Ultimo canto di Natale

di Paolo Repetto, 18 dicembre 2021

Una precisazione. Mi sembra quasi ridicolo premettere questa “avvertenza”, e probabilmente farei meglio a passare oltre senza farmi troppi scrupoli. Ma siamo ormai talmente e perennemente assediati dalla stupidità che diventa automatico cercare di prenderne le distanze, anche quando si ha il sospetto di fare in questo modo il suo gioco. Per questo tengo a precisare che le pagine che seguono nulla hanno a che vedere con l’alzata di scudi e le proteste contro le raccomandazioni della commissione UE sugli auguri natalizi. Quelle linee guida erano solo stupide, l’indignazione che ne è seguita era molto peggio, era totalmente ipocrita.

Mezzo secolo fa, proprio in questo giorno, la metà precisa di dicembre, prendeva il via nella parrocchiale di Lerma l’ultima grande Novena di Natale. L’ultima almeno che io ricordi, e comunque l’ultima di un’era. Dopo non è più stata la stessa cosa.

La Novena era uno degli eventi più attesi dell’anno, e non solo di quelli liturgici. Che fossi credente o meno, non la potevi perdere, un po’ come la processione dei giudei il giovedì santo. C’era il rischio di sentirti poi raccontare: sai cos’è successo? e friggere per non essere stato presente.

Ultimo canto di Natale 02Si trattava di una liturgia di approssimazione al Natale e durava appunto nove giorni, dal sedici dicembre alla vigilia: giorni nei quali si ripeteva puntuale al cessare dei rintocchi dell’Ave Maria, quindi mezz’ora dopo il tramonto. Tecnicamente non era che un’edizione speciale del rosario (mi sembra di ricordare si parlasse di “misteri gaudiosi”), che tuttavia, già solo per la crescente atmosfera di attesa – in fondo era un conto alla rovescia –, sembrava meno noiosa di quella normale: ma la celebrazione era poi resa spettacolare dal corollario dei canti natalizi e delle salmodie, e dalla scenografia. Una delle cappelle del transetto era occupata da un grande presepe, popolato di vecchie statuine che sembravano uscite dalla notte dei tempi e di casette tutte sbrecciate, e proprio per questo ancor più cariche di fascino: inoltre tutti e tre gli altari erano addobbati e la chiesa veniva illuminata quasi a giorno con un rinforzo di luci volanti. Per l’occasione don Bobbio non lesinava sulle spese, anche perché si rifaceva abbondantemente con una pioggia di elemosine. Lerma contava all’epoca, almeno fino a metà degli anni sessanta, più di mille abitanti, e alla Novena, complice anche la forzata sospensione dei lavori agricoli, partecipavano quasi tutti (nel coro, dietro l’altare, sedevano anche i vecchi socialisti come mio zio Micotto, col suo tabarro nero, e appoggiato al muro, subito fuori di uno degli ingressi secondari, vidi una volta persino Modesto, il mio dirimpettaio anarchico). Era un momento di eccezionale socialità, consentiva di rincontrarsi a persone che arrivavano dalle frazioni e magari non si vedevano da mesi. L’illuminazione inconsueta dava poi all’evento anche un carattere “mondano”, con le signore che si presentavano in spolvero invernale (quelle che potevano permettersi uno straccio di cappotto, ma si vedeva persino qualche pelliccia) e con gli sguardi comparativi che viaggiavano come raggi laser e si incrociavano da una parte all’altra della navata.

In realtà fino alla tarda infanzia ho patito un po’ tutta la faccenda: la cerimonia durava più a lungo del solito, in chiesa malgrado l’affollamento faceva freddo e l’orario della funzione coincideva con quello della tivù dei ragazzi, visibile solo nel circolo parrocchiale. Rinunciarvi per nove giorni significava perdere almeno due puntate di Rin Tin Tin o dei Lancieri del Bengala. Nella prima adolescenza ho invece cominciato ad apprezzare l’atmosfera di quelle serate, tanto che anche dopo la guerra di religione ingaggiata con mia madre non ne perdevo una. In questa assiduità la religione non c’entrava affatto, ma ormai potevo sedere nell’anticoro, e di lì le ragazze dei primi banchi, infagottate nei panni invernali, sembravano tutte carinissime, erano una gioia per gli occhi.

Ultimo canto di Natale 03Lo erano anche, per le orecchie, i canti che partivano alle nostre spalle e i responsoriali che ci arrivavano da oltre la balaustra. Il fascino della novena era legato tutto a questi momenti corali. Per indisciplinati che fossero i coristi e le coriste lermesi (mia madre, che ambiva a voce guida, si lamentava immancabilmente delle sue concorrenti che tutte le sante sere partivano in anticipo, rovinandole l’effetto d’ingresso), i cantici natalizi che salivano assieme al fiato verso la volta a botte mi affascinavano: da quella scarsa disciplina addirittura ci guadagnavano, perché riuscivano genuini e spontanei (o forse li ha resi tali nel ricordo il confronto con la loro successiva degradazione a jingle pubblicitari).

Il culmine però lo si raggiungeva con i salmi. Erano cantati in latino, come del resto in latino era ancora recitato tutto il rosario, e la liturgia natalizia ne contemplava un paio che costituivano il cavallo di battaglia del corista principe, Pedru, leader indiscusso della confraternita del Suffragio. Uno di questi salmi iniziava con un “Omnes”, e quella O iniziale era diventata leggendaria. Pedru la conduceva, la modulava, l’alzava e l’abbassava in un continuo da lasciarti in apnea. Una volta, quando già era molto anziano, a sua insaputa lo cronometrammo: resse la O, senza prendere fiato, per oltre quaranta secondi, ed entrò di prepotenza nel nostro specialissimo guinness.

Poi arrivarono il sessantotto, la contestazione, la dissacrazione, lo sradicamento: le ragazze le guardavo nelle assemblee universitarie, la musica l’ascoltavo altrove. Ma certe sensazioni non si dimenticano, e la nostalgia della novena è rimasta per me strettamente connessa proprio a quell’edizione fuori tempo massimo di cui parlavo all’inizio, a Pedru e alla vicenda che vado a raccontare.

Ultimo canto di Natale 04È andata così. Ormai più che ventenne, rientrando da Genova, dove lavoravo e ogni tanto studiavo anche, vengo informato da mio padre che Pedru è in crisi nera. Il priore della confraternita era, come molti altri, un frequentatore assiduo del nostro negozio di ciabattino, segnatamente nei mesi invernali, e mio padre era un po’ il confidente di mezzo paese. Le prime sere della novena sono andate quasi deserte, persino nel coro un sacco di seggi sono rimasti vuoti. Non solo: il nuovo parroco gli ha anche imposto di dare un taglio ai salmi e di cantare solo quelli tradotti in italiano, liquidando quindi l’Omnes. Ho la conferma da mia madre: anche lei è avvilita, pur se rassegnata all’obbedienza (l’unica volta che io ricordi). Ci rimango male. Ho chiuso da un pezzo con la chiesa, e poi anche con la militanza gruppettara, ma sono sempre in cerca di buone cause per le quali battermi. Ne parlo con gli amici, che dapprima la mettono in ridere, poi, quando capiscono che faccio sul serio, si lasciano convincere: parteciperemo in gruppo alla novena, riempiremo i vuoti del coro e daremo una mano a Pedru a far nascere Gesù anche quest’anno. Ma non basta, mi spingo oltre: vado a patteggiare col parroco la nostra presenza contro la concessione di cantare anche in latino, almeno per le ultime serate, i due salmi.

E qui comincia una storia che sembra presa da un film della Disney, e invece è la pura realtà. La voce si diffonde (mia madre in queste cose era meglio di Goebbels), noi prendiamo possesso del coro, e facendo sul serio cominciamo davvero a divertirci: quindi entrano in gioco anche le ragazze, poi i tradizionalisti, poi i curiosi. Insomma, è un crescendo che nelle ultime due funzioni di antivigilia diventa un pienone. La sera della vigilia, poi, l’apoteosi. Chiesa stracolma, coro al completo con gente in piedi sin dentro la sacrestia. Il prete mena in lungo la funzione – gli piace avere la chiesa piena, molto meno il motivo per cui è tale –, ma stasera “Tu scendi dalle stelle” e “Nell’orrido rigor” sembrano eseguiti dai coristi della Scala: si sente che le ragazze sono state messe in riga da una mano ferma, verrebbe voglia di chiedere il bis. Poi, quando il rito “ufficiale” si è concluso, arriva il grande momento. Pedru intona l’Omnes, regge l’O a malapena per mezzo minuto, ma come va a calare lo riprendiamo noi, che entriamo in controcanto e lo allunghiamo per un altro mezzo. Non dico che sia venuto fuori il coro del Nabucco, ma i tre o quattro tra noi passabilmente intonati (non certo io, che sono stonato come una campana) fanno bene la loro parte, hanno avuto modo di mettersi a registro. La risposta che arriva poi dalla navata, guidata dalle ragazze, è perfetta.

Io sono vicino a Pedru, e vedo le lacrime spuntargli dall’occhio – al singolare, perché bisogna sapere che Pedru aveva un solo occhio (era famosa la sua risposta ad un motteggiatore che gli aveva chiesto come ci vedesse: meglio di te, aveva risposto Pedru, perché ti vedo due occhi, mentre tu me ne vedi solo uno); soprattutto però aveva un cuore di pietra, avrebbe potuto benissimo essere il direttore di un orfanotrofio in un libro di Dickens, o addirittura interpretare la parte di Fagin, tanto quell’unico occhio riusciva a esprimere una cattiveria sorda e minacciosa. Vederlo ora umido mi sbalordisce. Dò di gomito al vicino, se n’è accorto anche lui. Guardo gli altri e ci congratuliamo silenziosamente: sappiamo di aver fatto per una volta la cosa giusta. Lo sanno anche altrove, a quanto pare, perché all’uscita dalla chiesa troviamo la piazza imbiancata da dieci centimetri di neve, un’immagine e un clima da favola. Liberi di sorridere, ma è andata esattamente così.

Pedru morì esattamente una settimana dopo, lontano da Lerma. Non è nemmeno sepolto nel cimitero al quale per decenni aveva accompagnato i suoi compaesani (passando poi a estorcere l’obolo per la confraternita). La novena si è spenta con lui: come diceva mia madre, negli anni successivi sembrava diventata un rosario dei morti.

Ultimo canto di Natale 05

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Del Natale, e dell’attesa che lo precedeva, ho un sacco di altri bellissimi ricordi.

Mia sorella nacque proprio una sera di vigilia, ma il bel ricordo non è tanto questo quanto quello del ritrovamento dei regali, che sapevamo essere arrivati ma che in un primo momento, in mezzo alla confusione della natività domestica, erano spariti. Li ritrovammo poi a casa della zia presso la quale eravamo provvisoriamente ospitati. Il mio era “Kim”, e della sorella mi ricordai solo un paio di giorni dopo.

Ci sono poi i ricordi legati al presepe. Di solito anticipavamo parecchio i tempi, una volta lo realizzammo alla fine di novembre. Il fondo doveva essere coperto di muschio vero e freschissimo, e allora partiva la caccia nei boschi dietro casa, in riserve che avevamo identificato e che dovevano rimanere segrete anche agli amici. Occupava per intero la tavola di cucina della casa vecchia, con tendenza a debordare, e oltre ai cammelli dei re magi e alle pecore dei pastori ospitava anche i cavalli dei soldatini di gesso, e per un certo periodo persino gli indiani e i sudisti. In una occasione mancò poco che andasse tutto a fuoco, perché in nostra assenza una candela accesa sorretta da un angelo era caduta sulla capanna, aveva incendiato il tetto di paglia e stava già liquefacendo i suoi ospiti, bue e asino compresi. Ho in mente nitidissimo il momento in cui, appena entrati in cortile, scorgemmo il riverbero delle fiamme che arrivava dalla finestra in alto, l’unica vivacemente illuminata nel casermone totalmente buio.

Ho rifatto il presepe per qualche anno durante l’infanzia di mio figlio, evitando accuratamente le candele e ogni altra sorta di lucina. Poi mi son reso conto che ero l’unico a tenerci e ho lasciato perdere. Ma da qualche parte conservo ancora tutte le statuine, e anche la capanna semidistrutta.

Ho già raccontato altrove delle vigilie trascorse in attesa del rientro del corriere, quello che portava il nostro vino a Genova e raccoglieva libri e giocattoli vecchi presso i miei parenti. O delle uscite alla ricerca dell’albero, rigorosamente di ginepro, prima con mio fratello e poi con Emiliano piccolissimo, che si trascinava dietro la slitta da carico fin sulla Colma. E anche delle riscoperte del Natale più prossime, in Inghilterra, ad esempio, dove a quanto pare è molto più sentito che da noi. Sono tutte bellissime cartoline appiccicate nel mio album del passato, le uniche immagini a colori in un mondo che ricordo in bianco e nero.

Non voglio dunque farla troppo lunga, e passo invece a spiegare brevemente perché mi ha preso l’uzzolo di raccontare queste cose e perché non volevo fossero semplicemente l’occasione di una patetica nostalgia.

Ultimo canto di Natale 06Il tema ormai ricorre costantemente in ciò che scrivo, e riguarda il mondo che abbiamo perduto. Riguarda cioè la domanda se davvero abbiamo perduto qualcosa di speciale, se la nostra, intendo di quelli della mia età, è una “delusione ottica” dettata dai personali rimpianti, o se la perdita è stata invece oggettiva. La domanda è meno stupida di quanto appare, perché se è vero che da Adamo in avanti ogni generazione ha lamentato i cambiamenti che la mettevano fuori gioco, è altrettanto vero che nessuna prima della nostra ha assistito a trasformazioni tanto rapide e tanto radicali. Neppure le generazioni che si sono trovate a vivere rivoluzioni, riforme religiose, cadute di imperi, hanno mai visto così scombussolate nel profondo le modalità quotidiane dell’esistere e dei rapporti, le dimensioni degli orizzonti, le aspettative, le sicurezze e le paure. Se il nonno di Romolo Augustolo o quello di Robespierre fossero tornati in vita dopo mezzo secolo avrebbero trovato un mondo cambiato, e probabilmente non sarebbero stati d’accordo su quasi nulla: ma sarebbero stati comunque in grado di capirlo, questo nulla, di vederlo nella sua negatività. Mio nonno, tornasse in vita oggi, non saprebbe da che parte girarsi, non potrebbe nemmeno essere in disaccordo perché non saprebbe con chi e per cosa esserlo.

Ora, che questo sia nella natura delle cose (in realtà, solo delle cose umane, quindi forse si dovrebbe parlare non di “natura”, ma di “storia” delle cose) non ci piove. Resta da vedere dove questa storia ci sta portando. E dato che potranno vederlo solo le generazioni venture, e non sono del tutto sicuro che questo sia da considerarsi un privilegio, noi possiamo soltanto chiederci se non sia il caso di offrire almeno la nostra testimonianza per suggerire l’ipotesi di una pausa di riflessione, di un qualche ripensamento che metta in dubbio il “destino” dell’umanità.

Non mi stanco di ripeterlo, non si tratta di ipotizzare un ritorno alla condizione ottocentesca, o allo stato di natura. Queste sono stupidaggini con le quali solo i nostri filosofi post-moderni, nel loro ovattato iperuranio, possono trastullarsi. Nel concreto si tratta di vedere se è possibile fermare o almeno rallentare l’infernale marchingegno tecnologico-finanziario che ci sta stritolando. Di chiarirci le idee su cosa è indispensabile e su cosa no, e di scegliere. E di non scaricarci da ogni responsabilità, lavandocene le mani, con la scusa che ormai è troppo tardi, o trincerandoci dietro la meschina scappatoia che il problema dovranno affrontarlo le generazioni future, ed è giusto siano loro a scegliere. A crearlo, o quanto meno ad aggravarlo, il problema, siamo stati noi, ha concorso più che attivamente la nostra generazione. Cominciamo almeno a prenderne coscienza.

Come c’entra allora il Natale? C’entra come esemplificazione di una forma ormai scomparsa di socialità, dietro la quale stava, al netto di tutte le potenziali ed effettive strumentalizzazioni religiose e politiche, di tutte le ipocrisie, delle diseguaglianze e delle ingiustizie istituzionalizzate, l’idea di una rinascita, di un futuro che ancora poteva riservare sorprese positive. E c’entra come occasione per ripensare se il tipo di formazione culturale, l’impostazione che conduceva a partecipare, credendo o meno nei presupposti religiosi, all’atmosfera di quelle novene, fosse tutta da buttare, o se per certi aspetti, nei limiti delle possibilità e delle realistiche compatibilità, non andrebbe recuperata.

In altre parole: mezzo secolo fa abbiamo provveduto a sgomberare tutto il mobilio e la suppellettile vecchia, comprese le Novene e i loro salmi, per fare piazza pulita e rinnovare l’arredo ideologico, senza renderci conto che stavamo liberando gli spazi per i nuovi allestimenti usa e getta, funzionali al mercato dell’effimero e del consumo rapido. Col risultato che le cose che avevamo buttato andiamo oggi a cercarle in cantina o nei mercatini dell’usato, anche se in genere per riciclarle ad ornamento.

Uguale cura forse dovremmo mettere nel recupero di certi valori, ma non per appenderli alle pareti: per ridare loro una dignità di funzione, sia pure in un contesto diverso. Un esempio, tanto per non parlare sempre in astratto? L’idea che l’esistenza di regole non è in automatico una limitazione della libertà, ne è anzi il presupposto. Andrebbe recuperata seriamente l’idea, nel senso che queste regole bisognerebbe tornare ad applicarle, a cominciare, tanto per scendere sempre più nel concreto, dalla scuola. Questo significa liquidare il buonismo peloso che fa di ogni lazzarone spregiatore del rispetto e della correttezza una vittima, pretendere che gli allievi si comportino da allievi, che i docenti insegnino anziché fare i parcheggiatori o gli assistenti sociali, che i dirigenti non badino al mercato delle iscrizioni ma alla qualità dell’istruzione offerta, che i genitori facciano la loro parte, ma entro le mura di casa.

Ultimo canto di Natale 07Questo, con un po’ di buona volontà, lo si può ancora fare. E in qualche misura dobbiamo farlo noi, che la “possibilità” di una scuola diversa l’abbiamo conosciuta, e che a quella scuola diversa dobbiamo in fondo l’essere qui oggi a parlarne. Ma non lo dobbiamo solo a quella scuola: lo dobbiamo anche a quelle Novene, o almeno, allo spirito col quale le abbiamo frequentate.

Appuntamento dunque, al prossimo anno. E mi raccomando: rieducate l’ugola e preparatevi sui salmi.

Volersi bene

di Paolo Repetto, 2017

Riporto l’aneddoto come lo raccontava mia madre, che era filologicamente correttissima (a differenza di mio padre, che partiva sempre da fatti veri ma tendeva poi a ricamarci sopra), integrato magari da qualche brandello di memoria infantile.

All’epoca, primi anni cinquanta, frequentavo l’asilo delle signorine Gandino, due sorelle molto anziane e poco più alte di noi, ma non per questo prive di polso. La casetta che ci accoglieva è ancora oggi la sede dell’asilo e ha visto passare nel tempo i miei figli e mio nipote. Le vecchie sorelle sono invece un ricordo solo mio.

Bene, un giorno, avrò avuto quattro o cinque anni, comparve al cancelletto d’ingresso un fotografo ambulante, un tipo con baffetti e occhiali, che propose alle Gandino di ritrarre uno ad uno i bambini. Non c’erano ancora tutte queste storie della privacy, non era necessario chiedere consensi a nessuno, e credo che sotto sotto le nostre maestre, il cui ultimo ritratto doveva risalire all’età del dagherrotipo, fossero ben felici di far immortalare noi pulcini nel piccolo giardino, vicino all’altalena. Mia madre sosteneva che i genitori non erano stati assolutamente informati, né prima né dopo.

Sta di fatto che in capo a due settimane il fotografo si presentò a casa, con i baffi, gli occhiali e una bellissima cartellina in cuoio, dalla quale estrasse una mia foto a mezzo busto a colori (non particolarmente vivaci, ma comunque a colori, cosa che per l’epoca era un lusso) in formato venti per trenta. Disse a mia madre che la foto era stata selezionata dal suo studio per la particolare fotogenicità del soggetto, che costava solo cinquecento lire (il giornale e il caffè costavano allora trenta lire) e che dava il diritto a partecipare – con ottime chanches – ad un concorso per bimbi belli, le cui immagini sarebbero poi state pubblicate su non so quale rivista.

Ora, bisogna sapere che per certi versi mia madre era una donna intelligente e scafata (mio padre diceva che avrebbe zittito in tribunale anche Carnelutti, il principe del foro): ma era pur sempre una madre, e la sua lucidità si appannava quando in ballo c’erano i figli. Pur senza arrivare agli eccessi della Magnani in “Bellissima”, aveva addosso la sindrome del figlio più bravo, migliore a scuola, capo dei chierichetti, ecc… Era anche comprensibile, del resto, con l’infanzia che le era toccata e con la voglia di riscatto che si portava appresso, riversata in una ambizione culturale da autodidatta e nella partecipazione da protagonista di prima fila alla vita religiosa.

Insomma, le cinquecento lire al momento non le aveva – e probabilmente non aveva nemmeno idea di dove trovarle in seguito – ma di fronte a quella foto, e soprattutto di fronte alla prospettiva di una sua pubblicazione, non poteva tirarsi indietro. Così quando il tizio, mostrando molta comprensione, le sottopose un paio di fogli da firmare per non perdere l’offerta eccezionale e l’iscrizione al concorso, assicurandole che avrebbe ricevuta la foto non appena effettuato il pagamento, non seppe resistere.

Nel frattempo era però arrivato mezzogiorno, e mio padre stava rincasando. Sentimmo le sue stampelle su per le scale, e mia madre annunziò al fotografo che avrebbe potuto comunicare anche a lui la bella notizia. Quest’ultimo non mostrò molto entusiasmo, anzi, ricordo che cominciò ad agitarsi e a pulire nervosamente gli occhiali, scusandosi perché aveva un altro appuntamento in Ovada e doveva scappare di corsa.

Immagino che proprio questa fosse la sua intenzione: ma ormai mio padre era sulla porta. Mamma lo rese immediatamente partecipe del mio primo successo, chiamando il fotografo a dare conferme e spiegazioni, e trovando in verità un supporto piuttosto reticente e imbarazzato. Ma non era necessario: mio padre è sempre stato molto veloce a capire e a decidere di conseguenza, e anche in quel frangente non si smentì. Lo fece però in un modo che avrebbe potuto avere conseguenze indelebili sulla mia vita. E qui passo direttamente la parola alla voce materna: «Ti guardò per quattro o cinque secondi, poi fece girare la chiave nella toppa, la estrasse e se la mise in tasca. Quindi si rivolse al fotografo: “Mi dia quei fogli”. (Pur avendo una sola gamba mio padre superava gli ottanta chili, con una percentuale di grasso inferiore a quella dei Masai. N.d.R). Il tizio estrasse i fogli firmati e li posò sul tavolo. “Anche la fotografia”. L’ingrandimento andò ad accompagnare i fogli. Io ero mortificata, ma mentre cercavo di scusarmi col fotografo che si precipitava lungo le scale mi sentii rispondere: “Lasci stare signora, va bene così”».

Non ho poi assistito alle loro spiegazioni, fui mandato a giocare in cortile. E sinceramente di tutta la faccenda avevo capito ben poco, anzi, nulla del tutto. Ma furono i racconti successivi di mia madre, che tornavano fuori ogni volta che l’occhio di qualcuno cadeva su quella foto, debitamente esposta sul mobile del tinello, a fungere da tarlo. Quel “ha guardato Paolo per un momento e poi ha detto: mi dia quei fogli!” suscitava le risate, soprattutto di chi conosceva bene mio padre e poteva immaginare la scena, e anche le mie: ma chi non mi dice che abbia intanto scavato nel mio intimo, erodendo una confidenza in me stesso che con l’approssimarsi dell’adolescenza già viaggiava verso il livello zero?

In verità con i miei problemi successivi quell’episodio non c’entra affatto, è anzi diventato un punto di forza della mia aneddotica (e conservo ancora la fotografia, che sta virando sempre più verso il bianco e grigio). Ma mi fornisce un ottimo pretesto per parlare un po’ dell’autostima, di quella vera, quella che uno dovrebbe costruirsi anche a dispetto di un ambiente ostile (che non era certo il caso di quello mio familiare, con due diversi esempi di training autogeno entrambi a loro modo vincenti, e necessariamente contagiosi). Sono solo quattro considerazioni buttate lì in ordine sparso, che arrivano però direttamente dal campo, perché la mia personale “queste” di autoconsapevolezza è sempre aperta.

Autostima è uno di quei termini che sono entrati recentemente, senz’altro da meno di un secolo, nel vocabolario, ad indicare qualcosa che esiste da sempre ma che solo oggi sembra essere diventato un problema, e come tale è stato rinominato. Un po’ come il colesterolo. In effetti agisce per proprio come il colesterolo: è indispensabile sino a certi livelli, ma oltre questi diventa fastidiosa o addirittura pericolosa. Con la differenza che mentre per quello la “quotazione” mira al ribasso, perché i livelli tollerabili vengono determinati dall’industria farmaceutica, e ogni punto in meno significa milioni di nuovi potenziali malati, sull’autostima c’è invece oggi da ogni parte una forte spinta alla crescita.

Facciamo una prova. Digitiamo la parola su Google (chi è più avanti può digitate “self-confidence” o “self-respect”). Prima di arrivare ad una definizione (quella di Wikipedia) compare una sequela di annunci di questo tenore: “Supera i tuoi limiti, scopri una vita di gioia, con RQI”, “‎Diventa Consapevole di ciò che hai dentro, renditi libero e migliora la tua vita”, “Risolvi i Tuoi Problemi. 3 Video In Regalo. Ridurre Lo Stress. Vivere Serenamente”, “Hai Problemi di Autostima? Scopri come risolverli”, “Diventa il Leader di te stesso. Scopri il meglio di te‎”. E ancora “Le regole d’oro per un’autostima super. Come ritrovare e aumentare l’autostima in 10 passi” e “5 azioni pratiche per aumentare la tua autostima”. Si procede così per intere paginate.

Dunque, lo si faccia attraverso tre video, dieci passi o cinque azioni pratiche, quello di ritrovare o aumentare l’autostima è diventato il nuovo imperativo categorico (assieme appunto a quello di abbassare il colesterolo e di mantenersi giovanili e snelli, e in perfetta combinazione con entrambi). Peccato che gli indicatori e i motivi su cui questo imperativo dovrebbe far perno abbiano sempre legami con qualche prodotto o pratica per i quali si vuole creare un mercato, e che la stima di sé sia compresa nel prezzo e nella confezione. Non è naturalmente su questa accezione “mercificata” che intendo fare le mie riflessioni, ma in realtà non si può nemmeno prescinderne del tutto, non fosse altro per rigettarla.

Cominciamo però col circoscrivere lo spazio di osservazione, per intenderci più facilmente. Sono molti coloro che l’autostima non debbono coltivarla o farsela costruire, perché già ne possiedono in eccedenza (questo tipo di autostima è l’equivalente del colesterolo LDL, quello cattivo). Quasi sempre l’hanno ereditata geneticamente o ricevuta come una cresima da genitori che intendevano sublimare attraverso i pargoli i propri fallimenti o perpetuare i propri successi. Costoro evidentemente non rientrano nel nostro discorso, e più in generale in qualsiasi discorso relativo alla stima di sé, perché la loro è pura e semplice idiozia. Sono infatti totalmente incapaci di mettersi (o di pensare di essere messi) in discussione. Ed è anche una forma di idiozia pericolosa, per sé e per gli altri, perché non ammette l’eventualità dell’insuccesso, e tanto meno la possibilità di farne tesoro. Non esiste in tal senso un indicatore del limite massimo tollerabile, perché come ogni altra manifestazione di idiozia è trasversale a ceti sociali, fasce d’età e livelli di cultura, e si esprime quindi in svariatissimi modi.

Dal lato opposto stanno quelli che di autostima sono invece totalmente privi, e non solo, non possiedono alcun piano e alcuno strumento per avviarne la costruzione. Sono gli utenti dei siti appena citati, i lettori di rotocalchi da un euro che offrono ricette per tutto, i pazienti e i seguaci di psicologi che continuano a campare sui salotti televisivi e sulle umane debolezze, i clienti di astrologi e taroccanti vari. Anche per questi, spiace dirlo, non c’è speranza. Non basta mettersi in discussione, se poi non si ha il coraggio di attingere a se stessi per trovare una strada propria.

Il concetto che giustifica queste esclusioni l’ho dunque già esplicitato: l’autostima non te la regala e non te la costruisce nessuno (altrimenti non si chiamerebbe così). Non la si trova in offerta con lo shampoo sugli scaffali di quell’immenso supermercato globale che è diventata la comunicazione di massa. Ciò che può essere venduto o messo in offerta è semmai una “etero-stima”, ovvero l’immagine di sé quale si vorrebbe fosse percepita all’esterno, e anche questo cade fuori dal mio ambito di interesse.

Chi si ritrova in una condizione di incertezza sul proprio “valore” dovrebbe infatti in primo luogo distinguere e capire cosa cerca veramente: perché da un lato c’è l’idea che gli altri hanno di noi, dall’altro l’idea che ciascuno di noi ha di se stesso. E quindi, se l’incertezza nasce da una discrepanza tra come si è e come si vorrebbe essere, è necessario chiarirci se ci importa di come vorremmo essere per noi o di come vorremmo essere visti dagli altri. Le due cose si intrecciano e si intersecano, ma non è detto che coincidano e, soprattutto, che debbano farlo. È vero che siamo esseri sociali, portati a compiacere gli altri, a cercare il consenso, non fosse altro per una necessità di sopravvivenza alla quale meglio risponde la coesione del gruppo: ma siamo anche individui, le cui aspettative nei confronti dell’esistenza non sono necessariamente simili o sempre compatibili con quelle altrui.

Dicevo che i dubbi e l’insoddisfazione nascono dalla distanza tra la coscienza di come si è e l’immagine di come si vorrebbe essere. Sull’una e sull’altra agiscono sia una predisposizione caratteriale, oserei dire geneticamente determinata, sia il confronto con l’esterno, con l’ambiente, con gli altri, quindi l’adozione di un parametro culturale. Ora, sulla prima c’è poco da fare, pessimista o ottimista ci nasci, ma sul secondo i margini d’azione sono ampi. Non tanto da azzerare il confronto, perché nessuno di noi, per quanto lo neghi, e per quanto nel negarlo possa essere in buona fede, riesce a sottrarsi totalmente, e alla fin fine ci importa della nostra immagine esterna molto più di quanto siamo disposti ad ammettere: ma abbastanza da consentirci di limitarne significativamente la pressione, perché siamo anche in grado di darci un codice etico individuale e di informare ad esso i nostri comportamenti, prima di passarli al vaglio di quello comune: quindi di compiere vere scelte, ed eventualmente difenderle.

A questo punto però il campo di osservazione si restringe ancora. Finisce per comprendere solo coloro che i conti intendono farli innanzitutto con se stessi. E per concernere qualcosa che va al di là di un’autostima trattata come merce (neppure del tutto immateriale).

Per il momento tuttavia continuo ad usare questo termine. Per dire, ad esempio, che avere autostima non significa necessariamente piacersi. Dobbiamo fare infatti un’altra distinzione, quella tra il piacersi e il provare piacere per ciò che si fa, o per come si è. Sono cose diverse. La prima implica il corrispondere ad un modello ideale, la seconda il valorizzare una condizione reale. E se per la prima la distanza rimane sempre e comunque incolmabile, nel secondo caso siamo noi ad avere in mano la chiave per riscattarla. Ma non una volta per tutte.

La stima di sé, così come quella degli altri, non può mai essere data per acquisita: è sempre in gioco, va riconquistata o conservata giorno per giorno. Può piacermi il fatto di essermi comportato in un certo modo, di aver ottenuto un determinato risultato, ma proprio perché lo vedo come una conquista: perché ho saputo magari dominare il mio carattere, motivarmi e poi reggere sino in fondo. Domani dovrò ricominciare da capo, e questo non è affatto un motivo di stress, è anzi l’unico senso da dare ad una esistenza non puramente animalesca. La mia autostima è rafforzata dal sapere che “posso” farcela, mentre non ci sarebbe alcuna ragione di rallegrarmi se pensassi che le cose “debbono” andare necessariamente così.

Dunque l’autostima non crea una condizione vincente, almeno nella lettura che si vuol dare oggi di quest’ultima. In realtà, nella vera stima di sé c’è una percentuale tale di autocritica e di ironia (cioè di distacco) da risultare inibente per la scalata al successo. Non perché non ci induca a credere in noi stessi, ma perché ci spinge a dare importanza a cose molto diverse da quelle che vengono correntemente identificate col successo, e a mantenere attorno a noi uno spazio di autonomia che non si concilia affatto con le incombenze e i condizionamenti creati dalla ricerca di un plauso “pubblico”. Un esempio per tutti, il più immediato e banale: il comparire in televisione, nelle modalità che la televisione consente, quali che siano i travestimenti pseudoculturali, fa letteralmente a pugni con l’autostima, mentre titilla invece la vanità e l’ambizione. E non è affatto vero che sia l’ambizione a muovere il mondo, questa è una favola costruita appunto dagli ambiziosi (e dai frustrati): è invece l’umiltà di non essere mai talmente superficiali da sentirsi completamente appagati, realizzati, e la coscienza di poter sempre fare qualcosa di meglio, o comunque di poter fare bene ciò che si fa. Il riconoscimento esterno, la stima altrui, amplificano senza dubbio e rafforzano ulteriormente il piacere, ma con l’autentica stima di sé hanno un rapporto difficile e puramente occasionale. Valgono solo quando arrivano da chi a nostra volta stimiamo. Rimanendo all’esempio precedente, cosa può avere a che fare l’autostima con la “popolarità” televisiva degli innumerevoli nuovi maîtres à penser che gigioneggiano sui teleschermi, rivolgendosi ad un pubblico che considerano sostanzialmente stupido e che trattano come tale?

Trasferiamoci però in una dimensione meno fasulla, quella che viviamo quotidianamente. Io credo che ad accrescere la nostra auto-considerazione siano essenzialmente quei successi, grandi o piccoli, che non condividiamo con nessuno, che non dobbiamo e non vogliamo esibire. Se questa voglia di riservatezza è autentica (perché quando non lo è rischia poi di esplodere platealmente, e pericolosamente), da essa arrivano incentivi e stimoli liberi da ogni condizionamento. Nasce una confidenza in se stessi che non ha alcun bisogno di conferme dall’esterno. È come sapere di possedere un’arma segreta, i superpoteri di Nembo Kid. Oppure, per volare un po’ più basso e spiegarmi meglio, come la coscienza di saper nuotare. Non è necessario esibire le proprie doti natatorie sfidando gli amici in piscina o al fiume, e meno che mai naturalmente avere un passato da olimpionico. Lo si fa, naturalmente, a diciott’anni, perché per fortuna l’uomo oltre che sapiens è anche ludens, e queste competizioni rientrano nei riti di passaggio: o a quaranta, quando ci si confronta coi propri figli e vederli filare più di noi non ci mortifica affatto (sto parlando naturalmente di persone sensate). Ma non è certo questo il suo contributo significativo all’auto-valorizzazione. La consapevolezza di saper nuotare, una volta acquisita, agirà invece dall’intimo, silenziosamente, per tutta la vita, sorreggendoci persino quando stiamo affrontando una parete di roccia e non c’è un palmo d’acqua per chilometri attorno.

Sono infatti anche convinto che l’autostima mentale si accompagni strettamente a quella fisica. Credo che nessuno si piaccia fisicamente in toto, neppure chi parrebbe avere tutti i requisiti imposti dalle mode passeggere o dai canoni classici, e meno che mai gli idioti di cui sopra, che questa strisciante insoddisfazione riversano anzi costantemente nei rapporti con gli altri. Trovo inoltre insopportabile l’ipocrisia di chi pretende che il problema della fisicità non esista, È un tema complesso, perché da un lato è senz’altro vero che esiste un’insoddisfazione artatamente indotta per indurre al consumo, all’imitazione di modelli imposti con un martellamento a tappeto, ma è altrettanto vero che un sacco di gente ha mille motivi reali per recriminare nei confronti della natura. È evidente che in questi casi la stima di sé ha ben poco a vedere col piacersi, mentre ne ha invece molto con la capacità di adeguarsi: che non significa farsi dominare dai propri condizionamenti fisici, ma fare perno sulla volontà per trarre comunque dalla propria fisicità tutto il possibile, e vivere la soddisfazione e il piacere dello sforzo, prima e più di quello per eventuali risultati.

Torno ad esemplificare col solito riferimento autobiografico, certamente inappropriato perché sono tra quelli che debbono ringraziare il cielo per la salute di cui hanno sempre goduto e per le potenzialità che sono state loro concesse, ma pur sempre significativo dello scarto tra il nostro essere e il nostro voler essere e delle possibilità di una sua pacifica composizione. A vent’anni sognavo di diventare un grande maratoneta (a sedici il modello era Cassius Clay e aspiravo al titolo dei mediomassimi: a diciotto era Rod Laver e volevo Wimbledon. Credevo di avere il fisico per l’una e per l’altra cosa, il che già la dice lunga su quanto fossero chiare le mie idee), ma nelle prime campestri agonistiche che cominciarono ad essere corse anche dalle nostre parti vidi sfrecciarmi accanto gente che pesava venti chili di meno e sembrava volare nell’aria, mentre io pestavo sui sentieri come un cavallo da tiro. Se l’autostima fosse dipesa dai risultati avrei dovuto buttarmi sui superalcoolici – ma all’epoca andava molto anche l’eroina. Non accadde nulla del genere. Ho semplicemente capito che potevo continuare a divertirmi giocando a tennis a Mornese, e più ancora correndo, da solo o con amici, sui sentieri della Lavagnina (non racconto come è finita col pugilato perché preferisco lasciarlo immaginare). La seconda di queste attività è proseguita sino a quando le ginocchia hanno retto e si è addolcita ultimamente, dopo l’addio ai menischi, nei ritmi della passeggiata. In questo modo ho scoperto una dimensione nuova del camminare, quella che ti consente di pensare e di guardarti attorno, e quindi altri piaceri e nuovi stimoli. Per trovare questi ultimi non devo confrontarmi quotidianamente con tabelle di valutazione: arrivano da soli, nei modi più impensati, e se un problema esiste è solo quello del tempo, che purtroppo non mi consentirà di rispondere a tutti.

Lo stesso vale naturalmente a livello mentale. Se scrivo queste pagine senza altra finalità che non sia lo scambio con gli amici, non è né per eccesso né per difetto di autostima. Diciamo che ho sufficiente confidenza con la penna da indurmi a scrivere, e sufficienti motivazioni a farlo, sia per un personalissimo bisogno di ordine e di concretezza (anche fisica, cartacea) delle idee, sia per il piacevole scambio che questa pratica innesca. Non mi compiaccio con me stesso, ma ne traggo un godimento, come quello che posso ricavare dalla conversazione, dallo studio, dall’esplorazione e dalla scoperta della natura. Tutto questo mi basta e avanza, ma soprattutto mi evita modalità di confronto che non mi interessano e che costituirebbero solo una limitazione della mia libertà. Con tutto ciò che di bello e di interessante posso ancora fare e pensare, non ho davvero tempo da perdere a preoccuparmi dell’immagine o dell’idea che altri possono avere di me.

Un capitolo a parte parrebbe infine meritare il peso dell’autostima nei rapporti con l’altro sesso: in realtà, al di là della rilevanza che può avere sotto il profilo della storia del costume (perché non credo che fino a cent’anni fa fossero in molti a porsi il problema), la ritengo una semplice variante tra le molte del tema principale. Credo che in fondo si possano identificare le stesse modalità di approccio di cui ho parlato sino ad ora: quella decisamente idiota, quella insicura e remissiva, quella realistica e disincantata, ma tutt’altro che cinica. Non nego si tratti di un argomento estremamente complesso, perché vi hanno gioco passioni sulle quali è difficile, a volte impossibile, il controllo: ma ai fini di queste riflessioni estemporanee cambia poco parlare di rapporti di lavoro, di amicizia, di sesso o di semplice civile convivenza. In sostanza, il problema rimane sempre lo stesso: ho bisogno di questi rapporti per aggiornare costantemente la mia posizione nella scala di auto-valutazione, o vivo questi rapporti per il piacere immediato, genuino, spontaneo che mi offrono?

Bene, per quanto possa sembrare paradossale, è il rispondere solo a se stessi a rendere possibile questa seconda opzione, perché in realtà non ha che fare con l’egocentrismo (che si nutre invece proprio di scale di valutazione), ma col senso di responsabilità individuale. Cento anni di teoria psicoanalitica e di psicoterapie varie hanno conseguito il risultato di spostare all’esterno ogni forma di responsabilizzazione (e di inventare la stima di sé, con tutto lo strumentario per misurarla). Se ogni nostro comportamento è indotto da un’azione esterna (la famiglia, la scuola, la società,…) che confligge con il nostro “voler essere per gli altri”, è poi naturale che la stima di sé venga concepita come arma di difesa, strumento per reagire ad una ostilità ambientale. O per imporsi, che all’atto pratico non fa una gran differenza.

Rispondere a se stessi significa invece chiamarsi responsabili in prima persona, non in una accezione inquisitoria, ma in quella che dà senso alla nostra differenza di umani. Siamo responsabili perché possiamo scegliere, e possiamo scegliere non tra i modelli automobilistici che danno prestigio o i deodoranti che facilitano le relazioni, ma tra opzioni di esistenza veramente e profondamente diverse, e trovare quella che davvero ci consenta una serena convivenza con noi stessi.

Non è necessaria una vita esagerata come quella di Steve McQueen. Almeno, a me non interessa. Voglio una vita moderata, ma affrontata e vissuta con dignità, e credo che nella mia condizione di uomo fortunato, nato nell’epoca giusta, nella famiglia giusta e dalla giusta parte del mondo, questo non solo sia possibile, ma debba davvero essere un imperativo categorico.

E con questo avrei concluso. Mi accorgo però a questo punto che pur continuando a utilizzare il termine ho smesso da un pezzo di parlare di autostima. A furia di distinguo è riemerso un concetto ultimamente piuttosto in ombra, che con l’autostima ha senz’altro parecchio da spartire, ma non si esaurisce in essa, perché rappresenta qualcosa di molto più antico e più profondo: ho parlato di dignità, della coscienza del valore della dignità, propria e altrui, e del rispetto che merita.

Il mio sarà anche un “moralismo” vetusto, ripetitivo, forse persino un po’ patetico, ma coi tempi che corrono e la confusione che regna a proposito di valori non ritengo inutile tenere il punto su pochi principi basilari.

Se poi il colesterolo rimane sopra i valori tollerati non è il caso di farne un dramma. Nessuno è perfetto.