno lo sarebbe quello della natura, che giustamente di noi se ne infischia. Dobbiamo assumerci delle responsabilità, e dovremmo possibilmente farlo tutti assieme, concordemente. Sarà possibile? I popoli emergenti, che hanno cominciato da pochissimi anni ad accedere a livelli di vita accettabili, e quelli che ancora oggi ne sono esclusi, vorranno accettare limitazioni? E noi, siamo pronti e disponibili a fare qualche passo indietro, senza che qualcuno ce lo imponga?

Come si vede, non ho proposte o soluzioni da avanzare: solo la domanda, la stessa che è stata formulata in ogni epoca, nelle forme e nelle occasioni più diverse, e alla quale la storia ha sempre dato risposte parziali, spesso purtroppo tragiche. Rimarrà tale, immagino, e non solo per quella manciata di anni che mi rimangono da vivere.

Ma questo non significa che non sia doveroso, e profondamente umano, porsela.

Jack London

È impossibile abbozzare una biografia di Jack London in poche pagine: non basterebbero un paio di volumi. E sarebbe anche inutile, perché (a differenza che per Gorkij) esistono diversi lavori, anche recenti, cui fare riferimento: ma soprattutto rimane quella colossale e stupenda autobiografia costituita dall’insieme della sua opera. Come ogni altro autore London ha scritto sempre di se stesso, ma a differenza dei più ha raccontato ciò che davvero ha vissuto, piuttosto che come avrebbe voluto vivere. Vale dunque la pena abbeverarsi direttamente a lui, anche se la lettura di London dà i migliori frutti prima dei quindici anni, quando ci indica cosa attenderci e cosa volere dalla vita. Dopo i sessanta al più ci consola di non aver avuto, né abbastanza fermamente voluto, ciò che ci aspettavamo.

Mi limito quindi alle note biografiche più significative, almeno in relazione agli argomenti che mi interessava trattare in questa sede: il vagabondaggio e il rapporto col mondo degli esclusi.

Maksim Gorkij perde il padre a cinque anni; London lo perde ancor prima di nascere. La madre, Flora Wellman, ragazza di buona famiglia, ribelle svitata e appassionata di occultismo, ha una relazione con il predicatore-filosofo-conferenziere ambulante William Henry Chaney, e quando gli rivela di essere incinta viene scaricata. Inscena un maldestro e poco convinto tentativo di suicidio, sparandosi alla testa e riuscendo a ferirsi solo superficialmente, ma ottiene comunque di finire in prima pagina sui giornali locali e di macchiare per sempre il nome dell’ex-amante. Il quale, tutto considerato, qualche ragione per defilarsi forse l’aveva.

London nasce quindi in qualche modo, e suo malgrado, già famoso. E praticamente orfano. Manterrà per tutta la vita il desiderio di incontrare il padre naturale, ma non potrà mai appagarlo per il rifiuto opposto tenacemente da quest’ultimo, anche quando a chiederglielo sarà uno scrittore ormai affermato e addirittura famoso. In compenso la sua vita sarà sin troppo condizionata dalla presenza della madre, perennemente ricattatoria e invadente dietro lo schermo della sua fragilità, capace di rovinare anche l’esistenza di quel brav’uomo che diverrà suo marito e darà il cognome a Jack.

Flora mette al mondo John Griffit Chaney (anche se non riconosciuto è registrato col nome del padre naturale) a San Francisco, nel 1876. Persa nelle sue fantasiste occultiste, e del tutto inadatta al ruolo materno, lo abbandona alle cure di una ex schiava nera, Jamie Prentiss, che rimarrà in effetti per lo scrittore la figura familiare di riferimento per tutta la vita, assieme alla sorellastra Eliza. Un anno dopo sposa John London, vedovo e padre di due bambine, che dà il proprio nome anche al piccolo (il quale lo adotterà per firmare le proprie opere) e che gli vorrà bene come a quanto pare solo un padre elettivo sa fare.

La famiglia si sposta spesso, per seguire le peripezie occupazionali di John ma anche per stare dietro alle bizzarre intraprese escogitate da Flora, che hanno come risultato una vita costantemente segnata dalla precarietà e dai debiti. John jr, il futuro Jack, dirà in seguito di non aver avuto infanzia, di ricordare soltanto una cronica povertà. Nulla di paragonabile alle sevizie e al clima di terrore nel quale cresce Gorkij; piuttosto, al contrario, una disattenzione che lo porta ad imparare molto presto ad arrangiarsi e lo cresce refrattario alle regole (più che un ribelle, che viola regole che conosce e non accetta, sarà sempre uno sregolato, uno che le regole nemmeno sa che esistano). È costretto a lasciare gli studi a dieci anni, malgrado sia uno studente brillante; rientrerà poi a più riprese nella scuola, fino a conseguire la licenza primaria, ma per ora aiuta la famiglia a sbarcare il lunario facendo un po’ di tutto, spazzando pavimenti nelle osterie o lucidando i ponti delle imbarcazioni nel porto di Oakland.

Proprio qui matura la più grande passione della sua vita, quella per il mare e la vela. Con i primi soldi guadagnati e non versati alla madre compra barche di quarta mano, vecchi catorci a stento in grado di galleggiare, e con quelli sfida le acque della baia di San Francisco, tutt’altro che tranquille. Comincia anche a frequentare un gruppo di disperati che vivono saccheggiando gli allevamenti di ostriche. Si trova subito a suo agio, e non tarda a mostrare di che pasta è fatto. È un temerario, costantemente alla ricerca di sfide, è robusto come un uomo e tosto quanto nessun altro.

Per contribuire in maniera più continuativa al bilancio familiare finisce a lavorare in una fabbrica di conserve alimentari, con turni mai inferiori alle dieci ore giornaliere. Regge qualche mese, poi il richiamo del mare e della sua natura la vincono: molla tutto, e ricorrendo ad un prestito della sua ex balia rileva un vecchio scafo e si mette in proprio, diventando il re dei razziatori di ostriche e svolgendo tutte quelle attività che una barca consente di fare e la legge no. Si associa con avanzi di galera dai grossi baffi, come Ragno, o dalla muscolatura erculea, come Nelson Sgraffio, e adotta dei predoni anche tutte le peggiori abitudini, dalle sbornie alle risse. È talmente abile che dopo un po’ viene assunto, come accade di regola in questi casi, dalle sue stesse vittime per esercitare la vigilanza sugli allevamenti e dare la caccia ai suoi ex compari: mansione che svolge con altrettanto entusiasmo. L’unica cosa che lo distingue in quel mondo è la passione per la lettura, vissuta con non minore determinazione, isolandosi appena gli è possibile nella sua cabina sul Ruzzle Dazzle con i libri presi in prestito dalla biblioteca.

L’occasione per coronare il suo sogno di navigatore arriva però con una spedizione di caccia alle foche nelle acque del Giappone e della Corea: a bordo di una goletta rimane in mare otto mesi e si guadagna sul ponte i galloni di timoniere. Ha diciassette anni: metà della paga la spende in sbornie colossali in ogni porto toccato.

Tornare alla normalità, dopo un’esperienza del genere, è decisamente duro. Ricomincia a lavorare a terra, in una fabbrica di iuta, per una paga da fame. È un periodo di grave depressione economica, conseguente una crisi finanziaria: una storia che si ripete ormai da oltre un secolo. Quando chiede un aumento gli ridono in faccia, e gli va ancora peggio quando passa a lavorare per la ferrovia urbana di Oackland: spala carbone per tredici ore al giorno, con un riposo di un giorno al mese e con un salario mensile di trenta dollari. Scopre anche che sta facendo il lavoro svolto in precedenza da due operai, e che uno di questi, licenziato, ha finito per suicidarsi. È la goccia.

Da questo momento Jack è, prima ancora di saperlo, un socialista: soprattutto è determinato a non farsi mai più schiavizzare dalla fatica. Questa volta invece che verso il mare si spinge all’interno del continente. La depressione ha fatto sorgere dei movimenti spontanei di disoccupati, uno dei quali, “l’esercito di Kelly”, dà inizio ad una marcia su Washington, attraversando l’intero continente sui treni merci, per chiedere una politica di investimenti nei lavori pubblici. A Jack non pare vero: si aggrega subito, ma la marcia la fa in gran parte per conto suo, inizialmente con un compagno d’infanzia, applicando tutti i trucchi degli “hobo” imparati nella giovanile scuola della strada. Si diverte un mondo a giocare a rimpiattino con il personale delle ferrovie, a mendicare, a mettere a frutto le sue arti di narratore e di faccia tosta. Quando si unisce al grosso dei disoccupati scopre che in realtà a molti del lavoro non interessa nulla: approfittano del passaggio loro concesso dalle società ferroviarie per farsi scarrozzare un po’ avanti e indietro. È quel che lui stesso è intenzionato a fare. Si improvvisa “avanguardia” del movimento, assieme a una decina di altri scavezzacollo come lui, e precede l’”esercito” nelle sue tappe organizzando la logistica: in pratica fa incetta dei viveri e dei beni di conforto che la popolazione offre spontaneamente, e poi ne fa commercio. Viene naturalmente buttato fuori e prosegue il viaggio in proprio, ritrovandosi prima a New York e poi nella zona dei grandi laghi. Qui è arrestato per vagabondaggio e trascorre un mese ai lavori forzati: riesce anche stavolta a limitare i danni, imboscandosi tra i sorveglianti. Appena fuori percorre da un capo all’altro il Canada, e rientra a San Francisco con un imbarco su un mercantile.

A questo punto decide di dare una svolta alla propria vita. Al ritorno dalla spedizione in Giappone aveva scritto un racconto nel quale veniva descritto un tifone oceanico: gli viene comprato per pochi dollari da una rivista. È il segno che aspettava: vuole lavorare con il cervello, anziché con le braccia. Per farlo deve darsi una preparazione un po’ più solida. Si riscrive a scuola per poter poi accedere all’Università, frequenta per qualche mese con compagni che sembrano i suoi figli, poi lascia, si prepara da solo, supera gli esami di accesso. Nel frattempo insiste a scrivere, senza però avere altri riscontri. E intanto a casa hanno nuovamente bisogno di lui. Ricomincia a lavorare, trova impiego in una lavanderia. Ma anche questa volta dura poco.

Alla fine dell’estate del 1896 viene scoperto l’oro nel Klondike. Jack non ha un attimo di esitazione. Si fa prestare i soldi dalla sorellastra, compra l’equipaggiamento e parte subito col cognato. È in Alaska nell’aprile successivo. L’avvicinamento a Dawson, il centro della regione aurifera, con tonnellate di viveri e attrezzi, è lentissimo. All’inizio dell’inverno successivo Jack e i suoi soci sono ancora lontani un centinaio di miglia. Trascorrono l’inverno in una capanna vicino al fiume Stewart, ed è uno dei momenti più belli, e senz’altro più tranquilli, della vita di London. Nella primavera successiva raggiungono Dawson, e all’inizio dell’estate Jack torna indietro. Non ha trovato l’oro, ma ha trovato una miniera di storie, quelle che gli sono state raccontate alla capanna nell’inverno da altri cercatori e dagli indiani e quelle che ha raccolto nelle taverne di Dawson, che si rivelerà inesauribile.

Mi fermo qui. Quel che accade dopo, i primi racconti pubblicati, poi i primi romanzi, poi il grande successo, e in mezzo l’esperienza di inviato di guerra nel conflitto russo-giapponese, l’immersione a Londra negli “abissi” dell’East End, due matrimoni, venti romanzi e centinaia di racconti pubblicati in quindici anni, milioni di dollari spesi ancor prima di essere guadagnati, sbornie e delusioni, è un tale caos da consigliare di tagliare corto. L’impressione che si ha ripercorrendo la vita di London, a parte una leggera labirintite per essere sbatacchiati da una situazione, da un’avventura, da un matrimonio, da un libro all’altro, è infatti quella di un uomo costantemente proteso a vivere prima che a capire cosa sta facendo, in costante ritardo e spesso in assenza di questa comprensione, perché non ha mai il tempo di fermarsi a riflettere, è sempre sotto pressione, i debiti che urgono fuori, le storie che urgono dentro, gli scrocconi e i parenti che lo assillano per spillargli denaro. È su una giostra, gli piace vivere così, facendosi girare la testa, e se anche volesse scendere non potrebbe. Per ora mi importava comunque fermarmi sul periodo e sull’esperienza di vagabondaggio di London. Del suo socialismo si parlerà più avanti.

Durante il breve e deludente soggiorno negli Stati Uniti (nel 1906) Gorkij non ebbe occasione di incontrare London. Jack stava in quel periodo dall’altra parte del continente, impegnato nella preparazione di un giro del mondo a vela. Probabilmente contava di incontrare il letterato-rivoluzionario russo più tardi; non poteva immaginare che il soggiorno di quest’ultimo sarebbe stato bruscamente interrotto da una espulsione.

Non so quanto i due si sarebbero piaciuti. Arrivavano da esperienze per molti aspetti simili, e questo, contrariamente a quanto si possa pensare, non sempre aiuta ad entrare in sintonia. Anche perché quelle esperienze le avevano vissute con uno spirito diverso.

L’americano dalle spalle larghe e dai ridenti occhi azzurri avrebbe benissimo potuto essere un protagonista dei racconti di Gorkij dieci anni prima: ma nel 1906, dopo il fallimento della prima rivoluzione, dopo i tanti compagni morti e quelli imprigionati, i delatori e gli apostati e il senso di frustrazione diffuso in tutto il movimento, per il romanziere russo il tempo dei vagabondi anarcoidi era ormai finito. Bisognava passare alla fase della consapevolezza e dell’organizzazione, e in questo campo era difficile trovare una persona meno adatta di Jack London. In più, e al di là delle comunque notevoli differenze di carattere e delle specifiche storie, c’erano fattori ambientali e culturali che necessariamente portavano a risultati letterari e ideologici molto dissimili.

Se London scrive infatti di un paese e in un paese nato per assicurare il massimo della libertà individuale, Gorkij dà voce ad un mondo nel quale il novanta per cento degli abitanti, a dispetto dell’emancipazione, vive una condizione semi-schiavile. Uno racconta esperienze che ha cercato, per un innato spirito di ribellione, l’altro di sofferenze che gli sono state imposte, per l’oggettiva miseria sia materiale che spirituale nella quale ha vissuto: uno di uomini dei quali ha volutamente condiviso la durezza, l’altro di una umanità degradata della quale ha subito l’ignoranza.

Per capire come i due vivano diversamente situazioni che sembrano analoghe e che sono pressoché contemporanee, confrontiamo i ruoli che i narratori assumono all’interno delle vicende di vagabondaggio e l’immagine che danno dei loro compagni di avventura, nonché la durata e l’intensità di quelle esperienze. Il vagabondaggio di Gorkij, che nell’Autobiografia è raccontato solo in parte, dura più di un decennio: per un lungo periodo è una vera e propria condizione di vita. Quello di London si esaurisce in realtà in una decina di mesi, anche se Jack sarà sempre un nomade, ed è un’avventura, quasi una vacanza. Da un lato abbiamo dunque i tempi lunghi delle cose maturate lentamente, che si incidono profondamente nell’animo, dall’altro i tempi frenetici di uno status di straordinaria libertà, da bruciarsi con la fiamma più intensa possibile. London infatti fissa quotidianamente le sue peripezie in un piccolo diario, che potrà essere trascritto quasi senza correzioni ne La strada (1907), una delle sue opere più belle: e questo implica che lo scrittore vada in cerca delle sue esperienze, anziché subirle, e le finalizzi e le viva da subito in un’ottica letteraria. Mentre Gorkij è impegnato a sopravvivere stentatamente, a distillare da ogni incontro qualche nutrimento per l’anima, London vive ingordamente, consuma la vita all’insegna della quantità e della rapidità. “Il maggior fascino della vita da vagabondo è l’assenza totale di monotonia. – scrive – Nella terra degli hobo l’aspetto della vita è proteiforme – una cangiante fantasmagoria, dove succede l’impossibile e l’inaspettato salta fuori dai cespugli a ogni curva. L’hobo non sa mai cosa accadrà il momento dopo; perciò vive solo nel momento presente. Ha appreso la vanità dello sforzo, e conosce il gusto di lasciarsi andare alla deriva secondo i capricci del Caso”.

Insomma, abbiamo l’antica lentezza russa, che riassume quella di tutto il mondo preindustriale, contrapposta alla moderna velocità americana, che riduce all’osso i tempi degli spostamenti, uniformando agli occhi del viaggiatore anche gli spazi e cancellando le differenze. E i modi della narrazione corrispondono. In entrambi i casi l’autore c’è dentro, ma non occupa la stessa posizione e porzione del quadro. Nel racconto “Il ghiaccio si muove” Gorkij si rappresenta quindicenne, nel ruolo di sorvegliante ai lavori in un cantiere fluviale. È intimidito da quegli uomini tutti più vecchi di lui, che approfittano della sua inesperienza per prendersela comoda, e allo stesso tempo è affascinato dal caposquadra, che di fronte agli altri lo motteggia, ma privatamente gli dimostra una sincera amicizia e gli indica i trucchi del mestiere. La stessa attitudine mantiene, come garzone di fornaio, nei confronti di Konovalov. Si fa accettare per il rispetto che mostra e perché la sua cultura mette in rispetto gli altri. Rimane comunque sempre timidamente ai margini della rappresentazione.

London, al contrario, ne occupa costantemente il centro. È lui il motore, ed entra subito in competizione col mondo che lo circonda e con gli stessi suoi compagni di strada: non gli basta far parte del gruppo, vuole immediatamente diventarne il capo. Si conquista la stima perché lavora di più, beve di più, rischia di più di tutti gli altri. Gorkij guarda a quel mondo con rispetto, London lo vuole ai suoi piedi. È la sua interpretazione superomistica del darwinismo a dettarne il comportamento. In questa ottica anche i suoi vagabondi non possono essere dei disperati, dei poveracci ricacciati ai margini: sono uomini liberi e coraggiosi, che quando si ubriacano diventano malinconici, ma non si abbrutiscono, se mendicano lo fanno con dignità, se rubano dimostrano abilità ed astuzia; che usano ogni trucco per sfuggire alla polizia o al personale ferroviario, ma non rinunciano al proprio orgoglio. Per London il mondo è una jungla, o meglio ancora un ring, e se vuoi sopravvivere devi essere il più forte: ma almeno ti viene data l’opportunità di combattere, e il combattimento ha le sue regole. Per Gorkij il mondo è una tragedia, nella quale alla massa non è riservato neppure il ruolo di coro: e per tornare protagonisti gli esclusi devono imparare a cooperare, non a combattersi e dilaniarsi reciprocamente sul fondo dell’abisso.

Il modello di vagabondo di London è come abbiamo visto l’hobo. Non so se esista davvero una “cultura” hobo, o se è soltanto una delle tante mitologie americane create dal cinema, dalla letteratura e dalla musica per coprire il vuoto di storia alle spalle: certo esiste, per un periodo che va dalla seconda metà dell’Ottocento a tutta la prima del Novecento, un andirivieni di sbandati che si muovono per il continente, senza una dimora e senza un’occupazione stabile, seguendo la direttrice est-ovest delle grandi linee ferroviarie o quella nord-sud dei lavori agricoli stagionali e dei raccolti. L’immagine odierna, quella per intenderci diffusa fuori dagli States soprattutto dalle canzoni di Woody Gouthrie e idealizzata dai film “indipendenti” degli anni settanta, si riferisce a quegli anni, ma è comunque un prodotto mediatico recente. All’epoca di London la percezione era ben diversa. Il fenomeno stava suscitando un vero e proprio allarme sociale: l’opinione pubblica lo guardava con diffidenza e la stampa soffiava sul fuoco, cogliendovi i sintomi di una “disgregazione morale” della nazione. L’hobo in sostanza veniva considerato né più né meno alla stregua di un criminale, tanto che prima della fine dell’Ottocento in diversi stati il vagabondaggio era già punito come reato e alla polizia era lasciata un’ampia discrezionalità per contrastarlo. Abbiamo visto come London stesso abbia fatto le spese di questa legislazione. Qualche anno dopo, quando, invitato a tenere una conferenza su Kipling dall’associazione della stampa femminile di San Francisco, propina alle signore convenute un sermone sui vagabondi e una critica alla loro emarginazione sociale, per poco non viene linciato dalle giornaliste.

Il tratto distintivo degli hobo, per London, ciò che li differenzia dalla moltitudine di altri vagabondi e disoccupati che girano per l’America, è la volontarietà della loro scelta: gli hobo vivono la loro condizione nomade non come una costrizione o una sventura, ma come l’unica possibile risposta al desiderio di libertà e di avventura. Sono quelli che nell’esercito di Kelly giocano da battitori liberi, “avanguardie coscienti” non della rivoluzione ma della riappropriazione individuale della vita. In una società socialista non farebbero molta strada e non darebbero un gran contributo: ma questa è solo una delle tante contraddizioni del pensiero di London che andranno poi spiegate.

Un’altra contraddizione sta nel fatto che, pur dovendo la sua fortuna al racconto della lotta dell’uomo contro la natura, nella narrazione autobiografica London riserva a quest’ultima un’attenzione davvero marginale. Eppure è erede di una scuola letteraria e di pensiero che nei confronti della natura ha sviluppato un vero culto. Da Thoreau a John Muir, attraverso il naturalismo misticheggiante di Whitman e di Emerson, c’è tutta una fila di gente che se ne esce a vagabondare per i boschi. Lo stesso vale per le arti: la scuola dello Hudson e le grandi tele di Bierstadt, di Moran e di Cole rivelano e consacrano i paesaggi delle Montagne Rocciose, di Yosemite, dei bacini fluviali. Si tratta di un’attenzione decisamente diversa da quella che caratterizzerà la cultura nordeuropea a cavallo del Novecento: meno intimistica, improntata anzi alla teatralità, alla costruzione mediatica di una mitologia, a cogliere del rapporto con la natura essenzialmente l’aspetto ludico. Un’attenzione che sfocerà nella promozione e nella fruizione turistica dei parchi. Niente di tutto questo compare comunque nelle pagine de “La strada”. Sono talmente intensi gli incontri, le avventure, gli spostamenti, da non lasciare spazio ad alcun momento contemplativo. Che stia attraversando la Sierra, mezzo congelato, o le foreste del nord-est, o i deserti piatti dell’Arizona, lo sguardo dello scrittore è sempre quello di chi viaggia su un treno, magari in questo caso sulla piattaforma aperta di un vagone merci: veloce e superficiale. C’è anche il fatto però che per London la natura non è il grembo materno cui tornare e nel quale rifugiarsi. È natura darwiniana, fa la sua parte, come si vede in Accendere un fuoco e in tutti i racconti del Klondike, ma anche in quelli di mare. Non è un nemico, ma un avversario da sfidare: l’avversario che ti consente di provarti, di scoprire se sei un uomo, e che non fa sconti a nessuno. Va affrontata, non domata: la vittoria è già la sopravvivenza.

Nel corso del vagabondaggio London non si confronta dunque con la natura, quanto piuttosto con gli uomini. Nemmeno della sua specie ha una visione idilliaca. Non crede affatto nel “buon selvaggio”. Applicando un integralismo evoluzionistico spenceriano, vede gli uomini come avversari nella gara per la selezione (la vita è come una corsa di cavalli, scrive): sono degli antagonisti, e come tali vanno inquadrati. Magari, dopo, si può bere assieme, ma nel rapporto c’è sempre chi vince e chi perde. “Un gruppo di tizi si stavano tuffando da uno dei piloni. Mi spogliai e mi buttai anch’io. Quando uscii per rivestirmi scoprii di essere stato derubato […] Era proprio una banda di duri che nuotava là. Li inquadrai e ritenni che era meglio non protestare. Così elemosinai loro l’occorrente, e avrei potuto giurare che era una delle mie cartine quella in cui rollai il tabacco”. È la legge della struggle for life, che vale al di là di ogni considerazione etica.

In questo senso alcuni episodi, ne “La strada”, risultano addirittura agghiaccianti. In un campo di zingari un bambino e la madre vengono frustati a sangue, in presenza dello scrittore: “Per tutto il tempo i quattro uomini stettero sdraiati accanto a me a guardare immobili. Neanch’io mi mossi, e lo dico senza vergogna; anche se la mia ragione era costretta a una dura lotta contro il mio impulso naturale ad alzarmi e intromettermi. Conoscevo la vita. Di che utilità sarebbe stato per la donna, o per me, che mi facessi colpire a morte dai cinque uomini là sulla riva del Susquehanna? […] Non fosse stato per quei quattro vicini a me nell’erba, mi sarei scagliato ben volentieri contro l’uomo con la frusta.[…] Oh, credetemi, ho avuto la mia parte di sofferenza. Avevo già visto più volte donne picchiate, ma non avevo mai visto un pestaggio come questo. […] Ero madido di sudore, e respiravo forte, stringendo i ciuffi d’erba con le mani fino a strapparla dalle radici. E per tutto il tempo la mia ragione continuava a sussurrarmi, «Scemo! Scemo!». Quella sferzata sulla faccia mi vinse. Stavo per alzarmi in piedi; ma la mano dell’uomo accanto a me si posò sulla mia spalla e mi spinse giù.

Calma, socio, calma – mi intimò a bassa voce.

Sono pagine che avrebbe potuto benissimo scrivere Gorkij. Ma il tono sarebbe stato diverso. Per Gorkij quella era purtroppo la normalità della vita contadina, quella che tanto lo respingeva e lo indignava, e dalla quale non vedeva via d’uscita se non in una generale palingenesi culturale, prima ancora che rivoluzionaria. Per London è un episodio, che gli è rimasto impresso proprio per la sua eccezionalità, e per il rimorso di non aver potuto o saputo intervenire. Ma alla fine lo annota così: “Beh, e allora? Era una pagina della vita, ecco tutto, e ci sono molte pagine peggiori, di gran lunga peggiori, che ho visto. […] L’uomo è l’unico animale che maltratta le femmine della sua specie. Il cane conserva ancora l’istinto selvaggio in questo senso, mentre l’uomo ha perso la maggior parte dei suoi istinti selvatici – per lo meno, la maggior parte di quelli buoni”. (Gorkij qui sarebbe inorridito) E conclude: “Pagine peggiori di quelle che ho descritto? Leggetevi i rapporti sul lavoro minorile negli Stati Uniti – est, ovest, nord e sud, non importa dove – e sappiate che tutti noi, profittatori che non siamo altro, siamo i compositori e stampatori di pagine ben peggiori di quella singola violenza contro una donna sul Susquehanna”.

Se fosse nato in America Gorkij si sarebbe magari chiamato Martin Eden, o Ernest Everhard, e avrebbe fatto il contrabbandiere, il razziatore di perle, il pugile o il cercatore d’oro. In Russia le alternative erano meno romantiche: la “noia fredda e pesante spirava per ogni dove”. Per questo, malgrado l’apparente somiglianza delle loro storie, i due hanno poco in comune. Certo, entrambi si sono affermati a dispetto di condizioni di partenza sfavorevoli, si sono guadagnati a suon di pugni, come avrebbe detto London, il loro posto al sole. Ed entrambi hanno maturato quella disposizione aperta, ma esigente, di chi ha dimostrato a sé e agli altri che ci si può fare, e pretende che tutti almeno ci provino. In London però questo atteggiamento si traduce come abbiamo visto in una interpretazione darwiniana della vita, nell’accettazione della regola della lotta e della sopravvivenza del più adatto, mentre in Gorkij sfocia in un socialismo tra l’“evangelico” e l’“aristocratico”. E a proposito di quest’ultimo termine: entrambi in effetti parlano di “aristocrazie operaie”. Per Gorkij però costituirebbero l’intelligencija “tecnica”, illuminata, per London al contrario possono diventare uno strumento del dispotismo capitalistico. Ne Il tallone di ferro dice: “Da quell’isolamento forzato si formò naturalmente una casta: gli aderenti ai sindacati privilegiati diventarono gli aristocratici del lavoro e vissero separati dagli altri operai: meglio alloggiati, vestiti e nutriti ebbero la loro parte nella spartizione del bottino”.

E gli altri? Gli altri non li incontra nel corso del suo vagabondaggio. Ne incrocia qualcuno, ma il fatto stesso di trovarlo sulla strada ne fa già qualcosa di diverso. Gli altri, gli ultimi, quelli che nemmeno possono riconoscersi nella casta più bassa dei lavoratori, va a cercarli altrove, quando ormai la sua lotta per affrancarsi dal lavoro “schiavile” sembra vinta, e lascia il posto all’impegno morale contratto nei confronti di quel mondo.

Nel 1902 London, ormai famoso e già invischiato nel vortice di debiti e guadagni che caratterizzerà tutta la sua esistenza, sbarca a Londra. È di passaggio: gli è stato commissionato un reportage sulla situazione sudafricana, in piena guerra anglo-boera. Appena sbarcato trova però che la rivista che gli aveva affidato l’incarico ha annullato l’impegno (peraltro, abbuonandogli il lauto anticipo che il romanziere ha naturalmente già dissipato). London si trova quasi al verde, ma è deciso a far fruttare comunque, a modo suo, il viaggio. Compra abiti vecchi, affitta un sudicio alloggio e si immerge nella vita dell’East End, il quartiere più degradato della Londra di inizio secolo, dove non ha difficoltà a farsi passare per un marinaio appena sbarcato.

La sua è una vera e propria discesa agli inferi. L’idea è quella di un’indagine dal di dentro su quella parte della popolazione londinese che vive una condizione sotterranea, quasi invisibile, che sfugge allo sguardo non solo dei visitatori stranieri, ma della gran parte del paese stesso, e delle classi dominanti soprattutto. È il “popolo dell’abisso”, quello che si sviluppa a margine e come prodotto di scarto del nuovo modello produttivo e sociale, dell’industria capitalistica: disoccupati, invalidi, ladri, ubriaconi, prostitute. Sono i forzati e le vittime del lavoro. La sua indagine si basa su criteri molto semplici: “Usavo dei semplici criteri di valutazione. Ciò che produceva, più vita più salute fisica e spirituale, era bene: ciò che riduceva la vita, feriva, indeboliva e distorceva la vita era male”. Su questa base, la vita dell’East End non è nemmeno vita. La gran parte delle persone che incontra e che frequenta vive per lavorare, in pratica non fa altro. Non guadagna nemmeno a sufficienza per permettersi un alloggio appena decoroso, e appena non è più in grado di reggere i ritmi, per malattia, per invalidità, per vecchiaia, viene lasciata a se stessa, in una lunga agonia. “L’abisso di Londra è un vero macello: non esiste spettacolo più triste. Il colore della vita è grigio e monotono, tutto è sconfortante, lurido e senza speranza … Il vento breve e untuoso trascina con sé odori strani: l’abisso esala un’atmosfera stupefacente di torpore che avvolge la gente la rende apatica, insensibile […]”. È colpito soprattutto dal degrado, anche fisico, che mina le giovani generazioni: “Anno dopo anno dalle campagne dell’Inghilterra si riversa a fiotti un flutto di vita giovane e vigorosa che si spegne alla terza generazione”.

Rimane a Londra per tre mesi, durante i quali si documenta, intervista, frequenta ospizi, dorme all’addiaccio, e scrive: torna in patria col libro già pronto. È un reportage di taglio molto moderno: è mosso da suggestioni che arrivano probabilmente da Dickens e dagli altri autori del secondo Ottocento che hanno narrato gli orrori dell’industrialismo, ma poi viaggia in maniera del tutto nuova, assolutamente anticonvenzionale rispetto agli standard dell’epoca. Farà scuola, e saranno altri grandi autori, come Orwell, ad intraprendere quella strada.

La scelta dell’Inghilterra non è priva di significato. Da un lato appunto esiste già al riguardo una letteratura dell’industrialismo al negativo, dall’altro c’è quell’ambiguo rapporto con la patria originaria che si coglie anche in autori che raccontano ben altre realtà sociali, come Henry James: sudditanza, da un lato, e voglia di liberarsene una volta per tutte dall’altro. Non manca di sottolineare il differente livello di civiltà, appena possibile: “Una volta, quando ero detenuto per vagabondaggio in una prigione della California, mi è stato servito da mangiare e da bere assai meglio di quel che non riceva, nei suoi caffè, l’operaio di Londra: come manovale, sempre in America, per dodici pence ho gustato delle colazioni di cui il manovale inglese non ha la minima idea […]”. Avrebbe comunque potuto benissimo andare a Chicago per trovare una realtà simile, quella realtà che tre anni più tardi verrà descritta così da Gorkij ne Le città del diavolo giallo: “Neppure un’ombra di bellezza sfiora i bianchi edifici mostruosi. Tutto è messo a nudo, svelato dall’apatico splendore della luce […] Ogni edificio sta là come un ebete […]”.

È comunque un reportage: vale a dire la testimonianza di chi si cala per qualche mese nell’abisso, munito però di corda per assicurarsi la risalita. Durante tutto il periodo London si riserva una camera presso un investigatore privato nella quale rifugiarsi ogni tanto per ripulirsi, riposarsi, disintossicarsi dalla miseria respirata quotidianamente, e scrivere. Conserva uno spazio suo, che gli ricorda che fuori esiste un altro mondo. Ciò non toglie valore alla testimonianza, certamente: e se c’è uno in grado di creare un rapporto con il popolo dell’abisso, quello è proprio London. Ma se confrontata con quella di Gorkij l’esperienza risulta ben diversa. Gorkij è uno che nell’abisso, che lui chiama la palude, ci vive, e cerca di uscirne. Questo spiega la differenza dello sguardo. Anche la realtà che racconta è diversa, perché parla di un popolo che nell’abisso c’è sempre stato confinato, da un modello sociale e produttivo arcaico ed “asiatico”, i contadini russi. Uno parla comunque di individui, l’altro di masse. E se pure entrambi vedono l’unica possibilità di riscatto in una rivoluzione, quando usano questo termine hanno in mente cose ben diverse. Gorkij lo abbiamo già visto: ”Siamo arrivati al momento in cui il nostro popolo deve lavarsi, sbarazzarsi del fango della vita quotidiana accumulato nei secoli, schiacciare la sua pigrizia slava, rivedere tutte le sue abitudini e i suoi usi […]”. La rivoluzione è un cambiamento totale di mentalità che deve avvenire partendo dal basso: la classe intellettuale può promuoverlo, quella politica deve agevolarlo e dargli uno sbocco, ma il resto implica una responsabilizzazione in proprio da parte degli oppressi. Occorre rivoltarsi, ma non solo contro il potere, anche e prima ancora contro la propria acquiescenza al ruolo di vittime.

Per London le cose sono molto più semplici e schematiche. Il popolo degli abissi che egli racconta non sarebbe mai in grado di auto-emanciparsi: è quella porzione di umanità che ne Il tallone di ferro viene definita come schiava, che ha rinunciato a ogni dignità e speranza e che si ribellerà, in maniera assolutamente disorganizzata e istintiva, solo in un moto di pura sopravvivenza fisica. La rivoluzione consapevole è cosa per pochi.

Un raffronto significativo è possibile anche con Senza un soldo a Parigi e a Londra. Il libro di Orwell è di trent’anni dopo (1933). È molto probabile che abbia tratto ispirazione da Il popolo degli abissi, anche se poi ha marciato per conto proprio. In comune c’è il fatto che entrambi non sono né romanzi né saggi. Orwell descrive esperienze vissute personalmente nelle due maggiori capitali europee: il soggiorno in una squallida pensione parigina e un periodo di vero e proprio vagabondaggio per i quartieri periferici di Londra. Sono esperienze che non necessitano di essere sublimate nella narrativa, né di essere commentate. Vengono trascritte nude e crude. E qui c’è già una prima differenza, perché London per obblighi di committenza realizza una sorta di reportage e deve documentarlo con statistiche sui salari, sul regime alimentare dei poveri, sui decessi negli ospizi, sul costo della vita, sull’affollamento delle abitazioni, e trae dati da studi ed inchieste altrui, mentre Senza un soldo a Parigi e a Londra racconta la “società del sottosuolo” semplicemente attraverso la riproposizione spietata delle sensazioni primarie, odori sgradevoli, viste ripugnanti di corpi coperti di piaghe, sporcizia, parassiti, cicche raccolte per terra. Orwell non si lancia in alcuna denuncia, non esercita alcuna critica dell’assetto sociale. Si limita a prendere atto che intere fasce sociali vivono ai margini, letteralmente e metaforicamente, della luccicante civiltà industriale, che sono escluse non solo dal benessere esibito nelle vetrine dei centri, ma da ogni parvenza di vita dignitosa: e che in mezzo a questo squallore non c’è posto per sentimenti che vadano oltre l’istinto di pura sopravvivenza, per l’amicizia, per l’amore, per la speranza, e neppure per la volontà di cambiare. Orwell diagnostica, attraverso la semplice enumerazione dei sintomi, la malattia vergognosa che la società del benessere porta sul proprio corpo, e che si rifiuta o finge di non vedere.

La dichiarazione finale: “Non penserò mai più che tutti i vagabondi siano furfanti ubriaconi, non mi aspetterò gratitudine da un mendicante quando gli faccio l’elemosina, non mi sorprenderò se i disoccupati mancano di energia, non aderirò all’Esercito della salvezza, non impegnerò i miei abiti, non rifiuterò un volantino, non gusterò un pranzo in un ristorante di lusso. Questo tanto per cominciare” suona molto diversa da quella che London fa ne “La strada”: “Cominciai a pensare che sarei stato costretto ad andare dai poveri in canna per avere un po’ di cibo. Quelli poveri sul serio costituiscono l’ultima risorsa sicura del vagabondo affamato. Si può sempre contare su chi è veramente povero. Non cacciano mai via gli affamati. Ogni tanto, in giro per gli Stati Uniti, mi sono visto rifiutare cibo dalla casa grande sulla collina; e ho sempre ricevuto cibo dalla piccola baracca giù vicino al torrente o alla palude, con le finestre rotte tappate da stracci e con la madre dalla faccia stanca, rotta di fatica. Oh, voi mercanti di carità! Andate a imparare dai poveri, perché solo i poveri sono davvero caritatevoli. Loro non dànno e non rifiutano del loro superfluo. Dànno, senza rifiutare mai, ciò di cui hanno bisogno per sé, e molto spesso da ciò di cui hanno terribilmente bisogno. Un osso al cane non è carità. Carità è dividere l’osso col cane quando tu sei affamato proprio quanto il cane”. Che è una bella massima, molto francescana, ma difficilmente applicabile ai poveri che Orwell ha visto, quelli che anche Gorkij ha conosciuto. Non i poveri quali si vorrebbe che fossero, ma quali effettivamente sono, nella totalità morale e spirituale della loro miseria.

London entra nel Socialist Labour Party nel 1896 e la polizia lo festeggia arrestandolo immediatamente per un comizio non autorizzato. Un opuscolo del 1903, Come sono diventato socialista racconta dettagliatamente i motivi di questa adesione. La sua militanza si concretizza in una miriade di conferenze e dibattiti tenuti in ogni parte del paese per vent’anni, sempre col proposito di spiazzare e sbalordire ascoltatori e interlocutori, e deciso ad imporre gli argomenti che gli interessano anche quando l’uditorio non è composto da militanti socialisti e da operai.(è ciò che accade, ad esempio, quando è invitato a parlare all’Università di Berkley). Ad un certo punto viene persino accolto nei “salotti buoni” proprio per la veemenza e il fascino delle sue tirate propagandistiche, che suscitano rumore e indignazione, ma garantiscono lo spettacolo: esattamente come avviene oggi nei talk televisivi.

La militanza attraversa anche l’immensa produzione scritta, non soltanto nei saggi a tematica politica e sociale (da Guerra di classe del 1905 a Rivoluzione, del 1910), ma anche nei romanzi e nei racconti. Alcuni, come Il tallone di ferro (1907), Il sogno di Debs (1909) o I favoriti di Mida (1909), nel quale ipotizza una società segreta che colpisce i magnati della finanza e dell’industria, qualcosa che preconizza sinistramente le Brigate Rosse. Ma anche Martin Eden (1909) Radiosa Aurora, La forza dei forti (2014) e lo stesso La strada in fondo trattano in maniera diversa lo stesso tema.

Con La madre di Gorkij e L’origine della famiglia e dello stato di Engels, Il tallone di ferro rimarrà sino a tutti gli anni cinquanta del secolo scorso una delle letture d’obbligo per i giovani militanti delle sinistre di tutto il mondo. Non è un gran romanzo, ma tutta la prima parte è una sorta di Bignami della teoria marxista, esposta senza badare troppo alle sottigliezze.

Ma che marxista è London? Certamente non è un marxista da salotto, come sono in effetti molti suoi colleghi intellettuali americani dell’epoca, e neppure uno che abbia orecchiato solo qualche briandello di teoria. È certo un marxista sui generis, come lo era Gorkij, un po’ per le esperienze che lo hanno formato, un po’ per il carattere e un po’ per i diversi riferimenti ideologici che in lui si mescolano e spesso confliggono. Nel suo disordinato bagaglio di letture ci sono soprattutto quattro maestri: Marx, Darwin, nella versione di Thomas Huxley, Nietzche e Spencer. Il suo darwinismo sociale viene da quest’ultimo, e si risolve in una sulfurea combinazione di marxismo e nietzchianesimo. Non è l’unico, all’epoca: la stessa strada è percorsa anche in Europa da molti socialisti rivoluzionari, spesso con esiti decisamente più sorprendenti. Alla base della sua concezione c’è l’analisi rigorosamente marxiana delle condizioni di sfruttamento e di alienazione create dal capitalismo più feroce: partendo da questa si lancia in una critica della socialdemocrazia, che accusa di venire a patti col capitalismo e di addormentare il proletariato con rivendicazioni minime di sopravvivenza, e dalla critica fa conseguire la necessità di una azione rivoluzionaria. Naturalmente, quest’ultima scatenerà la reazione della borghesia, quasi certamente una repressione spietata. Il trionfo della rivoluzione, anche se storicamente ineluttabile, non è proprio dietro l’angolo, e sarà tutt’altro che incruento.

La singolarità di London, rispetto ai social-rivoluzionari europei, sta proprio nella visione pessimistica dell’immediato futuro. Ne Il tallone di ferro al tentativo rivoluzionario represso in un bagno di sangue segue una dittatura del capitale destinata a durare secoli: è già la storia, in una versione dilatata, delle vicende di gran parte dell’Europa tra le due guerre. Questa fosca previsione, in fondo assai più lucida delle molte che circolano nella sinistra europea agli inizi del ‘900, discende come si diceva dalla difficoltà di far convivere una idealità superomistica, che condurrebbe all’individualismo, con la concezione di un progresso comunque inevitabile, e legato alla lotta di classe, che impone invece di ragionare in termini di azione collettiva. In pratica London persegue una improbabile fusione della storia “umana”, il cui motore è la lotta di classe, e della storia “naturale”, che procede all’insegna della sopravvivenza del più adatto attraverso la contrapposizione delle specie (col rischio anche di una lettura razzista) e degli individui all’interno delle specie. Questo origina le contraddizioni (in verità più apparenti che reali) che lo hanno esposto in vita a critiche da destra e da sinistra, soprattutto da parte di chi gli rinfacciava anche i suoi guadagni, e quindi di essere venuto a patti col nemico, e che oggi induce molti a considerarlo un socialista da salotto, ipocrita, mosso da smania di successo e fondamentalmente razzista.

Le cose sono a mio giudizio molto più semplici. London è certamente contradditorio e confuso, ma non certo per ipocrisia. La sua storia stessa, le esperienze di sfruttamento che ha personalmente vissuto, lo portano in due direzioni diverse. Vede il male, capisce che nessuno è in grado di sconfiggerlo da solo, e che quindi è necessaria la diffusione di una coscienza proletaria e l’organizzazione del proletariato. Ma conosce anche abbastanza gli uomini per sapere che poi a muovere il tutto debbono essere quelli più decisi, più determinati, che hanno il diritto e anzi il dovere di affermarsi. È una posizione molto pericolosa, ma non è frutto di confusione mentale: tanto che all’epoca sua era condivisa da molti, alcuni dei quali, che ben conosciamo, l’hanno poi tradotta anche in prassi politica. Nei suoi romanzi i superuomini in realtà alla fine sono sconfitti (è il caso de Il lupo dei mari), ma non c’è dubbio che siano loro i protagonisti. L’errore che compiono è secondo London quello di perseguire un superomismo individualistico, anziché mettere la loro eccezionalità al servizio delle masse (il che, a dire il vero, riesce un po’ complicato da pensare). La soluzione ideale è quella di una lotta individuale intrapresa in nome della causa rivoluzionaria, cosa che già di per sé centuplica le forze e produce autentici miracoli (una delle sue più belle storie di boxe, Il messicano, racconta proprio questo).

Nel 1916, pochi mesi prima di morire, London lascia il Socialist Labour Party. Se ne va “da sinistra”, si direbbe oggi, rinfacciando al partito una svolta “riformista”, un patteggiamento col capitale. In realtà è stanco dell’attività di conferenziere e di dover continuare a pagare lo scotto della propria popolarità e del proprio successo ad un sacco di scrocconi. Sulla decisione pesano, oltre alle sue traversie domestiche ed economiche, aggravate dagli stravizi, le vicende della costruzione dello Snark, la barca che avrebbe dovuto portarlo per sette anni attorno al mondo e che dopo il primo è già da rottamare, e della “Tana del Lupo”, il ranch modello andato drammaticamente in fiamme dopo essere costato un patrimonio: ma lo ha soprattutto deluso l’avere finalmente preso coscienza che per un anni un mucchio di gente, dai contadini del suo ranch ai muratori e a tutta la ciurma che stava mantenendo (ad un certo punto dà lavoro a circa cento persone, il che significa mantenerne quasi cinquecento) si erano allegramente approfittati di lui.

London paga è sindrome di chi ha fatto fortuna, dopo essere stato molto povero. Le reazioni possono essere di due tipi: c’è chi si vergogna di essere stato povero (i più) e chi si vergogna di essere diventato ricco. Questi due atteggiamenti a loro volta determinano attitudini diverse nei confronti di chi povero lo è rimasto: di rifiuto infastidito o di più o meno forzata benevolenza. E di questa approfittano normalmente gli scrocconi, quelli che giocano sul senso di colpa. Nel caso di London è naturalmente la militanza socialista a creare contraddizione e a farlo sentire sempre un po’ a disagio. Quasi a farsi perdonare il successo apre la sua casa a tutti i vagabondi e i profittatori, non nega un prestito a chiunque venga a bussare, sapendo perfettamente che andrà perduto, continua ad elargire sovvenzioni ai giornali e ai circoli socialisti, anche quando è in realtà subissato dai debiti. In London c’è in fondo lo spirito degli allegri compari di Pian della Tortilla, piuttosto che il senso di un’equa condivisione.

Il fatto è che London, a dispetto di quanto parrebbe indirizzare in senso opposto, è un socialista di testa prima e più che di cuore. Qui il confronto con Gorkij torna più che mai utile. Come abbiamo visto Gorkij prova una profonda compassione per i suoi simili. Diventa socialista non per aver letto Plechanov, ma per aver visto la sua gente degradata, abbrutita dalla mancanza di prospettive. Non è lo sfruttamento il primo problema di Gorkij, quanto piuttosto l’avvilimento prodotto dalla mancanza di cultura. Per questo la rivoluzione non può essere programmata e organizzata dall’alto, ma deve crescere dentro i singoli individui. Magari, soprattutto nell’ultimo periodo, pensa che gli individui debbano essere molto aiutati a crescere, in qualche caso anche forzati: ma resta il fatto che senza il risveglio della coscienza individuale in ciascuno, e non in pochi eletti, la rivoluzione non ha senso.

London invece non prova compassione. È solidale, senz’altro, con gli sfruttati, ma ritiene che la storia proceda secondo le leggi di natura, e le leggi di natura sono quelle evoluzionistiche nella interpretazione spenceriana: sopravvive il più adatto, gli altri sono i vinti, gli sconfitti. Il suo socialismo è semplicemente una traduzione sul piano collettivo di queste leggi, per cui il conflitto anziché individuale diventa di classe. Quando però gli uomini vengono visti non nella loro individualità, ma nella loro appartenenza ad un insieme, l’individuo scompare. Diventa davvero massa. È sufficiente leggere la parte finale de “Il tallone di ferro” per rendersene conto. Per decine di pagine viene raccontato un massacro, la terrificante repressione da parte delle milizie al servizio del capitale contro la “comune di Chicago” e il proletariato urbano. Montagne di cadaveri, corpi straziati, gli schiavi che si ribellano gettandosi quasi inermi contro le mitragliatrici e sono poco alla volta ricacciati verso il lago, dove chi ancora non è stato giustiziato andrà a morire. Ma non viene trasmessa alcuna angoscia: c’è solo una macabra contabilità, che dovrebbe offrire un minimo di consolazione: anche gli schiavi, quando riescono a prevalere su gruppi isolati di miliziani, non fanno prigionieri. I conti in qualche caso vanno in pari. Anche la figura di Ernesto, la “bestia bionda”, è quella di un socialista teoricamente ferratissimo, con eccezionali doti di organizzatore e capacità argomentative, che strapazza nei dibattiti qualsiasi interlocutore, siano i rappresentanti della chiesa o quella delle classi piccolo imprenditoriali che vogliono tornare ad una economia pre-capitalistica: ma è una figura freddissima, sembra una sintesi di Lenin e di Trotskij. Credo che Gorkij vi avrebbe facilmente identificato il suo rivoluzionario teorico.

Torna il discorso già fatto rispetto al popolo dell’abisso: quello di cui parla London è uno scandalo sociale, mentre Gorkij parla di uno scandalo umano.

La conferma arriva dall’altro testo sacro del socialismo londoniano, da “Martin Eden”. Martin fa esattamente il percorso che London ha fatto, e che in qualche modo è stato anche quello di Gorkij e di Hamsun: è un semplice marinaio che, innamorato di una ragazza appartenente ad un ceto sociale più alto, si sottopone ad un vero tour de force culturale, per dimostrare a lei e alla sua famiglia di essere alla loro altezza. Naturalmente, essendo uno degli “adatti” di London, strafà e arriva ad un clamoroso successo come saggista: ma una volta lì si accorge di non provare per la ragazza più alcun sentimento (con un sacco di ragioni, visto che questa ad un certo punto ha cessato di credere in lui, e si ripropone solo dopo la sua affermazione), mentre in compenso ha perso tutti gli amici di un tempo ed è entrato a far parte di un mondo ipocrita e fasullo. La storia ha una forte componente autobiografica: Martin non è altri che Jack, in una versione appena leggermente trasfigurata, e la vicenda è quella della contrastata relazione di quest’ultimo con Mabel Applegarth. Parrebbe scritta a giustificazione postuma della infelice conclusione del rapporto, ha il sapore di una sottile vendetta o rivincita: ma finisce poi per assumere un significato che trascende l’autobiografismo e i sassolini personali. È in fondo l’ennesima sconfitta del superuomo, inevitabile quando la sua azione rimane confinata nella sfera dell’individualismo. Pelageja Vlàsova, la madre umile ed eroica del romanzo di Gorkij, trova nella cultura il suo riscatto, perché la mette al servizio di una causa: Martin Eden, che quella cultura ha perseguito a fini personali, non regge all’improvvisa coscienza della solitudine nella quale è piombato, e si suicida. Esattamente come accadrà allo stesso London sette anni dopo, nel 1916, a quarant’anni.

Gli sopravvivono i suoi libri: e la madre.

Il vagabondo nella letteratura anglosassone

L’America moderna nasce da un gruppo di “pellegrini”, per dare spazio a coloro che non vogliono stare in riga in Europa: e a differenza di quello congestionato del vecchio continente questo spazio pare fatto apposta per essere girato in lungo e in largo e per offrire occasioni diverse ad ogni angolo. I popoli nuovi che vanno ad abitarlo non hanno nei suoi confronti alcun radicamento tradizionale; non è terra consacrata dal sangue e dal sudore degli avi, non impone alcun rispetto e soprattutto non crea alcun vincolo. La frontiera della colonizzazione rimane mobile per secoli, e lascia intravvedere sempre un altrove verso il quale spostarsi. In America quindi “c’è spazio”, sia letteralmente che letterariamente, anche per i vagabondi, che viaggiano in continuità diretta con gli uomini della frontiera e con i liberi coloni che vanno loro appresso. Il vagabondaggio non entra nella letteratura con le stigmate della marginalità, perché non contrasta col panorama di un paese in perenne movimento. È esattamente il contrario di quanto accade in Russia, dove i contadini asserviti, la stragrande maggioranza della popolazione, sono vincolati alla terra e non possono muoversi nemmeno quando muoiono di fame.

Il libro più amato dagli adolescenti americani, la lettura “di formazione” per antonomasia, è Huckleberry Finn. Da noi, quando ancora si leggeva, era Pinocchio, che ogni volta che scappa di casa è destinato a finire nei guai. Huck diventa invece il simbolo stesso della libertà e di una vita vissuta alla grande e incarna il prototipo del vagabondo americano, o almeno di tutti i vagabondi letterari americani. Come Gorkij, come London, come Hamsun, Huck è senza padre (nel suo caso il padre non è morto, ma è un ubriacone violento, che lo abbandona ancora bambino). Del resto, dietro ogni vagabondo c’è sempre un problema col padre, a volte l’assenza, più spesso una presenza violenta. Nel suo caso si sommano entrambi i modelli negativi: e questo, paradossalmente, ne fa il ragazzo più libero del mondo.

Preso sotto tutela da una bigotta di buon cuore, che cerca di educarlo a lavarsi, studiare, frequentare la scuola e la chiesa, Huck rimpiange la vita libera che conduceva un tempo, quando vestiva stracci e dormiva in una botte; non regge le convenzioni civili, che gli paiono ipocrite e senza senso. Alla fine, anche per sottrarsi alla violenza del padre che è improvvisamente riapparso, decide di risalire su una zattera il Mississippi assieme ad uno schiavo fuggitivo, sino a raggiungere gli stati abolizionisti. Qualcuno ha scritto che Tom Sawyer, protagonista del primo libro in cui compare Huck, è il ragazzo che Twain era stato, mentre è Huck il ragazzo che avrebbe voluto essere: certamente è il ragazzo cui milioni di adolescenti, americani e non, avrebbero voluto e ancora oggi vorrebbero somigliare. Nel corso del suo vagabondaggio Huck ne vede di tutti i colori, famiglie distrutte da faide insensate, ragazzi della sua età barbaramente uccisi, truffatori, negrieri, ogni sorta di furfanti: ma ci passa in mezzo indenne, a dispetto delle disavventure. Eticamente indenne. Questo è lo spirito del vagabondo americano. Non c’è in lui alcun processo di formazione, alcuna ricerca del sacro, trascendente o immanente che sia. È la ricerca fondativa e primaria della libertà individuale, quella che ha portato i pellegrini sull’altra sponda dell’Atlantico, e che applicata fino alle sue estreme conseguenze muoverà i passi di Thoreau in direzione opposta a quella della civilizzazione-omologazione.

Le vicende di Huckleberry Finn si svolgono comunque in un’America ancora immersa nella sua infanzia rurale, quella degli anni quaranta dell’800, appena uscita dalla prima fase della colonizzazione e in procinto di dare avvio alla seconda, la conquista del West. In mezzo c’è una guerra sanguinosa che si lascia alle spalle, oltre agli odi e alle devastazioni, centinaia di migliaia di reduci, spesso, segnatamente quelli del Sud, privati anche di una casa cui tornare. La parte più occidentale del paese si riempie di vagabondi con la pistola, di texani dagli occhi di ghiaccio e dalla mano veloce, di cavalieri solitari i cui percorsi si incrociano con quelli dei mercanti, dei venditori di unguenti e di sciroppi miracolosi, di ogni sorta di imbonitori e di predicatori. Tutta l’epopea western letteraria e poi cinematografica è un inno al vagabondaggio, all’irrequietezza, agli orizzonti di libertà verso i quali, nell’ultima pagina o nell’ultima sequenza, il cavaliere si avvia.

Ma la realtà, soprattutto nella fascia orientale, è diversa. Dopo la guerra civile gli Stati Uniti mutano radicalmente, da paese da agricolo si trasformano in potenza industriale. Ai reduci si sommano gli emigranti in arrivo dall’Europa, e sono diseredati e poveri, in cerca di lavoro e di occasioni, ma spesso mossi prevalentemente dal desiderio di libertà. In un paese in crescita vertiginosa, che offre una miriade di occasioni, la lotta per affermarsi diventa frenetica. Produce rapide fortune e tutta una galleria di personaggi vincenti, di self made men che in genere, ad onta di ogni postuma beatificazione, sono belve senza scrupoli: e produce un numero ben maggiore di sconfitti, coloro che non trovano posto nel nuovo meccanismo produttivo nemmeno come semplici rotelline, o non accettano di farne parte.

A fine secolo la galassia degli sbandati da strada è quindi estremamente confusa, tanto che nel 1899 Josiah Flint cerca di mettere un po’ d’ordine attraverso un studio sociologico della categoria “dall’interno” (Tramping with Tramp). I vagabondi vengono catalogati in tre tipologie: l’hobo è colui che viaggia in cerca di impieghi stagionali, una sorta di lavoratore occasionale itinerante; tramp è “colui che viaggia e sogna”, mosso dalla curiosità e dalla voglia di indipendenza; bum è colui che viaggia e beve, l’accattone alcolizzato e fastidioso. Alla seconda categoria apparterrà ad esempio il Chaplin de Il vagabondo (1916), e possono essere iscritti, in una versione surreale, gli Allegri vagabondi Laurel e Hardy, mentre quelli conosciuti da London sono in genere hobo. Nelle sue peregrinazioni London si imbatte nei primi scarti del nuovo modo di produzione, quelli che come lui resistono massimo una settimana allo sfruttamento e alla monotonia degradante del lavoro industriale; ma ad appassionarlo è un’altra fauna di “poco adatti”, quella dei contrabbandieri e dei razziatori di vivai, quella dei cercatori d’oro del Klondike, e quella appunto degli hobo che saltano da un treno all’altro. London, come abbiamo visto, usa una lente un po’ particolare, sfocata dalla nostalgia, perché, come Huck, quando esce da quel mondo cessa di essere felice.

È quanto capita anche a Vachel Lindsay, lo stralunato “trovatore della prateria”, autore di una Guida utile per mendicanti (1905) e di Rime da scambiare con pane (Rhymes To Be Traded For Bread, 1912). Autentico tramper, a metà tra Chaplin e i narrabondi inglesi, Lindsay si spostava a piedi da uno stato all’altro dell’Unione, armato di una dichiarazione stampata, il Vangelo della bellezza, del suo libretto di rime da scambiare con cibo e di un portfolio di immagini che dovevano servire a far comprendere visivamente questa bellezza. A volte saliva sui treni e improvvisava per gli attoniti spettatori delle ispirate performance poetiche. Quando infine prova a rientrare nei ranghi, attraverso un matrimonio, la paternità, una occupazione più o meno stabile, la sua irrequietudine si trasforma in profonda depressione e lo porta a darsi una fine atroce.

Non prima però di aver incrociato un altro personaggio, altrettanto e forse ancor più singolare, l’inglese Stephen Graham, e aver camminato con lui. Graham è probabilmente il più incredibile viaggiatore del ventesimo secolo.(cfr. Pensare con i piedi) Durante un soggiorno negli Stati Uniti compie con Lindsay una lunga escursione sulle montagne rocciose, che racconta nel 1922 in Tramping with a Poet. Anticipa nella pratica ciò che poi teorizzerà ne The gentle art of tramping, del 1926, un vero e proprio manuale del tramper, nel quale i consigli pratici si mescolano alla filosofia del viaggiar leggeri e lenti: “ Se volete conoscere un uomo, partite per un lungo vagabondaggio con lui”.

Linsday non incontra invece William Henry Davies, un altro inglese, irrequieto come lui, la cui biografia ricorda incredibilmente nella parte giovanile quelle di Gorkij e di London: orfano di padre a tre anni, la madre che si risposa e lo lascia alle cure dei nonni, vocazione delinquenziale nell’adolescenza e infine, a quindici anni, in giro per il mondo. Attraversa sette o otto volte l’Atlantico con imbarchi occasionali e nel 1893, a ventidue anni, si ferma negli Stati Uniti, dedicandosi al vagabondaggio, inseguendo lavori stagionali, trascorrendo gli inverni nelle prigioni federali e spendendo in colossali sbornie tutto quello che guadagna. La svolta della sua vita avviene quando, saputo dell’oro del Klondike, cerca assieme ad un compagno di saltare su un treno per l’ovest, perde in corsa l’appiglio e si ritrova con una gamba maciullata ad un punto tale che si deve ricorrere all’amputazione. Non gli rimane allora che rientrare in Inghilterra, dove sopravvive tra un ostello e l’altro dell’esercito della salvezza, ma comincia a coltivare seriamente a quella che era una sua passione sin da ragazzo, la poesia. Compone una prima raccolta, la fa stampare a proprie spese (anzi, a quelle altrui, perché il denaro l’ha avuto in prestito) e come Lindsay gira zoppicando a venderla porta a porta, con scarsissimo successo. Il successo arriva invece nel 1908, quando riesce a pubblicare con l’aiuto di George Bernard Shaw, che firma anche la prefazione, quello che diverrà un classico della letteratura hobo, L’autobiografia di un super tramp. Il libro esce un anno dopo quello di London, ma racconta un’esperienza assai più lunga e intensa e, oserei aggiungere, anche più genuina. L’idea di raccontarla arriva infatti a posteriori, non ne è il motore. La parte della vita di Davies che a noi interessa finisce qui. Il riconoscimento dell’originalità della sua poesia gli apre le porte dei salotti e dei circoli letterari, e lo riconduce ad una tranquilla esistenza borghese.

È difficile dire se l’interesse per la letteratura di vagabondaggio sia conseguente all’attenzione sociologica per il fenomeno, o viceversa. Sta di fatto che nei primi due decenni del secolo le opere riferibili all’una e all’altra si infittiscono. La vita degli hobo viene studiata e descritta da un sociologo svedese, Nels Anderson (Il vagabondo. Sociologia dell’uomo senza dimora, del 1922), mentre un pugile di origine irlandese, Jim Tully, racconta la sua diretta esperienza di quel mondo in Beggars of Life. Tully ha alle spalle un’infanzia tragica e anni di orfanotrofio, come del resto lo stesso Anderson. L’infanzia disperata si conferma essere una caratteristica comune a tutti quelli che si occupano di vagabondi. La generazione letteraria degli anni tra le due guerre, quella di Faulkner e di Caldwell, adotta tuttavia uno sguardo diverso da quello di London. Racconta di disperati che non hanno nemmeno gli stimoli e la forza per muoversi, e quando parla di vagabondi ne fa un ritratto impietoso. Ne Il predicatore vagante Caldwell presenta un ciarlatano, uno dei tanti che approfittano della semplicità e dell’ignoranza della provincia profonda americana. Invece che a cavallo il protagonista arriva su un’auto sgangherata, anziché difendere i deboli truffa e plagia i sempliciotti. Scompare alla fine, quando comincia a sentire odore di bruciato, lasciandosi alle spalle solo macerie. È la faccia scura di una epopea, e questo significa che l’epopea è al tramonto.

In effetti la vecchia immagine del vagabondo, positiva o negativa che fosse, ma distinta nella sua singolarità, è già svanita, confusa in una forzata mobilità di massa. Dopo la crisi del ’29 agli sradicati storici si sommano infatti le vittime della depressione, e il paese si riempie di sbandati. In Furore Steimbeck narra l’esodo e le peripezie della famiglia Joad, una tra le decine di migliaia che migrano dal Midwest verso la California, dopo aver visto le proprie terre inaridite dalle tempeste di polvere e le proprie fattorie espropriate dalle banche. La lettura del fenomeno diventa politica: il predicatore Casey, di tempra ben diversa da quella del personaggio di Caldwell, è mosso dall’idea di una missione, e alla fine verrà affiancato dallo stesso Tom Joad; gli altri sono solo spinti qua e là dalla contingenza economica. Non sono veri vagabondi, sono dei disperati molto più simili al popolo dell’abisso, e soprattutto si percepiscono come tali, perché non ragionano nell’ottica di una scelta di vita che è caratteristica dell’hobo, ma in quella dell’espulsione dalla società normale.

Il New Deal e la guerra attutiscono il fenomeno, ma nel secondo dopoguerra la categoria si arricchisce ancora una volta di una legione di reduci che non riescono più ad integrarsi, e soprattutto di giovani che di integrarsi proprio non ne vogliono sapere. È una categoria antica, e tuttavia anche nuova: antica perché ha in Europa precedenti illustri, da Eichendorff ai romantici inglesi e tedeschi: nuova perché cresce solo apparentemente ai margini della società industriale e consumistica. In realtà i libri di maggior successo, le mode musicali più diffuse, i film di cassetta degli anni sessanta e settanta ruotano proprio attorno a questa dimensione. Il nuovo vagabondaggio è soprattutto un fenomeno generazionale. Non si tratta quindi più delle aristocrazie intellettuali del popolo dell’abisso, o di superuomini che intendono uscirne. Sono un sottoprodotto di quella società, la contestano ma ne utilizzano gli spazi di decompressione, i margini sia pure angusti di libertà, risultando alla fine, quando non addirittura complementari, quanto meno non contrapposti al nuovo modello di vita. Diventano anzi il grimaldello del quale la società dei consumi si serve per forzare le ultime resistenze conservatrici e invadere totalmente la vita degli americani, come dimostra il recupero effettuato in chiave commerciale di ogni fenomeno di devianza o di dissenso (dalla musica all’abbigliamento, dalla “rivoluzione” hippie alle varie “liberazioni” di genere, di etnia, di età, di costume).

È una galassia composita, nella quale orbitano, rimbalzando da una parte all’altra degli States, tutte le categorie di disintegrati immaginabili. Ci sono i beatniks di Kerouack (Sulla Strada), che sul modello del mitico Neal Cassady (Vagabondo), intraprendono confusi percorsi di ricerca spirituale, consumati tra viaggi in autostop e scalate nelle montagne della California, tra meditazioni notturne nei boschi o sulle spiagge solitarie (I vagabondi del Dharma) e riti di sessualità orgiastica. Oppure i vagabondi mentali di Salinger (è significativo che Franny sia così colpita proprio dal Viaggiatore incantato) o di Ken Kesey (Qualcuno volò sul nido del cuculo), quelli tardo western di Mc Carty (Oltre il confine), fino a quelli motorizzati e filosofi di Pirsig (Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta) o solo motorizzati di Easy Rider …

Ero tutto preso nel leggere le lunghe colonne che elencavano città e stati, nel confrontare la loro posizione geografica sulla grossa mappa, e in modo particolare mi interrogavo sui diversi cognomi e la loro origine: i destini di quegli uomini mi erano tutti sconosciuti e sognando a occhi aperti la diversità delle sorti possibili per la prima volta mi sorpresi della vita” esordisce nella sua autobiografia Cassady. Non c’è alle spalle una infanzia terribile, non c’è un desiderio di riscatto, non c’è vera ribellione: è pura e semplice curiosità. La sorpresa della vita.

In definitiva, la percezione americana del vagabondaggio, sia dall’interno che dall’esterno, rimane lontana dalla drammaticità. Ne viene colta principalmente la componente avventurosa, il lato divertente (basti pensare a Chaplin). D’altro canto è difficile soffrire lo sradicamento dove una radice culturale o territoriale profonda non c’è. Il vagabondaggio per gli americani è una possibile condizione, anzi, lo stadio estremo di una condizione comune, piuttosto che una possibile eccezione. Come rilevava Hamsun, in America nessuno ha un posto cui tornare.

L’altro aspetto che caratterizza il vagabondo americano è come abbiamo visto la modalità dello spostamento. Nel West gli sbandati girano a cavallo. Su tutto il continente, appena si danno le condizioni, si muovono sui treni, e dagli anni trenta in poi con passaggi in autostop o direttamente su vecchi trabiccoli. Il che implica un rapporto sempre più fuggevole e superficiale con la natura. Se si eccettua Edward Abbey, con il suo Deserto solitario, sono pochissimi gli autori della generazione tra beatnik e hippie che coltivano con la natura un rapporto quale può invece trovarsi in Europa. Abbey è anche l’unico che parli, prima dell’avvento della moda new age, di una lotta per difesa dell’ambiente (ne I sabotatori). Probabilmente questo è dovuto alla differenza degli spazi, al fatto che spostarsi a piedi da un luogo abitato all’altro in America è praticamente impossibile e all’esistenza di una riserva apparentemente inesauribile di ambienti incontaminati, per cui quando un posto comincia a fare schifo ci si sposta un po’ più in là. Di fatto, il vagabondaggio in America oggi è sparito, così come in Europa: non ha alcuna continuità nel crescente popolo degli homeless, che sono degli emarginati urbani, dei senzatetto, non dei vagabondi in perenne movimento. E comunque, all’interno di megalopoli che continuano a svilupparsi in ampiezza, prive di un centro storico, spostarsi a piedi risulterebbe già di per sé sospetto. Se qualche figura ancora si incontra ai margini della strada, senz’altro ha una moleskine in tasca e pubblicherà di lì a un anno il diario della sua esperienza, come già fece London, o scriverà la sceneggiatura per un film.

Anche nella letteratura inglese la percezione del fenomeno non è assolutamente drammatica. Per un motivo molto semplice: in Inghilterra di vagabondi non ne circolano, o quasi. È stato infatti il primo paese a varare una legislazione specifica contro il vagabondaggio, fin dai tempi di Enrico VIII. Il paradosso è che già nel Medio Evo la maggior parte dei suoi abitanti erano uomini liberi, in un’epoca nella quale il concetto di libertà si identifica quasi interamente con la libertà di spostarsi. Al contrario dei continentali, non erano vincolati per obbligo o per consuetudine alla terra e ai suoi proprietari: inoltre la loro mobilità era favorita dall’assenza di confini fisici naturali tra le varie regioni. Tutto questo sino a quando la gran parte del territorio rimase nelle mani della nobiltà tradizionale o della Chiesa. Le trasformazioni economiche del XVI e del XVII secolo imposero però un giro di vite a questo eccesso di mobilità. I nuovi proprietari terrieri, la gentry e i latifondisti di origine borghese, non si sentivano affatto obbligati a rispettare le consuetudini dell’ospitalità e dell’accoglienza nei confronti di poveri e pellegrini; intendevano anzi far valere i diritti esclusivi sulla caccia, la pesca e la raccolta nelle loro terre, e chiedevano pertanto alla nascente istituzione statale degli interventi radicali. L’intrusione in una proprietà altrui, intendendo come tale anche il semplice transito non autorizzato, cominciò ad essere punita come un atto della peggior delinquenza.

Le leggi antivagabondaggio perseguivano un doppio fine: togliere dai piedi elementi sospetti, pericolosi o comunque negativi per l’esempio che offrivano, e reclutare manodopera a costo praticamente zero. Vennero infatti create apposite work-houses o alm houses, che erano in sostanza opifici per il lavoro coatto. Per i più riottosi, per quelli che rifiutavano la schiavitù del lavoro o erano inadatti, si aprivano le vie degli oceani: emigrazione e deportazione mantenevano sotto controllo il numero degli irregolari sulle strade. Persino gli zingari, che erano approdati in Inghilterra nel XVI secolo, e contavano una comunità di quasi ventimila membri, vengono indotti ad emigrare in massa prima della metà dell’Ottocento.

I divieti e l’azione repressiva continuano infatti a funzionare anche nei secoli successivi, quando il regime delle enclosures produce un sempre maggiore impoverimento nelle campagne, e quindi sempre nuove ondate di sbandati che diventano il bacino inesauribile al quale attinge l’industria. Inoltre, lo smantellamento della vecchia società rurale cancella quel tessuto di relazioni che costituiva l’habitat naturale del vagabondaggio, e che reggerà invece sul continente sin quasi alla fine dell’Ottocento.

In assenza o con una scarsa presenza di nomadi non regolari il vagabondaggio diventa espressione episodica di spiriti stravaganti ed inquieti, in genere provenienti dalle classi inferiori e approdati ad buon un livello di istruzione, quando non addirittura alla celebrità, quasi sempre tormentati da disturbi nervosi: assume insomma una sfumatura di snobistica eccentricità. I vagabondi inglesi non sono mai dei disperati come in Russia o dei non conformisti come in America. La loro è una scelta esistenziale volontaria e ha le sue radici, almeno limitandosi all’età moderna, nel Grand Tour settecentesco e nella Wanderung romantica. Sono degli originali che si muovono come pellegrini sulle tracce del loro Graal. E infatti, i progenitori sono proprio i personaggi del ciclo della tavola rotonda, gente come Gawain o il Cavaliere verde, che vagabondano a destra e a manca per il gusto puro e semplice della libertà. Oppure sono pellegrini come quelli raccontati da Chaucher, o il protagonista de Il viaggio del pellegrino da questo mondo a quello venturo di John Bunyan. Anche Gulliver tutto sommato è un vagabondo, così come lo sono i personaggi di Coleridge. E vagabondi per scelta, sia pure temporanea, sono poeti come Wordsworth e Keats, o narratori come De Quincey o Stevenson (tutti formidabili camminatori). Lo stesso vale per gli esploratori che si sguinzagliano in tutte le parti del mondo, o per quegli strani personaggi che si mettono in viaggio per smaltire gli orrori di una guerra, come George Brenan, o gli errori di una educazione rigida e monotona, come Leigh Fermor. Da tutti loro il percorso non è inteso semplicemente come viaggio fisico, ma anche come evidente trasformazione interiore di chi compie il viaggio.

A rigor di termini stiamo parlando però di viaggio, più o meno avventuroso, e non di vagabondaggio. Una pratica e una cultura vera e propria del vagabondaggio, come quella che si sviluppa in Russia e in America e che incontreremo anche in Scandinavia, in Inghilterra non la troviamo: o meglio, troviamo una “declinazione culturale” del vagabondaggio, in luogo di quella sociale. Il termine stesso wanderer ha un’accezione diversa, si rifà appunto alla tradizione romantica “alta”, ha in alcuni casi una collocazione urbana che è ben lontana dall’abisso di London e trova una classica esemplificazione ne L’avventura londinese o l’arte del vagabondaggio, di Arthur Machen. Per Machen il wanderer è uno che si aggira per le vie di una Londra in piena trasformazione, ancora segnata dall’antica magia delle taverne e degli edifici un tempo lussuosi e ora diroccati e fatiscenti, alla ricerca di luoghi inconsueti e semisconosciuti che producono un effetto straniante. Quello che è insomma il flaneur per Baudelaire. In questo tipo di peregrinazioni cittadine può vantare precedenti illustri, ad esempio quello di Charles Lamb o di William Hazlitt.

Ci sono però anche personaggi che più si accostano al modello “continentale” del vagabondaggio. De Quincey, ad esempio, negli anni della giovinezza gira in lungo e in largo per il Galles senza un soldo in tasca, guadagnandosi zuppa e pernottamento come scrivano di lettere per i contadini o con conferenze improvvisate. John Clare, figlio di un lottatore e cantante di antiche ballate nelle fiere, conosce una trafila di lavori infantili da fare invidia a Gorkij e a London, dal pastore all’apprendista ciabattino, al muratore, al giardiniere. Quando finalmente gli arride il successo come poeta autodidatta, lascia la moglie e otto figli per mettersi per strada, in preda a deliri visionari. L’ultimo terzo della sua esistenza lo trascorrerà in manicomio.

Anche George Borrow si mette periodicamente per strada in Scozia, muovendosi a volte a piedi, a volte con un cavallo, un carrettino ed una tenda. Come Clare è appassionato della vita e della storia degli zingari (la racconta in Lavengro, e scrive persino un dizionario della lingua zingara, nel quale sostiene che la matrice del linguaggio dei delinquenti è italiana!); a differenza di London si batte con uno zingaro, e lo mette ko. Bisogna però dire che Borrow era un buon pugilatore, alto quasi due metri, e che l’avversario, per quanto grosso, era uno solo. Richard Jeffries, altro spilungone eccentrico e destinato a una fine precoce, in fuga sin dall’adolescenza, vaga per anni senza meta e senza una occupazione fissa nel Wiltshire, conoscendone come nessun altro gli ambienti, la fauna e gli abitanti, vivendo all’aria aperta e sempre ai limiti della legge. Sarà il testimone oculare della fine del mondo rurale, e insieme una sorta di enciclopedia naturalistica e antropologica vivente del tempo che fu. E poi c’è Stevenson, vagabondo sia per tutte le isole britanniche che nelle Cevennes francesi, in compagnia di un asino.

Nelle loro scelte c’è appunto una forte componente romantica: “Il progresso fa le strade dritte: il genio percorre strade tortuose, senza sviluppo” scriveva Blake. E “datemi delle strade tortuose” ribadiva Hazlitt. Perché dunque procedere dritti, quando alla fine di nessuna strada c’è qualcosa di meglio di quanto possa cogliersi lungo il percorso? Le modalità dello spostamento sono dettate proprio dall’idea delle opportunità che il percorso di per sé offre, di incontri, di conoscenze, di un rapporto diverso con la natura, da recuperarsi rimanendo a più stretto contatto possibile con essa. Per Stevenson “Un sentiero attraverso un campo varrà sempre per noi più di una strada ferrata”. E anche per quanto concerne questo rapporto, è da distinguere tra quella che possiamo chiamare l’adorazione della natura (in Wordworth e in Shelley, ad esempio) e la passione per la terra. Sono due cose diverse: un atteggiamento romantico la prima, una genuina e positiva curiosità la seconda, che in genere si coniuga con l’ideale del minimo, dell’essenziale: a quella libertà di rimanere poveri che è esattamente opposta allo standard della modernità.

Questo modello a matrice culturale, piuttosto che sociale, è rimasto dominante nella cultura inglese. L’inglese in viaggio non è mai un vero e proprio vagabondo, non rappresenta mai un mondo a parte, ma è un inglese che si muove nel mondo. Le eccezioni, quella che abbiamo visto di Orwell o quelle rappresentate da Borrow e De Quincey, sono tali fino ad un certo punto. Non sono scelte di vita, ma scelte di esperienze da farsi a tempo determinato. È un modello che ha funzionato sino alla grande guerra, giocando su una straordinaria combinazione di fattori individuali e ambientali, storici e culturali, che hanno dato vita ad uno stile. Come in tutte le altre parti del mondo occidentale, dopo quell’evento le cose sono cambiate radicalmente: non sono venuti meno i vagabondi, è venuto a mancare l’ambiente nel quale potevano muoversi.

London, o della fisicità

Mi ha molto colpito l’episodio della fustigazione del bambino zingaro e di sua madre raccontato ne “La strada”. Ho provato una terribile rabbia e mi sono chiesto come avrei reagito in una situazione del genere. Istintivamente, conoscendomi, penso che avrei rischiato, che non avrei potuto reggere a un simile strazio, pena portarmene appresso il rimorso per tutta la vita. Poi però, riflettendoci, devo convenire che London non era certo il tipo da tirarsi indietro, al contrario, e che se ha resistito, magari facendosi schifo, è perché la situazione non gli lasciava alternative. Mi è capitato di intervenire un paio di volte per scongiurare violenze nei confronti di un bambino e di una donna: ma erano situazioni nelle quali, come Borrow, me la giocavo alla pari, e avevo almeno la sensazione che al peggio avrei risparmiato alle vittime qualcosa. Per la cronaca, in quelle occasioni le cose non finirono poi male, nel senso che l’atteggiamento deciso fu sufficiente a scoraggiare i potenziali “carnefici”, senza la necessità di sbatterli troppo o di subire la violenza a mia volta. Ma, ripeto, anche se al momento non mi sono certo fermato a fare calcoli, un margine di probabilità di buon esito c’era. Cosa sarebbe invece accaduto a London?

Proprio questo interrogativo e questi ricordi, il fatto stesso cioè che le vicende si siano risolte senza fosse necessario arrivare alla violenza, mi hanno portato a riflettere su quanto una particolare fisicità possa incidere sulle esperienze che si fanno e sull’atteggiamento psicologico col quale tali esperienze si vivono.

Vorrei chiarire subito che non sto parlando di coraggio: esistono diverse possibili manifestazioni e interpretazioni del coraggio, e per la gran parte non hanno nulla a che vedere con la fisicità. Il coraggio è una virtù morale: attiene alla forza d’animo, non alla potenza dei bicipiti. I miei personalissimi supereroi sono Piero Gobetti e Camillo Berneri, che fisicamente erano l’esatta antitesi di Schwarzenegger, e che a dispetto di questo erano anche fisicamente coraggiosissimi. Il vero coraggio è quello di essere se stessi, di dire la verità, a volte quello stesso di vivere. Per converso, anche quello che può sembrare coraggio fisico spesso non è altro che spericolatezza, incoscienza di fronte al pericolo, in alcuni casi esaltazione. Non sto quindi cercando di stabilire una correlazione tra prestanza fisica e ardimento.

Il mio discorso non ha nemmeno a che fare con l’eroismo: anche qui, siamo di fronte a qualcosa che con la fisicità non ha alcun vincolo. Insomma, non voglio scomodare i valori, ma solo parlare di una condizione psicologica. Naturalmente, i termini che posso usare sono quelli: se uno non si tira indietro, posso girarci attorno quanto voglio, ma devo dire alla fine che è coraggioso. E se non si tira indietro in nome di un giusto principio, e rischia anche la pelle per difenderlo, non posso che chiamarlo eroe.

Infine, non voglio neppure limitarmi a ribadire quanto importante sia il sentirsi in pace con se stessi. È evidente che una giusta consapevolezza di sé, limiti compresi, è la base necessaria per una positiva interazione con gli altri. Qui però sto parlando ancora d’altro, di un’impressione che ho maturato con gli anni, che magari sarà del tutto immotivata, o condizionata dalla mia storia personale, e che concerne una declinazione particolare di questa consapevolezza. Mi riferisco al fatto di aver spesso constatato come un buon rapporto con la propria fisicità, e un buon rapporto non può che essere che un rapporto di intelligente confidenza, non aiuti solo a sopravvivere, ma costituisca anche un incentivo a prendersi cura degli altri, a mantenere nei loro confronti un atteggiamento di benevolenza: e come questo sia in parte un riflesso animale, ma abbia poi anche un risvolto profondamente umano.

Credo insomma che l’argomento di cui vado confusamente a parlare abbia a che fare piuttosto con la paura, o meglio, con l’assenza di una paura particolare, quella degli altri (il che non esclude che si possano poi avere paure d’altro genere, a volte persino infantili).

I protagonisti di queste pagine hanno in comune una notevole prestanza fisica. Gorkij sottolinea in più occasioni questo aspetto: quando, diciassettenne, appena arrivato a Krasnovidivo, comincia a scaricare le merci dal battello, il bracciante Kukuskin commenta così il suo lavoro:” Di forza ce n’è, si può dire, più del necessario”. Romas lo guarda ammirato: Ma ne avete di forza! e lo stesso Izuv, un vero atleta, che pure lo ha battuto in una sfida di sollevamento, lo consola: Non prendertela, sei davvero forte.

È anche coraggioso e testardo nel non rifiutare lo scontro: “I giovani erano gradassi ma cordiali: due o tre avevano tentato di battermi, sorprendendomi di notte per la strada, ma non vi erano riusciti”. Gli piace stabilire subito le regole, e da quella posizione pensa di poter entrare in amicizia coi suoi coetanei. D’altro canto, fin da ragazzino si era sempre comportato così, con le bande di quartiere a Nižnij Novgorod, poi con i ragazzi che lo aspettavano fuori quando era ospite dai suoi parenti del laboratorio di disegno, e lui usciva tutte le sere immancabilmente a battersi, a rischio poi di prenderle un’altra volta appena rientrato con il volto pesto, ma assicurandosi un nome e un rispetto. Ne “Il mio compagno di viaggio” racconta di aver preso sotto la sua protezione, ancora adolescente, un altro vagabondo, più anziano di lui, e di averlo accompagnato in salvo sino in Armenia. (dove, anziché essere ricompensato dal tizio, che vantava di essere un principe, viene piantato in asso: ma non importa, è stata una bella avventura).

Anche le figure di riferimento più importanti della sua adolescenza sono personaggi di quella fatta. Pensiamo all’immagine del cuoco che lo sottrae ai due camerieri ubriachi sul battello: “Smurri mi strappò dalle mani di Serghej e di Maksim, li afferrò per i capelli e, sbattute le loro teste una contro l’altra, li scaraventò via, facendoli cadere entrambi”.

Hamsun si presenta subito, già in Fame, come un colosso, magari asciugato e un po’ spiritato dai digiuni, ma pur sempre alto e robusto: “Io ero forte come un gigante, potevo fermare una carrozza con una spallata”. E i suoi “eroi” sono sempre personaggi che non si tirano indietro, sin da ragazzi: quando, all’inizio di Vagabondi, un girovago comincia a picchiare il suo compagno mezzo cieco “Edoardo (Edevart), un ragazzotto sui tredici anni, biondo e lentigginoso, si fece avanti mentre i suoi occhi mandavano lampi per l’eccitazione. Dimentico di tutto, avrebbe messo a repentaglio fors’anche la vita […] Fece in modo che l’altro cadesse. Il giovane soffiava come un mantice, sua madre lo chiamava perché venisse via, ma egli non si mosse”. E lo stesso Edoardo di lì a poco interviene quando il comandante di un battello da pesca cerca di approfittate della ragazzina di cui egli stesso è timidamente invaghito, e che è estremamente maliziosa: “Edoardo non era avvezzo a pensare se non con chiarezza. Non valeva molto quando si trattava di leggere o fare di conto, ma aveva i pugni sodi e, quando si riscaldava, un notevole ardimento fisico”. In un’altra occasione: “No, Edoardo non aveva ceduto: non era che un giovanotto semplice, ma in quanto a coraggio, ne aveva da vendere” Più tardi si trova a doversi difendere dal marito geloso di una donna della quale si è di nuovo sfortunatamente innamorato: “Seguì una baruffa molto breve: senza molte parole si lanciarono come due pazzi l’uno contro l’altro, e l’ira sfrenata di Edoardo fu decisiva: non ci fu neanche bisogno di una spinta, bastò il trucco dello sgambetto e un colpo sotto l’orecchio del suo giovane pugno […]”.

Ma la fisicità può avere anche una dimensione meno turbolenta, imporsi per la sua calma, la sua sicurezza, la sua resistenza. Quando nelle prime righe de “Il risveglio della terra”, presenta il suo protagonista Izaak, lo pone già al di là delle baruffe: è un uomo che si è conquistato con la sua forza il diritto di stare al mondo, e ora si accinge a conquistarsi un suo mondo: “È robusto e rude; ha la barba rossa e incolta; cicatrici sul viso e sulle mani testimoniano il lavoro o la guerra”. Un uomo che ama la fatica, perché nemmeno gli sembra fatica: “Un portatore nato, una macchina lanciata attraverso la foresta, ecco che cos’era, ormai; camminare molto, portar molto, questo era il suo ideale; recar sul dorso gravi carichi era nulla per lui: la sua fatica gli pareva una ben pigra bisogna”. Che è poi la sensazione provata da Gorkij quando lavora assieme a Romas, opposta a quella provata in altre occasioni.

Per London forza muscolare e coraggio fisico sono un vero e proprio mito. Il suo superuomo non è tale solo eticamente, ma anche fisicamente. Ne “Il tallone di ferro” propone attraverso Ernest un proprio autoritratto, la percezione che immaginava si avesse di lui in quei circoli intellettuali nei quali interveniva a surriscaldare il dibattito: “Aveva il collo tozzo di un pugilatore. Guarda qua, dissi subito tra me, che specie di filosofo sociale, ex maniscalco, ha scoperto mio padre: certo che con questi muscoli e con questo torace ha il ‘phisique du role”. In Martin Eden rappresenta se stesso al momento della prima visita a casa di Amalia Lockarth, nella versione ancora selvatica: “Le ampie sale erano troppo anguste per il suo modo di camminare, ed aveva l’impressione che le sue larghe spalle dovessero cozzare contro gli stipiti delle porte o mandare in frantumi i ninnoli delle mensole”. I suoi libri sono zeppi di eroi, possibilmente biondi e possenti, che si fanno strada a pugni nell’arena della sopravvivenza. Lupo Larsen, il protagonista de Il lupo dei mari, e Helam Harnish, quello di Radiosa Aurora, sono dei veri colossi. Il primo “era di quel tipo asciutto, nodoso, tutto nervi, che usiamo attribuire a certi individui molto magri, ma che in lui, per effetto della sua pesante struttura ossea, ricordava assai più quella del gorilla […] Era una di quelle forze che non si possono associare che a cose primordiali, a bestie selvagge, ai nostri prototipi che vivevano sugli alberi”. Il secondo stronca a braccio di ferro e allunga nella neve gli uomini più formidabili del grande Nord. “Egli era fatto così. I suoi muscoli erano potenti esplosivi. Le leve del suo corpo scattavano al momento adatto come le morse di una trappola d’acciaio. Ed oltre a tutto ciò, la sua era quella forza sconfinata che è il retaggio di uno su un milione di uomini… una forza che dipendeva non dal volume ma dalla proporzione, un grande pregio organico che dipendeva dalla qualità dei muscoli stessi”. London è evidentemente condizionato da questo aspetto molto più degli altri due, come testimonia anche il suo interesse per il mondo della boxe (che condivide con Borrow e con Clare), la rappresentazione simbolica per lui più efficace della lotta per la sopravvivenza.

Questi supereroi sono prima di tutto degli individui, che anche quando si votano alla causa delle masse rimangono qualcosa di distinto dalla massa. Di Ernest dice: “Era un aristocratico per natura, che si trovava a combattere in campo avverso. Era il superuomo, la bestia bionda di Nietzche, con un’anima di democratico”. Anche ne “Il popolo dell’abisso” sottolinea questo ruolo: “Gli uomini forti, pieni di coraggio, iniziativa, ambizione si sono spostati nelle parti più spaziose e libere del globo per costruire nuove terre e nazioni. Gli altri, i poveri di coraggio e capacità, come i malati e i disperati, sono rimasti a perpetuare la specie”. E anche quanto in questo ruolo conti la prestanza fisica. Da un giovane militante socialista, che definisce “un eroe”, perché ha affrontato più volte durante i comizi degli avversari inferociti, si sente dire: “Invidio quelli forti come te. Un mingherlino come me, non è in condizioni favorevoli per battersi”. E deplora il fatto che anche coloro che la natura ha privilegiato fisicamente siano destinati a sciupare questo dono: “ Ho visto nelle palestre di ginnastica uomini ben nati, e di buona educazione, spogliarsi nudi. Ne ho incontrati pochi che potessero mostrare un corpo così perfetto come questo straccione, quando la sera si spogliò di fronte a me per sdraiarsi sul pagliericcio. Eppure questo giovanotto era condannato, tra quattro o cinque anni, a una rapida e completa decadenza” scrive ne “Il popolo dell’abisso”.

Se si nutrisse qualche dubbio circa l’enorme influenza esercitata da London sulla cultura americana, sarebbe sufficiente riandare alla sfilza di eredi di Radiosa Aurora che la letteratura, i fumetti e soprattutto il cinema statunitense hanno proposto nell’ultimo secolo, da Capitan Audax ai personaggi di Stallone e di Swarzenegger, o a coloro che come Hemingway oltre a raccontarli hanno anche tentato di interpretarli. E non solo agli ipermuscolati, a quei personaggi che come Lupo Larsen sembrano uscire direttamente dalla preistoria, ma a coloro che come Humprey van Weiden, l’antagonista de Il lupo dei mari, cresciuti nella bambagia e nella mollizie moderne, messi a confronto con un mondo feroce e primordiale riescono ad adattarsi, ne accettano le regole, si irrobustiscono e alla fine trionfano. Tanto il soggetto di Rambo quanto quello di Cane di Paglia avrebbero potuto benissimo essere scritti da Jack London. Tuttavia, questa eccessiva insistenza sulla fisicità, questa correlazione quasi obbligata tra coraggio e forza, ai fini del discorso che intendevo fare, assume come vedremo un valore opposto.

La prestanza fisica e l’ardimento hanno dunque un enorme ruolo nelle esistenze e nelle esperienze dei nostri tre autori, sia pure con sfumature diverse. Intanto, sono sopravvissuti alle loro difficili infanzie proprio perché erano fisicamente forti: sono un frutto della selezione naturale, avrebbe detto London. Ne sono consapevoli, e tutti e tre ne sono fieri nella misura giusta, da un lato ringraziando la natura per averli fatti così, dall’altro non mancando di rimarcare che la natura è stata aiutata dalla loro forza di volontà.

La prima caratteristica comune che ne consegue è che non si sentono in credito: nei confronti della natura non hanno nulla da recriminare, il che implica che nei confronti degli altri possano mantenere un atteggiamento più aperto e rilassato. Non potrebbe esserci disposizione migliore: grati ed orgogliosi ad un tempo, e impegnati semmai ad evitare con ogni mezzo che altri debbano ripetere le loro esperienze. Questo atteggiamento li distingue, perché non è affatto così diffuso, e non solo tra chi ha vissuto infanzie da incubo.

Sarà infatti una mia impressione, ma in molte delle persone più combattive che ho conosciute, e intendo combattive in senso buono, schierate a difendere buone cause, ho sentito forte l’odore acido della rivincita e della riscossa personale. Mi sono parse impegnate a sanare attraverso il riscatto collettivo una ingiustizia che sentivano prima di tutto come rivolta a loro personalmente. E questo, che è uno spunto naturale, quando non si stempera sufficientemente in una coscienza più generale induce ad un integralismo cieco nella rivendicazione, all’incapacità di comprendere e in qualche caso anche di accettare le ragioni altrui. Salvo poi, una volta raggiunto lo scopo o constatata l’impossibilità di raggiungerlo, scaricare su quelli che avrebbero dovuto essere riscattati la propria delusione, la responsabilità della sconfitta, o la colpa di non corrispondere adeguatamente al risultato raggiunto. A dirla proprio tutta, ho l’impressione che gran parte della storia, o almeno di quella manifesta, sia stata mossa in primo luogo dal livore, e che questo abbia in qualche misura a che vedere con una frustrazione fisica.

Cerco di spiegarmi: non sto sostenendo che i mingherlini o gli svantaggiati vivano in uno stato di frustrazione costante, e che questo determini un atteggiamento negativo nei confronti del loro prossimo. Sto dicendo che molti vivono male la loro fisicità, fossero anche Maciste, perché in realtà non hanno in essa confidenza. E che questa confidenza non nasce solo dall’interno, da una particolare attitudine caratteriale, ma è alimentata da una sorta di automatico rispetto che gli altri mostrano per quella fisicità. Non è questione di chili, di centimetri e di masse muscolari: ho parlato di rispetto, non di paura. I muscoli possono indurre timore, ma il rispetto, che è una forma intelligente di ammirazione, nasce da altro. Nasce dalla percezione di una sicurezza. E la sicurezza ha a che vedere con una disposizione “fiduciosa” nei confronti degli altri, che a sua volta ha origine dalla convinzione che gli altri, anche volendo, non potrebbero nuocere più di tanto. Dall’idea cioè che se gli altri sono d’accordo, bene, se non lo sono, va bene lo stesso, si va comunque avanti.

Mi rendo conto che è una percezione difficile da trasmettere, per cui, come sempre, ricorro all’autobiografismo. Una volta vidi mio padre bloccare, sibilando una mezza parola, due vicini che stavano litigando armati di zappe. Uno di questi era un energumeno prepotente e manesco, ma lo vidi gelarsi in un attimo. Quando lo raccontai a mio zio, un altro bello tosto di suo, mi disse: “Per forza. Non sapevano cosa avrebbe fatto, ma sapevano che senz’altro lo avrebbe fatto”. A questo mi riferivo.

Mio padre aveva perso una gamba nell’adolescenza, gli mancava proprio, dall’anca in giù: ma quello che per altri sarebbe stato un handicap in lui sembrava aver centuplicato le energie. Affrontava la vita come se avesse sempre quattro punti di vantaggio. A dispetto della gamba aveva una fisicità esuberante, ma non era solo questo a renderlo speciale. Da ragazzino pensavo a volte che fosse persino un po’ incosciente, poi ho capito. Non aveva tempo a commiserarsi: all’epoca l’aveva scampata per un pelo e ora aveva davanti tutta un’esistenza “in più”, che dipendeva da lui riempire di significato. Era un uomo libero, libero dalla paura, e sapeva trasmettere bene il messaggio. La sua determinazione suonava come deterrente per chi aveva di fronte e come una trasfusione di sicurezza per chi gli stava a fianco. Come diceva Gorkij del caposquadra Ossip: “So questo: accanto a lui andrei dovunque: attraverserei ancora il fiume col ghiaccio che mi scivola sotto i piedi”.

Come Gorkij, come London, come Hamsun, mio padre era un sopravvissuto. In un senso diametralmente opposto a quello che normalmente si dà al termine. Viveva al di sopra e a dispetto di quel che la vita su un piano prettamente naturale avrebbe potuto offrirgli. Non aveva nulla da perdere, quella vita era un regalo, e quindi poteva disporne, giocarsela senza troppi rimpianti. Soprattutto, lo faceva senza alcuna esibizione, facendo apparire normale e scontato un comportamento che, nelle sue condizioni, non era affatto tale. E non voleva imporla a nessuno: non doveva sforzarsi di dimostrare alcunché, era già la dimostrazione vivente che vale comunque la pena di stare al mondo in pace e in armonia con il mondo stesso, con quello degli uomini, che lo adoravano, e con quello della natura, in mezzo alla quale sguazzava come un pesce. Fidandosi di sé, gli era automatico fidarsi degli altri, e questo faceva si che gli altri si sentissero impegnati a non deluderlo. E si fidava anche del buon senso della natura: quando io guardavo preoccupato il cielo nero durante la vendemmia, e gli altri contadini raggruppati sotto il porticato lamentavano i tempi grami che ci attendevano, lui stava già studiando come girare a nostro favore la situazione.

Gorkij non lo avrebbe mai preso sotto la sua protezione, perché non ne aveva bisogno. Si sarebbe sentito piuttosto onorato della sua amicizia. London lo avrebbe raccontato in termini epici. Hamsun avrebbe riconosciuto in lui l’autentico Izac.

Credo che persino lo zingaro avrebbe avuto un ripensamento.

Knut Hamsun

Hamsun è il padre della scuola moderna di letteratura in ogni aspetto: nella sua soggettività, nell’impressionismo, nell’uso della retrospettiva, nel liricismo. Tutta la letteratura moderna del ventesimo secolo deriva da Hamsun.

Isaac Bashevis Singer

Anche il terzo dei nostri “vagabondi” è uno scrittore marchiato. Gorkij lo era come intellettuale “organico” allo stalinismo; London ha l’annullo dello scrittore per adolescenti, approssimativo e raffazzonato anche quando tratta di temi politici, oltre a quello di “un tanto a pagina”. Hamsun si porta dietro il marchio infame di “collaborazionista”, di complice del nazismo e ammiratore di Hitler, alla maniera di Céline o di Drieu de la Rochelle. Nel suo caso però, anche se non gode più della fama che gli valse il Nobel nella prima metà del secolo scorso, si può almeno dire che è rimasto scrittore di culto per una piccola nicchia di estimatori, e non necessariamente soltanto nostalgici di destra. È anche, probabilmente, tra i tre, quello destinato ad una più prossima “riabilitazione”, per la tematica ambientalista di fondo che attraversa la sua opera, anche se in realtà l’idea che la regge non è affatto in linea con la moda ambientalista contemporanea. Quanto a forza narrativa non è nemmeno lontanamente parente di Gorkij, così come non lo è di London quanto a inventiva. Hamsun vince in delicatezza, per uno stile apparentemente dimesso e in realtà incredibilmente attento all’efficacia linguistica. “La lingua deve risuonare con tutte le armonie della musica. Lo scrittore deve sempre, in ogni occasione, trovare la parola palpitante che cattura la cosa e che è capace di ferire la sua anima fino alle lacrime per la sua esattezza. La parola può essere trasformata in un colore, in un suono, in un odore” scrive in una sua lettera. Come racconta un suo conoscente: “Poteva fare salti di gioia ed entusiasmarsi per un giorno intero per un aggettivo originale, particolarmente espressivo, che aveva trovato in un libro o aveva creato lui stesso”.

Ed è straordinario come l’esito di una impostazione così diversa risulti altrettanto naturale di quelli robusti e violenti che gli altri due hanno tratto da esperienze di vita molto simili.

Knut Pedersen (questo era il vero cognome: Hamsun deriva da una storpiatura del nome della località nella quale visse ragazzo) viene al mondo nel 1859 nel sud della Norvegia, in una famiglia di modeste condizioni, dopo altri tre fratelli (alla fine saranno sette). Il padre è un contadino insoddisfatto, che tre anni dopo la sua nascita abbandona la fattoria appartenente da generazioni alla famiglia per inseguire l’ambizione di diventare artigiano, trasferendosi presso un parente ad Hammarøy, nella provincia del Nordland, al largo delle Isole Lofoten e al di là del Circolo Polare Artico. Lì, nel piccolissimo villaggio di Hamsund, lavora la terra e impianta un laboratorio di sartoria. Il luogo di per sé è fantastico: un paesaggio impressionante, con gigantesche falesie, fiordi grandiosi e luci boreali; un piccolo Eden dove Knut vive immerso nella natura e sviluppa un senso di totale comunione con essa. Non lo è però per gli affari: la famiglia piomba nell’indigenza e per garantire un minimo di istruzione almeno ad un figlio, ma soprattutto per scaricarsi di una bocca da sfamare, il padre affida Knut ad uno zio materno benestante. Il ragazzino (ha nove anni) passa di colpo dal paradiso povero di Hamsund all’inferno di timore, di ipocrisia, di grettezza ammantata di religione che lo attende a Vestfjord. Il fratello della madre, Hans Olsen, è un predicatore puritano, rude e manesco, che detesta l’idea stessa di divertimento, ivi compresi i giochi dei figli, e ricorre alle punizioni corporali per la minima mancanza. Hamsun scriverà che “in quella casa era considerato peccato persino sorridere”, e che “il terrore e le percosse erano equamente distribuiti su tutti i componenti della famiglia, senza preferenze o imparzialità”. Per sfuggire alla brutalità dello zio, nei rari momenti in cui questi non lo fa sgobbare, il giovane si rifugia nella foresta del Grande Nord, dove trova paesaggi di fiaba e respira una atmosfera di serenità. Non è molto interessato alle Lofoten, che pure sono ben visibili dalla costa, e neppure alla pesca e alle attività marinaresche: ama i boschi e le montagne della terraferma, che gli consentono di nascondersi alla vista altrui e di dominare stupendi panorami. Si rinserra sempre più in se stesso, sviluppa un carattere chiuso e guardingo, riesce a dialogare solo con la natura, che va a sostituire i riferimenti famigliari che gli sono mancati.

A quattordici anni, terminati gli studi, decide che ha sopportato sin troppo le percosse e i precetti biblici. Manda a quel paese lo zio, lascia la casa-prigione e torna al sud, dove trova lavoro come venditore ambulante. Ha inizio la stagione dei suoi vagabondaggi, che di lì a poco lo riportano però nuovamente nella regione settentrionale. Per tre anni gira in lungo e in largo a vendere merci d’ogni genere, e svolge anche per un breve periodo l’incarico di maestro elementare alle Lofoten, accumulando le esperienze poi trasposte nel personaggio di Edevart de I Vagabondi. A diciassette anni si ferma: impara il mestiere di calzolaio, impartisce lezioni private e riesce a far stampare la sua prima prova letteraria, L’enigmatico – Storia d’amore del Nordland. Il romanzo viene apprezzato, almeno a livello locale: non solo gli procura un impiego, ma induce un ricco mercante a fargli da mecenate, destinandogli una borsa di studio che gli consenta di continuare a scrivere. La seconda opera, tuttavia, non ha altrettanta fortuna. Viene rifiutata dagli editori e Knut si ritrova a spasso. Letteralmente. Ricomincia infatti il vagabondaggio, ricominciano i mille mestieri. Di volta in volta è sterratore, cordaio, capomastro in una cava, etc… Cerca anche spazio in Danimarca, ma trascorre un terribile inverno di fame e freddo a Christiania, l’odierna Copenhagen.

Decide a questo punto di emigrare in America. Ha ventitre anni e una lettera di raccomandazione per un professore scandinavo dell’Università del Wisconsin, che pur apprezzandolo non è in grado di trovargli una sistemazione adeguata. Anche negli Stati Uniti la vita è dura: dovrà sbarcare il lunario come commesso in un magazzino prima e impiegato in un deposito di legname poi, fino a quando non viene convinto a trasferirsi come assistente al gruppo Unitariano, un movimento religioso nato in Norvegia che ha una sede a Minneapolis. Qui le cose cominciano ad andare meglio, e riesce anche a farsi apprezzare come conferenziere. Nell’estate del 1884 gli viene però diagnosticata la tubercolosi. Gli Unitariani gli pagano il viaggio di ritorno in patria, ma quando arriva in Norvegia scopre, con sollievo e con dispetto, che la diagnosi era sbagliata. Ringrazia il cielo e la sua fibra, e nel frattempo ottiene di far pubblicare qualche articolo letterario e qualche racconto su un paio di riviste. Ma non è sufficiente per vivere.

Riparte quindi nel 1886 per l’America. Il soggiorno dura altri due anni; stavolta lavora come bigliettaio di tram a Chicago, mentre riprende l’attività di conferenziere. Dopo due anni però, definitivamente deluso e consapevole di non avere alcuna chanche come intellettuale in quel mondo, Knut rientra in Scandinavia. Di questa esperienza darà un resoconto molto critico in Dalla vita spirituale dell’America moderna (1889), un libello nel quale accusa gli americani di essere adoratori del dio denaro, e attacca da posizioni aristocratiche la democrazia, la società di massa, il modello produttivo industriale, la civiltà urbana. L’America è per lui il paese del vagabondaggio senza scopo, perché non offre alcun luogo cui tornare quando si è stanchi di girovagare. Estendendo il concetto, in una serie di scritti successivi criticherà anche il turismo di massa, principalmente quello anglo-americano diretto verso l’Europa, che trasforma il fiero popolo norvegese in una popolazione di cameriere e di baristi. Questo antiamericanismo si tradurrà col tempo in una ostilità più generalizzata nei confronti di tutto il mondo anglosassone e della sua cultura, e sarà determinante anche per le future scelte politiche di Hamsun.

Torna a Copenaghen, deciso questa volta ad andare sino in fondo, ad ottenere la consacrazione letteraria. Ha ormai trent’anni. Ripete in pratica l’esperienza di dieci anni prima, che già aveva provato a mettere su carta durante il soggiorno americano. Vive come un barbone, in una squallida mansarda, saltando un pasto dietro l’altro. E racconta la fame che gli attanaglia le viscere, la miseria che gli si attacca alla pelle. “Quello che mi interessa è l’infinita varietà di movimenti della mia piccola anima, l’estraneità originale della mia vita mentale, il mistero dei nervi in un corpo affamato! […]”. Proprio Fame è il titolo di questa cronaca della lotta di un’anima contro la materialità di un corpo, della resistenza ad oltranza alle più elementari esigenze di quest’ultimo: in essa le esperienze dell’autore sono tutte filtrate dalle allucinazioni prodotte dal digiuno e dagli stati nervosi che attraversa in repentine sequenze, variando dall’esaltazione alla depressione più profonda. Il racconto è talmente realistico, così intenso e coinvolgente nella descrizione dei sintomi che, anche se comparso anonimo su una rivista, suscita la commozione e l’entusiasmo del pubblico. L’anno successivo Fame è pubblicato in volume: Hamsun è ormai uno scrittore. E non è solo merito della novità del tema. Oltre ai“mondi segreti che si fanno, fuori dalla vista, nelle pieghe nascoste dell’anima, […] quei meandri del pensiero e del sentimento; quegli andirivieni estranei e fugaci del cervello e del cuore, gli effetti singolari dei nervi, i morsi del sangue, le preghiere delle nostre midolla, tutta la vita inconscia dell’anima” i lettori scoprono una scrittura fresca e impulsiva, condita anche di un paradossale sarcasmo.

Il successo arride ad Hamsun a trent’anni, un po’ in ritardo rispetto a Gorkij e a London. Ma lo scrittore ha tutto il tempo di goderselo. Vivrà altri sessantatre anni, tutt’altro che monotoni, costellati da ulteriori vagabondaggi, da viaggi per la Scandinavia, la Russia, la Turchia, da due matrimoni, da un sacco di libri di successo. Sceglierà di vivere, cinquantenne, in totale comunione con la natura, riceverà un premio Nobel e infine sarà colpito da un’accusa di tradimento e sconterà tre anni di manicomio criminale. Ma è la prima fase della sua esistenza a ispirargli quell’idea dell’uomo e del mondo che trasferirà poi nei suoi romanzi.

Il prototipo del vagabondo di Hamsun è già riconoscibile nel protagonista di Fame. Quello che viene narrato è un vagabondaggio urbano: parrebbe quindi molto più vicino ai percorsi circoscritti di Machen che a quelli aperti di Gorkij o di London. In realtà è distante tanto dall’uno quanto dagli altri. Hamsun racconta le peripezie psichiche e mentali imposte dalla fame e dalla miseria: l’autobiografismo è esplicito e viene confermato proprio dalla sintomatologia minuziosa e puntuale. Il protagonista è un individuo totalmente incapace di inserirsi nel meccanismo organizzativo e produttivo della società moderna: è un disadatto per scelta e per istinto, uno che rifiuta ogni ruolo prestabilito e si sottrae a qualsiasi impegno morale e politico. La sua contrapposizione al mondo pianificato, razionalizzato e sterilizzato dalla cultura borghese si manifesta attraverso reazioni schizofreniche, dettate dalla complessità degli impulsi che urgono, da una forza vitale “originaria” che non può essere ingabbiata nelle abitudini, nella routine. Ma proprio la sua coazione a vagabondare gli preserva uno sguardo diretto sulle cose, ciò che gli consente di vederle nella loro nudità ed essenzialità. Fin qui Hamsun parrebbe un romantico totale, che viaggia sulla linea di Eichendorff, e prima ancora su quella di Goethe (il Goethe del Canto del viandante nella tempesta): un viandante spinto a peregrinare senza sosta per ogni dove perché non sente più suo un ordine fondato sulla famiglia e sulla religione.

Il legame col romanticismo si ferma però a questo punto: gli eroi romantici, i Keats, i poeti che battevano i denti per il freddo e per la fame nelle loro misere soffitte, erano comunque dei personaggi di tragica grandezza. Sconfitti in apparenza nella sfida con un mondo prosaicamente sordo alla bellezza, trionfavano moralmente. Il vagabondo di Fame appare invece un velleitario e un vinto, un refrattario alla modernità che se ne porta però addosso tutte le tare e le stigmate: è nevrastenico, incerto e contradditorio, costantemente dilaniato tra la voglia di andare e la ricerca ossessiva di una panchina sulla quale riprendere fiato. Il suo vagare insensato e febbrile per la città sembra il girare a vuoto di un moscone che sbatte da tutte le parti e trova solo nelle ultimissime righe la finestra per uscire (in questo caso, l’imbarco sulla prima nave in partenza). Non c’è assolutamente nulla del vagabondaggio pragmatico di Gorkij e nemmeno di quello scanzonato di London. Sembra piuttosto apparentabile all’irrequietezza già decadente di Rimbaud.

Questo errare all’impazzata non è giustificato da alcuna necessità pratica o teso ad alcuna finalità; è mosso solo dall’ostinata volontà di tener fede ad un rifiuto. Nel costante delirio di cui è preda, per il protagonista non c’è più alcuna differenza tra i luoghi o tra le persone: a tutto e a tutti applica la sua allucinata interpretazione della vita, in realtà ridotta sempre più alle pure risposte istintuali, e nessuno dei suoi gesti riesce comprensibile a coloro che lo incrociano. Una signora che è rimasta colpita e intrigata dalla sua figura e dai suoi modi inquietanti lo fa salire in casa: ma quando scopre che non è né un ubriaco né un pericoloso seduttore si spaventa a morte per l’innocenza con la quale egli le rivela ciò che prova. “Voi siete un pazzo!”gli dice, prima di cacciarlo. L’incomunicabilità esterna è totale: l’unica forma di arricchimento passa per l’analisi introspettiva, nel caso del protagonista quasi un’auscultazione. Questa autoesclusione dalla comunità umana non si traduce però in astio e nemmeno in una qualche forma di accusa nei confronti della società. Ad Hamsun non importa affatto di denunciare gli orrori della realtà sociale nella quale è immerso. Guarda soltanto a ciò che il contatto con quella realtà gli provoca dentro.

Alla luce degli sviluppi successivi, quella di Fame sembra davvero una febbre di crescita. Dove porti questa febbre, a quale atteggiamento nei confronti della esistenza e della società approdi, cominciamo a capirlo già in Misteri (1892).

Nagel, il protagonista di Misteri è ancora una volta un “instabile”, nella cui vita si intrecciano follia e debolezza, esaltazione e disagio, delicatezza e crudeltà. Piomba nel bel mezzo di una piccola comunità provinciale che lo accoglie dapprima curiosa e divertita, percependolo come un “originale”, ma che poco alla volta lo spinge a margine, bollandolo come uno spostato. A vagabondare in questo caso è infatti il cervello, impegnato in un continuo sproloquio minaccioso e aggressivo, in sostanza un disperato tentativo di difesa contro una realtà esterna che gli fa paura.

In Misteri è evidente ormai che il rifiuto riguarda tutta la cultura borghese, con i suoi annessi ideologici e sociologici, democrazia, progresso, capitalismo, primato dell’occidente, massificazione, e si estende alle idealità rivoluzionarie e alla conflittualità sociale. Il bersaglio preferito di Nagel, quello che riassume tutto ciò che gli è antitetico, è il positivismo alla Ibsen, al quale viene opposta la conoscenza che procede dall’istinto e dall’intuizione. È per il momento una presa di distanza tutta in negativo, che procede per provocazioni e dissacrazioni (Nagel stesso si definisce un “cialtrone” e uno “straniero all’esistenza”): ma intanto cominciano ad emergere, sia pure confusamente, alcune idee chiave che costituiranno l’ossatura della successiva produzione e della posizione ideologica di Hamsun. Ripensando anche la sua esperienza americana (il protagonista è reduce da un lungo periodo trascorso all’estero) lo scrittore arriva a concludere che la società urbana, industriale, ha distrutto l’odalsbonde, l’uomo “totale”, quello che sa badare da solo a se stesso, tipico della tradizione scandinava. L’odalsbonde non ha nulla a che vedere con il self made men americano, l’uomo di successo all’interno della società capitalistica: “ Secondo me, signora, il più grande non è quello che è stato il più abile nel realizzare, sebbene sia proprio lui quello che, ora e sempre, ha suscitato il maggior chiasso al mondo. No, la voce del sangue mi dice che il più grande è colui il quale ha attribuito alla vita il maggior valore concreto, il profitto più positivo”.

È piuttosto una interpretazione dell’ubermensch, l’oltreuomo nietzchiano, ispirata dal persistente sotterraneo paganesimo e dalla tradizione di intimo rapporto con la natura che caratterizzano lo spirito scandinavo. La civiltà meccanizzata ha appunto cancellato per Hamsun i legami che uniscono l’uomo “integrale” agli elementi naturali. Su questa concezione pesa evidentemente anche la personale e negativa esperienza legata alle scelte del padre (ma anche alla propria di emigrante): una volta strappato alla sua terra il contadino perde ogni riferimento, ogni appartenenza e comunione cosmica, per ridursi solo ad un numero, la cui pulsioni non sono dettate dai ritmi della terra, ma dai tempi e dalle finalità del capitalismo industriale e, peggio ancora, finanziario. Diventa un “mediocre”.

In conseguenza di questo strappo possono darsi due possibili atteggiamenti: la resa, o l’omologazione, che è percepita come “normalità”, ma che porta invece a comportamenti assolutamente innaturali, incoerenti e inconclusivi; e la fuga, o il vagabondaggio, la scelta di chiamarsi fuori rispetto alle convenzioni e alle convenienze, e di mantenere proprio attraverso lo sradicamento la libertà dello sguardo e la possibilità di aggrapparsi all’essenziale, alle grandi “forze telluriche”. Il distacco dalla “civiltà” ribalta completamente il punto di vista. Anziché impedita e distratta dai muri delle contingenze e dei ruoli, la vista spazia sull’insieme, e coglie la vanità di esistenze schiave dell’utile: “Se fossimo lassù e oziassimo tra i soli e le code delle comete ci sfiorassero la fronte! Se la terra non fosse piccola e gli uomini minuscoli; una Norvegia con due milioni di montanari e una banca di credito per mantenerli! Che impressione fa essere uomo per così poco? Ti fai largo a gomitate col sudore della fronte per pochi anni d’umana esistenza, per poi morire in ogni caso!” Nel caso di Nagel in realtà il distacco non avviene: non regge il rapporto con la natura, che nel suo delirio sente ormai come perduta e persino minacciosa, e non opera il taglio netto con il convenzionalismo borghese. Sembra quasi che abbia bisogno di rimanerne all’interno per sentirsi vivo e darsi un senso attraverso la protesta e la provocazione, senza assumersi la responsabilità di una scelta decisa. Alla fine non gli rimane che il suicidio.

La scelta parrebbe essere invece stata fatta dal protagonista di Pan, romanzo del 1904. “Soltanto Dio sa, pensavo, a cosa mi è dato d’assistere quest’oggi, e perché mi si apre il mare davanti agli occhi. Forse mi è dato di scorgere il cervello stesso della terra, il suo lavoro, l’intimo ribollio”. Il giovane tenente Glahn stacca completamente dalla società e si rifugia in una capanna posta ai margini della grande foresta, a ridosso di un piccolo villaggio di pescatori nella Norvegia settentrionale. Lì sembra finalmente trovare quella unità vitale che Nagel preconizzava, attraverso una panteistica immersione nella natura. “Mi colmava di pace e di gratitudine l’aroma delle radici, delle foglie, l’aspro profumo dei pini, che fa venire in mente quello del midollo. Non appena ero nella foresta ogni cosa entrava in me, silenziosamente. La mia anima si faceva forte e sicura”. Non sappiamo da dove arrivi, quali esperienze negative lo spingano a cercare la solitudine. Ma è certo che nella grande foresta ha la sensazione pacificatrice di una completa appartenenza: “Conosco i posti dai quali passo, alberi e pietre son lì come prima nella solitudine, le foglie sfrascano sotto i miei piedi. Il sussurro monotono e i noti alberi e i sassi sono troppo per me, una strana gratitudine mi pervade, ogni cosa ha rapporto con me, ogni cosa si mescola con me, io amo ogni cosa”. Assorbe i ritmi della natura, adegua ad essi il suo fisico e il suo pensiero e riscopre una dimensione temporale ciclica, ma tutt’altro che ripetitiva, in contrasto con quella lineare ma monotona della cultura del progresso. “Ero pieno di gioia e di gratitudine per il profumo di radici e fronde e per l’alito grasso del pino silvestre che ricorda l’odore del midollo; solo nel bosco tutto si placava dentro di me e la mia anima diventava uguale e piena di forza. Per giorni e giorni andavo sulle alture boscose, con Esopo al fianco, e non mi auguravo niente di meglio che di poter andare lassù per giorni e giorni, quantunque la neve e la fanghiglia di primavera coprissero ancora metà del paese”. Ogni parte, anche la più insignificante, di quella natura, diventa parte di sé: ne condivide la sorte, e così facendo ad un tempo stesso si annulla nella natura e si infinitizza (che è altra cosa dell’annichilimento nella massa e nel tempo lineare):“Raccatto un ramoscello secco e lo tengo in mano e lo guardo, mentre me ne sto seduto e penso ai fatti miei; il rametto è quasi marcito, la sua misera corteccia mi fa impressione, un senso di pietà mi attraversa il cuore. E quando mi alzo e mi incammino, non butto via lontano il rametto, ma lo poso per terra e mi fermo e me ne compiaccio; infine, prima di lasciarlo, lo guardo un’ultima volta con gli occhi umidi”.

E tuttavia, è sufficiente l’incontro con Edvarda, la figlia di un mercante locale, per far saltare tutti gli equilibri. È un’altra pulsione, a suo modo anch’essa primordiale, in conflitto con ciò che lo ha mosso a cercare rifugio in quel luogo sperduto. Più che dal carattere di Edvarda, che passa dallo slancio nei suoi confronti all’indifferenza più fredda e continuamente lo spiazza, Glahn è in realtà turbato dalla paura nei confronti del proprio sentimento, dalla crescente coscienza che questo sta diventando condizionante. Edvarda rappresenta anche l’altro mondo, quello dal quale tentava di fuggire e che rientra invece prepotentemente nei suoi pensieri. È attratta dalla sua diversità, dal suo “sguardo di fiera”, ma non è affatto disposta a condividerla: vive il rapporto come un capriccio, e lo gioca secondo le regole e le schermaglie della cultura borghese. Appena Glahn accetta quel giuoco e rientra in quel mondo è uno sconfitto; è disorientato, incapace di corrispondere alle attese. Questo amore malato e sofferto è la misura del suo fallimento, della sua incapacità di sottrarsi alle seduzioni fittizie della civiltà. Non può che fuggire, ma ormai è segnato, e potrà liberarsi solo cercando altrove la morte (anche questo, però in maniera contraddittoria: non si suicida, perché questo negherebbe la sua pulsione primordiale a vivere secondo natura, ma spinge un altro, attraverso continue provocazioni, ad ucciderlo).

Nelle opere successive, segnatamente in Sotto la stella d’autunno (1906) e Un viandante suona in sordina (1909), i toni cambiano. Dopo aver “mostrato i pugni serrati” l’autore sembra voler prendere respiro, tirare le somme. Ripensa il suo vagabondo con uno sguardo più pacato: la rabbia cede alla consapevolezza. Hamsun è passato nei romanzi precedenti dal rifiuto delle ideologie all’ideologia del rifiuto, rigettando in blocco la modernità in nome di un nichilismo confusamente nietzchiano; ora comincia ad intravvedere anche l‘alternativa, nel ritorno ad una civiltà contadina preindustriale, incontaminata. Per il momento però il suo personaggio (non è un caso che il protagonista di entrambi i romanzi abbia il vero nome dell’autore, Knut Pedersen) è alla ricerca di un nuovo radicamento, in una società arcaica e remota, per il quale risulta ancora inadeguato. Si porta infatti appresso i segni, le scorie, di una educazione improntata al modello culturale e di vita borghese, e non riesce, e nemmeno lo vuole davvero, a liberarsene totalmente. Non a caso nel suo ridottissimo bagaglio c’è anche il “vestito buono”. Il Pedersen di Sotto la stella d’autunno è un cittadino, un “signore” secondo la percezione dell’epoca, che si finge di umili origini per trovare in uno sperduto villaggio contadino una nuova identità, per vivere lontano dai ritmi e dai ruoli insostenibili della città e dell’industrialismo. In realtà, non è uguale agli occasionali compagni di strada, lavoratori stagionali che si muovono lungo le linee dei raccolti: è intellettualmente su un altro piano. Per questo non riesce ad adattarsi né ai ritmi, sia pure diversi, né alle gerarchie, che esistono anche nella campagna più profonda: non riesce a tenere a freno uno spirito capriccioso, sensuale e almeno in superfice indipendente: La ciclicità e la immobilità di quel mondo dopo un po’ pesano sul suo animo irrequieto, e quindi mantiene un atteggiamento di attrazione-fuga che finisce per dare scacco alla nostalgia per la semplicità primitiva. Pedersen, a differenza dei protagonisti dei romanzi precedenti, non si suicida: ma nemmeno si radica in qualcosa, rimane sospeso nel limbo leggero del “vagabondaggio”.

Lo stesso personaggio ricompare dopo aver compiuto un salto temporale di sei anni ne Un viandante suona in sordina”. Non è affatto cambiato, salva una estraneità ancora maggiore al mondo verso il quale era fuggito trent’anni prima. Il vagabondaggio ne ha fatto un osservatore che si tiene in disparte e non si lascia coinvolgere, per salvaguardare il suo diritto ad andarsene in qualsiasi momento. Vede lucidamente tutto il torbido, l’ipocrisia del mondo provinciale che scorre davanti ai suoi occhi, la futilità delle tresche e l’assurdità delle tragedie. Ha l’intima coscienza che la vita vera sta altrove, scorre nelle vene della natura, si sostanzia del piacere spirituale dell’abbandono al suo respiro. È un tenente Glahn corazzato ormai contro l’irrompere della materialità dei rapporti umani. Ma, ancora, quell’ “altro” che insegue non è definito: la sua condizione è quella di chi si tiene libero in vista di possibili “occasioni di senso”, ma finisce per adagiarsi o incagliarsi in questo stato. E comunque, la sua ricerca di autenticità avviene paradossalmente sotto false spoglie. La ricerca diventa fine a se stessa, diventa essa stessa il senso, e in questa prospettiva la condizione del libero vagabondo, che si ferma solo là e solo quando prova sensazioni positive, non si lega a luoghi o persone e viaggia con bagaglio leggero, è quella ideale. Il fascino che il romanzo ha esercitato sui lettori, e che ne fa probabilmente il più amato tra quelli di Hamsun, si spiega proprio con questa temporanea e apparente leggerezza. Che rasserena, almeno sino a quando non torni ad urgere la nostalgia di un equilibrio vitale meno fragile.

Il passo decisivo, il ritorno senza ripensamenti e incoerenze, si ha finalmente con Il risveglio della terra (o, secondo un’altra traduzione, I germogli della terra), il libro del 1917 che porta Hamsun a vincere tre anni dopo il Nobel. Il romanzo costituisce il capolinea ideologico del percorso di Hamsun (non certo quello artistico: è probabilmente una delle opere meno convincenti, proprio per la pesantezza e l’ambizione dell’assunto), che coincide, come vedremo, con quello di una notevole componente della cultura nordeuropea. E il premio si spiega proprio per questo.

L’eroe protagonista de Il risveglio della terra è Isak. Anche nel suo caso non c’è passato. Si intuisce la peregrinazione, ma non è dato conoscere la provenienza. L’uomo arriva, diretto verso il Nord. Ha con sé un sacco, il suo primo sacco, carico di viveri e di alcuni arnesi. È robusto e rude; ha la barba rossa e incolta; cicatrici sul viso e sulle mani testimoniano il lavoro o la guerra”. Si intuisce anche che, a differenza dei suoi predecessori, ha dato un taglio netto, tanto nei confronti della società borghese quanto in quelli del vagabondaggio. Ha recuperato una determinazione e una pazienza antica, ciò che agli altri faceva difetto. Comincia a costruirsi una capanna, quando è ben sicuro di aver messo tra sé e il resto del mondo uno spazio sufficiente, e si procura anche una donna. Nessuna passione, nessun “sentimento malato”: l’incontro ha un che di animalesco, ma nell’accezione positiva di un accoppiamento semplice e naturale: “La donna si aggirò a lungo per la prateria, senza osar di presentarsi. Era già quasi notte quando finalmente si avvicinò. Si trattava di una donna forte, dagli occhi scuri, florida e rude, con solide mani; aveva ai piedi stivali di cuoio grezzo, come i Lapponi, e sulle spalle una pelle di montone”. Il resto è solitudine, radicamento alla terra, duro lavoro, frugalità, autosufficienza, equo paternalismo. Isak è “un coltivatore della terra, anima e corpo, un agricoltore instancabile. Un fantasma risorto dal passato ad indicare il futuro, un uomo degli albori della coltivazione, un colono della terra vecchio di nove secoli, ed allo stesso tempo, un uomo di oggi”.

È l’utopia del ritorno ad un passato immaginario, come risposta alla non vivibilità della società moderna. Questa società malata di progresso, di democrazia, di liberalismo, non accetta di restare a margine: attenta alla sua serenità dall’interno, attraverso un figlio che sceglie la città e si perde poi addirittura in America, e dall’esterno, con l’apertura di una miniera proprio ai confini della sua terra. Ma Isak continua imperterrito nel suo lavoro duro e nel suo rifiuto alla contaminazione, e lascia all’altro figlio, Sivert, un podere ben organizzato ed una eredità morale semplice e ferma, non religiosa, se non nel senso di un rispetto sacrale e riconoscente della terra. Rivendica una sua purezza antecedente il peccato originale, quando afferma con orgoglio di non aver mai letto un libro. Isak è fondatore di un nuovo-antico modello di comunità, impermeabile alle seduzioni, alle chimere e agli artifici, economici e ideologici, del moderno: “Nessun uomo su questa terra vive di banche e industria. Nessuno. Gli uomini vivono di tre cose e di nient’altro: del grano che spunta nei campi, del pesce che vive nel mare e degli animali ed uccelli che crescono nella foresta. Di queste tre cose”. E comunque il suo rapporto con la natura non è affatto idillico: sono lontani i lirismi di Pan. Isak non si aspetta dalla terra emozioni, ma frutti, sostentamento: è un rapporto dare e avere realisticamente simbiotico. La terra è dura, è bassa, ma è solida: è suolo.

La ferita aperta dalla fuga del padre di Hamsun dalla terra si chiude idealmente con il ritorno ad essa di Isak. Ma non si tratta solo di una ricucitura morale. Dietro questo passaggio dall’epica del vagabondo a quella del contadino sedentario ci sono dei cambiamenti significativi nella vita dello scrittore. Dopo il fallimento di un primo matrimonio, nel 1909 Hamsun, ormai cinquantenne, sposa un’attrice che ha la metà dei suoi anni, Marie Andersen. La giovane lascia la carriera per seguirlo ad Hamarøy, il villaggio dove Knut aveva trascorso la sua infanzia. Lì acquistano una fattoria, col fermo proposito di vivere di agricoltura: la scrittura dovrà essere solo un hobby o poco più. In realtà la più convinta della scelta è forse proprio la moglie: è lei a dedicarsi alla vita contadina, mentre Hamsun continua ad essere irrequieto, e qualche anno dopo decide, con grande rammarico di lei, di lasciare Hamarøy e di tornare verso sud. Dopo un paio di altre esperienze fallite acquistano una tenuta nobiliare in rovina a Nørholm, vicino a Lillesand, che ristrutturano senza badare a spese e nella quale si fermeranno definitivamente. Anche qui, a curare le attività agricole è lei. Hamsun si fa costruire poco lontano un capanno nel quale può dedicarsi a scrivere senza essere disturbato dai figli: e spesso va a cercare ispirazione altrove. La stabilità raggiunta è solo parziale, e mette a nudo, anziché sanarle, le contraddizioni.

Nel momento in cui si definisce l’ideologia nuova cui approda il percorso di Hamsun, quella di una società tradizionale, legata alla natura non da un rapporto di sfruttamento ma da uno di simbiosi, che dalla natura e dalla pratica contadina trae i suoi valori arcaici e perenni, dell’anarchico individualista di Fame e di Misteri non rimane più nulla. Viene però anche clamorosamente smentita tutta quell’analisi impietosa che proprio in Misteri veniva fatta dell’industria culturale, di quelle che sono le liturgie istituzionali della cultura in genere e della letteratura in particolare. Secondo quanto denunciava confusamente Nagel in Misteri, in pratica anche per la letteratura vale il nuovo modello produttivo, con la creazione di un’ampia schiera di produttori specializzati, attraverso la diffusione dell’istruzione di massa (stiamo parlando della Scandinavia); ciò che fa si che ci siano un sacco di potenziali autori di buoni libri: “Buoni libri possono scriverli anche capitani danesi, pittori norvegesi e casalinghe inglesi”. La diffusione di una genialità standardizzata fa sparire la genialità, anche quella vera, in mezzo all’offerta e al consumo di massa. Al più possono salvarsi i grandissimi geni di cui non si parla, perché non sono inseriti nel circuito produzione-consumo letterario, e che quindi sfuggono anche alla visibilità e all’impegno, di qualsiasi tipo, che il mondo appunto automaticamente impone. “La mia intelligenza non è grande, non si spinge lontano, eppure potrei contare centinaia di persone, generalmente ritenute grandi, che riempiono il mondo della loro fama; i loro nomi mi risuonano nelle orecchie. Tuttavia preferirei nominare quei due, quattro, sei massimi eroi dello spirito, quei semidei, quei giganteschi creatori; e poi, per conto mio, volgermi piuttosto a pochi puri, insignificanti, ottimi geni di cui non si parla mai, che vivono poco e muoiono giovani e sconosciuti”.

Ora, questa non è esattamente la condizione di uno che scrive venti romanzi, viene santificato con il Nobel e arriva a superare i novant’anni. La portata e la coerenza dell’atteggiamento polemico di Hamsun vanno misurate anche su questi dati. È probabile che scrivere fosse inizialmente una risposta spirituale al mondo freddo e materialistico che lo circondava, e che lo condannava a tribolare con vari lavori per coprire le esigenze quotidiane. Ma queste tribolazioni, al di là del fatto che sono di tutti, ad un certo punto finiscono, mentre quello di scrivere continua ad essere un bisogno impellente. Del tutto comprensibile ed encomiabile, peraltro. Il fatto è che la risposta a questo bisogno rischia molto spesso di essere melodrammatica, di tradursi in uno smisurato egocentrismo: e ho l’impressione che questo sia anche il caso di Hamsun. La sua compagna di quarant’anni, Marie, lascia un ritratto probabilmente inteso a circonfonderne di romantica sofferenza il lavoro, ma che a me pare soprattutto la testimonianza di un eccezionale egoismo e di una notevole e contradditoria presunzione di sé. Racconta come nei momenti di crisi o di insoddisfazione il marito strappasse rabbiosamente in un attimo tutto ciò che aveva scritto sino ad allora, e di come tutta la famiglia fosse coinvolta nelle doglie creative. Di quanto potesse essere depresso e infelice in quei periodi, e in altri momenti sprezzante rispetto al lavoro letterario, considerato fatuo e insano; ma anche come non avesse poi problemi a lasciare moglie e bambini a Nørholm, alla faccia del radicamento e dell’agricoltura, per trasferirsi a scrivere in un albergo sulla costa. E tutto questo mentre scriveva: “Si parlava della fama di Ibsen, rompendo i timpani con discorsi sul suo coraggio: non era il caso di distinguere fra il coraggio pratico e quello teorico, fra la disinteressata e temeraria tendenza alla, ribellione e la domestica audacia rivoluzionaria? La prima risplende nella vita, l’altra meraviglia a teatro”. C’è poco di Isak, in questi atteggiamenti. C’è molto invece ancora della nevrastenia borghese del protagonista di Fame: insoddisfazione e ansia, desiderio di affermarsi e rifiuto di quel mondo dal quale dovrebbe venire il riconoscimento. Solo che in quello la nevrastenia era ancora giustificata dall’insuccesso, mentre qui ci troviamo di fronte a una perdita completa della dimensione delle cose. Da un lato un’attività che nella recente edizione completa delle opere riempie quindici volumi, e non tutti di capolavori, dall’altro un atteggiamento sprezzante, “infastidito dalla fama e insofferente di onori e ammirazione” (spariva il giorno del suo compleanno per evitare gli ammiratori).

Ho una concezione molto ludica della scrittura, probabilmente troppo limitativa rispetto all’oggetto specifico, ma in linea con quella che ho della vita. Chi scrive deve divertirsi e divertire, nel senso letterale del termine, che è quello di indurre il lettore a pensare anche ad altro che non siano i problemi della immediata sopravvivenza. Hamsun in questo senso diverte, ma nega di divertirsi. Non è l’unico: questa paranoia del partorire cultura con dolore è estremamente diffusa, l’hanno inventata gli sciamani e l’hanno adottata poi gli artisti per giustificare il fatto di fare un lavoro che non sembra – e forse non è – un lavoro, finendo col tempo per crederci essi stessi. Quindi è una sindrome diffusa. Ma nel caso di Hamsun finiamo un po’ più in là, nella sfera degli scrittori maledetti, che si sentono perseguitati, incompresi, vittime del perbenismo e dell’ottusità del sistema o dell’intera società. E più in là ancora, in quella di chi in fondo disprezza non solo chi fa il suo stesso lavoro, ma anche i suoi lettori e quasi l’attività stessa, e accondiscende con molta sofferenza e degnazione a sporcarsi le mani d’inchiostro, ben sapendo che altri sono i valori. Finiamo nella leggenda, autoalimentata prima e coltivata poi da aspiranti discepoli in cerca di un messia (provate a visitare qualche sito sulla rete).

Ora, la leggenda del maledetto e dell’incompreso è clamorosamente smentita da mezzo secolo di successi; quella del poeta-contadino non solo dalla testimonianza della moglie, ma dall’immagine stessa che dell’uomo della terra ci viene data attraverso Isak. Per essere bucolici non è necessario presentare contadini che passano il loro tempo all’ombra dei faggi raccontandosi storie: si ottiene lo stesso effetto quando si irrigano i campi col sudore. Ma di questo mi riservo di parlare più avanti. Per il momento torniamo agli sradicati.

Vagabondi, del 1927, è il primo volume di una trilogia che comprende anche August (1930) e Ma la vita continua (1933). Sono trascorsi quarant’anni da Fame, Hamsun ne ha ormai settanta ed è già stato insignito del premio Nobel. È la prima volta che il termine compare nel titolo di un suo libro: in Un viandante suona in sordina il termine norvegese usato nel titolo è Vander, mentre per “vagabondi” è Landstryker: il primo può essere meglio tradotto con viandante, mentre il secondo esprime proprio l’idea del vagabondaggio. Torna il tema antico, trattato però con uno spirito e con un piglio completamente diversi: e proprio il termine usato nel titolo ne è la riprova. Nel racconto delle peripezie di Edevart, e soprattutto di quelle di August, si mescolano nostalgia e disincanto: la nostalgia riguarda un’età nella quale era possibile ancora commettere degli errori pensando che sarebbero comunque state esperienze; il disincanto riguarda lo spreco di anni e di vite in una giostra errabonda che non approda poi a nulla. I due irrequieti compari rappresentano due modelli diversi di vagabondo (se di vagabondi si può nel loro caso parlare. Sono piuttosto dei venditori ambulanti e dei marinai): pensoso e intimamente insoddisfatto il primo, che si porta dentro un costante senso di colpa nei confronti della terra, dei familiari e del mondo che ha lasciato, ma che è comunque irresoluto e impossibilitato ad un ritorno; assolutamente sradicato e inconcludente, nelle sue fantasie esotiche e nelle sue avventure sempre sul filo della legalità, e anche un po’oltre, il secondo. Le loro avventure trascinano alla lettura, ma non racchiudono più alcun dilemma, alcuna drammaticità: se ne ricava una sensazione di malinconia, e insieme di narrazione picaresca. Sono il racconto di un anziano che rievoca le pazzie giovanili, mostrandone la sventatezza ma sotto sotto rimpiangendo l’incosciente possibilità di vivere alla giornata. Cosa che è tollerabile quando almeno sulla carta di giornate disponibili ne rimangono davanti ancora molte.

In generale, comunque, anche nel periodo più tardo i vagabondi raccontati da Hamsun non sono degli agonisti nella lotta primordiale per la vita, come quelli di London. Sono invece come abbiamo visto alla ricerca di un equilibrio interiore che è stato turbato dalla civilizzazione moderna, meccanicistica e razionalistica, e dall’allontanamento dalla natura. Cercano qualcosa che non è Dio e nemmeno l’avventura: cercano delle radici, esattamente al contrario di quelli di London. Si potrebbe dire che i vagabondi di London sono irrequieti, come il loro prototipo Hukleberry Finn, quando devono fermarsi, perché per indole non hanno terraferma; mentre quelli di Hamsun sono irrequieti, stanno male, proprio durante la peregrinazione della ricerca, anche se questo girovagare li strappa a modelli e convenzioni che non tollerano o che semplicemente sono incapaci di fare propri.

In effetti sono più diversi da quelli di Gorkij e di London di quanto questi non lo siano tra loro. Sono meno disperati dei primi, sono meno rassegnati, o attaccati al loro destino errabondo, dei secondi. È da chiedersi se addirittura possano essere fatti rientrare nella categoria del vagabondo quale noi la intendiamo, che suppone un errare, per scelta o per costrizione, senza prospettive: mentre qui ci troviamo piuttosto di fronte a dei fuggitivi, che si staccano da una realtà che va loro stretta per inseguire un sogno di fortuna, e lo perseguono senza prendere coscienza della sua inconcludenza, come August, o non riescono a tornare indietro anche quando lo vorrebbero, come Edevart.

Riesce abbastanza strano pensare che Vagabondi abbia potuto essere letto, nella seconda metà del secolo scorso, come una sorta di risposta, anzi, di anticipazione europea a Sulla strada. Nello spirito che anima i protagonisti del primo non c’è assolutamente nulla della incoscienza, sia pure alcoolica, di quelli del secondo. Quella di Hamsun alla fine è un’Europa luterana, tormentata e priva di gioia. Di lì a breve diverrà addirittura uno scenario tragico.

Quando esce Ma la vita continua Hitler è appena salito al potere. Nel volgere di pochi anni crescono anche nei paesi scandinavi dei movimenti populisti le cui matrici ideologiche, il culto romantico delle origini, il mito del volks e del vikingo, il nazionalismo, il rifiuto della civiltà industriale e della cultura liberal-democratica, la xenofobia, sono le stesse del nazismo. In Norvegia il principale di questi movimenti è il Nasjonal Sammlung di Vidqun Quisling. Il leader fascista e populista vagheggia una Norvegia inclusa in una grande confederazione germanica, in funzione anti-americana, anticomunista e più genericamente anti-capitalistica: ciò che corrisponde in qualche misura alle aspettative dell’ormai ottantenne Hamsun.

Allo scoppio della guerra le truppe tedesche invadono il paese, chiave strategica per il controllo del mare del Nord e del ferro svedese, incontrando peraltro una forte resistenza. Contemporaneamente Quisling tenta un colpo di stato, che non riesce e che fa si che i tedeschi, una volta sconfitto l’esercito norvegese, instaurino un regime di occupazione militare. Nel corso della guerra Hamsun si reca personalmente da Hitler per chiedere un nuovo assetto del governatorato imposto alla Norvegia, e in effetti questo viene sostituito da un governo fantoccio guidato dallo stesso Quisling. Ad Hamsun, in realtà, al di là del problema politico contingente interessa verificare la visione del Fuhrer rispetto ad un nuovo assetto mondiale che escluda le banche, la finanza, ecc. È immaginabile quanto patetico possa essere stato quell’incontro, tra un vecchio quasi completamente sordo e perduto nelle sue fantasie e un uomo da sempre in preda alle sue ossessioni. In compenso dopo la guerra Hamsun persisterà a difendere le sue scelte, e dopo la morte di Hitler ne scriverà persino un necrologio commosso: ciò che significa che non si è reso affatto conto di avere di fronte un alienato.

Al termine del conflitto lo scrittore viene arrestato e posto sotto accusa per collaborazionismo. Il suo sostegno al regime filonazista di Quisling è stato, anche per ragioni anagrafiche, solo morale, e nemmeno sempre incondizionato (ad esempio, non condivide la deportazione degli ebrei: d’altro canto nei suoi libri non c’è traccia di antisemitismo): ma è indubbio che la politica nazionalista norvegese rispecchi nelle grandi linee la sua concezione del mondo, e che da questa sia stata anche influenzata.

Hamsun viene quindi processato e internato in un istituto psichiatrico, dal quale uscirà tre anni dopo, ormai novantenne. Tutt’altro che piegato, però: durante l’internamento scrive Sui sentieri dove ricresce l’erba, un’autodifesa che nulla concede a pentimenti o ritrattazioni, e che è invece un attacco sarcastico e altezzoso, al limite della presa in giro, nei confronti delle istituzioni che lo hanno condannato e di una società nella quale continua a non riconoscersi. Tra l’altro, introduce anche qui la figura di un vagabondo, un vecchio amico che funge da pretesto per la rievocazione del buon tempo antico. In realtà è ormai solo: anche la moglie, che gli ha dedicato una vita intera, piegandosi di buon grado alla sua concezione patriarcale del mondo e della famiglia, non intende più seguirlo su questa strada. Esce quindi di scena come uno dei suoi viandanti, in sordina, alimentando ulteriormente il mito di un animo nobile e sdegnoso, che non si è piegato alla persecuzione e che ha guardato negli occhi i suoi avversari sino all’ultimo istante.

 

Il vagabondo nella letteratura del nord-Europa

Il percorso letterario e prima ancora esistenziale di Hamsun si presta ad un sacco di riflessioni. Qualcosa sul ruolo dell’artista, sui suoi mal di pancia creativi e sulla coerenza tra vita ed opera l’ho accennato di sfuggita, e meriterebbe un approfondimento che rimando ad altra occasione. Vorrei invece soffermarmi sullo specifico della figura del vagabondo nella tradizione letteraria nordeuropea, come ho fatto per gli altri autori di questa trilogia, e poi sulla possibilità di rintracciare, partendo da questa tradizione e considerando l’opera, la vita e le idealità di Hamsun, le origini e le permanenze di un’altra complessa questione, che esula dall’ambito strettamente letterario.

Le letterature dei paesi del Nord, compresa quella tedesca, hanno raccontato la figura del vagabondo molto prima che esplodesse l’idealizzazione romantica dell’uomo libero, sciolto da ogni legame sociale e per questo più capace di un rapporto equilibrato col mondo della natura. I personaggi di Hamsun si inseriscono dunque in una tradizione letteraria che è antica almeno quanto quella inglese e può essere fatta risalire sino ai picari di Grimelhausen (L’avventuroso Simplicissimus) – se non si vogliono scomodare i chierici vaganti o i pellegrini mistici del medioevo –, e che è stata mantenuta viva per secoli da una tormentata storia di guerre e persecuzioni. La letteratura naturalmente non ci racconta il fenomeno, ma il suo riflesso su particolari sensibilità, e quella nordica nella fattispecie lo ha assunto in più di un autore a modello di conoscenza e di vita. Ciò è tanto più singolare in quanto in un’area a prevalente confessione luterana la considerazione sociale del vagabondo non può che essere decisamente bassa: e se pure non esiste una legislazione specifica, come quella inglese, per arginarlo, lo strumento di contrasto che là era il lavoro coatto o il reclutamento forzato nella marina qui è rappresentato dall’arruolamento negli eserciti. Nel clima post-rivoluzionario degli inizi dell’Ottocento il fenomeno però esplode. La smobilitazione degli eserciti alla fine delle guerre napoleoniche e i primi effetti sociali della rivoluzione industriale creano un gran numero di sbandati, determinando reazioni opposte: a seconda che l’angolo visuale sia quello romantico o quello realistico i vagabondi diventano modelli di vita o costituiscono un problema sociale.

Nel 1820 uno scrittore danese, Steen Steensen Blicher, in un articolo intitolato Sulla gente della notte ci offre un saggio di quest’ultimo tipo di reazione. Blicher mette in guardia contro la crescita e la pericolosità di una categoria di esseri che considera ai margini della società e dell’umanità stessa, una casta di paria alla quale sono lasciati i lavori che persino i contadini rifiutano di fare (ad esempio, la scuoiatura degli animali). Si riferisce a quella comunità itinerante di vagabondi che da sempre ha abitato il panorama delle società rurali, raccogliendone gli scarti, coloro che per i motivi più diversi riuscivano indesiderati o venivano banditi, oppure si autoemarginavano per traversie fisiche o sentimentali, e che comunque a quella società erano funzionali (quelle persone dalle nostre parti, ancora sessant’anni fa, erano chiamate “lingere”).

Blicher non è affatto tenero: parla di una vera e propria “razza” (dice che sono “immutabili”, gli manca solo il termine “geneticamente”), arriva persino a parlare di deportarli in campi di lavoro in isole deserte, di togliere loro i figli, di separare gli uomini dalle donne, dì farli quindi estinguere “naturalmente”. Ritiene che proprio per il loro modo di vivere siano portatori di dissolutezza, di vizi, in un mondo moralmente solido e fondato sull’etica del duro lavoro come quello contadino. Il che, data l’irregolarità della loro esistenza, sotto un certo aspetto è anche vero, perché sono viventi testimonianze di una possibile esistenza diversa. A spaventarlo comunque non è tanto la loro crescita numerica quanto la loro aumentata visibilità: proiettata sullo sfondo dei nuovi assetti economici la loro ombra comincia ad essere allarmante.

Eppure nella gran parte dei casi questi personaggi sono investiti, sia pure di riflesso, anche di una luce positiva. Intanto esiste tutta una tradizione, risalente per l’area scandinava addirittura all’Edda di Snorri, che prescrive l’accoglienza del viandante e del pellegrino. C’è poi il fatto che raramente si tratta di mendicanti puri e semplici. Più spesso offrono dei servizi (manodopera per i raccolti) o vendono piccole merci, o magari sono artigiani (arrotini, impagliatori, ciabattini, ecc…) o esperti di macellazioni e di concia: spesso sono cantastorie, o suonatori, e sempre fungono da gazzettini viaggianti. Il loro fascino è comunque legato al fatto di aver compiuto una scelta diversa, fuori dagli schemi. Possono essere accolti o rifiutati, possono fare paura, ma rientrano comunque nel quadro di quel tipo di vita.

Questo secondo modello viene proposto pochi anni dopo da Joseph von Eichendorff nelle Memorie di un perdigiorno. Qui il punto di vista risulta addirittura ribaltato. Il protagonista, che tutti chiamano Tangenichts (traducibile, oltre che in “perdigiorno”, in “buonoanulla” o in “fannullone”), ritiene che i veri pigri siano coloro che non vogliono muoversi per andare a scoprire il mondo, e si perdono la gioia di un rapporto più diretto e pieno con la natura. Una lunga peregrinazione attraverso foreste e paesaggi alpini, vissuta spensieratamente alla giornata, lo porta sino in Italia, dove conosce strani personaggi, erranti come lui, pittori che si chiamano Leonardo e Guido, vive storie sentimentali e viene accolto ovunque con benevolenza. È il vagabondo artista, quello che si muove per una scelta di vita: viaggiare, conoscere, sottrarsi alle convenzioni.

Tutta la letteratura romantica, a partire da Goethe, pullula naturalmente di questo tipo di Wanderer: sono però “viandanti” alla maniera dello Heine dei Reisebuck o del Friedrick del Viandante sul mare di nebbia, piuttosto che veri e propri vagabondi. Questi ultimi si incontrano più facilmente nei racconti e nelle fiabe popolari, nei fratelli Grimm o in Brentano (I musicanti di Brema, ad esempio) o come sbandati veri e propri nel teatro (I masnadieri). Non manca naturalmente anche tra i letterati qualche caso di vera e propria erranza. Jakob Reinhold Lenz, un poeta di origine lettone, esponente dello Sturm und Drang, già studente di Kant e amico di Goethe, trascorre quasi metà della sua esistenza vagabondando per l’Europa, fino a morire assiderato per strada in Russia a quarant’anni. Il suo è decisamente un caso clinico, attorno al quale però verrà costruita una leggenda.

Nell’ultima parte del secolo la situazione cambia e la differenza si radicalizza. Mentre nella società contadina il vagabondo era un marginale, ma organico a quel mondo, in quella industriale è solo un rifiuto. La percezione quindi muta. Gli scrittori che ne parlano, e che vivono a cavallo tra le due epoche e hanno conosciuto anche la vecchia figura del vagabondo, la rievocano con nostalgia.

Nelle Storie dell’Himmerland un altro danese, Johannes Jensen, premio Nobel nel 1944, racconta un mondo rurale che sta scomparendo o che è già scomparso, nel quale anche gli “originali”, gli irregolari avevano un loro posto: e presenta affascinanti figure di vagabondi solitari che non solo sono accettati nei villaggi contadini, ma sono attesi, soprattutto dai bambini, come portatori di una ventata di novità. Il suo Cacciatore di Lindby (Lindbyskytten) non è affatto un mendicante: è un cacciatore e pescatore, e di quello vive, oltre che di quanto riesce a pelare ai contadini col gioco d’azzardo. Tordenkalven è un vagabondo che lo scrittore stesso ha conosciuto da bambino, un pezzo d’uomo affetto da deformità, che canta struggenti ritornelli o canzonacce oscene e raccoglie nel suo peregrinare oggetti strani, suscitando la meraviglia di grandi e piccini. Ne Il venditore di Norimberga e soprattutto ne Il circo Wombell si affaccia invece qualcosa di nuovo, l’incontro con una dimensione commerciale o con una realtà in movimento che rimandano ad un misterioso e favoloso mondo esterno. È la modernità che sia pur timidamente irrompe e crea un nuovo tipo di sbandato, non più in sintonia col mondo atavico e senza tempo della sperduta campagna. L’arrivo di un circo, e per di più straniero, è l’ingresso di un mondo altro, che lascia intravvedere orizzonti ben più ampi, e fa nascere nei bambini protagonisti-narratori la voglia di uscire dal chiuso e immobile Himmerland per andare verso la città, o addirittura verso un altro continente. Con la probabilità, in quel mondo altro, di perdersi.

Il nuovo vagabondo è invece, più che un outsider, un disperato, che si porta addosso proprio il suo essere un prodotto di scarto. Nell’area scandinava questa figura comincia ad essere frequente nella seconda metà dell’Ottocento (tra l’altro, è un periodo di intensissima migrazione scandinava verso l’America, che vede coinvolto in mezzo secolo, sino alla prima guerra mondiale, un milione di persone, tra le quali, oltre ad Hamsun, lo stesso Jensen).

La constatazione della scomparsa del vagabondo classico da parte di Jensen non prelude comunque ad un rifiuto della modernità. Testimonia di un passaggio epocale, ma è per l’appunto una presa d’atto. Va bene la nostalgia poetica, ma il futuro per Jensen è il progresso.

Hamsun ha in proposito un atteggiamento opposto. Al contrario di Jensen, che l’America l’ha conosciuta piuttosto come un visitatore che come un migrante, e che nella sua avanzata tecnologia ha visto prefigurato lo sviluppo futuro dell’umanità, ne riporta un’impressione totalmente negativa. Durante il suo lungo soggiorno americano ha frequentato gli ambienti dai quali muovono i personaggi di London (gli hobo svernavano in genere a Chicago, che costituiva lo snodo ferroviario più importante tra Est ed Ovest), ma senza la stessa libertà, perché è pur sempre uno straniero. Ne ha incontrati quindi gli aspetti più pesanti ed oppressivi. Tornato in Norvegia vede i contadini strappati alla loro terra dal richiamo della sicurezza del lavoro industriale, o comunque non più disponibili ad accettare come naturali i sacrifici che la terra chiede. Questo produce un salto antropologico. In una lettera allo stesso Jensen afferma che il passaggio da una cultura contadina ad una industriale non può essere evolutivo e incruento: si è di fronte ad una contrapposizione radicale, e occorre schierarsi, da una parte o dall’altra. Lui ha scelto. L’uomo scandinavo originario era per Hansun “l’uomo totale”, l’odalsbonde, l’individuo autosufficiente che difende strenuamente la sua individualità (c’è molto di luterano, in questo senso della “salvezza individuale”). Nel lavoro urbano va invece a condividere il destino di molti, si annulla nella massa. Rompendo i legami diretti con la terra e la natura perde anche il suo sistema di valori, si trova orfano di senso, finisce vagabondo alla ricerca di sé.

Il vagabondo proposto da Hamsun non rientra in nessuna delle tipologie che ho sin qui individuate. È vicino all’immagine romantica di Eichendorff, ma non ne condivide la gioia e la spensieratezza. Fa una scelta, come quelli di London, ma la vive poi in maniera conflittuale. Il perché lo si capisce proprio dal libro che ad Hamsun ha valso il Nobel, nel quale non di vagabondi si parla, ma di contadini che si legano in una sorta di continuità fisica alla loro terra.

In realtà Hamsun non vagheggia solo un ritorno alla natura, ma ad un “mondo” legato alla natura: quindi ad un sistema economico e di rapporti sociali fondati sull’esistenza di una nobiltà terriera con caratteristiche medioevali, incarnate dalla figura del guerriero-agricoltore. Non è il solo, nella cultura norvegese: un suo quasi coetaneo, Hans Ernst Kinck, sotto l’influsso di Nietzche dà un’interpretazione della storia norvegese in termini di conflitto tra individuo e stirpe (ad esempio ne Il malandrino, 1909) e denuncia la mancanza di radici della società moderna, quelle radici che erano invece proprie della società tradizionale nordica (e di quella vikinga in particolare). Lo svedese Verner von Heidenstam (Nobel nel 1916, un anno prima di Hamsun), ha esordito proprio nel 1888, lo stesso anno della pubblicazione di Fame, con un’opera mista di versi e poesia, Anni di peregrinazione e di vagabondaggio, suscitando un eguale interesse. Von Heidenstam è un aristocratico, fa esperienze opposte a quelle di Hamsun, i suoi vagabondaggi sono in realtà lunghi viaggi in Italia, in Francia, in Grecia, in Turchia e nel Vicino Oriente, a partire dai diciotto anni. In lui l’immagine del vagabondo è solo simbolica di uno spirito assolutamente indipendente (“Non bisogna seguire la corrente come un relitto, ma risalirla come un salmone”), ma la visione che ha della società ideale è la stessa di Kinck, basata su un assetto gerarchico nobiliare, nel quale ciascuno ha un ruolo e sa qual è il suo posto. Altri, come la scrittrice Sigrid Undset (ancora un premio Nobel) si richiamano negli stessi termini ai valori forti del cristianesimo medioevale. C’è insomma un vero e proprio movimento “scandinavista”, a cavallo del secolo, che punta al recupero delle tradizioni popolari, del rispetto reverente per la natura, dei valori di solidarietà e laboriosa onestà tipici del mondo provinciale.

È un tema che continua a ricorrere anche nella cultura nordica novecentesca. Lo ritroviamo in un ennesimo premio Nobel, lo svedese Harry Martinson, i cui titoli sono già di per sé significativi, a partire dalle raccolte poetiche Nomade (1931) e Natura (1934) per arrivare ai Viaggi senza meta del 1949. Martinson, che ha conosciuto come Hamsun un’infanzia di durezza e povertà estrema, prosegue la polemica con il mondo moderno, con i miti della tecnologia e del progresso materiale, con la dissacrazione dei valori naturali fondamentali. Ne La strada per Klocrike gli spostamenti del protagonista sono dettati proprio dall’avanzare della modernità. Dapprima egli la insegue, cercando di imbarcarsi per l’America, poi, dopo essere stato respinto, prende coscienza e la rifugge, e comincia a vagare per i boschi e per i campi più remoti della Svezia.

In Martinson lo stesso fenomeno già portato in evidenza da Jensen, la scomparsa del vagabondo, assume una valenza del tutto negativa. È paragonabile a quella delle lucciole per Pasolini. Un segnale inquietante della trasformazione ormai avvenuta, e irreparabile. Non è più nemmeno questione di schierarsi, come sosteneva Hamsun, a difesa di un mondo, perché quel mondo non c’è più.

Nel momento stesso in cui racconta la fine di un mondo e di una categoria particolare, Martinson ce ne lascia un fantastico ritratto. Il suo Bolle, protagonista de La strada per Klocrike, è probabilmente, assieme a quelli di Jensen, il vagabondo più vero e credibile di tutta la letteratura nordeuropea. Martinson è accomunato ad Hamsun, a Gorkij, a London da un’infanzia segnata dall’abbandono e dallo sfruttamento. Non deve inventare proprio nulla per raccontare la miseria. Orfano di padre a quattro anni, abbandonato dalla madre (che va in America) assieme ad altri sei fratelli, è affidato a famiglie che lo sfruttano e dalle quali scappa regolarmente. La sua giovinezza, a partire dai dodici anni, è davvero un continuo vagabondare, e non nella sola Svezia ma in giro per tutto il mondo, dall’India all’America Latina, dove arriva come marinaio. Nel 1974 condivide il Nobel con un altro scrittore svedese, Eyvind Johnson, che ha alle spalle un’esperienza infantile esattamente simile alla sua: segno di una condizione tristemente diffusa nella Scandinavia del primo Novecento. Con lo stesso Johnson, con Ivar Lo-Johansson, altro scrittore svedese che racconta ne La mia vita di vagabondo in Francia (1927) esperienze analoghe alle sue, e con quella che sarà a lungo la sua compagna, l’anarco-sindacalista Moa Martinson, Harry forma il nucleo degli “scrittori proletari”, giovani che partendo da una condizione sociale decisamente sfavorevole arrivano grazie alla tenacia a coronare il loro sogno di scrittura, e che proprio in ragione del loro percorso vogliono dare a quest’ultima un nuovo senso. Che non è assolutamente quello del “realismo socialista” e del culto della concretezza, ma quello della dialettica costante sogno-realtà.

Martinson ha un’idea del rapporto uomo-natura molto vicina a quella di Hamsun, ma meno contraddittoria. La sua passione giovanile per la botanica (c’è una tradizione di eccellenza in Svezia) viene rafforzata nei molteplici viaggi, che gli fanno conoscere anche la natura delle aree tropicali, e si traduce poi a livello letterario in una minuziosa capacità descrittiva, ma soprattutto in un senso fortissimo di appartenenza ad un ordine superiore, cosmico. Come il contemporaneo Hesse, viene attratto dalla parte che la natura ricopre nella religiosità orientale, soprattutto in quella induista. Questo lo porta, di converso, a maturare un’avversione ed una critica, che sviluppa in una serie di saggi, nei confronti della civiltà moderna dell’industrialismo e del consumo, fondata su un rapporto di sfruttamento e di dominio sulla natura, e quindi di distruzione degli equilibri naturali. Contro questa logica Martinson elabora una teoria della fuga: ma, e qui la differenza nei confronti di Hamsun si fa totale, non certo verso un mondo contadino sano e virile, che in realtà non è mai esistito, e che è invece un inferno, soprattutto per la condizione comune dello sfruttamento infantile, quanto invece verso uno straniamento totale, possibile solo col vagabondaggio. “Un mondo come questo è l’inferno. Merita che lo si fugga, che non lo si ascolti, che ci si rifiuti di cooperare con esso e di fargli dono della propria forza”.

È la scelta compiuta appunto da Bolle. Sigaraio artigiano, che ama il suo lavoro, Bolle si ritrova a trent’anni schiacciato dall’arrivo della macchina. Non può competere, non vuole stare alla catena, è anche stato lasciato dalla donna che amava. “Non voglio ciò che la gente chiama realtà”, dice. Decide allora di punto in bianco di mollare tutto e mettersi “per la strada”. Con quale meta? “Il cammino diventa un fiume di promesse che entra dai loro occhi ed esce dai loro talloni, un fiume di promesse che è il loro scopo: la realizzazione di se stessi” scrive Martinson. E altrove: “A volte Bolle aveva l’impressione d’essersi messo per strada unicamente per questo, perché la gioia di esistere gli veniva direttamente dal sole e dalla luna”. Ma quella che Bolle vede nel corso delle sue peregrinazioni, al di là delle promesse e della luna, è una Svezia desertificata dall’emigrazione verso l’America. Trova altri compagni di viaggio, vagabondi come lui, vive avventure ed esperienze, si forma un nuovo punto di vista sull’umanità e sul senso della vita.

Non incontra invece tutta la benevolenza raccontata da Jensen. I vagabondi in giro sono molti, e persino le “anime buone” manifestano la loro insofferenza. “Si diceva ci fossero sessantamila vagabondi nel paese e questa cifra creava preoccupazione. Ma sessantamila non sono molti, per una superficie così’ grande. La tartina morale distribuita col pane era in compenso così pesante che se si fosse potuto farne un unico blocco di pietra avrebbe potuto schiacciare un milione di individui, come una gigantesca mola da mulino”.

A chi gli ammannisce la sua “tartina” di morale (“Ma senti, come andrebbero le cose se tutti fossero come voi?”), Bolle risponde: “Senza dubbio altrettanto male che se fossero tutti come voi”. Ci sono anche contadini avari che rinfacciano ai vagabondi una totale incapacità di concludere qualcosa, spingendo quelli più ingenui a dimostrare loro il contrario e a fornire quindi una prestazione d’opera gratuita. Solo pochi, quelli che definisce “il popolo delle fattorie clementi … considerano invece il lavoro come un divertimento leggermente ironico, prescritto dalle circostanze, dalla fatalità, dall’esigenza di mangiare, e non come un impegno maledetto, ipocrita e onorevole”.

I “vagabondi del lavoro” sono in fondo per Bolle gli unici che hanno conservato memoria della propria dignità in mezzo alla tempesta sociale e allo sradicamento. Uno di essi, che ha deciso di entrare in un villaggio per mendicare, dice: “È il mio giorno di realtà”. E un suo compagno, che invece si ferma fuori, risponde: “É il mio giorno di sogno”. E malgrado la povertà, malgrado il disprezzo, malgrado la polizia non sia affatto tenera con quelli della sua specie, malgrado i cammini faticosi e gli inverni svedesi, egli non si pente mai della sua scelta. La difende anzi, a nome di tutta la categoria:C’è ancora tra voi chi pensa che i vagabondi si mettano in strada per divertimento? Sono uomini smarriti. E si rimprovera loro lo smarrimento. ‘Provino anche loro– si dice – a sentire l’effetto che fa piazzare il macadam o tagliare sampietrini! Sappiano queste canaglie cosa significa far bollire l’asfalto e andare a spasso sotto il sole dietro questa infernale marmitta!’ Quegli uomini scioperano per buone ragioni. Non lo fanno per motivi d’ordine economico o sociale. No, essi rifiutano semplicemente gli ordini, questo gusto della tortura che è inseparabile dall’obbligo di lavorare. Quella che noi chiamiamo pigrizia è dal loro punto di vista una pigrizia solo psicologica, diretta contro il lavoro obbligatorio concepito come una tortura, contro un’ipocrisia che si è data il nome di ‘onore del lavoro’. Gli uomini che sono sdraiati là sono pigri, depressi e smarriti. Ma sono uomini. E non sono pigri, depressi e smarriti perché sia divertente esserlo. Sono vagabondi per un malessere. Ed essi fuggono questo malessere. Sperano in un miracolo”.

Si diceva, a proposito della percezione anglosassone del vagabondo, del modello Pinocchio e di quello Hucky Finn. Anche la letteratura nordeuropea ha i suoi modelli da proporre ai fanciulli. Li ha trovati soprattutto in una scrittrice, Astrid Lindgren, quella della famosissima Pippi Calzelunghe. Pippi è già un prototipo molto vicino a quello del vagabondo. Le sue idee sulle regole che governano il mondo potrebbero benissimo essere sottoscritte da Bolle. Ma la Lindgren ha disegnato anche una figura di vagabondo vero e proprio, presentato in una chiave nettamente positiva, e che ancor più positiva risulta dal raffronto con i cosiddetti “normali”. In Rasmus e il vagabondo il piccolo Rasmus, che fino a nove anni ha conosciuto solo e sempre l’orfanotrofio, dove ha un pasto caldo e un letto ma nessun legame affettivo, decide di scappare. Incontra Oskar, un luffare (è questo il termine svedese per vagabondo) allegro e spensierato, che vive portando le sue canzoni da una fattoria all’altra, sulle aie d’estate e nelle stalle d’inverno, e ne condivide per un pezzo la vita errabonda. Al di là degli intrecci quasi polizieschi della vicenda, e del lieto fine a sorpresa, resta il fatto che i vagabondi dell’immaginario infantile italiano sono il Gatto e la Volpe, di quello scandinavo è il dolcissimo Oskar. Il che mi sembra più significativo di qualsiasi analisi sociologica o psicologica.

Un’epopea ancora diversamente sfumata del vagabondo è quella celebrata da Hermann Hesse. Pur essendo tedesco Hesse ha radici culturali molteplici, e patisce come Hamsun (e come anche Gorkij) un’educazione impartita in un clima familiare rigidamente pietista (il padre, di origine russa, era redattore della rivista delle missioni a Basilea, ed era già stato in missione in India, assieme alla madre, a sua volta figlia del presidente delle edizioni). Questo produce in lui lo stesso effetto che abbiamo già visto negli altri: il rifiuto di una religiosità che si rivela tutta severità e forma e dell’idea di un Dio scostante, imperscrutabile e lontano, la ribellione istintiva a qualsiasi dovere o comandamento gli sia imposto e la ricerca di qualcosa che vada a colmare il vuoto di senso che tutto ciò ha creato.

Nel libro che nel 1904 lo fa conoscere, Peter Camezind, Hesse racconta la condizione preliminare al vagabondaggio: un villaggio racchiuso tra le pareti di una stretta vallata, un clima apparente idilliaco, il lago, i boschi, la semplicità della vita quotidiana, che si rivela in realtà soffocante: “Era, come dappertutto, una riproduzione in piccolo del grande universo […] solo vi era steso sopra un eterno velo di occultata oppressione. Il dipendere dalle forze della natura e gli stenti di un’esistenza di pieno lavoro avevano conferito con lo scorrere del tempo alla nostra razza una inclinazione alla malinconia”. Parte quindi dalla situazione che per Hamsun è un approdo, per fuggirne. Dopo la morte della madre Peter decide di andare alla scoperta del mondo che sta fuori, oltre il giro dei monti che incorniciano la valle nella quale ha sempre vissuto. Vede passare in alto le nuvole, le vede sparire oltre le creste, le coglie come “l’eterno simbolo di ogni vagabondaggio, d’ogni ricerca, d’ogni desiderio o nostalgia. E così, come esse stanno sospese tra cielo e terra titubanti … ugualmente titubanti, piene di desiderio e caparbia, stanno sospese le anime degli uomini tra il tempo e l’eternità”. Le ha avvicinate, le nuvole, già a dieci anni, al tempo della sua prima scalata: e di lassù ha scoperto quanto grande sia il mondo che sta sotto, e che cavalcando le nuvole si può percorrere: “Mi ero stupito, vedendo i dirupi e le pareti rocciose che ben conoscevo dal asso, così enormemente grandi. Allora vidi all’improvviso, del tutto soggiogato dalla solennità del momento, l’immensa vastità quasi penetrarmi addosso. Così favolosamente grande era dunque il mondo!”. L’esperienza di vagabondaggio di Peter si rivela però alla fine un insuccesso: “Se ora ripenso ai miei viaggi e ai miei tentativi d inserirmi nella vita, provo insieme rabbia e piacere di aver dovuto vivere di persona l’antica esperienza che i pesci stanno bene in acqua e i contadini in campagna”. È proprio il tentativo di inserirsi nella vita moderna ad aver determinato il fallimento, in una vita che in realtà gli è estranea, e alla quale rinuncia non appena ne acquisisce consapevolezza.

La rinuncia a questo tentativo fa invece di Knulp, il protagonista dell’omonimo romanzo breve del 1915 (ma iniziato già nel 1907), il perfetto vagabondo. Knulp non è un acchiappanuvole: è la diretta filiazione del Tangenichts di Eichendorff, filtrata attraverso tutte le suggestioni romantiche del caso, ma ben digerite: “La mia anima fu assalita dalle note, seducenti sensazioni di ogni vagabondaggio, fuggenti e variopinte come l’ombra di una nube. Rimpianto per quanto si è perduto, brevità della vita e pienezza del mondo, mancanza di una patria e ricerca della patria, alternate a una fluente sensazione di distacco totale da spazio e tempo” dice Hesse in Pellegrinaggio d’autunno (1906). Un perdigiorno, un buono a nulla in rapporto alle esigenze produttive della società: ma un uomo e un viandante che conserva la sua naturale eleganza e cortesia anche quando è coperto dalla polvere delle strade che percorre incessantemente; che ha alle spalle buone letture, primo tra tutti naturalmente Tolstoj, e che suscita in chi lo incontra benevolenza immediata e rispetto, e soprattutto una sottile nostalgia della lontananza. È diverso da Peter, perché questi va a cercare fuori ciò che lo potrebbe appagare, mentre Knulp lo trova nella sua capacità di aderire totalmente al mondo della natura e di attraversare con leggerezza quello degli uomini. Fa con naturalezza quello che il tenente Glahn di Hamsun si sforzava di fare.

Knulp non è tuttavia un beato incosciente: certo, come dice il suo amico Rothfuss “è uno che alla vita chiede solo il permesso di stare a guardare”. Ma è anche consapevole del fatto che la frantumazione psicologica dell’individuo moderno finisce per condizionarne comunque, quali che siano le sue scelte, il rapporto col mondo naturale: il viaggio del vagabondo non conduce alla fusione immediata e panica con la natura, ad una sua fruizione istintiva, ma ad una più nitida coscienza della lacerazione e della distanza che da essa ci separa.

Nelle opere successive, ne Il lupo della steppa o nel Pellegrinaggio in Oriente, tra le tante, la figura del vagabondo si trasforma, evolve in quella del viandante o addirittura del pellegrino, di chi cioè si è dato una meta e la persegue. Ciò che lo fa esulare dal nostro interesse. Solo in Vagabondaggio, che è un breve scritto del 1927, Hesse torna a quel bagaglio leggero e a quell’assenza di direzione, alla circolarità del percorso anziché alla linearità, che consente di sintonizzarsi sui ritmi naturali, di perdersi dentro il paesaggio, anziché semplicemente attraversarlo. Ma un dubbio si insinua: “Vi sono giorni nei quali sono convinto che nessun uomo sulla terra sappia osservare certe atmosfere di aria e di nuvole, certe risonanze di colori, certi profumi e gradazioni di umidità in maniera così sottile, così precisa e fedele come so fare io con i miei vecchi, nervosi sensi di poeta e viandante. E poi di nuovo, come oggi, può divenirmi problematico il fatto che abbia veramente visto, udito, odorato qualcosa o se invece tutto ciò che credo di percepire altro non sia se non l’immagine della mia vita interiore proiettata fuori di me”.

Hamsun, o della natura

E questo ci riporta al discorso del rapporto nordeuropeo con la natura. Il tema è talmente scivoloso che non arrischio nemmeno l’arrampicata. Butto lì però un paio di riflessioni maturate a pelle, senza dubbio semplicistiche, forse anche irritanti, ma non del tutto prive di fondamento (almeno, credo).

Dobbiamo tornare indietro parecchio. Nella cultura tedesca, e per irradiamento in quella scandinava, una vocazione “ambientalista” matura assai precocemente. O meglio, esiste una tradizione che affonda le sue radici nel paganesimo, che resiste alla cristianizzazione e che sopravvive poi in età moderna anche alle trasformazioni prodotte dal nuovo modo di produzione industriale, assumendo evidenza proprio per contrasto. Dall’ultimo passaggio esce però essa stessa profondamente trasformata. All’indomani della rivoluzione francese, quando sul continente il processo della rivoluzione industriale è ancora all’alba, Ernest Moritz Arndt scrive in Sulla cura e conservazione delle foreste: “Cespugli, vermi, piante, esseri umani, pietre, niente primo o ultimo, ma tutto una sola singola unità”. Una cosa del genere avrebbero potuto scriverla già Giordano Bruno o Spinoza, o il loro epigono e suo connazionale Schelling. La novità è che Arndt sta parlando di vermi, piante ed esseri umani rigorosamente tedeschi: il suo ambientalismo è nazionalismo, difesa del suolo e del popolo germanici. Quindi è anche difensore della purezza teutonica, xenofobo e assolutamente contrario alle mescolanze razziali (che sarebbero contro natura): ovvero razzista, e antisemita. Dietro questa visione totalizzante e organicistica c’è un quarto di secolo di sconquassi che hanno bruscamente scaraventata la Germania nel presente. Siamo negli anni venti dell’Ottocento, gli ebrei hanno appena ottenuta una parziale emancipazione, la cultura tedesca è permeata dello strabismo romantico, un occhio carico di nostalgia al passato agreste e l’altro in cerca di identità e potenza al futuro. Tutto, e la natura in primis, viene letto e interpretato e piegato a questa volontà identitaria. Non è un caso isolato, anche se quello della Germania è forse il più eclatante: alle origini del moderno ambientalismo ci sono anche queste contaminazioni inquietanti.

Vanno operati però dei distinguo. Come abbiamo visto, anche in Inghilterra si sviluppa una sensibilità particolare per l’ambiente, a partire appunto dai primi dell’Ottocento. In questo caso l’acuirsi della sensibilità è ampiamente giustificato dalle trasformazioni economiche che hanno ormai investito, sia pure in misura diversa a seconda delle regioni, tutto il paese: miniere, canalizzazioni, recinzioni, trasformazione delle culture, deforestazione. Anche gli eccentrici errabondi inglesi, ad esempio personaggi come Jeffries, professano una attenzione ed una nostalgia per il vecchio mondo rurale, per ambienti incontaminati e per la forma di socialità che a quegli ambienti era legata, anticipando Hamsun e Jensen. Quella che non si manifesta nella cultura inglese è invece la componente nazionalistica e xenofoba (anzi, l’interesse per gli zingari, almeno per quanto concerne la letteratura, va in direzione contraria): e anche il rifiuto della modernità ha altre sfumature.

Una delle spiegazioni, non certo l’unica, di questo differente atteggiamento è legata ai tempi della trasformazione, intesi sia come durate che come momenti storici. In Inghilterra il grosso dei cambiamenti e delle innovazioni ha avuto luogo nel XVIII secolo, in pieno clima illuministico, di esaltazione delle tecniche. Nel secolo successivo le novità bene o male sono già state digerite, la situazione si è stabilizzata, anche se il processo di industrializzazione continua a viaggiare ad un ritmo formidabile. I romantici inglesi conoscono una natura che già è stata sottoposta al saccheggio e alla devastazione, mentre sono di converso stati identificati dei santuari naturalistici da salvaguardare. I continentali vedono invece arrivare le trasformazioni dopo aver subito lo shock della rivoluzione francese, e identificano con quella la modernità. I tedeschi poi, in particolare, debbono ancora digerire l’onta della conquista e della soggezione napoleonica. Il loro attaccamento alla terra è, prima ancora che passione per la natura, religione del suolo.

Un altro elemento differenziante può essere costituito dal fatto che i britannici hanno maggiore facilità ad acquisire consuetudine con la natura dell’intero globo. Sono più cosmopoliti, non tanto nel senso di una appartenenza al mondo intero quanto per la convinzione che tutto il mondo appartenga loro. I più motivati non hanno difficoltà a sparpagliarsi in giro, più o meno direttamente al servizio del nascente imperialismo inglese. Per capire la differenza è sufficiente mettere a confronto le vicende di Darwin e di Wallace con quelle di Humboldt: quest’ultimo riesce a compiere le sue esplorazioni solo perché gode di mezzi propri.

Arndt comunque in Germania fa scuola. Un suo allievo, W.H. Riehl, è un oppositore a tutto campo della modernità (Campi e foreste, del 1853). Industrializzazione e urbanizzazione sono le sue bestie nere, e il suo integralismo ambientalista si spinge sino ad invocare la difesa delle terre incolte. Anche in questo caso, naturalmente, lo scopo finale è che “la vita del popolo continui a battere, e la Germania resti tedesca”. Ciò significa che è antisemita, in nome dei valori morali contadini che vengono erosi dalla cultura giudaico-razionalista, e che auspica una Germania rurale, di contadini guerrieri, e unita. Un Reich, insomma.

Su queste premesse nella seconda metà dell’800 si sviluppa il movimento völkisch (“etnico”, “popolar-nazionale”). Presenta analogie col populismo russo, ma sono molte di più le differenze; i russi cercano la valorizzazione-conservazione dell’esistente con lo sguardo rivolto al futuro, mentre i tedeschi lo volgono al passato per tenere in vita una situazione sociale ed economica che è ormai in avanzata trasformazione. I völkisch teorizzano un romanticismo agrario: ritorno alla terra, alla vita semplice del mondo contadino, all’armonia totale con la natura, di contro al cosmopolitismo, al razionalismo e alla cultura tecnologica predicata dagli Illuministi. E naturalmente anche per loro ogni portato negativo, cultura urbana, pensiero razionale, industrialismo e dissoluzione dell’identità nazionale, è frutto del dilagante giudaismo.

A supportare queste idee arriva nell’ultimo trentennio del secolo anche la versione tedesca del darwinismo, quella rielaborata e diffusa da Ernest Haeckel, che mescola ecologismo (sarà tra i primi ad utilizzare il termine), misticismo, darwinismo sociale, eugenetica e razzismo. Uno dei cardini di questo ambientalismo reazionario è l’antiumanesimo. L’uomo è visto nella sua insignificanza di contro all’immensità del cosmo e alla potenza della natura. In base alle “leggi della vita” l’ordine naturale determina l’ordine sociale. Come scrive Haeckel, “la civiltà e la vita delle nazioni sono governate dalle stesse leggi che prevalgono in tutta la natura e la vita organica”. Il che implica che il passaggio da una società agraria ad una industriale determini il declino della razza. Si badi che trent’anni prima un britannico, Herbert Spencer, appellandosi alle stesse leggi, anzi, formulandole in anticipo persino su Darwin, arrivava a conclusioni opposte. Anche questo non è casuale.

La circolazione presso il grande pubblico di queste idee trova il suo veicolo ideale in un movimento giovanile esploso ai primi del novecento, i wandervögel (“uccelli migratori”, da interpretarsi come “spiriti liberi vagabondi”). Il movimento nasce come organizzazione studentesca delle gite scolastiche, ma si arricchisce ben presto di suggestioni diverse, in molti casi anche contradditorie, come quella del libertarismo pedagogico di Gustav Wyneken. Parte da Berlino e poco a poco dilaga per tutto il paese, assumendo dimensioni nazionali e connotazioni le più svariate: nel primo decennio del secolo diventa una vera febbre. Le idealità propugnate combinano la riscoperta dell’animo popolare, che avviene soprattutto attraverso i canti (Volkslied), al ritorno ad un rapporto genuino e quasi mistico con la natura, la scoperta delle filosofie orientali alla rivalutazione della medicina e dell’alimentazione naturali, il nudismo al culto della forma fisica, il nazionalismo, l’antipartitismo e l’antiparlamentarismo ad un socialismo vagamente tolstoiano. Per i wandervögel l’avvento delle macchine è la prima causa dell’involuzione spirituale dell’umanità: per contrapporsi al mondo della materia e del potere tecnocratico è necessario rivalutare la cultura romantica e medievale, purificare l’umanità dalle incrostazioni del progresso tecnologico, dalle ciminiere industriali, dall’ipocrisia del mondo borghese. È questo anche il periodo nel quale nasce il mito ariano, e si comincia a cercare nell’Asia centrale il ceppo indoeuropeo originario delle popolazioni germaniche.

All’atto pratico, comunque, i giovani tedeschi fuggono dalle città alla riscoperta della vita semplice e spontanea: sciamano per le foreste, passano le notti presso le rovine di antichi castelli, intonano attorno ai fuochi o sulle cime dei monti vecchi canti popolari e sviluppano il culto di una fisicità che si modella nel contatto, anzi, nella totale immersione nella natura. Con una significativa contraddizione: a dispetto della totale ripulsa del modernismo, esiste poi tra i wandervögel un diffuso culto dell’immagine, in particolare di quella fotografica. Ciò che induce a sospettare che molta di quella filosofia sia puro atteggiamento.

Nel 1913 il movimento celebra la sua apoteosi con un favoloso raduno nell’Alto Meissner, una montagna a sud di Kassel, nella Germania centrale, carica di suggestioni legate alle fiabe popolari. In quell’occasione tutte le diverse associazioni regionali e locali si fondono in un unico blocco. La manifestazione anticipa di vent’anni altre adunate tristemente famose, e di oltre mezzo secolo quella altrettanto mitica di Woodstok: e questo duplice possibile apparentamento è già indicativo delle ambiguità che il movimento si porta appresso.

Proprio per questo raduno viene scritto da Ludwig Klages il saggio L’uomo e la terra. Klages è l’autore più significativo della temperie spirituale dominante in Germania alla vigilia del primo conflitto mondiale, e per certi versi anche dopo. Ne L’uomo e la terra le tematiche ecologiche sono proposte in termini decisamente attuali: vanno dalla deforestazione avanzante all’estinzione delle specie e delle popolazioni aborigene delle zone più remote del globo, dall’urbanizzazione crescente e incontrollata alla distruzione degli equilibri ambientali. Sono soprattutto identificate le responsabilità: nell’ordine, cristianesimo, capitalismo, utilitarismo, consumismo, ideologia del progresso, persino il turismo: e a condensare il tutto, il pensiero razionale, e per traslato, il giudaismo. Per recuperare, visto che la ragione non solo non consente di difendere la natura e di ripristinare un giusto rapporto con l’uomo, ma è all’origine della distruzione dell’una e dell’altro, occorre diffidare del portato politico del razionalismo, la democrazia e il suo strumento parlamentare. Ergo, passare ad una dittatura ecologista.

Nel primo dopoguerra le idee di Klages vengono naturalmente riprese ed inserite tra i fondamenti del movimento nazista. I vari gruppi giovanili sono assorbiti, sia pure con qualche resistenza, nelle organizzazioni del nazionalsocialismo: le idee vengono tradotte in proposta politica da alcuni esponenti di quest’ultimo che arrivano ai vertici del regime, primo tra tutto Walther Darré, ministro dell’Agricoltura per nove anni. Darrè scrive nel 1930 un libro altrettanto fondamentale di quello di Klages, se non altro per verificare come in vent’anni il pensiero ambientalista si sia evoluto decisamente in direzione nazional-imperialistica. Il libro è La nuova nobiltà di Sangue e Suolo, lo slogan che lo riassume è “Deve essere restaurata l’unità di sangue e suolo”. Questa mistica unità è per Darré tipica e originaria del popolo tedesco: ricrearla significa ruralizzare totalmente la Germania e, sul lungo periodo, l’Europa intera, creare una base sociale di piccoli coloni proprietari, difendere la purezza razziale da un lato e l’integrità ambientale dall’altro. Darré non è affatto un isolato, anche nei vertici nazisti: Hess, Himmler, lo stesso Hitler, e tra gli ideologi Rosemberg, ne condividono le convinzioni ecologiste.

Dove vado a parare, con questo raffazzonato riassunto delle puntate precedenti? Non ne traggo alcuna conclusione, ma un problema me lo pongo. Il problema è: sarà un caso che una certa sensibilità “ambientalista”, soprattutto nella sua estrema ramificazione “animalista”, si sposi sovente, molto sovente, ad una insensibilità umanistica? Che la mia collega attivista della LIPU che chiedeva firme per la tutela della cinciallegra rifiutasse poi di sottoscrivere qualsiasi campagna di Amnesty International? So che vado a pescare dei casi limite, paradossali, ma è proprio attraverso questi che si può aprire la cerniera dell’apparente normalità e verificare cosa c’è dietro.

Ho parlato essenzialmente dell’ecologismo germanico, ma come si è visto a proposito di Hamsun l’assunzione di responsabilità nei confronti della natura, che nasce dall’attesa di una risposta alla insignificanza dell’esistere che arrivi proprio da quest’ultima (e qui si potrebbe dire che tutta questa tematica è riassunta nella filosofia di Heidegger), è comune all’intera area nordeuropea. O meglio, in quest’area, per una combinazione di motivi storici e sociali e di fattori culturali (c’entra anche quello religioso, ma soprattutto c’entra il fatto che proprio dalla Scandinavia, da Linneo e dai suoi discepoli, parte il grande progetto di studio e di sistemazione tassonomica della natura), si diffonde precocemente un atteggiamento mentale che oggi, in varie misure e sfumature, sembra comune a tutto l’occidente. Quanto poi esso rappresenti un effettivo mutamento della coscienza ambientale o sia invece solo frutto di mode, e debba essere ascritto a quel contenitore dell’indifferenziato che è la new age, è un altro discorso. A me interessano, in questa breve riflessione, gli esiti. Ovvero: mi chiedo fino a quale livello può arrivare la sensibilità nei confronti del problema ecologico senza indurre un atteggiamento antiumanistico, e senza che questo a sua volta si traduca poi in un integralismo intollerante e potenzialmente dispotico.

Penso in realtà che il problema stia a monte: stia cioè non nel livello quantitativo, ma nei modi in cui questa sensibilità si sviluppa. E Hamsun offre a mio parere l’esempio perfetto dell’inghippo. Lo abbiamo visto trasformarsi improvvisamente in contadino a cinquant’anni, con una scelta apparentemente tutta di cuore, in realtà tutta di testa. Voleva essere coerente con quello che era andato per anni scrivendo e maturando, e con gli esiti ai quali questo percorso lo aveva condotto. Si scontra col fatto che la sua testa non viaggia affatto agli stessi ritmi della natura, e che se cerchi significato annullandoti in questa non puoi al contempo voler riuscire visibile: ciò che risulta fortemente visibile, all’interno di un quadro naturale, è una anomalia. Se sei parte del quadro, non devi risaltare. La contraddizione di Hamsun è la spia di una contraddizione che è insita in tutta la cultura, e non solo in quella contemporanea. La cultura, per forza di cose, è altro dalla natura: coltivare significa addomesticare, piegare alle proprie esigenze. Nel momento stesso in cui teorizzi o racconti una totale identificazione con l’ambiente naturale realizzi un falso. Pretendi di vivere e di vederti vivere ad un tempo (i wandervögel e la fotografia). E nel momento in cui ti guardi vivere eserciti una critica, esprimi un giudizio, tenti degli aggiustamenti: falsi cioè tutta intera la tua adesione. Allora, tanto vale dichiarare subito la propria posizione, essere onesti con se stessi e con ciò che si ha di fronte. Non fingere di non sapere che il fatto stesso di porsi il problema dell’atteggiamento da assumere nei confronti della natura significa avere già operato lo strappo ed esclude ogni possibilità di tornare ad essere natura. Riconoscere cioè la singolarità e l’eccezionalità non degli uomini ma della loro condizione: perché stanno contemporaneamente dentro e fuori del quadro, lo vivono e lo guardano.

Nel caso dell’animalismo odierno la contraddizione a mio parere esplode. Non è in discussione il presupposto: e cioè che siamo qui con gli stessi diritti degli altri animali. Sono in discussione gli esiti. Perché non ha senso affermare che non dobbiamo considerare il mondo una nostra proprietà: ogni animale vede il mondo in funzione propria: quello è il suo diritto. Semmai ha senso dire che proprio perché lo consideriamo un dominio nostro dovremmo averne una cura diversa, ma senza fingere di ignorare che anche altri animali, quando è loro dato, devastano il loro ambiente (si veda il comportamento degli elefanti). Non è la stessa cosa che sacralizzarlo, sulla base poi di una visione che, quella si, è invece l’applicazione di occhiali umani ad occhi animali. Sulla base di un integralismo naturalistico, qual è il diritto del leone e quale quello della gazzella? Posso contestare il diritto del gorilla o della tigre cui ho rapito un cucciolo di farmi a pezzi? E se no, perché dovrei negare a qualsiasi genitore della nostra specie di fare altrettanto? Ma questo ci porterebbe su una china pericolosa: meglio lasciar perdere.

Ho fatto a tempo a conoscere nell’infanzia un mondo in cui i lavori agricoli, trasporti, aratura erano eseguiti tutti con l’ausilio degli animali: la mia famiglia è arrivata ad avere in stalla sino a quattro bovini, oltre a una miriade di animali da cortile, e ai maiali. Gli animali faticavano, e gli uomini dietro di loro: era normale trattare bene un animale, era un bene prezioso, non si poteva rischiare di comprometterlo; ma era anche considerato naturale che faticasse, come lo era per gli umani. Abitavano con noi. Mio nonno passava più tempo in stalla a governarli che in casa, e si sentiva anche. Le rarissime occasioni in cui lo udii esprimere un giudizio su qualcuno riguardavano proprio il modo in cui venivano trattati gli animali. Sul trattamento riservato alle mogli non metteva becco, erano un po’ affari loro, ma sugli animali si sbilanciava. Di un vicino che aveva preso un calcio da un mulo disse semplicemente: “Era ora”.

Voglio dire che ho conosciuto un mondo nel quale c’erano senz’altro eccessi di crudeltà, e non solo nei confronti degli animali, ma la norma erano l’equilibrio e il rispetto, perché con gli animali si viveva in pratica in simbiosi (c’erano ancora case, e parlo di sessant’anni fa, e di cose che ho visto, nelle quali le galline vivevano in cucina, fungevano da spazzini. E a Natale finivano in pentola). Ciò cui assisto oggi mi sembra invece davvero una deriva “culturalista”, ma tutta nel segno di una malintesa concezione della cultura, e per indotto, della natura. Torna la distinzione tra adorazione della natura e passione per la terra di cui si parlava sopra. Io ho la passione per la terra e credo in un rapporto laico con la natura. La laicità, in questa accezione, nasce da una conoscenza profonda, e la conoscenza a sua volta è per forza di cose utilitaristica: ogni conoscenza, al fondo, è tale. Conosci la terra e le sue vene se l’hai zappata, e la rivolti per ricavarne nutrimento, come del resto fanno i cinghiali e le talpe: gli alberi se li hai potati, allo stesso scopo, gli animali se hai condiviso con loro la fatica e la durezza del vivere, e in qualche modo anche il foraggio. Non ti sogneresti mai di mutilare una pianta per spregio, o di inquinare una sorgente, o di torturare un animale per puro sadismo. Certo, c’è purtroppo un sacco di gente che si comporta in questo modo: c’è sempre stata, ma la sua moltiplicazione odierna è il risultato di una perdita generalizzata del senso e del valore delle cose, è lo scotto terrificante che paghiamo al mito della “crescita” ad ogni costo. Non sarà certo sanata dall’istituzionalizzazione del diritto animale, cosa che, anzi, comporta uno snaturamento del concetto stesso di diritto.

Il diritto è un’invenzione tutta culturale, tutta umana, nasce come strumento di difesa all’interno di una specie che non interagisce più in termini di zanne e artigli, ed ha a che fare con una attribuzione ed una assunzione di responsabilità. Se regoliamo i nostri rapporti con gli animali sulla base del diritto torniamo all’epoca nella quale gli animali erano considerati moralmente responsabili, e si celebravano processi a bestie che avessero causato la morte di esseri umani, o fossero implicati con essi in commerci sessuali. Per favore, un po’ di buon senso! Sono il primo a pensare che alcuni animali sono più intelligenti di tanti uomini, anche perché ci vuole poco; persino Engels sosteneva, e ne era convinto, che alcuni di essi pensano come noi e non parlano solo perché non hanno l’apparato fonatore adatto. Ma detto questo, non mi sembra sensato, e mi pare anzi pericoloso, perdere la misura di una distanza che non giustifica alcuna crudeltà, che non ci dà alcun diritto che non sia quello del succitato leone o di un caimano in agguato all’abbeverata, ma che esiste, e va tenuta ben presente. Pena l’arrivare pericolosamente a non fare più alcuna distinzione tra cespugli, vermi, piante, esseri umani, pietre, come chiedeva Arndt e come si sforzava di sentire Glahn (che pure era un cacciatore) e riportare tutto ad una sola singola unità: magari, secondo l’interpretazione di Himmler, sotto la specie di cenere.

Bibliografia

Tutte le opere citate nel testo sono disponibili in traduzione italiana, tranne quelle di Nekrasov, di G. Borrow, di Hans Kinck, di Ernst M.Arndt e di W.H. Riehl.

Opere di Gorkij

Makar Čudra – EDITORI RIUNITI, 1976

Schizzi e racconti – EDITORI RIUNITI ,1976

Le città del diavolo giallo – LIBERILIBRI, 1998

Bassifondi – BARBÉS, 2009

La Madre – EDITORI INT. RIUNITI, 2013

Infanzia – RIZZOLI, 2009

Tra la gente – EDITORI RIUNITI, 1976

Le mie università – EDITORI RIUNITI , 1976

Pensieri Intempestivi – JAKA BOOK, 1978

L’affare degli Artamanov – CASINI, 1965

Autobiografia – ED. PAOLINE, 1970

Opere scelte (10 voll.) EDITORI RIUNITI, 1980

Storia di un uomo inutile UTET, 2009

Opere di London

Il lupo dei mari – LONGANESI 1972

Il tallone di ferro CORNO 1966

Martin Eden SONZOGNO, 1965

Radiosa Aurora SONZOGNO 1928

La strada CASTELVECCHI 2011

Il popolo dell’abisso – SONZOGNO 1970

Guerra di classe – GWYNPLAINE 2009

Rivoluzione MATTIOLI 1885

Opere di Hamsun

Fame – FABBRI, 1969

La vita culturale dell’America moderna ARIANNA 1999

Misteri RIZZOLI 1979

Pan ADELPHI, 2001

Sotto la stella d’autunno IPERBOREA, 1995

Un Viandante suona in sordina – IPERBOREA, 2005

Il risveglio della terra ELI, Milano 1945

Vagabondi MONDADORI, 1941

 

Opere su Gorkij

FERRARI, C. – Gorkij. Fra la critica e il dogma – ED. RIUNITI, 2002

STRADA, V. – Letteratura sovietica – EDITORI RIUNITI 1964

Opere su London

DYER, D. – Jack London: vita, opere e avventure – MATTIOLI ,2013

NORTH, D. – Il marinaio nella neve CDA&VIVALDA, 2007

BOSIO, R. – Il richiamo degli ultimi – BRADIPOLIBRI, 2007

STONE, I. – Jack London – CASTELVECCHI, 2013

Opere su Hamsun

HANSEN, T. – Processo ad Hamsun – IPERBOREA, 2013

Opere di altri autori disponibili in italiano

ABBEY, E. – Deserto Solitario – MUZZIO, 1993

CASSADY, N. – Vagabondo – SAVELLI, 1980

DARRÈ, W. – La nuova nobiltà di Sangue e Suolo – RITTER

DAVIES W. H. – L’autobiografia di un super tramp – RIZZOLI 1948 EICHENDORFF, J. V. – Vita di un perdigiorno RIZZOLI

HESSE, H. – Vagabondaggio NEWTON COMPTON, 1981

HESSE, H. – Peter Camezind – NEWTON COMPTON, 1974

HESSE, H. – Knulp – MONDADORI, 1977

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KEROUAK, J. – Sulla strada – MONDADORI 1961

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KOROLENKO – Il sogno di Makar –PAOLINE, 1961

KOROLENKO – In cattiva compagnia – PAOLINE, 1965

LESKOV, N. Il Viaggiatore incantato GARZANTI

LINDGREN, A. – Rasmus e il vagabondo SALANI , 2008

LO-JOHANSON, I. La mia vita di vagabondo in Francia – MARTELLO 1961

MACHEN, A. – L’avventura londinese o l’arte del vagabondaggio – TRANCHIDA, 2010

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NEKRASOV, N. A. – Chi vive bene in Russia? – DE DONATO 1968

PUSKIN, A – Gli zingari – MONDADORI

TWAIN, M. – Hukleberry Finn GARZANTI

VON HEIDENSTAM, V. – Anni di peregrinazioni e vagabondaggio – UTET, 1970