Ancora lui! Tutto il Bryson che dovreste conoscere

di Vittorio Righini e Paolo Repetto, 30 aprile 2024

Qualche tempo fa avevo chiesto a Paolo se non fosse il caso di fare un discorso un po’ più completo su Bill Bryson. In fondo lo aveva scoperto ben prima di me e lo aveva fatto conoscere a un sacco di gente. E poi, uno spazio come questo non dovrebbe essere riservato soprattutto a libri di viaggio e a viaggiatori? Detto fatto. Sollecitato dalla rilettura di uno dei primi lavori del nostro (America Perduta, 1989 circa) Paolo ha scritto il breve (breve? sì, breve) articolo che è comparso sul sito recentemente: articoletto simpatico (Un americano alla prova dei truck stop), ma che non basta a rendere l’idea del posto che questo autore occupa sia nella letteratura di viaggio che nella letteratura comica del XXI secolo.

Allora, con un chilo abbondante di presunzione, otto etti di prosopopea, e mezzo chilo di cazzutaggine, mi permetto di scavalcare il Prof. e di inondare il sito con un articolo sull’opera omnia di Bryson. Non lo farò seguendo un ordine cronologico, preferisco commentare alla buona, come viene, cosa ricordo, e magari con un pizzico dell’umorismo di Bryson, a cui sono avvezzo.

Il primo libro di Bryson che ho letto è Una passeggiata nei boschi (Guanda 1997, 306 pagine), definito “divertentissimo” da The Times e “illuminante e spassoso” dal Sunday Telegraph.

Trovo più completa la seconda definizione, per via di quell’“illuminante’”. Il nostro si spara a piedi l’Appalachian Trail, “3400 km. di sentieri attraverso 14 stati americani, dalla Georgia al Maine” (copio e incollo). Bill non è un cuor di leone, così si fa accompagnare dall’amico Stephen Katz (nome vero: Matt Angerer, con una gamba di legno) in un’avventura improbabile per due che di camminate, sentieri, vita nei boschi e far da sé sanno poco o niente.

Ancora lui 02Ecco perché ne esce un racconto illuminante, sincero, utile pure per qualcuno che volesse imitarli, divertente per chi, come me, non ci pensa nemmeno lontanamente. Interessante la figura di Stephen Katz (Angerer, che si definisce un reprobo ricalibrato). Il compagno di viaggi di Bryson aveva fatto dell’alcool l’unica ragione di vita, che lo aveva accompagnato fino al momento di conoscere Mary, sua moglie, durante una delle tante degenze in ospedale a causa degli eccessi alcolici. Angerer era poi diventato astemio (incredibile, ripete lui) e oggi, pur con mezza gamba in meno, vive in modo sano ed è un rispettabile cittadino dell’Iowa, famoso appunto per aver accompagnato Bryson nei boschi e aver ispirato il regista del film del 2015 “A Walk in the Woods”, con Robert Redford/Bryson e Nick Nolte/Angerer-Stephen Katz. Meglio il libro, as usual: che mi ha divertito, ma per il momento è finita lì.

Ancora lui 03Alla fine del 2001 però Guanda pubblica un librone di 366 pagine dal titolo In un paese bruciato dal sole (che sarebbe l’Australia). Pochi anni dopo parto per il mio primo viaggio a Sydney, per lavoro; e quale scelta migliore di questo libro, che, complice uno scalo di tre giorni a Hong Kong, leggo prima di arrivare nel paese dei canguri. Le descrizioni che Bryson fa non mi invitano a conoscere da vicino la natura o le coste dell’Australia (tipo i dieci serpenti più velenosi al mondo, i coccodrilli di mare che escono dai fiumi e ti strappano un arto sul bagnasciuga, le meduse più dolorose e mortali che si possano immaginare, i polpi velenosi, i granchietti nascosti sotto un centimetro di sabbia sulla spiaggia, che ti mandano una settimana all’Ospedale, e decine di altri modi di morire per una cazzata solo per voler fare il bagno in un mare stupendo. Pericoli che sono sempre e solo nei primi trenta metri dalla riva; dopo ci sono gli squali, di tutti i tipi), ma io vado a Sydney per lavoro, quindi chi se ne fotte. Oggi, a dispetto della lettura critica e ironica che Bryson ne fa, l’Australia è uno dei paesi che ama di più e che, tutto sommato, teme di meno. Il libro si legge bene, e mi induce a continuare e ad approfondire questo autore.

Ancora lui 04Mi avventuro dunque in Notizie da un’isoletta (Tea, prima edizione inglese del 1995, 320 pagg.,), libretto che procurerà al nostro parecchie strapazzate proprio da parte degli abitanti della Gran Bretagna. La copertina della mia copia, non certo una prima edizione, riporta una straordinaria fotografia in bianco e nero: una guardia della Regina, il primo della fila dei militari, sta svenendo e cadendo di faccia in terra. Facendo una ricerca in rete ho scoperto che una cosa del genere è successa molte volte, e che nel 2022 caddero addirittura in tre (ma gli danno da mangiare a ‘sti poveretti?). La foto rispecchia il metodo usato da Bryson nel libro, sferzante e simpatico al tempo stesso, ma apprezzabile solo se si dispone di una buona dose di humour. Questo comunque non è il suo libro migliore, perché l’uggiosa e piovosa Gran Bretagna che Bryson percorre a piedi, da Dover a John O’Groats, nei primi anni novanta, non è terra fertile di fatti “veramente” degni di nota, strambi, capaci di incuriosire il lettore. L’autore deve barcamenarsi con quel che trova lungo il cammino, e i britannici come ho detto non gli sono stati riconoscenti per i commenti particolarmente caustici. Il lettore italiano al contrario si diverte abbastanza, ma l’ultima parte risulta più ripetitiva e priva di mordente.

Ancora lui 05Per farsi perdonare dai locali, comunque, Bryson pubblicherà 20 anni dopo Piccola Grande Isola (Guanda 2016, 480 pagg.), una raccolta di articoli giornalistici a commento di un viaggio simile al primo, ma con altre motivazioni e destinazioni, sia nel percorso che nel contenuto. Un libro riconoscente nei confronti del paese che lo ha ospitato per oltre 20 anni (e poi, dopo un decennio negli USA, lo ha riaccolto), scritto con maggiore affetto (almeno apparente) e più delicatamente satirico.

Ancora lui 06Uno degli ultimi che ho letto è in realtà uno dei primi pubblicati: America Perduta (un Feltrinelli del 1989, con 300 pagine di comicità pura). Ne ha scritto Paolo recentemente, riportando quattro esempi dei rapporti difficili con le cameriere americane. Io voglio ricordare solo questa chicca: “Arrivai a New York e presi una stanza in un hotel, 110 dollari (per lo standard dell’epoca molto caro, come è sempre stata la Grande Mela, aggiungo io); la stanza era molto piccola; per girarmi su me stesso dovevo uscire in corridoio, e se allargavo braccia e gambe toccavo tutti e quattro i lati della stanza”. Trecento pagine a questo livello, che raccontano la monotonia dei paesaggi nei tanti Stati percorsi, i molti improbabili personaggi incontrati, e anche i rari scorci positivi. È un libro senz’altro datato, ma se avete una mezza voglia di andare negli USA, non leggetelo! Bryson fa riflettere i non americani sul fatto che là c’è veramente poco da vedere, la storia è troppo recente, trionfa solo la natura, quando non è imbrigliata dalle mani di chi la sfrutta in modo ottuso. Cita ad esempio negativo il modo in cui sono gestiti alcuni Parchi Naturali, o alcuni Musei, e lo squallore di cittadine che hanno perso anche quel poco di storia che si erano conquistate in 150 anni. Qualcosa da dichiarare: don’t go to USA! (cit. adattata dal film Snatch). Quando poi descrive lo Stato in cui è nato (l’Iowa) lo fa in un modo tale che non credo gli sarebbe convenuto ripresentarsi a breve, pena il linciaggio. Ma è così per molti altri luoghi, soprattutto per i grandi stati agricoli del Mid West.

Ho letto ultimamente una recensione che sminuiva questo libro, preferendogli Strade Blu di William Heat-Moon: che è un libro bellissimo, non ho dubbi (ho letto tutti e tre i libri di Heat-Moon), ma è molto serio, senza un velo di ironia, privo di quello spirito che pervade Bryson e ti permette di arrivare alla fine. Cosa più difficile con Strade Blu, che è enciclopedico ma meno caldo.

Ancora lui 07Anche in questo caso c’è una appendice. Dopo 20 anni in Gran Bretagna (la moglie è inglese) Bryson torna a vivere negli Stati Uniti con la famiglia. Pubblica di lì a poco Notizie da un grande paese, (Guanda 1917, 368 pagg.), uno dei suoi libri migliori. Ritrovarsi nel suo paese d’origine dopo tanti anni, a confrontare lo stile di vita britannico con quello americano, e trovare quest’ultimo molto diverso da quello che aveva lasciato, lo porta a scrivere un libro praticamente tragicomico. L’autore è sconcertato dalle differenze linguistiche che rileva, dalle assurde ossessioni tipicamente americane e dai vincoli a rigide regole di vita che in Gran Bretagna non esistono, ma non esistevano nemmeno negli Stati Uniti all’epoca in cui se n’era allontanato. Il che lo induce, con gran gioia di tutta la famiglia, a tornare ancora a vivere in Gran Bretagna, ove abita tutt’ora in una zona rurale.

Ancora lui 08All’inizio della carriera di scrittore di viaggi, intorno al 1992, Bryson ha scritto un altro libro interessante e, come sempre, divertente. Per un provinciale come me, poi, Una città o l’altra (Guanda, 2002, 350 pagg) è imprescindibile, dato che tratta anche dell’Italia. È il racconto di un Grand Tour continentale dei giorni nostri, alla scoperta di ciò che le guide turistiche, ma anche la gran parte dei narratori di viaggio, non prendono in considerazione: le manie, le bizzarrie dei diversi popoli europei alle differenti latitudini.

Zaino in spalla e taccuino alla mano Bryson scende dall’estremo nord del Baltico fino a Istanbul, utilizzando solo i mezzi pubblici. E scopre perfino paesi che gli stanno antipatici, lui che sembra sempre digerire tutto. L’Italia in compenso gli piace eccome, me n’ero già accorto da altri suoi libri, nei quali spesso portava ad esempio le bellezze del nostro paese per contrapporle alle brutture del suo. Non ne ignora gli aspetti meno entusiasmanti, ma li presenta in una luce sdrammatizzante. Degli automobilisti romani ad esempio scrive, correttamente: “Non è che vogliano investirti, come a Parigi, semplicemente t’investiranno. Questo in parte perché gli automobilisti italiani non prestano alcuna attenzione a ciò che succede sulla strada che hanno davanti. Sono troppo occupati a suonare il clacson, a gesticolare, a evitare che altri automobilisti taglino loro la strada, ad amoreggiare, a dare scappellotti ai figli sul sedile posteriore e a mangiare panini grandi come mazze da baseball; gli italiani sono un popolo di baciapile, e gli automobilisti romani non investirebbero mai una suora: ne vedi gruppi attraversare correndo viali a otto corsie con la più stupefacente impunità, come foglietti di carta bianchi e neri trasportati dal vento. Perciò, se vuoi attraversare in punti trafficati come piazza Venezia, la tua unica speranza è aspettare l’arrivo di qualche suora e appiccicarti a lei come una T-shirt sudata”.

Un editore italiano, non faccio nomi, all’uscita del libro, non avendo capito nulla dello spirito di Bryson, ha fatto cancellare la parte relativa al passaggio in Italia, ritenendola troppo offensiva e urticante per il nostro nobile popolo. Fortunatamente altre edizioni hanno reintegrato il testo: quindi se lo volete comprare, magari usato, fate attenzione che comprenda i quattro capitoletti relativi all’Italia.

Ancora lui 09Nel 2007 il nostro pubblica un’opera dal contenuto abbastanza particolare: Il Mondo è un teatro (Tea 2020, 240 pagg.). Tratta della vita e dell’opera di William Shakespeare. Nulla di nuovo, sul bardo sono stati scritte migliaia di pagine; quello che non sapevo, da ignorante letterario quale sono, è che si è arrivati perfino a dubitare dell’esistenza di Shakespeare. Della sua vita si sa poco o nulla, così come della sua famiglia e delle sue origini, la grafia del cognome non è certa, esiste un unico suo ritratto, se dobbiamo fidarci del pittore, e attorno al suo luogo di nascita si hanno rivendicazioni diverse, tutte egualmente poco attendibili. L’unica cosa inconfutabile è la grandezza dell’opera che ci è arrivata a suo nome, chiunque poi l’abbia scritta. Il libro comunque è uno splendido affresco della vita nell’Inghilterra del periodo Elisabettiano, tra il XVI e il XVII secolo, e del grande amore per il teatro diffuso in tutti i ceti sociali, con locali aperti al popolo dalle due del pomeriggio al prezzo di un penny, con venditori di frutta all’esterno per ricompensare gli attori, se non graditi…

Ancora lui 10Vestivamo da Superman, (Guanda 2007, 309 pagg.) è uno dei libri di Bryson preferiti da Paolo, come mi diceva recentemente, e non posso dargli torto. Essere ragazzi negli anni ‘50 negli Stati Uniti ha significato per una generazione vivere felici e inconsapevoli; è stato così anche in Italia, a mio fratello (del 1948) non invidio l’età, ma l’aver attraversato i cinquanta da adolescente, mentre io (del 1956) mi sono beccato gli anni sessanta (non che mi possa lamentarmi troppo, per carità: se penso ai giovani d’oggi …). Si, la generazione USA dei ‘50 aveva l’ossessione del comunismo, il terrore dell’atomica, ma godeva anche della romantica fiducia che poi, in fondo, tutto sarebbe andato per il meglio. Si era nutrita di sogni e illusioni con Walt Disney, poi naufragati dalla Corea al Vietnam. Tutto il libro è intriso dal sapiente umorismo del nostro, che nato nel 1951 e cresciuto a Des Moines, nell’Iowa, nel cuore degli States, è il rappresentante ideale per ravvivare i ricordi di quella generazione di americani.

Ancora lui 11Ora mi appresto a leggere L’estate in cui accadde tutto. America 1927 (Tea 2015, 556 pagg.). È l’ultimo che mi resta. Voglio concedermelo con calma, questa estate, spero su una poco conosciuta spiaggetta greca. Dall’ottobre 2020 Bryson ha deciso di non scrivere più nulla, e come dargli torto.

PS.: Esiste anche un Diario Africano (Guanda 2002, 96 pagg.) Non l’ho mai intercettato, ma ho la mia miniera, sulle colline dell’ovadese, dove trovare i funghi che cerco…

Ma non è finita: ci sono ancora tre libri particolari. Due non mi sono piaciuti particolarmente, uno invece è un capolavoro assoluto.

Ancora lui 12Il primo è Breve storia del corpo umano. Una guida per gli occupanti (Guanda 2019, 496 pagg.) Un mappamondo del corpo umano, un’esplorazione dalla testa ai piedi di quello che conteniamo, con una marea di informazioni, molte delle quali erano a me totalmente ignote. Però il libro si dilunga un po’ troppo, e dispetto dello humor onnipresente non avvince come gli altri di cui ho ‘parlato. Non di meno è quasi un testo scientifico spiegato ai bambini, lo capisco perfino io.

Ancora più particolare Breve storia della vita privata (Tea 2017, 564 pagg.) Non posso dire di averlo finito, o forse l’ho finito (non ricordo) ma con fatica. Si tratta dell’esplorazione, nei minimi dettagli, della sua abitazione, una canonica sconsacrata nel Norfolk, con l’esame microscopico, dico io, di ogni oggetto in essa contenuto e ogni storia ad esso riferita. Per completisti …

E poi arriviamo invece al capolavoro assoluto, uno dei libri più interessanti abbia mai letto (passato a mio figlio di 30 anni che mi ha detto la stessa cosa). Un libro che parla di fisica / matematica / chimica / biologia / astronomia / geologia e chi più ne ha più ne metta (tutte materie nelle quali sono sempre stato una schiappa), su come e “di cosa” è fatta la Terra in cui abitiamo, ma spiegato ai bambini, agli adolescenti, con il solito umorismo da adulti. Il libro si intitola Breve storia di (quasi) tutto (Guanda 2006, 744 pagg.) e lascio nelle righe a seguire l’onere e l’onore di far raccontare il libro a Paolo, che ne sa di più.

Spero che questo mio baedeker brysoniano sia di aiuto o di ispirazione per qualcuno; spero che qualcuno si faccia delle grasse risate nel leggere questo autore, ma attenzione: quando si inizia, è come con la malaria: ogni tanto ti vengono delle crisi e devi comprarne uno di corsa.

***

Quella sera, tutto eccitato, mi portai il libro a casa, e prima di cena cominciai a leggerlo dalla prima pagina, cosa che credo abbia spinto mia madre a posarmi una mano sulla fronte e a chiedermi se mi sentivo bene

Ancora lui 13Prima di raccogliere il testimone, una postilla alle pagine precedenti. Come ha in qualche modo anticipato Vittorio, nel settembre del 2002 Bryson ha fatto anche un salto in Africa, sia pure per soli otto giorni e limitatamente al Kenia. Il viaggio non era nei suoi programmi, vi era stato invitato da un’organizzazione umanitaria che si attendeva dal reportage un po’ di visibilità (ma anche un contributo economico: tutti i proventi della vendita del libro le sono poi stati devoluti). Dal breve diario che ha tratto da questa esperienza (Diario africano, Guanda 2003, 96 pagine) ho ricavato l’impressione che non lo abbia entusiasmato né ispirato granché. E credo di intuirne le ragioni. È vero, Bryson ce la mette tutta per mostrarci che il Kenia è (potrebbe essere) un paese fantastico, per le risorse naturali, per gli straordinari scenari, per l’indole dei suoi abitanti, e perché in fondo è stato la culla dell’umanità, come racconta la raccolta di fossili umani del suo museo nazionale: e vuole anche testimoniare come le organizzazioni umanitarie vi svolgano un lavoro preziosissimo. Ma è difficile tenersi sul piano dell’ironia davanti a situazioni come quelle che ha incontrato nel continente nero. La baraccopoli alla periferia di Nairobi, che ospita quasi un milione di persone in condizioni di vita inenarrabili, ma della quale ufficialmente il governo ignora l’esistenza; l’Aids, all’epoca dilagante, e ancora oggi endemico, contro il quale gli unici atteggiamenti della popolazione e di chi dovrebbe proteggerla sembrano essere la rassegnazione o il totale disinteresse; i campi profughi, gestiti in condizioni altrettanto terribili, nei quali i rifugiati sono ostaggio di una burocrazia corrotta e inconcludente, fantasmi senza alcuna speranza di un futuro . Queste cose inducono piuttosto allo sdegno, alla rabbia, alla denuncia, attitudine che non è nelle corde di uno scrittore volutamente “leggero” (inteso in senso positivo, calviniano) come lui.

Certo, è sempre Bryson, e il modo in cui racconta il tutto non può non far sorridere, soprattutto quando ci mostra la preparazione dell’avventura (il ricordo di Jim della Giungla, la visione de La mia Africa, le assicurazioni, le vaccinazioni, ecc.), o racconta i suoi spostamenti in aereo, in ferrovia o in auto. Al di là di questo, comunque, mi è stato sufficiente confrontare il modo di porsi di Bryson con quello che avevo incontrato in un vecchio reportage di Moravia (A quale tribù appartieni?, Bompiani 1963), per capire che il primo almeno si è accostato al continente con un sincero sentimento di simpatia, con l’umiltà di chi sa di non saperne nulla, con la voglia di imparare qualcosa: mentre l’altro ci si era recato con gli occhi fasciati dall’ideologia, e riconduceva tutto alle colpe del vecchio e del nuovo colonialismo, senza mai entrare empaticamente in rapporto con modi di pensiero che sentiva così lontani e con costumi che gli facevano palesemente un po’ schifo.

Veniamo però ora all’altro Bryson, quello cui già facevo cenno in un pezzo postato poche settimane fa, e del quale Vittorio mi ha appena ammollato il commento.

Dunque, devo premettere che da sempre io regalo solo libri, e che per decenni ho continuato a regalare a tutti gli adolescenti che mi capitavano tra i piedi, figli miei e di amici, cugini, studenti, Il giovane Holden (non proprio a tutti, a dire il vero. A quelli che ritenevo fossero in grado di apprezzarlo). Poi, ad un certo punto, ho realizzato che forse l’età di Salinger era finita, anche se Holden rimaneva un’ottima lettura, e ho smesso di regalarlo. Nel frattempo avevo però trovato un validissimo sostituto. Era la Breve storia di (quasi) tutto, di Bryson. A dispetto della sorpresa (ero abituato al Bryson viaggiatore) il libro mi ha conquistato sin dalle prime pagine, perché era divertente, ma anche per una motivazione molto personale. Per tutto il periodo delle scuole superiori ho inseguito infatti disperatamente (e invano) la sufficienza nelle materie scientifiche. Non che non mi impegnassi, proprio non c’era verso a capire qualcosa di matematica, per non dire di chimica o di fisica. Mi sono così appiccicato per anni alla mente dei post-it mandati giù a memoria, che naturalmente non servivano a nulla, e che il giorno successivo all’orale della maturità erano volati via come le foglie d’autunno, dandomi un senso di liberazione ma lasciandomi al tempo stesso in una totale ignoranza scientifica. Solo dopo l’università ho cominciato a vergognarmi di questo vuoto, e a cercare di coprirlo almeno parzialmente con un approccio volenteroso ma disordinato, perché privo di qualsiasi base sistematica. Quando ho letto Bryson ho finalmente capito che se avessi avuto tra le mani un libro simile a sedici anni la mia vita avrebbe potuto cambiare: non avrei dovuto ricorrere ai sotterfugi più squallidi o a patetiche e improbabili giustificazioni, né affidarmi alla clemenza del povero professor Giudice (ricordo come a volte mi guardava sconsolato: non riusciva a capacitarsi che uno bravo in greco e in filosofia potesse essere così irrimediabilmente negato nelle sue discipline) per evitare di finire a settembre. Avrei potuto dedicarmi agli atomi e alle cellule, e magari ambire a quel Nobel che dalla letteratura non mi verrà mai. Il tutto divertendomi, e senza rinunciare a viaggiare.

Ancora lui 14La Breve storia di (quasi) tutto è infatti un libro di viaggio, come quelli che già allora si prendevano tutto il mio interesse. Solo che è un viaggio dentro la scienza, che ci fa approdare alle spiagge per me esotiche della matematica, dell’astronomia, della fisica, della chimica, della biologia, della paleontologia, della geologia; e non si limita a toccarle, ma si inoltra anche all’interno. È un susseguirsi di scoperte, costellato di incontri con i personaggi più bizzarri, quelli noti ma anche quelli ingiustamente dimenticati, che impariamo a conoscere, oltre che per i loro meriti, per le loro stravaganze; e sono queste ultime ad imprimersi più facilmente nella memoria, e a farci ricordare anche il resto. Come può non intrigarti a saperne di più un Newton che «era un personaggio decisamente bizzarro, di una intelligenza smisurata, ma solitario, cupo, permaloso fino alla paranoia, famoso per quanto si lasciava distrarre dai pensieri che lo assorbivano (si racconta che, nel tirare i piedi fuori dal letto, al mattino, gli capitava a volte di restarsene a sedere così per ore, immobilizzato dall’improvvisa folla di pensieri che si precipitava nella sua mente) e capace delle più sorprendenti stranezze … una volta si infilò nell’orbita un lungo ago, di quelli usati per cucire i pellami, e se lo rigirò tutto intorno “tra l’occhio e l’osso, il più vicino possibile alla parte posteriore dell’occhio”, solo per vedere cosa succedeva.» Chi può dimenticarla, una cosa del genere.

O un J. B. S. Haldane che «comprò una camera di decompressione che battezzò “pentola a pressione”. Un cilindro metallico capace di ospitare sino a tre persone, che venivano sottoposte ad analisi di vario genere, tutte dolorose e quasi tutte pericolose. […] Anche la perforazione del timpano era abbastanza frequente ma, come lo stesso Haldane osservò con toni rassicuranti in uno dei suoi saggi ‘in genere il timpano cicatrizza; e se rimane bucato, e se uno si ritrova un po’ sordo, può comunque soffiare il fumo di tabacco dall’orecchio in questione. Il che in società può rivelarsi un talento apprezzabile. L’aspetto straordinario di questo non era tanto che Haldane fosse disposto a sottoporre se stesso a simili rischi e sofferenze per amore della scienza, quanto che non si facesse scrupoli a convincere colleghi e persone care a entrare dentro la camera. Sottoposta ad una simulazione di un’immersione in profondità, sua moglie ebbe una crisi che durò tredici minuti. Quando alla fine smise di contorcersi sul pavimento, la aiutò a rimettersi in piedi e poi la spedì a casa a preparare la cena.» Badate bene che Haldane non era un pazzo furioso o un aguzzino nazista, ma uno scienziato di altissimo livello, pur non avendo mai conseguito una laurea in scienze. Queste poche righe ne tracciano un ritratto che vale un’intera biografia.

E ancora: “Probabilmente non è una buona idea quella di interessarsi troppo ai microbi che convivono con noi. Louis Pasteur, il grande chimico e batteriologo francese, ne era così preoccupato che, a tavola, prese a scrutare criticamente con una lente d’ingrandimento ogni piatto che gli veniva presentato, abitudine che presumibilmente non doveva fruttargli molti inviti a cena.”

Mi limito a questi, ma la galleria dei personaggi eccentrici che incontriamo in queste pagine, delle loro stranezze e idiosincrasie, è sterminata: e non è mai fine a se stessa, non si ferma all’aneddotica divertente, ma ci fa immergere in una dimensione nella quale il confine tra il genio e l’instabilità è decisamente incerto, e solo entro la quale la conoscenza scientifica può svilupparsi.

Ancora lui 15Bryson ha inoltre la capacità di tradurre qualsiasi informazione che ci fornisce in esempi apparentemente peregrini, ma di una chiarezza immediata, che rendono possibile visualizzare fenomeni di qualsiasi ordine di grandezza, da quelli infinitesimali a quelli più macroscopici:

Il protone è una porzione infinitesimale di un atomo, che ovviamente è già di per sé un oggetto minuscolo. I protoni sono così piccoli, che un puntino di inchiostro come quello che sta su una “i” può contenerne qualcosa come 500.000.000.000. Insomma, i protoni sono microscopici all’eccesso, ed è ancora dir poco.”

“In un diagramma del sistema solare in scala, con la Terra ridotta al diametro di un pisello, Giove dovrebbe essere disposto a oltre trecento metri dal nostro pianeta e Plutone sarebbe a due chilometri e mezzo.”

 “Lo spazio è immenso, semplicemente immenso. Tanto per fare un esempio e divertirci un poco, immaginiamo di imbarcarci su una nave spaziale, senza andare troppo lontano, ci basterà arrivare ai confini del nostro sistema solare, tanto per farci un’idea di quanto è grande lo spazio e quanto è piccola la parte che ne occupiamo. Be’, mi spiace dirvelo, ma temo che non saremo a casa per l’ora di cena.”

Lo stesso vale per le citazioni che va a pescare: “Il fatto che anche una sola proteina possa essere sintetizzata grazie ad eventi casuali sembrerebbe dunque una circostanza spaventosamente improbabile. Per citare la colorita similitudine dell’astronomo Fred Hoyle, sarebbe come se una tromba d’aria attraversasse una discarica e uscisse dallo sconquasso lasciando dietro di sé un jumbo jet perfettamente funzionante.”

O per le spiegazioni che fornisce dei fenomeni:

Non credo che molti geologi, dovendo esprimere i loro desideri, vi includerebbero quello di vivere su un pianeta con l’interno fuso: di sicuro però, senza tutto quel magma che vortica sotto di noi, adesso non saremmo qui. A parte tutto il resto sono proprio le vivaci viscere della Terra ad averci fornito le esalazioni di gas necessarie alla formazione dell’atmosfera, e ad aver dotato il pianeta di un campo magnetico che lo protegge dalle radiazioni cosmiche. Anche la tettonica a placche è un dono del nucleo fuso della Terra. Se la Terra fosse liscia, sarebbe tutta ricoperta d’acqua fino ad una profondità di quattro chilometri. In un siffatto oceano solitario, potrebbe benissimo esserci la vita, ma di sicuro non ci sarebbero partite di calcio.”

Oppure: “Per consentire a me e a voi di essere qui in questo momento, trilioni di atomi, che vagavano ognuno per conto proprio, hanno avuto la gentilezza di assemblarsi in una combinazione molto complicata, e questo appositamente per creare noi […] Perché gli atomi si prendano questo disturbo resta ancora un mistero, Dal loro punto di vista, essere me o voi non è un’esperienza molto gratificante. In fondo … agli atomi non importa nulla di noi, anzi, non sanno neanche che esistiamo Per la verità, non sanno di esistere nemmeno loro. Dopotutto, sono solo delle stupide particelle e non sono neanche vive (è curioso notare che, se potessimo usare una pinzetta per scomporre il nostro corpo atomo per atomo, non otterremmo altro che un mucchietto di polvere – un mucchietto di atomi – i cui singoli granelli non sono mai stati vivi, ma, presi nel loro insieme, costituivano il nostro corpo). Eppure, per l’intera durata della nostra esistenza, non faranno altro che rispondere a un unico rigido impulso: fare in modo che noi continuiamo ad essere noi”.

Ma in definitiva, cosa tiene assieme questa marea di personaggi, di storie, di informazioni? Ce lo dice lui stesso:

Tutto questo vi fa girare un poco la testa? Be’, non preoccupatevi, sono qui per aiutarvi. Ho passato circa cinquant’anni ponendomi domande impegnative e alla fine ho deciso (dato che non mi muovo molto velocemente) di vedere se potevo trovare alcune risposte. Eccovi i risultati.

Il concetto di fondo, che permea tutto il libro e fa da filo conduttore, è quello dell’unicità della vita:

Ogni essere vivente è l’elaborazione di un unico progetto originario (che non va confuso col progetto intelligente). Noi esseri umani non siamo altro che il risultato di semplici, graduali migliorie: ognuno di noi è un polveroso archivio di ritocchi, adattamenti, modifiche e provvidenziali manipolazioni verificatisi negli ultimi 3,8 miliardi di anni. È sorprendente pensare che siamo parenti abbastanza stretti di frutta e verdura. All’incirca metà delle funzioni chimiche che hanno luogo in una banana sono identiche a quelle che avvengono in un organismo umano. Non lo si ripeterà mai abbastanza: la vita è una sola. (p. 454)

Siamo tutti delle reincarnazioni, sebbene alquanto effimere. Quando moriremo, gli atomi che compongono il nostro corpo si separeranno e seguiranno un nuovo destino: forse diventeranno parte di una foglia, di un altro essere umano o di una goccia di rugiada. Gli atomi, in quanto tali, hanno una vita praticamente illimitata. (p. 152)”.

E non nascondiamocelo, a suo modo è una prospettiva di eternità che ci conforta.

Basta. Sin qui ho pescato aprendo il libro a caso e potrei continuare a farlo all’infinito, trovando esempi altrettanto chiari e divertenti. Il modo di raccontare è questo. Bryson fa divulgazione col tono di chi ti dice: se questa cosa l’ho capita anch’io, può benissimo arrivarci anche tu. Che è il modo migliore per incentivare ad andare avanti. E questo ci riporta ai regali. Da quando ho scoperto questo libro ne ho fatto l’oggetto fisso delle mie regalie, A qualcuno probabilmente l’ho regalato più volte. Ne ho distribuite anche, negli ultimi anni di lavoro nella scuola, decine e decine di copie (forse centinaia, le edizioni Guanda mi sono ancora riconoscenti) come premio per gli allievi più brillanti o come stimolo a diventare tali. Gli uni e gli altri me ne sono stati grati.

Erano gli unici soldi ben spesi del Fondo d’Istituto.

Avrei però qualcosa da aggiungere anche sulla Breve storia della vita privata. Certo, si tratta di un libro un po’ particolare, che non sembrerebbe destinato ad un gradimento universale come il precedente. Ma è comunque una godibilissima miniera di informazioni, di aneddoti, di stravaganze, e una ennesima dimostrazione dell’arte brysoniana di raccontare. Mentre lo leggevo, in certi momenti mi sembrava di riascoltare la voce di mio padre, grandissimo affabulatore e maestro dello humor sarcastico. A partire dall’esplorazione della propria dimora Bryson riesce a parlare davvero di tutto, di architettura, di economia, di costumi, di tradizioni, ecc… E lo fa appunto alla sua maniera, apparentemente rapsodica, in realtà guidata da un sottile filo conduttore.

Anche in questo caso, per darne un’idea non trovo di meglio che pescare aprendo il libro a casaccio. E pesco subito aneddoti come questo:

Ancora lui 16Il tè non venne immediatamente capito da tutti. Il poeta Robetrt Southey racconta la storia di una signora di campagna che ne aveva ricevuto mezzo chilo in regalo da un’amica di città quando il tè era ancora una novità. Non sapendo bene cosa farne, lo bollì in pentola , ne spalmò le foglie sil pane tostato e imburrato e lo servì alle amiche, che lo sbocconcellarono con coraggio e lo giudicarono interessante ma non proprio di loro gusto.”

O ammiccamenti maliziosi: “Il nonno di Fralklin Delano Roosevelt, Warren Delano, accumulò gran parte delle ricchezze di famiglia col commercio dell’oppio, un dettaglio di cui i Rooesevelt non si sono mai propriamente vantati”.

… e gossip succosi: “Edison invitò un pubblico scelto a una dimostrazione delle sue nuove luci a incandescenza, quando gli invitati arrivarono .. rimasero a bocca aperta nel vedere i due edifici magnificamente illuminati. Ma non si accorsero che erano quasi tutte luci non elettriche. I soffiatori di vetro di Edison, oberati di lavoro, erano riusciti a preparare soltanto trentacinque bulbi, e gran parte dell’illuminazione era dunque fornita da lampade ad olio sapientemente distribuite.”

Quanto basta a invogliarmi ad una immediata rilettura, e a pregustare cinquecento pagine di rinnovato divertimento.

Ancora lui 17

Konrad Vilhelm Mägi. Nuvole nell’anima

di Paolo Repetto, 20 aprile 2024 – dall’Album “Konrad Vilhelm Mägi. Nuvole nell’anima

Konrad Vilhelm Mägi Nuvole nell’anima copertinaCredo che nove italiani su dieci (è una stima ottimistica) non saprebbero rintracciare l’Estonia su una carta geografica. Figuriamoci poi conoscere qualcosa dell’arte estone. Quest’ultima lacuna valeva anche per me, fino a quando non ho visitato una mostra di Konrad Mägi, a Torino, quattro anni fa, l’ultimo giorno utile prima della serrata per Covid. Forse per questo la mostra mi è rimasta così impressa. Ma in realtà credo che i motivi siano altri.

Mi aveva colpito soprattutto l’eccentricità della pittura di Mägi. In senso letterale: la lontananza da ogni centro, la non riconducibilità ad alcun modello. Avevo sì l’impressione di riconoscervi di volta in volta riferimenti alle correnti artistiche precedenti o a quelle sue contemporanee, dall’impressionismo al fauvismo, dall’espressionismo all’Art Nouveau e alla pittura metafisica; ma erano così rimescolati e sovrapposti da dare origine a qualcosa di assolutamente originale. E poi, ad amalgamare il tutto, una dimensione onirica, il senso di solitudine che pervade i paesaggi, i colori marcati, suggestivi, che esplodono fuori dalla tela. Insomma, dietro quei quadri ho percepito una personalità irrequieta, profondamente depressa, persino instabile.

Konrad Vilhelm Mägi Nuvole nell’anima 02

E infatti. Magi nasce nel 1878 in Estonia, ma si trasferisce nell’adolescenza a Tartu, in Finlandia, dove lavora come apprendista falegname e frequenta anche corsi di disegno. Sviluppa interesse per l’arte figurativa, senza dargli però uno sbocco; fino a quando, ormai venticinquenne, si sposta a san Pietroburgo, in cerca di fortuna, ma soprattutto di un indirizzo da dare alla sua vita. Qui partecipa agli eventi della rivoluzione del 1905, e subito dopo, per sfuggire ad una’atmosfera divenuta pesante, cerca rifugio per un certo periodo nelle Isole Åland, all’imbocco del golfo di Botnia, dove esiste una comunità quasi anarchica di artisti e letterati. Non ci resiste però a lungo. Non è uno scapigliato, è anzi molto elegante, distinto e attento alle forme (anche alla cultura fisica, che è uno dei suoi pallini), tendenzialmente solitario: le stravaganze se le tiene dentro. In quell’ambiente dipinge i primi quadri e matura la consape volezza di aver preso la strada giusta, ma anche quella di avere ancora molto cammino da fare per raggiungere risultati soddisfacenti.

Questo cammino lo porta inevitabilmente a Parigi, dove approda nel 1907, dopo un anno trascorso lavorando ad Helsinki per far su qualche soldo. Il contatto con un mondo culturale vivacissimo, così diverso da quello del baltico nordorientale, da un lato lo attira, dall’altro lo spaventa e lo respinge: in più c’è il problema economico, perché la vita nella capitale francese è carissima, e lui è ridotto letteralmente alla fame, al punto da ritrovarsi con una salute irrimediabilmente minata. Di lì a poco si trasferisce dunque in Norvegia, dove comincia a dipingere compulsivamente e a guadagnarsi la vita con la sua arte. Può così permettersi nuovamente una paio di escursioni in francia, e segnatamente in Normandia, ma il richiamo del suo Nord lo fa rientrare, soprattutto dopo che le sue opere hanno conosciuto un buon successo in occasione di una prima mostra in patria.. Nel 1910 è di ritorno a Tartu, e poi dal 2012 in Estonia, dove fonda una scuola d’arte decisamente avveniristica per i luoghi e per i tempi.

Konrad Vilhelm Mägi Nuvole nell’anima 03

Le peregrinazioni non sono tuttavia terminate. La rivoluzione d’Ottobre rimette scompiglio nel precario equilibrio che Mägi ha raggiunto. L’Estonia ottiene l’indipendenza, ma la situazione è pesante. La meta dell’ultimo espatrio (siamo ormai nel 1920) è l’Italia, dove soggiorna per quasi due anni, visitando Venezia, Roma e Capri. La luce e i colori del mare e dell’isola lo affascinano, così come hanno affascinato moltissimi suoi ex-connazionali in esilio (Konrad era stato sino a quel momento cittadino russo): tanto che pensa di aver trovato una seconda patria. Ma anche questa volta non tarda a ricredersi: è ossessionato dal trascorrere del tempo (e le rovine della classicità rinfocolano questa ossessione), dalle forze che lo abbandonano, dall’angoscia di dover lasciare lo straordinario spettacolo che la natura mediterranea gli offre. Il suo equilibrio psicologico è gravemente compromesso, e anche quello fisico è minato ormai da diverso tempo. Rientra così nuovamente a Tartu, dove si spegne lentamente a quarantasei anni, dopo aver dipinto in maniera “professionale” per non più di quindici.

La tormentata vicenda esistenziale di Mägi non ha conosciuto requie, e ha lasciato un segno progressivamente più profondo nella sua arte: che è tutta volta a fermare, nel senso di sottrarre al tempo, alla caducità, alla dissoluzione, gli straordinari momenti di bellezza, sia umana che naturale, dei quali la natura ci fa partecipi. Questo sembrano volere, con la forza del segno e del colore, sia i suoi paesaggi che i suoi ritratti, Se poi negli uni e negli altri cominciano a comparire delle nuvole, che si affacciano dietro le alture e i profili delle montagne, fino a creare nell’ultimo periodo atmosfere sempre più cupe, questo non fa che testimoniare la sua consapevolezza di addentrarsi in tempi bui, e non solo per la sua personale situazione. E anche una singolare e contingente preveggenza: il giorno successivo alla mia visita tutti i musei, assieme ad ogni altra attività pubblica, erano chiusi. Le sue opere, dopo essere state bandite in patria per tutto il tempo della dominazione sovietica, avrebbero dovuto attendere altri sei mesi per tornare visibili al pubblico italiano.

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Nikolaj K. Roerich. Le cattedrali di pietra

di Paolo Repetto, 14 aprile 2024 – dall’Album “Nikolaj K. Roerich. Le cattedrali di pietra

Nikolaj Konstantinovič Roerich Le cattedrali di pietra copertinaLa cultura russa della prima metà del Novecento ha sfornato palate di personaggi bizzarri e controversi, ma questo è davvero singolare. La figura di Nikolaj Konstantinovic Roerich, nato a San Pietroburgo nel 1874, è talmente sfaccettata da non poter essere incasellata in alcuna definizione. Era un pittore, un archeologo e un esploratore, ma anche un appassionato di religioni orientali e di studi cabalistici, e si reinventò da ultimo maestro del pensiero, fondando una filosofia esoterica (la Agni Yoga) che pescava dalla teosofia di Elena Blavatskij, dal cristianesimo ortodosso, dal buddismo, dall’induismo, dallo sciamanesimo nonché dal burkhanesimo (una religione diffusa nella regione russo-asiatica degli Altai). Ancora oggi questa filosofia ha i suoi bravi seguaci, soprattutto nella Russia asiatica, ma sparsi anche un po’ in tutto il mondo. Per converso, Roerich è considerato da molti solo un ciarlatano, e si sospetta addirittura che abbia agito come spia del regime staliniano.
Le cattedrali di pietra 02Andiamo però con ordine. Roerich coltiva precocemente i suoi interessi artisti e filosofici, e soprattutto frequenta sin da giovanissimo gli ambienti culturali all’avanguardia. Collabora come scenografo e costumista alle messe in scena di Sergej Diaghilev, il creatore del balletto russo, e firma con Stravinsky la scenografia del balletto della “Sagra della Primavera”.
La grande svolta nella sua vita avviene però nel 1901, quando sposa Elena Ivanova Shaposhnikova. Da lei, che già ha tradotto in russo le opere della Blavatskij e scritto sui fondamenti del buddismo, riceve la spinta verso gli interessi esoterici. Al termine del primo conflitto mondiale i due danno inizio a una serie di viaggi diretti dapprima verso occidente, in Svezia, in Inghilterra, negli Stati Uniti, poi decisamente a oriente, in India, nel Turkestan cinese, negli Altai, in Mongolia e in Tibet. Visitano anche la Manciuria cinese, raggiungendo poi Shanghai e Pechino e spingendosi fino a Tokyo.
I loro viaggi nell’Asia centrale, in un’area che negli stessi anni vede in azione Sven Hedin e gli archeologi dell’Ahnenerbe himmleriana, si traducono presto in vere e proprie esplorazioni. Oggetto della ricerca è il mitico paradiso buddista di Shambala. Di qui dovrà partire la rigenerazione dell’Umanità, una nuova era guidata da una figura femminile, Urusvati (nella quale non è difficile riconoscere la stessa Elena Ivanovna), che insegnerà all’umanità l’amore per la natura e la sintonia con le energie emanate dalla terra. L’armamentario per una filosofia di vita precorritrice della New Age c’è tutto, compreso il vegetarianesimo e il culto delle vette “sacre”.

Le cattedrali di pietra 03

Il pensiero di Roerich è stato indubbiamente condizionato, e in maniera pesante, dall’influenza della moglie. Di suo, lui ha saputo tradurlo da un lato in visibilità e successo, e in qualche modo in una sorta di lasciapassare, dall’altro in ispirazione per la sua pittura. Verso la fine degli anni Trenta ha lanciato un “Patto Roerich”, una sorta di “Croce Rossa della cultura”, sancito alla Casa Bianca alla presenza di Roosevelt, che aveva come scopo la protezione dai danni della guerra di monumenti, chiese, biblioteche, istituzioni culturali di ogni tipo. Nel frattempo ha continuato a girovagare per la Russia e per il mondo senza subire restrizioni dalla polizia politica staliniana, e sempre godendo di notevole disponibilità economica. Di qui i sospetti su una sua possibile attività spionistica al servizio del regime.
A noi interessa però eminentemente la sua opera. A prima vista è difficile che questa ci conquisti. Sembra anzi presentare diversi limiti: un segno pesantemente calligrafico, quasi esasperato nella semplificazione dei tratti e dei contorni; un cromatismo monocorde, vincolato alla successione disciplinata delle sfumature; il ripetersi degli stessi soggetti, colti da un’angolazione quasi simile. Come ad essere in presenza di un lavoro diligente, piuttosto che ispirato. Ma subito dopo la percezione cambia: si capisce che quelli che possono sembrare difetti di “manico” o di “maniera” sono in realtà l’esito di una “sublimazione”, mirata a creare una dimensione metafisica, nella quale il peso dei massi rocciosi, dei grandi volumi montani inscritti in ideali solidi geometrici, che pure è sottolineato proprio dalla semplificazione del segno, non ci grava addosso, è solidità, è base sulla quale poggiare i piedi e la vita.
E allora ne siamo attratti: da quelle vette (ma anche dagli edifici religiosi, dagli scorci di villaggi) ci arriva un richiamo, e la loro distanza non ci esclude.
Che poi Roerich fosse o meno un ciarlatano, o un fanatico religioso, o addirittura un agente dell’NKVD, e che le sue opere vengano riprodotte oggi sui cuscini o nelle tappezzerie, poco importa. Ci ha lasciato l’idea di un mondo nel quale, forse, l’utopia era ancora possibile.

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Un americano alla prova dei truck stop

di Paolo Repetto, 11 aprile 2024

Avevo in mente da un pezzo di riprendere il discorso su Bill Bryson, discorso che in realtà sino ad ora è rimasto limitato a brevissimi accenni nei consigli di lettura. Non l’ho fatto prima perché davo Bryson per scontato, conosciuto da tutti i frequentatori di questo sito, un po’ come Chatwin. Mi sembrava ci fosse in fondo poco da dire, se non rinnovare l’invito a leggere i suoi spassosissimi diari di viaggio, a partire dal celeberrimo Una passeggiata nei boschi.

Bryson non ha scritto però solo taccuini di vagabondaggio. Nella sua bibliografia trovano posto anche opere di tutt’altro genere, cose come Breve storia di (quasi) tutto, Breve storia della vita privata, Breve storia del corpo umano, e ancora, Vestivamo da Superman o Il Mondo è un teatro. Trattano argomenti molto diversi, ma sono unite tra loro e anche ai racconti di viaggio da un piglio e uno stile paragonabili solo a quelli di Mark Twain, da un approccio apparentemente scanzonato ma in realtà capace di cogliere i dettagli essenziali e davvero significativi di ambienti, persone, vicende.

Non sono sicuro che questa parte del suo repertorio di scrittura sia altrettanto conosciuta. Conto dunque di tornarci su, ma non ora: mi piacerebbe allargare un po’ più in generale il discorso alla divulgazione narrativa, che qui da noi non è molto praticata, e per farlo ho bisogno di maggiore concentrazione. Per il momento mi limito invece a proporre una selezione di pagine tratte da America Perduta, libro d’esordio del nostro, che già contiene tutto il Bryson che cerchiamo quando prendiamo in mano un suo scritto.

A me è capitato di rileggerlo a distanza di quasi trent’anni dal primo incontro, e a differenza di quanto accade in genere con la rilettura di testi che ti avevano entusiasmato in un periodo particolare della tua vita, perché direttamente legati ad esperienze o a stati d’animo che stavi vivendo (tre decenni fa ero ancora nel pieno della mia attività di girovago), non mi ha affatto deluso. L’ho riletto naturalmente con occhi nuovi, cercandovi cose che alla prima lettura potevano essermi sfuggite; e mentre all’epoca ricordo di aver provato soprattutto il piacere della scoperta di un’America profonda, quella sterminata e semi-sconosciuta che sta tra le due coste, questa volta vi ho trovato soprattutto delle conferme e delle spiegazioni.

Un americano alla prova dei truck stop 02

Insomma, uno che ha amato la storia degli Stati Uniti in tutte le sue sfaccettature, che si è svezzato coi fumetti e col cinema western, che si è nutrito nell’adolescenza dei libri di Twain, di London e di Steinbeck, e poi di Kerouack e di Salinger, nonché dei gialli di Chandler e di Hammett, non può, a dispetto di tutto ciò che ha poi appreso sulla politica sporca, sulle attività della CIA, o di tutte le evidenze della superficialità dell’american way of life, non conservare in fondo all’anima tracce del mito americano. E allora tanto più si chiede come un paese così grande e così ricco di tradizione democratica possa essere arrivato negli ultimi decenni ad affidarsi a personaggi come Bush jr e come Trump, e a ritrovarsi addirittura quest’ultimo quale probabile futuro presidente per la seconda volta.

Bene, in America perduta era già prefigurato quanto stava per accadere. Dopo quasi vent’anni di assenza (si era trasferito in Inghilterra ventenne, aveva iniziato a lavorare lì come giornalista, lì si era sposato e aveva preso casa) o perlomeno di fugaci rimpatriate, Bryson torna a vagabondare per gli Stati Uniti nei tardi anni Ottanta, intenzionato a ritrovare suoni, sapori e immagini della sua infanzia. Naturalmente non ci riesce, perché è cambiata l’America e soprattutto è cambiato lui: ma con un tragitto a doppio anello di oltre ventimila chilometri, a bordo della vecchia Chevrolet della madre, batte quella parte del paese che ancora non conosceva (e sulla quale aveva tanto fantasticato), oltre a ripercorrere le strade lungo le quali aveva invece viaggiato per le rituali gite familiari. Non riconosce la “sua” America, o meglio, la conosce adesso sia per come veramente era all’epoca che per come è diventata. Non si può dire che non gli piaccia, e neppure che ne sia entusiasta. Parrebbe far suo il giudizio espresso da Jack Nicholson in Easy Rider: l’America è un grande paese, peccato che ci siano gli americani.

Comunque, America perduta è uno di quei libri che non tollerano riassunti e analisi critiche: vanno letti e basta. A coloro che ancora non lo avessero fatto (ma anche agli altri), propongo appunto una serie di frammenti che dovrebbero fornire almeno un’idea di quel che si sono persi. Ho scelto quattro momenti di sosta, quelli destinati alla cena, al rilassamento dopo ore di guida e ad un bilancio della giornata. Naturalmente i locali frequentati sono quelli tipici del viaggiatore di lungo corso. A mio parere qui Bryson dà davvero il meglio: non racconta, non spiega, non dà giudizi, apre dei siparietti spassosissimi ma tutt’altro che fini a se stessi, perché rivelano dei suoi interlocutori (in questo caso, delle sue interlocutrici) molto più di qualsiasi tentativo di descrizione. E rende facile anche a noi percepire attraverso le reazioni scocciate, meccaniche o ossessive (non solo quelle degli interlocutori, anche le sue) quell’atmosfera pregna di monotonia, di solitudine e di distanza che sembra caratterizzare la vita americana, quella che già abbiamo conosciuto attraverso i dipinti di Hopper e soprattutto attraverso innumerevoli film on the road.

Non nascondo infine che sulle scelte ha influito anche l’aver riconosciuto nei modi di fare e di pensare di Bryson certi atteggiamenti propri di un amico col quale ho viaggiato ultimamente (e che già avete potuto conoscere proprio su questo sito). Immaginarlo seduto in quegli improbabili posti di ristoro in mezzo al deserto o in cittadine quasi fantasma ha raddoppiato il divertimento.

Ma non vado oltre: meglio lasciar parlare l’originale.

(i numeri di pagina si riferiscono all’edizione Feltrinelli Traveller 1993)

Un americano alla prova dei truck stop 03

pag. 54 Carbondale (Illinois)

[…] Malinconicamente e faticosamente arrivai al Pizza Hut, e una cameriera mi fece accomodare a un tavolo con vista sul parcheggio.

Tutti mangiavano delle pizze grandi come ruote di un pullman. Proprio davanti a me – non c’era via di scampo – un uomo super-obeso, sui trent’anni, si ficcava in bocca intere fette di pizza, come un mangiatore di spade. C’era una tale gamma di tipi e dimensioni di pizze, tali varietà che mi sentii quasi perso. La cameriera si avvicinò: “Ha scelto?”

“Ancora un momento”, replicai. “Per favore.”

“Non si preoccupi,” aggiunse. “Ritorno più tardi.”

Sparì, uscì dal mio raggio visivo, contò fino a quattro e poi riapparve. “Vuole ordinare?”, chiese.

“Se non le dispiace”, dissi “vorrei aspettare ancora un po’.”

“OK”, disse seccata andandosene. Questa volta contò forse fino a venti, ma, quando si rifece viva, io vagavo ancora nel mare magnum di possibilità e opzioni che il Pizza Hut offriva.

“È un po’ lentino, Lei, vero?” asserì vivace.

Ero imbarazzato. “Mi dispiace. Sono un po’ stordito. Sa … sono appena uscito di prigione.”

Stralunò gli occhi. “Non dirà sul serio?”

“Eh, si. Ho ucciso una cameriera che mi metteva fretta.”

Abbozzando un sorriso indietreggiò, e mi lasciò tutto il tempo di cui avevo bisogno per decidere. Alla fine optai per una pizza media, ai peperoni, con doppia porzione di cipolle e funghi. Una pizza che vi consiglio vivamente di assaggiare.

Un americano alla prova dei truck stop 04

pag. 165 Littleton (New Hampshire)

[…] Entrai nel ristorante, il Topic of the Town. Gli altri clienti mi sorrisero, la signora alla cassa mi mostrò dove appendere la giacca e la cameriera, una signora piccola e grassottella, si prodigò in tutti i modi per offrirmi il servizio migliore. Era come se avessero somministrato a tutti un meraviglioso tipo di tranquillante.

Quando la cameriera mi portò il menù, commisi l’errore di dire grazie. “Prego”, rispose lei. Una volta innescato questo meccanismo non c’è modo di fermarlo. Poi la signora pulì il mio tavolo con uno straccetto umido. “Grazie”, dissi. “Prego”, rispose. Mi portò le stoviglie avvolte in un tovagliolo di carta. Esitai, ma non riuscii a trattenermi. “Grazie”, dissi. “Prego”, rispose. Quindi arrivò con la tovaglietta con sopra scritto Topic of the Town, poi con un bicchiere d’acqua, poi con un posacenere pulito, poi con un cestino con i salatini nella loro confezione di cellophane e a ogni gesto ci scambiammo quelle formali gentilezze. Ordinai del pollo fritto speciale. Mentre aspettavo incominciai a essere a disagio perché i miei vicini di tavolo mi osservavano e mi sorridevano in modo inquietante. Anche la cameriera mi stava osservando, appostata vicino alla porta della cucina. In un certo senso era snervante. A ogni piè sospinto lei veniva al mio tavolo per riempirmi il bicchiere di acqua ghiacciata e per dirmi che avrei dovuto aspettare ancora un minuto per la mia ordinazione.

“Grazie”, dicevo.

“Prego”, rispondeva lei.

Alla fine uscì dalla cucina reggendo un vassoio grande come un tavolo, e iniziò a disporre i piatti davanti a me: minestra, insalata, un piatto di pollo, un cestino di panini caldi. Tutto aveva l’aria di essere appetitoso. Improvvisamente mi resi conto di avere una fame da lupi.

“Desidera qualcos’altro?”

“No, grazie. Va tutto benone”, risposi, impugnando coltello e forchetta, pronto a buttarmi sul cibo.

“Desidera del ketchup?”

“No, grazie.”

“Gradisce ancora un po’ di condimento nell’insalata?”

“No, grazie.”

“Ha abbastanza salsina sul pollo?”

Ce n’era abbastanza per annegarci un cavallo. “Sì, c’è molta salsina, grazie.”

“Che ne direbbe di una tazza di caffè?”

“Şul serio, sono a posto così.”

“È sicuro di non desiderare nient’altro?”

“Potrebbe andarsene fuori dalle palle e lasciarmi mangiare in pace?” avrei voluto rispondere, ma ovviamente non dissi nulla. Mi limitai a sorridere garbatamente e a rispondere: “No, grazie”, e quella dopo un po’ si ritirò. La donna rimase in piedi con la brocca dell’acqua ghiacciata in mano, senza però togliermi gli occhi di dosso per tutto il pasto. Ogni volta che bevevo un sorso d’acqua, si avvicinava al tavolo e lo riempiva fino all’orlo. Quando allungai la mano per prendere il pepe la cameriera fraintese la mia mossa e avanzò con la brocca in mano, ma dovette fare dietrofront. Dopo di che, ogni volta che lasciavo le posate per un qualsiasi motivo, le mimavo ciò che stavo per fare, per esempio “Sto per imburrare il pane”, tanto per evitarle di correre al mio tavolo con la brocca in mano. Nel frattempo le persone del tavolo accanto mi osservarono mangiare con un sorriso d’incoraggiamento. Friggevo dalla voglia di andarmene.

Quando terminai il pasto, la cameriera mi propose i dessert:

“Le andrebbe una fetta di crostata? C’è ai mirtilli, alle more, ai lamponi, alle more selvatiche, ai mirtilli bianchi, ai ribes rossi, ai ribes neri e all’uva spina”.

“Caspita! No, grazie, ho mangiato fin troppo”, dissi mettendomi le mani sullo stomaco. Sembrava che mi fossi nascosto un cuscino sotto la camicia.

“Cosa ne direbbe invece di un bel gelato? Abbiamo stracciatella, cioccolato speciale, cioccolato amaro, cioccolato bianco, bacio, cioccolato e menta, riso soffiato e cioccolato con e senza stracciatella.”

“Non ha del cioccolato semplice?”

“No, mi dispiace, non c’è molta richiesta.”

“Allora credo che non prenderò niente.”

“Che ne dice di una fetta di torta? Abbiamo…”

“Guardi, proprio no, grazie.”

“Caffè?”

“No, grazie.”

“Sicuro?”

“Sì, grazie.”

“Le porterò ancora un po’ d’acqua allora”, e scattò a prendere l’acqua prima ancora che riuscissi a dirle di portarmi il conto. Le persone del tavolo accanto osservarono la scena con interesse, e sorrisero come volessero dire: “Noi siamo completamente fuori di testa. Lei come sta?”.

Un americano alla prova dei truck stop 05

pag 176 Elmira (Stato di New York)

[…] Erano quasi le nove quando mi fermai in un motel alla periferia di Elmira.

Andai direttamente fuori a cena ma, poiché quasi tutti i locali che incontravo erano chiusi, finii per mangiare nel ristorante di un bowling in aperta contravvenzione alla terza norma di Bryson sul cenare in una città sconosciuta. Generalmente non credo nel fare le cose per principio e poi si tratta di un principio tutto mio ma ho elaborato sei norme riguardanti la cena al ristorante che cerco di non trasgredire. Eccole:

  1. Mai cenare nei ristoranti che espongono le fotografie delle specialità. (E se lo si fa, mai credere alle fotografie.)
  2. Mai cenare nei ristoranti rivestiti con carta da parati ruvida.
  3. Mai cenare nei ristoranti dei campi da bowling.
  4. Mai cenare nei ristoranti dove si sente ciò che dicono in cucina.
  5. Mai cenare nei ristoranti che offrono intrattenimento dal vivo, il cui nome contenga una delle seguenti parole: Hank, Rhythm, Swinger, Trio, Combo, Hawaiian, Polka.
  6. Mai mangiare nei ristoranti che hanno i muri schizzati di sangue.

Nella fattispecie il ristorante del bowling risultò abbastanza accettabile. Attraverso le pareti si sentiva il rimbombo smorzato dei birilli che cadevano, le urla delle parrucchiere e dei carrozzieri di Elmira che si divertivano. Ero l’unico cliente del ristorante. Per cui ero l’unico ostacolo tra le cameriere e la fine del loro servizio. Mentre aspettavo di essere servito, le ragazze sparecchiarono gli altri tavoli, tolsero posacenere, zuccheriere e tovaglie, cosicché dopo un po’ mi trovai a cenare solo, in una grande sala, con una tovaglia bianca, una candela baluginante in una lampada rossa, in mezzo a un’arida distesa di tavoli di laminato.

Le cameriere, appoggiate alla parete, mi osservavano mentre masticavo. Dopo un po’ iniziarono a bisbigliare e ridacchiare, sempre senza togliermi lo sguardo di dosso, cosa che trovai francamente scocciante. Avrei dovuto immaginarmelo, ma ebbi anche la netta impressione che qualcuno stesse girando un interruttore, perché la luce della sala si abbassava gradatamente. Alla fine del pasto riconoscevo il cibo al tatto e, a volte, dovevo abbassare la testa sul piatto per annusare. Prima ancora di terminare, quando mi fermai un secondo per bere un bicchiere d’acqua ghiacciata, nel buio dietro il lume di candela, la cameriera mi sfilò via il piatto e mi lasciò il conto sul tavolo.

“Desidera altro?”, mi chiese, con un tono che suggeriva che sarebbe stato meglio rispondere di no. “No, grazie”, dissi gentilmente. Mi pulii la bocca con la tovaglia, dato che il mio tovagliolo si era perso nell’oscurità, e aggiunsi la settima norma alla mia lista: mai andare nei ristoranti dieci minuti prima dell’orario di chiusura. Tuttavia, un pessimo servizio non mi dà mai fastidio. Non mi fa sentire in colpa se non lascio la mancia.

Un americano alla prova dei truck stop 08

pag. 263 Sonora (California)

[…] D’umore perfido, presi l’auto e andai a cena in città in un ristorante da poco. Dopo un bel po’ arrivò la cameriera a prendere l’ordinazione. Aveva un’aria volgare e la fastidiosa abitudine di ripetere tutto ciò che le dicevo.

“Vorrei un petto di pollo impanato”, dissi.

“Desidera un petto di pollo impanato?”

“Sì. E un contorno di patatine fritte.”

“Desidera un contorno di patatine fritte?”

“Sì. E desidererei anche un’insalata ben condita.”

“Desidera anche un’insalata ben condita?”

“Sì, e una Coca Cola.”

“Desidera una Coca Cola?”

“Mi scusi signorina, ma ho avuto una brutta giornata e se non la smette di ripetere tutto ciò che dico, prendo la bottiglia di ketchup e gliela rovescio tutta sulla camicetta.”

“Prende quella bottiglia di ketchup e me la rovescia tutta sulla camicetta?” A dir la verità non la minacciai col ketchup; per il semplice fatto che la signorina poteva sempre avere un fidanzato grande e grosso che mi avrebbe picchiato. Inoltre, una volta conobbi una cameriera che mi disse che quando un cliente era maleducato con lei, andava in cucina e gli sputava nel piatto. Da allora non sono più stato sgarbato con una cameriera e non ho più mandato indietro un piatto poco cotto (perché in questo caso è il cuoco a sputare) ma ero così di malumore che appiccicai immediatamente la gomma da masticare nel posacenere, senza incartarla in un tovagliolino come mi ha sempre insegnato mia mamma, e la schiacciai col pollice cosicché non sarebbe caduta svuotando il posacenere, ma avrebbero dovuto staccarla con una forchetta. E sapete una cosa – che Dio mi perdoni – mi tolsi una piccola soddisfazione.

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Appendice bibliografica

Per dare una parvenza di “servizio pubblico” a questo articolo lo arricchisco di una breve e personalissima bibliografia, dedicata ai libri di viaggiatori che hanno percorso gli States alla maniera di Bryson, o anche in altri modi, e hanno comunque raccontato in epoche diverse quegli spazi e quelle genti. La bibliografia sull’argomento sarebbe in realtà sterminata. Io segnalo qui solo alcuni dei testi che conosco direttamente, scritti da indigeni o da viaggiatori provenienti d’oltreoceano, e del cui valore posso farmi garante.

Luigi Castiglioni – Viaggio Negli Stati Uniti Dell’ America Settentrionale, fatto negli anni 1785-1787 – Classic Reprint, 2019

Paolo Andreani – Viaggio in Nord America – Scheiwiller, 1994

René de Chateaubriand – Viaggio in America – Pintore, 2007

Washington Irving – Viaggio nelle praterie del West – Spartaco, 2013

Alexis de Tocqueville – Viaggio in America. Stati Uniti e Canada (1831-32) – Humboldt Books, 2023

Alexis de Tocqueville – Quindici giorni nel deserto americano – Sellerio, 1989

Giacomo Costantino Beltrami – La scoperta delle sorgenti del Mississippi – Biblioteca del Vascello, 1983

Xavier Marmier – Lettres sur l’Amérique, 2 vol. – Felix Bonnaire, 1851

Henry David Thoreau – Una settimana sui fiumi Concord e Merrimack – La Vita Felice, 2020

John Muir –Mille miglia in cammino fino al golfo del Messico – Ed.dei Cammini, 2015.

Mark Twain – La mia avventura nel West – Mattioli 1885, 2018

Rudyard Kipling – Oltre la porta d’oro. Un viaggio negli Stati Uniti da costa a costa – Muzzio, 1996

Maksim Gorkij – L’America – Mastellone Ed., 1952

Knut Hamsun – La vita culturale dell’America moderna – Arianna, 2009

Jack London – La strada – Elliot, 2015

John Steinbeck – Viaggio con Charley – Rizzoli, 1969 (o Bompiani, 2017)

William Least Heat Moon – Strade blu. Un viaggio dentro l’America –Einaudi, 1989

William Least Heat Moon – Nikawa – Einaudi, 2000

Bill Bryson – Notizie da un grande paese – Guanda, 2017

Alex Roggero – La corsa del levriero. In Greyhound da Pittsburgh a Los Angeles – Feltrinelli 2002

Alessandro Portelli – Taccuini americani – Manifestolibri, 1991

Emanuela Crosetti – Come ti scopro l’America. Da Sant Louis al Pacifico con i leggendari Lewis e Clark – Exòrma, 2016

Un americano alla prova dei truck stop 06

Rassegne e rassegnazione

di Paolo Repetto, 5 aprile 2024

Se la classe dirigente è fatta di imbecilli
immaginiamoci cosa possa essere la clientela media.

Fino a qualche anno fa comparivano regolarmente su La Settimana enigmistica (o magari compaiono ancora, non ho verificato) un paio di storiche rubriche, l’una titolata “Spigolature”, l’altra “Strano ma vero”. Raccoglievano in ordine sparso, senza alcun visibile criterio e con trattazione telegrafica, aneddoti e curiosità del tipo più disparato, dal gatto svizzero che giocando col telefono allerta la polizia all’invenzione dei catarifrangenti stradali (nel 1934, per chi fosse interessato), dalla storia di sant’Irmina di Treviri all’esistenza di oltre quattrocento varietà di agrifoglio. Se ricordo bene, l’unica differenza tra le due pagine stava nel fatto che la seconda era illustrata da vignette.

Si trattava in genere di informazioni banalissime, e quando non riuscivano tali erano comunque bizzarrie buttate lì a fare mucchio, e quindi totalmente inutili. Ciò nonostante, sino a quando La settimana enigmistica è rimasta l’ultimo nutrimento culturale di mia madre ho continuato a scorrerle avidamente: un po’ per una congenita coazione alla lettura, quella che m’imponeva di divorare tutto ciò che di scritto mi capitava sotto gli occhi, a tavola persino l’etichetta dell’acqua minerale (malgrado la conoscessi a memoria, perché si trattava sempre della stessa bottiglia, riempita con l’acqua del rubinetto), un po’ per la precoce e morbosa curiosità di indagare sino a che punto potesse spingersi la stupidità umana: e devo dare atto che entrambe le rubriche ne fornivano, non ho mai capito quanto involontariamente, degli esempi spassosissimi.

Bene, ho pensato di continuare a divertirmi proponendo io stesso una piccola antologia di “spigolature” recuperate nei quadernoni dalla copertina nera che ingombrano le mie scrivanie e i ripiani della mia biblioteca. Non ho seguito un criterio cronologico, e nemmeno avrei potuto farlo, perché si tratta di appunti, stralci di notizie e citazioni annotati frettolosamente sul primo spazio bianco disponibile, a margine di letture o di riflessioni estemporanee. Ho cercato qui di raccogliere quelli più recenti o che mi sembravano conservare un’inquietante (e tragica) attualità. Negli intenti avrebbero dovuto fornire lo spunto per futuri pezzi di costume o di approfondimento, di fatto sono poi rimasti lì, e forse è stato meglio così: nella forma grezza, e nel disordine sparso, sono più eloquenti di qualsiasi trattazione.

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Rassegne e rassegnazione 02Settembre 2023 – A Modena 160 persone hanno sborsato settanta euro a testa per seguire dal vivo il seminario di un “contattista”, un ex-ferroviere che parla coi marziani, razzola liberamente nelle basi nucleari russe ed è ospite quasi fisso di Red Ronnie (un giorno si dovrà anche parlare del dramma dei pensionamenti anticipati, in ferrovia o altrove, che hanno gettato un sacco di gente nella necessità di inventarsi le occupazioni più peregrine). L’incontro è durato otto ore e non comprendeva il servizio di buffet: chi voleva rifocillarsi durante la pausa pranzo o si accomodava al ristorante (pagando, naturalmente) o mangiava un panino sulla strada. Allo stesso prezzo si poteva anche seguire il seminario da remoto – risparmiando in questo caso le spese di viaggio e del pasto, ma perdendo la magia dell’incontro dal vivo col bagonghi. Comunque, a seguire tutta la faccenda via web erano iscritte diverse altre centinaia di persone.

Autunno 2023 – A Trevigiano Romano, vicino al lago di Bracciano, una veggente parla da sette anni a intervalli regolari con la Madonna (o con Gesù, se la Madonna ha altri impegni). Ultimamente s’intrattiene in realtà molto più con gli inquirenti, perché la fede di alcuni dei seguaci, che le avevano intestato piccoli patrimoni, comincia a vacillare.

In compenso a Manduria, nei pressi di Taranto, da trent’anni la Vergine dell’Eucaristia (o suo figlio) appaiono ad un’altra veggente – ecco dov’erano impegnati –, una che ha intrapreso la carriera giovanissima, e le trasmettono messaggi accorati. Il fenomeno non ha la stessa risonanza mediatica, mantiene un basso profilo, ma non manca del suo bravo seguito ed è approdato sui social. Chi volesse partecipare alla preghiera in diretta dalla Cappella della Celeste Verdura (si chiama così, lo giuro, il piccolo santuario che ospita periodicamente il miracolo), può farlo in qualsiasi momento su Facebook o sul canale ufficiale accessibile da Youtube.

Dov’è la novità? Infatti. Nulla di nuovo sotto il sole. Sono solo tre banalissimi casi di citrullaggine tra i mille altri analoghi che si possono raccattare con un giro in rete o spulciando i quotidiani. Niente naturalmente a confronto delle stigmate di Padre Pio, o di fenomeni “globali” come quelli dei rettiliani o dei terrapiattisti. Rispolverano però per l’ennesima volta le domande fondamentali, alle quali varrebbe la pena ogni tanto provare a rispondere, per un esercizio di igiene mentale. E cioè: possiamo ancora liquidare queste cose con una risata, o sarà bene cominciare seriamente a preoccuparci? E in un contesto del genere, non sarà opportuno ripensare il significato di “democrazia”?

Rassegne e rassegnazione 03Marzo 2019 – «La verità è che George Orwell era una creazione della CIA, indipendentemente dall’opinione che si ha sulla qualità letteraria delle sue opere. La CIA non aspettò un momento ad investire fondi per promuovere la sua opera. Era consapevole dell’effetto devastante che il messaggio di un presunto rappresentante dei valori della sinistra poteva avere su ampi settori dell’opinione pubblica. Come altri intellettuali di quel, e di questo, periodo, Orwell soccombette alla seduzione del facile successo e della rapida notorietà che rese possibile la trasmissione di un messaggio costruito dai creatori della “guerra fredda”. Ma la tragedia della sua memoria fu duplice. Da un lato, l’apertura di alcuni fascicoli polverosi del Foreign Office ne rivelò la personalità fraudolenta. L’assenza di scrupoli dello scrittore inglese era paragonabile solo a quella dei più spregevoli protagonisti dei suoi stessi romanzi.» (Manuel Medina, George Orwell: Breve biografia di un magnaccia al servizio della CIA, da Forum Marxismo Leninismo)

Medina è palesemente un idiota, e il sito che lo ospita potremmo considerarlo semplicemente patetico, da non spenderci neppure un secondo: non fosse che, al pari di molti altri blog (personalmente ne ho rintracciati almeno una quindicina: quando sono giù di corda amo perdere tempo in queste cose) testimonia il persistere in quella che si arroga l’etichetta di “sinistra dura e pura” di un atteggiamento antico nei confronti della cultura autenticamente libertaria. Mi è tornata infatti immediatamente in mente la stroncatura di 1984 pubblicata da Togliatti su Rinascita (1950): «Con la pubblicazione di 1984 di Orwell […] la cultura borghese, capitalistica e anticomunistica, dei nostri giorni, ha aggiunto al proprio arco sgangherato un’altra freccia: un romanzo d’avvenire! […] L’autore accumula con la maggiore diligenza tutte le più sceme tra le calunnie che la corrente propaganda anticomunista scaglia contro i paesi socialisti.

Nel “partito” (metafora del Pcus) si insegna a commettere, per il “partito”, le azioni più stolte, a mentire, a negare la evidenza dei fatti […] Il capo del partito ha i baffi neri e il suo nemico mortale la barbetta a punta, a questo punto si scopre invece proprio soltanto l’autore, nella meschinità e abiezione che a lui stesso sono proprie.

Le botte servono davvero a troppe cose, nel libro di George Orwell […] doveva aver davvero una grande esperienza di bastonature e torture, questo poliziotto coloniale, per giungere a porre la fiducia nelle torture e nelle bastonature più in alto che la fiducia nella ragione umana.»

Questo era lo stile di Togliatti, aggressione, insulto e menzogna, fatto immediatamente proprio da tutta quell’intellighentjia comunista che “il migliore” aveva ramazzato nell’immediato dopoguerra, pescando in gran parte dalle file dei transfughi dell’ultima ora dal fascismo.

Ora, devo ammettere che nel clima di incipiente guerra fredda degli anni tra i Quaranta e i Cinquanta quel linguaggio, persino quel livore, ci stavano: voglio dire, non che fossero giustificabili, ma almeno era comprensibile perché se ne facesse uso.

Quella modalità polemica (soprattutto il “negare l’evidenza dei fatti” che Togliatti contestava alla vittima del suo attacco), e, ciò che è peggio, la forma mentis sottostante, sono state fatta proprie però anche dalle generazioni successive: lo testimonia ad esempio lo sprezzo col quale Calvino liquidava Orwell nei tardi anni Sessanta, definendolo un “libellista di second’ordine” (in una lettera “aperta” a Geno Pampaloni) “portatore di uno dei mali più tristi e triti della nostra epoca: l’anticomunismo”. All’epoca Stalin era morto da un pezzo, e il regime sovietico aveva mostrato il suo vero volto. soffocando nel sangue dimostrazioni e rivolte popolari in Germania, in Polonia e in Ungheria. La miopia e il livore non erano più nemmeno comprensibili. Calvino avrebbe poi parzialmente ritrattato il suo giudizio solo vent’anni dopo, dicendo che il libro era stato mal compreso perché sin troppo anticipatore. Ma altri, come ad esempio Vattimo, ancora a metà degli anni Ottanta, dopo che Orwell era stato “riabilitato” persino da L’Unità, hanno insisto a ribadire che 1984 è “lontano dal nostro mondo, tranne che per un particolare: l’impotenza del potere, la sua disfunzione, la sua fatiscenza” e che “segue la moda della fantascienza stracciona, dell’utopia delle rovine”.

È un fiele che corre ancora oggi tanto nelle vene della sinistra nostalgica quanto in quelle dei sinistrati dalla decostruzione post-moderna, e non è affatto prerogativa di un uno sparuto branco di anime povere. Lo si nomini putinismo, o madurismo, o più genericamente anti-occidentalismo, ha i suoi referenti culturali proprio in quelle “aristocrazie intellettuali” che si chiamano ipocritamente (e spettacolarmente) fuori dalla società dello spettacolo.

Rassegne e rassegnazione 04Gennaio 2013 – “La Digos di Firenze ha operato il fermo di un giovane fiorentino ritenuto un componente del commando che la notte di capodanno ha incendiato otto automezzi di una ditta di latticini di Montelupo Fiorentino e provocato anche gravi danni al deposito merci. Il ventiduenne Filippo Serlupi D’Ongran, rampollo di una nobile famiglia, è ritenuto fra i responsabili anche di altri quattro episodi a firma ARD (Animal Liberation Front) commessi in Toscana a danno di strutture di macellazione.” Gli altri componenti del commando sono riparati all’estero e all’epoca erano ricercati. Non mi risulta abbiano subito condanne.

Ottobre 2019 – È morto Beppe Bigazzi, prima vittima italiana dell’intolleranza animalista, sospeso dalla Rai nel 2010 per aver osato ricordare un necessario ingrediente della sua remota infanzia toscana: il gatto.

Dicembre 2020 – Uno spot di Telefono Azzurro, lanciato in occasione della Giornata universale dei diritti dell’infanzia (il 20 novembre), mostra una casa in fiamme. Si sente un cane abbaiare, e un uomo entra in una stanza già aggredita dal fuoco. Su un divano ci sono due bambini terrorizzati e con loro un cane, quello appunto che ha abbaiato. L’uomo prende il cane in braccio e lo porta in salvo, lasciando i bambini al loro destino. Messaggio crudo e schiettamente esplicito: c’è troppa gente che si preoccupa degli animali e dimentica e trascura i cuccioli d’uomo, ribadito dall’hashtag: #Primaibambini. Lo spot è stato immediatamente sepolto dagli insulti e travolto dalle polemiche, ed è stato ritirato.

Agosto 2021 – Paul Farthing, un politico inglese, ex-deputato liberal-democratico, ha evacuato per via aerea dall’ Afghanistan in Inghilterra centosettanta cani e gatti. Ha poi dichiarato “Sono davvero profondamente triste per gli afghani”, e non si riferiva ai levrieri, ma agli umani. Che non ha ospitato sull’aereo, non c’era spazio.

28 Luglio 2022 – “Tante sono le storie d’amore che legano le persone ai loro animali che spesso diventano compagni di vita da cui è difficile separarsi. Adesso qualcosa è cambiato, a Santa Margherita potranno rimanere insieme “per sempre”, anche dopo il decesso, dove (!?) è arrivata in consiglio comunale la richiesta della sepoltura con le ceneri del proprio animale da compagnia”. (Comunicato del sito comunale)

Quanto costa uno psicologo per cani? La tariffa oraria per la visita comportamentale è di 90 €. Indicativamente la prima visita comportamentale richiede 75-90 minuti. Gli incontri successivi generalmente richiedono 60 minuti. Nel caso sia necessaria una visita a domicilio, verrà addebitato un costo di viaggio pari a 0,30 € /km (andata e ritorno).

Rassegne e rassegnazione 054 Dicembre 2023 – Gli attivisti del movimento ambientalista Ultima generazione hanno occupato le carreggiate dell’autostrada Roma-Civitavecchia all’altezza di Torrimpietra. Nel corso della protesta hanno utilizzato del mastice per incollare le mani sull’asfalto dell’autostrada. Secondo il racconto degli ambientalisti durante la loro iniziativa un automobilista è sceso dalla sua vettura e ha aggredito un attivista, quindi è risalito a bordo e ha tentato di investirne un altro. Le due persone non sono rimaste ferite in modo serio. La polizia ha poi (con tutta calma) rimosso il blocco e identificato i responsabili dell’iniziativa (organizzata contro l’utilizzo di carboni fossili). Sono stati tutti accompagnati negli uffici della polizia stradale, e prontamente rilasciati.

19 Dicembre – Roma: nuovo blocco di Ultima generazione sulla Salaria, un automobilista schiaffeggia l’attivista e si becca una denuncia.

23 Dicembre – Blitz di Ultima Generazione sotto Palazzo Chigi. I poliziotti portano via due attivisti, che urlano: “Mi stanno facendo male”!

Commento di un mio coetaneo: “Se questi rappresentano l’ultima generazione, sono fiero di essere avanti con gli anni”.

5 Marzo 2024 – Condannati ad 8 mesi per il reato di danneggiamento aggravato i tre attivisti di Ultima Generazione che il 2 gennaio dello scorso anno erano stati arrestati per aver imbrattato con vernice rosa la facciata di Palazzo Madama. “Un fatto commesso con violenza – ha detto il pubblico ministero – che ha provocato danni considerevoli: l’ingresso a Palazzo Madama è stato interrotto per 30 minuti (che sarebbe il male minore) e sono servite decine di migliaia di euro per il ripristino (questo sì che è grave)”.

Autunno 2023 – Nei giorni scorsi, a chi gli aveva chiesto cosa pensasse dell’iniziativa dei giovani di Ultima generazione, Luca Mercalli ha risposto: “Quante opere d’arte sono state irrimediabilmente distrutte dalle alluvioni causate dal cambiamento climatico? Gli attivisti le hanno imbrattate? No, perché c’era sempre una lastra di vetro a proteggere i dipinti. Ecco, i giovani che protestano per il clima hanno ragioni sacrosante. Tutte le persone che stanno protestando fanno benissimo a farlo: chiedono un maggior impegno ai loro governi, chiedono la vivibilità del pianeta, per loro e per le future generazioni”. Fantastico. Sono convinto anch’io che il pianeta stia andando a ramengo. Al contrario di Mercalli ho però qualche dubbio sul tipo di “sensibilizzazione” che queste iniziative promuovono. Senza parlare poi del reale livello di consapevolezza e della coerenza comportamentale di chi le mette in atto.

Rassegne e rassegnazione 06Marzo 2024 – L’Università di Trento ha varato un nuovo regolamento. La novità è il femminile sovraesteso per le cariche e i riferimenti di genere. Si useranno “la decana”, “la rettrice”, “la professoressa”, “la candidata”, tutto declinato al femminile, anche se le persone indicate sono uomini.

Nel 2017 l’università di Trento aveva approvato un vademecum per un uso del “linguaggio rispettoso delle differenze”, con l’obiettivo di “promuovere un uso non discriminatorio della lingua italiana nei vari ambiti della vita quotidiana della comunità universitaria” come durante gli eventi pubblici o nel la produzione di testi amministrativi. Il nuovo Regolamento avrebbe dovuto essere scritto riferendosi ai gruppi di persone (studenti, docenti, eccetera) sia con il femminile che con il maschile. Questo secondo il rettore Deflorian avrebbe finito per appesantire eccessivamente tutto il documento e quindi, per “facilitare la fase di confronto interno”, gli uffici amministrativi avevano iniziato a lavorare a una bozza che conteneva solo femminili.

La demenzialità del tutto è stata denunciata proprio dalle rappresentanti femminili dei gruppi studenteschi. «Basta con la retorica vuota e paternalista che suggerisce che l’inclusione nelle università sia una questione di linguaggio. L’ambiente accademico richiede rispetto per l’intelligenza e la competenza di ogni individuo, indipendentemente dal genere […] L’uso del cosiddetto “linguaggio femminile sovraesteso” vuole essere un tentativo di compensare decenni di discriminazione di genere, tuttavia, potrebbe avere l’effetto contrario, finendo con il far sentire esclusi alcuni ragazzi e ragazze compromettendo quindi l’obiettivo di inclusione». Difficile sostenere il contrario. E ancora: «Riteniamo che porre l’accento in modo così esasperato sulla diversità sia esso stesso un modo per discriminare».

In Occidente c’è un’attività politica antagonista, ma si scioglie in questa specie di attivismo sostitutivo, nei confronti del resto del mondo e nei confronti del nostro passato. Alla fine, gioco di prestigio, la battaglia scompare, le cannonate non si sentono più e faccende come la lotta all’odio e all’intolleranza sul web sembrano importanti, persino coraggiose, per mancanza di termini di paragone.

L’asterisco e lo schwa, la comunicazione non ostile, genitore 1 e genitore 2, sono faccende irrilevanti e, quindi, non sono imboscate ideologiche tese ai valori e alla libertà. Sono, invece, un minuscolo sogno totalitario, inconsapevole e sfiatato, il passatempo di gente che gioca ai soldatini con la neolingua di Orwell e finisce per crederci.” (Claudio Chianese, Il linguaggio represso)

Rassegne e rassegnazione 07«Ogni nuova generazione di neonati è una invasione di barbari che invadono non dall’esterno, ma dall’interno e dal basso la società; la società ha il compito di educarli, disciplinarli, renderli civili prima che diventino adulti. Il che significa anche – soprattutto – fargli subire dei sacrifici e delle sconfitte esistenziali, in modo da far maturare i loro caratteri.

Ora, pensate a uno di questi piccoli mostri che entra in una società che si gloria di essere adulta e matura, di avere abolito ogni forma di “repressione”, che ogni giorno celebra la propria liberazione da tutti i pregiudizi, quindi da ogni gerarchia e di tutti i tabù moralistici, tipo l’antipatica distinzione fra “bene” e “male” (cosiddetti); dove i genitori prendono ogni cura per risparmiargli ogni “frustrazione”, ogni pressione dell’ambiente, tensione, sforzo e ogni dovere; scansano ogni ostacolo che si trovi davanti, vogliono essere suoi amici invece che suoi superiori. Lo mandano in una scuola che si vanta di essere “non repressiva”, di non bocciarlo mai e poi mai, che si sforza di “farlo divertire”, anzi prova a confondere il confine tra “studio” e “divertimento”; una scuola che sostanzialmente lo incita a “esprimere le proprie inclinazioni, ed opinioni”, ossia (a quello stadio) le proprie narcisistiche emozioni.

È inutile che vi dica come dovrebbe essere una società capace di civilizzare i barbari verticali, che sappia renderli virilmente adulti, continenti, cavallereschi, dotati di senso della dignità e dell’onore – ossia della vergogna di compiere atti bassi contro i più deboli. Inutile che vi canti le lodi del “controllo sociale”, del giudizio sociale che premeva su molti dei peggiori e li faceva essere meno pessimi; strillereste che voglio la società bigotta, insopportabilmente repressiva, ormai superata dal progresso e dalla libertà […].

È possibile che debba riconoscermi, sia pure in parte, sia pure con tutti i distinguo che vogliamo, in queste parole di Maurizio Blondet? Di uno dei personaggi più esecrabili della sottocultura complottista (gli ultimissimi pezzi comparsi sul suo blog titolano: Il grafene nel siero c’è, e serve ad hackerare l’uomo; Neonati uccisi e traffico di organi in Ucraina)? Dovrei chiedermi piuttosto come ci sono finito su quel blog, ma a questo ho una risposta immediata: Blondet aveva scritto a suo tempo Gli Adelphi della dissoluzione, praticamente sotto dettatura di un altro personaggio inquietante, Gianni Collu, che ho avuto la ventura di conoscere bene, e la cosa mi aveva incuriosito. Blondet di per sé non è nemmeno inquietante, è solo un paranoico (o uno squallido furbastro che specula sulla dabbenaggine diffusa) che vede poteri iniziatici e trame occulte ovunque: inquietante è invece il fatto che venga preso sul serio, non solo dallo stuolo di mentecatti che lo seguono, ma anche da coloro che lo combattono (e chissà perché, non mi meraviglia il fatto che il blog ospiti, tra gli altri, dei pezzi di Travaglio).

Ma questo è un altro discorso. La domanda era: perché mi sono riconosciuto in quelle parole, pur sentendomi distante anni luce dalle mefitiche esalazioni che circolano tra le righe? È presto detto: mi rode che come al solito un tema concreto, di evidente urgenza e rilevanza, in questo caso quello dell’educazione, venga lasciato cavalcare e snaturare e strumentalizzare a personaggi del calibro di Blondet, oppure venga trattato con la solita mielosa attitudine “buonista”. Mi cascano le braccia, ogni volta che le cronache raccontano episodi di bullismo o di violenza, per strada o nelle scuole, dei quali sono protagonisti bambini o adolescenti, al sentire psicologi e sedicenti educatori che sproloquiano di assenza di strutture, di specializzazioni, di attenzione, di stanziamenti, senza arrivare mai al dunque: al fatto cioè che le uniche vere assenze sono quelle di autorità e credibilità delle istituzioni, e di assunzione di responsabilità da parte di chi dovrebbe farle funzionare, a tutti i livelli.

La chiudo qui, per ora. Ma lo faccio proponendo un paio di altri piccoli stralci, questi recentissimi, nei quali Guia Soncini dice apparentemente le stesse cose di Blondet, ma per come le dice suonano immediatamente diverse. Non usa il “linguaggio femminile sovraesteso”, ma parla chiaro. Non si potrebbe ricominciare da qui?

Dicevo, il gruppo di madri di piccoli teppisti. Uno non voleva fare la doccia. Ma tipo costringerlo, come si è sempre fatto con tutti i bambini del mondo? Avessi suggerito di farlo al forno, si sarebbero indignate meno. Non capivo il trauma dell’acqua. Non capivo i bisogni del bambino. Ero praticamente la Franzoni.

Tempo fa Minnie Driver ha raccontato a Conan O’Brien che i bambini americani sono molto maleducati a tavola, e per lei è inconcepibile perché ha avuto un’educazione inglese e insomma, ha rassicurato i presenti e la madre dietro le quinte, non dico che mi menassero, ma se mi comportavo male al ristorante mi portavano in macchina e mi lasciavano lì chiusa finché loro non finivano di cenare.

Oggi se lasci un figlio in macchina scoppia un casino non dico pari a quello che ti toccherebbe se osassi lasciar solo un cane, ma insomma la potestà genitoriale secondo me te la levano, e qualcuno che per strada ti riconosce e ti sputa come fossi il simbolo d’ogni immoralità lo trovi. È perché i bambini in cent’anni sono passati da gente abbastanza piccola da esser mandata nelle miniere a creature sacre, certo.” (da linkiesta.it, 11 marzo)

Giornate di stremanti interrogativi per gli ufficialmente adulti che, pur di non crescere, sono determinati ad avere un rapporto alla pari coi figli, figli ai quali non s’è completata la mielinizzazione del cervello ma lasciamo stare i termini scientifici: quel che è importante è dar loro il diritto di voto anche se non sanno allacciarsi le scarpe.

Dunque abbiamo da una parte un sedicenne che accoltella una professoressa, dall’altra una undicenne che lascia un commento a Chiara Ferragni su Instagram. Poiché non sappiamo come giustificare il primo – certo, possiamo dire che non l’abbiamo ascoltato abbastanza, ma ecco, l’accoltellamento appare comunque difficile da inserire nella nostra lettura “i giovani hanno sempre ragione e c’insegnano la vita” – decidiamo che il problema è la seconda.

Adulti perlopiù scemi ma in qualche caso persino normodotati si aggirano per i social chiedendosi con aria dolente “cosa ci fa una undicenne su Instagram, non ci può stare, non è giusto che ci stia”. Le loro figlie avranno come minimo un OnlyFans su cui fanno vedere il contenuto delle mutande, senza che i genitori se ne siano mai accorti, ma non è neanche questo l’importante. […]

Se provi a dire che tutto ciò non è sano, vieni accusata d’invocare il ripristino delle punizioni corporali, punizioni corporali che peraltro nessuno di coloro che partecipano al dibattito ha conosciuto: siamo andati a scuola in anni in cui nessuno ci bacchettava e si cominciava persino a dar del tu alle maestre; ma, se oggi qualcuno osa dire che no, i sedicenni non hanno capito il mondo meglio di noi, non foss’altro perché non hanno avuto il tempo di capirlo, allora i giovanili, gli alleati dei giovani, gli interiormente sedicenni si poggiano il dorso della mano sulla fronte e sospirano: ah, quindi vuoi il ritorno del libro Cuore. (da linkiesta.it, 4 aprile)

Magari! Farebbe senz’altro meno danni delle diagnosi di “disturbo oppositivo provocatorio” o di “disforie di genere”.

Rassegne e rassegnazione 087

Lingue, sudore e metrica

di Carlo Prosperi, 2 marzo 2024

(Pubblichiamo un contributo inviatoci recentemente da Carlo Prosperi. Non avrebbe bisogno di alcuna presentazione, più chiari di così è impossibile, ma consideriamo parte integrante del testo anche le parole che lo accompagnavano, e pertanto le premettiamo.)

Caro Paolo,
in attesa di mandarti alcune mie considerazioni sull’A. I. e sugli ultimi sviluppi della tecnologia macchinistica e robotistica, ti invio – se pensi che possa interessare – l’introduzione da me scritta all’ultima antologia (uscita tre o quattro anni or sono) dei vincitori del Concorso Guido Gozzano di Terzo. Ho provveduto a qualche ritocco e, comunque, se vuoi, puoi tranquillamente pubblicarla. Puoi considerarla una prefazione, poeticamente orientata, a quanto mi riprometto di scrivere sull’infatuazione forsennata per la tecnica (e la tecnologia): un’ulteriore tappa della folle corsa di un’umanità di piromani che gioca con una rivoluzione sociale, culturale e filosofica di cui s’ignorano i confini. O, se preferisci, un viaggio a fari spenti nella notte per vedere se sia poi davvero così difficile morire, come nella nota canzone di Lucio Battisti. La macchina, che – a dire di Spengler – ha preso il posto di Dio detronizzato e morto, prima o poi si sbarazzerà dell’uomo, il quale già vive con il timore di stare qui per caso, senza uno straccio di ragione, in balìa di un Lord of game imperscrutabile, “che gioca a dadi o a nascondino”. Pensa alle masse analfabete in fatto di informatica e di elettronica (nel numero mi ci metto anch’io, per primo) alla mercè dei pochi sapientes tecnocrati … Ti dicono che, con lo sviluppo dei robot, aumenterà il tempo libero, ma anche questa prospettiva mi spaventa: ti immagini le masse spaesate dal tempo libero che cercano sfogo nei vizi, rimbecillendo, o, peggio ancora, nelle contese sportive o politiche, negli scontri tra opposte fazioni, come accadeva nella Roma del primo secolo a. C., quando le bande fanatiche di Clodio e Milone si massacravano in una sorta di guerra civile? Ma non voglio, per ora, anticipare i tempi. E mi fermo qui. Augurandoti una rapida ripresa. Un abbraccio, Carlo.

Lingua, sudore e metrica 06

Lo stato dell’arte

Presero alcuni a invilupparsi dentro
ragnatele di versi senza capo
né coda, coltivando un metro sciapo,
persuasi della perdita del centro.

Altri, scioccati dalla malattia
dell’anima, smarrirono ogni fede
nella parola e piede dopo piede
sconfinarono, ahimè, nell’afasia.

Non più che balbettìi e borborigmi
udivi uscire dalle loro labbra:
qualche sillaba storta, qualche scabra
reliquia degli antichi paradigmi.

Altri ancora lucravano sul corpo
dell’arte vilipesa ed il cadavere
straziato e pesto dalle loro clave
defraudavano d’ogni regia porpora.

Per altri infine era ludibrio e gioco
l’arte dei versi: non più soglia mistica,
ma frigido esercizio di enigmistica,
cervellotico show e fatuo fuoco.

Aura non v’era più, non più profumo
d’ambrosia auliva dalle dirute are:
lassù un miraggio di stella polare
sprofondava in un vortice di fumo.

Ma rima dopo rima, Pollicino
testardo, senza indulgere ai sinistri
presagi o al suono futile dei sistri,
proseguìi tutto solo il mio cammino.

Sapevo che ad attendermi là fuori
del bosco c’era la mia casa, il noce
che l’adombrava: udivo già la voce
querula di mia madre nei canori
versi dei merli, nei loquaci ingorghi
dei ruscelli. Le tracce erano vaghe:
segni sui tronchi di vetuste piaghe,
frusci di vento, fremiti di sorghi.

Ma la mia fede era inconcussa: l’eco
che mi vibrava dentro nei precordi
(o forse la risacca dei ricordi?)
mi era di guida nell’intrico cieco.

Cantavo dunque contro le paure,
fedele alla mia Musa, ai miei princìpi,
senza nutrirmi di vivande insipide
e senza abbeverarmi ad acque impure.

Sarà per questo che per qualche grazia
del cielo avverto prossima la meta
dove sgorga la polla che disseta
e nevica la manna che mi sazia.

Lingua, sudore e metrica 02

Era il 2011: due lustri or sono. Tiravo allora le somme degli ultimi decenni di poesia, anche nel tentativo di dar conto della mia personale poetica. Ebbene, nel frattempo mi sembra che le cose siano in parte cambiate e che vadano tuttora cambiando, e proprio nel senso da me allora auspicato. I giovani poeti, per quanto almeno mi è dato giudicare dalla mia specola di presidente del Premio Guido Gozzano di Terzo, sia pure a fatica, si vanno via via affrancando da certi vieti condizionamenti del passato che rischiavano di portarli ad incagliarsi tra le secche dell’afonia, se non dell’afasia, o a perdersi nei più insulsi e insensati blateramenti in nome o con la scusa dei più arditi e talora ignobili sperimentalismi. Ah, le seduzioni della modernità e dei cattivi maestri che hanno invitato a fare tabula rasa della tradizione ed insegnato a «ribellarsi alle regole, dando prevalenza al gesto, alla libertà sconfinata dell’io dell’artista-demiurgo capace, con il proprio comportamento creativo, di rovesciare ogni precetto»! La poesia, come in generale l’arte, è «una meravigliosa costrizione con regole stabili, come le migliori partite di scacchi che si svolgono per forza sulla scacchiera e non fuori da essa, pur con mosse geniali» (Alzek Misheff). Diceva giustamente Auguste Rodin: «L’arte viva è un proseguimento di quella del passato». Non nel senso della ripetizione, ma della continuità. La tradizione non è un fossile, ma un modello dinamico. Un punto di riferimento per chi voglia andare oltre.

Lingua, sudore e metrica 03

Si è parlato per molto, troppo tempo di crisi dell’io, della sua irrimediabile dissoluzione. Tutto è cominciato con la fine dell’antropocentrismo e la scoperta delle screpolature nel cielo di carta sopra di noi. Nessuno può più mettere in discussione la rivoluzione copernicana, che ha fatto della Terra un atomo insignificante nell’economia dell’universo. E, venuta meno la centralità della Terra, anche le sorti dell’uomo hanno subito un’analoga destituzione. «Ormai – dice il pirandelliano Mattia Pascal – noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre scoperte e invenzioni; e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai, le nostre». Lo svilimento dell’uomo è quindi proseguito con la scoperta che anche l’io, lungi dall’essere un’unità più o meno armonica ovvero “un continente”, è in realtà “un arcipelago”, di labile e precaria consistenza. La stessa esistenza individuale si è rivelata «un relitto alla deriva nel mare della storia e nel flusso della corrente psichica» (Claudio Magris). Stando così le cose, c’è chi ha avvertito l’esigenza di abolire o di superare i tradizionali confini dell’io umanistico per approdare al nuovo modello antropologico dell’“oltre-uomo” e chi per contro ha preteso di accelerare e di incentivare la disgregazione dell’io, senza risparmiarne le espressioni culturali, a cominciare dal linguaggio. Di qui le elucubrazioni, spesso sofistiche e fumose, di maîtres à penser come Guattari, Deleuze, Foucault, Lacan, Derrida: tutti impegnati in un’opera tanto forsennata quanto gratuita di decostruzione e di disgregazione. In nome del caos. Puro masochismo a volte, a volte manifestazione di squisito e compiaciuto narcisismo. In ogni caso, forme luciferine d’intelligenza.

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Non si vuole con ciò negare o mettere in dubbio che ci sia molto di vero in tutto questo. Ma che senso ha indulgere in tal modo – in un accesso di cupio dissolvi – a Thanatos, assecondare il principio di morte e di distruzione, di suo già così attivo e pervasivo? E perché complicarsi oltre modo la vita? Ecco, in quegli anni è mancata una reazione positiva: pochi hanno davvero sentito l’esigenza di opporsi a tale deriva, di contrastare tanta disgregazione, di imporre cioè un ordine e un controllo, questi sì umani, ai disiecta fragmenta che ne conseguivano. È mancato chi difendesse le ragioni di Eros. E dell’uomo. Perché non si deve dimenticare che, con tutti i suoi limiti, l’uomo resta pur sempre misura di tutte le cose. Senza l’uomo non ci sarebbe né etica né estetica. L’umanesimo può – deve! – essere pertanto recuperato in forme nuove, che potremmo dire leopardiane, perché proprio ne La ginestra trovano la loro enunciazione più alta e limpida. La dignità dell’uomo non consiste nel suo sentirsi “signore e fine” del Tutto, bensì, al contrario, nella consapevolezza della sua miseria, nel «poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità de’ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’è minima parte d’uno degl’infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero dell’immensità delle cose, e si trova quasi smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere e intender cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose». È prerogativa dell’uomo quella di essere «autocoscienza del cosmo» e la sua stessa infelicità è indizio della sua «capacità d’infinito». «Tutto [infatti] è o può essere contento di se stesso eccetto l’uomo, il che mostra che la sua esistenza non si limita a questo mondo, come quella dell’altre cose». C’è, insomma, nell’uomo – che è pascalianamente «una canna», ma «una canna pensante» – un’esigenza di senso che non sempre trova corrispondenza nella realtà. Che tocca a lui soddisfare. Senza pretese di sostituirsi a Dio, ma ordinando il mondo, foss’anche solo il suo piccolo mondo, orientando per quanto possibile la propria vita secondo la propria volontà o cercando comunque in essa e nella realtà che lo circonda una qualche coerenza, le tracce di un disegno, le spie magari di un’oltranza, di una possibile armonia. Oltre il caso e il caos, così da sentirsi «una docile fibra dell’universo».

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Questo è compito dell’uomo faber e di quel faber sui generis che è il poeta. Ma per fare questo bisogna essere dei costruttori, non dei distruttori. E visto che la poesia è fondamentalmente una lotta con l’angelo, non è detto che l’esito ne sia sempre positivo. In tal caso, però, il poeta potrà esprimere il proprio disagio o l’angoscia che nasce dai suoi sforzi frustrati. Dovrà comunque essere compos sui e sapere organizzare i molteplici e dissonanti nuclei psichici che, almeno provvisoriamente, compongono la sua unità individuale. Perché la poesia sarà anche un sogno, ma è sempre «un sogno fatto in presenza della ragione». Voglio dire con questo che la poesia è essenzialmente forma, struttura, metrica. E mi sembra che in questi ultimi anni, sia pure con soluzioni e con spiriti diversi, si vada in questa direzione. Rinunciando alla pretesa della novità ad ogni costo, alle provocazioni per partito preso, alle manie incendiarie ispirate dalla sindrome di Erostrato. Nel solco di una tradizione finalmente non più intesa come un ingombro, ma come un faro che agevola il cammino. «Dove il passato non getta più la sua luce dinanzi a sé – diceva Alexis de Tocqueville – lo spirito dell’uomo vagola nelle tenebre».

Prega coi lupi

ebdomadario logodi Nicola Parodi e Paolo Repetto, 23 febbraio 2024

Nella parrocchia di Forno, in Valle Strona (provincia del Verbano-Cusio-Ossola), il giorno di San Valentino non si celebra la festa degli innamorati, dei fiorai e dei produttori di cioccolatini, ma la “messa del lupo”. È un rito che risale ufficialmente a più di due secoli e mezzo fa (pare attestato per la prima volta nel 1762), e rientra in un’articolata liturgia cattolica di processioni propiziatorie e di funzioni esorcistiche (le rogazioni), diffusa soprattutto nelle comunità rurali. In realtà le origini di questi rituali apotropaici vanno fatte risalire molto più addietro, al mondo pagano, nel quale ad esempio venivano officiate le Ambarvalia, processioni aventi lo scopo di propiziare il buon esito dell’annata agraria. Insomma si tratta di usanze che rispondevano al bisogno delle popolazioni di credere in una protezione divina contro le calamità, naturali e non. Il primo cristianesimo, quello “di lotta”, aveva cercato di invano di sradicarle, fino a quando la Chiesa, ormai “di governo”, aveva realizzato quanto fossero necessarie e funzionali alla propria affermazione, e si era affrettata a recuperarle cambiando semplicemente le etichette e le divinità di riferimento. Per avere un’idea di quanto questa operazione abbia funzionato, basta ricordare che le rogazioni hanno continuato ad essere regolarmente celebrate anche dalle nostre parti fin dopo il concilio vaticano secondo, conservando addirittura il formulario più antico (non si chiedeva a Dio di liberare soltanto a fulgure et tempestate, ma anche a sagittis hungarorum – e dopo i recenti screzi ungheresi non è detto che quest’ultima formula non torni attuale). D’altro canto, bisogna ricordare che nelle nostre montagne, e non solo, sopravvivono ancora diverse manifestazioni (sia pure ridotte ormai a specchietti per il turismo) che prevedono lotte e scontri tra mascheroni di animali totemici.

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Bene, questo è quanto di fatto accade, Il che non costruirebbe nulla di nuovo. e potrebbe essere al massimo rubricato nel recente revival di madonne che piangono e parlano e di sette che praticano esorcismi e di interferenze religiose e superstiziose in una quotidianità del sentire sempre più povera. Non fosse per due circostanze particolari: che il rito ha coinciso, sia pure non volutamente, col primo caso da più di un secolo in Europa di un essere umano sbranato dai lupi, e che contro il parroco officiante è stata presentata da una associazione ambientalista e animalista locale una denuncia “per istigazione all’uccisione di animali selvatici e per maltrattamento di animali ai sensi dell’articolo 544 del codice penale”. È ipotizzabile che tra le due cose esista una correlazione, che cioè gli ambientalisti abbiano attivato una strategia di attacco preventivo, sapendo quanto la notizia avrebbe colpito l’opinione pubblica, e si siano mossi su piani diversi di intervento: “Abbiamo scritto al vescovo di Novara – recita un loro comunicato – per chiedere un intervento immediato e porre fine a questa idiozia pericolosa. Una messa con annesso un rito di esorcismo contro i lupi e per il loro abbattimento è roba da psichiatria”.

Ma non è finita qui. Dal momento che le disgrazie e le puttanate non viaggiano mai sole è arrivata tempestiva anche la presa di posizione di due esponenti della Lega, un europarlamentare e un consigliere regionale, che si sono immediatamente autoinvestiti del ruolo di paladini del parroco, del cristianesimo e della tradizione popolare indigena. Non perdendo naturalmente l’occasione per sparare minchiate. “La messa ovviamente non è contro il lupo – ha detto il primo – ma è un rito per la protezione del gregge e dei pastori, quindi non istigazione all’odio, ma la preghiera di una pacifica convivenza. La celebrazione, ripetuta dal 1762, ha l’obiettivo di chiedere la protezione divina contro gli attacchi del predatore, invocando in particolare l’intervento di San Valentino, la cui reliquia è conservata nella chiesa”. Visione francescana, verrebbe da dire.

Ora, si potrebbero liquidare con un sorrisetto di compatimento tutti i protagonisti della vicenda, non fosse che a furia di sorrisi di compatimento siamo ormai ostaggio costante dell’imbecillità e della malafede. Vale quindi la pena soffermarsi un attimo a riflettere su quali sono le forze in gioco e in che modo finiscono per tirare in mezzo alle loro scemenze anche tutti noi.

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Cominciamo dal rito. Nel 1762 la scienza già aveva capito come si potessero controllare le malattie e quali fossero le cause delle varie calamità: ma si può concedere che stanti le condizioni di vita su quelle montagne (e non solo) ciò arrecasse scarsa consolazione alla popolazione, e che dove i lumi della ragione non erano ancora arrivati la Chiesa continuasse a supplire con i soliti mezzi. I vaccini, i sieri, le penicilline, gli interventi di prevenzione di calamità varie sono arrivati dopo, mentre nel frattempo i lupi e gli Ungheri se ne sono andati (le tempeste di grandine e le alluvioni però no). La Chiesa, che in genere si adegua ai mutamenti con qualche secolo di ritardo, in questo caso ha visto lontano, lasciando che certi rituali sopravvivessero, perché quel che accade attorno dimostra come lo sfruttamento dei fattori emozionali funzioni sempre, e anzi, in questo periodo di incertezze e di sbandamento sia quanto mai redditizio. In realtà, nel nostro caso specifico è persino accettabile che il parroco puntasse più ad utilizzare un’emozione legata ad un’antica tradizione piuttosto che a istigare una autentica paura del lupo. In fondo, la funzione ultima dei riti vari di tutte le religioni resta comunque la suggestione dei fedeli. Vien da dire che la chiesa in questo caso fa il suo mestiere.

Più preoccupante è l’atteggiamento di quel movimento ambientalista che denuncia il parroco per una messa. Le motivazioni serie per sostenere posizioni ambientaliste ci sono, e sono fondate sulla scienza, che ci illustra come tutte le forme di vita abbiano pari dignità e siano legate da relazioni e forme di interdipendenza complicate e sofisticate, e dimostra che ogni modifica dell’equilibrio esistente crea scompensi e crisi con effetti imprevedibili. Dovrebbero essere queste considerazioni razionali a spingerci a ritenere funzionalmente giusto l’evitare di cacciare o di pescare troppo, o di spargere veleni che danneggiano animali e piante; a guidarci insomma nella ricerca di modalità di coesistenza le più equilibrate possibile tra le diverse forme di vita. Ma questo comporta il rifiuto di ogni integralismo. Va tenuto presente come funziona quel meccanismo di lotta fra prede e predatori che a volte viene definito “corsa agli armamenti evolutiva”: che esiste in natura e che, certo, in presenza di una specie che quanto ad armamenti ha già stravinto, va governato con criteri “culturali”. È comunque del tutto naturale che anche l’uomo abbia sempre tentato di evitare di diventare una preda, e che lo diventassero gli animali che allevava con fatica. E non risulta che qualche ambientalista si sia mai volontariamente messo a rischio di diventare preda di un branco di predatori affamato. La tecnologia ha offerto senza dubbio agli umani un vantaggio sproporzionato, e spesso ha fatto loro credere di avere licenza di uccidere: confondere però la celebrazione di un rito religioso con una istigazione allo sterminio di altre specie denota una visione tutt’altro che “naturalistica” della natura, legata a un sistema di credenze basate su un fanatismo simil-religioso, piuttosto che su solide convinzioni scientifiche. Rivela che siamo di fronte ad uno “scontro di inciviltà”.

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Quanto ai politici intervenuti, non c’è molto da dire. Visto che almeno in teoria prendono parte a decisioni riguardanti la nostra salute e la protezione da calamità naturali, dobbiamo sperare che non siano spinti da contorsionismi mentali tipo “no vax”, e che non considerino una funzione religiosa più efficace delle misure dettate dalla scienza. Ma è difficile dare loro credito persino di una cosa del genere. È molto più realistico pensare che si siano buttati a capofitto sull’accaduto per racimolare voti e un minimo di visibilità.

Riassumendo. La vicenda potrà sembrare oltre che stupida assolutamente banale, e meritevole di nemmeno un centesimo dello spazio che le abbiamo riservato. Ma occorre fare attenzione, perché è solo una tra le migliaia di altre simili che occupano totalmente lo spazio dell’informazione, e perché ci conferma che siamo ormai ostaggi di un cretinismo irrazionale che ha rotto ogni argine e dilaga in ogni aspetto della nostra quotidianità. Contro il quale, purtroppo, non valgono né rogazioni né esorcismi né terapie scientifiche. Non rimarrebbe che il silenzio, una “damnatio stultitiae” applicata in tempo reale. Ma non funziona più. Nella società dello spettacolo siamo ormai noi quelli condannati a minoranza silenziosa.

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Sfatare un mito: Atene è brutta!

ebdomadario logodi Vittorio Righini, 17 febbraio 2024

Mi si conceda un leggero intervento (meglio, un intervento leggero) in mezzo alle riflessioni più impegnate che compaiono qui sui Viandanti. Intanto siamo appena usciti da Sanremo (che ho evitato come la peste, al contrario di mia moglie, che sabato notte è stata sveglia sino alle quattro, e al mattino sembrava effettivamente una maratoneta al traguardo), e l’uscita dal tunnel mi induce appunto ad essere molto leggero, e a proporre riflessioni che mi ronzano nelle orecchie da un po’.

Tutto ha origine un giorno di oltre 20 anni fa, su un volo Milano-Atene. Nella fila di coda c’era un tipo che andava in vacanza a fine estate, e aveva cooptato alcuni conoscenti che se lo sarebbero sorbito per una o due settimane. Nella consapevolezza di essere il capo comitiva, ragliava ai subalterni: “Ricordate, ad Atene visita all’Acropoli da toccata e fuga e poi via, che la città fa schifo, e tutti a Santorini e poi a Mikonos”! Pensavo che il gregge fosse del suo livello, cinquantenne bancario palestrato, ma mi sbagliavo; c’era anche gente normale meno giovane. Le ruote si erano appena posate sulla pista che il tipo era già in piedi (quelli che hanno paura di volare di solito fanno così), aveva recuperato lo zaino e tentava, nonostante la riprovazione delle hostess e degli altri passeggeri, di raggiungere la porta di sbarco anteriore, senza darsela che ci avrebbero fatto scendere anche da quella posteriore. Quale occasione migliore per uno come me: mi sono girato verso lo sparuto gruppetto, e ho detto loro: “Siete in cattive mani, con quel tipo; Atene è bella, ricca di piacevoli sorprese e di tanta umanità, e si mangia bene; al contrario di Santorini e Mikonos, dove sarete in mezzo a file di cinesi ad ammirare il tramonto e mangerete molto male. Scusate se mi sono permesso, e buona fortuna”.

A quel punto ho puntato l’uscita posteriore e mi sono defilato, ma il dubbio si era insinuato in quelle menti, ne sono sicuro. Fuori dall’aerostazione ho incrociato il gruppo, e un tizio della mia età mi ha guardato e mi ha fatto ciao con la mano. Avete presente in Perfect Days il bambino che nei bagni pubblici di Tokyo saluta Hirayama con la manina? Ecco, così.

Nella penultima Pasqua greca che ho trascorso a Creta (quella del 2022) mi è successo un fatto analogo: un passeggero al mio fianco spiegava alla moglie che era una fortuna che il volo fosse quello diretto da Milano ad Hania e non facesse scalo ad Atene, tanto là non c’era nulla da vedere, a parte l’Acropoli che già avevano vista. Mi è sembrata una curiosa coincidenza, al di là del fatto che per andare a Creta anch’io preferisco fare un volo diretto, ma non certo per evitare Atene; e poi quella era la moglie, non un gregge di sprovveduti. Così mi sono fatto gli affari miei ed ho taciuto.

In questi giorni ho letto Atene nel Metrò, di Petros Markaris. Questo anziano scrittore è conosciuto per i romanzi del Commissario Charitos, ambientati appunto ad Atene. I primi episodi della serie sono piacevoli, abbastanza originali, e hanno portato una ventata di aria nuova, anche un po’ balcanica, nell’ambiente del romanzo giallo. Negli ultimi tre o quattro racconti invece l’autore ha smarrito l’ispirazione, le storie sono improbabili e da evitare.

Sgatare un mito Atene è brutta 02Di padre armeno, di madre greca, Markaris è nato nel 1937 a Costantinopoli – pardon, Istanbul. Nascere armeno-greco in casa dei turchi non dev’essere stata la migliore delle opzioni. Considerato un apolide fino alla caduta del regime dei Colonnelli, era riuscito a rientrare in Grecia solo nel 1964 ed è diventato un cittadino greco dieci anni dopo. Questo suo Baedeker è basato sulla descrizione di tutto il tragitto dell’Ilektrikò, trenino elettrico appunto, una sorta di metropolitana che viaggia prevalentemente in superficie, inaugurato nel 1869 e poi successivamente ampliato con nuove tratte, che dal porto del Pireo raggiunge a nord Kifisià, il quartiere più ricco di Atene, in ventiquattro fermate. Markaris si sofferma sui quartieri più interessanti, quelli dove è rimasta qualche traccia del passato, che spesso sono i quartieri degli immigrati, quegli stessi greci che nel 1922 furono cacciati dalla Turchia e mal accettati ad Atene. Costoro avevano ben presente il significato di possedere una casa, e infatti le successive generazioni hanno tenuto in piedi più o meno decorosamente le vecchie dimore costruite nella capitale con la prima immigrazione, mentre i greci, gli Elleni, hanno accettato la politica della permuta, e hanno rovinato l’immagine della città. La permuta, sostenuta dal governo di allora, guidato per molti anni dopo il 1974 dal PASOK, consisteva in questo: chi aveva una villetta con un pezzettino di cortile o giardino li permutava con uno o due appartamenti nei palazzoni tutti uguali che gli speculatori stavano edificando in quella zona, e dava il suo contributo ad imbruttire le vie e i viali di interi quartieri. Naturalmente la qualità di quei condomini era modesta, e oggi sono fatiscenti oppure sono già stati abbattuti e sostituiti da edifici moderni, perlomeno più funzionali.

Tutto ciò non impedisce ad Atene di conservare alcune zone davvero belle da vedersi e da vivere: zone in cui la cura della casa è evidente, la collaborazione col vicinato indispensabile per una vita dignitosa, l’assistenza e lo scambio di umanità una cosa normale; dove si possono ancora trovare vecchie taverne e bar, pur in costante diminuzione, e vecchi negozi, in via di essere scalzati dai supermarket, che le rendono comunque meritevoli di una visita, scendendo a una delle fermate dell’Ilektrikò.

Ora non sto a suggerire un quartiere piuttosto che un altro, è tutto scritto chiaramente nel libro di Markaris; ma io ho provato a visitare in parte alcuni dei luoghi che lui segnala, e ho provato davvero sensazioni simili a quelle descritte nel libro. Le mescite con cucina, per esempio, anche queste sempre più rare, ma se ne trovate una non mancate; il mio amico ateniese me ne ha fatta scoprire una in mezzo a un dedalo di viuzze del Pireo, dove non saprei tornare nemmeno col GPS. Di giorno è un negozio di alimentari, nemmeno troppo fornito. La sera si uniscono i tavoli, ci si siede e si mangia quello che è rimasto nel negozio, con un bicchiere di retsina o, spesso, di asprò (vinello terribile, con una punta finale di acidità che qui in Piemonte sarebbe da Codice penale), mentre, dulcis in fundo, qualcuno canta e suona un vecchio rebetiko con un bicchierino di ouzo a fianco.

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Il rebetiko merita una pagina a parte: ho scritto vecchio perché non è antico, ha circa un centinaio di anni. È nato come forma di canzone che prevedeva nostalgia, amori complicati, racconti di vendette o della patria lontana, tra un bicchiere di retsina (quella vera, non quella di oggi) e una boccata di hashish, che ai tempi era permesso. Si canta accompagnati da un bouzouki, simile a un grosso e lungo mandolino (sotto i colonnelli era vietato portare il bouzouki in taverna o nelle cantine: allora i liutai inventarono il baglamas, un mini bouzouki sottile e lungo meno di 50 cm., sempre tricordo, così da poterlo nascondere sotto la giacca); ma possono esserci anche altri strumenti di accompagnamento, prevalentemente cordofoni.

Sgatare un mito Atene è brutta 04Vinicio Capossela, che ha pubblicato nel 2012 un album dedicato a questo genere, ha detto “Il rebetiko mi è sempre piaciuto perché fa male, perché è una musica che non ti vuole rendere migliore, ma solo te stesso. Ha una carica eversiva, si ribella a tutto quello che finisce per occultarci a noi stessi”. Una musica che andava presa sul serio. Per esempio, a volte si alzava un ballerino, che chiedeva di ballare uno zeibekìko: quello era un ballo solitario, nessuno poteva parteciparvi, perché era un mezzo per esprimere il proprio dolore, la sofferenza o la nostalgia. Ai tempi del regime, due poliziotti, per offendere un ballerino che era un simpatizzante di sinistra tenuto sotto controllo, ed era sceso sulla pista da solo, si misero a ballare al suo fianco e lo schernirono. Il giorno dopo erano entrambi morti.

Ricordo che una sera ero entrato ad ascoltare musica con un amico ateniese, ed ero stato colpito da un brano particolarmente orecchiabile. Gli chiesi di tradurmi in sintesi il testo, che in sostanza diceva così: “Lavoro tutto il giorno come una somaro, arrivo a casa la sera che riesco appena a mangiare tanto sono stanco, e mia moglie, che sta in casa tutto il giorno, comincia a lamentarsi che manca questo, manca quello, questo non va bene, l’altro non va bene… così, da qualche giorno mi sto chiedendo: ma chi me l’ha fatto fare di sposare una così”?

Certo è un ragionamento che non fa una piega. Come dargli torto.

Oggi il rebetiko è considerato Patrimonio Mondiale dall’Unesco, e una visita ad Atene rende d’obbligo entrare in una taverna dove lo si suona: ma state pure tranquilli, con gli euro al posto delle dracme anche i ballerini solitari si sono dati una calmata.

I palazzi sontuosi che costeggiano i grandi viali mostrano evidente l’influenza del modello architettonico berlinese di Ludwig Hoffmann. La ristrutturazione urbanistica voluta dal sindaco Mercouris nel 1908 ha cambiato il volto della città, e consente ancora oggi lunghe passeggiate in mezzo ad edifici eleganti come se ne trovano in molte altre capitali europee. Poi, di colpo, sul lato compaiono un vicolo, un acciottolato, case basse in mattoni e intonaco screpolato, il cortile di una vecchia taverna coi tavolini tutti sgangherati, un negozio di casalinghi, con scope di saggina e articoli in legno, il piccolo atelier di un pittore locale e un negozietto di LP usati. Un angolo di Costantinopoli.

Di fronte al mercato alimentare coperto, a metà della via Athinas, c’è una piazzetta con banchi di frutta, olive e chincaglieria usata, e in un angolo c’è una taverna, che da fuori non si individua se non lo si sa prima. Si scendono dieci pericolosissimi scalini, aggrappati al corrimano, e si entra in una vecchia cantina. Il pavimento è di un colore indefinibile, i tavolini in legno coperti da tovaglie di carta a quadretti non hanno una gamba uguale all’altra. Sul muro di fronte troneggia una fila di vecchie botti, spero vuote. L’oste è una vecchia sagoma che parla solo greco, ma capisce benissimo se provi a sfotterlo in un’altra lingua. Ti fa segno di avvicinarti e ti mostra dal vivo il menù: due gavettoni da caserma, una minestra di ceci, una di fagioli, eccezionali entrambe. Scegli e ti siedi, poi di secondo arrivano fresche sardine alla griglia. Vino asprò, tiepido. 18 euro. Voi direte: ma chi te lo fa fare: beh io ci torno tutti gli anni, ci ho portato anche Paolo e sua moglie. C’è vita, in quella cantina, storia, tradizione, e i piatti sono buoni. Certo, la zuppa di ceci ad agosto non è il massimo, e no, non c’è la 626, ma pazienza, purtroppo prima o poi arriverà.

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La vecchina che vende fazzolettini di carta sulla scala che scende all’Ilektriko ha il vestito nero e il fazzoletto in testa, tipici di chi è immigrato dall’Asia Minore, dal Ponto, dalla Città (così chiamano Istanbul gli anziani greci). Le dai due euro e dici: “Tenga i fazzolettini, non ne ho bisogno”, ma lei si risente e risponde: “No, lei ha pagato e lei deve prendere un pacchetto”. Il blasone della povertà. Un musicista all’angolo della strada suona il bouzouki, le monete vanno nella custodia. Mi fermo sempre e do sempre qualcosa a chi suona, l’ho sempre fatto, anche sulla metro di Milano, perché è comunque tutta gente che in cambio di un’offerta ti dà musica. Trovo anche una ragazza che suona l’hang (l’hang è una specie di tamburo a mano in acciaio, accordato) e intreccia melodie armoniose e rilassanti; mi fermo mezz’ora, acquisto il suo cd autoprodotto, vorrei portarla a cena con la scusa che potrei essere suo padre (chi ha pensato nonno, peste lo colga), ma viene a prenderla il suo ragazzo, un bulgaro, pare. Entro in un negozio di dischi, in una galleria sotto un palazzo che secondo me potrebbe crollare da un momento all’altro e distruggere tutti quei vinili; compro un introvabile Vangelis Papathanassiou con Irene Papas a 14 euro: l’ho cercato per anni.

Sgatare un mito Atene è brutta 06Salgo al mio alberghetto (salgo è la parola giusta, odòs Emmanouil Benaki è una mulattiera in salita) sotto il Licabetto, poso gli acquisti e vado a piedi in un attimo al parco Lofos Strefi, dove in una taverna sotto gli alberi mi gusto birra e agnello alla griglia, euro 13,50. Il giorno dopo torno al Museo Benaki, forse il migliore ad Atene: c’è la mostra fotografica di Joan Eyre Monsell, lady Leigh Fermor, e compro il suo libro, perché mi rendo conto che la Musa era anche una brava fotografa.

Il giorno dopo prendo l’Ilektrikò e scendo (cioè vado verso sud) al Pireo. Mi fermo al Margaro, una taverna che ha tavoli sotto un bersò, dove fanno sempre e solo le stesse cose: gamberi, triglie e insalata greca, locale aperto dalle dieci del mattino alla mezzanotte.

La sera scendo a piedi dall’albergo, imbocco un viottolo pedonale ricco di alberi (Methonis) ed entro nella Taverna del Professore, perché sento suonare. Bevo birra, ascolto musica e parlo in italiano col Professore, un piccoletto anziano coi baffi che ha studiato a Roma, ed è finito quasi per caso nel 2018 in uno speciale del TG3 sulla musica e sulle taverne di Atene.

Quindi sfatiamo il mito, Atene è tante cose, belle e brutte, e merita sempre un’attenta visita.

P.S.: se volete visitarla con l’aiuto del Baedeker di Markaris, devo darvi un’avvertenza: l’autore, già nei romanzi polizieschi, è fissato coi nomi delle vie; si perde in descrizioni delle code che subisce in auto durante le sue indagini. È ovvio che, in un Baedeker come Atene nel Metrò debba per forza usare una valanga di nomi di vie, viali, piazze, e questo rende la lettura un po’ pesante. Insomma, è un libro per greco-compulsivi, greco-completisti o greco-fissati, categorie di cui sono un degno rappresentante.

Fuori quota

ebdomadario logodi Paolo Repetto, da uno spunto (o da una spinta) di Nicola Parodi, 10 febbraio 2024

Con una sentenza del 2022, della quale sono venuto a conoscenza solo recentemente, la Corte Costituzionale ha stabilito che anche nei comuni con meno di cinquemila abitanti va rispettato l’articolo 51 della Costituzione, quello che recita “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. In realtà la sentenza fa riferimento ad una modifica apportata poco più di vent’anni fa al comma 1 dello stesso articolo, con una aggiunta nella quale si dice che “A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. La pronuncia della Corte risponde nella fattispecie a un quesito relativo alla composizione delle liste elettorali, e precisa che quelle nelle quali non è presente un adeguato numero di canditati di entrambi i sessi vanno escluse dalla partecipazione. Perfetto. Anzi, no. Alla luce degli sviluppi intervenuti negli ultimi vent’anni mi chiedo se non sarebbe il caso di introdurre al più presto un’ulteriore modifica, che garantisca pari opportunità (e quindi una quota) anche a chi non si riconosce in un’identità di genere definita. E volendo essere davvero pignoli, sarebbe da intervenire anche sul testo originale dell’articolo 51, perché parla solo di cittadini “dell’uno e dell’altro sesso”.

Ogni volta che leggo di pronunciamenti del genere mi chiedo se sono finito su questo pianeta per sbaglio. O se gli alieni sono i pronuncianti. Proprio non mi ci raccapezzo. Qual è la logica che motiva un’interpretazione di questo tipo? Certo, non il buon senso. Mi sembra più che evidente che fissare a priori in base al sesso, all’etnia, alla religione o a qualsivoglia altro criterio analogo il numero dei membri di un insieme, si tratti di un’assemblea, di un parlamento, di un consiglio di amministrazione o di un coro, è il sistema garantito per non avere il “meglio” possibile. Qui non si tratta di individuare un campione per sondaggi, ma di assicurare a quell’insieme un minimo di efficienza, di competenza rispetto alla funzione che dovrebbe svolgere. Il problema semmai sarebbe rimuovere tutti gli ostacoli economici e culturali ad una partecipazione libera, creare per tutti le stesse opportunità. E invece no. Anziché abbattere davvero gli steccati se ne costruiscono altri.

Come al solito, anche in questo l’Italia viaggia a rimorchio. Abbiamo importato il sistema delle quote dagli Stati Uniti, dove esisteva un problema storico di disparità dei diritti della popolazione di colore, ma dove comunque quella soluzione si sta rivelando fallimentare. Molte università, ad esempio, stanno facendo marcia indietro, e non per un rigurgito di razzismo o di sessismo, ma semplicemente perché le quote funzionano male e creano situazioni clamorosamente ingiuste. Da noi il problema storico al quale ci si appella riguarda invece la discriminazione di genere – che indiscutibilmente esiste, come in tutto il resto del mondo –, e l’introduzione di quote rosa è parsa il modo più spiccio (in realtà quello meno impegnativo) per dare una spallata al maschilismo radicato nel nostro costume. Il risultato è però lo stesso. Oggi sono proprio le femministe più consapevoli a chiederne l’abolizione e a denunciarne l’effetto ancor più sottilmente discriminante.

Gli unici a non averlo capito sono evidentemente i nostri legislatori e i nostri censori giuridici. Il fatto è che esiste “un combinato disposto” di estensori di regole eletti essi stessi con strani criteri, di superguardiani dell’ortodossia del politicamente corretto, di raffinati esegeti dei sacri testi fondanti la nostra convivenza civile, nonché naturalmente di bellicosi difensori del principio della parità a prescindere, brandito come una bandiera dall’avanguardia culturale ma interpretato senza un pizzico di buon senso e di realismo. Sono l’espressione di una classe dirigente (e non mi riferisco solo a quella politica) che ha esperienza soprattutto di salotti (televisivi e non), e nel caso in questione non ha la minima idea di come si amministra un piccolo o piccolissimo comune della provincia italiana, dove può capitare (e in effetti capita, sono situazioni che conosco personalmente) che il sindaco o gli assessori e i consiglieri non disdegnino di salire su un trattore per spalare la neve o per spargere ghiaia su una strada di campagna, o di effettuare le riparazioni degli acquedotti in prima persona. Certo, non dovrebbe essere compito loro, ma nella realtà il braccino corto dello stato nei confronti delle amministrazioni periferiche, il contenimento delle spese e la difficoltà di reperire personale con un minimo di voglia e di competenza li obbliga anche a questo.

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Con ciò sto forse insinuando che le donne non abbiano i requisiti per amministrare un piccolo comune, perché in genere non guidano i trattori o non sono esperte in idraulica? Sono un patetico rudere della fortezza patriarcale? Ma per favore, non buttiamola in caciara. So benissimo che all’occorrenza le donne sanno fare come e meglio degli uomini, e volendo rimanere sul piano delle incombenze straordinarie cui accennavo sopra so anche citare il caso della sindaca di Fanano, Elena Tosetti, divenuta famosa per una tavola di Beltrame che la ritraeva mentre spalava la neve (ma è comunque significativo che sia finita sulla copertina della Domenica del Corriere). Sto solo dicendo che dalle mie parti nessun paese rifiuta la partecipazione alle donne che vogliono contribuire al bene della comunità. Anzi, ce ne fossero. Il problema è semmai quello opposto, di convincerle a partecipare. Per vari motivi, che vanno senz’altro dalla storica abitudine alla separazione dei ruoli per le generazioni più addietro fino alla scarsa compatibilità con gli impegni lavorativi o familiari per quelle più recenti. In questo momento, ad esempio, nessuno dei sedici comuni del comprensorio dell’ovadese è a guida femminile (a livello nazionale lo è il dodici per cento), e non per un ritardo del processo di emancipazione, considerato che dieci anni fa qui le donne sindaco erano un terzo del totale, o per un rigurgito reazionario di maschilismo. Evidentemente questa reticenza esiste, è un dato di fatto che nulla ha a che vedere con la difesa aprioristica del “patriarcato” e molto invece con una giustificatissima disaffezione per la politica, per quella locale soprattutto. E comunque, a proposito di modello patriarcale, credo sarebbe bene chiarire una volta per tutte che, per quanto possa sembrare paradossale, nelle società contadine vigeva molto meno che in quelle borghesi e urbane (per il semplice motivo che in quella economia le donne avevano un ruolo nella produzione e nella gestione del reddito pari se non superiore a quello maschile). Basterebbe a dimostrarlo il fatto che le prime dieci donne sindaco in Italia furono elette nel 1946 tutte in piccoli comuni rurali.

Ora, qualche sospetto di come procedano realmente le cose ai giuristi del supremo organo della magistratura deve essere venuto, se si sono premurati di inserire nel pronunciamento questo rilievo: «La diversità di trattamento riservata ai comuni minori non sarebbe giustificata dalla presunta difficoltà (che a quanto pare non è così “presunta”, dal momento che si deve ribadire quanto segue) di individuare donne candidate in contesti abitativi di piccole dimensioni, considerato che non vi è un obbligo di candidare persone residenti nello stesso comune e che comunque eventuali difficoltà derivanti dalla “carenza demografica” prescindono dal genere dei candidati». Tradotto in linguaggio corrente significa che qualora non ci siano indigene disponibili ad impegnarsi, si potrà pregare qualche “cittadina” amica di candidarsi per rispettare la lettera della legge. Che, si badi bene, è quanto in effetti già sta accadendo: è più facile infatti trovare disponibilità tra coloro che nei paesi vanno a villeggiare o hanno la seconda casa, che non tra i residenti (e questo vale sia per i maschi che per le femmine). Penso che tra gli altri motivi ci sia il fatto che attraverso l’IMU sono proprio i primi a contribuire maggiormente alle casse comunali, e se hanno scelto di vivere il tempo libero in un certo luogo si considerano particolarmente impegnati a difenderne o a promuoverne le caratteristiche. Resta poi da vedere se sono le stesse che stanno a cuore ai residenti.

Insomma, ciò che la Corte dice in sostanza è: “Ragazzi, se riuscite a convincere o a costringere qualche esponente dell’altro sesso a candidarsi, bene; in caso contrario fatevene prestare qualcuna da fuori e non rompete l’anima”. Direi che tutto questo con le pari opportunità c’entra ben poco. Ha a che fare invece con la riduzione semplicistica dell’emancipazione femminile a pura questione di numeri, cosa che si presta benissimo all’ipocrisia liquidatoria del sistema. Gli stessi criteri potranno essere adottati domani imponendo quote etniche, professionali, moltiplicando i generi “discriminati”, ecc… Quello che manca, dietro le “pari opportunità” che riempiono benissimo la bocca, è la domanda fondamentale: per fare che? A meno che si vogliano considerare conquiste femminili fondamentali la pratica del calcio o del rugby. Perché in questo caso dovremmo chiedere alla Corte Costituzionale l’esclusione delle squadre che non rispettano le quote.

Fuori quota 03 Ninetta Bartoli, il primo sindaco donna in Italia

Ninetta Bartoli, il primo sindaco donna in Italia

Ariette 20.0: Cartoline dalla Baviera

di Maurizio Castellaro, 30 gennaio 2024

Ariette logoLe “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso».
Ben vengano dunque, se possono mitigare con un refolo di leggerezza un clima che per ragioni obiettive e per stanchezza di chi lo vive sta diventando davvero troppo pesante (n.d.r).

Ho trascorso qualche giorno a Monaco di Baviera, la sorprendente “ultima città italiana al di là delle Alpi”, come dicono i tanti italiani che ci vivono. Ai tempi della Riforma il Papainviò qui un piccolo esercito di Gesuiti per fronteggiare l’attacco, e direi che i Padri non hanno tradito le aspettative, dato che i cattolici sono ancora in maggioranza. E che dire dei Wittelsbach, la loro antica dinastia regnante? Oltre a difendere con spregiudicatezza la loro autonomia territoriale (ad esempio furono alleati di Napoleone in funzione antiaustriaca), e a modellare la capitale sui modelli di Atene e Firenze, hanno riempito i loro splendidi musei di capolavori fiamminghi e greci. Essendo stati a lungo i governatori delle Fiandre (nel 600) e i re di Grecia (nell’800), immagino fosse difficile per i poveri sudditi rifiutare le loro proposte di acquisto.

Sono stato naturalmente anche nelle famose birrerie di Monaco. Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale in quelle sale si potevano trovare prima i comunisti rivoluzionari di Rosa Luxemburg e poi nazisti come Himmler e Goering, che condivisero con Hitler il fallito colpo di stato del 1922, partito proprio da Monaco. Oggi nel centro dalla città, in larga parte ricostruito dopo i 74 bombardamenti subiti durante la Seconda Guerra, si può visitare il Museo Cittadino, dove una intera sezione è dedicata alla Storia del Nazionalsocialismo a Monaco. Aggirandomi tra manifesti di propaganda nazista, foto di adunate e di bombardamenti, divise brune e testimonianze di Dachau (a pochi chilometri) mi sono chiesto se in Italia avevo mai visitato un museo del genere. E mi sono reso conto che in Italia si trovano Musei della Resistenza, Musei dell’Olocausto, ma nessun Museo del Fascismo.

Ho sempre pensato che il fascismo si aggiri come un convitato di pietra nella storia del nostro infinito dopoguerra. Ma nelle strade di Monaco penso di averne compreso il motivo. Rispetto alla Seconda Guerra Mondiale a noi la storia non ha dato, come alla Germania, la possibilità di un finale tragico, coerente fino al suicidio finale di Hitler nel bunker di Berlino. E poi lo shock dei campi di concentramento, la Germania Anno Zero, il processo di Norimberga, la ricostruzione. In Italia niente è finito davvero con chiarezza, quindi niente è mai finito davvero. Abbiamo avuto un re vigliacco in fuga, che ha lasciato l’esercito allo sbando, e nonostante ciò nel referendum del 1946 la democrazia si è affermata a fatica. Poi abbiamo avuto la fine pasticciata del Fascismo. Lo scempio di Piazzale Loreto ci ha regalato un capro espiatorio che ha assolto tutti senza processo, incoraggiando poi il trasformismo politico di cui siamo maestri insuperati. La celebrazione dei Valori della Resistenza e la memoria dell’Olocausto hanno poi fornito una narrazione fondativa che alla distanza si è rivelata indebolita dal troppo rimosso, un rimosso che torna a bussare e a chiedere ragione di sé.

A Monaco di Baviera a gennaio 2024 c’era una mostra su Eichmann e sulla banalità del male. In Italia quando pensiamo al fascismo pensiamo al folclore di Predappio, ma sbagliamo il bersaglio. Di recente a Roma hanno proposto di aprire il primo serio Museo sul Fascismo, ma ancora una volta non se ne è fatto nulla. La Fiamma che ricorda il passato rimosso e negato è ancora viva, incuba nuove forme, e rischia di perderci ancora.