​Ariette 3.0

di Maurizio Castellaro, 30 maggio 2021

Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso».

​L’unico vizio

Ariette 3bAnche nel post-cristianesimo può essere utile riflettere sui vizi capitali, perché i Padri della Chiesa che li codificarono sapevano bene cosa era l’uomo. Rivediamoli al volo, si sono quasi tutti trasformati in virtù. La gola è il presupposto della cultura dominante del buon cibo, la lussuria virtuale governa la maggior parte del traffico in rete, la superbia è il pregio degli infiniti capetti in circolazione, l’avarizia è nobilitata a sano individualismo, l’accidia è convertita in uno sguardo realistico su un mondo senza più futuro, l’ira è derubricata a semplice mancanza di cultura. Da questa trasvalutazione di valori resta fuori l’invidia, e non é un caso che non sia stato possibile disinnescarla. Perché l’invidia è il rimosso di cui non si parla, ed è sempre con noi come l’aria che respiriamo. L’invidia è uno dei principali carburanti che alimenta il motore della gran macchina del capitalismo globale. Il vizio capitale, la gran madre dei peccati del mondo.

​Inferni e Oltre

L’Inferno non è tema da Ariette, ma azzardo salendo sulle spalle di qualche gigante, perché il bello dell’Arte è che ci rende un poco geniali consentendoci di ripensare i pensieri dei Geni. L’Inferno di Dante lo ritrovo ad esempio nel Lager nazista, grazie al “Canto di Ulisse” che Primo Levi traduce al compagno polacco in francese, mentre insieme portano la marmitta della zuppa ai compagni del Kommando, zuppa di cavoli e rape, “Infin che il mar fu sopra noi rinchiuso”. E a farmi sentire più vicino l’Inferno di Virgilio mi aiuta Ceronetti sulla riva del Mincio (“Albergo Italia”). Narcotizzato dal verso virgiliano il visionario Guido trasfigura il fiume mantovano nel Flegetonte, e il petrolchimico che si scorge all’orizzonte nella città di Dite: “Già al tempo in cui Virgilio contemplava queste acque e niente di emerso dal sottosuolo che sempre brucia dilaniava la pace dell’occhio, Montedison e Total erano là … però non visibili, non udibili …”. Va bene, la Storia è l’inferno, la Tecnica è l’Inferno. Prendo atto, è il lascito del Novecento, ma sento che tanta polvere si è già posata su queste rispettabili idee. Per fortuna mi soccorre Calasso, che nelle “Nozze di Cadmo e Armonia” ricorda l’incontro nell’Ade tra Ulisse e l’ombra di Achille. Ulisse prova a indorargli la pillola, ma Achille lo inchioda: «Non truccarmi la morte, nobile Odisseo. Preferirei vivere come guardiano di buoi, al servizio di un povero contadino, dalla tavola neppure abbondante, piuttosto che regnare su tutti questi morti consunti”. Achille ha scelto una vita breve e splendida, proprio perché irrecuperabile e irripetibile, e conosce bene la differenza che c’è tra Oltretomba e Vita. Più o meno negli anni di Omero gli etruschi a Tarquinia preparavano il viaggio nell’Aldilà dei loro cari con le immagini di ciò che di meglio la Vita ci offre: amore, amicizia, convivi, danze, musica, gioco. Incapacità di pensare il Trascendente o intuizione che il meglio dell’Aldilà coincide con il meglio dell’Aldiquà? Lascio la domanda aperta, e per me scelgo la tomba del Tuffatore, un’immagine un po’ greca e un po’ etrusca dipinta per l’ultimo eterno sguardo di un giovane morto circa 2500 anni fa dalle parti di Paestum. Un tuffo in un mare di mistero, da fare ad occhi aperti, col sorriso sulle labbra.

Ariette 3c

Schiavi anche dell’oblio

di Paolo Repetto, 16 gennaio 2020

“Uno solo è il luogo per vivere: un pezzetto di giaciglio, il resto appartiene al campo, allo Stato. Ma né questo pezzettino di posto, né la camicia, né la pala è tua. Ti ammali, e ti portano via tutto: il vestito, il berretto, la sciarpa avuta di frodo, il fazzoletto da naso. Quando muori ti strappano i denti d’oro, in precedenza già registrati nei libri contabili del campo. Ti bruciano e con la tua cenere concimano i campi o ci bonificano gli stagni. È vero che sprecano tanto di quel grasso, tante ossa, tanta carne, tanto calore! Ma altrove con la gente ci fanno sapone, con la pelle umana abatjour, con le ossa bigiotteria. Chissà, forse da esportare ai negri quando li assoggetteranno. Lavoriamo sottoterra e in superficie, sotto un tetto e alla pioggia, con la pala, con il vagoncino, con i picconi e con la mazza di ferro. Portiamo sacchi di cemento, posiamo mattoni e binari ferroviari, recintiamo il terreno, battiamo la terra … Gettiamo le fondamenta di una qualche nuova, mostruosa civiltà. Solo ora conosco il prezzo dell’antichità. Quale mostruoso delitto sono le piramidi egiziane, i templi e le statue greche! Quanto sangue dovette scorrere sulle strade romane, sui valli di frontiera e nei cantieri delle città! Quell’antichità che era un gigantesco campo di concentramento, dove allo schiavo veniva impresso a fuoco il marchio di proprietà sulla fronte e lo crocefiggevano per una fuga. Quell’antichità che era una grande congiura dei liberi contro gli schiavi!
Ricordi quanto amavo Platone. Oggi so che mentiva. Perché nelle cose terrene non si riflette l’ideale, ma vi risiede il pesante, sanguinoso lavoro dell’uomo. Eravamo noi a costruire le piramidi, noi ad estrarre il marmo per i templi e le pietre per le strade imperiali, eravamo noi a remare nelle galere e a tirare gli aratri, mentre loro scrivevano dialoghi e drammi, giustificavano con le patrie i propri intrighi, lottavano per i confini e le democrazie. Noi eravamo sporchi e morivamo sul serio. Loro erano estetici e discutevano per finta.
Non è bellezza quella che poggia su un torto verso l’uomo. Non è verità quella che sottaccia un tale torto. Non è bene quello che lo permetta. Cosa ne sa mai l’antichità di noi? Conosce un astuto schiavo da Terenzio e da Plauto, conosce dei tribuni del popolo, i Gracchi, e il nome proprio di uno schiavo solamente: Spartaco. Loro facevano la storia e un criminale qualunque – Scipione – un avvocato qualunque – Cicerone o Demostene –, li ricordiamo alla perfezione. Rimaniamo incantati dall’eccidio degli Etruschi, dallo sterminio di Cartagine, dai tradimenti, dagli stratagemmi e dai saccheggi. Il diritto romano? Anche oggi c’è un diritto.
Che ne saprà il mondo di noi, se trionfassero i tedeschi? Sorgeranno giganteschi edifici, autostrade, fabbriche, monumenti alti sino al cielo. Sotto ogni mattone ci saranno le nostre mani, sulle nostre spalle verranno portate le traversine ferroviarie e i lastroni di cemento armato. Ci assassineranno le famiglie, i malati, i vecchi, i bambini. E nessuno saprà di noi. Copriranno le nostre grida i poeti, gli avvocati, i filosofi, i preti. Creeranno il bello, il bene e la verità. Creeranno una religione.”
Tadeusz Borowski, Paesaggio dopo la battaglia

Ho ritegno ad aggiungere qualcosa a queste parole. Qualsiasi commento non può che svilirne la forza tragica. Se azzardo un paio di considerazioni è solo perché negli ultimi tempi più di una volta, ancor prima di aver conosciuto l’opera di Borowski (che ho scoperto con ingiustificabile ritardo), mi sono sorpreso a pensare le stesse cose. E lo faccio avendo ben presente che le mie meditazioni scaturivano da stati d’animo (e da una situazione) assolutamente non comparabili con quelli di Borowski.

In una di queste occasioni, considerando la solidità e la bellezza di un acquedotto romano e di un Alcazar, avevo anche scritto che quantomeno i sacrifici di chi li aveva costruiti erano valsi a lasciare qualcosa di duraturo. “Mentre ne ammiri il disegno o la semplicità elegante o la ricchezza non puoi non pensare alle sofferenze di tutti coloro che queste cose le hanno costruite, alle fatiche che sono costate, alle ingiustizie di cui sono impastate le mura, i pilastri e le colonne; ma hai l’impressione che un sia pur minimo riscatto di tutto ciò arrivi proprio dalla loro durata, dalla sfida vittoriosa al tempo e dalla testimonianza di un gusto del bello che ancora ci affascina ma che non siamo più in grado di coltivare concretamente.” Erano stupidaggini, dettate probabilmente dalla concomitante constatazione della fragilità e della bruttezza delle “grandi opere” (ma anche di quelle piccole) contemporanee: e Tadeusz Borowski me lo ha immediatamente ricordato. Lui era tra coloro che costruivano, e non ci coglieva alcun riscatto.

Un’impressione analoga ho provato poco dopo, nel corso di un viaggio nel Peloponneso. Mi aggiravo per Micene, in mezzo a quelle vestigia colossali, nella luce fantastica di un tardo pomeriggio autunnale. Ciò che vedevo avrebbe dovuto commuovermi e impressionarmi, ma in realtà mi sentivo solo a disagio. Non mi era mai accaduto prima. Quelle maturate in terra di Spagna erano ancora riflessioni piuttosto distaccate, non dico fredde, ma confinate comunque alla mente. A Micene il disagio era anche fisico. Non riuscivo ad ammirare quelle rovine e quasi mi vergognavo di essere lì. So quanto pesa una pietra (sono un appassionato costruttore di muretti a secco), anche quando ciò che fai lo fai per scelta, o addirittura per divertimento: ma mi rendevo dolorosamente conto di sapere nulla, in realtà, di tutti coloro che quelle pietre erano stati costretti con la violenza a portarle e posarle e lavorarle, di quanti sotto o sopra esse saranno morti o avranno perso mani o braccia o gambe, che equivaleva a morire.

A guardare alle opere del mondo, alla sua storia, da questo punto di vista, dal “loro” punto di vista, c’è da inorridire. C’è il rischio che tutto perda senso, anche quel poco che noi ci sforziamo di dargli. E allora diventa improvvisamente chiaro perché lo stesso Borowski, perché Jean Amery, perché Primo Levi, e chissà quanti altri che non conosciamo, non abbiano retto poi, usciti da quell’incubo, al ritorno alla normalità. Non si può tornare normali, dopo aver assistito a tanta assurda crudeltà e inutile disperazione.

Ci hanno provato. Uno tra tutti, Levi. Le pagine nelle quali racconta le difficoltà e la gioia di spiegare Dante e la potenza della sua lingua a un compagno francese di sventura sono la massima testimonianza del tentativo di opporre la cultura alla barbarie, all’abbrutimento o all’annullamento. Lo fa con il canto di Ulisse: “fatti non foste …”. Per affermare, e confermare a se stesso, che alla fine, comunque, è la prima a prevalere, e a farci riconoscere umani.

E tuttavia proprio coloro che avevano opposto resistenza in nome della cultura, e non semplicemente della sopravvivenza, sono quelli che hanno maggiormente sofferto il dopo. Il silenzio, il disinteresse, addirittura il fastidio manifestato nei confronti di chi non voleva dimenticare, hanno fatto ciò che neppure gli aguzzini erano riusciti ad ottenere. Li hanno fatti dubitare anche di quel labile significato che attraverso la cultura avevano cercato di dare alla propria vita e alle proprie sofferenze. Quegli uomini hanno retto alle atrocità, ma non all’idea che la coscienza di quelle atrocità nemmeno scalfisse chi non le aveva direttamente vissute.

Devo chiudere velocemente, perché ho già nascosto dietro troppe parole le considerazioni lucide e terribili di Borowski. Eppure, qualcosa mi trattiene ancora per un attimo.

Penso che anche Borowski ci ha provato. Lo ha fatto dal fondo della sua disperazione e della sua delusione, ma lo ha fatto. Proprio scrivendo queste pagine. E ora nel mio piccolo, per quel nulla che vale, ho il dovere e l’urgenza di farle conoscere ad altri, di non lasciare che siano risucchiate nel buco nero dell’oblio. Se anche una sola persona le leggerà, un minimo di senso me lo sarò dato anch’io.

Tadeusz Borowski è nato nel 1922 in una famiglia polacca residente in Ucraina. A quattro anni ha visto deportare i genitori i nei gulag sovietici, e li ha ritrovati solo dieci anni dopo. Trasferitosi con loro in Polonia, ha completato gli studi superiori proprio mentre il suo paese veniva invaso dai nazisti. Arrestato come collaboratore di riviste clandestine nel 1943, e deportato prima ad Auschwitz e poi a Dahau, ha condiviso la terribile condizione dei prigionieri slavi. Liberato alla fine della guerra, dopo aver appoggiato in un primo tempo il regime filosovietico, è arrivato poi a riconoscerne quasi una continuità con quello nazista. È morto suicida nel 1951, a soli ventinove anni: ma sulle circostanze della sua morte ci sono ancora molti dubbi. Delle sue non molte opere, sia di poesia che di narrativa, sono state tradotte in italiano “Paesaggio dopo la battaglia” (Lindau, 1993), da cui sono tratte le pagine che ho riportato, e”Da questa parte, per il gas” (L’Ancora del Mediterraneo, 2008). Entrambi i titoli sono introvabili.