Buoni propositi

di Paolo Repetto, 31 dicembre 2021

Sono le otto del mattino del 31 dicembre e ho deciso di accettate la sfida. La sfida è con me stesso, e consiste nel riuscire a buttar giù entro le prossime dodici ore un elenco di possibili temi di discussione con i quali festeggiare (insomma) la dipartita di questo ennesimo anno funesto. È una cosa da fare entro le venti per consentire a Fabrizio di postare il tutto sul sito, ed entro oggi perché immagino una serata in tono minore (o maggiore, a seconda dei punti di vista) per un sacco di gente, soprattutto per gli amici che non godranno della mia compagnia: un capodanno trascorso mestamente in casa, col rischio di intossicazione alcoolica o televisiva. Ho quindi in mente come destinatarie di questo messaggio riunioni amicali o familiari ristrette, di quelle in cui lo spazio per la comunicazione di eventi quotidiani positivi o negativi (accoppiamenti/separazioni, promozioni/problemi sul lavoro, ecc. ) o di gossip ordinario è molto ridotto, perché si sa già tutto di tutti, mentre è per una volta un po’ più ampio quello temporale per affrontare argomenti di stampo diverso. Ma potrebbe anche essere il caso di un capodanno solitario, o di coppia, e in questo caso l’interlocutore potrebbe diventare magari il computer (sono un po’ scettico sul livello del dibattito domestico, a prescindere dall’oggetto dibattuto).

I temi che propongo alla discussione non sono in effetti quelli scelti di solito per riempire l’attesa di un’ora tanto simbolica. Ma anche gli argomenti apparentemente meno distensivi possono essere trattati con un filo di leggerezza, come si conviene alla specifica occasione: ad esempio, riflettendo sul fatto che nelle varie parti del globo quell’ora è diversa, che in Australia quando noi facciamo fare il botto allo spumante si accingono al primo pranzo dell’anno nuovo, mentre a New York escono dal lavoro dell’ultimo giorno di quello vecchio. E che per altri ancora, più della metà dell’umanità, il capodanno arriva in un altro giorno (quello ortodosso, ad esempio, il 14 gennaio) o addirittura in un altro mese (quello cinese il 1 febbraio). Il che sarebbe già più che sufficiente a togliere ogni sacralità e legittimità al nostro festeggiamento, e a farci laicamente decidere di andare a letto (col che il problema di riempire l’attesa non si porrebbe).

Buoni propositi 02Mettiamo però che per qualche loro ragione, fosse anche solo per abitudine, il gruppetto, la coppia o il singolo decidano di tirare dritto e approdare alla mezzanotte. Non possono rimanere con forchetta e coltello in mano dalla cena all’ora x, almeno qui in Piemonte, dove il pasto serale inizia alle 20. Bisogna mettere sul tavolo, oltre ai ravioli, alle lenticchie, ai panettoni e alle bevande, anche qualcos’altro. E non è necessario farlo in maniera ufficiale, dichiarando il tema della serata e inducendo subito tutti a lasciar cadere le braccia e le posate. Si può buttare l’amo con leggerezza, innescandovi un banale riferimento o una battuta: che so, la nascita di un nipote o il rifiuto sempre più diffuso di responsabilità familiari da parte dei figli potrebbe aprire la strada a un dibattito sulla sovrappopolazione; una considerazione sul tipo di fauna che monopolizza i programmi televisivi potrebbe far scivolare verso la questione gender, ecc. L’importante è che poi la discussione e le argomentazioni rimangano su un piano di assoluta levità: ovvero, non scadano nel litigio o nella volgarità, e l’occasione non venga sfruttata per tenere conferenze o impartire lezioni.

Confesso però che quello dell’attesa “impegnata” è solo un escamotage. Non sono così sadico da voler rovinare a qualcuno la serata. Il vero scopo di questo elenco non è quello di nobilitare “culturalmente” la vigilia. L’ho pensato come un’agenda da trasmettere al prossimo anno: una serie di punti che vorrei vedere trattati nell’immediato futuro sul sito, con tutta la serietà possibile, che significa con ragionevolezza e con un po’ di cognizione di causa. La sfida in questo caso non è al tempo, ma agli amici e a tutti i frequentatori del nostro sito. Esistono senza dubbio innumerevoli altri argomenti di altrettanta rilevanza, ma quelli che troverete elencati già bastano ed avanzano per giustificare l’attività di riflessione di un intero anno, e anche di quelli successivi, se verranno. Ed è evidente che nessuno ha la presunzione di dare risposte o scovare formule che salvino il mondo o ne correggano anche in infinitesima parte le storture: semplicemente, si tratta di viverci, in questo mondo, per quel poco di tempo che ci è dato, in maniera per quanto possibile consapevole e dignitosa. Di provarci, almeno.

Col che, bando alle chiacchiere e passiamo a considerare questi possibili argomenti. Non li elenco secondo un qualche criterio di rilevanza, ma semplicemente in ordine di apparizione (alla mia mente)

Buoni propositi 031. L’intelligenza artificiale, ad esempio. Viene per prima perché è lo stimolo che ha fatto scattare tutta questa operazione. Ne ragionavo ieri con Nico, e mi è rimasto in testa. Non è, come dicevo sopra, uno degli argomenti di cui si parla normalmente a tavola, soprattutto in questo periodo, nel quale la pandemia ha fatto uscire semmai allo scoperto un grave deficit di intelligenza naturale. Ma il motivo vero per cui non se ne parla è che le competenze in proposito sono decisamente poco diffuse. Preferiamo lasciare che se ne occupino i matematici, gli informatici e i cognitivisti.

Eppure, con l’intelligenza artificiale già conviviamo da un pezzo. È applicata in campo medico, nel controllo della finanza, nella traduzione e nell’elaborazione di testi. Abbiamo a che farci quotidianamente guidando le automobili di ultima generazione, segnatamente quelle elettriche, e stanno arrivando quelle a guida totalmente autonoma. Oppure, nella comunicazione, interloquiamo costantemente con assistenti telefonici automatici, mentre oltreoceano troviamo addirittura quotidiani già diretti da un software. Il fatto è che, a differenza di quanto accade per i mutamenti climatici, questa presenza non la notiamo granché, ad essa ci stiamo rapidamente assuefacendo. Ma non è nemmeno questo il nocciolo del problema. La domanda è: sarà in grado l’intelligenza artificiale di superare quella umana? E se si, quali possono essere le conseguenze? Io naturalmente qualche idea ce l’ho, e la butto lì come innesco alla riflessione. L’intelligenza artificiale è in grado di viaggiare, nell’elaborazione dei dati e nella formulazione delle risposte, a una velocità infinitamente superiore a quella del cervello umano. Il suo vantaggio è questo. Il suo handicap, paradossalmente, è invece costituito dal fatto che non può sbagliare, almeno in relazione alle cose per le quali è programmata. E noi sappiamo che le conquiste umane, l’evoluzione stessa, si basano sulla possibilità di errore: ogni mutazione biologica è frutto di un errore di duplicazione cromosomica, ogni grande scoperta è frutto di uno scarto da quella che appariva la giusta strada. Quindi: l’intelligenza artificiale, per complessa che sia, non dovrebbe arrivare a superare quella umana. Ma senz’altro può mettere fuori gioco quest’ultima, proprio in ragione della velocità. Abbiamo sempre più bisogno di questa velocità, ma a questo punto l’intelligenza artificiale è diventata autoreferenziale ed è essa stessa a indurre questo bisogno, lasciandoci sempre più indietro. Già si stanno creando le condizioni per le quali non riusciremo più a tenerla a bada. Inoltre, proprio perché organizzata in modo da non contemplare l’errore, l’intelligenza artificiale sviluppa e impone una logica tutta sua, lineare, con la quale interpreta un mondo che lineare non è affatto, che è invece dominato da forze che sfuggono a qualsiasi riduzione ad algoritmo, e abitato da uomini che agiscono in maniera tutt’altro che logica e prevedibile. L’unica cosa che possiamo ragionevolmente prevedere è che, comunque la si metta, non ne verrà fuori nulla di buono.

Buoni propositi 042. Altro argomento poco affrontato all’ora di cena, ma anche in tutte le altre, è quello del sovrappopolamento del pianeta, In questo caso a indurci a glissare sono diversi fattori. Intanto la convinzione che si tratti di un fenomeno ineluttabile, rispetto al quale non c’è politica o scelta che tenga, e che sarà semmai la natura stessa presto o tardi a farsene carico. Poi il disagio, un fastidio da un lato e quasi un senso di colpa dall’altro, che proviamo nel renderci conto come in realtà dalle nostre parti sia in atto già da un pezzo un decremento demografico, mentre altrove, nelle aree che un tempo erano definite sottosviluppate e che in gran parte sono effettivamente tali ancora oggi, la direzione si inverte. Di oggettivo ci sono solo alcuni dati: ci stiamo approssimando agli otto miliardi, e a questo ritmo il prossimo capodanno li avremo superati, perché la popolazione mondiale è cresciuta nell’ultimo anno di oltre ottantun milioni: negli ultimi trentacinque anni è rimasta pressoché stabile in Europa, è più che raddoppiata in Africa, è aumentata di oltre il cinquanta per cento in Asia e in America Latina, e del quaranta per cento nell’America del nord. In Italia il saldo demografico è negativo da dieci anni, il che significa che la popolazione è calata sotto i sessanta milioni, dopo averli abbondantemente superati: quello naturale, il rapporto cioè tra nati e morti, è stato lo scorso anno quasi di uno a due, le nascite sono state la metà dei decessi. Sulle cause di questi differenti fenomeni non mi dilungo, dovrebbero essere appunto il sale della discussione.

Lo stesso vale per le proiezioni: quelle più catastrofiche parlano di una popolazione mondiale che toccherà i dodici miliardi alla fine di questo secolo, altre più ottimistiche si fermano a quasi nove miliardi, prevedendo un picco verso la metà e un calo considerevole nell’ultimo quarto. Ma anche questa seconda prospettiva non modifica significativamente la portata del problema, perché il peso della popolazione è già oggi insopportabile per il globo, e considerando anche lo stato attuale di sfruttamento delle risorse, a partire dall’acqua, la stima di quello ottimale per ripristinare un equilibrio non va oltre i tre miliardi. E non basta appellarsi ad una distribuzione più equa delle risorse: comunque divisa, la torta rimane quella.

Bene, tutte queste cifre spiegano il perché del nostro senso di impotenza e il modo in cui la crescita si differenzia spiega invece il perché del nostro disagio. In sostanza: il decremento demografico in teoria ci va bene, solo vorremmo che si verificasse anche nelle altre parti del mondo. Ma il decremento comporta anche un invecchiamento medio della popolazione, quindi sempre meno lavorativi attivi in grado di garantire il benessere di quelli inattivi. Il che rimanda immediatamente al tema dell’immigrazione. In Italia, ad esempio, abbiamo bisogno di importare forza-lavoro, ma in questo modo importiamo anche culture non sempre compatibili con la nostra (con buona pace dei multiculturalisti): per garantire la sopravvivenza di quest’ultima (sempre che lo si ritenga necessario, e anche su questo le opinioni sono molto diverse) dovremmo invece favorire una politica di incentivazione delle nascite, sul tipo di quelle adottate nei paesi del nord Europa. Contravvenendo però in tal modo a quello che la natura suggerisce. Insomma, un gran pasticcio, del quale siamo decisamente poco consapevoli e meno ancora informati.

Buoni propositi 053. Si parla molto, invece, anche troppo, di identità di genere, e l’impressione è che lo si faccia sempre in termini sbagliati, o quantomeno ambigui. In realtà se ne sente parlare quasi esclusivamente da chi questa identità la vive come un problema, ciò che di per sé sarebbe più che giusto, o da chi l’ha ridotta allo stato “liquido” oggi tanto di moda, e questo invece ci irrita. A disturbarci sono prima di tutto i modi e i luoghi della discussione, l’esasperazione isterica e i salotti televisivi, la sua resa totale alla spettacolarizzazione. Nemmeno questo è dunque un argomento conviviale, sia pure per tavolate ristrette, perché affrontarlo ci mette in difficoltà: da un lato c’è sempre il rischio di urtare la sensibilità di qualcuno direttamente o indirettamente interessato, dall’altro abbiamo timore di essere fraintesi, oppure proviamo la sensazione di tradire la nostra vocazione “di sinistra”, progressista, che dovrebbe vederci disponibili alle più ampie aperture. Finisce così che quando capita di sbatterci contro liquidiamo la faccenda o assumendo posizioni ideologizzanti o trincerandoci sarcasticamente dietro banali battute.

Questo accade perché ancora una volta un problema reale, quello di educare alla parità e al rispetto delle differenze e a considerare le diversità un valore, è stato estremizzato sino all’affermazione dell’inesistenza di differenze tra i sessi biologici, dalla quale discenderebbe la possibilità di variare a piacimento la propria identità sessuale. Leggevo ieri che in Danimarca dall’anno entrante l“appartenenza” sarà anche ufficialmente quella “percepita” dal soggetto, sarà cioè sufficiente dichiararla per cambiare il proprio stato anagrafico. Le ricadute di carattere sociale, giuridico e psicologico sono difficili da immaginare, e infatti sino ad oggi l’esercizio è stato proprio quello di provare a immaginarle, troppo spesso però, anzi, quasi sempre, fermandosi al livello della barzelletta o del paradosso. Anche se personalmente non ritengo che al problema si debba dare una priorità assoluta (contrariamente a quanto abbiamo visto accadere con la legge Zan, che ha provocato addirittura tumulti in parlamento, mentre all’atto della discussione e dell’approvazione di una legge sull’eutanasia Montecitorio era deserto), forse varrebbe la pena di cominciare a trattarlo con un po’ di serietà, lasciando da parte ogni “politicamente corretta” ipocrisia.

Buoni propositi 064. In questo gioco delle ipocrisie la “sinistra”, o quel che ne resta, o quel che ancora si autoetichetta tale, senza dubbio primeggia. Non avendo uno straccio di idea, di progetto, di visione del presente e tanto meno del futuro, vive di continui apparentamenti, insegue movimenti e campagne d’opinione specifiche, cerca di stare al passo con un mondo in trasformazione ma non ha chiara nemmeno la direzione in cui muoversi. La miopia relativa al presente e al futuro nasce dalla rimozione del passato. Voglio dire che la sinistra, quella eterodossa non meno di quella tradizionale, non ha mai fatto una pulizia reale nella propria storia: nel secondo caso l’ha semplicemente messa in soffitta pensando di potersi riconvertire (in cosa?) senza pagare alcun dazio, nel primo continua a trastullarsi con scampoli di nostalgie o con cause abbracciate senza alcuno spirito critico, per avere una qualche bandiera, uno slogan, una kefiah da esporre, e un nemico su cui scaricare i mali del mondo. Mi piacerebbe poter sognare una “rifondazione” della sinistra a partire da alcune basilari prese d’atto, ad esempio quella relativa all’inesistenza di una “natura umana” positiva (alla Rousseau, per intenderci) e alla “naturalezza” invece delle soluzioni culturali escogitate dall’uomo per garantirsi la sopravvivenza, con tutto quel che nel bene e nel male ne è conseguito: ma sembra proprio si continui a viaggiare nella direzione opposta. Anzi, a marciare sul posto. L’antisemitismo sinistrorso riemergente e la riscoperta di un’antropologia ideologizzata (i pacifici cacciatori-raccoglitori del paleolitico, le società libere dei nomadi) sono lì a confermarmelo.

Questo si, è un argomento da tavolata, anche di fine anno. Lo è stato, almeno, ai vecchi tempi prepandemici (gli anni ormai sembrano secoli), quando le tavolate si facevano e parlare di sinistra sembrava avere ancora un senso. Potrebbe essere l’occasione per riprendere in piccolo l’abitudine, e il senso reinventarlo. Mi riferisco naturalmente non alla serata, ma all’anno che verrà, anche se nulla vieta di anticipare un po’ i tempi. Ma in questo caso va fatta attenzione al menù: la discussione sulla sinistra si concilia bene solo col cotechino.

Buoni propositi 075. Il cotechino rappresenta un piccolo tassello di conservazione della memoria. Rimanda al maiale, alla sua importanza nell’economia e nella dieta contadina, ai significati positivi che in quella alimentazione rivestivano i cibi molto grassi e alle simbologie ad essi connesse. Questo della conservazione della memoria è un altro tema particolarmente consono alla serata. In fondo si celebra un rituale tradizionale di rinnovamento, che sia pure in tempi diversi è presente presso tutti i popoli della terra.

Due letture recenti mi hanno indotto, attraverso sollecitazioni molto differenti, a soffermarmi proprio su questo tema. Nel saggio La memoria del futuro Alexander Stille analizza i modi in cui, nel vorticoso avvicendarsi dei mutamenti tecnologici, il nostro rapporto con il passato si sta trasformando. Questo rapporto dipende da come il passato lo registriamo, lo fissiamo, ed è naturalmente molto diverso farlo attraverso la tradizione orale, con la scrittura o con le tecnologie informatiche. Ciò può sembrare lapalissiano, ma la cosa si fa interessante quando consideriamo ad esempio la differente idea di conservazione presente nelle culture architettoniche del legno rispetto a quelle della pietra. I giapponesi, per citare un caso, ricostruiscono ritualmente ogni vent’anni tale e quale un tempio scintoista realizzato nel VII secolo d.C., e affidano la patente di antichità piuttosto all’idea che alla sua espressione concreta. Allo stesso modo in Cina prevale la cultura della copia: dal momento che la maggior parte dei dipinti cinesi erano eseguiti su carta, l’opera degli artisti maggiori ci è stata tramandata nei secoli attraverso la realizzazione di copie. Al contrario, in Occidente hanno prevalso tecniche come l’affresco, la pittura a olio e, in campo architettonico, le costruzioni in pietra. Ha prevalso la cultura dell’“autenticità” materiale.

Buoni propositi 08Ora, questo ha qualcosa a che vedere con le lenticchie e tutto il resto? In un certo senso si, e mi riferisco soprattutto alle modalità conservative orientali, dal momento che quelle che chiamiamo tradizioni son in realtà delle copie, nel nostro caso nemmeno tanto fedeli, di costumi antichi. Ma quel che trovo interessante non sono tanto i modi quanto i moventi alla conservazione. Voglio dire: ha senso tenere in vita queste testimonianze del passato, quando poi nella realtà, al di là di un interesse puramente affettivo o nostalgico (quando va bene), esse non ci parlano più?

Me lo chiedevo proprio ieri, dopo che gli effetti collaterali di una ricerca sul web mi avevano condotto ad un sito che ospitava storie a fumetti complete, tratte dal Vittorioso dei primi anni Cinquanta. Le ho scaricate tutte, di alcune avevo un vago ricordo, altre le ho scoperte per la prima volta, ed emanavano lo stesso fascino che mi aveva ammaliato quando le leggevo a sette o otto anni. Mi è parso di aver ritrovato un tesoro, ma appena l’entusiasmo ha cominciato a scemare ho realizzato che quel tesoro non era più spendibile, era tutto in valuta fuori corso, non avrei potuto trasmetterlo nemmeno a mio nipote.

A questo volevo arrivare. Il cotechino ci sta benissimo, e così i ravioli, o le lasagne, o qualsiasi altro piatto legato al rituale celebrativo. Ma manca l’ingrediente principale, non dico la fame, perché non l’ho mai conosciuta, ma almeno l’eccezionalità del menù, quella che creava e giustificava l’attesa. Vale lo stesso per la storia. Non c’è più fame di storia, perché la storia era un propulsore per l’avvenire, e oggi non c’è più avvenire. Quella che consumiamo è storia ripulita, precotta, offerta in confezioni plastificate, che si può congelare e scongelare a piacere. Spesso non nemmeno tale, è soltanto “memoria”, che oggi tira molto di più. Soprattutto ci viene servita in mezzo a innumerevoli altri piatti altrettanto appetitosi, e i gusti si perdono e si confondono. Qual è allora la vera ragione per la quale ci ostiniamo nell’opera di “conservazione”?

Mi sembra a questo punto che il menù sia già sin troppo ricco: può riuscire pesante. Ma volendo si potrebbero introdurre delle varianti: i temi cui attingere non mancano, soprattutto se si scende ai piatti poveri, e vanno dallo stato pietoso dell’informazione alla rinnovata fenomenologia della stupidità, dal breve risveglio ambientalista allo stordimento culturale ed emozionale da pandemia.

Manca solo il dessert, e quello lo offro io, assieme alla promessa (alla minaccia?) che su questi temi tornerò.

Buoni propositi 09Dunque. Due settimane fa sono andato a prendere mia figlia Chiara che sbarcava a Linate. Tra ritardi e controlli sanitari rafforzati ho atteso più di un’ora davanti al varco d’uscita, cosa che si verifica ogni volta e che tutto sommato non mi spiace più di tanto, perché mi consente una panoramica spesso assai divertente sul mondo dei traveller’s. Stavolta però a guastarmi il piacere c’erano sei cani, che giustamente per tutto il tempo dell’attesa hanno fatto cagnara, con sommo compiacimento dei loro padroni, che al contrario dei cani hanno subito fraternizzato. Non mi era mai capitato prima, credevo anzi che fosse loro interdetto l’accesso. Non solo, ma quando finalmente i passeggeri sono sbarcati, all’apparire dal varco il loro grido di gioia era rivolto non a genitori o fratelli o fidanzati, ma ai cani, e così anche il primo abbraccio. Ora, io mi chiedo, e vi chiedo: tutto questo, vorrà dire qualcosa?

Avete un anno per pensarci. Oppure, se pensare vi costa troppa fatica, prendetevi un cane.

In memoria di Yahoo Answers

orazione funebre per un sito scomparso

di Lorenzo Solida, 26 aprile 2021

È di poche settimane fa la notizia che Yahoo Answers, il portale di risposte collaborative, chiuderà definitivamente il 4 maggio: dopo tale data, infatti, non solo non sarà più possibile proporre nuove domande o rispondere a quelle già presenti, ma nemmeno accedere agli archivi. Probabilmente la notizia lascerà indifferente la maggior parte dei lettori, considerando la ridotta popolarità della piattaforma, che veniva utilizzata perlopiù dai millennials. Tuttavia, sono convinto che chi, come me, ha speso in passato un po’ del suo tempo nella community di Answers, non potrà non dedicare almeno un fugace pensiero di rimpianto, un sorriso malinconico, a questo vecchio portale che se ne va …

La decisione in sé è ben comprensibile: il calo di popolarità del servizio, soppiantato da assistenti virtuali e social network, e i problemi di moderazione, che ultimamente stavano diventando sempre più accentuati, soprattutto dopo che era stata concessa la possibilità di porre domande in forma anonima (anche prima, comunque, i profili troll abbondavano), sono elementi sufficienti a decretarne la chiusura. Anch’io, non vi nascondo, avevo abbandonato la piattaforma da anni (non ricordo con precisione quando, ma penso che i miei ultimi contributi risalgano al periodo della fine delle scuole superiori); tante le ragioni, dal minor tempo a disposizione, alla preferenza per altre forme di conoscenza collaborativa, al crollo della qualità di domande e risposte (eh sì, ognuno tende a ricordare il periodo in cui ha contribuito come il più fulgido nella storia di Answers …). Non sono quindi contrario alla chiusura, né sentirò la nostalgia di un servizio che ormai da anni non mi interessava in alcun modo, però questa vicenda mi suggerisce lo spunto per alcune riflessioni, che provo a condividere.

Impermanenza: l’anitya principio fondamentale del buddhismo, il panta rei di Eraclito, dopo secoli di filosofia dovremmo oramai aver capito che nulla può durare in eterno. Tuttavia, è insista nella specie umana una certa riluttanza al cambiamento, o perlomeno un fisiologico tempo di assestamento nei confronti delle novità, tempo che viene sempre meno rispettato nella società contemporanea: la rivoluzione digitale ha estremizzato questa tendenza, producendo in continuazione una moltitudine di “trend” e contenuti, il cui orizzonte temporale è però spesso molto breve.

googlekeepNon so se sia un’abitudine comune, ma io sono un utilizzatore abbastanza compulsivo delle liste: siccome mi imbatto spesso in contenuti che ritengo interessanti, ma non ho tempo di guardarli in quel momento, oppure prevedo che mi serviranno in un periodo successivo, o ancora so già che mi piacerà riguardarli, li inserisco in una lista. Possono essere libri, visti di passaggio nella vetrina di una libreria, sfogliati sommariamente alla Feltrinelli di Milano Centrale nell’attesa tra un treno e l’altro, indicati in bibliografia da un testo precedente, suggeriti dal passaparola di un amico di cui condivido i gusti letterari: proprio perché la loro origine è varia, per poter gestire queste informazioni trovo utile centralizzarle, e uso con soddisfazione le note di Google Keep per tenerne traccia.

Uso le liste anche per archiviare video su YouTube: avete mai ritrovato quel brano musicale che vi piaceva, ma di cui non ricordate mai il titolo (talvolta nemmeno il compositore e l’esecutore, e lì la ricerca si fa ardua…)? Vi siete mai imbattuti in un podcast interessante, garbato, che ha catturato la vostra attenzione? Oppure avete un hobby, che magari non coltivate quanto vorreste, ma di cui vi piace guardare i contributi di altri appassionati? Voilà, basta un clic e tutti questi contenuti finiscono in una playlist! Anzi, perché limitarsi quando si possono creare una moltitudine di elenchi, uno per ogni tema di nostro interesse?

Ma l’ambito nel quale raggiungo l’apice della mia listo-mania sono i preferiti dei browser: la Rete è una miniera di informazioni, ma non sempre i contenuti che cerchiamo di ritrovare sono facilmente disponibili; anzi, è proprio l’abbondanza di materiale a renderli spesso introvabili come il classico ago nel pagliaio. Ecco, i preferiti servono (dovrebbero servire) a questo: alias digitale delle molliche di pane di Pollicino, ci aiutano a riavvolgere il nastro, a tornare sui cammini già percorsi, permettendoci anche di riunire e sincronizzare i contributi salvati su più dispositivi dello stesso utente in un’unica raccolta. Nel momento in cui sto scrivendo, nonostante li sfoltisca spesso, ho 1359 segnalibri nel mio browser (li ha contati lui, non io) raggruppati in un albero di circa 150 cartelle (qui vado a stima), annidate secondo lo stesso paradigma dei documenti in un file system. Come dite, sono tanti? Avevo premesso che li uso in modo abbastanza compulsivo …

Ho divagato un po’, ritorno al tema principale: se anche voi, come me, siete abituati a utilizzare questi tipi di liste, vi sarà certamente capitato di imbattervi in link non funzionanti, in contenuti rimossi. Sembra (ed è) un controsenso: depositiamo un link in un elenco di segnalibri o un video in una playlist proprio per poterlo ritrovare un domani, e quando cerchiamo di utilizzare questa informazione, il contenuto non è più disponibile!

Per ovviare a questa situazione è nata la Wayback Machine, un immenso archivio del web lanciato nel 2001 che si prefigge l’ambizioso intento di tenere traccia di tutte le modifiche apportate alla Rete, archiviando non solo tutte le pagine, ma anche le loro differenti versioni (con il relativo marker temporale) ogni qualvolta vi siano state apportate delle modifiche rilevanti. La capacità di memorizzazione necessaria per perseguire questo risultato è mostruosa: nel 2005 sui server del progetto si contavano circa 40 miliardi di pagine, nel 2020 cresciute a 514 miliardi, occupando uno spazio di storage di oltre 70 petabytes (milioni di gigabytes)! Per quanto si potrà andare avanti ad accumulare dati a questa velocità? Il problema è sfaccettato, non si tratta “solo” di soddisfare la continua domanda di nuovi supporti di memoria, ma anche di garantirne la durata nel tempo e, di conseguenza, l’integrità dei dati in essi custoditi; è inoltre sempre maggiore l’attenzione all’enorme quantità di energia necessaria a tenere sempre disponibili questi contenuti online … e poi, per chi? Sono davvero tutti necessari? Riusciremo mai a utilizzarne anche solo una parte? In più occasioni il professor Barbero, noto medievalista, ha posto l’attenzione sulla differenza tra lo studiare il mondo antico, dove una delle difficoltà maggiori è il numero limitato delle fonti disponibili, e gli stati burocratizzati nati a partire dall’Ottocento, in cui una parte considerevole del lavoro dello storico consiste nello spulciare l’immensa quantità di documenti disponibile, da cui condensare un risultato di sintesi.

È certo che oggi siamo aiutati in questo processo dall’archiviazione digitale e dai motori di ricerca, Google in testa, che hanno costruito la loro fortuna proprio sulla capacità di fornire, grazie a complessi algoritmi di indicizzazione, risultati rapidi e precisi con il minor dispendio di energie (umane) possibile. A mio parere, però, anche grazie alla crescita esponenziale della quantità di informazioni prodotta da dispositivi wearable, sensori, intelligenza distribuita, stiamo migrando sempre più da una comunicazione macchina-uomo ad una macchina-macchina, in cui una consistente parte di questo cicaleccio digitale è destinato ad essere gestito senza alcun intervento umano.

L’accessibilità dei dati pone problemi ancora maggiori se la si considera non solo nel presente, ma su orizzonti temporali medio-lunghi, coinvolgendo almeno altri due aspetti: il supporto e lo standard.

Ad una prima analisi i moderni supporti di memoria sembrano affidabili, in qualche misura anche più dei precedenti equivalenti fisici: un compact disc può essere riprodotto migliaia di volte garantendo un suono costante, mentre un disco in vinile perde progressivamente di “risoluzione” ad ogni ascolto, a causa dell’attrito tra la puntina e la superficie del disco, che provoca un’infinitesima asportazione di materiale soprattutto nei tratti con spostamenti maggiori (l’effetto si percepisce in particolare nei dischi stereofonici, in cui i due canali vengono memorizzati in modo ortogonale l’uno rispetto all’altro). Se, tuttavia, si considerano gli effetti causati dal trascorrere del tempo, la prospettiva si ribalta: i vinili sono tranquillamente riproducibili anche dopo svariati decenni, e senza particolari precauzioni di conservazione, potendo essere esposti alla luce e, entro limiti ragionevoli, all’umidità, mentre i CD risultano spesso illeggibili anche solo in 10-15 anni, soprattutto se conservati al di fuori delle custodie di protezione.

I supporti di memoria possono rappresentare un problema anche dal punto di vista dell’evoluzione nel tempo degli standard: se, infatti, dal punto di vista software il problema sembra limitato (i vecchi formati sono, nella maggior parte dei casi, ancora supportati, ad esempio il Rich Text Format, antenato del .doc, che vide la luce nel lontano 1987), altrettanto non si può dire dell’hardware. Quando ripenso alle mie interazioni con l’informatica da bambino, i miei ricordi sono indissolubilmente legati al floppy disk (lo ricordate? Quel quadrato di plastica nera rigida con la linguetta metallica, che in poco più di 9 cm di lato conteneva ben 1.44 MB di dati!). Che ne è oggi dei floppy? Nessun computer recente integra più le unità di lettura, e gli stessi lettori CD stanno diventando sempre meno comuni nei dispositivi attuali, in special modo nei notebook, in cui la compattezza e lo spessore ridotto sono caratteristiche dominanti. Dobbiamo quindi aspettarci che anche i supporti che utilizziamo ai giorni nostri, e che consideriamo talmente “naturali” da non dubitare della loro eternità, possano subire lo stesso destino, rapidamente rimpiazzati da tecnologie più innovative?

floppy0001E quindi, cosa dovremmo fare? A mio avviso sarebbe sciocco voler rinunciare al progresso tecnologico, tentando di cristallizzare la situazione attuale e non cogliendo i vantaggi che l’avanzamento tecnico ha comportato e che continuerà ad apportare. Probabilmente la strategia migliore consiste nell’essere vigili, nel non accettare le novità in modo passivo, nel prendere coscienza dei nuovi problemi e nel tentare di affrontarli con un equilibrato mix di nuovi e vecchi approcci.

La chiusura di Yahoo Answers, spunto di partenza per questo breve scritto, e il problema della fragilità della memoria collettiva affidata alla Rete, mi forniscono infine l’occasione per riflettere sull’importanza del patrimonio librario della nostra nazione, testimonianza tangibile e duratura della nostra Cultura. Libri custoditi nelle tante piccole raccolte domestiche di chi tra noi ama la lettura (e se siete arrivati fino al fondo di questo articolo probabilmente vi annoverate tra questi), libri antichi ospitati negli archivi e nei monasteri, libri allineati in gran numero sugli scaffali delle 12268 biblioteche italiane, moltitudine sterminata di libri custoditi nelle Biblioteche Nazionali Centrali di Roma e Firenze.

Sit tibi terra levis, Yahoo Answers

Schiavi anche dell’oblio

di Paolo Repetto, 16 gennaio 2020

“Uno solo è il luogo per vivere: un pezzetto di giaciglio, il resto appartiene al campo, allo Stato. Ma né questo pezzettino di posto, né la camicia, né la pala è tua. Ti ammali, e ti portano via tutto: il vestito, il berretto, la sciarpa avuta di frodo, il fazzoletto da naso. Quando muori ti strappano i denti d’oro, in precedenza già registrati nei libri contabili del campo. Ti bruciano e con la tua cenere concimano i campi o ci bonificano gli stagni. È vero che sprecano tanto di quel grasso, tante ossa, tanta carne, tanto calore! Ma altrove con la gente ci fanno sapone, con la pelle umana abatjour, con le ossa bigiotteria. Chissà, forse da esportare ai negri quando li assoggetteranno. Lavoriamo sottoterra e in superficie, sotto un tetto e alla pioggia, con la pala, con il vagoncino, con i picconi e con la mazza di ferro. Portiamo sacchi di cemento, posiamo mattoni e binari ferroviari, recintiamo il terreno, battiamo la terra … Gettiamo le fondamenta di una qualche nuova, mostruosa civiltà. Solo ora conosco il prezzo dell’antichità. Quale mostruoso delitto sono le piramidi egiziane, i templi e le statue greche! Quanto sangue dovette scorrere sulle strade romane, sui valli di frontiera e nei cantieri delle città! Quell’antichità che era un gigantesco campo di concentramento, dove allo schiavo veniva impresso a fuoco il marchio di proprietà sulla fronte e lo crocefiggevano per una fuga. Quell’antichità che era una grande congiura dei liberi contro gli schiavi!
Ricordi quanto amavo Platone. Oggi so che mentiva. Perché nelle cose terrene non si riflette l’ideale, ma vi risiede il pesante, sanguinoso lavoro dell’uomo. Eravamo noi a costruire le piramidi, noi ad estrarre il marmo per i templi e le pietre per le strade imperiali, eravamo noi a remare nelle galere e a tirare gli aratri, mentre loro scrivevano dialoghi e drammi, giustificavano con le patrie i propri intrighi, lottavano per i confini e le democrazie. Noi eravamo sporchi e morivamo sul serio. Loro erano estetici e discutevano per finta.
Non è bellezza quella che poggia su un torto verso l’uomo. Non è verità quella che sottaccia un tale torto. Non è bene quello che lo permetta. Cosa ne sa mai l’antichità di noi? Conosce un astuto schiavo da Terenzio e da Plauto, conosce dei tribuni del popolo, i Gracchi, e il nome proprio di uno schiavo solamente: Spartaco. Loro facevano la storia e un criminale qualunque – Scipione – un avvocato qualunque – Cicerone o Demostene –, li ricordiamo alla perfezione. Rimaniamo incantati dall’eccidio degli Etruschi, dallo sterminio di Cartagine, dai tradimenti, dagli stratagemmi e dai saccheggi. Il diritto romano? Anche oggi c’è un diritto.
Che ne saprà il mondo di noi, se trionfassero i tedeschi? Sorgeranno giganteschi edifici, autostrade, fabbriche, monumenti alti sino al cielo. Sotto ogni mattone ci saranno le nostre mani, sulle nostre spalle verranno portate le traversine ferroviarie e i lastroni di cemento armato. Ci assassineranno le famiglie, i malati, i vecchi, i bambini. E nessuno saprà di noi. Copriranno le nostre grida i poeti, gli avvocati, i filosofi, i preti. Creeranno il bello, il bene e la verità. Creeranno una religione.”
Tadeusz Borowski, Paesaggio dopo la battaglia

Ho ritegno ad aggiungere qualcosa a queste parole. Qualsiasi commento non può che svilirne la forza tragica. Se azzardo un paio di considerazioni è solo perché negli ultimi tempi più di una volta, ancor prima di aver conosciuto l’opera di Borowski (che ho scoperto con ingiustificabile ritardo), mi sono sorpreso a pensare le stesse cose. E lo faccio avendo ben presente che le mie meditazioni scaturivano da stati d’animo (e da una situazione) assolutamente non comparabili con quelli di Borowski.

In una di queste occasioni, considerando la solidità e la bellezza di un acquedotto romano e di un Alcazar, avevo anche scritto che quantomeno i sacrifici di chi li aveva costruiti erano valsi a lasciare qualcosa di duraturo. “Mentre ne ammiri il disegno o la semplicità elegante o la ricchezza non puoi non pensare alle sofferenze di tutti coloro che queste cose le hanno costruite, alle fatiche che sono costate, alle ingiustizie di cui sono impastate le mura, i pilastri e le colonne; ma hai l’impressione che un sia pur minimo riscatto di tutto ciò arrivi proprio dalla loro durata, dalla sfida vittoriosa al tempo e dalla testimonianza di un gusto del bello che ancora ci affascina ma che non siamo più in grado di coltivare concretamente.” Erano stupidaggini, dettate probabilmente dalla concomitante constatazione della fragilità e della bruttezza delle “grandi opere” (ma anche di quelle piccole) contemporanee: e Tadeusz Borowski me lo ha immediatamente ricordato. Lui era tra coloro che costruivano, e non ci coglieva alcun riscatto.

Un’impressione analoga ho provato poco dopo, nel corso di un viaggio nel Peloponneso. Mi aggiravo per Micene, in mezzo a quelle vestigia colossali, nella luce fantastica di un tardo pomeriggio autunnale. Ciò che vedevo avrebbe dovuto commuovermi e impressionarmi, ma in realtà mi sentivo solo a disagio. Non mi era mai accaduto prima. Quelle maturate in terra di Spagna erano ancora riflessioni piuttosto distaccate, non dico fredde, ma confinate comunque alla mente. A Micene il disagio era anche fisico. Non riuscivo ad ammirare quelle rovine e quasi mi vergognavo di essere lì. So quanto pesa una pietra (sono un appassionato costruttore di muretti a secco), anche quando ciò che fai lo fai per scelta, o addirittura per divertimento: ma mi rendevo dolorosamente conto di sapere nulla, in realtà, di tutti coloro che quelle pietre erano stati costretti con la violenza a portarle e posarle e lavorarle, di quanti sotto o sopra esse saranno morti o avranno perso mani o braccia o gambe, che equivaleva a morire.

A guardare alle opere del mondo, alla sua storia, da questo punto di vista, dal “loro” punto di vista, c’è da inorridire. C’è il rischio che tutto perda senso, anche quel poco che noi ci sforziamo di dargli. E allora diventa improvvisamente chiaro perché lo stesso Borowski, perché Jean Amery, perché Primo Levi, e chissà quanti altri che non conosciamo, non abbiano retto poi, usciti da quell’incubo, al ritorno alla normalità. Non si può tornare normali, dopo aver assistito a tanta assurda crudeltà e inutile disperazione.

Ci hanno provato. Uno tra tutti, Levi. Le pagine nelle quali racconta le difficoltà e la gioia di spiegare Dante e la potenza della sua lingua a un compagno francese di sventura sono la massima testimonianza del tentativo di opporre la cultura alla barbarie, all’abbrutimento o all’annullamento. Lo fa con il canto di Ulisse: “fatti non foste …”. Per affermare, e confermare a se stesso, che alla fine, comunque, è la prima a prevalere, e a farci riconoscere umani.

E tuttavia proprio coloro che avevano opposto resistenza in nome della cultura, e non semplicemente della sopravvivenza, sono quelli che hanno maggiormente sofferto il dopo. Il silenzio, il disinteresse, addirittura il fastidio manifestato nei confronti di chi non voleva dimenticare, hanno fatto ciò che neppure gli aguzzini erano riusciti ad ottenere. Li hanno fatti dubitare anche di quel labile significato che attraverso la cultura avevano cercato di dare alla propria vita e alle proprie sofferenze. Quegli uomini hanno retto alle atrocità, ma non all’idea che la coscienza di quelle atrocità nemmeno scalfisse chi non le aveva direttamente vissute.

Devo chiudere velocemente, perché ho già nascosto dietro troppe parole le considerazioni lucide e terribili di Borowski. Eppure, qualcosa mi trattiene ancora per un attimo.

Penso che anche Borowski ci ha provato. Lo ha fatto dal fondo della sua disperazione e della sua delusione, ma lo ha fatto. Proprio scrivendo queste pagine. E ora nel mio piccolo, per quel nulla che vale, ho il dovere e l’urgenza di farle conoscere ad altri, di non lasciare che siano risucchiate nel buco nero dell’oblio. Se anche una sola persona le leggerà, un minimo di senso me lo sarò dato anch’io.

Tadeusz Borowski è nato nel 1922 in una famiglia polacca residente in Ucraina. A quattro anni ha visto deportare i genitori i nei gulag sovietici, e li ha ritrovati solo dieci anni dopo. Trasferitosi con loro in Polonia, ha completato gli studi superiori proprio mentre il suo paese veniva invaso dai nazisti. Arrestato come collaboratore di riviste clandestine nel 1943, e deportato prima ad Auschwitz e poi a Dahau, ha condiviso la terribile condizione dei prigionieri slavi. Liberato alla fine della guerra, dopo aver appoggiato in un primo tempo il regime filosovietico, è arrivato poi a riconoscerne quasi una continuità con quello nazista. È morto suicida nel 1951, a soli ventinove anni: ma sulle circostanze della sua morte ci sono ancora molti dubbi. Delle sue non molte opere, sia di poesia che di narrativa, sono state tradotte in italiano “Paesaggio dopo la battaglia” (Lindau, 1993), da cui sono tratte le pagine che ho riportato, e”Da questa parte, per il gas” (L’Ancora del Mediterraneo, 2008). Entrambi i titoli sono introvabili.

 

 

La notte della memoria

di Paolo Repetto, 2011

Beati i popoli che non hanno bisogno di giorni della memoria. Suona familiare: e infatti, pur non essendo un fanatico di Brecht finisco sempre per parafrasarlo. Se c’è bisogno di parchi, scrivevo anni fa, è perché non siamo più in grado di rapportarci alla natura: ogni istituzionalizzazione del sentire riflette infatti e denuncia la perdita di una sensibilità. Così, se c’è bisogno di una festa della mamma, del papà, del nonno è proprio perché queste figure hanno perso identità e peso nella nostra vita, e diventa necessario ricordare per decreto che esistono. Se si celebra il giorno degli innamorati è perché abbiamo dimenticato, sempre che l’abbiamo mai saputo, cos’è il vero amore. Insomma, la liturgia e la polluzione delle ricorrenze sono un segno, anche al netto di tutto il carrozzone commerciale che c’è alle spalle e che costituisce il vero motivo della ridicola corsa ad incorniciare e infiocchettare tutto. Oggi lo sono per quanto concerne lo stato e l’uso della memoria storica, e arrivano dalle nostre parti ad assumere caratteri grotteschi, dal momento che la famigerata par condicio impone di inserire a calendario giornate del ricordo, del rimpianto, della rimembranza o di che altro, col risultato, tutt’altro che involontario, di fare mucchio e rimandare tutto nell’oblio.

È evidente che il giorno della memoria non mi piace. Non mi piaceva dieci anni fa, quando è stato istituito, per le ragioni che ho detto, mi piace ancora meno oggi perché ha innescato un sacco di derive. Intanto ha dato luogo ad uno sfruttamento mediatico vergognoso. Pur non essendo un videodipendente, tutti gli anni, all’approssimarsi del ventisette gennaio, cado in depressione all’idea che per una settimana almeno non potrò scegliere che tra Schindler’s List e La vita è bella (essendo pieno inverno non ho nemmeno l’alternativa di uscire a farmi un giro). La depressione non è frutto di astinenza da video, ma dell’effetto di saturazione, o almeno di sazietà, che questo pompaggio esasperato ha indotto, e del conseguente ipocrita rilassamento delle coscienze. Quasi a dire: abbiamo già fatto tutto quel che si doveva, abbiamo sentito tutte le messe. Non mi piace poi perché induce a focalizzare l’attenzione su un solo frammento di memoria, per naturale evidenza, senz’altro, ma anche per negligenza o per ignoranza, quando non per calcolo o per cinismo.

Questo fastidio naturalmente non ha nulla a che fare col negazionismo (mi sembra quasi ridicolo sottolinearlo, ma l’interpretazione maligna è sempre in agguato – e ci rimane comunque, a dispetto delle precisazioni). Nasce, al contrario, dal rifiuto di ridurre tutto ad una liturgia, a lavarsi la coscienza con la cerimonia, i discorsetti, le testimonianze dei reduci, fino a quando ne rimarrà qualcuno. L’alternativa è l’oblio, mi si obietterà; può darsi, ma l’oblio almeno suscita e giustifica l’indignazione, la volontà di combatterlo; mentre la celebrazione rituale, con l’ostensione delle reliquie dell’orrore conservate sotto vetro, non fa che accrescere la distanza nei confronti di qualcosa che invece ci concerne profondamente, sia come vittime che come carnefici potenziali. Qualche minuto di cerimoniale compunzione per i ricordi strazianti e i vani appelli dei sopravvissuti, un attimo di commozione davanti alla sequenza particolarmente struggente di un film (ma anche qui, dopo la seconda volta la sequenza diventa banale, diventa solo film) bastano a pacificare la nostra coscienza. Soprattutto perché ci consentono di restarcene all’esterno, e di pensare che la colpa, alla fin fine, riguardi sempre e solo gli altri.

Per questo voglio celebrare la giornata a modo mio. Non sciorinando cifre, non elencando i campi di concentramento e quelli di sterminio, non recitando i nomi delle vittime, ma ponendomi alcune semplici domande e proponendo possibili risposte. Non vuole essere una provocazione, non mi illudo che si possa più provocare chicchessia su qualsivoglia tema: sono solo spunti per una corretta manutenzione della memoria.

a) Non solo ebrei. Il giorno della memoria cade nell’anniversario della liberazione degli ultimi sopravvissuti nel campo di Auschwitz. È stato istituito quindi in relazione ad un evento ben preciso, anche se da subito, malgrado qualche resistenza degli ambienti ebraici (in qualche modo giustificata, visto che sono stati proprio gli ebrei, a partire dal processo Eichman, a ridare parola e dignità alle vittime) è stato interpretato come l’occasione per far tornare alla luce, o per far emergere per la prima volta, altri episodi altrettanto vergognosi. L’occasione è stata almeno in parte sfruttata, soprattutto per la concomitanza con i saldi storici di fine millennio, che hanno portato alla proliferazione di studi, ricerche, raccolte documentarie relative agli orrori del ventesimo secolo. Molto di ciò che era rimasto ben chiuso negli armadi della vergogna sparsi in tutto il mondo è venuto fuori.

Molto, ma non tutto, e non sempre in maniera definitiva. Mentre per i crimini nazisti infatti il campo è in qualche modo sgombro, in quanto da parte tedesca c’era stata almeno ufficialmente un’assunzione di responsabilità, e dal canto loro le vittime (o meglio, i loro eredi più o meno prossimi) dispongono di un notevole potenziale di pressione culturale, per altre situazioni la cosa si presenta più delicata. Si prenda ad esempio il caso dello sterminio degli Armeni (ma varrebbe allo stesso modo per un sacco di altre popolazioni, da quelle caucasiche a quelle dell’Asia centrale o del sudest, dall’Africa centro-meridionale all’America Latina). Dopo che è stato accertato, documentato, conclamato il massacro di almeno un milione e mezzo di persone si continua a dibattere sulla definizione da utilizzarsi: si può parlare di genocidio o no? Non è un problema meramente lessicale: a seconda di come si risolva l’assurda diatriba terminologica cambia il peso specifico delle vittime al cospetto della giustizia sovranazionale: e quindi anche la quota di ricordo spettante. Non sto dicendo che alla memoria della Shoah sia riservato un canale preferenziale, e che sull’appropriazione indebita di questa memoria sia stata costruita una sorta di impunità dello stato israeliano, come affermano, oltre che i revisionisti, anche alcuni storici ebrei: il canale c’è perché gli ebrei se lo sono scavato con le unghie, e va salvaguardato da ogni tentativo di insabbiamento. Piuttosto sarebbe necessario scavarne altri, per tutti coloro di cui non sono rimaste nemmeno le unghie, e la cui memoria è rimossa con fastidio, perché disturba la domesticazione dei carnefici e il loro ingresso nel consesso politico e soprattutto nel mercato globale.

Certo, qui si rischia di infilarci in un pozzo senza fondo: perché a voler scavare ce n’è per tutti, e andando un po’ in profondità la storia si rivela una tabella di massacri, con rovesciamenti continui di parte. Il problema non è dunque quello di mandare tutti alla sbarra, perché la gabbia degli imputati sarebbe sempre troppo stretta, quanto di pretendere almeno che tutti assumano le proprie responsabilità. E dal momento che questo non avviene, perché la Cina non ci pensa nemmeno ad ammettere di aver sterminato due milioni di tibetani, e la Turchia nega l’eccidio armeno, e Francia e Belgio fingono di non sapere nulla della campagna d’odio che ha portato al massacro dei Tutsi, e così fanno tutti gli altri, questo ha da essere il compito della memoria: non lasciare che la voce di alcuna vittima sia soffocata da palate di terra, e fare sì che ogni carnefice debba guardare negli occhi il suo prossimo e i suoi figli sapendo che sanno.

b) Siamo “brava gente”? Partiamo proprio da noi. Il concorde apprezzamento per l’istituzione del giorno della memoria nel nostro paese e l’eccesso di zelo col quale viene celebrato non sono sintomi di una sensibilità particolarmente acuta. Sono al contrario l’ennesima dimostrazione della nostra ipocrisia. Ci va bene ricordare gli orrori, perché ci siamo persuasi che si tratti sempre degli orrori degli altri. In fondo parliamo di crimini del nazismo, del comunismo, dell’integralismo, del nazionalismo, dell’antisemitismo, del razzismo interetnico, come di cose che non ci sfiorano. Noi siamo quelli che durante la campagna di Russia invece di bruciare le isbe con tutti i disgraziati che le abitavano dividevamo il pane e i cappotti con i poveri invasi. Solidarizziamo con le vittime perché ci sentiamo noi stessi vittime per vocazione, tanto da avere istituito una giornata per ricordare gli orrori delle foibe. Che ci sono stati, per carità, e non debbono essere dimenticati: ma nemmeno debbono servire ad alimentare la nostra falsa coscienza di innocenti perseguitati. La realtà è un po’ diversa, e forse meriterebbe l’istituzione di un particolare giorno della vergogna, a ricordo dei crimini commessi dal nostro popolo, o comunque dai nostri politici e dalle nostre truppe. Sarebbe sufficiente in proposito ricordare che nei primi anni trenta nel parlamento inglese il comportamento delle autorità italiane veniva citato come esempio di una perfetta conduzione della politica coloniale. Avevamo appena impiccato l’ultimo rappresentante della resistenza libica, l’ultrasettantenne Umar al-Muktar, e nessuno ne aveva saputo niente e tantomeno aveva denunciato o deprecato il fatto; mentre gli inglesi avevano a che fare con un Gandhi che veniva ricevuto in tutto il mondo, dal papa, dai capi di governo, ecc, ed ogni episodio di massacri, di torture o che altro veniva evidenziato e stigmatizzato dalla stampa britannica. Oppure rimarcare come nessun libro di storia per le scuole superiori ancora oggi riporti che dopo l’attentato al maresciallo Graziani ad Addis Abeba, nel 1936, vennero fucilati per rappresaglia e fatti sparire nel deserto quattromila giovani etiopi tra i sedici e i venticinque anni. O ancora, che all’inizio della seconda guerra mondiale una intera etnia che abitava l’area nord orientale della Libia venne spostata, per motivi di sicurezza strategica, nella zona sudoccidentale, vale a dire in pieno deserto del Sahara, col risultato che dopo tre anni una popolazione di oltre duecentomila persone era ridotta a poco più di cinquantamila. Per non parlare poi di quanto avvenuto nel corso dell’occupazione congiunta con i nazisti della Jugoslavia, per il dettaglio della quale si può fare riferimento ad esempio allo studio di Gianni Oliva Si uccide troppo poco. Altro che giorno del ricordo.

c) Siamo razzisti? Lo stesso vale per il razzismo in generale e per l’antisemitismo in particolare. Per quanto concerne il razzismo la posizione italiana doveva essere per forza di cose diversa, ad esempio, da quella tedesca. Hitler poteva pensare nel suo delirio di “ridare purezza” alla “razza ariana”, Mussolini era ben consapevole che non esisteva nessuna razza italiana, anche ammettendo i criteri razzistici dell’epoca, e che al più avrebbe potuto aspirare a creare un “popolo” italiano. E tuttavia non dobbiamo dimenticare che riviste come La difesa della razza ed altre simili circolavano ed erano finanziate dal regime molto prima dell’alleanza con Hitler, e che il manifesto della razza era stato preparato da una campagna incessante mossa da personaggi come Telesio Interlenghi o Giovanni Preziosi dall’inizio degli anni venti. È vero che del primo governo Mussolini facevano parte anche sottosegretari ebrei, ma in quello stesso periodo in Germania un ebreo era addirittura capo del governo. Dietro le spinte espansionistiche verso l’Africa c’era poi tutta una propaganda intrisa di un raffazzonato sentire razzistico, che trovava una tanto più facile esca nell’animo di gente, coloni e militari, abituata da sempre a subire soprusi e disprezzo, e che non vedeva l’ora di rivalersi prevaricando a sua volta, al riparo del viatico della superiorità razziale. Quanto questo razzismo fosse meschino lo testimoniano da un lato le farneticazioni dei teorici, comprese quelle dei “raffinati” (tipo Julius Evola) che non nascondevano un po’ di puzza al naso nei confronti degli aspetti più beceri del fascismo, e che dovevano arrampicarsi sugli specchi per negare il crogiolo etnico italiano, dall’altro gli strumenti più diffusi di creazione (ma anche di espressione) del consenso popolare, dalle canzoni alle vignette “satiriche”, dal “Corriere dei Piccoli” alle riviste per bottega del barbiere. Ma c’è qualcosa di più profondo, che non può essere liquidato con l’infatuazione passiva e gregaria (questa sì tipica del nostro popolo) dell’epoca fascista. Questo modo di sentire ci appartiene già nell’Ottocento, da prima che diventassimo almeno formalmente una nazione e almeno a parole nazionalisti. Lo troviamo in Manzoni e nel suo concetto di “stirpe”, in Carducci difensore della purezza ariana greco-latina, nei positivisti come Lombroso, persino nei più illuminati teorici della sinistra “darwiniana” (Labriola contro la torbidezza semita di Marx, per la trasparenza aria di Engels), o in intellettuali “contro” come Giovanni Papini; per non parlare poi dell’area cattolica (l’antisemitismo feroce della “Civiltà Cattolica” e della “Rivista Internazionale” di Toniolo, quello di Agostino Gemelli, ecc.). Non siamo mai stati immuni dal virus, neppure quando, al contrario di nazioni come la Francia e l’Inghilterra, non avevamo “razze” diverse con le quali confrontarci.

Quanto al “ceppo” cui il virus appartiene (razzismo vero e proprio, xenofobia, intolleranza, ecc) il discorso si complica, e non è questa la sede per un’analisi più approfondita: sta di fatto che i batteri allignano, si trasformano e si rafforzano, pronti a diffondersi al minimo spiffero. Dobbiamo fare molta attenzione alle finestre.

d) Le radici profonde dell’antisemitismo. George Steiner, uno studioso ebreo, molto più “studioso” che ebreo, ma comunque molto “ebreo” nella schiettezza e nella lucidità di approccio ai problemi, propone una interpretazione delle radici profonde dell’antisemitismo che mi sembra assolutamente esaustiva, ancorché scioccante. Partendo da un’affermazione di Hitler, che scriveva che “la coscienza è una invenzione ebraica”, Steiner ne dimostra la sostanziale veridicità. L’origine della “coscienza”, intesa come senso di responsabilità rispetto al proprio operato, e in particolare di una responsabilità individuale, è connessa all’introduzione del monoteismo, il vero essenziale portato della cultura ebraica.

Perché però il nemico è l’ebreo, e non anche il cristiano? Perché il primo ha mantenuto integrale il suo monoteismo, mentre gli altri, i cristiani soprattutto, lo hanno addolcito (e infatti la reazione protestante, che è insieme un passo in avanti, verso l’individualizzazione della responsabilità, e uno indietro, verso l’integralismo originario, cerca di eliminare tutte le incrostazioni del neo-politeismo rappresentate da santi e madonne, ovvero proprio da ciò che il cattolicesimo ha introdotto per diminuire il peso della solitudine del monoteismo).

In sostanza, secondo Steiner tutto il Vecchio Testamento è la storia di ritorni indietro (al politeismo primordiale) e di tentativi di rompere il soffocamento monoteistico. L’epoca cristiana ha inizio quando san Paolo risolve la situazione lasciando spazio ad altre figure (la trinità, lo Spirito Santo, ecc…). Il distacco definitivo avviene appunto con la proliferazione delle figure di contorno (madonne e santi, appunto), ma anche con la possibilità di raffigurare Dio, di concretizzarlo e in qualche modo di limitarlo.

Nell’ebraismo non c’è nulla di tutto ciò. Non è solo questione del divieto di riprodurre Dio in immagine. Qui si parla di non poter nemmeno immaginare Dio, nemmeno pronunciarne il nome. Per l’ebraismo Dio è Assenza. E questo, secondo Steiner, ci priva della libertà: quella libertà di spirito, quella pluralità creatrice che è invece insita nel politeismo (come affermava Nietzche e ribadisce oggi Marc Augé). Ma non dovrebbe essere l’opposto, visto che la libertà è fondata su una reale possibilità di scelta, e sull’assunzione di responsabilità personale nel compiere questa scelta? No, dice Steiner, perché il Dio unico continua ad essere l’ideale modello di riferimento, ma costituisce un ideale inaccessibile. Questo è lo scandalo. Non rappresentare Dio significa non porgli limiti, significa tenere la meta fuori portata. Dio è dunque un ideale inarrivabile, per avvicinarsi al quale occorre rinunciare a tutto, soffocare tutti gli istinti, fare “pelle nuova”. E questo è un imperativo terribile: richiede amore disinteressato, carità, oblio di sé, ecc…“Se chiedi all’uomo più di quanto egli sia, gli metti davanti agli occhi stremati un’immagine di altruismo, compassione, abnegazione che solo un pazzo o un santo possono toccare, l’hai bell’e legato alla ruota della tortura. Fin quando non gli scoppia l’anima. Con il decalogo di Mosè, il discorso della montagna di Gesù e le istanze di giustizia sociale di Marx … tre volte l’ebreo ci ha imposto il ricatto della trascendenza” (George Steiner, Dans le chateau de Barbe-Bleue, Editions du Seuil, Paris 1973). In realtà il bacillo della perfezione è insostenibile per l’uomo (e questo spiega perché chi mira alla santità sia così disumano, così intollerante. Ha distolto gli occhi da ciò che è l’uomo, e vede tutto attraverso il filtro del modello divino. È quanto succede ai grandi riformatori: non vedono più l’uomo, ma il modello perfetto e inaccessibile di umanità, e quindi sono disumani).

Quindi, secondo Steiner, monoteismo del Sinai, cristianità primitiva (pre-paolina), messianismo apocalittico e socialista (il che conferma vera l’equazione ebraismo uguale socialismo applicata dai reazionari dell’ultimo secolo) sono le tre tappe solidali attraverso le quali la coscienza occidentale ha dovuto passare per il capriccio della trascendenza. Questo spiega perché il rancore contro il Dio unico si sia concretizzato nel tempo in rancore contro gli Ebrei, coloro che lo hanno inventato.

Ne “la coscienza è un’invenzione ebraica” c’è tutto questo. In effetti, Hitler dice chiaro quello che gli altri cercano di nascondere o di celare sotto giri di parole. Quello che si vuole soffocare, quello che fa paura, è la coscienza (forse per questo Freud, in Mosé e il monoteismo, attribuisce l’“invenzione” di quest’ultimo ad un egiziano? Per stornare l’odio?).

Steiner arriva anche ad aggiungere che un popolo che da sempre si è proclamato l’eletto da Dio non ha fatto molto per rendersi simpatico. È indubbio, ma non mi sembra così determinante. In realtà quasi tutti i popoli hanno la tendenza a sentirsi in qualche modo eletti e superiori. Magari gli ebrei hanno avuto il merito o la colpa di mantenere salda questa convinzione a dispetto di tutte le batoste subite: il che è semmai segno di un’incredibile testardaggine, ma anche di una non comune coerenza. Credo piuttosto che il problema sia un altro, più strettamente connesso a quanto dicevo sopra: l’autocoscienza ebraica derivante dal monoteismo è decisamente alienante e lacerante, e fa dell’ebreo un eterno estraneo, errante non solo a causa della diaspora, ma in quanto straniero ad ogni terra. L’ebreo è costantemente in asincrono con la storia, un passo più avanti o più in là: invece che viverla, sembra commentarla a margine: e questo lo rende estremamente visibile, e sospetto di non esserne coinvolto, ma di dirigerla segretamente: anche perché alla fine sopravvive ad ogni ondata, mantenendo intatta la sua differenza.

Ciò significa che le motivazioni di carattere sociale, economico o religioso dalle quali si è sempre fatto discendere l’antisemitismo non sono affatto sufficienti a spiegarne la persistenza laddove, ad esempio nella Polonia odierna, non c’è più traccia non solo di una qualche rilevanza economica ebraica, ma nemmeno di una presenza minima, e presso generazioni che con gli ebrei non hanno mai avuto a che fare. Non solo: questo tipo di spiegazioni finisce per essere persino “giustificatorio”, proprio perché legge il fenomeno solo a partire dai suoi esiti, adottando di volta in volta le categorie interpretative che più si attagliano alle diverse e specifiche manifestazioni (se si parla di antisemitismo nell’età imperiale, la categoria sarà quella religiosa; per il medioevo sarà religiosa ed economica; per l’ottocento sarà solo economica; per la sinistra sarà politica, per la destra economica, e così via). In sostanza, il problema dell’antisemitismo è affrontato cogliendone gli sviluppi e le manifestazioni diversificate, anziché cercandone la radice: e la radice è quella di un rifiuto intrinseco all’esistenza degli ebrei per quel che rappresentano, piuttosto che per quello che si teme o si crede facciano: in tal senso, il comportamento nazista, e la motivazione che i nazisti stessi ne danno, è quello più conseguente.

Mi rendo conto di fare un discorso delicato e pericoloso, che si presta ad interpretazioni e derive equivoche (lo stesso Steiner è stato accusato di essere affetto dall’odio di sé ebraico). Ma credo che quando si vuole equivocare si riesca a farlo anche con la fiaba dei tre porcellini, e che la responsabilità dell’equivoco non sia di chi parla, ma di chi interpreta male. Per me, io viaggio tranquillo; non solo non c’è alla base del mio ragionamento (e naturalmente di quello di Steiner) alcuna pregiudiziale antisemita, ma c’è semmai un pregiudiziale riconoscimento (e nel mio caso anche una sorta di invidia) dell’eccezionalità dell’esperienza ebraica.

Il singhiozzo dell’uomo bianco. Una falsa coscienza particolarmente ipocrita, che maschera una presunzione di superiorità, ci porta ad addossare direttamente o indirettamente all’occidente ogni sorta di nefandezza della quale l’umanità si è macchiata negli ultimi sei secoli, dimenticando o fingendo di non sapere che i massacri, le pulizie etniche, i genocidi, la schiavitù hanno fatto parte da sempre del corredo storico. È un atteggiamento diffusosi a livello di sentire allargato (che non significa comune: la stragrande maggioranza degli occidentali continua a pensare in termini di differenza tra barbarie e civiltà) solo negli ultimi sessant’anni, come corollario della decolonizzazione e del terzomondismo.

Le denunce dei soprusi e dei massacri perpetrati dagli occidentali in realtà c’erano sempre state, anche all’epoca delle conquiste e delle dominazioni coloniali: da Las Casas a Multatuli, passando per gli abolizionisti e fino a Mark Twain ed Orwell, l’elenco di coloro che hanno cercato di scuotere le coscienze europee o anglo-americane è lunghissimo: ma si trattava sempre di voci minoritarie o addirittura isolate. Nella versione del tardo Novecento però, la denuncia ha preso quasi la piega di un vezzo e suona come rivendicazione di una facile penitenza assolutoria, un po’ come il giorno della memoria. Siamo stati cattivi, ma ora abbiamo capito, e lo dimostra il fatto che ci battiamo il petto e assumiamo su di noi tutti i peccati: salvo poi provare qualche disagio nei confronti delle ex vittime sia quando vengono a bussare alle nostre porte, sia quando assumono comportamenti simili a quelli che venivano imputati all’Occidente.

In realtà, attribuendo il male ad un difetto intrinseco ai modelli politici ed economici occidentali si rifiuta l’esistenza di una componente negativa, aggressiva e crudele nella natura umana. In fondo, si pensa, sanate certe storture della storia si potrebbe arrivare alla società perfetta, che è sempre stato, questo si, un pallino dell’Occidente (ciò che ci rimanda allo “scandalo” di Steiner). Si rifiuta quindi la coscienza della nostra animalità perché questa sembrerebbe mandare a carte quaranta ogni nostro progetto di palingenesi, e indurrebbe un atteggiamento di resa.

La coscienza della naturalità dei nostri comportamenti è invece tutt’altro che una resa; è piuttosto il modo corretto per cercare di capire quanto ci sia di biologico e quanto di storico nella nostra competitività, nella crudeltà, nella violenza, nel male; per rimuovere ciò che in tal senso è storicamente indotto e arginare ciò che è dettato dalla natura, mirando molto modestamente ad una società più consapevole e meno violenta. È un traguardo concreto, ma per raggiungerlo non bastano e non servono le giornate della memoria. Ci vuole ben altro.

In primo luogo occorre rimuovere tutta una serie di atteggiamenti come quello appena descritto. Date e dati, tuonava un mio insegnante: e capacità di disporli correttamente in riga, lungo gli assi del tempo e dello spazio. Il risultato, se non sei stupido, arriva da solo. Pensiamo invece agli usi strumentali che della memoria, di una memoria settoriale e partigiana, vengono fatti ad ogni nuova “rilettura” storica: ci sono esempi clamorosi, come quelli relativi ai numeri della tratta occidentale degli schiavi (la stima dei deportati dall’Africa varia da nove a novanta milioni, a seconda delle scuole di pensiero), o a quelli delle vittime della conquista (anche qui, da dieci a ottanta milioni) o dello stalinismo (da venti a ottanta milioni). È chiaramente difficile determinare queste cifre, ma non possono nemmeno essere accettate come “espressione di diverse posizioni all’interno del dibattito”. Certo, quando vengono utilizzati nella storia i numeri non stanno ad indicare quantità astratte o inerti, ma insiemi di individui, combinazioni di vicende, potenzialità attuate o negate: e tuttavia, per la correttezza della lettura, è necessario che mantengano le loro proprietà. Vanno usati con cautela, perché a seconda della posizione nella quale li si colloca danno risultati diversi. Se si mette nel conto proprio tutto, compresi i non nati per prematura dipartita dei potenziali genitori, la guerra dei Cento Anni ha fatto più morti della seconda guerra mondiale, su una popolazione europea pari ad un decimo, perché nel frattempo sono ci sono state anche tre successive tornate di peste nera!

In secondo luogo è necessario promuovere già a livello scolastico una ben diversa cultura naturalistica. Abbiamo presente come viene proposto l’evoluzionismo nelle nostre scuole? Quando va bene, a comparti stagni: cellula e DNA in biologia, ramaphitecus ed erectus in storia, e solo nell’anno iniziale di ciascun ciclo, darwinismo sociale in filosofia. Col risultato che sembriamo tutti ragionare come la moglie del vescovo Wilbeforce: “Anche ammettendo, per ipotesi, che si discenda dalle scimmie, non è certo il caso di andarlo a raccontare in giro!

In terzo luogo, e mi ripeto, vanno riequilibrate e intersecate le nozioni di storia naturale e storia culturale. Proprio in conseguenza dell’atteggiamento cui accennavo sopra siamo portati a tracciare delle cesure nette tra il nostro essere animale e il nostro “divenire” culturale. Marx riassume perfettamente le risultanze di duemila e passa anni di speculazione filosofica quando afferma che a un certo punto finisce la storia naturale e inizia quella umana: come se la seconda non fosse parte della prima – e una parte infinitesimale. Qualcuno ci ha anche provato, Kropotkin ad esempio, a leggere nell’una solo la prosecuzione velocizzata dell’altra: ma ha finito comunque per considerare gli esiti della storia come uno stravolgimento, una degenerazione rispetto al corso e alle potenzialità naturali, quasi alla maniera di Rousseau. In questo modo si sfugge alla padella hegeliana e marxiana della necessità storica (le “magnifiche sorti e progressive” irrise da Leopardi), ma si rischia di cascare sulle braci di un determinismo positivo e positivista (la naturale socialità e il congenito altruismo dell’uomo): e, in definitiva, per sacrificare alla speranza in una futura società perfetta la coscienza dell’imprescindibilità dall’appartenenza e dalla eredità biologica. Negli ultimi trent’anni si è rigettato quasi tutto del pensiero marxiano e il mito del progresso, individuale o collettivo, scientifico, etico o sociale che fosse, si è squagliato come neve al sole: ma su questo punto, malgrado Darwin, continuiamo a ragionare come venti secoli fa.

Ciò cui volevo arrivare è che solo una memoria filtrata e depurata delle interpretazioni pregiudiziali e contingenti può entrare sottopelle, girare in circuito col sangue durante trecentosessantacinque giorni l’anno. Essa diventa allora coscienza quotidianamente vissuta del fatto che quanto è accaduto può ancora accadere e sta anzi già accadendo, che non siamo affatto immunizzati, vaccinati dal mare di sangue e dalle tempeste di orrore che hanno segnato la nostra storia. Che questo non significa accettare come ineluttabile il male, ma anzi, ci impegna a batterci con le armi di cui siamo naturalmente e culturalmente dotati per combatterlo. E che non è questione di occidentali, anche se naturalmente gli occidentali devono iniziare facendo i conti con se stessi, ma di uomini.