a cura del C.A.I. di Ovada, 30 novembre 2014
Questa pubblicazione è stata curata da: Giorgio Bello, Angelo Cardona, Diego Cartasegna e Paolo Repetto.
Impaginazione a cura dei Viandanti delle Nebbie.
Si ringraziano per la collaborazione: tutti gli amici della sezione CAI di Ovada, il Comune di Ovada, Mauro e Claudia Cavalleri.

Introduzione
Sono già trascorsi dieci anni dalla scomparsa di Pietro Jannon. Scomparsa è in questo caso il termine più appropriato, perché Pietro improvvisamente si è eclissato alla vista degli amici e ha compiuto l’ultimo tratto del suo percorso in solitudine. Come, del resto, aveva sempre fatto: spariva a metà di una escursione o di un’ascesa, e te lo ritrovavi poi alla meta. Oppure non dava notizie per due mesi, e rivelava al ritorno di essere stato in Alaska. Ma la sua ricerca di solitudine non era misantropia: tutt’altro. Aveva solo un altissimo senso della discrezione, la praticava nei confronti degli altri e la chiedeva per sé. Alla fine ha voluto rimanere nel cuore e nella memoria di tutti coloro che avevano goduto della sua amicizia come il grande, inossidabile Pietro. Testardo com’era, è riuscito anche in questo. Ognuno di noi ha condiviso con lui alcune delle esperienze alpinistiche o escursionistiche più belle, o semplicemente splendide salite al Tobbio in qualsiasi stagione e da qualsiasi versante, e quelle si porta dentro. O ha in casa qualche sua opera, che lo dice lì, ancora presente.
Questa mostra e questo opuscolo vorrebbero contribuire, attraverso le immagini e le testimonianze degli amici, non solo a conservarne la memoria in chi lo ha conosciuto, ma anche ad accendere la curiosità nei suoi confronti in chi, più giovane, non ha avuto questa fortuna. Pietro è stato un’ottima persona, prima ancora che un singolare personaggio: un modello umano del quale i nostri ragazzi hanno oggi più che mai bisogno.

Ci risiamo!
Ci risiamo. L’ho perso un’altra volta. Rallento e mi volto a cercarlo, ma già immagino cosa sta facendo: è parecchio indietro, si è fermato a scattare una foto. In una settimana ha fatto andare tre dozzine di rullini, ha fotografato ogni albero della Foresta Nera, ogni fontana, ogni casolare. Una volta a casa, se metterà in fila tutte le dia scattate potrà rifare il percorso per intero.
Poso lo zaino, mi siedo su un ceppo e accendo una sigaretta, mentre lo guardo camminare a ritroso, fermarsi ancora, catturare un altro scorcio. La sta prendendo comoda. Siamo fuori di un’ora e mezza rispetto alla tabella concordata, e la cosa si ripete immancabilmente da otto giorni. E’ il primo trekking che facciamo assieme, ma credo sarà anche l’ultimo.
Adesso è nuovamente uscito dal sentiero. E’ scomparso nel bosco.
Quando rispunta sono alla terza sigaretta. Mi vede e fa cenno col braccio. Non rispondo. Continuo a fumare e a guardarlo. Non so se essere più irritato o sconfortato. Quasi due ore di ritardo dopo sole quattro di marcia.
Avanza tranquillo, si ferma, traffica con la Nikon, sostituisce il rullino. Se mi capita tra le mani, quella macchina, finisce in orbita. Finalmente mi raggiunge, scarica lo zaino e siede lì vicino. Dev’essere foderato d’amianto, perché il mio sguardo non lo ustiona.
– C’era una piattaforma su un albero, laggiù. Penso la usino per osservare gli uccelli. Sono salito a scattare un paio di foto.
– Potevi aspettare un altro po’, magari avvistavi qualche tordo – rispondo acido.
Nemmeno se ne accorge. Inossidabile.
– No, c’era una vista magnifica, il bosco da sopra, le cime degli alberi.
Schiaccio con cura la cicca, ma non accenno ad alzarmi. Mi accorgo con sorpresa che la rabbia è già sbollita. Sto pensando a quanto deve essere bello questo bosco, visto da sopra. Io la piattaforma non l’avevo notata. Guardavo avanti, e quando buttavo lo sguardo ai lati del sentiero i tronchi mi sembravano più o meno tutti uguali. Siamo in ritardo di due ore, ma su cosa? Mica abbiamo un appuntamento. Dobbiamo solo arrivare alla Gasthaus, che non si muove, è là da decenni, ci aspetta. Cambia niente arrivare alle cinque, alle sette o alle otto. E’ una giornata splendida, limpida, calma.
Osservo Pietro. Sta scartocciando una barretta di cioccolato. E’ tranquillo e soddisfatto, mi sta ancora raccontando della piattaforma. E mentre parla capisco finalmente la differenza. Pietro si muove come un uomo libero, come chi ha nessuno che lo aspetti, e sceglie quando e cosa vedere e chi incontrare. Io mi muovo sempre per arrivare in qualche posto. La parte più importante dello spostamento per me è la meta, non il viaggio. Per lui è esattamente il contrario.
E questo fa la differenza tra il viaggiatore e uno che cammina.


DI SPALLE E CON LO ZAINO
Ogni volta che salgo il Tobbio trovo un pezzo di Pietro Jannon. Non ossa o brandelli di equipaggiamento, ché purtroppo non è morto dove gli sarebbe piaciuto, ma spezzoni di memoria, fotogrammi di sentieri percorsi assieme. È capitato anche ieri, quando a metà percorso mia figlia, senza nemmeno allungare troppo, mi ha lasciato ad ammirarne le spalle e il passo deciso e a meditare mesto sul trascorrere del tempo. Ero chiaramente orgoglioso di lei, ma non nascondo che ero anche un po’ avvilito, sia pure considerando il mezzo secolo che ci separa.
È proprio lì che all’improvviso, per una qualche recondita associazione d’idee, certamente non giustificata dal cielo terso e dal sole tiepido, mi sono rivisto salire nella nebbia di un umidissimo novembre di trent’anni fa.
Negli anni eroici del CAI ovadese per un intero autunno ci ritrovammo ogni sabato, nel primo pomeriggio, al valico degli Eremiti, per trasferire in vetta sabbia, calce, cemento, taniche d’acqua, latte di impermeabilizzante per il tetto del rifugio. Ciascuno si caricava in base alle sue forze e alla sua buona volontà: qualcuno aveva anche in più una motivazione “sportiva”. Come sempre, tra me e Pietro si era ingaggiata una tacita gara: caricavamo lo zaino con una latta ed un sacchetto di sabbia, per un peso dai trenta ai trentacinque chili. Pietro però aveva scovato per l’occasione delle staffe di ferro, che non si capiva bene a cosa potessero servire e che in effetti poi non servirono a nulla, ma facevano comunque zavorra e fugavano ogni dubbio su chi portasse il carico maggiore. Si partiva in una lunga colonna, che dopo dieci minuti era già sgranata, e si saliva per il versante orientale, la via “classica”. Tutti, ma non Pietro. Non ho mai capito che percorso seguisse. Riusciva sempre a rimanere in coda e dopo i primi trecento metri era scomparso. Non credo intendesse accorciare, perché con trenta chili sulle spalle la direttissima è altamente sconsigliata, e comunque in genere arrivava contemporaneamente a noi. Solo, faceva un’altra strada.
Ecco, quando prima ho parlato di sentieri percorsi assieme mi sono allargato un po’ troppo. Potevi percorrere lo stesso sentiero, raggiungere lo stesso rifugio, ma non eri mai completamente “assieme” a Jannon. Diciamo che manteneva le distanze, e non solo in senso metaforico. Senza alcuno snobismo, per carità: ma aveva bisogno di uno spazio suo. Possibilmente tanto.
Come camminatore, Pietro mi pativa. Non fisicamente, perché era due volte più forte di me, ma perché io avevo capito certe sue manie, certi suoi punti scoperti, e mi divertivo a spiazzarlo, a scombinargli i programmi, a stargli sul collo, ciò che lo costringeva a dimostrare qualcosa anche quando non aveva granché voglia e non era il caso: e dal momento che il gioco lo conducevo io, a volte si imponeva degli sforzi inutili. Credo che per certi versi fosse persino un po’ in soggezione.
Fino a quel giorno, quando, deposto il carico e cambiata la maglietta fradicia, ho buttato lì: Quasi quasi, torno giù di corsa e faccio un altro viaggio. Gli altri mi hanno mandato giustamente a stendere, ma Pietro no. Si è rimesso la camicia a quadri e senza battere ciglio mi ha fregato: Dai, che se ci muoviamo siamo nuovamente qui prima di notte.In effetti è andata così. Per stargli dietro quella volta ho dovuto mordere le rocce, perché davvero a metà salita non ne avevo più. Una volta in cima, dove per fortuna ci attendeva la stufa ancora accesa, ci siamo seduti uno di fronte all’altro, aspettando che arrivassero anche le nostre anime. Poi lui ha alzato gli occhi, mi ha guardato serio ed ha sbottato: Dì, ma noi due, saremo furbi?
Credo di aver riso per cinque minuti di seguito senza potermi trattenere, tanto ero stanco: e anche lui era scoppiato in una risata liberatoria. L’ho visto ridere così poche altre volte, e devo dire che rideva bene (io bado molto a queste cose: c’è gente che non sa nemmeno ridere).
E adesso capisco anche l’associazione d’idee. Io in fondo Pietro lo ricordo così: di spalle e con lo zaino. Mi pare giusto, perché tutti lo abbiamo sempre visto così, e non solo mentre salivamo Tobbio, ma anche quando lo incrociavamo al Posta, in libreria o al mercatino. C’era immancabilmente un impegno che lo chiamava da un’altra parte, una cornice, un libro, un pezzo di lamiera raccattato per strada che urgeva di essere portato altrove.
Mi manca, Pietro. Ci sono persone che toccano la tua vita apparentemente solo di striscio, camminano ai suoi margini: però ti ci abitui, sono un riferimento, sai che se ti giri le trovi là. Anche se nel suo caso magari sarebbe meglio dire “sono appena passate di là”. Era quello che ti suggerivano le tracce improvvise nella neve fresca, lungo il sentiero degli Eremiti, quando pensavi di essere il primo: o gli amici che lo avevano incontrato un attimo fa in via San Paolo, o la sera precedente al CAI. Poco alla volta questa inafferrabilità era entrata nella sua leggenda, insieme alle sue manie e ad un fisico e un carattere egualmente rocciosi. Per un certo periodo, quando lo conoscevo meno, ho anche pensato che la coltivasse volutamente. Invece era timidezza genuina, o se si vuole amore della solitudine.
Ci si vedeva raramente: per le mostre, per qualche ascensione, per un trekking. Non mi andava di disturbare la sua riservatezza, probabilmente perché il mio riferimento era proprio quello. Non ero mai io a cercarlo. Però sapevo che c’era, con tutte le sue stranezze, eppure solido, affidabile. Forse un po’ lo invidiavo, in positivo. Mi piaceva l’idea che qualcuno sapesse vivere come viveva lui, pur rimanendo consapevole che quello non era il mio stile. Pietro era una delle proiezioni nelle quali ambientavo le mie vite parallele. Probabilmente l’ho anche un po’ coltivato, come personaggio, e sono sicuro che non gli spiacesse quando epicizzavo le sue avventure. Anzi, qui era lui a condurre il gioco, e al ritorno dai suoi viaggi, quando mi telefonava o ci incontravamo in sede, mi buttava lì dei trailers risicatissimi del futuro racconto, che rimandava immancabilmente alla serata delle diapositive. Naturalmente le serate poi non c’erano, perché doveva scegliere tra diecimila scatti per ogni viaggio, e io sono rimasto con frammenti di tête à tête con orsi grizzly, di discese dello Yukon in canoa e di ponti sospesi nelle Ande mai legati in una narrazione coerente.
Ciò che però ci ha avvicinato maggiormente, all’inizio, era il suo lavoro artistico. Per quella che è la mia concezione dell’arte Pietro era un artista vero.
Era geloso delle sue opere. Le mostrava con riluttanza, e se ne staccava ancor più a malincuore. Salvo poi regalarti qualcosa per cui avevi manifestato un interesse particolare, quando sapeva che quell’opera sarebbe andata a vivere bene. Sarà una concezione minimalista, ma è una concezione genuina, così come minimalista e genuino era anche l’approccio materico e segnico di Pietro. Pochi segni, ridotti all’osso, e quindi tanto più significativi ed evidenti. Ho alcune creazioni sue che non scambierei con un Van Gogh, e noto che tutti coloro che le vedono per la prima volta ne rimangono incantati. Non ci sono messaggi nelle sue opere: ci sono delle semplici constatazioni, ma tanto immediate ed evidenti che ti chiedi come hai fatto a non renderti conto prima. Sul piano dell’arte, anziché patirmi, mi cercava invariabilmente. Era sorpreso da quello che vedevo in quadri che teneva ben riposti nel suo studio, nascosti dietro cumuli di tele e compensati e cornici, e che riuscivo ad ammirare solo perché mi infischiavo tranquillamente dei suoi “meglio di no, è roba vecchia”. Li riprendeva, li rigirava e rimirava, poi diceva: però, magari ritoccando, aggiungendo…: ma era ben felice quando gli intimavo di non azzardarsi a rimetterci mano. Dopo aver letto la prima presentazione che avevo scritto per una sua mostra mi telefonò la sera e disse semplicemente: “Io … grazie!” Non mi lasciò nemmeno il tempo di rispondergli: prego.
Avrei voluto fosse con noi, ieri. Avrebbe sorriso divertito, a vedermi in affanno dietro Elisa. E poi lo avrebbe raccontato, solo a quelli giusti: Vedessi la figlia di Paolo. Ci ha mollati a metà salita. E sarebbe stato orgoglioso, come se la figlia fosse sua.
Paolo Repetto, 2014

A PIETRO
Quando penso a Pietro non posso fare a meno di ricordare l’inverno del 2000. Da parecchi fine settimana con il solito gruppo di amici del CAI di Ovada si organizzavano gite domenicali, solitamente sull’appennino ligure, comunque non lontano da Ovada, onde evitare, il mattino, il viaggio di avvicinamento. È noioso viaggiare la mattina presto nella cattiva stagione, specialmente se sei con la tua macchina, con ancora un po’ di sonno addosso, e i compagni appena saliti sono già riaddormentati, e tu, tra l’incazzatura della mancanza di compagnia e tutte le idee che circolano per la testa in queste occasioni, navighi per raggiungere la meta. Una volta arrivato doverli svegliare ad uno ad uno e sentirti dire che hai posteggiato nel posto sbagliato, in quanto c’era un posteggio più vicino, là dietro l’angolo, che ci hai messo troppo tempo, che prendevi le curve troppo veloci, che la macchina è rumorosa e il riscaldamento non era sufficiente, oppure era troppo alto, e altro ancora.
Un venerdì sera di metà gennaio come sempre ho raggiunto la sede del CAI per incontrare Beppe, la Susy, Angelo, Rinaldo, Rolando, ecc… Come sempre cercavo di arrivare tardi, per essere sicuro che ci fossero già tutti, avessero già deciso la meta, che a me sarebbe andata sicuramente bene, l’ora e il luogo della partenza: così potevo salutare e dirigermi al bar per il solito tarocco.
Quella sera, dopo aver concordato la salita al Tobbio per la domenica successiva, motivata dal fatto che il tempo sarebbe stato buono, che il percorso era ancora innevato, probabile la vista dei laghi del Gorzente, e forse anche del mare, arriva Pietro. Saluta e chiede cosa abbiamo deciso per il week end.
“È Tobbio”, risponde qualcuno di noi, “è un pezzo che non andiamo”.
“Ah, bellissimo”, commenta. “Però il tempo sarà meraviglioso, ho sentito il meteo poco fa”.
“Appunto”, rispondo io, “così ci godiamo la vista dal Tobbio”.
“Si, però, la riviera… Portovenere dovrebbe essere bellissima, l’aria limpida tipica del periodo invernale, la chiesa di San Pietro con la isole di Palmaria e del Tino, i corbezzoli maturi, il profumo del timo…”
“Hai ragione”, ribatto, “però c’è da sbattersi”.
“Ma no” dice lui, “in macchina sino a Sestri Levante, in treno sino a La Spezia, pullman sino a Portovenere, tutto in coincidenza. Si, si deve partire un po’ presto, però … Poi a piedi tutte le Cinque Terre. Di buona lena in 7 ore facciamo tutto.”
Qualcuno di noi osa lamentare il disagio dovuto alla lontananza e ai tempi di trasferimento, nonché il ritorno con la stanchezza accumulata.
“Ma no” taglia corto, “sarà una passeggiata. Allora ci vediamo domenica mattina alle 6.00. Carlo, se siamo più di cinque vieni con la macchina”.
Ci guardiamo negli occhi, tutti, uno ad uno, con uno sguardo che va dall’incredulo al sorpreso. Tutti rispondiamo contemporaneamente “Va bene”. Altri sguardi allibiti. Con quale facilità ci siamo fatti convincere.
Macché Tobbio: gita semplice, percorso breve, con ritorno nel primo pomeriggio, ah.
Inutile dire che fu veramente uno spettacolo, ci divertimmo un sacco, il cielo terso con il mare calmo sotto il nostro avido sguardo. Erano tre mesi e più che il cielo di Ovada quando era al meglio risultava grigio. Arrivammo a casa stravolti ma soddisfatti. Ancora una volta aveva vinto, negli sguardi si poteva cogliere la gratitudine per Pietro. Averlo come compagno e seguirlo voleva dire essere avanti. Nei confronti di tutto. Scelte, esperienze, vivacità e anche raccoglimento. Erano tipiche durante i trekking le sue fughe per restare solo e godere la natura come a lui piaceva. Nessuno, se non provando, senza riuscirci, ad interpretare i quadri che dipingeva, sapeva esattamente cosa vedeva e cosa cercava. Avremmo voluto imparare da lui, ma era troppo avanti: non eravamo buoni discepoli, solo ottimi compagni. Grazie, Pietro.
Carlo Risso

ORIZZONTI
Dice che va in Equador, ma poi depista e prende la corriera per Silvano d’Orba. Si prenota per un pellegrinaggio a Lourdes, poi segue i canterini della S.O.M.S a Riva Trigoso. A Vicenza si confonde con gli alpini al raduno nazionale, partecipa ad una gara non competitiva e raggiunge Bolzano, dove, per via della barba, lo scambiano per Messner e gli propongono un ottomila in apnea. A Francoforte, con un sorriso selvaggio, seduce una hostess della Lufthansa, che gli trova un posto sull’ala di un DC9 per un volo a Lisbona, poi Amsterdam e, finalmente, Quito. Qui, in canoa, scende le rapide del Napo, incontra gli indios che gli offrono banane e da lui imparano a dire “Ciao”. A Riobamba prende il trenino della Cordigliera Real (quello del caffè che suona la samba) e conosce tanti riobambiti. Gli offrono la testa di un nemico surgelata, col leasing; rifiuta cortesemente, insegna a dire “Ciao a tutti” e scende a Guayaquil.
Intanto prende appunti, e con un gruppo di stranieri d’assalto si imbarca per le Galapagos dove non mangia zuppa di tartaruga. Qui insegna dire “Arrivederci”. Ritorna sul continente, mangia banane, marcia, perde chili, si brucia la barba, prende ancora appunti.
Infine, dopo oltre un mese, capita, domenica otto, in Bunkerplatz Cereseto, dove sono esposti i quadri sulla ricerca dell’oro. Si sente male, si adagia sulla panchina e sospira: “Indios è meglio”. Perché lui arriva con la testa piena di cose, case, casini, sensazioni, suggestioni, graffiti, graffiature, affreschi, rinfreschi, burrasche, bonacce, imbarchi, approdi, decolli, atterraggi, albe, tramonti, conchiglie, muretti, orizzonti. Lui è uno di quelli che partono e tornano. Poi, solo, perfettamente solo come sa stare, lavora di segno e di materia. E poi trovi tutto appeso in galleria. Io penso siano ancora meglio dei B.O.T.
C. Pola


Pietro Jannon potrebbe essere definito, con un riferimento di carattere letterario, il pittore delle isole. Uno di quegli stravaganti personaggi dei romanzi di Conrad, che innamorato dei mari in bonaccia e delle brevi esili terre che qua e là vi galleggiano come immobili relitti di un naufragio, passano la loro vita vagabonda spostandosi di spiaggia in spiaggia, irretiti ogni volta di più, e ogni volta di più prigionieri, di un gioco di luci e di orizzonti altrove irreperibili. Erano, quelli di Conrad, personaggi alla ricerca della smemoratezza, i quali, lasciatisi alle spalle una civiltà non congeniale, solo sui mari e tra isole del Sud, a contatto con gli aspetti più elementari e violenti di una natura incontaminata dell’uomo, sembravano riacquistare il senso della propria esistenza. Che era un’esistenza vissuta epidermicamente, rinunciataria, talvolta fallimentare e consapevolmente condotta al di fuori di quegli schemi e imposizioni, e soprattuitto impegni, che le società costituite comportano. Ma al contrario di essi, dei vagabondi conradiani, Piero Jannon, pur manifestando anch’egli la vocazione a itinerari insulari e marini, non muove dalla stessa necessità di dimenticanza e di fuga: va anzi alla ricerca della nostra più antica memoria, là dove la civiltà mediterranea conobbe il punto più alto e irripertibile della propria espressione; dove ancora oggi, a distanza di millenni, le pietre e i colori ce ne conservano testimonianza, e l’aria e il paesaggio ce ne tramandano il clima. Il suo è infatti un viaggio che si ripete puntualmente sui mari greci dell’Egeo, tra Patmos e Samos, tra Rodi e Creta: e se, materialmente parlando, rispetta i ritmi lenti della vecchie navi a vapore o il respiro sonnolento delle risacche deserte, la sua cadenza vera, interiore, è sincronizzata su qualcosa di più di quanto l’occhio non consenta di abbracciare: procede all’indietro, verso le origini di ciò che fummo e che ancora oggi, grazie ad allora, siamo. Alla scoperta, cioè, della nostra stessa identità. Su queste terre battute e inaridite dal sole, sprofondate in un silenzio da tragedia consumata, già crocevia di popoli e campi di battaglia, terre finalmente restituite alla quiete della stanchezza e del destino compiuto: su queste terre, Piero Jannon, ritornato alle radici della storia, sembra potercene interpretare – attraverso le immagini di superficie – le pieghe più riposte e segrete.

Non a caso, soffermando lo sguardo sui pastelli che oggi ci offre, proviamo la curiosa sensazione come di un incontro già avvenuto altrove e in altre epoche. Perché, dietro i rossi cremisi delle sue sabbie, o dietro il grigio scuro delle sue acque, noi riascoltiamo vicende di intelligenza e di poesia, di amore e di morte, che sono parte di noi.
A due anni di distanza dalla sua ultima mostra ovadese, Piero Jannon torna dunque a riconfermare la propria validità di pittore che, superando i limiti di un calligrafismo fine a se stesso, riesce a penetrare la sostanza medesima della materia. Il suo linguaggio, da allora, ha acquistato in essenzialità e, contemporaneamente, in spessore. Le sue isole desolate, i suoi mari cupi, le sue brucianti visioni, vengono a restituire anche a noi – insieme alla percezione fisica delle canicole e dei tramonti – il significato più vasto e più impalpabile del tempo: il significato, vale a dire, del nostro dramma quotidiano; la consapevolezza di ciò che è destinato a finire e di ciò che è destinato a sopravviverci. La supremazia di una natura che, in uno splendore di luci e di ombre, già racchiude in sé la compiutezza degli eventi stabiliti.
Marcello Venturi, Maggio 1978

Ovada, 27 Ottobre
Non sarà mai! Non sarà mai che di Jannon (tanto aperto quanto misterioso nella sua splendida prigione di meridiani e paralleli), dall’infinita serie di arrivi e partenze, non sarà mai che si veda qualcosa di quel “tirato giù” a cui tanti artisti si adattano…. No, il mattino si è chiuso con la gioia di un incontro cordiale, un po’ scherzoso, in Piazza Assunta: ho palpeggiato la tua spalla sinistra e tu, di colpo, ti sei volto a destra e con naturalezza, mi hai salutato come niente fosse. Tutto qui? Eh no, c’è ben altro! Il discorso è andato lungo di ricordi, richiami, progetti – di mostre fatte e da farsi…. Per l’appunto: un concertino di battute e affollate immagini di cose e casi da chiacchierare fino a mezzanotte…. e – attorno a noi – la gente che va e viene tra il “Piaso” e via Cairoli, a fare incrocio con la strada dei Borghi e la “tua” Strada; rondine di lunghi percorsi che non conta né stagioni, né anni: sempre irrequieto, inaspettato, sempre nuovo.
Ed ecco che – come si voleva dimostrare – chi c’era c’è.
C. Pola

LE VIE DI PIETRO
Sono convinto che i due si siano incrociati, da qualche parte. Per tipi come loro il mondo non è poi così grande. Magari si sono urtati nella calca di un suk, o si sono scambiati uno sguardo distratto, mentre stavano fotografando da sedici angolazioni diverse uno stupa; oppure hanno viaggiato schiena contro schiena, immersi nella lettura e nei progetti di nuovi itinerari, su un trenino delle Ande, stipato all’inverosimile di umanità varia, pollame e ortaggi. Insomma, opportunità di incontrarsi ne hanno avute, in un trentennio di vagabondaggi paralleli su e giù per i cinque continenti. E comunque, se anche si fossero “fisicamente” mancati, era inevitabile che prima o poi la loro prossimità spirituale si manifestasse.
L’occasione arriva adesso, attraverso una serie di opere nelle quali Pietro Jannon fonde la sua esperienza della varietà e dell’unicità del mondo con le suggestioni derivate dalla lettura di Bruce Chatwin. Il che non significa, e meno che mai in questo caso, rileggere alla luce della propria sensibilità le emozioni altrui, ma al contrario pescare dal proprio bagaglio sensazioni, stupori, nostalgie e smarrimenti, e ravvivarli e riordinarli nel confronto con un itinerario che viene sentito, pur nella sua diversità, come fortemente affine. Certo, un bagaglio occorre averlo, meglio se ha la forma e le dimensioni di uno zaino, e meglio ancora se zeppo di giacche a vento fradice, di calzini sudati e di scarponi pieni di polvere: e in quanto a scarponi e giacche a vento e calzini e zaini non c’è dubbio, Pietro ne ha consumati più di chiunque altro, Chatwin compreso. I dipinti di Jannon non costituiscono dunque un omaggio né un tributo (e questo, per chi ha con lui una certa consuetudine è scontato), non ha nulla a che vedere con la forma di devozione postuma praticata nei confronti del grande viaggiatore inglese da troppi orfani dell’avventura. Pietro non è orfano né devoto di nessuno: l’avventura l’ha sempre vissuta in proprio, con le sue formidabili gambe, sulle sue spalle infaticabili e con la sua (durissima?) testa. Nel suo rapportarsi a Chatwin non c’è alcun sospetto di subalterna riverenza (subalterno, Pietro?!): c’è invece un’attestazione di simpatia (intesa quest’ultima, letteralmente, come affinità del sentire), il saluto ad un coetaneo riconosciuto come tale non solo per ragioni anagrafiche, ma per l’identità delle scelte, delle esperienze e soprattutto dell’interpretazione di quella metafora della vita che è il viaggio.
Il viaggio, appunto, il perenne movimento, la curiosità e il rispetto per il diverso: sono le stigmate di un’elezione, di un’irrequietudine che nel loro caso ha saputo positivamente disciplinarsi, come molla alla conoscenza, invece di inacidirsi a pretesto per la fuga o per l’arroccamento. È una condizione, questa, che può talvolta trovare espressione anche in forme stimolanti, e i libri di Chatwin e i dipinti di Jannon sono lì a testimoniarlo, ma non può essere trasmessa, e meno che mai acquisita. Perché muoversi, essere irrequieti, provare una curiosità intelligente sono condizioni necessarie, ma non sono ancora sufficienti per individuare un percorso originale, naturalmente proprio e al tempo stesso iscritto nella memoria più recondita della specie. Ciascuno a suo modo, Chatwin e Jannon hanno rintracciato i segni di questo percorso, l’hanno intrapreso e lungo esso si sono incontrati. Entrambi hanno infatti seguito le loro “vie dei canti”, quei tracciati invisibili e pur così evidenti (almeno per chi ha occhi e orecchi per riconoscerli, e cuore e gambe per affrontarli) che corrono il globo in lungo e in largo, e se intersecano le rotte turistiche e commerciali è solo per lasciarle subito, e lungo i quali si muovono da sempre i depositari di un nomadismo ancestrale, istintivo e non condizionato da mode o necessità.
Pietro Jannon appartiene a pieno titolo a questa categoria di nomadi, imprevedibili, schivi, fieramente gelosi della propria indipendenza. Puoi incontrarlo sul Tobbio, tra le rovine dell’Acropoli o sulla via di Katmandu e non ti dirà mai “sono venuto sin qui”, ma “stavo passando di qui”, e già solleverà lo zaino, diretto da un’altra parte. Il suo viaggio è sempre in corso: non contempla punti d’arrivo, così come non suppone luoghi da cui fuggire. Non ne ha bisogno, e non perché si sostanzi dello spostamento in sé, ma perché in quest’ottica ogni luogo è altrettanto significativo nel raggiungerlo come nel lasciarlo.
Nel corso dei suoi viaggi Jannon raccoglie immagini (tante!) e ricordi, di cui peraltro fa partecipi solo pochi eletti, e con parsimonia: ma riporta soprattutto frammenti di segni, flash di colori o di profili, e anche di odori, o di suoni. Li cova nella memoria, li seleziona, lascia dapprima che reagiscano al contatto con gli agenti esterni o interni più disparati (letture, immagini, reminiscenze di altri viaggi già fatti o aspettative per quelli in programma) e poi ne leviga ogni connotazione spaziale e temporale, sino a tradurli in simboli. Solo a questo punto li riversa infine sulla carta, sul legno o sulla tela. Quel che ne sortisce sono emozioni essenziali, rarefatte ma profonde, sedimentate e tuttavia mai fredde; perché i segni ritornano in serie di approssimazioni, appena leggermente variate, che producono un effetto di mobilità, un percorso, appunto. Nessuna delle sue opere vuole chiudere in sé, fermare per intero il ricordo; tutte si iscrivono in sequenze, e pur riuscendo autoconclusiva ognuna già allude alle variabili e alle possibilità altrove esplorate. Come i suoi piedi, anche la pittura di Jannon non può mai essere in quiete; rifiuta la staticità del reportage, i divani dell’introspezione e gli specchi dell’autocompiacimento, per esprimere invece una primordiale meraviglia al cospetto del mondo, e la voglia di rinnovarla costantemente. Per questo, appena la mostra chiuderà i battenti, o forse anche prima, non perdete tempo a cercare Pietro. Sarà già altrove, lungo le vie dei canti, con uno zaino da duecento litri stipato di magliette, calze e suggestioni.
Paolo Repetto, 1998

ORIZZONTI
Gli itinerari hanno sempre orizzonti. Brevi o ampi, sono il confine immaginario che si muove con noi. Le linee sono dunque il termine ed il prolungamento, ad un tempo, delle proiezioni fantastiche, dei desideri, delle ambizioni. Spesso, tracce appena percepibili tra cielo e terra, tra cielo e mare. Il mondo sensibile e il mondo celeste trovano l’effimera e mutevole unione nel segno tracciato.
Jannon nel suo procedere scopre sempre nuovi orizzonti, cancella confini e altri ne costruisce. Nella sua opera più recente il segno non divide, non lacera, ma unisce due sistemi che, veritiera immaginazione, sono elementi dalla comune origine. I colori hanno il compito di accorparsi. Svanisce la rappresentazione e rimane il profondo desiderio di replicare il segno, di ripetere eternamente l’essenza che il ricordo tramanda. Orizzonti mobili spingono la mano di Jannon a lavorare per piani, per accostamenti. Nella ricerca dell’idea il segno va mutando, il desiderio si appaga e si ricrea.
Un peregrinare dolce e sofferente è la ragione di tutto, del tutto.
Vittorio Baretto

Nazca. Cinquemila anni. Forse più. Un uomo con le sue mani volta pietre nel deserto per tracciare linee interminabili e disegni fantastici che mai potrà vedere. Perché? Pietro non lo sa, come non lo sa nessuno.“Bisogna solo guardare”, mi dice. Come oggi io guardo senza chiedermi nulla i suoi tratti e il suo modo “intuitivo” di tracciarli fantasticando quello che mi pare.
Angelo Maria Cardona

DECLINO, CADUTA E NOSTALGIA DEL REGIME DEI DIVIETI
In un’opera di Pietro Jannon, una delle più recenti, appartenente al ciclo dei “divieti”, è possibile leggere la perfetta metafora della nostra attuale condizione. Probabilmente la metafora non è del tutto consapevole, ma proprio questo è il bello e il mistero dell’arte: la capacità di dire parole non pronunciate e di trasmettere idee non pensate.
La composizione è rettangolare, si estende in orizzontale e si presenta come un assieme unitario, ma a ben guardare risulta articolata in tre sezioni. La tecnica è quella del collage su una superficie piana di materiali diversi, legno, cartone e soprattutto vecchi segnali direzionali o divieti di caccia e di raccolta, quelli bianchi, di latta, con simboli o scritte in nero, che si trovavano una volta inchiodati ai tronchi degli alberi o appesi a solitari paletti nelle campagne, quasi sempre sghembi e ricamati da rose di pallini. Le frecce, appena visibili, occupano il riquadro centrale, in un gioco di sovrapposizioni con altri brandelli di lamiera arrugginita e di cartone ruvido. I divieti, o quel che ne rimane, compaiono invece nelle due sezioni laterali, anch’essi soffocati da strati irregolari di altri materiali, e consentono stentatamente di risalire all’autorità emanante: a sinistra la provincia di Genova, a destra la Regione Piemonte. Nel riquadro di sinistra, in basso, mimetizzata in un mosaico di vecchi fogli stampati o manoscritti, quasi ci sfugge la riproduzione di una rudimentale porticina lignea, chiusa, che reca stampigliata in lettere da imballaggio la scritta “nomade”. La tonalità dominante del trittico va dal grigio sporco all’ocra. L’insieme è, per chi vuol andare al di là dell’impatto visivo, desolante e ed inquietante.
È desolante perché questa rottamazione di ogni palinatura, questa discarica aperta di regole e di segnali, è l’unico panorama spirituale (ma anche materiale) che questi anni ci offrono. È inquietante perché, al di là del casuale riferimento geografico, ma certamente con la sua complicità, sentiamo che ci riguarda molto da vicino. Nella rugosa terra di nessuno del pannello di centro, da quell’ideale spartiacque cancellato che guardava un tempo alle alpi e al mare, le frecce non indirizzano più da alcuna parte. Si spuntano contro la ruggine, sbiadiscono sotto i catramosi sedimenti del tempo. Assieme ai suggerimenti, alle indicazioni, agli obblighi si stemperano, nella monocromia grigiastra e marroncina, anche i divieti, butterati da una foruncolosi endogena. Non è quell’ideale spartiacque cancellato che guardava un tempo alle alpi e al mare, le frecce non indirizzano più da alcuna parte. Si spuntano contro la ruggine, sbiadiscono sotto i catramosi sedimenti del tempo. Assieme ai suggerimenti, alle indicazioni, agli obblighi si stemperano, nella monocromia grigiastra e marroncina, anche i divieti, butterati da una foruncolosi endogena. Non è valsa più nemmeno la spesa di impallinarli, sono chimicamente scaduti dal perentorio al patetico. Ma la loro estinzione non prelude ad una nuova e consapevole libertà, non è il segno di una maturità raggiunta. È solo il simbolo di una sconfitta. Anzi, di una duplice sconfitta.
La prima riguarda lo sforzo di edificazione di un sistema normativo universalistico di diritti e di doveri (in contrapposizione a quello particolaristico e consuetudinario), e di un corredo etico, di imperativi e finalità ( in sostituzione di quello morale e religioso), prodotto nei secoli della modernità dalla cultura laica occidentale, e mirante in ultima analisi a uniformare a livello globale i comportamenti. Questa potrebbe in apparenza sembrare addirittura una vittoria, dal momento che tale sistema è nato e si è sviluppato in funzione degli interessi dei gruppi o delle classi dominanti, e la sua sudditanza al potere non è in discussione: ma in realtà ci troviamo di fronte soltanto alla rimozione dell’impalcatura che è servita ad innalzare il palazzo della cultura e del mercato (soprattutto del mercato) globali. L’impalcatura nascondeva l’oscenità architettonica e strutturale di quel lager immenso che si estende ormai su tutto il pianeta, ma in qualche modo garantiva anche ai detenuti delle sicurezze, a volte delle vie di fuga. Garantiva il riconoscimento della individualità, se non altro esortando all’assunzione di una responsabilità individuale, o sanzionandola.
L’obsolescenza dei divieti testimonia invece la raggiunta perfezione del sistema di controllo: non è più necessario vietare, quando si è in grado di persuadere, e non vale la pena sanzionare i singoli, badare ai miliardesimi, quando i conti si fanno all’ingrosso. La mia spiacevole sensazione è quella di aver combattuto contro qualcosa che oggi vorrei difendere, perché anche una gabbia, quando il modello è quello della libera volpe in libero pollaio, può offrire un rifugio a chi volpe non vuole essere: e che sia ormai troppo tardi anche per barricarsi su queste posizioni di retroguardia.
L’altra sconfitta concerne le alternative. E questa è più cocente ancora, intanto perché ce la siamo costruita con le nostre mani, e poi perché ha azzerato le speranze, ha tagliato le gambe ad ogni idealità. Per quanto sia duro ammetterlo, nessuno dei sistemi di pensiero antagonisti al modello capitalistico è stato in grado di andare oltre la critica e di offrire alternative economiche, politiche e sociali credibili. Un peccato d’origine le ha viziate tutte, e prime tra le altre quelle più marcatamente umanistiche: una pervicace presunzione di eccezionalità e di uniformità della natura umana, dalla quale è disceso l’illusorio convincimento della origine sociale di ogni squilibrio. Oggi dobbiamo accettare, a denti stretti, l’idea che l’uomo è un animale sociale per convenienza, egoista per istinto naturale; che i rischi della democrazia totalitaria non sono minori di quelli del totalitarismo esplicito; e soprattutto, che quelle istituzioni che bene o male costituivano un avversario visibile, un obiettivo contro il quale dirigere gli sforzi, non rappresentano più nulla, sono soltanto detriti lasciati dal capitale sul suo percorso di autonomizzazione.
Questo si può leggere nell’opera di Jannon. Naturalmente è possibile leggervi qualunque altra cosa, magari di segno opposto, ed è probabile che lo stesso autore trovi una simile interpretazione fuorviante e forzata; ma è fuor di dubbio che qualcosa quei brandelli di segnaletica corrosi e sbiaditi ci vogliono comunicare, che una storia, o la fine di una storia, la vogliano raccontare. Io l’ho intesa così, come una storia malinconica. Perché quando viene meno, nonché la volontà, anche ogni opportunità di tra(n)sgredire; quando non ci sono più luoghi, della terra e dello spirito, nei quali cercare un altrove ed un oltre; quando ogni illusorio nomadismo si spegne sulla soglia di una latrina maleodorante (e segregazionista ): allora non rimane che l’immota sospensione del limbo. E non è il caso di sgomitare: ci siamo già dentro
Paolo Repetto, 2000

Se dovessimo formulare una definizione di Pietro Jannon, diremmo che è un pittore mediterraneo; e non nel senso che la sua produzione trae alimento, in prevalenza, da un determinato paesaggio: ma nel senso che essa sembra racchiudere quasi naturalmente, di tale paesaggio, gli elementi più intimi e segreti: quegli elementi contradditori e drammatici che soltanto una vocazione ed un’affinità riescono ad avvertire al di là dell’apparenza superficiale. Eppure Jannon è un pittore del Nord, nato precisamente a Venasca, in provincia di Cuneo (anno 1936), e vissuto tra le domestiche colline del Monferrato ovadese, che furono oggetto dei suoi primi tentativi fin dall’età di quindici anni. Nato e vissuto, cioè, in un ambiente in cui i termini dello scontro non sussistono più, sussistono più, da quando l’uomo – sia pure attraverso anni di fatica – è riuscito col lavoro a plasmare la materia a sua immagine e somiglianza. Ma forse fu proprio per questo, per questa insufficienza di contrasti, ch’egli si spinse a ricercare altrove ciò che il suo temperamento di artista richiedeva per meglio esprimersi. E lo trovò lontano dalle pianure e dalle colline dei suoi luoghi di origine, nelle isole: là dove – come lo stesso Jannon ricorda – le cose, sospese tra terra e mare, tra mare e cielo, sembrano vivere più raccolte in se stesse, incontaminate da fattori meccanici, e affidate nella loro vicenda, oggi come ieri, alla legge violenta delle stagioni.
Fu nel rapporto con gli scarni paesaggi di Lampedusa, di Stromboli o delle coste siciliane, dove le immagini e i colori appaiono evidenziati da un antico silenzio, che Jannon scoperse la parte più autentica di se stesso. Fu in questi elementi ridotti all’essenziale, pura forma priva di storia, impasto di atmosfera e di segni, che finalmente individuò una corrispondenza al suo modo di essere e di sentire. Da allora egli ci viene proponendo, come variazioni sul tema, lo stesso discorso ininterrotto; dandocene, ogni volta, un aspetto nuovo e diverso, più completo e profondo.
Marcello Venturi

RICORDO DI UN AMICO: PIETRO JANNON
Grande commozione nella sezione del CAI di Ovada per la scomparsa di Pietro Jannon, che ha avuto un ruolo determinante nella gestione della sede e dell’attività sociale negli ultimi vent’anni. Grande appassionato di ambienti naturali, pittore, fotografo, viaggiatore prima che il viaggio diventasse una moda, ti portava a scoprire l’Appennino con l’esperienza di chi ha visto il mondo: dall’Islanda alle Galapagos, dall’Alaska al Tibet.
La gita della domenica precedente, vista attraverso le sue “dia”, era un’altra gita, che faceva percorrere lo stesso itinerario scoprendo particolari che erano sfuggiti. Era totale l’impegno che metteva nel fare ogni cosa: partecipare ad una Marcialonga piuttosto che occuparsi dei lavori di ristrutturazione della sede, accompagnare gli amici nella sua Val di Susa o preparare quei magnifici “funghidipinosottolio”. Nulla era lasciato al caso. Le “Grandi Montagne” per Pietro non erano lontane, sulle Alpi o in qualche angolo del mondo da lui visitato. Erano quelle che poteva salire ogni giorno, appena un po’ di tempo libero glielo concedeva: il Tobbio, la Colma, che puoi vedere dalla finestra di casa e arrivarci sotto in mezz’ora. La sua presenza in sezione o alle gite sociali negli ultimi tempi s’era fatta sempre più rara, rendendo forse meno doloroso quel suo andarsene in punta di piedi.
Ma per chi lo ha conosciuto, il vuoto lasciato da un tipo “speciale” come Pietro rimarrà sempre incolmabile.
Alpennino, 2004

Pietro Jannon era nato nel 1936 a Venasca, in Val Varaita. ed è approdato nell’ovadese nell’immediato dopoguerra, seguendo gli spostamenti della famiglia. In Ovada ha frequentato le secondarie inferiori e un corso di disegno decorativo presso il maestro Resecco e ha successivamente lavorato come decoratore per la Cristalvetro e come designer presso la LAI.
La sua attività artistica ha avuto inizio negli anni dell’adolescenza, quella alpinistica anche prima. Molto presto ha iniziato a viaggiare, accumulando col tempo un considerevole curriculum di globe-trotter: dalle Isole greche, dello Ionio e dell’Egeo alla Palestina, dall’Alaska al Perù, con un salto alle Galapagos, dall’Islanda al ai parchi degli Stati Uniti, dalla Foresta Nera al Tibet. Il tutto debitamente documentato da migliaia di foto.
Negli anni settanta ha partecipato dapprima a mostre collettive di pittori ovadesi, ed ha tenuto la sua prima personale in Ovada (Dodecaneso – Grecia) nel 1978. Ad essa ne sono seguite altre nel 1985 (Orizzonti), nel 1998 (Le vie di Pietro) e nel 2000 (Divieti). Ha esposto anche a Brescia, sia in una personale che in diverse collettive, a Gardone e all’Arsenale di Iseo.
È stato una colonna del CAI di Ovada per decenni. Ha valicato il suo ultimo colle nel marzo del 2005.


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