Ultimo canto di Natale

di Paolo Repetto, 18 dicembre 2021

Una precisazione. Mi sembra quasi ridicolo premettere questa “avvertenza”, e probabilmente farei meglio a passare oltre senza farmi troppi scrupoli. Ma siamo ormai talmente e perennemente assediati dalla stupidità che diventa automatico cercare di prenderne le distanze, anche quando si ha il sospetto di fare in questo modo il suo gioco. Per questo tengo a precisare che le pagine che seguono nulla hanno a che vedere con l’alzata di scudi e le proteste contro le raccomandazioni della commissione UE sugli auguri natalizi. Quelle linee guida erano solo stupide, l’indignazione che ne è seguita era molto peggio, era totalmente ipocrita.

Mezzo secolo fa, proprio in questo giorno, la metà precisa di dicembre, prendeva il via nella parrocchiale di Lerma l’ultima grande Novena di Natale. L’ultima almeno che io ricordi, e comunque l’ultima di un’era. Dopo non è più stata la stessa cosa.

La Novena era uno degli eventi più attesi dell’anno, e non solo di quelli liturgici. Che fossi credente o meno, non la potevi perdere, un po’ come la processione dei giudei il giovedì santo. C’era il rischio di sentirti poi raccontare: sai cos’è successo? e friggere per non essere stato presente.

Ultimo canto di Natale 02Si trattava di una liturgia di approssimazione al Natale e durava appunto nove giorni, dal sedici dicembre alla vigilia: giorni nei quali si ripeteva puntuale al cessare dei rintocchi dell’Ave Maria, quindi mezz’ora dopo il tramonto. Tecnicamente non era che un’edizione speciale del rosario (mi sembra di ricordare si parlasse di “misteri gaudiosi”), che tuttavia, già solo per la crescente atmosfera di attesa – in fondo era un conto alla rovescia –, sembrava meno noiosa di quella normale: ma la celebrazione era poi resa spettacolare dal corollario dei canti natalizi e delle salmodie, e dalla scenografia. Una delle cappelle del transetto era occupata da un grande presepe, popolato di vecchie statuine che sembravano uscite dalla notte dei tempi e di casette tutte sbrecciate, e proprio per questo ancor più cariche di fascino: inoltre tutti e tre gli altari erano addobbati e la chiesa veniva illuminata quasi a giorno con un rinforzo di luci volanti. Per l’occasione don Bobbio non lesinava sulle spese, anche perché si rifaceva abbondantemente con una pioggia di elemosine. Lerma contava all’epoca, almeno fino a metà degli anni sessanta, più di mille abitanti, e alla Novena, complice anche la forzata sospensione dei lavori agricoli, partecipavano quasi tutti (nel coro, dietro l’altare, sedevano anche i vecchi socialisti come mio zio Micotto, col suo tabarro nero, e appoggiato al muro, subito fuori di uno degli ingressi secondari, vidi una volta persino Modesto, il mio dirimpettaio anarchico). Era un momento di eccezionale socialità, consentiva di rincontrarsi a persone che arrivavano dalle frazioni e magari non si vedevano da mesi. L’illuminazione inconsueta dava poi all’evento anche un carattere “mondano”, con le signore che si presentavano in spolvero invernale (quelle che potevano permettersi uno straccio di cappotto, ma si vedeva persino qualche pelliccia) e con gli sguardi comparativi che viaggiavano come raggi laser e si incrociavano da una parte all’altra della navata.

In realtà fino alla tarda infanzia ho patito un po’ tutta la faccenda: la cerimonia durava più a lungo del solito, in chiesa malgrado l’affollamento faceva freddo e l’orario della funzione coincideva con quello della tivù dei ragazzi, visibile solo nel circolo parrocchiale. Rinunciarvi per nove giorni significava perdere almeno due puntate di Rin Tin Tin o dei Lancieri del Bengala. Nella prima adolescenza ho invece cominciato ad apprezzare l’atmosfera di quelle serate, tanto che anche dopo la guerra di religione ingaggiata con mia madre non ne perdevo una. In questa assiduità la religione non c’entrava affatto, ma ormai potevo sedere nell’anticoro, e di lì le ragazze dei primi banchi, infagottate nei panni invernali, sembravano tutte carinissime, erano una gioia per gli occhi.

Ultimo canto di Natale 03Lo erano anche, per le orecchie, i canti che partivano alle nostre spalle e i responsoriali che ci arrivavano da oltre la balaustra. Il fascino della novena era legato tutto a questi momenti corali. Per indisciplinati che fossero i coristi e le coriste lermesi (mia madre, che ambiva a voce guida, si lamentava immancabilmente delle sue concorrenti che tutte le sante sere partivano in anticipo, rovinandole l’effetto d’ingresso), i cantici natalizi che salivano assieme al fiato verso la volta a botte mi affascinavano: da quella scarsa disciplina addirittura ci guadagnavano, perché riuscivano genuini e spontanei (o forse li ha resi tali nel ricordo il confronto con la loro successiva degradazione a jingle pubblicitari).

Il culmine però lo si raggiungeva con i salmi. Erano cantati in latino, come del resto in latino era ancora recitato tutto il rosario, e la liturgia natalizia ne contemplava un paio che costituivano il cavallo di battaglia del corista principe, Pedru, leader indiscusso della confraternita del Suffragio. Uno di questi salmi iniziava con un “Omnes”, e quella O iniziale era diventata leggendaria. Pedru la conduceva, la modulava, l’alzava e l’abbassava in un continuo da lasciarti in apnea. Una volta, quando già era molto anziano, a sua insaputa lo cronometrammo: resse la O, senza prendere fiato, per oltre quaranta secondi, ed entrò di prepotenza nel nostro specialissimo guinness.

Poi arrivarono il sessantotto, la contestazione, la dissacrazione, lo sradicamento: le ragazze le guardavo nelle assemblee universitarie, la musica l’ascoltavo altrove. Ma certe sensazioni non si dimenticano, e la nostalgia della novena è rimasta per me strettamente connessa proprio a quell’edizione fuori tempo massimo di cui parlavo all’inizio, a Pedru e alla vicenda che vado a raccontare.

Ultimo canto di Natale 04È andata così. Ormai più che ventenne, rientrando da Genova, dove lavoravo e ogni tanto studiavo anche, vengo informato da mio padre che Pedru è in crisi nera. Il priore della confraternita era, come molti altri, un frequentatore assiduo del nostro negozio di ciabattino, segnatamente nei mesi invernali, e mio padre era un po’ il confidente di mezzo paese. Le prime sere della novena sono andate quasi deserte, persino nel coro un sacco di seggi sono rimasti vuoti. Non solo: il nuovo parroco gli ha anche imposto di dare un taglio ai salmi e di cantare solo quelli tradotti in italiano, liquidando quindi l’Omnes. Ho la conferma da mia madre: anche lei è avvilita, pur se rassegnata all’obbedienza (l’unica volta che io ricordi). Ci rimango male. Ho chiuso da un pezzo con la chiesa, e poi anche con la militanza gruppettara, ma sono sempre in cerca di buone cause per le quali battermi. Ne parlo con gli amici, che dapprima la mettono in ridere, poi, quando capiscono che faccio sul serio, si lasciano convincere: parteciperemo in gruppo alla novena, riempiremo i vuoti del coro e daremo una mano a Pedru a far nascere Gesù anche quest’anno. Ma non basta, mi spingo oltre: vado a patteggiare col parroco la nostra presenza contro la concessione di cantare anche in latino, almeno per le ultime serate, i due salmi.

E qui comincia una storia che sembra presa da un film della Disney, e invece è la pura realtà. La voce si diffonde (mia madre in queste cose era meglio di Goebbels), noi prendiamo possesso del coro, e facendo sul serio cominciamo davvero a divertirci: quindi entrano in gioco anche le ragazze, poi i tradizionalisti, poi i curiosi. Insomma, è un crescendo che nelle ultime due funzioni di antivigilia diventa un pienone. La sera della vigilia, poi, l’apoteosi. Chiesa stracolma, coro al completo con gente in piedi sin dentro la sacrestia. Il prete mena in lungo la funzione – gli piace avere la chiesa piena, molto meno il motivo per cui è tale –, ma stasera “Tu scendi dalle stelle” e “Nell’orrido rigor” sembrano eseguiti dai coristi della Scala: si sente che le ragazze sono state messe in riga da una mano ferma, verrebbe voglia di chiedere il bis. Poi, quando il rito “ufficiale” si è concluso, arriva il grande momento. Pedru intona l’Omnes, regge l’O a malapena per mezzo minuto, ma come va a calare lo riprendiamo noi, che entriamo in controcanto e lo allunghiamo per un altro mezzo. Non dico che sia venuto fuori il coro del Nabucco, ma i tre o quattro tra noi passabilmente intonati (non certo io, che sono stonato come una campana) fanno bene la loro parte, hanno avuto modo di mettersi a registro. La risposta che arriva poi dalla navata, guidata dalle ragazze, è perfetta.

Io sono vicino a Pedru, e vedo le lacrime spuntargli dall’occhio – al singolare, perché bisogna sapere che Pedru aveva un solo occhio (era famosa la sua risposta ad un motteggiatore che gli aveva chiesto come ci vedesse: meglio di te, aveva risposto Pedru, perché ti vedo due occhi, mentre tu me ne vedi solo uno); soprattutto però aveva un cuore di pietra, avrebbe potuto benissimo essere il direttore di un orfanotrofio in un libro di Dickens, o addirittura interpretare la parte di Fagin, tanto quell’unico occhio riusciva a esprimere una cattiveria sorda e minacciosa. Vederlo ora umido mi sbalordisce. Dò di gomito al vicino, se n’è accorto anche lui. Guardo gli altri e ci congratuliamo silenziosamente: sappiamo di aver fatto per una volta la cosa giusta. Lo sanno anche altrove, a quanto pare, perché all’uscita dalla chiesa troviamo la piazza imbiancata da dieci centimetri di neve, un’immagine e un clima da favola. Liberi di sorridere, ma è andata esattamente così.

Pedru morì esattamente una settimana dopo, lontano da Lerma. Non è nemmeno sepolto nel cimitero al quale per decenni aveva accompagnato i suoi compaesani (passando poi a estorcere l’obolo per la confraternita). La novena si è spenta con lui: come diceva mia madre, negli anni successivi sembrava diventata un rosario dei morti.

Ultimo canto di Natale 05

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Del Natale, e dell’attesa che lo precedeva, ho un sacco di altri bellissimi ricordi.

Mia sorella nacque proprio una sera di vigilia, ma il bel ricordo non è tanto questo quanto quello del ritrovamento dei regali, che sapevamo essere arrivati ma che in un primo momento, in mezzo alla confusione della natività domestica, erano spariti. Li ritrovammo poi a casa della zia presso la quale eravamo provvisoriamente ospitati. Il mio era “Kim”, e della sorella mi ricordai solo un paio di giorni dopo.

Ci sono poi i ricordi legati al presepe. Di solito anticipavamo parecchio i tempi, una volta lo realizzammo alla fine di novembre. Il fondo doveva essere coperto di muschio vero e freschissimo, e allora partiva la caccia nei boschi dietro casa, in riserve che avevamo identificato e che dovevano rimanere segrete anche agli amici. Occupava per intero la tavola di cucina della casa vecchia, con tendenza a debordare, e oltre ai cammelli dei re magi e alle pecore dei pastori ospitava anche i cavalli dei soldatini di gesso, e per un certo periodo persino gli indiani e i sudisti. In una occasione mancò poco che andasse tutto a fuoco, perché in nostra assenza una candela accesa sorretta da un angelo era caduta sulla capanna, aveva incendiato il tetto di paglia e stava già liquefacendo i suoi ospiti, bue e asino compresi. Ho in mente nitidissimo il momento in cui, appena entrati in cortile, scorgemmo il riverbero delle fiamme che arrivava dalla finestra in alto, l’unica vivacemente illuminata nel casermone totalmente buio.

Ho rifatto il presepe per qualche anno durante l’infanzia di mio figlio, evitando accuratamente le candele e ogni altra sorta di lucina. Poi mi son reso conto che ero l’unico a tenerci e ho lasciato perdere. Ma da qualche parte conservo ancora tutte le statuine, e anche la capanna semidistrutta.

Ho già raccontato altrove delle vigilie trascorse in attesa del rientro del corriere, quello che portava il nostro vino a Genova e raccoglieva libri e giocattoli vecchi presso i miei parenti. O delle uscite alla ricerca dell’albero, rigorosamente di ginepro, prima con mio fratello e poi con Emiliano piccolissimo, che si trascinava dietro la slitta da carico fin sulla Colma. E anche delle riscoperte del Natale più prossime, in Inghilterra, ad esempio, dove a quanto pare è molto più sentito che da noi. Sono tutte bellissime cartoline appiccicate nel mio album del passato, le uniche immagini a colori in un mondo che ricordo in bianco e nero.

Non voglio dunque farla troppo lunga, e passo invece a spiegare brevemente perché mi ha preso l’uzzolo di raccontare queste cose e perché non volevo fossero semplicemente l’occasione di una patetica nostalgia.

Ultimo canto di Natale 06Il tema ormai ricorre costantemente in ciò che scrivo, e riguarda il mondo che abbiamo perduto. Riguarda cioè la domanda se davvero abbiamo perduto qualcosa di speciale, se la nostra, intendo di quelli della mia età, è una “delusione ottica” dettata dai personali rimpianti, o se la perdita è stata invece oggettiva. La domanda è meno stupida di quanto appare, perché se è vero che da Adamo in avanti ogni generazione ha lamentato i cambiamenti che la mettevano fuori gioco, è altrettanto vero che nessuna prima della nostra ha assistito a trasformazioni tanto rapide e tanto radicali. Neppure le generazioni che si sono trovate a vivere rivoluzioni, riforme religiose, cadute di imperi, hanno mai visto così scombussolate nel profondo le modalità quotidiane dell’esistere e dei rapporti, le dimensioni degli orizzonti, le aspettative, le sicurezze e le paure. Se il nonno di Romolo Augustolo o quello di Robespierre fossero tornati in vita dopo mezzo secolo avrebbero trovato un mondo cambiato, e probabilmente non sarebbero stati d’accordo su quasi nulla: ma sarebbero stati comunque in grado di capirlo, questo nulla, di vederlo nella sua negatività. Mio nonno, tornasse in vita oggi, non saprebbe da che parte girarsi, non potrebbe nemmeno essere in disaccordo perché non saprebbe con chi e per cosa esserlo.

Ora, che questo sia nella natura delle cose (in realtà, solo delle cose umane, quindi forse si dovrebbe parlare non di “natura”, ma di “storia” delle cose) non ci piove. Resta da vedere dove questa storia ci sta portando. E dato che potranno vederlo solo le generazioni venture, e non sono del tutto sicuro che questo sia da considerarsi un privilegio, noi possiamo soltanto chiederci se non sia il caso di offrire almeno la nostra testimonianza per suggerire l’ipotesi di una pausa di riflessione, di un qualche ripensamento che metta in dubbio il “destino” dell’umanità.

Non mi stanco di ripeterlo, non si tratta di ipotizzare un ritorno alla condizione ottocentesca, o allo stato di natura. Queste sono stupidaggini con le quali solo i nostri filosofi post-moderni, nel loro ovattato iperuranio, possono trastullarsi. Nel concreto si tratta di vedere se è possibile fermare o almeno rallentare l’infernale marchingegno tecnologico-finanziario che ci sta stritolando. Di chiarirci le idee su cosa è indispensabile e su cosa no, e di scegliere. E di non scaricarci da ogni responsabilità, lavandocene le mani, con la scusa che ormai è troppo tardi, o trincerandoci dietro la meschina scappatoia che il problema dovranno affrontarlo le generazioni future, ed è giusto siano loro a scegliere. A crearlo, o quanto meno ad aggravarlo, il problema, siamo stati noi, ha concorso più che attivamente la nostra generazione. Cominciamo almeno a prenderne coscienza.

Come c’entra allora il Natale? C’entra come esemplificazione di una forma ormai scomparsa di socialità, dietro la quale stava, al netto di tutte le potenziali ed effettive strumentalizzazioni religiose e politiche, di tutte le ipocrisie, delle diseguaglianze e delle ingiustizie istituzionalizzate, l’idea di una rinascita, di un futuro che ancora poteva riservare sorprese positive. E c’entra come occasione per ripensare se il tipo di formazione culturale, l’impostazione che conduceva a partecipare, credendo o meno nei presupposti religiosi, all’atmosfera di quelle novene, fosse tutta da buttare, o se per certi aspetti, nei limiti delle possibilità e delle realistiche compatibilità, non andrebbe recuperata.

In altre parole: mezzo secolo fa abbiamo provveduto a sgomberare tutto il mobilio e la suppellettile vecchia, comprese le Novene e i loro salmi, per fare piazza pulita e rinnovare l’arredo ideologico, senza renderci conto che stavamo liberando gli spazi per i nuovi allestimenti usa e getta, funzionali al mercato dell’effimero e del consumo rapido. Col risultato che le cose che avevamo buttato andiamo oggi a cercarle in cantina o nei mercatini dell’usato, anche se in genere per riciclarle ad ornamento.

Uguale cura forse dovremmo mettere nel recupero di certi valori, ma non per appenderli alle pareti: per ridare loro una dignità di funzione, sia pure in un contesto diverso. Un esempio, tanto per non parlare sempre in astratto? L’idea che l’esistenza di regole non è in automatico una limitazione della libertà, ne è anzi il presupposto. Andrebbe recuperata seriamente l’idea, nel senso che queste regole bisognerebbe tornare ad applicarle, a cominciare, tanto per scendere sempre più nel concreto, dalla scuola. Questo significa liquidare il buonismo peloso che fa di ogni lazzarone spregiatore del rispetto e della correttezza una vittima, pretendere che gli allievi si comportino da allievi, che i docenti insegnino anziché fare i parcheggiatori o gli assistenti sociali, che i dirigenti non badino al mercato delle iscrizioni ma alla qualità dell’istruzione offerta, che i genitori facciano la loro parte, ma entro le mura di casa.

Ultimo canto di Natale 07Questo, con un po’ di buona volontà, lo si può ancora fare. E in qualche misura dobbiamo farlo noi, che la “possibilità” di una scuola diversa l’abbiamo conosciuta, e che a quella scuola diversa dobbiamo in fondo l’essere qui oggi a parlarne. Ma non lo dobbiamo solo a quella scuola: lo dobbiamo anche a quelle Novene, o almeno, allo spirito col quale le abbiamo frequentate.

Appuntamento dunque, al prossimo anno. E mi raccomando: rieducate l’ugola e preparatevi sui salmi.

​Ariette 3.0

di Maurizio Castellaro, 30 maggio 2021

Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso».

​L’unico vizio

Ariette 3bAnche nel post-cristianesimo può essere utile riflettere sui vizi capitali, perché i Padri della Chiesa che li codificarono sapevano bene cosa era l’uomo. Rivediamoli al volo, si sono quasi tutti trasformati in virtù. La gola è il presupposto della cultura dominante del buon cibo, la lussuria virtuale governa la maggior parte del traffico in rete, la superbia è il pregio degli infiniti capetti in circolazione, l’avarizia è nobilitata a sano individualismo, l’accidia è convertita in uno sguardo realistico su un mondo senza più futuro, l’ira è derubricata a semplice mancanza di cultura. Da questa trasvalutazione di valori resta fuori l’invidia, e non é un caso che non sia stato possibile disinnescarla. Perché l’invidia è il rimosso di cui non si parla, ed è sempre con noi come l’aria che respiriamo. L’invidia è uno dei principali carburanti che alimenta il motore della gran macchina del capitalismo globale. Il vizio capitale, la gran madre dei peccati del mondo.

​Inferni e Oltre

L’Inferno non è tema da Ariette, ma azzardo salendo sulle spalle di qualche gigante, perché il bello dell’Arte è che ci rende un poco geniali consentendoci di ripensare i pensieri dei Geni. L’Inferno di Dante lo ritrovo ad esempio nel Lager nazista, grazie al “Canto di Ulisse” che Primo Levi traduce al compagno polacco in francese, mentre insieme portano la marmitta della zuppa ai compagni del Kommando, zuppa di cavoli e rape, “Infin che il mar fu sopra noi rinchiuso”. E a farmi sentire più vicino l’Inferno di Virgilio mi aiuta Ceronetti sulla riva del Mincio (“Albergo Italia”). Narcotizzato dal verso virgiliano il visionario Guido trasfigura il fiume mantovano nel Flegetonte, e il petrolchimico che si scorge all’orizzonte nella città di Dite: “Già al tempo in cui Virgilio contemplava queste acque e niente di emerso dal sottosuolo che sempre brucia dilaniava la pace dell’occhio, Montedison e Total erano là … però non visibili, non udibili …”. Va bene, la Storia è l’inferno, la Tecnica è l’Inferno. Prendo atto, è il lascito del Novecento, ma sento che tanta polvere si è già posata su queste rispettabili idee. Per fortuna mi soccorre Calasso, che nelle “Nozze di Cadmo e Armonia” ricorda l’incontro nell’Ade tra Ulisse e l’ombra di Achille. Ulisse prova a indorargli la pillola, ma Achille lo inchioda: «Non truccarmi la morte, nobile Odisseo. Preferirei vivere come guardiano di buoi, al servizio di un povero contadino, dalla tavola neppure abbondante, piuttosto che regnare su tutti questi morti consunti”. Achille ha scelto una vita breve e splendida, proprio perché irrecuperabile e irripetibile, e conosce bene la differenza che c’è tra Oltretomba e Vita. Più o meno negli anni di Omero gli etruschi a Tarquinia preparavano il viaggio nell’Aldilà dei loro cari con le immagini di ciò che di meglio la Vita ci offre: amore, amicizia, convivi, danze, musica, gioco. Incapacità di pensare il Trascendente o intuizione che il meglio dell’Aldilà coincide con il meglio dell’Aldiquà? Lascio la domanda aperta, e per me scelgo la tomba del Tuffatore, un’immagine un po’ greca e un po’ etrusca dipinta per l’ultimo eterno sguardo di un giovane morto circa 2500 anni fa dalle parti di Paestum. Un tuffo in un mare di mistero, da fare ad occhi aperti, col sorriso sulle labbra.

Ariette 3c

​La luce fredda dell’Utopia

di Carlo Prosperi, 8 dicembre 2020

Pubblichiamo questi due brevi interventi di Carlo Prosperi, nati in realtà come mail private (naturalmente lo facciamo col suo consenso), perché ci sembrano esemplari del rapporto che il sito dei Viandanti vorrebbe finalmente stimolare. Col primo Carlo è riuscito, commentando un Quaderno comparso recentemente, ad anticipare tematiche che nel frattempo venivano sviluppate con un percorso indipendente da Nico Parodi e da Paolo Repetto (in Altruista sarà Lei!, prossimamente su questo monitor). Col secondo è direttamente entrato nel cuore dello stesso percorso. Sarà solo una coincidenza?

Caro Paolo, ho letto con grande piacere Fuori dall’Eden, ben scritto, lucido nell’impostazione e coerente nelle conclusioni. L’argomento mi ha interessato per due principali ragioni: anch’io in passato mi sono interessato al tema dell’Utopia ed ai suoi alfieri (conosco, infatti, tutti o quasi gli autori di cui parli nella prima parte, a partire da Hudson: gli autori maschili, voglio dire; ed anche molti di quelli che li hanno preceduti, ab antiquo): la loro lettura mi ha disamorato dal tema e mi ha convinto che chi sogna la perfezione in terra, qui o altrove, ora o in tempi altri, non sia solo un visionario, magari anche lucido, sì anche un nemico dell’umanità, uno che pretende di raddrizzar le gambe ai cani o – ch’è lo stesso – il “legno storto” di kantiana memoria. Un allievo o un imitatore di Procuste, insomma.

La seconda ragione è che ignoravo l’Utopia al femminile, e su questo devo dire che mi hai chiarito le idee e aperto nuove regioni da esplorare, quantunque gli esiti che tu stesso mi proponi siano tutt’altro che entusiasmanti. Il difetto principale delle utopie è quello di considerare l’uomo un accidente della (o nella) natura, quando anche l’uomo è un prodotto della natura: è natura. Anche la cultura, arrivo a dire, è alla fin fine natura. Quest’ultima, infatti, non va mitizzata o idealizzata, come tanti fanno, ma non Leopardi, non Schopenhauer, non Darwin. Si ignora o si fa finta di dimenticare che la natura crea ma distrugge anche, che persegue perpetuamente l’omeostasi, che è instabile per amore della stabilità. La vita, di conseguenza, è lotta: una lotta dove di volta in volta c’è chi vince e chi soccombe, dove i vincitori di oggi saranno i vinti di domani. Basta pensare, poi, alla catena alimentare (su cui prima Goethe e quindi Foscolo e Leopardi si sono soffermati). La ragione può pensare di rendere meno esiziale, meno aspra e violenta la lotta, ma non può pretendere di correggere la natura: non di ignorare o eliminare l’innata aggressività (espressione individuale della Voluntas, per dirla con Schopenhauer). Ora, volendo perseguire la perfezione, non si approda al paradiso, ma all’inferno. E questo la storia lo ha dimostrato. Eric Voegelin, soprattutto ne Il mito del mondo nuovo, ne ha disquisito in maniera a parer mio magistrale.

Io, per quanto mi riguarda, sono giunto alla conclusione che Mandeville nella sua satirica Favola delle api, a suo tempo da me disprezzata e negletta, si sia avvicinato alla verità più di altri accreditati filosofi. Soprattutto quando asserisce che gli uomini agiscono per autocompiacimento con considerazioni non del tutto razionali. Ciò che rende razionali le azioni umane non è infatti l’intenzione umana in quanto tale, ma le tradizioni e le istituzioni che le veicolano. Credo che Mandeville sia stato uno dei primi, se non il primo, a intendere la società come insieme di ordini spontanei e credo pure che Hume si sia rifatto a lui nel sottolineare la superiorità di un ordine che si produce quando tutti i membri obbediscono alle stesse regole astratte, perfino senza capirne l’importanza, rispetto a una condizione in cui ogni azione individuale è decisa sulla base di vantaggi, ossia considerando esplicitamente tutte le conseguenze concrete di una particolare azione.


Su questa strada arriverai a capire anche la mia ammirazione per Friedrich von Hayek e la mia avversione per ogni costruttivismo. La razionalità non può sostituirsi a ciò che è frutto, in gran parte inconscio, di millenni di tentativi, per prove ed errori; non può impunemente sovvertire la tradizione (che non è un fossile) e pretendere di fare tabula rasa dell’esistente nella presunzione di costruire un mondo perfetto. Di qui le aberrazioni della cancel culture, quella che, per political correctness, pretende di correggere la storia, magari chiamando una mulatta a fare la parte di una biondissima Anna Bolena o un nero a rivestire il ruolo dell’ispettore Javert in un recente film su I Miserabili (nella Francia di Carlo X e di Luigi Filippo!). Sono i frutti perversi dell’Aufklärung. È ben vero che il sonno della ragione produce mostri, ma non meno mostruosi sono i parti dell’insonnia della ragione.

Tutti conosciamo i Terrori (uso volutamente il plurale) generati dall’idolatria della Ragione: quelli partoriti dagli utopisti, non è un caso, come tu stesso noti, sono sogni algidi e refrattari. Ma non potevano essere diversamente, per uno come me che crede nell’eterogenesi dei fini. Un tema vichiano, questo, con cui ho polemizzato di recente con Diego Fusaro, cui facevo notare che la comunità è un organismo vivente, dove le differenze esistono e vengono valorizzate, creativamente, a profitto di tutti, e dove i valori condivisi costituiscono il cemento, anzi la base dell’ek-sistere dei singoli, da cui dipende il destino della stessa comunità. La concertazione interindividuale di Marx fallisce quando non tiene conto dell’eterogenesi dei fini e pretende di forzare la situazione trasformandola radicalmente, con la rivoluzione, che è un distacco violento dalla tradizione, senza considerarne da un lato la forza d’inerzia e dall’altro quanto c’è di sopraffattorio e di costrittivo nell’azione intesa a reprimere e sopprimere le resistenze di chi – dall’interno e dall’esterno – alla rivoluzione si oppone.

Non so se sono stato chiaro. Ma so di doverti ringraziare perché sei sempre uno stimolo potente per me e per le mie elucubrazioni. Spero dunque che il nostro colloquio continui. In fondo è anche un modo salutare di distogliere la mente dalla pandemia che ci insidia e che l’inettitudine di chi ci governa (in tutti i sensi) aggrava. Un abbraccio e… a presto, Carlo.

​… e quella tiepida della tradizione

Caro Paolo, ripensando al nostro ultimo colloquio (telefonico), mi è venuto in mente quanto scrissi tempo fa ad un amico, ex sindaco di Castelnuovo Scrivia, Gianfranco Isetta, che mi aveva “stuzzicato” (lui è un lucreziano convinto: tutto è atomistica casualità, nulla ha senso, e la poesia stessa – lui è un raffinato poeta – è pura sintonia con l’eterno divenire della natura) sul tema di Dio, sul problema di credere o meno, sul perché di questa o quella fede. Ti mando uno stralcio della mia risposta, che si aggancia al nostro discorso.

E, al solito, ti saluto con affetto, Carlo.

La scienza – scrive Paolo Flores d’Arcais, Etica senza fede, Einaudi – dimostra che Dio non esiste. In realtà la scienza, per principio, non dimostra nulla e tanto meno può darci certezze di ordine metafisico. Anzi, a dire di K. R. Popper, non ci dà neppure certezze di tipo scientifico, perché una proposizione scientificamente valida è una proposizione non ancora falsificata, ma tuttavia in linea di principio falsificabile. Che è come dire che un ateismo positivisticamente fondato sulla scienza è diventato, per rigorose ragioni metodologiche, del tutto impossibile. Compreso l’«ateismo scientifico» di Marx. D’altra parte, se è vero che è molto difficile dimostrare che Dio c’è, tuttora ben più difficile resta dimostrare che non c’è. Forse la soluzione più onesta è sospendere il giudizio, come fa chi è agnostico e dice: allo stato dei fatti non sono convinto che Dio esista ma non posso escludere questa possibilità. Que sais-je? Je m’abstiens, asseriva Montaigne. Ci sono più cose in cielo e in terra che in qualunque filosofia, per dirla con Shakespeare. Anche quella atea è un’opzione che richiede un atto di fede. La fede è appunto una scommessa – come quella teorizzata da Pascal – su di un dato che non è in se stesso apoditticamente certo. Si scommette perché si pensa di non poter sospendere indefinitamente il giudizio, e si scommette, in fondo, sull’ipotesi che ci piace (o ci persuade) di più. L’ateismo che pretende di sequestrare per sé il pathos della scienza e il lume della ragione non fa che degradare il livello della discussione. Dimenticando che laddove il credente sa di credere, l’ateo pensa di sapere: inganna e si inganna. Vale la spesa di ricordare la battuta famosa di Chesterton: «Chi non crede in Dio, non è che non creda in niente: in realtà, crede a tutto». Magari agli indovini e alle fattucchiere. Ciò detto, mi sembra evidente che una fede non valga l’altra. L’albero si riconosce dai frutti che dà. O che ha dato. In questo mi sembra che il cristianesimo abbia qualche merito (storico) in più.

Aggiungo un altro stralcio, che prendeva spunto dalle dimissioni di Ratzinger.

Su Ratzinger sono in parte d’accordo con quanto mi scrive Gianfranco Isetta: si è trovato a lottare contro i mulini a vento (qualcuno dice contro lo scatenarsi dell’Anticristo) ed è stato preso dalla sfiducia. Forse più sulle proprie capacità (e forze) di contrastare la crisi, che sulla validità del proprio credo (che continua tenacemente a professare e a difendere). E questa crisi, prima che dall’esterno, viene dall’interno: dalla corruzione che ha inquinato la Chiesa. Non sono persuaso che la Chiesa debba adeguarsi ai tempi e alle ragioni del mondo, se è vero che il Regno dei cieli non è di questo mondo e la sua logica – lo insegna chiaramente sant’Agostino – è tutt’altra: antitetica. Se la Chiesa, come ha fatto e come sta facendo, si adegua alle mode (sul fenomeno moda Heidegger ha scritto pagine a parer mio insuperate: la moda è la modernità che si autodivora, che di continuo deve rinnegarsi per sussistere, un’immagine di quella che Hegel giustamente chiamava “cattiva infinità”), è finita. Smarrisce il suo ruolo e il suo senso, ben espresso nel detto: stat crux, dum volvitur orbis. Ma anche l’Occidente, che – non va dimenticato – si basa sugli apporti di Gerusalemme, di Atene e di Roma, da quando rinnega le proprie radici (anche cristiane), va incontro al tramonto, nell’anomia più sfrenata, dovuta ad una incontrastata “volontà di potenza”, che, a furia di volere (e di volersi), lo porta a superare ogni limite, come una locomotiva impazzita che a folle velocità corra verso la catastrofe. I Greci la chiamavano hybris, tracotanza.