In pancia alla balena

di Paolo Repetto, 8 novembre 2021

La ricognizione nelle letture della scorsa estate mi sta prendendo la mano. Davvero non mi ero accorto che la stagione fosse stata così ricca. Ero distratto dai nostri successi sportivi (la raccolta continua: ori mondiali nel ciclismo su pista, nella ginnastica a corpo libero e in quella ritmica e nel nuoto: uno persino in matematica; manca più solo il rugby), dall’uscita allo scoperto dei neo-squadristi e dall’epidemia di coming out televisivi.

Riparto dunque dall’acquisizione più recente, quel Balene nella pancia che è comparso poco tempo fa sul sito. Non voglio mettere il becco dappertutto, ma la lettura mi ha intrigato “attivamente”, mi ha indotto a spingere un po’ più in là lo sguardo, e credo fosse ciò che chi lo ha scritto si augurava. L’ho fatto a modo mio, senza scendere in profondità e limitandomi a cercare altri esempi letterari di soggiorni più o meno prolungati nelle pance di mostri marini: il che magari non risponde esattamente agli intenti dell’autore, ma soddisfa piuttosto la mia maniacale sindrome dei repertori. E tuttavia, qualcosa è venuto fuori anche da questa scorribanda in superficie. Le considerazioni che seguono non sono quindi riservate solo a chi è affetto dalla stessa mia malattia.

Per cominciare, ho verificato che la condizione dalla quale il saggio prende spunto, la prigionia nel ventre di un mostro, di un pesce o di un cetaceo, è talmente ricorrente da costituire un vero e proprio tòpos, le cui costanti sono una situazione iniziale negativa, l’essere ingoiato, e una soluzione finale positiva, l’uscirne vivo (e la singolarità sta proprio nel fatto che i protagonisti rimangono incolumi, passano per la bocca senza essere triturati dai denti, scivolano senza essere soffocati in gola e non sono bruciati dagli acidi dello stomaco). Non voglio inseguirne qui tutte le diverse fenomenologie, perché una cosa del genere porterebbe solo ad un elenco arido e inutile: le narrazioni mitologiche e le letterature di tutti i popoli del mondo sono piene di mostri marini di dimensioni immani e dalle forme più fantasiose, balene-isola, serpenti di mare, piovre giganti, draghi, ecc…. Mi limito pertanto a ricordare alcune delle più famose (dando per scontate naturalmente le storie di Giona, di Pinocchio e della balena bianca, che sono già state ampiamente rievocate in Balene nella pancia), cercando di lasciar parlare il più possibile i testi. Credo che anche quelli che ai fini dell’indagine sulla “leviatanologia” paiono irrilevanti possano in realtà diventare rivelatori.

Ciò che veramente importa è infatti quel che accade alle vittime, una volta dentro. La condizione e il tipo di reazione possono variare, ma sono tutte riconducibili grosso modo a due filoni: uno che potremmo definire mistico-biblico (anche se la storia di Giona non è affatto un archetipo, riprende miti mesopotamici molto più antichi) e un altro di matrice greco-razionalistica. Nel primo caso l’incidente è vissuto come occasione di riflessione, di espiazione e di redenzione rispetto ad una colpa originaria, il pesce è uno strumento di Dio e la soluzione arriva dall’esterno, per volontà appunto divina; nel secondo è sofferto come prigionia soffocante da cui evadere, il pesce-mostro è ucciso dall’interno, e la liberazione è frutto della intelligenza e dello spirito di sopravvivenza umani.

In pancia alla balena 02In sostanza, la vicenda viene usata spesso come metafora di una condizione di disagio psicologico, talvolta come simbolico passaggio di rigenerazione, di norma come espediente fantasioso per insaporire l’avventura.

Un esempio di reazione “razionale” (le virgolette qui ci stanno tutte) è offerto, nella letteratura classica, dalla Storia Vera di Luciano di Samosata. Di vero nella Storia di Luciano c’è in effetti ben poco, anzi, proprio nulla, e quindi andrebbe gustata esclusivamente per l’abilità nel tenere sempre alta la curva dell’iperbole, senza pretendere significati reconditi. Ma il confronto con il trattamento biblico della stessa situazione diventa inevitabile.

Vedo di riassumere. L’autore e i suoi compagni, che si sono messi per mare in cerca di avventure, ne trovano più di quante vorrebbero, tanto da finire addirittura sulla luna. Di ritorno dal nostro satellite (dove peraltro le cose vanno esattamente come da noi, tra guerre continue) scendono sulla Terra, o meglio planano sull’oceano, e quasi subito la loro nave viene inghiottita da un’enorme balena. All’interno del cetaceo trovano un grande mare, e in mezzo ad esso un’isola abitata da tribù cannibali e primitive. Lasciamo però la parola al protagonista:

Due soli giorni navigammo con buon tempo, al comparire del terzo dalla parte che spuntava il sole a un tratto vediamo un grandissimo numero di fiere diverse e di balene, e una più grande di tutte lunga ben millecinquecento stadi venire a noi con la bocca spalancata, con larghissimo rimescolamento di mare innanzi a sé, e fra molta schiuma, mostrandoci denti più lunghi dei priapi di Siria, acuti come spiedi, e bianchi come quelli d’elefante. Al vederla: – Siamo perduti –, dicemmo tutti quanti, e abbracciati insieme aspettavamo; ed eccola avvicinarsi, e tirando a sé il fiato c’inghiottì con tutta la nave; ma non ebbe tempo di stritolarci, ché fra gl’intervalli dei denti la nave sdrucciolò giu.

Come fummo dentro la balena, dapprima era buio, e non vedevamo niente; ma dipoi avendo essa aperta la bocca, vediamo una immensa caverna larga e alta per ogni verso, e capace d’una città di diecimila abitanti. Stavano sparsi qua e là pesci minori, molti altri animali stritolati, e alberi di navi, e ancore, e ossa umane, e balle di mercanzie. Nel mezzo era una terra con colline, formatasi, come io credo, dal limo inghiottito; sovr’essa una selva con alberi d’ogni maniera, ed erbe e ortaggi, e pareva coltivata; volgeva intorno un duecento quaranta stadi, e ci vedevamo anche uccelli marini, come gabbiani e alcioni, fare i loro nidi su gli alberi.

Allora venne a tutti un gran pianto, ma infine io diedi animo ai compagni, e fermammo la nave. Essi battuta la selce col fucile accesero del fuoco, e così facemmo un po’ di cotto alla meglio. Avevamo intorno a noi pesci d’ogni maniera, e ci rimaneva ancora acqua di Espero. Il giorno appresso levatici, quando la balena apriva la bocca, vedevamo ora terre e montagne, ora solamente cielo, e talora anche isole, e così ci accorgemmo che essa correva veloce per tutte le parti del mare.

Poiché ci fummo in certo modo abituati a vivere così, io presi sette compagni e andai nella selva per scoprire il paese. […] Affrettato il passo giungemmo a un vecchio e un giovinetto, che con molta cura lavoravano un orticello, e l’annaffiavano con l’acqua condotta dalla fonte.

In pancia alla balena 03Compiaciuti insieme e spauriti, ci fermammo; e loro, come si può credere, commossi del pari, rimasero senza parlare. Dopo alcun tempo il vecchio disse: Chi siete voi, o forestieri? forse geni marini o uomini sfortunati come noi? ché noi siamo uomini, nati e vissuti su la terra, e ora siamo marini, e andiamo nuotando con questa belva che ci chiude, e non sappiamo che cosa siamo diventati, ché ci par d’essere morti, e pur sappiamo di vivere.

A queste parole io risposi: Anche noi, o padre, siamo uomini, e siamo arrivati poco fa, inghiottiti l’altro ieri, con tutta la nave. Ci siamo inoltrati volendo conoscere com’è fatta la selva, che pareva grande e selvaggia […] Ma narraci i casi tuoi: chi sei tu, e come qui entrasti.

Quando fummo sazi, ci domandò di nostra ventura, e io gli narrai distesamente ogni cosa della tempesta, dell’isola, del viaggio per l’aria, della guerra, fino alla discesa nella balena.

Egli ne fece le meraviglie grandi, e poi a sua volta ci narrò i casi suoi, dicendo: Fino alla Sicilia navigammo prosperamente, ma di là un vento gagliardissimo dopo tre giorni ci trasportò nell’Oceano, dove abbattutici nella balena, fummo uomini e nave inghiottiti; e morti tutti gli altri, noi due soli scampammo. Sepolti i compagni, e rizzato un tempio a Nettuno, viviamo questa vita coltivando quest’orto, e cibandoci di pesci e di frutti. La selva, come vedete, è grande, e ha molte viti, dalle quali facciamo vino dolcissimo; ha una fonte, forse voi la vedeste, di chiarissima e freschissima acqua. Di foglie, ci facciamo i letti, bruciamo fuoco abbondante, prendiamo con le reti gli uccelli che volano, e peschiamo vivi i pesci che entrano ed escono per le branchie della balena; qui ci laviamo ancora, quando ci piace, che c’è un lago non molto salato, di un venti stadi di circuito, pieno d’ogni sorta di pesci, dove nuotiamo e andiamo in una barchetta che io stesso ho costruito. Son ventisette anni da che siamo stati inghiottiti, e forse potremmo sopportare ogni altra cosa, ma troppo grave molestia abbiamo dai nostri vicini, che sono intrattabili e selvatici.

A sistemare i vicini ci pensano Luciano e i suoi compagni. Secondo un costume che già all’epoca era consolidato l’equipaggio stermina tutti i selvaggi, ma si ritrova poi ad assistere ad una battaglia tra giganti che combattono stando su isole lunghissime, che spostano a remi come fossero piroghe. I greci capiscono allora che la faccenda può diventare delicata e cominciano a studiare come filarsela.

Da allora in poi, non potendo io sopportare di rimanere più a lungo nella balena, andavo mulinando come uscirne. In prima ci venne il pensiero di forare nella parete del fianco destro, e scappare. Ci mettemmo a cavare; ma cava, e cava quasi cinque stadi, era niente: onde smettemmo, e pensammo di bruciare il bosco, e così far morire la balena. Riuscito questo, ci sarebbe facile uscire. Cominciando dunque dalle parti della coda vi mettemmo fuoco, e per sette giorni ed altrettante notti non sentì bruciarsi; nell’ottavo ci accorgemmo che si risentiva, ché più lentamente apriva la bocca, e come l’apriva la richiudeva. Nel decimo e nell’undecimo era quasi incadaverita, e già puzzava. Nel dodicesimo appena noi pensammo che se in un’apertura di bocca non le fossero puntellati i denti mascellari da non farglieli più chiudere, noi correremmo pericolo di morir chiusi dentro la balena morta: onde puntellata la bocca con grandi travi, preparammo la nave, vi riponemmo molta provvigione d’acqua, e destinammo Scintaro a fare da pilota. Il giorno appresso era già morta, noi varammo la nave, e tiratala per l’intervallo dei denti, e ad essi sospesala dolcemente la calammo nel mare.

Usciti a questo modo, salimmo sul dorso della balena, e fatto un sacrificio a Nettuno, ivi rimanemmo tre dì, ché era bonaccia, e il quarto ci mettemmo alla vela. (Luciano di Samosata, Storia vera, libri I e II)

Al di là degli intenti di Luciano, che cerca solo di catturare e mantenere viva la meraviglia del lettore con gli effetti speciali, e quindi usa toni e modi che con la vicenda biblica di Giona hanno niente a che vedere, vengono fuori dei particolari che segnano una differenza significativa. Il luogo buio ma ricco di pesci, relitti di navi e ossa umane, piuttosto che a un loculo dove giacere per tre giorni in attesa della rinascita (che è il caso di Giona, a cui si rifarà poi dichiaratamente quello di Cristo) somiglia molto ad un possibile aldilà, abitato da uomini cui “pare d’essere morti, e pur sanno di vivere”. Anche se non è lecito leggere nella narrazione romanzesca di Luciano troppi significati simbolici, è pur vero che presso le culture classiche la tomba è un luogo ricco di oggetti e cibo, corredo necessario ad accompagnare il defunto nella sua nuova condizione. Come a dire che di qui o di là, non c’è poi molta differenza. Non è certo quello che pensavano gli eroi omerici, a giudicare dalle interviste che Ulisse realizza durante la discesa nell’Ade, ma si attaglia invece perfettamente all’epicureismo che Luciano professa. I tempi eroici sono finiti da un pezzo, e questo è lo specchio del mondo in cui Luciano vive.

In pancia alla balena 04Anche lui fa però riferimento ad una preesitente mitologia classica che di mostri acquatici ne propone a bizzeffe, o che propone lo stesso con fattezze diverse (è quello che viene denominato kētos; da cui successivamente, nella tradizione cristiana, il cetaceo per eccellenza, identificato nella balena). Perseo, ad esempio, lo combatte per salvare Andromeda (e in alcune versioni del mito lo uccide dopo essersi fatto ingoiare. In altre è invece Eracle ad uccidere ketos).

Particolarmente temuti sono poi i serpenti marini e le piovre. Nel secondo libro dell’Eneide sono proprio due serpenti usciti dal mare ad aggredire sulla spiaggia di Troia Laocoonte ed i suoi due figli. Riporto l’episodio, facendolo però raccontare non da Virgilio, ma da un autore leggermente più tardo, Petronio, perché nella sua narrazione c’è un interessante parallelo tra due tipi di mostruosità, quella naturale rappresentata dai serpenti che ingoiano i figli di Laocoonte e dilaniano il padre accorso in loro aiuto, e quella artificiale, rappresentata dal cavallo, (che tale appare subito ai Troiani, un mostrum, come dice Enea), nella cui pancia si nascondono i Greci per riuscire a penetrare in Troia.

Laocoonte ministro di Nettuno fende urlando la folla, vibra la lancia, la scaglia nel ventre del mostro, ma il volere dei numi gli fa debole il braccio, e il colpo rimbalza attutito, e dà credito all’inganno. Ma ancora egli chiede vigore alla mano spossata e saggia con l’ascia i concavi fianchi. Trasalgono i giovani chiusi nel ventre panciuto, e al loro sussurro la mole di quercia palpita d’estranea angoscia. Quei giovani presi andavano a prendere Troia, finendo per sempre la guerra con frode inaudita. Ma ecco un altro prodigio là dove Tenedo sorge dal mare, i flutti si gonfiano turgidi, rimbalzano le onde, si gonfiano di schiuma che la spiaggia ribatte, quale un tonfo di remi arriva nel cuore sereno della notte, quando solca una flotta le acque del mare che fervide gemono sotto l’impeto delle chiglie. Là noi volgiamo gli occhi e vediamo due draghi, che torcendosi spingono l’onda agli scogli, e coi petti impetuosi vorticano schiume intorno ai fianchi, come alte navi. Il mare percuotono con le code, le sciolte criniere lampeggiano come gli occhi, un bagliore di folgore incendia il mare e le onde sono tutte un tremolio di fremiti. Ogni cuore è sgomento. Cinti di sacre bende e con addosso il costume frigio i due figli gemelli di Laocoonte stavano lì sulla spiaggia. A un tratto li avvinghiano nelle loro spire i due draghi di fiamma, e quelli protendono ai morsi le piccole mani. Ciascuno non sé ma il fratello aiuta, e pietà si scambiano, finché morte li coglie in un mutuo terrore. Alla strage si aggiunge anche il padre, ben debole aiuto, che i due draghi già sazi di morte assalgono e trascinano sul lido. Giace vittima il sacerdote tra le are e il suo corpo percuote la terra. Cosi venne profanato il sacro e Troia affacciata sulla rovina perse per prima cosa gli dèi. (Satyricon, 88.9.4)

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Anche in questo caso lo scotto per il successo è la permanenza nel ventre buio di un animale. Quasi una forma di iniziazione. Ma, come dice Petronio, quella che si compie qui è una dissacrazione. E la dissacrazione vera è quella operata attraverso la téchne, la capacità di artificio degli umani. Il cavallo è una macchina: non è la prima, esistono altre macchine da guerra, ma questa nasconde uomini nella sua pancia. Prelude a mostri di altro tipo.

In pancia alla balena 06Le creature marine mostruose diventano una presenza fissa nelle mappe tardo-medioevali del mondo, soprattutto in quelle nordiche. Ma perdono per strada la loro valenza simbolica, per assumere invece sempre più una funzione narrativa o decorativa. Non esistono per punire chi si è macchiato di qualche colpa o dubita della giustizia divina, ma rientrano nel folklore paesaggistico e nei rischi dell’avventura. Sono significative in questo senso le immagini di draghi marini che corredano la Storia dei popoli settentrionali di Olao Magno (una delle perle della mia biblioteca: In Vinegia, appresso Francesco Bindoni, MDLXI) o la Carta Marina realizzata dallo stesso tra il 1527 ed il 1539, immagini che sono poi state trasferite pari pari nelle carte di Ortelio agli inizi del secolo successivo. I mostri sono rappresentati nel loro rapporto con gli umani, che rimane sempre ambiguo: nell’immagine di fianco, ad esempio, i naviganti hanno agganciato con l’ancora una creatura mostruosa, scambiandola per un’isola, e sono poi scesi tranquillamente dalla nave per accendere un fuoco sulla sua schiena. In questo caso nella situazione paradossale è evidente la linea di discendenza da Luciano: nelle caratteristiche fisiche attribuite al mostro c’è invece quella dalle antiche mitologie norrene, che al mare, e nella fattispecie all’oceano, associavano pericoli di ogni tipo, e quei pericoli li traducevano e li ibridavano visivamente nelle figurazioni più bizzarre.

In pancia alla balena 08Una vera balena in grasso ed ossa la ritroviamo invece nella letteratura cavalleresca tra Quattrocento e Cinquecento. Nel quarto dei Cinque Canti che Ariosto aggiunse e poi ritolse all’Orlando furioso, a finire nel suo ventre è Ruggero, perseguitato dalla maga Alcina.

Avea Ruggier lasciato poche miglia
Tariffa a dietro, e dalla destra sponda
Vede le Gade, e più lontan Siviglia,
E nelle poppe avea l’aura seconda;
Quando a un tratto di man, con maraviglia,
Un’isoletta uscir vide dell’onda:
Isola pare, ed era una balena
Che fuor del mar scopría tutta la schiena.

Nel panico che segue la nave prende fuoco, e Ruggero tra il morire bruciato e l’annegare sceglie la seconda opzione e si butta in mare con tutte le armi. Ma

Qual suol vedersi in lucida onda e fresca
Di tranquillo vivaio correr la lasca
Al pan che getti il pescatore, o all’esca
Ch’in ramo alcun delle sue rive nasca;
Tal la balena, che per lunga tresca
Segue Ruggier, perché di lui si pasca,
Visto il salto, v’accorre, e senza noja
Con un gran sorso d’acqua se lo ingoja.
Ruggier, che s’era abbandonato e al tutto
Messo per morto, dal timor confuso,
Non s’avvide al cader, come condutto
Fosse in quel luogo tenebroso e chiuso;
Ma perché gli parea fetido e brutto,
Esser spirto pensò di vita escluso.
Era come una grotta ampia e capace
L’oscurissimo ventre ove era sceso (…)
Brancolando, le man quanto può stende
Dall’un lato e dall’altro, e nulla prende.
Un picciol lumicin d’una lucerna
Vide apparir lontan per la caverna.

In pancia alla balena 09Chi sopravviene è un vecchio dalla lunga barba bianca, che alla domanda di Ruggero: sono vivo o sono morto? risponde:

Figliuol, rispose il vecchio, tu sei vivo,
Come anch’io son; ma fôra meglio molto
Esser di vita l’uno e l’altro privo,
Che nel mostro marin viver sepolto.
Tu sei d’Alcina, se non sai, captivo;
Ella t’ha il laccio teso, e al fin t’ha côlto,
Come côlse me ancora, con parecchi
Altri che ci vedrai, giovani e vecchi.

Tra questi altri, presso i quali il vecchio conduce Ruggero, e che si sono organizzati come in un camping, c’è anche Astolfo.

Tosto che pon Ruggier là dentro il piede,
Vi riconosce Astolfo paladino,
Che mal contento in un dei letti siede,
Tra sè piangendo il suo fiero destino.
Lo corre ad abbracciar, come lo vede:
Gli leva Astolfo incontra il viso chino:
E come lui Ruggier esser conosce,
Rinnôva i pianti, e fa maggior l’angosce.

I due si confidano vicendevolmente le proprie sventure, e poi si mettono a tavola, per un banchetto imbandito dai compagni di Astolfo. Come siano alla fine usciti dal ventre della balena non lo sappiamo. Ariosto li liquida così:

Ma di Astolfo e Ruggier più non vi sego:
Diròvvi un’altra volta i lor successi.
Finch’io ritorno a rivederli, ponno
Cenare ad agio, e di poi fare un sonno.

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Non ce lo dirà mai perché nella versione definitiva dell’Orlando l’episodio che ho appena raccontato non compare: compare sì la balena, ma Astolfo viaggia sul suo dorso accanto ad Alcina, della quale è follemente innamorato. Ruggero si lancia inutilmente in mare per sottrarlo all’incantesimo amoroso, ma è respinto dalle onde. La differenza tra le due versioni è sostanziale: quella da me riportata è stata elaborata da Ariosto in un momento di ripensamenti morali e religiosi (siamo nella fase più calda della riforma protestante), e si fondava sulla possibilità di riscatto dalla pazzia umana attraverso la fede. Sono propenso a credere che non sia estraneo l’influsso dell’Elogio della follia di Erasmo. Questo spiega la riesumazione del modello biblico, declinato alla luce dell’etica cavalleresca, per cui i due eroi, prigionieri della follia umana e redenti dalla follia della Croce, diventano soldati di Cristo.

Il motivo per il quale i cinque canti non sono stati inseriti è comunque evidente. Ripensamenti o no, Ariosto si è reso conto che non c’entravano affatto con lo spirito e con la temperie del poema, e ce li ha risparmiati.

Esistono però, se non nella mitologia almeno nella tradizione popolare, anche dei pesci buoni, come quello che nella quinta giornata del Pentamerone di Giovan Battista Basile sottrae la giovane Nennella all’annegamento, ingoiandola, e la risputa poi fuori dopo averla condotta in salvo. Nennella e il fratello Ninnillo sono stati lasciati nel bosco per volontà di una matrigna cattiva (un pescecane maledetto, la definisce Basile), Dopo varie vicende finiscono separati, e mentre Ninnillo è adottato da un principe, Nennella, rapita da un corsaro, è coinvolta nel naufragio dell’imbarcazione di quest’ultimo, nel quale tutti muoiono tranne lei.

In pancia alla balena 11Solo Nennella […] scampò questo pericolo perché proprio in quel momento si trovò vicino alla barca un grande pesce fatato, che, aprendo un abisso di bocca, se l’inghiottì. E quando la ragazza credeva di avere finito i suoi giorni proprio allora trovò cose da trasecolare nella pancia di questo pesce, perché c’erano campagne bellissime, giardini deliziosi, una casa signorile con tutte le comodità, dove se ne stava da principessa.

Ora accadde che quel pesce la portasse di peso a uno scoglio, dove […] il principe era venuto a prendere il fresco. E Ninnillo s’era posto a un verone del palazzo. Nennella lo vide attraverso le fauci aperte del pesce e gridò: “fratello mio, fratello mio”. […]

Il principe gli disse di accostarsi a pesce e vedere che cosa fosse […] E Ninnillo si avvicinò al pesce e quello, poggiata la testa sopra uno scoglio e aperti sei palmi di bocca, ne fece uscire Nennella, così bella che sembrava proprio una ninfa che, in un intermezzo, usciva, per incanto di qualche mago, da quella bestia. (Pentamerone, V giornata, favola VII)

Per completezza di informazione, c’è il lieto fine: il principe combina per entrambi dei matrimoni da favola, mentre la matrigna finisce sfracellata dentro una botte fatta rotolare giù da una rupe.

Quasi due secoli dopo un altro eroe letterario fa quest’esperienza: è il barone di Münchausen (a proposito: andando a sfogliare per l’ennesima volta il libro delle sue avventure ho ritrovato l’episodio della trombetta da postiglione che si era congelata e che una volta al caldo della stufa si scongela ed emette le sue note. Qui l’autore si è chiaramente ispirato all’episodio di Gargantua che ho riportato ne L’estate tra i ghiacci). Il barone, o meglio, il suo biografo, Rudolf Erich Raspe, pesca a piene mani dai racconti di Luciano e dell’Ariosto, compreso il viaggio sulla luna, e non può certo mancare di fare la sua esperienza col cetaceo. Anzi, è quasi un habitué degli incontri molto ravvicinati con balene o con pesci comunque enormi. Li racconta ad una maniera che sarà un secolo dopo quella di Mark Twain, perentoria ed essenziale, quasi a non lasciare il tempo al lettore di riprendersi dallo stupore. Come a dire: se non mi credi, cosa stai a fare qui, puoi andare a bere da un’altra parte.

Ma è anche il modello sul quale si fondano i cartoni animati del Vicoyote e di Silvestro, di un mondo paradossale, opposto a quello razionale e reale, nel quale l’inverosimile sconfigge di continuo il verosimile, le situazioni sono rovesciate, i rapporti distorti. In fondo questo cumulo continuo di frottole non fa che anticipare la tecnica persuasiva della pubblicità e del dibattito politico moderni. Procede per accumulo di enfatizzazioni, iperboli, pure invenzioni ed esasperazioni, fino a farci accettare la menzogna come norma. Ma almeno, nella bocca del barone tutto il racconto è simpaticamente surreale, le fanfaronate si susseguono come fuochi d’artificio, esplodono a raffica senza accampare alcuna pretesa di credibilità.

Riporto quasi per intero i passi, che traggo da una vecchia traduzione per Marzocco a cura di Giuseppe Fanciulli, perché difficilmente potrete trovare nelle edizioni moderne una versione così fedele all’originale di Raspe (oggi circolano solo “adattamenti”, e tremo a pensare a cosa succederà quando i “politicamente corretti” si ricorderanno del barone).

Errammo per oltre tre mesi senza sapere dove andavamo, non avendo bussola, finché ci trovammo in un mare che appariva tutto nero. Ne assaggiammo l’acqua e scoprimmo con grandissimo stupore che era ottimo vino, così che ci volle tutta la nostra autorità per impedire ai marinai di ubriacarsi. Purtroppo il nostro pensiero fu presto distolto da questa inezia, perché ci trovammo circondati da immense balene e da altri mostri marini smisurati, uno dei quali era talmente lungo che non riuscii a vederne la coda, neanche con l’aiuto dei migliori cannocchiali.

Per disgrazia ci accorgemmo della sua presenza quando gli eravamo già troppo vicini, e in men che non si dice tutta la nostra nave con le vele spiegate e gli alberi ritti passò nella sua gola.

Là dentro errammo per qualche tempo, finché, avendo il mostro inghiottito una prodigiosa massa d’acqua, la nave seguì la corrente, e ci trovammo in un momento nello stomaco della bestia. L’aria per la verità, era laggiù piuttosto calda, e tuttavia gettammo l’ancora in un sicuro porto e ci guardammo in giro. Vi era un gran numero di ancore, gomene, scialuppe e di navi cariche e vuote inghiottite dal mostro. L’oscurità profonda ci costringeva all’uso continuo delle torce: due volte al giorno galleggiavamo e due eravamo a secco: quando il mostro beveva era il flusso e quando risputava l’acqua era il riflusso. Secondo i nostri calcoli l’acqua immessa era ordinariamente in quantità maggiore di quella contenuta nel lago di Ginevra, che ha trenta chilometri di circonferenza.

Il secondo giorno della nostra prigionia volli tentare, col capitano e gli altri ufficiali, un’escursione durante il periodo del riflusso. Muniti di torce scoprimmo tanta altra gente che si trovava nelle stesse condizioni nostre. Ve n’era di ogni nazione: saranno state più di diecimila persone, che si disponevano appunto a tener consiglio per decidere sul mezzo migliore per uscire da quella prigione.

Vi erano persino dei bambini che non avevano mai visto il mondo, essendo nati là dentro […]

Proposi subito un tentativo di salvataggio con l’introdurre due alberi maestri legati insieme nella gola del pesce, in modo che non potesse più chiudere la bocca. (…) Il mostro sbadigliò, e l’asta lunghissima venne subito piantata nella sua gola, quindi il passaggio rimase per noi definitivamente aperto, e non appena giunse l’ora del reflusso disponemmo un ottimo servizio di scialuppe per rimorchiare tutte le navi fino alla luce del sole.

Potete immaginare con quale gioia lo salutammo dopo quindici giorni di prigionia e di tenebre. […] dopo molte profonde osservazioni io potei riconoscere che ci trovavamo nel Mar Caspio. Come mai potevamo essere giunti a questo mare che è come un gran lago chiuso da ogni parte? … il mostro che ci aveva ospitato nel suo stomaco per due settimane doveva averci trascinato fin là traversando qualche passaggio sottomarino.

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Ci ha preso gusto, perché nella seconda parte del libro, quella dedicata alle avventure di mare, Münchhausen racconta della collisione con una balena addormentata lunga ottocento metri, una botta talmente violenta che un marinaio che stava ammainando la vela maestra è sbalzato in aria di quindici chilometri, e riesce a tornare sulla nave solo aggrappandosi alla coda di un gabbiano. La balena, giustamente risentita, prende in bocca l’ancora e trascina la nave a velocità folle per un sacco di tempo, fino a quando la catena si spezza. Ma il bello viene dopo.

Mentre è al comando di una guarnigione a Marsiglia, il barone decide di concedersi una bella nuotata in mare. Ma:

Ad un tratto, veloce come un lampo, vidi venire verso di me un pesce enorme che mostrava già la bocca spalancata intenzionato a divorarmi. Non avevo via di scampo: fuggire era impossibile. Dovevo escogitare una soluzione al più presto possibile. Impulsivamente mi feci il più piccino possibile, cacciando la testa fra le spalle e stringendo più che potevo le braccia contro il corpo. Mi fu così possibile passare tra le ganasce del pesce e scivolare nel suo stomaco senza finire maciullato dalla sua affilata dentatura.

Puoi immaginare l’oscurità nella quale piombai una volta all’interno di quel corpo, ma ciò che mi risultò veramente insopportabile fu il calore. Di lì a poco sarei morto soffocato. Presi, dunque, una decisione drastica: provocare un tale dolore alle viscere del pesce da indurlo a una qualsiasi reazione! Iniziai, infatti, a ballare, ad agitarmi e a dimenarmi come un pazzo furioso lungo tutto il ventre dell’animale.

L’animale, a sua volta, fece la stessa cosa. Poi cominciò a urlare e a gemere in un modo spaventoso; infine si alzò, emergendo per metà dall’acqua. L’equipaggio di un bastimento mercantile italiano, che usciva allora dal porto, rallentò per ammirare quello spettacolo curioso e mai visto prima. I marinai si armarono di ferri e uncini e attaccarono il pesce, che in pochi minuti fu ucciso. Quindi la preda venne condotta a riva e io udii distintamente quegli uomini che si consultavano su come farla a pezzi per ottenere la maggiore quantità possibile di olio pregiato. II pericolo che stavo correndo era veramente grande. Rischiavo di essere squartato assieme all’animale. Cercai di non farmi prendere dal panico e di ragionare. Avrei atteso pazientemente che i ferri affondassero nella carne del pesce e avrei poi calcolato la direzione del taglio, nascondendomi altrove.

Dapprima i marinai lacerarono il ventre dell’animale cosicché, appena intravidi la punta dell’arpione bucare le viscere, andai a rifugiarmi nella coda dell’animale. Poi, quando la luce naturale illuminò la cavità, presi a gridare con tutta la forza dei miei polmoni. Mi è impossibile descriverti la meraviglia che si dipinse su tutti i volti nel momento in cui la mia voce si fece strada fra le viscere del pesce. Quella meraviglia fu anche più grande quando videro uscire un uomo vivo e completamente nudo come il nostro primo padre Adamo.

In pancia alla balena 13

Il topos dell’ingoiamento torna con frequenza nella letteratura romantica e tardo-romantica, sia pure sotto spoglie rinnovate. Può rientrarci infatti anche la vicenda raccontata da Edgard Allan Poe in Una discesa nel Maelström, così come Le avventure di Gordon Pym, che ci fanno incontrare un altro essere mostruoso, la sfinge dei ghiacci.

In pancia alla balena 14Nel primo racconto una violenta tempesta sospinge tre pescatori norvegesi, tre fratelli, verso un enorme vortice: il maelström. La loro imbarcazione è risucchiata in un abisso che si apre a cono rovesciato e viene attirata verso il fondo. Alla fine uno solo dei tre si salva, aggrappandosi ad un barile vuoto che è risputato fuori. Le correnti lo spingono a questo punto verso la riva, e lì può raccontare la terribile esperienza che ha vissuto: ma ne è uscito trasformato, i suoi capelli si sono completamente sbiancati e il suo equilibrio psichico è distrutto.

Qui dominante è il tema della potenza distruttiva della natura, dalla quale nella sua fragilità l’essere umano viene divorato. Ma, al di là dello sgomento, c’è una certa rassegnata identificazione:

“Ora che eravamo in mezzo al gorgo, mi sentivo più calmo … Avendo compreso che oramai non avevamo più alcuna speranza, mi ero liberato di gran parte del terrore … Penso che fosse la disperazione a distendere i miei nervi.”

che può diventare addirittura attrazione:

“Trovavo fosse una cosa meravigliosa morire in quel modo e folle dare tanta importanza alla mia vita personale di fronte a quella manifesta ne della potenza di Dio.”

Un Poe decisamente biblico, così come biblico è il suo contemporaneo Melville. C’è però anche qualcos’altro. L’orrore viene dall’abisso, e l’abisso sul quale ci affacciamo può essere anche quello degli strati più profondi del nostro animo, nel quale albergano sentimenti che non vorremmo conoscere e che escono allo scoperto nei momenti estremi. Due dei fratelli, ad esempio, si ritrovano a disputarsi l’unico appiglio per la salvezza:

“… Si lanciò verso l’anello dal quale, nella sua agonia di terrore, cercò di strappar via le mie mani, non essendoci posto per due.”

Si torna ai mostri nella pancia di cui parla il saggio dal quale siamo partiti. Ma per prendere subito un’altra direzione, meno intimista.

In pancia alla balena 15Infatti: dove conduce l’abisso? Non necessariamente all’inferno, malgrado le due immagini siano strettamente associate. È possibile che Poe si sia ispirato per questi due racconti alla teoria della “terra cava”, diffusa nella prima metà dell’ottocento da alcuni esploratori, che si cimentarono anche in improbabili spedizioni polari. La versione più fantasiosa di questa teoria postulava che una razza umana abitasse nella pancia della terra, in qualche caso disputandola a residuali mostri preistorici. Anche se Poe non ne fa mai menzione esplicita, direi che la cosa era senz’altro nelle sue corde, e che proprio attraverso la sua opera sia stata trasmessa a diversi autori da lui fortemente influenzati.

A Poe si rifà infatti esplicitamente Verne in Ventimila leghe sotto i mari, facendo inghiottire il Nautilus da un gigantesco maelström (ma il sottomarino riesce a salvarsi, e lo ritroveremo poi in una grotta de L’isola misteriosa.) Il richiamo è ancora più esplicito ne La sfinge dei ghiacci, concepito come un seguito de Le Avventure di Arthur Gordon Pym.

I mostri marini in Verne sicuramente non mancano, ma direi che il più interessante è proprio il Nautilus. Tale appare all’opinione pubblica, visto che i superstiti delle navi da esso affondate raccontano “di avere visto una ‘cosa enorme’, strana, lunga, fusiforme, talvolta fosforescente, infinitamente più grande e più veloce di una balena”, che lancia sbuffi d’acqua a grandi altezze; ma in un primo momento appare tale anche al professor Aronnax, che lo scambia per un enorme narvalo. In effetti il Nautilus è un mostro: un mostro artificiale, che ha un lontano progenitore nel cavallo di Troia. Nel suo ventre dimorano e viaggiano per ottantamila chilometri i tre protagonisti, incontrando calamari giganti ed esplorando foreste sottomarine. Ma hanno anche modo di meditare, confrontandosi col capitano Nemo, che ritorce le conquiste del progresso contro la coscienza sporca della società del profitto. Ed anche loro escono dal soggiorno nella pancia del mostro molto cambiati.

A Verne l’idea di cacciare i protagonisti delle sue storie in caverne, cunicoli, anfratti del sottosuolo piace parecchio (così come quella di farli volare nello spazio: anche lui li manda sulla Luna). Non vuole lasciare spazi inesplorati, si picca dare una spiegazione razionale di tutto (la Sfinge dei ghiacci si rivela alla fine del suo romanzo essere una montagna ghiacciata) ma un gusto particolare lo prova quando può uscire dal binario del verosimile e aprire alla scoperta paesaggi totalmente inediti. Il Viaggio al centro della terra è un’esplorazione dell’abisso che strizza l’occhio alla teoria della terra cava. Tradotto nel linguaggio usato per queste riflessioni, il titolo potrebbe essere Nella pancia del mondo.

Cos’hanno in comune tutte queste vicende? Più di quanto non si pensi. L’unica differenza tra il calarsi nelle viscere della terra e l’entrare nello stomaco di una balena sta nel fatto che nel secondo caso di norma non si sceglie. Non è una differenza da poco, ma l’esito è lo stesso. È la vertigine creata dall’ignoto, dal non sentire sotto i piedi la terra (“sente che sotto i piedi arena giace,/ Che cede, ovunque egli la calchi, al peso” scrive Ariosto), dal roteare e precipitare nel vuoto. Racconta più il disagio della civiltà che non l’epopea del progresso. Come del resto hanno fatto, in maniere diverse, tutti i suoi predecessori.

Per chiudere almeno momentaneamente il cerchio dovrei parlare ora di altri epigoni di Poe, di Edward Bulwer-Lytton e del suo Vril (ne La razza ventura), ad esempio, o di Lovecraft, che ne Il tumulo immagina l’esistenza da tempi remotissimi nel sottosuolo terrestre di un mondo abitato da esseri terribili: ma sono cose di cui ho già trattato più o meno diffusamente altrove, e non voglio ripetermi.

L’impressione rimane quella: che in ogni epoca (anche in quelle nelle quali nasceva o si affermava la fiducia nel progresso) la letteratura abbia espresso, più che i timori per le incognite negative del futuro, i rimpianti per la perdita progressiva di dimensioni misteriose e inesplorate, della possibilità di essere sorpresi o di trovare in esse rifugio. Di qui l’ambiguità. Gli uomini a temono ma al contempo amano tanto il mistero quanto i pericoli che esso può celare: non possono fare a meno di una certa dose di adrenalina, e in un mondo totalmente disvelato e per la gran parte messo in sicurezza il rischio se lo vanno comunque a cercare, come testimoniano gli sport estremi. Oppure cercano i surrogati della vertigine, sulle montagne russe o nel bungee jumping ,

Concludo con una vicenda sulla cui autenticità lascio libero di decidere il lettore, e che in caso positivo non può non produrre qualche riflessione.

Il fatto sembra essere accaduto nel 2019, ed è stato raccontato da un sub che nuotava al largo delle coste sudafricane (pare comunque che esista anche una documentazione fotografica esterna, per quanto confusa). Era intento ad osservare il comportamento degli squali che gli nuotavano attorno (questo la dice già lunga sul personaggio), per cui troppo tardi si è reso conto di quello che gli stava accadendo:

[…] improvvisamente intorno è diventato buio. Ho capito che ero stato inghiottito da qualche animale. Ho trattenuto il respiro perché pensavo che si sarebbe immerso e mi avrebbe liberato molto più profondamente nell’oceano, era buio pesto dentro. Ovviamente poi l’animale si è reso conto che non ero quello che voleva mangiare, quindi mi ha sputato fuori. Una volta che sei preso da qualcosa che pesa oltre 15 tonnellate e si muove molto veloce nell’acqua, ti rendi conto che in realtà sei solo così piccolo in mezzo all’oceano. Ho sentito una pressione pazzesca ai fianchi ed è stato quando la balena si è accorta di aver sbagliato boccone. Lentamente ha spalancato le fauci per liberarmi e sono stato letteralmente spazzato via, insieme a quello che mi è sembrato una tonnellata d’acqua.

Ho confrontato questo racconto con quello di Münchausen. Quand’anche la si accetti come vera, la vicenda in definitiva non ci trasmette nulla. Semmai conferma quel che scrivevo prima a proposito del pericolo volutamente rincorso. Non è nemmeno spettacolare, e neppure lo sarebbe se fosse stata integralmente ripresa in soggettiva dal protagonista: senza i relitti, la possibilità di incontri straordinari, i banchetti a base di pesce e frutta, l’interno di questo pesce è solo una scatola buia e stretta. La dissacrazione delle paure e delle fantasie ancestrali ha lasciato il posto solo a quelle virtuali e artificialmente indotte. Il risultato è che non sappiamo più di cosa davvero dovremmo aver paura, e abbiamo paura di tutto.

P.S. In realtà non è finita qui. Rimane in sospeso il confronto con chi ha scritto un saggio intitolato “Nella pancia della balena”, ovvero George Orwell. Ma Orwell, come Cervantes, non può essere liquidato nelle poche righe di una rassegna come questa. Anche per lui do quindi appuntamento ad una prossima puntata.

Mi arriva notizia nel frattempo che siamo anche campioni d’Europa nel Football americano. Adesso il rugby non ha più scusanti. E io nemmeno.

Ma non sono così sicuro di voler davvero uscire dalla balena.

In pancia alla balena 16

Il vagabondo nella letteratura anglosassone

di Paolo Repetto, 2014

L’America moderna nasce da un gruppo di “pellegrini”, per dare spazio a coloro che non vogliono stare in riga in Europa: e a differenza di quello congestionato del vecchio continente questo spazio pare fatto apposta per essere girato in lungo e in largo e per offrire occasioni diverse ad ogni angolo. I popoli nuovi che vanno ad abitarlo non hanno nei suoi confronti alcun radicamento tradizionale; non è terra consacrata dal sangue e dal sudore degli avi, non impone alcun rispetto e soprattutto non crea alcun vincolo. La frontiera della colonizzazione rimane mobile per secoli, e lascia intravvedere sempre un altrove verso il quale spostarsi. In America quindi “c’è spazio”, sia letteralmente che letterariamente, anche per i vagabondi, che viaggiano in continuità diretta con gli uomini della frontiera e con i liberi coloni che vanno loro appresso. Il vagabondaggio non entra nella letteratura con le stigmate della marginalità, perché non contrasta col panorama di un paese in perenne movimento. È esattamente il contrario di quanto accade in Russia, dove i contadini asserviti, la stragrande maggioranza della popolazione, sono vincolati alla terra e non possono muoversi nemmeno quando muoiono di fame.

Il libro più amato dagli adolescenti americani, la lettura “di formazione” per antonomasia, è Huckleberry Finn. Da noi, quando ancora si leggeva, era Pinocchio, che ogni volta che scappa di casa è destinato a finire nei guai. Huck diventa invece il simbolo stesso della libertà e di una vita vissuta alla grande e incarna il prototipo del vagabondo americano, o almeno di tutti i vagabondi letterari americani. Come Gorkij, come London, come Hamsun, Huck è senza padre (nel suo caso il padre non è morto, ma è un ubriacone violento, che lo abbandona ancora bambino). Del resto, dietro ogni vagabondo c’è sempre un problema col padre, a volte l’assenza, più spesso una presenza violenta. Nel suo caso si sommano entrambi i modelli negativi: e questo, paradossalmente, ne fa il ragazzo più libero del mondo.

Preso sotto tutela da una bigotta di buon cuore, che cerca di educarlo a lavarsi, studiare, frequentare la scuola e la chiesa, Huck rimpiange la vita libera che conduceva un tempo, quando vestiva stracci e dormiva in una botte; non regge le convenzioni civili, che gli paiono ipocrite e senza senso. Alla fine, anche per sottrarsi alla violenza del padre che è improvvisamente riapparso, decide di risalire su una zattera il Mississippi assieme ad uno schiavo fuggitivo, sino a raggiungere gli stati abolizionisti. Qualcuno ha scritto che Tom Sawyer, protagonista del primo libro in cui compare Huck, è il ragazzo che Twain era stato, mentre è Huck il ragazzo che avrebbe voluto essere: certamente è il ragazzo cui milioni di adolescenti, americani e non, avrebbero voluto e ancora oggi vorrebbero somigliare. Nel corso del suo vagabondaggio Huck ne vede di tutti i colori, famiglie distrutte da faide insensate, ragazzi della sua età barbaramente uccisi, truffatori, negrieri, ogni sorta di furfanti: ma ci passa in mezzo indenne, a dispetto delle disavventure. Eticamente indenne. Questo è lo spirito del vagabondo americano. Non c’è in lui alcun processo di formazione, alcuna ricerca del sacro, trascendente o immanente che sia. È la ricerca fondativa e primaria della libertà individuale, quella che ha portato i pellegrini sull’altra sponda dell’Atlantico, e che applicata fino alle sue estreme conseguenze muoverà i passi di Thoreau in direzione opposta a quella della civilizzazione-omologazione.

Le vicende di Huckleberry Finn si svolgono comunque in un’America ancora immersa nella sua infanzia rurale, quella degli anni quaranta dell’800, appena uscita dalla prima fase della colonizzazione e in procinto di dare avvio alla seconda, la conquista del West. In mezzo c’è una guerra sanguinosa che si lascia alle spalle, oltre agli odi e alle devastazioni, centinaia di migliaia di reduci, spesso, segnatamente quelli del Sud, privati anche di una casa cui tornare. La parte più occidentale del paese si riempie di vagabondi con la pistola, di texani dagli occhi di ghiaccio e dalla mano veloce, di cavalieri solitari i cui percorsi si incrociano con quelli dei mercanti, dei venditori di unguenti e di sciroppi miracolosi, di ogni sorta di imbonitori e di predicatori. Tutta l’epopea western letteraria e poi cinematografica è un inno al vagabondaggio, all’irrequietezza, agli orizzonti di libertà verso i quali, nell’ultima pagina o nell’ultima sequenza, il cavaliere si avvia.

Ma la realtà, soprattutto nella fascia orientale, è diversa. Dopo la guerra civile gli Stati Uniti mutano radicalmente, da paese da agricolo si trasformano in potenza industriale. Ai reduci si sommano gli emigranti in arrivo dall’Europa, e sono diseredati e poveri, in cerca di lavoro e di occasioni, ma spesso mossi prevalentemente dal desiderio di libertà. In un paese in crescita vertiginosa, che offre una miriade di occasioni, la lotta per affermarsi diventa frenetica. Produce rapide fortune e tutta una galleria di personaggi vincenti, di self made men che in genere, ad onta di ogni postuma beatificazione, sono belve senza scrupoli: e produce un numero ben maggiore di sconfitti, coloro che non trovano posto nel nuovo meccanismo produttivo nemmeno come semplici rotelline, o non accettano di farne parte.

A fine secolo la galassia degli sbandati da strada è quindi estremamente confusa, tanto che nel 1899 Josiah Flint cerca di mettere un po’ d’ordine attraverso un studio sociologico della categoria “dall’interno” (Tramping with Tramp). I vagabondi vengono catalogati in tre tipologie: l’hobo è colui che viaggia in cerca di impieghi stagionali, una sorta di lavoratore occasionale itinerante; tramp è “colui che viaggia e sogna”, mosso dalla curiosità e dalla voglia di indipendenza; bum è colui che viaggia e beve, l’accattone alcolizzato e fastidioso. Alla seconda categoria apparterrà ad esempio il Chaplin de Il vagabondo (1916), e possono essere iscritti, in una versione surreale, gli Allegri vagabondi Laurel e Hardy, mentre quelli conosciuti da London sono in genere hobo. Nelle sue peregrinazioni London si imbatte nei primi scarti del nuovo modo di produzione, quelli che come lui resistono massimo una settimana allo sfruttamento e alla monotonia degradante del lavoro industriale; ma ad appassionarlo è un’altra fauna di “poco adatti”, quella dei contrabbandieri e dei razziatori di vivai, quella dei cercatori d’oro del Klondike, e quella appunto degli hobo che saltano da un treno all’altro. London, come abbiamo visto, usa una lente un po’ particolare, sfocata dalla nostalgia, perché, come Huck, quando esce da quel mondo cessa di essere felice.

È quanto capita anche a Vachel Lindsay, lo stralunato “trovatore della prateria”, autore di una Guida utile per mendicanti (1905) e di Rime da scambiare con pane (Rhymes To Be Traded For Bread, 1912). Autentico tramper, a metà tra Chaplin e i narrabondi inglesi, Lindsay si spostava a piedi da uno stato all’altro dell’Unione, armato di una dichiarazione stampata, il Vangelo della bellezza, del suo libretto di rime da scambiare con cibo e di un portfolio di immagini che dovevano servire a far comprendere visivamente questa bellezza. A volte saliva sui treni e improvvisava per gli attoniti spettatori delle ispirate performance poetiche. Quando infine prova a rientrare nei ranghi, attraverso un matrimonio, la paternità, una occupazione più o meno stabile, la sua irrequietudine si trasforma in profonda depressione e lo porta a darsi una fine atroce.

Non prima però di aver incrociato un altro personaggio, altrettanto e forse ancor più singolare, l’inglese Stephen Graham, e aver camminato con lui. Graham è probabilmente il più incredibile viaggiatore del ventesimo secolo.(cfr. Pensare con i piedi) Durante un soggiorno negli Stati Uniti compie con Lindsay una lunga escursione sulle montagne rocciose, che racconta nel 1922 in Tramping with a Poet. Anticipa nella pratica ciò che poi teorizzerà ne The gentle art of tramping, del 1926, un vero e proprio manuale del tramper, nel quale i consigli pratici si mescolano alla filosofia del viaggiar leggeri e lenti: “ Se volete conoscere un uomo, partite per un lungo vagabondaggio con lui”.

Linsday non incontra invece William Henry Davies, un altro inglese, irrequieto come lui, la cui biografia ricorda incredibilmente nella parte giovanile quelle di Gorkij e di London: orfano di padre a tre anni, la madre che si risposa e lo lascia alle cure dei nonni, vocazione delinquenziale nell’adolescenza e infine, a quindici anni, in giro per il mondo. Attraversa sette o otto volte l’Atlantico con imbarchi occasionali e nel 1893, a ventidue anni, si ferma negli Stati Uniti, dedicandosi al vagabondaggio, inseguendo lavori stagionali, trascorrendo gli inverni nelle prigioni federali e spendendo in colossali sbornie tutto quello che guadagna. La svolta della sua vita avviene quando, saputo dell’oro del Klondike, cerca assieme ad un compagno di saltare su un treno per l’ovest, perde in corsa l’appiglio e si ritrova con una gamba maciullata ad un punto tale che si deve ricorrere all’amputazione. Non gli rimane allora che rientrare in Inghilterra, dove sopravvive tra un ostello e l’altro dell’esercito della salvezza, ma comincia a coltivare seriamente a quella che era una sua passione sin da ragazzo, la poesia. Compone una prima raccolta, la fa stampare a proprie spese (anzi, a quelle altrui, perché il denaro l’ha avuto in prestito) e come Lindsay gira zoppicando a venderla porta a porta, con scarsissimo successo. Il successo arriva invece nel 1908, quando riesce a pubblicare con l’aiuto di George Bernard Shaw, che firma anche la prefazione, quello che diverrà un classico della letteratura hobo, L’autobiografia di un super tramp. Il libro esce un anno dopo quello di London, ma racconta un’esperienza assai più lunga e intensa e, oserei aggiungere, anche più genuina. L’idea di raccontarla arriva infatti a posteriori, non ne è il motore. La parte della vita di Davies che a noi interessa finisce qui. Il riconoscimento dell’originalità della sua poesia gli apre le porte dei salotti e dei circoli letterari, e lo riconduce ad una tranquilla esistenza borghese.

È difficile dire se l’interesse per la letteratura di vagabondaggio sia conseguente all’attenzione sociologica per il fenomeno, o viceversa. Sta di fatto che nei primi due decenni del secolo le opere riferibili all’una e all’altra si infittiscono. La vita degli hobo viene studiata e descritta da un sociologo svedese, Nels Anderson (Il vagabondo. Sociologia dell’uomo senza dimora, del 1922), mentre un pugile di origine irlandese, Jim Tully, racconta la sua diretta esperienza di quel mondo in Beggars of Life. Tully ha alle spalle un’infanzia tragica e anni di orfanotrofio, come del resto lo stesso Anderson. L’infanzia disperata si conferma essere una caratteristica comune a tutti quelli che si occupano di vagabondi. La generazione letteraria degli anni tra le due guerre, quella di Faulkner e di Caldwell, adotta tuttavia uno sguardo diverso da quello di London. Racconta di disperati che non hanno nemmeno gli stimoli e la forza per muoversi, e quando parla di vagabondi ne fa un ritratto impietoso. Ne Il predicatore vagante Caldwell presenta un ciarlatano, uno dei tanti che approfittano della semplicità e dell’ignoranza della provincia profonda americana. Invece che a cavallo il protagonista arriva su un’auto sgangherata, anziché difendere i deboli truffa e plagia i sempliciotti. Scompare alla fine, quando comincia a sentire odore di bruciato, lasciandosi alle spalle solo macerie. È la faccia scura di una epopea, e questo significa che l’epopea è al tramonto.

In effetti la vecchia immagine del vagabondo, positiva o negativa che fosse, ma distinta nella sua singolarità, è già svanita, confusa in una forzata mobilità di massa. Dopo la crisi del ’29 agli sradicati storici si sommano infatti le vittime della depressione, e il paese si riempie di sbandati. In Furore Steimbeck narra l’esodo e le peripezie della famiglia Joad, una tra le decine di migliaia che migrano dal Midwest verso la California, dopo aver visto le proprie terre inaridite dalle tempeste di polvere e le proprie fattorie espropriate dalle banche. La lettura del fenomeno diventa politica: il predicatore Casey, di tempra ben diversa da quella del personaggio di Caldwell, è mosso dall’idea di una missione, e alla fine verrà affiancato dallo stesso Tom Joad; gli altri sono solo spinti qua e là dalla contingenza economica. Non sono veri vagabondi, sono dei disperati molto più simili al popolo dell’abisso, e soprattutto si percepiscono come tali, perché non ragionano nell’ottica di una scelta di vita che è caratteristica dell’hobo, ma in quella dell’espulsione dalla società normale.

Il New Deal e la guerra attutiscono il fenomeno, ma nel secondo dopoguerra la categoria si arricchisce ancora una volta di una legione di reduci che non riescono più ad integrarsi, e soprattutto di giovani che di integrarsi proprio non ne vogliono sapere. È una categoria antica, e tuttavia anche nuova: antica perché ha in Europa precedenti illustri, da Eichendorff ai romantici inglesi e tedeschi: nuova perché cresce solo apparentemente ai margini della società industriale e consumistica. In realtà i libri di maggior successo, le mode musicali più diffuse, i film di cassetta degli anni sessanta e settanta ruotano proprio attorno a questa dimensione. Il nuovo vagabondaggio è soprattutto un fenomeno generazionale. Non si tratta quindi più delle aristocrazie intellettuali del popolo dell’abisso, o di superuomini che intendono uscirne. Sono un sottoprodotto di quella società, la contestano ma ne utilizzano gli spazi di decompressione, i margini sia pure angusti di libertà, risultando alla fine, quando non addirittura complementari, quanto meno non contrapposti al nuovo modello di vita. Diventano anzi il grimaldello del quale la società dei consumi si serve per forzare le ultime resistenze conservatrici e invadere totalmente la vita degli americani, come dimostra il recupero effettuato in chiave commerciale di ogni fenomeno di devianza o di dissenso (dalla musica all’abbigliamento, dalla “rivoluzione” hippie alle varie “liberazioni” di genere, di etnia, di età, di costume).

È una galassia composita, nella quale orbitano, rimbalzando da una parte all’altra degli States, tutte le categorie di disintegrati immaginabili. Ci sono i beatniks di Kerouack (Sulla Strada), che sul modello del mitico Neal Cassady (Vagabondo), intraprendono confusi percorsi di ricerca spirituale, consumati tra viaggi in autostop e scalate nelle montagne della California, tra meditazioni notturne nei boschi o sulle spiagge solitarie (I vagabondi del Dharma) e riti di sessualità orgiastica. Oppure i vagabondi mentali di Salinger (è significativo che Franny sia così colpita proprio dal Viaggiatore incantato) o di Ken Kesey (Qualcuno volò sul nido del cuculo), quelli tardo western di Mc Carty (Oltre il confine), fino a quelli motorizzati e filosofi di Pirsig (Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta) o solo motorizzati di Easy Rider …

Ero tutto preso nel leggere le lunghe colonne che elencavano città e stati, nel confrontare la loro posizione geografica sulla grossa mappa, e in modo particolare mi interrogavo sui diversi cognomi e la loro origine: i destini di quegli uomini mi erano tutti sconosciuti e sognando a occhi aperti la diversità delle sorti possibili per la prima volta mi sorpresi della vita” esordisce nella sua autobiografia Cassady. Non c’è alle spalle una infanzia terribile, non c’è un desiderio di riscatto, non c’è vera ribellione: è pura e semplice curiosità. La sorpresa della vita.

In definitiva, la percezione americana del vagabondaggio, sia dall’interno che dall’esterno, rimane lontana dalla drammaticità. Ne viene colta principalmente la componente avventurosa, il lato divertente (basti pensare a Chaplin). D’altro canto è difficile soffrire lo sradicamento dove una radice culturale o territoriale profonda non c’è. Il vagabondaggio per gli americani è una possibile condizione, anzi, lo stadio estremo di una condizione comune, piuttosto che una possibile eccezione. Come rilevava Hamsun, in America nessuno ha un posto cui tornare.

L’altro aspetto che caratterizza il vagabondo americano è come abbiamo visto la modalità dello spostamento. Nel West gli sbandati girano a cavallo. Su tutto il continente, appena si danno le condizioni, si muovono sui treni, e dagli anni trenta in poi con passaggi in autostop o direttamente su vecchi trabiccoli. Il che implica un rapporto sempre più fuggevole e superficiale con la natura. Se si eccettua Edward Abbey, con il suo Deserto solitario, sono pochissimi gli autori della generazione tra beatnik e hippie che coltivano con la natura un rapporto quale può invece trovarsi in Europa. Abbey è anche l’unico che parli, prima dell’avvento della moda new age, di una lotta per difesa dell’ambiente (ne I sabotatori). Probabilmente questo è dovuto alla differenza degli spazi, al fatto che spostarsi a piedi da un luogo abitato all’altro in America è praticamente impossibile e all’esistenza di una riserva apparentemente inesauribile di ambienti incontaminati, per cui quando un posto comincia a fare schifo ci si sposta un po’ più in là. Di fatto, il vagabondaggio in America oggi è sparito, così come in Europa: non ha alcuna continuità nel crescente popolo degli homeless, che sono degli emarginati urbani, dei senzatetto, non dei vagabondi in perenne movimento. E comunque, all’interno di megalopoli che continuano a svilupparsi in ampiezza, prive di un centro storico, spostarsi a piedi risulterebbe già di per sé sospetto. Se qualche figura ancora si incontra ai margini della strada, senz’altro ha una moleskine in tasca e pubblicherà di lì a un anno il diario della sua esperienza, come già fece London, o scriverà la sceneggiatura per un film.

Anche nella letteratura inglese la percezione del fenomeno non è assolutamente drammatica. Per un motivo molto semplice: in Inghilterra di vagabondi non ne circolano, o quasi. È stato infatti il primo paese a varare una legislazione specifica contro il vagabondaggio, fin dai tempi di Enrico VIII. Il paradosso è che già nel Medio Evo la maggior parte dei suoi abitanti erano uomini liberi, in un’epoca nella quale il concetto di libertà si identifica quasi interamente con la libertà di spostarsi. Al contrario dei continentali, non erano vincolati per obbligo o per consuetudine alla terra e ai suoi proprietari: inoltre la loro mobilità era favorita dall’assenza di confini fisici naturali tra le varie regioni. Tutto questo sino a quando la gran parte del territorio rimase nelle mani della nobiltà tradizionale o della Chiesa. Le trasformazioni economiche del XVI e del XVII secolo imposero però un giro di vite a questo eccesso di mobilità. I nuovi proprietari terrieri, la gentry e i latifondisti di origine borghese, non si sentivano affatto obbligati a rispettare le consuetudini dell’ospitalità e dell’accoglienza nei confronti di poveri e pellegrini; intendevano anzi far valere i diritti esclusivi sulla caccia, la pesca e la raccolta nelle loro terre, e chiedevano pertanto alla nascente istituzione statale degli interventi radicali. L’intrusione in una proprietà altrui, intendendo come tale anche il semplice transito non autorizzato, cominciò ad essere punita come un atto della peggior delinquenza.

Le leggi antivagabondaggio perseguivano un doppio fine: togliere dai piedi elementi sospetti, pericolosi o comunque negativi per l’esempio che offrivano, e reclutare manodopera a costo praticamente zero. Vennero infatti create apposite work-houses o alm houses, che erano in sostanza opifici per il lavoro coatto. Per i più riottosi, per quelli che rifiutavano la schiavitù del lavoro o erano inadatti, si aprivano le vie degli oceani: emigrazione e deportazione mantenevano sotto controllo il numero degli irregolari sulle strade. Persino gli zingari, che erano approdati in Inghilterra nel XVI secolo, e contavano una comunità di quasi ventimila membri, vengono indotti ad emigrare in massa prima della metà dell’Ottocento.

I divieti e l’azione repressiva continuano infatti a funzionare anche nei secoli successivi, quando il regime delle enclosures produce un sempre maggiore impoverimento nelle campagne, e quindi sempre nuove ondate di sbandati che diventano il bacino inesauribile al quale attinge l’industria. Inoltre, lo smantellamento della vecchia società rurale cancella quel tessuto di relazioni che costituiva l’habitat naturale del vagabondaggio, e che reggerà invece sul continente sin quasi alla fine dell’Ottocento.

In assenza o con una scarsa presenza di nomadi non regolari il vagabondaggio diventa espressione episodica di spiriti stravaganti ed inquieti, in genere provenienti dalle classi inferiori e approdati ad buon un livello di istruzione, quando non addirittura alla celebrità, quasi sempre tormentati da disturbi nervosi: assume insomma una sfumatura di snobistica eccentricità. I vagabondi inglesi non sono mai dei disperati come in Russia o dei non conformisti come in America. La loro è una scelta esistenziale volontaria e ha le sue radici, almeno limitandosi all’età moderna, nel Grand Tour settecentesco e nella Wanderung romantica. Sono degli originali che si muovono come pellegrini sulle tracce del loro Graal. E infatti, i progenitori sono proprio i personaggi del ciclo della tavola rotonda, gente come Gawain o il Cavaliere verde, che vagabondano a destra e a manca per il gusto puro e semplice della libertà. Oppure sono pellegrini come quelli raccontati da Chaucher, o il protagonista de Il viaggio del pellegrino da questo mondo a quello venturo di John Bunyan. Anche Gulliver tutto sommato è un vagabondo, così come lo sono i personaggi di Coleridge. E vagabondi per scelta, sia pure temporanea, sono poeti come Wordsworth e Keats, o narratori come De Quincey o Stevenson (tutti formidabili camminatori). Lo stesso vale per gli esploratori che si sguinzagliano in tutte le parti del mondo, o per quegli strani personaggi che si mettono in viaggio per smaltire gli orrori di una guerra, come George Brenan, o gli errori di una educazione rigida e monotona, come Leigh Fermor. Da tutti loro il percorso non è inteso semplicemente come viaggio fisico, ma anche come evidente trasformazione interiore di chi compie il viaggio.

A rigor di termini stiamo parlando però di viaggio, più o meno avventuroso, e non di vagabondaggio. Una pratica e una cultura vera e propria del vagabondaggio, come quella che si sviluppa in Russia e in America e che incontreremo anche in Scandinavia, in Inghilterra non la troviamo: o meglio, troviamo una “declinazione culturale” del vagabondaggio, in luogo di quella sociale. Il termine stesso wanderer ha un’accezione diversa, si rifà appunto alla tradizione romantica “alta”, ha in alcuni casi un collocazione urbana che è ben lontana dall’abisso di London e trova una classica esemplificazione ne L’avventura londinese o l’arte del vagabondaggio, di Arthur Machen. Per Machen il wanderer è uno che si aggira per le vie di una Londra in piena trasformazione, ancora segnata dall’antica magia delle taverne e degli edifici un tempo lussuosi e ora diroccati e fatiscenti, alla ricerca di luoghi inconsueti e semisconosciuti che producono un effetto straniante. Quello che è insomma il flaneur per Baudelaire. In questo tipo di peregrinazioni cittadine può vantare precedenti illustri, ad esempio quello di Charles Lamb o di William Hazlitt.

Ci sono però anche personaggi che più si accostano al modello “continentale” del vagabondaggio. De Quincey, ad esempio, negli anni della giovinezza gira in lungo e in largo per il Galles senza un soldo in tasca, guadagnandosi zuppa e pernottamento come scrivano di lettere per i contadini o con conferenze improvvisate. John Clare, figlio di un lottatore e cantante di antiche ballate nelle fiere, conosce una trafila di lavori infantili da fare invidia a Gorkij e a London, dal pastore all’apprendista ciabattino, al muratore, al giardiniere. Quando finalmente gli arride il successo come poeta autodidatta, lascia la moglie e otto figli per mettersi per strada, in preda a deliri visionari. L’ultimo terzo della sua esistenza lo trascorrerà in manicomio.

Anche George Borrow si mette periodicamente per strada in Scozia, muovendosi a volte a piedi, a volte con un cavallo, un carrettino ed una tenda. Come Clare è appassionato della vita e della storia degli zingari (la racconta in Lavengro, e scrive persino un dizionario della lingua zingara, nel quale sostiene che la matrice del linguaggio dei delinquenti è italiana!); a differenza di London si batte con uno zingaro, e lo mette ko. Bisogna però dire che Borrow era un buon pugilatore, alto quasi due metri, e che l’avversario, per quanto grosso, era uno solo. Richard Jeffries, altro spilungone eccentrico e destinato a una fine precoce, in fuga sin dall’adolescenza, vaga per anni senza meta e senza una occupazione fissa nel Wiltshire, conoscendone come nessun altro gli ambienti, la fauna e gli abitanti, vivendo all’aria aperta e sempre ai limiti della legge. Sarà il testimone oculare della fine del mondo rurale, e insieme una sorta di enciclopedia naturalistica e antropologica vivente del tempo che fu. E poi c’è Stevenson, vagabondo sia per tutte le isole britanniche che nelle Cevennes francesi, in compagnia di un asino.

Nelle loro scelte c’è appunto una forte componente romantica: “Il progresso fa le strade dritte: il genio percorre strade tortuose, senza sviluppo” scriveva Blake. E “datemi delle strade tortuose” ribadiva Hazlitt. Perché dunque procedere dritti, quando alla fine di nessuna strada c’è qualcosa di meglio di quanto possa cogliersi lungo il percorso? Le modalità dello spostamento sono dettate proprio dall’idea delle opportunità che il percorso di per sé offre, di incontri, di conoscenze, di un rapporto diverso con la natura, da recuperarsi rimanendo a più stretto contatto possibile con essa. Per Stevenson “Un sentiero attraverso un campo varrà sempre per noi più di una strada ferrata”. E anche per quanto concerne questo rapporto, è da distinguere tra quella che possiamo chiamare l’adorazione della natura (in Wordworth e in Shelley, ad esempio) e la passione per la terra. Sono due cose diverse: un atteggiamento romantico la prima, una genuina e positiva curiosità la seconda, che in genere si coniuga con l’ideale del minimo, dell’essenziale: a quella libertà di rimanere poveri che è esattamente opposta allo standard della modernità.

Questo modello a matrice culturale, piuttosto che sociale, è rimasto dominante nella cultura inglese. L’inglese in viaggio non è mai un vero e proprio vagabondo, non rappresenta mai un mondo a parte, ma è un inglese che si muove nel mondo. Le eccezioni, quella che abbiamo visto di Orwell o quelle rappresentate da Borrow e De Quincey, sono tali fino ad un certo punto. Non sono scelte di vita, ma scelte di esperienze da farsi a tempo determinato. È un modello che ha funzionato sino alla grande guerra, giocando su una straordinaria combinazione di fattori individuali e ambientali, storici e culturali, che hanno dato vita ad uno stile. Come in tutte le altre parti del mondo occidentale, dopo quell’evento le cose sono cambiate radicalmente: non sono venuti meno i vagabondi, è venuto a mancare l’ambiente nel quale potevano muoversi.

 

Lo zen e l’arte di raccontar balle

di Paolo Repetto, 30 aprile 2014

È lo stile che ci fa credere in qualcosa
nient’altro che lo stile!
Oscar Wilde

Una volta chiesi ad Osvaldo quanto ci si impiegasse per raggiungere Dego. Dovevo portare sin là con uno scassatissimo Transit la band del paese, strumenti e amplificazione compresa. Erano le otto passate, si era in inverno e l’esibizione era prevista per le dieci. Rispose: “Dego? Quaranta minuti”.

Rimasi interdetto. Sono quasi ottanta chilometri, all’epoca senza un metro di autostrada, tutti tornanti e attraversamenti. Obiettai: “Ma lo sai dov’è Dego? Ci sei mai stato?” Mi zittì: “Sia un po’ dove vuole. In quaranta minuti ci si va”.

Avrei dovuto saperlo. Non si obietta all’affermazione di un maestro. Fossi stato un discepolo zen avrei rimediato una bastonata. Osvaldo non bastonava, ma ammollava certi cartoni sulla schiena da lasciarti senza respiro per un quarto d’ora. A buon diritto, perché era maestro in un’altra disciplina: nell’arte antichissima di raccontar balle.

Questa conversazione non vuole offrirvi un trattato sulla menzogna. Non ne farà la storia, perché dovremmo partire da Eva e passare poi per Platone, Torquato Accetto e tutti gli altri, e non basterebbero due settimane per un riassunto. Toccherà solo marginalmente la letteratura, che pure è zeppa di bugiardi, da Ulisse a ser Cepperello e a Iago, per citare solo i più famosi: ma anche qui, al di là del fatto che la letteratura è di per sé menzogna, non ne usciremmo più. Mi terrò infine prudentemente lontano dalla psicologia, per cui non sarà un corso accelerato per mentitori, e nemmeno offrirà un prontuario per smascherarli. Tanto l’uno che l’altro sarebbero perfettamente inutili, conosciamo già tutto quel che serve e sappiamo anche che non serve a nulla.

E allora? Allora vado a proporre una serie di riflessioni a ruota libera, sia pure confortate da autorevoli esperti, su un’attitudine che per alcuni costituisce un vero e proprio sport, per altri una naturale necessità, per altri ancora uno strumento, di affermazione o di sopravvivenza. Nelle intenzioni dovrei limitarmi al tema dello stile, prescindendo da ogni considerazione morale o civica. Per questo il titolo parla di arte: si può essere semplicemente dei bugiardi o si può essere degli artisti nel travisare la realtà. Dei primi c’è poco da dire: quando non sono pericolosi sono patetici. Io voglio naturalmente parlare dei secondi.

Mi accorgo però che sarà difficile tagliar dritto, fingendo che il discorso sullo stile possa essere avulso da quello più generale sul nostro bisogno di nascondere o travestire la verità. C’è il rischio che ne nascano ambiguità e confusione. Non garantisco quindi che non verranno percorse anche altre vie.

Devo fare un’ulteriore precisazione: quando affermavo che non avrei parlato della menzogna volevo dire in realtà che non tratterò di ciò che noi normalmente intendiamo per menzogna. Il termine può essere infatti usato in un’ampia gamma di sfumature, ma la connotazione prevalente è la più negativa, quella già evocata dalle facili assonanze con rogna e vergogna; tanto che quando è riferibile ad un atteggiamento nostro gli preferiamo sempre la locuzione “raccontare bugie”. In questo modo da mortale il peccato diventa immediatamente veniale.

Ciò di cui vado a trattare rimane in effetti entro il campo del veniale: non intendo avventurarmi nei vizi capitali. Possiamo dunque metterci rilassati, ma solo dopo aver accettato come assiomatico un dato di fatto: tutti quanti raccontiamo bugie, e non una volta ogni tanto, ma continuamente. Una psicologa ha realizzato uno studio dal quale si evince che ciascuno di noi mente in media un paio di volte al giorno. La ricerca in questione è evidentemente una stupidata, ma se vogliamo avere una dimensione quantitativa del fenomeno direi che ci stiamo dentro, e anche un po’ stretti. E nessuno creda di poter fare quello cui non tocca il pollo: non venitemi a raccontare che i giudizi che date sul cibo che vi viene servito, in casa o presso amici, o i pareri sulle gonne che vostra moglie ha appeno preso “d’occasione”, o sui regali che ricevete a Natale, siano sempre del tutto veritieri. Uno che se intendeva, Mark Twain, che sarà chiamato a testimoniare più volte nel corso di questa conversazione, diceva che “mentiamo ogni giorno, ad ogni ora, da svegli e nel sonno”; e avrebbe potuto aggiungere che mentiamo a noi stessi e agli altri.

C’è persino una teoria evoluzionistica secondo la quale l’uomo avrebbe sviluppato un cervello più grande rispetto al suo parentado del ramo primati proprio per avere la capacità di ingannare e quindi di prevalere, o almeno di sopravvivere. Jan Leslie, in Bugiardi nati, la riassume così: “L’homo sapiens si distingue dagli altri animali per questa caratteristica: la capacità di raccontar frottole e addomesticare la realtà”. Il linguaggio, secondo questa interpretazione della specificità umana, sarebbe prevalentemente strumento di inganno, e direi che qui non ci piove, non ci vuole nemmeno la psicologa per dedurlo, è un’evidenza che avvalora tra l’altro la narrazione biblica. Se interpretata alla maniera giusta, la teoria non mi sembra affatto infondata. Cominciamo a mentire più o meno nello stesso momento in cui iniziamo a parlare, e nel farlo costruiamo una dimensione alternativa, che opponiamo agli altri per autodifesa o nella quale cerchiamo rifugiamo quando la verità ci riesce inaccettabile. Ed è proprio il fatto di vivere in questa continua tensione tra due piani della realtà a distinguerci dagli altri animali. Quindi, prendiamo atto che siamo per natura dei contaballe, e vediamo piuttosto come esercitiamo questa prerogativa.

In genere lo facciamo senza cattiveria, a volte addirittura senza intenzione, e si tratta nella stragrande maggioranza dei casi di bugie piccole, tutto sommato innocue, quelle che aiutano anzi a mantenere un certo equilibrio nei rapporti familiari e sociali (paradossalmente, senza una certa dose di mistificazione sarebbero guai). Non è sempre così, però. A volte si mente per prevaricare, per ottenere vantaggi a danno degli altri, altre per semplice megalomania, per compulsione o per debolezza, altre ancora per pietà, per compassione. Ci sono quindi menzogne egoistiche e bugie altruistiche. E ci sono anche modi diversi di mentire: si può farlo per omissione, non dicendo tutto quel si dovrebbe dire (è quasi sempre il caso delle bugie pietose) o per falsificazione.

Nel momento stesso in cui si è reso conto della sua capacità di mentire, e quanto questa capacità potesse diventare un’arma, utile o pericolosa a seconda della parte del coltello che si impugna, l’uomo ha cominciato a darsi da fare per trovare gli antidoti, per smascherare la menzogna altrui. E ogni volta che ha fatto un passo avanti, acquisendo cultura, la cultura ne ha fatti due, elaborando nuove tecniche di inganno. Ultimamente però il gap parrebbe essere stato colmato. Sono state infatti individuate le specifiche aree del cervello che entrano in azione quando si dice una bugia, producendo impulsi elettrici. Questi impulsi vengono rilevati grazie a una speciale tecnica, l’imaging neurale, che ci mostra come le aree del cervello più attive nella costruzione delle bugie siano la regione frontale sinistra e la corteccia anteriore. È dunque possibile stabilire quando una persona sta mentendo poiché il cervello produce una risposta bioelettrica inconfondibile (si chiama N400). So cosa state pensando: c’è gente che con una cuffia in testa e quattro elettrodi potrebbe alimentare un condominio. Ma se ci riflettete un attimo, capirete che siamo fritti. Sarà sufficiente che ci applichino appena nati un microscopico rilevatore sottocutaneo, come già si sta pensando di fare per monitorare in tempo reale tutte le funzioni vitali, e tanti saluti alle vecchie care bugie: col rischio che saltino del tutto i già precari equilibri con colleghi, familiari, dipendenti o amici.

Non tutte le bugie, però, possono essere rilevate: e qui entriamo nel vivo della nostra conversazione. (In merito alla quale posso assicurare, anche se sembra un paradosso, che ogni riferimento a persone o cose sarà vero).

Io ho avuto la fortuna di conoscere due grandi Maestri, davvero due artisti nel loro campo, che era appunto quello del contar storie. Non ci sono parametri o criteri per l’attribuzione del titolo: l’artista lo riconosci dalla reazione che ti provoca. Davanti ad una balla più o meno evidente puoi provare fastidio e irritazione, quando non addirittura sdegno: oppure puoi provare un ammirato e divertito stupore. Ora, questa seconda reazione scatta evidentemente solo in presenza di qualcuno che non sta cercando di ingannarti e di procurarti del danno: al massimo si può essere “ammirati” nei confronti di chi ha saputo rifilarti una fregatura in maniera elegante, se la fregatura non ha procurato danni eccessivi. Ma io non considero neppure questo secondo caso. Voglio occuparmi di frottole fini a se stesse, pure come l’imperativo kantiano, non contaminate da interessi o secondi fini. Del piacere di raccontarle e di ascoltarle, e di come questo piacere sia davvero all’origine della nostra evoluzione culturale, ma non per i motivi egoistici supposti dalla teoria: o almeno, non solo per quelli.

Per questo ritengo che ciò di cui vado a parlare non sarebbe rilevabile con l’imaging neurale; non avrebbe alcun senso, e d’altro canto non sarebbe di alcuna utilità farlo. I sensori elettrici non scatterebbero perché si tratta di un travisamento della verità che con la menzogna voluta e consapevole, quindi con quella energia maliziosa necessaria ad occultare il vero e ad elaborarne un surrogato, quella che produce gli impulsi, ha a che fare molto marginalmente. Anzi, nemmeno di travisamento si dovrebbe parlare, ma piuttosto di enfatizzazione. Di qualcosa che esce dall’ambito della quotidianità comportamentale, per assurgere a quello della creatività artistica. Un altro esperto, Oscar Wilde, scrive: “L’arte stessa è una forma di esagerazione: e la scelta, che è lo spirito stesso dell’arte, non è niente più di una maniera intensificata di super-enfasi”.

Parlerò dunque di un’attitudine che è presupposto e motore di ogni creatività artistica.

I due maestri di cui dicevo sono il succitato Osvaldo e mio padre. Due artisti di impostazione diversa, che usavano tecniche e linguaggi differenti; ma comunque due sommi. Senza tema di sacrilegio li ascrivo alle tradizioni illustri rappresentate dagli esperti chiamati in causa: la scuola americana di Mark Twain, quella inglese di Oscar Wilde e quella internazionale del Barone di Münchausen. Mi si obietterà che a voler trovare degli artisti nel raccontar balle non è necessario uscire dal nostro paese, ne abbiamo da esportare: ma devo dire che la nostra tradizione non mi è affatto congeniale, nei casi migliori c’è comunque alle spalle quella presunzione di superiore furberia che riesce disturbante in ogni manifestazione di pensiero italiana. Le frottole di cui parlo io non sono destinate ad un pubblico di Calandrini o di teleutenti lobotomizzati: anzi, per non andare sprecate esigono un uditorio consapevole e complice.

Dunque, Twain descrive in Come raccontare una storia un tipo caratteristico di narratore, che identifica con l’uomo della frontiera, brutale, spaccone, capace davanti al falò di un bivacco o ad una bottiglia nel saloon di vanterie spropositate, di esagerazioni assurde: cacciatori che hanno lottato a mani nude con gli orsi, o hanno abbattuto tre prede con un solo colpo; pescatori che hanno tirato a riva lucci di due metri, con lo stomaco ancora pieno di trote vive e guizzanti; minatori andati in letargo in autunno e risvegliatisi a primavera inoltrata, un po’ smagriti, che con i loro racconti comici e surreali convertono la durezza della vita di frontiera in una fonte di risate catartiche.

Twain spiega come ciò che fa la differenza tra il fanfarone e l’artista non sia l’oggetto, ma il modo del racconto. Svela anche i trucchi del mestiere: “Raccontare una sfilza di scemenze senza alcun nesso, in maniera farneticante e spesso gratuita, mantenendo un’aria innocente e inconsapevole e fingendosi ignari dell’assurdità di ciò che si sta dicendo è il vero fondamento dell’arte americana”. E poi “farfugliare il nocciolo della questione”, “lasciar cadere casualmente un’osservazione in verità studiata” ed infine, la pausa, che “è una caratteristica straordinariamente importante per qualunque tipo di storia”. Lo humor nero e spaccone della frontiera è nelle sue corde perché Twain sa di cosa parla, nel senso che quegli uomini li ha conosciuti personalmente ed ha ascoltato i loro racconti. Proprio la loro scarsa o nulla credibilità gli ha fatto comprendere l’importanza della espressività linguistica, dell’uso calibrato dei vari slang, dello sfruttamento pirotecnico delle immagini per descrivere tipi e situazioni. Sa anche che se vuole trasformare l’umorismo di frontiera in letteratura deve sbarazzarsi delle strutture e delle convenzioni linguistiche tradizionali e trovare costruzioni del periodo più originali. Ma deve prima di tutto rispettare la serietà con la quale nella versione orale la più assurda delle storie viene imbandita, senza orpelli, senza strizzate d’occhio agli ascoltatori, che ne seguono gli sviluppi con altrettanto solenne gravità. “Nessuno nella taverna sembrava cosciente del fatto che una storia di prima qualità era stata raccontata in una maniera di prima qualità, e che era ricolma di una caratteristica che loro non avrebbero mai sospettato: l’umorismo”, scrive Twain ricordando la volta che aveva sentito il racconto della rana della contea di Calaveras.

Osvaldo non era nato nell’Oregon, ma in Vallescura. Richiesto se conoscesse Mark Twain avrebbe risposto che lo aveva incontrato una volta ad una gara di agnolotti, a Campomorone. Se però avesse aperto a Kansas City o a El Paso il bar che aprì a Lerma non avrebbe sfigurato al confronto coi suoi personaggi. All’epoca d’oro, tra i miei venti e trent’anni, il bar di Osvaldo era la meta pomeridiana e serale dei giovani di tutti i paesi dei dintorni. Sono arrivato a contare, una vigilia di Ferragosto, qualcosa come centoventi tra ragazzi e ragazze assiepati nelle due sale interne e nel déhors. Lui disse che non potevano essere meno di duecentocinquanta.

Questo era Osvaldo. La sua versione della realtà era costantemente sopra le righe: non le consentiva mai di toccare terra. Per anni, dopo la mezzanotte, estate e inverno, calate le serrande, il suo bar ha vissuto un altro paio d’ore di vita segreta e di atmosfera iniziatica. Quando mi capitava d’essere lontano non provavo alcuna nostalgia di casa, ma dopo la mezzanotte scattava l’ora che volge al desio, e pensavo a quello che magari stava accadendo da Osvaldo in quel momento, alle storie che sarebbero state raccontate. Al bar accadeva questo: partite a biliardo nelle quali alla consumazione si sostituiva il traverso (diecimila lire a botta, all’epoca una cifra, oggi cinque euro!), giri di “bestia” nei quali non vinceva chi barava, ma chi barava meglio, partite di Champions o incontri di boxe trasmessi nel cuore della notte: ma soprattutto c’era il rituale magico delle sei-sette sedie in cerchio, e del cazzeggio. Lì Osvaldo dava il meglio, sciorinava competenze ed esperienze enciclopediche, tutte maturate in prima persona e tutte incontestabili. Non era un cartesiano, non ammetteva dubbi o sottigliezze. “Cos’è ‘sta roba nuova che hai messo sul bancone?” “C’è scritto. Cuori di palma”. “Ho capito, ma voglio dire, che gusto hanno, sono dolci, salate, amare?” “Ma quale dolce o salato. Cosa ne vuoi sapere! Hanno il gusto giusto!” Oltre al bar, che di giorno era curato dalla moglie, conduceva anche una piccola attività di piastrellista. Poteva quindi venir fuori una sera che avesse riscosso in pagamento da un cliente moroso, proprietario di un’armeria a Genova, quattrocento chili di cartucce, naturalmente trasportate a casa su una vecchia Bianchina. “Caspita, gli dicevo, e adesso cosa te ne fai?” “Come, cosa ne faccio. Non ne ho già più!” “E che accidenti ne hai fatto? non è nemmeno stagione di caccia!” “Ho abbattuto a fucilate un bosco di roveri”.

Raccontata così, senza il colore del dialetto, senza la sua voce cavernosa di basso, senza i nottambuli immersi nell’atmosfera rilassata e complice dell’estate lermese, la cosa non colpisce granché: ma vi garantisco che le sue sparate sono rimaste impresse nella mia memoria come in quella degli altri fortunati che hanno condiviso quella stagione incantata, e sono diventate epos. Una sera toccò l’apice raccontando di una rissa scoppiata alle due di notte, lungo la discesa dei Giovi, a causa di un tamponamento in colonna (alle due di notte, giù dai Giovi, di lunedì, che se uno si sente male lo trovano il fine settimana successivo). Col suo Millecento familiare, sul quale viaggiavano naturalmente nove persone, aveva tamponato una Cinquecento targata Priaruggia. Da questa erano scesi cinque energumeni alti due metri e larghi altrettanto, ed era iniziato lo scontro, interrotto poi alle sei del mattino dall’arrivo della stradale. Un’altra volta era stato importunato dalle prostitute di via Prè, che respinte sdegnosamente avevano chiamato alla vendetta i loro magnaccia. Ne era seguito uno scontro al termine del quale questi ultimi erano finiti ammonticchiati sotto le acacie al bordo della strada (in via Prè!). Ogni racconto era un fuoco d’artificio, e venivano fuori così, non c’era alcuna preparazione. C’era una risposta a qualsiasi domanda, a qualsiasi obiezione. Anzi, il succo vero, la ciliegina erano quelle risposte.

Perché questi racconti non infastidivano? Perché avremmo addirittura pagato per ascoltarli? Come dicevo sopra, c’è gente che riesce fastidiosa anche quando racconta la pura verità, ed è addirittura insopportabile quando cerca pateticamente di venderti qualche frottola. Direi che sono la maggioranza, e attivano un gioco perverso di tolleranza reciproca. Ma ci sono poi gli artisti, quelli che non ti assillano, quasi si fanno pregare; che si muovono in una dimensione coerente nella sua eccezionalità.

Twain ha già anticipato quelli che sono i requisiti fondamentali: la totale gratuità, il puro piacere del racconto, la genuinità spontanea e sfrontata. E ancora: la capacità di mantenere un assoluto “distacco”. Di fingere di non aver alcun sospetto circa la presenza di implicazioni buffe o divertenti in ciò che si sta raccontando.

Ma forse per Osvaldo l’ascendente più appropriato non è nemmeno Twain, quanto addirittura Münchausen. Come il Barone, Osvaldo era un protagonista assoluto, e proprio la totale mancanza di remore, il “candore” con cui sparava le sue formidabili fanfaronate, ponendosi al di sopra delle leggi naturali e contraddicendo le più elementari nozioni della logica e dell’etica, lo rendevano un eroe al di sopra, o al di là, del bene e del male. Allo stesso tempo, faceva sempre professione di fedeltà ai fatti: come Münchausen pretendeva d’essere creduto incondizionatamente. E se il primo chiamava amici e conoscenti come Sinbad e Gulliver a garantire che “tutte le avventure del Barone, in qualunque paese esse abbiano avuto luogo, sono fatti positivi e reali”, Osvaldo ti rimandava per eventuali conferme ai personaggi più improbabili o irraggiungibili, quando pure esistevano. Avrebbe senz’altro fatto proprie le parole del Barone: “Qualcuno pensa che i miei racconti siano solo colossali bugie. Ci tengo a dire che quanto ho scritto in questo libro è solo il fedele resoconto dei miei molti viaggi per mare e per terra e delle mie avventure di guerra e di caccia. Leggete e giudicate voi”, se solo le avesse lette. Magari traducendole in un linguaggio meno forbito.

Ai requisiti indicati da Twain dobbiamo quindi in questo caso aggiungerne altri: la capacità di creare una dimensione autonoma, quasi un mondo opposto rispetto a quello razionale e reale, dove l’inverosimile sconfigge di continuo il verosimile, e contemporaneamente una tutta particolare “autorevolezza” della fonte, dalla quale discende una sia pur remota verisimiglianza dei fatti raccontati. Questo significa aver di fronte un narratore “certificato”, del quale conosci la tecnica, le misure, dal quale ti attendi quindi certe cose e sai che all’interno di una logica tutta particolare le devi accettare. Come dice anche Wilde: “Perché l’artista dovrebbe essere disturbato dallo stridulo clamore della critica? Perché coloro che non possono creare dovrebbero arrogarsi la valutazione dell’opera creativa?” È un po’ ciò che accade con i cartoni animati. È un mondo regolato da leggi interne diverse da quelle della quotidianità, e se segui le disavventure di Gatto Silvestro devi tenere per buono che quando sega in tondo la parte centrale del soffitto al quale è appesa la gabbietta di Titti precipiterà lui col resto del soffitto, mentre la parte centrale rimarrà in aria. Non puoi opporre l’insensatezza della cosa. Nel mondo di Gatto Silvestro le leggi della fisica classica non valgono, vale solo il paradosso. “A tali increduli io dirò soltanto che li compatisco per la loro scarsa fede e li debbo pregare, se mai ve ne siano tra i presenti, di andarsene prima che io dia inizio alle mie Avventure marinare, tutte egualmente autentiche” premetteva alle Avventure di mare il Barone di Münchausen. Per questo, quando chiedevi ad Osvaldo un panino, non dovevi lamentarti se arrivava una pagnotta di sette etti con tre dita di farcitura, pena sentirti rispondere che lui il mattino, prima del caffè, ne mangiava due appena sfornate, con ripieno di cipolline e acciughe; o se al contrario ti veniva negato, perché era in corso da un mese uno sciopero dei panettieri, e anche la birra era stata bloccata al confine, da dove partiva una coda di camion che attraversava tutta la Svizzera.

Quanto a quella che ho definito “autorevolezza della fonte”, chiaramente allargandomi un po’, mi riferisco alla capacità di dare la sensazione che, fatta la giusta tara, le cose avrebbero potuto andare veramente così. Non ho mai provato con Osvaldo il percorso per Dego (che richiese, per la cronaca, quasi due ore), ma ricordo una andata-ritorno Pegli-Lerma-Pegli, la volta che avevo dimenticato i tesserini della squadra per il campionato di calcio, con passaggi negli abitati di Rossiglione, Campo e Masone dei quali si parla ancora dopo due generazioni, e un fischio ininterrotto di gomme su e giù lungo il Turchino al quale i successivi rally passati per il paese facevano un baffo. Così come, tolte le improbabili acacie, i magnaccia ammonticchiati ai bordi di via Pré potevano starci tutti.

Dicevo sopra che la narrazione di Osvaldo avveniva prevalentemente in prima persona. Era narrazione autobiografica, lo diventava anche quando parlava di altri, quando da protagonista diventava regista, perché il taglio del film era sempre quello. Osvaldo costruiva ininterrottamente lo stesso personaggio, il suo era un racconto seriale, episodi di una stessa saga, come per Rin Tin Tin. Al contrario, i racconti di mio padre erano corali, e costruivano quadri d’assieme. Non ne veniva fuori una storia, ma un mondo, nel quale protagonisti erano i personaggi più disparati e lui si riservava il ruolo di testimone. Non l’ho mai sentito raccontare di se stesso. Anzi, le cose che so di lui, della sua giovinezza, del fatto che senza una gamba fosse un pilastro della squadra di pallapugno, le ho sapute da altri. Il suo piacere era ancora più puro di quello di Osvaldo. Sembrava aver fatto proprio l’assunto di Mark Twain: “Nella vita reale la cosa giusta non accade mai nel posto giusto nel momento giusto; è compito dello storico rimediarvi”. Lui rimediava infarcendola, ricreandola per effetto di moltiplicazione. La galleria dei suoi vicini di casa durante l’infanzia era spettacolare. Uno ad ogni starnuto staccava un pezzo della parete di roccia al di là del fiume. Un altro girava con medaglie militari grandi come coperchi di stufa, pur senza aver fatto la guerra. L’inarrivabile ‘Ngirin, che era migrato per un certo periodo in America, aveva visto a New York l’erba medica alta tre metri. Un padre e due fratelli avevano vissuto per quarant’anni nella stessa casa, di tre stanze, mangiando alla stessa tavola, e lavorato lo stesso vigneto, senza mai rivolgersi la parola. Una volta aveva pranzato lui stesso presso una famiglia, in una cascina nei bricchi, con sette figli maschi così lunghi e affamati che si sentiva il tonfo di ogni boccone nello stomaco, come dentro un pozzo.

A dire il vero, a volte un po’ d’intenzione c’era anche, nella costruzione delle storie. Come quando fece credere ad un altro vicino, uomo cattivissimo e invidioso, che una famiglia del paese, appena uscita dalla miseria più nera, avesse rilevato il servizio di autolinea tra Ovada e Genova. Quando il vicino chiese conferma all’osteria tutti, avendo capito immediatamente quale potesse essere la fonte, si affrettarono a confermare la notizia e a corredarla di nuovi particolari.

Anche nel suo caso l’operazione non era del tutto avulsa dalla realtà. I personaggi, le loro eccentricità e manie, l’essenza stessa dei fatti erano reali. Ma sarebbero rimasti figure anonime, storie monotone, pietose, a volte persino crude, se non fosse intervenuta la potenza vivificante dell’immaginazione. Per cui, “… qualunque cosa sia non è un realista. O piuttosto direi che è un figlio del realismo che non si parla con suo padre” avrebbe detto, molto a proposito, Oscar Wilde. E anche in questo caso, l’effetto della trasposizione letteraria non può che essere inadeguato. Dopo aver ascoltato il racconto sulla rana saltatrice Twain disse che, se avesse saputo scrivere la storia così come l’aveva ascoltata, quella rana avrebbe fatto il giro del mondo. Quante volte ho pensato la stessa cosa, davanti alle affabulazioni di mio padre!

Credo che a questo punto si sia capito di cosa volevo parlare. Qualcuno del genere lo avrete conosciuto anche voi, mi auguro. In caso contrario avete persa l’occasione di assistere di persona alla nascita di capolavori. Naturalmente, torno a ripetere, perché ciò accada è necessario che a raccontar balle sia un genio spontaneo, che non cerca l’effetto, ma riesce naturale in quanto in quel mondo sopra le righe ci vive: e tuttavia questo mondo deve anche saperlo dominare, non esserne preda, ma guardarlo lui stesso divertito. Stiamo quindi parlando di arte. Per questo, lasciato il buon Twain, che associava la capacità di inventare frottole al rude spirito della frontiera, alla necessità di esorcizzare attraverso l’esasperazione narrativa le paure e la monotonia di una vita solitaria e rischiosa (“Gli aspetti duri e squallidi della vita sono troppo duri e troppo squallidi e troppo crudeli per essere riconosciuti e toccati con mano ogni giorno senza alcun influsso mitigante” scriveva, per cui “l’umorismo della frontiera è il velo gentile che rende la vita sopportabile”), devo invece lasciare la parola proprio a Wilde. Il che significa che anche il tono del nostro discorso cambierà parecchio.

Se Twain ci dice come deve essere raccontata una storia, limitandosi almeno in apparenza alla pura trattazione tecnica, Wilde va molto più in là. Ne La decadenza della menzogna, un saggio in forma di dialogo, tra i suoi più brillanti, ci spiega perché la capacità di spacciare panzane è così importante. L’assunto iniziale è simile a quello di Twain: “La natura ha buone intenzioni, naturalmente, ma come disse una volta Aristotele, non sa tradurle in atto. È una fortuna per noi, tuttavia, che la natura sia così imperfetta, perché altrimenti non avremmo l’arte. L’arte è la nostra vibrante protesta, il nostro tentativo di insegnare alla natura a stare al suo posto”. Poi chiarisce, come ho vanamente tentato di fare io, cosa deve intendersi per menzogna. A uno degli interlocutori, che afferma: “La menzogna! Credevo che i nostri uomini politici ne avessero mantenuto vivo l’uso”, l’altro risponde: “Quelli non si sollevano mai al di sopra della distorsione deliberata, e consentono addirittura a discutere, ad argomentare. Quale differenza dalla tempra del vero bugiardo, con le sue affermazioni impavide, franche, con la sua superba irresponsabilità, con il suo disprezzo naturale per qualsiasi tipo di prova!” Sembra avere in mente Osvaldo, e nello stesso tempo traccia la linea che separa il cialtrone dall’artista. La distorsione deliberata è quella che persegue un meschino fine egoistico, e il fatto che imbonitori politici, religiosi e culturali d’ogni risma abbiano successo non significa affatto che costoro siano artisti: testimonia solo della povertà di spirito di coloro che li ascoltano. Aggiunge ancora: “Se un uomo è talmente privo di fantasia da produrre delle prove a sostegno di una menzogna, tanto vale che dica subito la verità”.

Più oltre Wilde sostiene che anche nel raccontare balle non si improvvisa: «La gente suole parlare distrattamente di un “bugiardo nato”, proprio come parla di un poeta nato. Ma si sbaglia in entrambi i casi. La menzogna e la poesia sono arti – arti, come capì Platone, non prive di rapporti reciproci – e richiedono lo studio più attento, la devozione più interessata. Come si riconosce il poeta dalla sua bella musica, così si può riconoscere il bugiardo dalla sua opulenta effusione ritmica, e in nessuno dei due casi l’ispirazione casuale del momento è sufficiente». Sarebbe insomma questione di allenamento. In questo non mi trova del tutto d’accordo: credo valga soprattutto la disposizione naturale, e che quando questa viene troppo coltivata si perda quella spontaneità che invece la rende tollerabile.

Vediamo però di seguire con un po’ d’ordine il filo del pensiero di Wilde, per discuterlo semmai dopo. “Se la natura fosse stata accogliente – dice – l’umanità non avrebbe mai inventato l’architettura, e io preferisco le case all’aria aperta. In una casa ci sentiamo tutti delle proporzioni giuste. Ogni cosa è subordinata a noi, modellata per il nostro gusto e per il nostro piacere. All’aperto si diviene astratti e impersonali. Si viene totalmente abbandonati dall’individualità. Ogni volta che passeggio nel parco qui fuori sento immancabilmente di non essere per lei più del bestiame che bruca nel pendio o della lappola che fiorisce nel fosso. Niente è più evidente del fatto che la Natura odia la Mente. Pensare è la cosa più malsana del mondo, e la gente ne muore, proprio come muore di qualsiasi altro male. Per fortuna, almeno in Inghilterra, il pensiero non è così contagioso”. Nemmeno in Italia, se è per questo: direi anzi che godiamo di ottima salute. Ma proviamo piuttosto a tradurre in spiccioli i paradossi di Wilde, che in mezzo ai fuochi d’artificio estetizzanti dei quali non riesce a fare a meno ci offre riflessioni profondissime. Delle eventuali incongruenze è responsabile la mia rielaborazione.

Posso sintetizzare così. L’uomo è un animale “inadatto” rispetto agli standard naturali: non ha artigli e zanne, non ha una pelliccia che lo difenda dal freddo o un guscio che lo protegga dai predatori. Di per sé sarebbe alla mercé dell’ambiente, e la specie umana avrebbe dovuto estinguersi da tempo. Ma l’uomo è dotato di un grande cervello, e almeno in una parte degli umani il cervello funziona anche. Funziona per ovviare all’inadeguatezza, e quindi inventa le tecniche: poi, sull’abbrivio, l’uomo finisce per porsi delle domande sul posto che gli compete nell’ambito della natura, e appena comincia a rispondere a queste (ha iniziato a farlo Darwin, pochi anni dopo la nascita di Wilde) approda immancabilmente all’interrogativo intorno al significato dell’esistenza. In questo senso pensare è una malattia.

Fino a quando però le domande sono finalizzate alla sopravvivenza questo ultimo interrogativo non si pone. Sarebbe assurdo chiedersi che senso ha l’esistenza, prima di essersela bene o male garantita. Per questo “finché una cosa ci è utile o necessaria, o ci colpisce in qualche modo, nel dolore o nel piacere, o agisce fortemente sulle nostre simpatie, o fa parte vitale dell’ambiente in cui viviamo, si trova fuori della sfera appropriata dell’arte. Il materiale dell’arte dovrebbe esserci più o meno indifferente”. Wilde parla di arte, ma si riferisce più in generale a quella dimensione “superiore” alla quale l’uomo accede nel momento in cui si separa dalla naturalità. Ed è in questo significato più ampio che noi qui continueremo a intendere il termine. Si badi che Wilde non ha in mente alcuna trascendenza, alcuna “spiritualità”, almeno in senso religioso. Se fosse un filosofo sarebbe un materialista. Guarda con ironia al revival spiritualistico che caratterizza gli ultimi decenni dell’Ottocento, e che si traduce anche in una sorta di culto neopagano della natura, soprattutto nei paesi nordeuropei: “Se consideriamo la natura come la raccolta dei fenomeni esterni all’uomo, la gente scopre in essa soltanto quello che le reca. La natura da sola non ha niente da suggerire”. È un atteggiamento controcorrente, come del resto ci si poteva attendere da lui, e viene senz’altro enfatizzato anche per posa. Ma Wilde ne è molto più convinto di quanto saremmo portati a credere. Trovare nella natura la risposta al nostro bisogno di significato, o se vogliamo di consolazione, gli sembra una contraddizione in termini. Questo bisogno esiste proprio perché non siamo più, o non siamo soltanto, natura. Anche dopo Darwin, forse più che mai dopo Darwin, l’uomo rimane diverso dagli altri animali: quantomeno ha altre aspirazioni. Questo è un dato di fatto, e Wilde non vuole darne spiegazioni: parte da una evidenza, e cerca semmai di spiegarne le conseguenze.

Dunque: l’uomo recide il cordone ombelicale che lo teneva vincolato dalla natura nel momento in cui crea dei simboli. “L’arte comincia con la decorazione astratta, con opere puramente fantasiose e piacevoli, trattanti quanto è irreale e inesistente. Questo è il primo stadio”. I simboli non sono l’imitazione di oggetti naturali; sono già una riflessione sugli oggetti, comportano la scelta di quelli che sembrano i caratteri essenziali, quindi letteralmente un’astrazione. La capacità di astrarre fa sì che attraverso un simbolo non si indichi un singolo oggetto, ma vengano rappresentate tutte le possibili interpretazioni, e gli usi conseguenti, di quell’oggetto. Non solo: a livello più alto può coinvolgere tutti gli oggetti possibili. Un simbolo numerico, ad esempio, applicato agli animali evoca un branco, una mandria, uno stormo, un gregge, applicato agli umani una famiglia, una tribù, un popolo. Ma il simbolo va oltre: proprio perché non imita la realtà, ma astrae da essa, può rappresentare anche ciò che non c’è, o che non è alla portata dei nostri sensi.

I simboli non sono solo visivi: sono gli strumenti di ogni linguaggio. Parole, gesti, immagini. Proprio servendosi dei primi […] colui che per primo, senza essere uscito per la dura caccia, raccontò agli esterrefatti cavernicoli, nell’ora del tramonto, come aveva trascinato il megaterio fuori dalla purpurea tenebra della sua caverna di diaspro, o ucciso il mammut in singolar tenzone per riportarne le zanne dorate, non possiamo dirlo […] quale che fosse la sua razza o il suo nome, egli certamente fu il fondatore delle relazioni sociali. Egli è la base stessa della società civile […]”. L’invenzione della bugia è l’invenzione della socialità. Se la bugia viene illustrata e avvalorata da immagini, è l’invenzione delle arti decorative. Quindi, l’uomo comincia a popolare il mondo di simboli: la spiegazione che la natura non può dare viene inventata sovrapponendo ad un ordine naturale che segue leggi sue imperscrutabili degli schemi di lettura elaborati a misura delle nostre paure ed aspirazioni. Il mondo popolato di simboli è un mondo magico, perché i simboli si sottraggono, al contrario delle cose e dei fatti, alle leggi della natura, e possono essere ricombinati e accostati con i criteri più svariati.

In un secondo stadio, prosegue Wilde, “la vita, affascinata da questo nuovo prodigio, domanda di essere ammessa nel cerchio incantato. L’arte prende la vita come parte del proprio materiale grezzo, la ricrea, e la rimodella in forme nuove, è assolutamente indifferente al fatto, inventa, immagina, sogna, e mantiene fra se stessa e la realtà la barriera impenetrabile del bello stile, del trattamento decorativo o ideale”. Qui il concetto di arte sembra restringersi, a rappresentare davvero solo il campo della raffigurazione, plastica o pittorica. Ma in realtà abbraccia ogni aspetto dell’“artificio”, della ri-costruzione o ri-lettura del mondo. Intendo dire che il rimodellamento della vita non riguarda solo la sua rappresentazione; quest’ultima produce un influsso che va a modificare la vita stessa. È l’effetto reversivo dell’evoluzione umana, che si estende dall’autopercezione ad una percezione culturalmente mediata di ciò che ci circonda. Arruolando al proprio servizio la vita, l’arte crea “una razza di esseri totalmente nuovi, i cui dolori erano più terribili di qualunque dolore l’uomo avesse mai provato, le cui gioie erano più intense delle gioie dell’amante, che aveva l’ira dei titani e la calma degli dei, che aveva peccati mostruosi e meravigliosi, mostruose e meravigliose virtù”. In altre parole, l’arte crea dei tipi ideali che riassumono il meglio e il peggio degli uomini, ma che soprattutto offrono a questi ultimi parametri assoluti coi quali confrontarsi.

La mediazione culturale naturalmente differisce da uomo a uomo, ma è su grande scala che le differenze si cristallizzano: “L’intera storia delle arti decorative in Europa è la cronaca della lotta fra l’Orientalismo, con la sua franca ripulsa dell’imitazione, il suo amore della convenzione artistica, la sua avversione della rappresentazione puntuale di qualsiasi oggetto della natura, e il nostro spirito imitativo”. Nel primo caso “abbiamo avuto opere belle e fantasiose nelle quali gli oggetti visibili della vita sono trasformati in convenzioni artistiche, e le cose che la vita non ha, sono inventate e foggiate per il suo piacere”. Nel secondo, quello dell’Occidente, l’arte cessa di essere ri-creazione e diventa racconto. Aderisce al vero, alla “vita”, ma nel farlo elabora le convenzioni “linguistiche” attraverso le quali questa vita può essere riprodotta. Lo studio dei volumi, della luce, dei colori, l’adozione di una rappresentazione prospettica dello spazio e di una analitica del corpo e degli oggetti, educano lo sguardo: e non solo quello dello spettatore, ma quello del ricercatore stesso, che da artista si trasforma in scienziato. Credo che l’esemplificazione più lampante di questa trasformazione si possa trovare nel percorso che va da Piero della Francesca a Leonardo, proprio perché in entrambi convivono ancora i due aspetti. Poco alla volta “gli oggetti visibili della vita” non sono più percepiti attraverso le convenzioni artistiche, ma attraverso convenzioni matematiche: vengono ricondotti a numero, pondere et mensura.

E questo è già l’ingresso nel terzo stadio. “Il terzo stadio è quando la vita ha il sopravvento, e scaccia via l’arte, nel deserto. Questa è la vera decadenza, ed è di questo che soffriamo oggi”. Nel passaggio rinascimentale da un approccio magico-alchemico, che utilizza una simbologia “animata” ed autonoma, ad una “conoscenza” scientifica, che si avvale invece di una simbologia fredda e puramente strumentale (il simbolo è solo un indicatore), si impone la legge dei fatti. Galileo, Bacone e gli altri loro contemporanei sanciscono la dominanza dei fatti e della loro commensurabilità sulla fantasia (si pensi ad esempio alla traduzione dell’astrologia in astronomia). Ciò rende possibile uno sviluppo esponenziale delle scienze, che erodono sempre più il terreno dell’incognito sul quale la fantasia poteva essere coltivata. In sostanza prevale il valore d’uso, contro l’astrazione e l’estetizzazione. La scelta stessa dei temi da rappresentare, il passaggio dalle immagini sacre a quelle profane, le nature morte, la paesaggistica, il ritratto, viene imposta dall’evolversi delle realtà politiche, economiche e sociali, ma a sua volta condiziona assieme al modo di apparire anche quello d’essere di tali realtà, ribalta completamente l’assunto originario dell’arte: “I fatti stanno usurpando il dominio della fantasia. Il loro gelido tocco è su ogni cosa. Stanno involgarendo l’umanità. Il crudo commercialismo dell’America, il suo spirito materialista, la sua indifferenza per il lato poetico delle cose, e la sua mancanza di immaginazione e di ideali alti e irraggiungibili stanno involgarendo l’umanità”.

Lo sviluppo delle scienze, a sua volta, influenza le arti spingendo la ricerca espressiva verso un cul de sac. La direzione è infatti quella del realismo, che conduce ad un punto morto: i suoi limiti e la sua inutilità vengono sanciti a metà dell’Ottocento dalla nascita della fotografia (estrema conferma di un procedimento tecnico-scientifico che surroga quello artistico). Di questo Wilde non parla, ma è l’approdo implicito del suo ragionamento. La fotografia ritrae la realtà in tutta la sua crudezza e imperfezione, non la idealizza. È documento, non trasfigurazione. Allo stesso modo in cui lo è il romanzo realista o naturalista, alla Zola, per intenderci (e qui invece l’esteta vien fuori: «Nella letteratura vogliamo trovare distinzione, fascino, bellezza e forza fantastica. Non vogliamo essere straziati e disgustati dal resoconto delle gesta delle classi inferiori … La differenza tra un libro come “L’Assommoir” di Zola e “Les illusions perdues” di Balzac è la differenza tra il realismo senza fantasia e la realtà fantastica”»). Wilde, pur avendo in mente fenomeni come la pittura preraffaelita piuttosto che l’impressionismo, sembra già intuire nuovi percorsi, che torneranno a ridare dignità all’arte attraverso l’astrazione. Ciò che non può o non sa presagire è che il nuovo corso dell’astrazione, quello che sfocerà nell’astrattismo, non avrà più il compito di ricondurre ad unità, e quindi ad una certa qual comprensibilità, l’infinita varietà dell’essere, ma anche nelle espressioni più genuine, che durano lo spazio di un mattino prima di essere risucchiate nella logica di mercato e di ridursi ad autocitazione, si assumerà piuttosto un ruolo di denuncia, di distruzione delle certezze e delle convenzioni di sguardo, senza sostituire ad esse alcuna altra indicazione. Wilde non coglie nel segno, pertanto, quando afferma che “La società presto o tardi dovrà tornare alla sua guida perduta, al colto e affascinante mentitore”: o meglio, ci azzecca, ma è molto improbabile che il mentitore odierno corrisponda a quello colto e affascinante cui faceva riferimento.

Come immaginavo, la faccenda mi ha preso mano ed è scivolata verso una piega in apparenza poco coerente col discorso iniziale. Ma forse non è proprio così. Il percorso delineato da Wilde segue una strada un po’ particolare, ricchissima di suggestioni che io ho raccolto solo in infinitesima parte, ma non è comunque originale negli esiti, perché conduce agli stessi ai quali possiamo arrivare per cinquanta altre vie: ad un mondo reso sterile dalla mancanza di fantasia e di proposte di idealità. L’aspetto più interessante, almeno per quanto concerne il nostro argomento, sta in ciò che viene fuori a margine. Wilde afferma che pensare la vita in un certo modo significa già viverla in quel modo, fare delle scelte rispetto a ciò che ci interessa coglierne e ciò che invece escludiamo. Il clou del suo pensiero è il seguente: “La vita imita l’arte assai di più di quanto l’arte imiti la vita. Un grande artista inventa un tipo, e la vita tenta di copiarlo, di riprodurlo in forma popolare”.

Ciò che Wilde sostiene ha delle conseguenze straordinarie, che non vanno tuttavia nella direzione che lui sembra scorgere o indicare. Intendo dire che proprio la nostra peculiarità, ovvero la capacità di riflettere sulle cose e sui fatti, e di interpretarli secondo schemi che non sono quelli naturali, spinta oltre un certo livello finisce per far prevalere l’artificio sulla natura, addirittura per sostituirlo ad essa. Wilde scrive: “L’arte non va giudicata secondo alcun criterio esterno di somiglianza. È un velo, piuttosto che uno specchio. Ha fiori sconosciuti a qualsiasi foresta, uccelli che nessun bosco possiede. Fa e disfa molti mondi, e può tirar via la luna dal cielo con un filo scarlatto… può operare miracoli a piacere, e quando evoca mostri dal profondo, questi vengono. Può far fiorire i mandorli d’inverno, e mandare la neve sul grano maturo. Perché, che cosa è la natura? La natura non è una grande madre che ci ha partoriti. È la nostra creazione. È nel nostro cervello che prende vita. Le cose sono perché noi le vediamo, e quel che vediamo, e come lo vediamo, dipende dalle arti che ci hanno influenzati. Guardare una cosa è molto diverso dal vederla. Non si vede niente sinché non se ne è vista la bellezza. Allora, e soltanto allora, la cosa comincia ad esistere. Al momento attuale la gente vede delle nebbie non perché vi siano delle nebbie, ma perché poeti e pittori le hanno insegnato la misteriosa grazia di tali effetti. Può darsi che vi siano state nebbie per dei secoli a Londra. Arrivo a dire che vi furono. Ma nessuno le ha mai viste, e così noi non ne sappiamo niente. Non sono esistite, finché non le ha inventate l’arte”.

E questo è senz’altro vero, mi pare corrisponda a quanto andavo dicendo poco sopra. Il problema nasce però dal fatto che a creare i tipi, a inventare le nuove nebbie che ci impediscono di vedere come stanno realmente le cose o ce ne fanno vedere altre che non esistono, non è più l’arte quale la intendeva Wilde, ma il meccanismo subdolo e complesso di persuasione e di distorsione sul quale si reggono totalmente l’economia, la politica, la società. Ciò che un tempo faceva l’artista oggi lo fanno su scala ben più ampia il pubblicitario, il creatore di campagne promozionali o elettorali, l’opinionista politico, tutti coloro che attraverso l’imbonimento mediatico suggeriscono stili di vita e propugnano l’omologazione del pensiero. L’artista foggiava modelli ideali che costituivano una “vibrante protesta” contro il non-senso della vita: il pubblicitario, l’opinionista promuovono l’accettazione di una vita insensata, da riempire con lo stordimento consumistico e da svuotare di responsabilizzazione, conferendo ad altri la delega di inventarle un significato. La guida dello sguardo e della mente, la costruzione di consenso per ogni forma di potere, religioso o civile che fosse, era già implicita nel lavoro di Fidia come in quello degli architetti del gotico, nei pittori e negli scultori del Rinascimento come negli illustratori delle riviste dell’Ottocento: ma questo ruolo trovava il suo limite nella persistenza di una realtà naturale esterna che ancora dettava i ritmi quotidiani e stagionali del lavoro e degli scambi, le ritualità religiose o laiche, i regimi alimentari e le tipologie abitative, ecc; ancora si contrapponeva all’artificio e lo rendeva evidente. Anzi, era proprio questo confronto a creare quella linea di tensione tra l’essere e il poter essere che originava l’idealità.

La condizione odierna è ben diversa. La realtà non è trasfigurata, e quindi messa in discussione, nell’arte, ma spettacolarizzata nella sua banalità e imposta come possibilità unica (e in ciò è complice anche quel che oggi passa per arte). “Fidia e Prassitele – scrive Wilde – avversarono il realismo per ragioni puramente sociali. Sentirono che il realismo rende inevitabilmente brutte le persone”. Chissà cosa penserebbero oggi, di fronte all’“arte povera” e alla cultura del reality show.

Penso che questo sia il nocciolo, il punto nel quale alla fine tornano ad incontrarsi Twain e Osvaldo, Wilde e mio padre. Le spacconate di Osvaldo e le esagerazioni di mio padre rientravano in quella dimensione nella quale i mandorli possono fiorire d’inverno e la neve scendere sul grano maturo, e noi ne eravamo comunque consapevoli: non si pagava il biglietto, ma era come andare al cinema, assistere ad una sparatoria con Clint Eastwood che fa fuori quattro avversari con tre pallottole, poi uscire dal buio della sala e rientrare nel mondo vero. La catarsi si consumava attraverso lo humor o in scariche di adrenalina giustizialista, ma all’interno di una zona sia reale che mentale letteralmente sacra, ovvero recintata, separata. Esattamente come nella celebrazione religiosa, in un luogo e in tempo speciale l’inverosimile diventava verosimile: il vino si tramutava in sangue e le acacie crescevano in via Prè.

Questa separazione oggi è venuta meno. Attorno a noi non c’è più nulla che faccia risaltare per contrasto l’artificio. Ci muoviamo ormai indifferenti alla ciclicità dei giorni e delle stagioni. Annulliamo spazi e tempi viaggiando on line. Viviamo come fossimo sottratti alle leggi naturali: l’invecchiamento stesso e la morte vengono negati o occultati (è una forma di occultamento anche la bulimia mediatica di morti innaturali) e quando la natura torna a farsi valere, attraverso i grandi cataclismi, la sua furia è immediatamente riciclata in spettacolo. La play station e i social network hanno definitivamente fatta saltare la valvola salvavita, adescandoci ed educandoci al grande gioco interattivo che ha pervaso ed oggi domina totalmente anche la quotidianità: i rapporti, gli scambi, gli acquisti, i consumi, la partecipazione politica, spesso anche il lavoro, tutto avviene all’insegna del virtuale. E sotto questa insegna i confini si cancellano: nulla è più inverosimile, perché nulla è più vero.

L’arte antichissima di raccontar storie, risalente alla Bibbia e ad Omero, e prima ancora alle grotte di Lascaux e di Altamira, deve dunque congedarsi da un mondo che ha cancellata ogni distinzione tra gli spazi consacrati alla fantasia, al sogno, in definitiva all’utopia, e il dominio della realtà che sta al di qua della balaustra. L’ostracismo vale tanto per l’Arte con la maiuscola, quella di cui parla Wilde, quanto per gli artisti della frottola di cui parlo io. Nella Repubblica ideale, dice Platone, se un poeta o un artista si presenteranno alle porte cingeremo il loro capo con corone di fiori e offriremo loro il pane e il sale dell’ospitalità, dopodiché li pregheremo di accomodarsi altrove. Nella nostra, che ideale non è affatto, va loro ancor peggio. Sono rimpiazzati da patetici buffoni che si prestano a far da comparsa nel baraccone televisivo. Gli artisti genuini, se ancora ne esistono, non solo non vengono onorati, ma non ci si prende nemmeno la briga di respingerli. Sono assolutamente innocui. Un mondo nel quale tutto è artefatto, i corpi e le intelligenze vengono costruiti in laboratorio, le prestazioni atletiche e sessuali sono frutto di additivi, i deserti si riempiono di campi da golf, le pesche maturano in inverno, da cosa può ancora farsi stupire? Lo stupore stesso è stato sostituito dalla stupefazione chimica e dall’istupidimento mediatico.

Per questo ho forti dubbi che la società voglia “tornare alla sua guida perduta, al colto e affascinante mentitore”. Con buona pace di Wilde, non c’è più spazio per quello stile che lui identificava come forma impressa dall’artista o da una scuola artistica ad un’epoca, a partire da un modello comunque inarrivabile e da spostare in avanti ad ogni approssimarsi della realtà. Wilde scriveva che “Nessun grande artista vede le cose come sono nella realtà … I disegni fatti da Holbein degli uomini e delle donne della sua epoca ci colpiscono nel senso della loro assoluta realtà. Ma questo è semplicemente perché Holbein costrinse la vita ad accettare le sue condizioni, a mantenersi entro i suoi limiti, a riprodurre il suo tipo e ad apparire com’egli desiderò che apparisse”. Paradossalmente ciò che ai tempi di Holbein era l’espressione di uno stile oggi si risolve nel suo contrario. I ritratti di uomini e donne di Andy Warhol non pongono condizioni alla vita, semplicemente la certificano: ne prendono atto. La loro stessa serialità racconta di uomini e donne e scatolette di minestra fatte in serie: questa non è una denuncia o una proposta di modello: è la consacrazione del banale contemporaneo, che va a sostituire la speranza, la tensione verso l’idealità futura. Le cose come sono in realtà non le vede nessuno, e non certo perché siamo tutti artisti, ma perché non abbiamo né il tempo né la voglia di farlo. Con un futuro ridotto ad un presente esteso, di fronte alla cancellazione di ogni distanza, e quindi, assieme agli spazi, di ogni differenza, a cosa dovremmo tendere? Dobbiamo stordirci con quanto abbiamo, sopperire con la quantità delle cose e delle esperienze alla perdita della loro qualità e diversità.

Febbre, io qui t’invoco L’altro giorno passavo davanti al vecchio bar di Osvaldo. Pur essendo la vigilia di Pasqua c’erano solo tre gatti, due ragazzi e un mio coetaneo. Ho finto di interessarmi ai prezzi dei gelati per poter origliare qualche brandello di conversazione. Dico brandello non perché ci senta poco, ma perché la conversazione si svolgeva proprio a brandelli, intervallati da lunghe pause, mentre ciascuno continuava a smanettare sul suo smartphone. Ad un tratto uno dei ragazzi si è acceso: “Cavolo! Mi offrono ottocento messaggini a soli sei euro”. “Lascia stare, è una fregatura, sono solo dei contaballe. E poi, cosa te ne fai di ottocento messaggini?” ha ribattuto, dopo una ventina di secondi, il mio coetaneo. “Potrebbe sempre tirar giù un bosco di roveri” ho suggerito, mentre mi allontanavo.

Non credo abbia capito. Ma è giusto così.

 

Passeggiate nei boschi narrativi

Il viaggio e l’escursione nella letteratura e nella saggistica per ragazzi (di tutte le età …)

di Fabrizio Rinaldi e Paolo Repetto, 30 maggio 1997

Passeggiate nei boschi narrativi copertinaGli itinerari suggeriti in questa rassegna sono frutto di scelte molto personali, in qualche modo arbitrarie, ma anche di un preciso intento: quello di proporre solo cose che in tempi diversi hanno alimentato e soddisfatto le nostre curiosità e la nostra passione. Sono indicazioni di lettura sul tema del viaggio, e segnatamente sul “camminare” e sullo stretto legame che in­tercorre tra il camminante e l’ambiente che lo circonda. Sono rivolti tanto ai fanciulli di ogni età, quelli anagrafici e quelli che hanno comunque conservati intatti il piacere di viaggiare con la fan­tasia – quando non possono fare altrimenti -, la curiosità genuina per gli altri e per l’altrove e soprattutto la capacità di sognare e di stupirsi in proprio.
A questi Peter Pan (che sono – siamo – molti più di quanto non si creda) le prime rotte per l’isola che non c’è sono state tracciate da Verne e da Salgari, da Tommy River e da Corto Maltese: e queste rimangono ancora oggi rotte piacevolissime da percorrersi. Noi vorremmo suggerirne anche qualche altra, non meno affascinante. Solo per indicare la direzione, s’intende: tolte le an­core, ciascuno è poi capitano di se stesso.

Simbolo mostra Ragazzo che cammina

Alla scoperta del mondo


Incanto di montagne maestose, di gole profonde come abissi, di picchi alti come campanili. Marco Polo, attonito, si imprime nel cuore quelle immagini e tanti anni dopo le ricorda lucidamente: “Vi dirò come sono queste montagne. Sono molto elevate sì che uno deve camminare da mattina a sera se vuol giungere al sommo. Ma, una volta arrivati, si trovano vasti pianori, dove abbondano erbe e le piante, dove le acque sorgive, copiose e purissime, si rovesciano come fiumi giù per dirupi”.

L’Autore ripercorre la storia delle esplorazioni con la competenza che gli è propria e che è frutto non solo di lungo studio e di profondo amore, ma anche di una concreta esperienza.
Dalla collaborazione dello studioso con l’esploratore è nata così un’opera ricchissima e complessa, che non si esaurisce in una esplorazione freddamente storica, ma di­viene un racconto reso vivo e vibrante dall’elemento geografico sempre presente, da brani di diario, da aneddoti che meglio servono a inquadrare figure e avvenimenti, e da un continuo fervore di partecipazione umana alla grande avventura, mai esaurita e conclusa.
Largo spazio è stato dato in queste pagine agli esploratori italiani, che hanno lasciato orme gloriose sulla via di tutti i continenti, senza tuttavia sminuire il valore e l’importanza delle imprese compiute dai grandi esploratori stranieri.
Silvio Zavatti, Alla scoperta del mondo – Storia delle esplorazioni, Mursia 1972

Il libro delle esplorazioniHumboldt sperimentò ampiamente sul suo corpo le difficoltà opposte dal fiume a tutti gli intrusi. La piaga delle zanzare, dei tafani, dei “piumes” e di altri insetti succhia­tori di sangue era intollerabile perfino agli indiani; gli esploratori soffrivano per gli incessanti rovesci di pioggia e la fame li tormentava – il loro nutrimento consisteva in banane, manioca, acqua e talvolta un po’ di riso. […]
Nonostante tutto, Humboldt potè scrivere: “Sono penetrato nell’interno fino alle sor­genti dell’Orinoco … Di oltre cinquanta luoghi ho determinato la latitudine e la lon­gitudine, ho osservato molte comparse e scomparse di pianeti e farò un’esatta carta di questo immenso paese, abitato da più di duecento popolazioni indiane, la maggior parte delle quali non ha veduto ancor mai un uomo bianco; esse parlano lingue di­verse e posseggono culture diverse”.

Questo libro non è un’apologia di eroi.
Avrebbe potuto esserlo facilmente, perché ben di rado una così piccola schiera di uomini ha tanto contribuito alla trasformazione del mondo quanto i navigatori, i con­quistatori e gli esploratori europei dell’epoca delle scoperte. Furono così arditi – o temerari – da spingersi sino ai confini del mondo ed oltre.
Questo libro tenta di descrivere gli avvenimenti come realmente si svolsero, con i loro moventi e atti grandiosi, vili o fortuiti, con la temerarietà, energia, mancanza di scrupoli, abilità e dedizione che resero possibile il successo, allargarono il mondo co­nosciuto e lo trasformarono.
Joachim G. Leithäusen, Il libro delle esplorazioni, Ed. Massimo 1963

L africa Esploratori nel continente neroSono andato con Sekeletu a vedere le cascate che qui chia­mano “Chongué” o “Mosi-oa-Tunya”. Aventi minuti di na­vigazione da Calai si scorgono grandi colonne di vapore. Il panorama è stupendo. Mi sono fatto lasciare in un’isola situata quasi in mezzo al gorgo d’acqua e da lì ho goduto dello spettacolo: il fiume, largo un chilometro, diventa im­provvisamente un’unica massa impetuosa che precipita lungo un abisso stretto appena venti metri. È il passaggio più avvincente che abbia mai contemplato in Africa. Ho dato a queste cascate il nome Vittoria. Dopo aver piantato nell’isola un centinaio di noccioli di pesca e di albicocca e una quarantina di chicchi di caffè, per dar vita a un giar­dino che un indigeno mi ha promesso di cingere con una siepe e di curare, ho inciso su un albero le mie iniziali e, sotto, la data: 1885.
DAVID LIVINGSTONE

All’inizio dell’Ottocento il cuore dell’Africa era ancora una “terra incognita”. Burton, Speke, Baker, Stanley, Livingstone, Brazzà, Miani, Kingsley: con le loro spedizioni, in pochi decenni, sono state scoperte le sorgenti del Nilo, esplorati i bacini del Congo e dello Zambesi, conquistati i Monti della Luna.
L’avventura dei grandi esploratori ha rivelato all’Europa le straordinarie ricchezze del continente nero, alimentando le sue mire imperialistiche. Quando inizia il nuovo secolo, tutta l’Africa è ormai sottomessa alla dominazione coloniale.
Anne Hugon, L’Africa – esploratori nel continente nero, Electa/Gallimard 1994

EsploratoriMarciamo sotto la pioggia, lungo il golfo, che forse ci offrirà qualche sorpresa. Esso, col prolungasi dentro terra, diventa sempre più enigmatico. È quasi impossibile vedere il chiaro specchio delle acque traverso le alte canne palustri delle rive. La speranza di saper qualche cosa sorge e svanisce ad ogni curva di questa landa di sabbia.

La seconda metà dell’Ottocento segna il culmine della penetrazione coloniale in Africa caratterizzata dalle grandi esplorazioni nell’interno della cosiddetta Africa nera. Il capitano Vittorio Bottego, partendo dalla Somalia, compie una serie di esplorazioni lungo il corso del Giuba, attraverso il deserto dell’Ogaden e, infine, alla ricerca delle misteriose sorgenti del fiume Omo nei territori del Kenia, del Sudan e dell’Etiopia. Di questa impresa viene tenuto un diario da parte di due membri della spedizione che riescono miracolosa­mente a trovare la via del ritorno mentre Bottego perisce.
Attraverso territori sconosciuti, che le carte geografiche di allora indicavano unica­mente con una vasta macchia bianca, Bottego, i suoi compagni e la sua carovana pro­cedono in mezzo a mille pericoli e insidie, aggrediti da tribù selvagge, tormentati dalla fame, stremati dalla sete, decimati dalle malattie, ma procedono fino alla meta.
 L. Vannutelli – C. Citerni, Esploratori. Alla ricerca delle sorgenti del fiume Omo, Tasco 1987

I devastatoriSono passati circa duecento anni da quando Carlo Linneo, do­cente all’Università svedese di Uppsala, ebbe a notare con disap­punto che, sebbene gli atti di eroismo compiuti dagli studiosi di botanica non fossero di alcun modo inferiori a quelli che avevano reso grandi “re, eroi e imperatori”, ad essi veniva negato un uguale riconoscimento di valore i immortalità. Sembra anche che aggiungesse, con la cupa seriosità tipica della sua razza: “Quale lavoro è più arduo, quale scienza più faticosa della botanica?”.

L’autore è riuscito a stipare in questo libro più di tre millenni di storia delle più avventurose spedizioni alla ricerca di piante e fiori sconosciuti. “Cacciatori di piante” disposti a tutto pur di raggiungere lo scopo di clas­sificare, identificare esseri vegetali.
 Tyler Whittle, I cacciatori di piante, Rizzoli 1980

 

I racconti del grande nordL’uomo che volge le spalle alle comodità di una civiltà più an­tica per affrontare la selvaggia giovinezza, la primordiale sem­plicità del Nord, potrebbe valutare la sua riuscita in ragione in­versa alla quantità ed alla qualità delle sue abitudini incurabil­mente consolidate. Scoprirà presto, se è la persona giusta, che le abitudini materiali sono le meno importanti. Il rinunciare a un menù raffinato per del cibo grossolano, a delle scarpe di cuoio rigido per dei mocassini morbidi e informi, ad un letto di piume per un giaciglio nella neve, è dopo tutto cosa abbastanza agevole. Ma avrà il suo da fare ad imparare in maniera adeguata a foggiare il proprio atteggiamento mentale verso tutte le cose, e in particolare verso gli altri uomini.

Fra l’estate del 1897 e l’autunno del ‘98 il ventiduenne Jack London visse la più grande avventura della sua vita, intraprendendo un lungo viaggio nel Grande Nord, al confine tra Canada e Alaska, raggiungendo le migliaia di disperati di ogni età e con­dizione partiti per la corsa all’oro nello Yukon. A quell’esperienza straordinaria sono ispirati questi racconti. Queste storie di sogni impossibili, di indiani, ragazzi, cerca­tori d’oro, uomini soli con se stessi nel momento della prova suprema, oltre la quale nulla può esistere, sono tra le più belle che London abbia mai scritto.
 Jack London, I racconti del Grande Nord e della corsa all’oro, Newton 1992

Derzu UzalaDersu camminava in silenzio e guardava tutto con indiffe­renza. Io mi entusiasmavo del paesaggio, lui invece esami­nava un ramo rotto all’altezza della mano di un uomo, e da come era stato piegato, capiva la direzione tenuta dall’uomo. Dalla rottura più o meno recente egli risaliva a quando il fatto era accaduto, indovinava il tipo di scarpe ecc. Ogni volta che io non capivo qualcosa o manifestavo qualche dubbio, mi diceva:
– Hm! Tu essere bambino. Così camminare, scuotere testa. Occhi avere, non vedere, non capire. Tu essere uomo che vivere in città. Non occorre cercare cervo; volere mangiare, comprare. Solo, tu non potere vivere su monti, morire pre­sto.

Dersu Uzala è un diario di viaggio scritto dal capitano Arsen’ev, esploratore e geo­grafo, durante una serie di viaggi nelle lontane e allora (siamo agli inizi del 1900) poco conosciute terre della Siberia.
Nella prima di queste spedizioni conosce e fa amicizia con uno strano personaggio, Dersu Uzala, un uomo senza casa, senza famiglia, che vive tutto l’anno nella tajga.
Si stabilisce subito una affettuosa amicizia fra Dersu e il capitano; quest’ultimo pro­pone al cacciatore di accompagnarlo lungo il viaggio. Dersu accetta, non finendo mai di stupire Arsen’ev per la sua abilità e soprattutto per la sua umanità, facendogli da maestro e da guida.
Fa da sfondo alle varie avventure la natura, selvaggia e pericolosa, ma tuttavia ricca di fascino, di bellezza, ed insieme il fascino dell’uomo che lotta con essa.
Vladimir K. Arsen’ev, Dersu Uzala – Il piccolo uomo delle grandi pianure, Mursia 1984

In cerca di guaiAvrebbe fatto un viaggio! Per me, che non mi ero mai al­lontanato da casa, la parola “viaggio” era quanto di più allettante si potesse immaginare. Presto si sarebbe tro­vato a centinaia di miglia da me, in mezzo a praterie e deserti sconfinati, e sulle montagne del Far West! Avrebbe visto i bisonti e gli indiani, e i cani della prate­ria, e le antilopi, e chissà quante avventure gli sarebbero capitate: lo avrebbero impiccato, magari, o scotennato, si sarebbe divertito un mondo e ce lo avrebbe scritto e sa­rebbe diventato un eroe.

Nel 1861 Mark Twain parte per il Far West al seguito del fratello Orion, nominato Segretario del Territorio del Ne­vada. Dopo ventun giorni di diligenza, in mezzo a pae­saggi stupefacenti popolati di pistoleri, mormoni, pony express, indiani ante-beatificazione e resti di carovane, diventa milionario per una settimana e approda infine, per fame, a quelle corrispon­denze per i giornali che gli daranno la celebrità. Questa è, in grezza telegrafia da terre di frontiere, la materia di In cerca di guai. Come sempre candido e scaltro, trasci­nante umorista e infiammato fustigatore, Mark Twain irride ogni cosa, dal governo centrale ai coyote, e ci offre una sequenza di settantanove capitoli che sono ciascuno un piccolo romanzo, con la prodigalità di un giocatore di roulette che per la prima volta è uscito dalla bisca senza farsi ripulire. Ogni capitolo è una chiacchierata in­torno al fuoco – e la somma di queste chiacchiere è un’epopea. Twain ride per so­pravvivere, e far sopravvivere, in mezzo agli orrori e allo splendore del West. E alla fine ci consegna uno di quei rari libri che divertono in qualsiasi punto li si apra – e dove ancora circola, pungente, il profumo selvatico dell’America.
Mark Twain, In cerca di guai, Adelphi 1993

LatinoamericaEra un mattino di ottobre. Ero andato a Córdoba approfit­tando delle vacanze del 17. Sotto il pergolato della casa di Al­berto Granado bevevamo mate zuccherato commentando tutte le ultime traversie della “porca vita”, e intanto ci dedicavamo alla manutenzione della Poderosa II. […]   Sui sentieri dell’immaginazione arrivammo a remoti paesi, na­vigando per mari tropicali e visitammo tutta l’Asia. E all’improvviso, materializzata dai nostri sogni, sorse la do­manda: e se ce andassimo in Nordamerica?
“In Nordamerica? E come?”
“Con la Poderosa, che diamine!”
Così venne deciso il viaggio, che in ogni momento si sarebbe attenuto alla linea generale su cui era stato progettato: l’improvvisazione. […] Ogni altro problema che non riguardasse la nostra impresa ci sfuggiva in quel momento, vedevamo solo la polvere della strada e noi sulla moto a divorare chilometri nella fuga verso Nord.

La vita di Ernesto Che Guevara e la sua esperienza politico-rivoluzionaria sono note a tutti. Meno nota, forse, è la sua giovinezza, di cui, qui, presentiamo un fondamentale capitolo.
Il diario del Che è il resoconto dettagliato di migliaia di chilometri, dall’Argentina al Venezuela, del viaggio in moto compiuto con il suo amico e compagno di studi Al­berto Granado. Avventure e emozioni inframmezzate da infinite riflessioni sui mille aspetti dell’America, la miseria degli indios, l’emozione di vedere l’oceano … e dai suoi ventitré anni, con la voglia di organizzare uno scherzo, innamorarsi e corteggiare le ragazze, mentre la moto perde pezzi per strada, provocando cadute tragicomiche.
Il diario di Alberto Granado – una collezione di aneddoti e situazioni divertenti de­scritti con la felicità di chi fa un viaggio sognato sin dalla più giovane età – è una te­stimonianza ulteriore sull’amico Ernesto: generoso, intelligente, corsaro, poco lo­quace, tormentato dall’asma eppure sempre entusiasta, in cerca dell’avventura e in­fiammato da quel desiderio di vivere e di conoscere che lo accompagnerà per tutta la sua breve esistenza.
Ernesto Che Guevara – Alberto Granado, Latinoamericana, Feltrinelli 1993

L anello di acque lucentiCapii quella volta che Mij significava per me assai più della maggior parte degli esseri umani di mia conoscenza, che avrei sofferto per la perdita della sua presenza fisica molto di più che per la loro, e non me ne vergognavo affatto.
Stanco di dare la caccia ai pescecani al largo delle isole Ebridi, Maxwell riceve una insolita offerta: una vecchia casa disabitata, un tempo a guardia di un faro, nelle West Highlands: Camu­sfeàrna, la Baia degli ontani. Il suo desiderio di un rapporto di­retto con la natura, non stravolto dalla “civiltà” urbana si realiz­zerà pienamente in questo angolo della Scozia. In questo mondo di scogli e di mare, persone, cose e animali parlano con lui – e col lettore di queste pagine percorse da una profonda sensibilità e da una sottile ironia – il linguaggio del rispetto reciproco, ignorando le sopraffazioni meschine di cui vive la società d’oggi.
Durante un viaggio in Iraq, presso i semisconosciuti arabi delle paludi, Maxwell ac­quista un irresistibile cucciolo di lontra – di una specie, fra l’altro, ancora ignota alla scienza. Da allora la sua esistenza muterà completamente per modellarsi su quella della sua lontra, e delle altre che la seguiranno. E questi animali giocherelloni e im­prevedibili, affettuosi e selvaggi sono i veri protagonisti del libro.
Gavin Maxwell, L’anello di acque lucenti, Rizzoli 1980

Uomini boschi e api2In uno slargo di bosco si sedette sotto un grosso abete bianco, riaccese la sua pipa e serenamente aspettò che ritornassero giù i cacciatori dalla montagna perché gli raccontassero. Nel frattempo ascoltava il bosco.

È il mondo di Rigoni Stern, i suoi inverni, con i segni rossi sulla neve del lepre ferito, le sue primavere, con le coturnici che cantano, e i prati che si riempiono del giallo del tarassaco e di sciami di api e la sua gente.
Mario Rigoni Stern, Uomini, boschi e api, Einaudi 1980

Il bosco degli urogalli

Era una sera di maggio del 1945, come questa. I due alberi c’erano ancora, e c’era la strada dove aveva tanto giocato, c’erano la corte con il cancello e i gradini di pietra; c’era an­cora il colore verde che aveva dato al cancello prima di partire […], sulla porta c’era anche la sedia dove il nonno fumava la pipa guardando i rondoni e la maniglia d’ottone che la madre lucidava con farina gialla e aceto.
Sentì chiamare, gridare, piangere tanta gente attorno a lui. Nella camera c’erano sempre i tre letti di ferro dove aveva dormito con i fratelli. Il suo posto vicino al muro, le lenzuola con su ricamate le iniziali della nonna, i cuscini di piuma con le fodere rosse. Non dormì, ascoltò la casa tutta la notte finché le rondini incomincia­rono a cantare sotto il portico. In tanti anni non le aveva mai sentite.
Partiva al mattino e ritornava alla sera, girava tutto il giorno per i boschi come avesse da cercare qualcosa, così per tanti giorni. Finché una sera il vecchio zio curvo e bianco lo invitò a vangare l’orto. Quando ebbero finito disse il vecchio: – Domani dobbiamo zappare le patate.

 Il bosco degli urogalli raccoglie storie di cacciatori, di animali selvatici, di cani, di montagne, in cui si respira un senso di spazi aperti, di paesaggi impervi, e soprattutto una calda presenza umana. Rigoni sa rendere la limpida immediatezza delle cose e delle giornate, e insieme ad essa un accento di virile fiducia nella vita. Queste pagine confermano “il dono della semplicità e di poesia che gli è proprio – ha scritto Geno Pampaloni -. Ritroviamo l’accento del sergente Rigoni là dove si narrano storie di caccia, il silenzio del bosco, i villaggi chiusi nell’inverno e il grato fuoco delle cucine e la limpida solitudine delle albe per i sentieri di montagna: quel paesaggio fraterno e familiare e forte come una presenza morale, la cui immagine antica e gentile egli ri­trovava tra i contadini di Russia, nelle povere isbe coperte di neve”.
Mario Rigoni Stern, Il bosco degli urogalli, Einaudi 1981

Storie naturaliIl cacciatore d’immagini
Salta dal letto di buon mattino, e parte soltanto se il suo spirito è chiaro, il suo cuore puro, il suo corpo leggero come un vestito d’estate. Non porta con sé alcuna provvista. Berrà l’aria fresca per la via, e respirerà gli odori salubri. Lascia a casa le armi e s’accontenta di aprire gli occhi. Gli occhi servono da reti, dove le immagini s’imprigionano da sé.
Coglie l’immagine dei grani ondeggianti, delle erbe mediche appetitose e dei prati orlati di ruscelli. Coglie al passaggio il volo d’un’allodola o d’un cardellino.


L’anitra immobile nello stagno, il salto di un pesce a pancia in su, una tacchina tronfia delle sue piume, cigni e farfalle, lucer­tole e lepri: questi e altri animali sono le “prede” di un singolare cacciatore d’immagini: lo scrittore francese Jules Renard.
Appassionato osservatore della natura quotidiana, in queste sue “Storie naturali” Re­nard raduna in uno zoo colorato e domestico gli animali incontrati durante le sue pas­seggiate tra cascine e aie, viottoli e stagni. Ne nasce un “album” unico: “le sue imma­gini – come osserva Italo Calvino nella sua presentazione – sono fantasiose ma sempre con un tono secco ed esatto: non c’è mai zucchero; alle volte un po’ d’amaro”.
Jules Renard, Storie naturali, Einaudi 1977

Mitologia degli alberiNell’antichità solo gli alberi degni di nota e indicati da un segno sovrannaturale diventavano oggetto di un culto, ma non per questo tutti gli altri non possedevano ognuno un’anima corrispondente alla sua particolare specie. A volte si trattava di un essere semidivino di cui la specie portava il nome e che si presumeva averle dato vita; il più delle volte era una ninfa che aveva subito una metamorfosi.

Di questi tempi si parla con insistenza sempre crescente della distruzione dei boschi e delle foreste del pianeta e dei suoi ef­fetti a lungo termine sull’insieme degli esseri viventi. Ma troppo spesso si dimentica che con gli alberi scompare anche un prezioso patrimonio dell’umanità. Perché è esistita un’epoca in cui le piante venivano considerate la manifesta­zione più immediata e concreta della divinità. Alle piante gli uomini si rivolgevano per chiedere protezione e conforto. Intorno ad esse fiorivano miti straordinari che toccavano i cuori e rasserenavano gli animi. E a ciascuna specie, a ogni albero veni­vano attribuite caratteristiche particolari, perché in ciascuno di essi il mistero della natura e quello del divino trovavano un diverso equilibrio.
Jacques Brosse ha ricostruito questo mondo perduto, raccogliendo racconti e tradi­zioni dall’immenso serbatoio delle mitologie egizia, semitica, cretese, indiana, greca, latina, germanica, celtica. Quella così compilata è dunque in primo luogo una piccola ma esauriente enciclopedia dei miti legati alle diverse specie: quercia, pino, frassino, betulla, noce, cipresso, fico, ulivo, melo, vite …
Jacques Brosse, Mitologia degli alberi, Rizzoli 1991

La mia famiglia e altri animaliA poco a poco la magia dell’isola ci avvolse gentile e persistente come un polline. Ogni giorno portava con sé una tale tranquil­lità, una tale durata fuori del tempo da far desiderare che non finisse mai. Ma poi la pelle scura della notte si sbucciava ed ecco un nuovo giorno davanti a noi, lustro e colorato come una decalcomania, e con lo stesso tocco di realtà.

“Questa è la storia dei cinque anni che ho trascorso da ragazzo, con la mia famiglia, nell’isola greca di Corfù. In origine doveva essere un resoconto blandamente nostalgico della storia naturale dell’isola, ma ho commesso il grave errore di infilare la mia fa­miglia nel primo capitolo del libro. Non appena si sono trovati sulla pagina non ne hanno più voluto sapere di levarsi di torno, e hanno persino invi­tato i vari amici a dividere i capitoli con loro”: così Gerald Durrell presenta questo li­bro, uno dei più universalmente amati che siano apparsi in Inghilterra negli ultimi trent’anni. Ma il lettore avrà il piacere di scoprirvi anche qualcos’altro: la storia di un Paradiso Terrestre, e di un ragazzo che vi scorrazza instancabilmente, curioso di sco­prire la vita (che per lui, futuro illustre zoologo, è soprattutto la natura e gli animali), passando anche attraverso avventure, tensioni, turbamenti, tutti però stemperati in una atmosfera di tale felicità che il lettore ne viene fin dalle prime pagine contagiato.
Gerard Durrell, La mia famiglia e altri animali, Adelphi 1991

Il leopardo delle neviDopo un attimo, sollevando lo sguardo, mi pose a sua volte un interrogativo non fa­cile. Mi disse che capiva come mai GS, essendo un biologo, avesse deciso di percor­rere centinaia di chilometri in alta montagna per raccogliere sull’altipiano del Tibet informazioni scientifiche. Ma perché mai ci andavo anch’io? Che cosa speravo di trovare? […]
Come avrei potuto dirgli che speravo di penetrare i segreti della montagna sulle tracce di qualcosa che tuttora ignoravo e che, come lo yeti, continuava a non essere visto proprio perché era l’oggetto di una ricerca?

Il leopardo delle nevi, il più bello e il più raro dei felini, vive sull’Himalaya ad al­tezze inaccessibili, non scende mai a valle e la sua stessa esistenza è avvolta in un alone di leggenda. È nella speranza di vederlo che Matthiessen ha compiuto due spe­dizioni scientifiche nella zona. Egli, colpito da questa figura apparentemente più sim­bolica che reale, si è addentrato nei misteri della spiritualità tibetana.
Peter Mathiessen, Il leopardo delle nevi, Frassinelli 1993

 

Il pollice del pandaMa la storia della vita, per come la interpreto io, è costituita da una serie di dati stabili, punteggiati a intervalli da grandi eventi che avven­gono con una grande rapidità e servono a realizzare il successivo pe­riodo di stabilità.

La natura fa salti, eccome. Il più brillante dei paleontologi ci prende per mano lungo i sentieri e le svolte dell’evoluzione. Si parla dell’intelligenza dei dinosauri, dell’uomo fossile, di Topolino …
Stephen Jay Gould, Il pollice del panda – Riflessioni sulla storia naturale, Ed. Riuniti 1993

 

Viaggio a ritrosoÈ quindi ora, al ritorno, che comincerà la loro vera escursione, poiché la fantasia sarà, d’ora in poi, la loro guida ed essi viaggeranno nei loro ricordi.

Nel 1859 Jules Verne ha trentuno anni e sogna di viaggiare. Gli viene offerta l’occasione di visitare, insieme ad un amico, l’Inghilterra e la Scozia. Partiti da Nantes per sbarcare a Liverpool, sono costretti a pas­sare per Bordeaux, da cui il viaggio “a ritroso”.
Jules Verne, Viaggio (a ritroso) in Inghilterra e Scozia, Biblioteca del Vascello 1990

CamminareLe armi con cui abbiamo conseguito le vittorie più gloriose, quelle che dovrebbero venir trasmesse in eredità di padre in fi­glio, non sono la spada e la lancia, ma l’accetta, la falce, la vanga e la zappa, arrugginite dal sangue di infinite praterie, e annerite dalla polvere di infiniti campi che solo con la dura lotta poterono coltivare.

Camminare è il testo di una conferenza tenuta da Henry David Thoreau per la prima volta al Concord Lyceum il 23 aprile 1851; ben presto diventa il suo testo più noto e preferito e lo legge più volte, negli anni successivi, ampliandolo progressi­vamente. In esso, centrale è il simbolismo legato all’escursione come modello di vita: il quotidiano vagabondare nella natura costituisce una sorta di strategia di sopravvivenza sia reale che simbolica e l’anelito al movimento è nella sua essenza desiderio di liberazione dall’ansia e dal malessere avvertiti nel mondo.
Thoreau si fa così portavoce di un paradosso: il successo, l’assillante corsa al potere e alle prosperità materiali possono essere l’amara ricompensa di una sconfitta, mentre la vita in solitudine e in oscurità può offrire doni preziosi e insospettati.
Henry David Thoreau, Camminare, Mondadori 1991

Walden o Vita nei boschiMi ero ritirato qui, nel grande oceano della solitudine nel quale si vuotano i fiumi della società, ed ero tanto tanto lontano che, per la maggior parte – per ciò che riguardava le mie necessità – solo il sentimento più fine si depositava intorno a me.

Testimonianza di una scelta di vita compiuta al di fuori di ogni schema, Walden è l’affascinante resoconto, redatto in uno stile che sta tra il saggio e il diario, dei due anni di soggiorno solitario che Thoreau trascorse in una foresta del New England.  Da quest’opera – la più famosa fra quelle composte dallo scrittore americano – continuano ancor oggi a tratte ispirazione i pacifisti di ogni tendenza, i cultori d’ogni sorta di anticonformismo, gli alfieri dell’ecologia, della resistenza passiva, della disobbedienza civile, della non violenza.
Henry David Thoreau, Walden o Vita nei boschi, BIT 1995

Il monte analogoNella tradizione fiabesca la Montagna è il legame fra la Terra e il Cielo. La sua cima unica tocca il mondo dell’eternità e la sua base si ramifica in molteplici contrafforti nel mondo dei mortali. È la via per la quale l’uomo può elevarsi alla divinità e la divinità rivelarsi all’uomo.

Un gruppo di singolari ed esperti alpinisti, certi dell’esistenza, in qualche parte del globo, di una montagna la cui vetta è più alta di tutte le vette, decide un giorno di partire da Parigi per tentare di scoprirla e di darne la scalata. Dopo una navigazione “non eucli­dea”, a bordo di un’imbarcazione chiamata l’Impossibile, gli esploratori approdano nell’isola-continente del Monte Analogo, dove trovano una popolazione, dagli usi apparentemente stravaganti, che discende da uomini di tutti i tempi e che, come loro, vive ormai, soltanto, nella speranza di scalare la vetta. Un breve soggiorno nel villag­gio di Porto-delle-Scimmie, e il gruppo dei nostri alpinisti intraprende l’ascensione, arrivando in vista del campo base. A questo punto il racconto si interrompe: siamo soltanto all’inizio di un viaggio – che forse è sempre, continuamente, all’inizio – quando la morte coglie René Daumal, l’autore di questa storia, impedendogli di de­scrivere il seguito della scalata del monte simbolico che unisce la Terra e il Cielo.
René Daumal, Il Monte Analogo, Adelphi 1977

 

La terra di porporaTalvolta, seduto sulla cima del grande, solitario colle che dà nome alla città, fissavo per ore l’ampio paesaggio dell’entroterra, come se potessi distinguere, senza mai stancar­mene, tutto quanto si stendeva davanti ai miei occhi: le pianure, i fiumi, i boschi, le colline, le capanne dove mi ero fermato, e più di un amabile volto umano. Anche i visi che mi avevano mal­trattato o guardato con occhio malevolo mi apparivano ora sotto un aspetto bonario. Ma soprattutto pensavo al mio caro fiume, l’indimenticabile Yí, alla bianca casa ombrosa al margine della piccola città […].

La misteriosa pampa argentina è la terra di porpora: gli anni sono quelli della metà del secolo scorso all’incirca. La guerra ci­vile fermata: la vivono uomini indolenti e selvaggi. Fra essi si muove, pellegrino a cavallo, un bel giovane inglese, Richard Lamb.
L’autore è un inglese che viaggiò per le solitarie praterie della Plata, della Banda Orientale e della Patagonia: era un naturalista, e i suoi viaggi ebbero pretesti scienti­fici.
William Henry Hudson, La terra di porpora, Rizzoli 1975

Unmondo lontanoIo, bambino di appena sei anni ma già capace di andar di galoppo e senza cadere su un cavallo non sellato, invito il lettore, anche lui in groppa a un cavallo – sia pure immagi­nario – ad allontanarsi con me dalla casa per raggiungere, a una lega circa di distanza, qualche posto che sovrasti un poco la pianura circostante. Là giunti, seduti sui nostri ca­valli, potremo dominare un orizzonte più vasto di quello che contemplerebbe anche l’uomo più alto standocene semplice­mente in piedi […].

Un mondo lontano dipinge l’infanzia e l’adolescenza di Hud­son nella pampa argentina, luogo di appassionati e gioiosi incontri con innumerevoli esseri viventi – uccelli, serpenti, piante, fiori – con i quali il protagonista dialoga, felice di sco­prire ogni volta una nuova manifestazione di vita. Avventurieri, mendicanti, guerrieri, allevatori di cavalli, donne pallide e misteriose, gente perduta, adulti e coetanei ap­paiono e scompaiono dopo avere ogni volta manifestato al giovane protagonista un qualche aspetto della vita: l’amore, l’amicizia, la gelosia, l’odio, il sopruso, la delu­sione, il dolore, la morte.
William H. Hudson, Un mondo lontano, Adelphi 1993

La vita delle termitiIn una parola, la natura si è mostrata con lei – quasi come coll’uomo – ingiusta, malevola, ironica, fantastica, illogica o perfida. Ma come l’uomo e – almeno fino ad oggi – qualche volta meglio di lui essa a saputo trar partito dall’unico van­taggio che una matrigna obliosa, curiosa o semplicemente indifferente a voluto lasciarle: una piccola forza che non si vede, che, in lei, chiamiamo istinto e, in noi, chi sa perché, intelligenza.

Nel 1901 Maesterlinck scrive La vita delle api. La vita delle termiti è del 1926. Nei venticinque anni che corrono tra le due opere l’atteggiamento nei confronti della vita del poeta belga è profondamente mutato: “questo libro” scrive l’autore “ potrà essere accostato a La vita delle api: ma il colore e l’ambiente non sono gli stessi. È, in un certo senso, il giorno e la notte, l’alba e il cre­puscolo, il cielo e l’inferno. Da un lato … tutto è luce, primavera, estate, sole, pro­fumi, spazio, ali, azzurro, rugiada e felicità senza uguale tra le allegrezze della terra: dall’altro, tutto è tenebre, oppressione sotterranea, asprezza, avarizia sordida e gros­solana, atmosfera di carcere, di ergastolo, di sepolcro …”.
Maurice Maeterlinck, La vita delle termiti, Rizzoli 1980

I fiumi scendono a orienteL’acqua sommergeva il ponte delle nostre zattere, ed era bellis­simo essere di nuovo liberi, fendere le acque in tumulto, udire i tonfi delle nostre prue contro i grandi fogli si schiuma, e sentirci tutti, io, Jorge e i quattro indios, bagnati da capo a piedi.

A est delle Ande peruviane giace il Gran Pajonal, una sconfinata landa soffocata dalla giungla e solcata da una rete fittissima di fiumi. Leonard Clark è convinto che lì si nascondano le leggenda­rie Sette Città, di quel mitico El Dorado che sin dal XVI secolo gli esploratori cercarono invano.
Con un solo compagno, Clark si addentra nell’inferno verde e, dopo incredibili avventure, arriva finalmente alle città sepolte nella giungla, i cui avanzi testimoniano drammaticamente la dominazione spagnola.
Leonard Clark, I fiumi scendevano a Oriente, Vallardi 1985

I devastatoriNon conviene sapere la storia del detestabile verme per fargli guerra vantaggiosamente e sbarazzare il giardino da questa genìa?”
Tutti furono del parere giudizioso dello zio. Invece di schiac­ciare scioccamente la bestia, era molto meglio esaminarla, an­zitutto per sapere come è fatta, come vive e come s’introduce nel legno. Così si potrebbero, più tardi o arrestare i suoi guasti. Un nemico di cui si conoscono i mezzi d’azione è semivinto. Paolo prese dunque il bruco e lo mise nel cavo della sua mano.

C’è in questi dialoghi dello zio Paolo con i nipoti la semplice grazia degli antichi sillabari naturalistici, come pochi hanno sa­puto scrivere. C’è grazia e c’è fantasia: il libro comincia con una notte di vento, un lillà spezzato e delle lacrime, e di qui passa la descrizione della metamorfosi degli in­setti, compie un continuo cammino a ritroso: dal segno, dalla traccia lasciata dall’insetto che i bambini trovano nel giardino, all’insetto che i bambini trovano nel giardino, all’insetto stesso, che viene cercato, scovato, cacciato e infine descritto, con una narrazione sempre chiara e limpida, con i suoi momenti di invenzione, come quando l’autore per spiegare la moltiplicazione degli afidi, e la progressione alge­brica, narra la storia del dervis e del chicco di grano, e come nell’episodio del mag­giolino, che da occasione per i giochi dei ragazzi nel racconto dello zio Paolo assurge alle dimensioni mitiche di un calamitoso flagello.
J. Henri Fabre, I devastatori, Rizzoli 1984

 

PrateriaE ho anche iniziato a considerare le praterie, poco distanti dalla città in cui sono nato, la mia terra natale, e ho co­minciato ad amarle non perché attirano l’attenzione come i monti o la costa, ma perché la respingono sfidando la ca­pacità di mantenerla sveglia. […]
Qui sembra che l’aria non sia ancora mai stata usata.

Questo libro afferma con forza che oggi, nell’era in cui la televisione trasmette in diretta dagli angoli più remoti del mondo per spettatori che non abbandonano mai la poltrona, è ancora possibile viaggiare. Non solo, è possibile viag­giare con la curiosità dei grandi esploratori, con la loro in­genuità, con la stessa sete di scoperte, e quella speciale scrupolosità nello sguardo.
In Prateria l’autore concentra la sua attenzione su una pic­cola contea del Kansas, la Chase County, lavorando in profondità, quasi come un ar­cheologo, sulle infinite stratificazioni naturali e storiche che sfuggono all’occhio del turista frettoloso. La scelta del Kansas non è casuale: è un luogo apparentemente de­solato e monotono che “sfida la capacità di mantenere sveglia l’attenzione”, ideale per studiare “la terra e ciò che la plasma”. L’intento è scoprire il carattere originario di questa terra, iniziando col descrivere l’erba bluestem (alta più di tre metri), par­lando poi dell’importanza degli incendi per la rigenerazione della terra, e raccontando le alluvioni, il vento, la furia dei tornado, e rileggendo i racconti dei primi coloni, se­guendo le tracce degli indiani Kaw, facendo parlare allevatori e agricoltori, e colti­vando il sogno di un grande parco nazionale della prateria. Canto d’amore per la na­tura che, non solo in America, rischia di scomparire, Prateria è una grande “carta to­pografica di parole”, lo scenario di un’avventura che l’uomo può ancora vivere.
William Least Heat-Moon, Prateria, Einaudi 1994

L arte di andare a passeggioPer assolvere il compito di una passeggiata all’aperto non è necessario andare da soli, ma è ben possibile camminare ac­canto ad un compagno a noi concorde, insieme presi in un tranquillo colloquiare su temi generali della realtà umana, della letteratura, o su alcuni aspetti naturali che ci si offrano durante il percorso, senza che tutto ciò attenui in alcun modo gli effetti della natura sul nostro animo. Ma si deve pur dire che sarà bene, di tanto in tanto, passeggiare da solo, per colui il quale non desideri unicamente registrare impressioni esteriori, ma molto più percepisca l’incoercibile impulso di abbando­narsi al proprio genio e vivere solo con se stesso.
Il campo risveglia alla vista l’idea di una sollecita creatività umana e della conse­guente speranza di un futuro più o meno prossimo. Alla vista di un prato si ottiene, attraverso quella sua calma uniformità, il senso di una tranquilla imperturbabile e ferma contentezza. Un bosco sembra accoglierci nelle sue sacre ombre, perché noi vi si possa soggiornare lontano dai turbamenti dell’animo e della natura.

La passeggiata è attività che avvia il corpo ad un silenzioso collaborare con l’anima in quel momento seria e meditabonda. Il corpo, in attività ma senza disturbare, crea lo spazio, tutto mentale, per il dispiegarsi della catena del pensiero.
L’arte di andare a passeggio è un’istruzione gioiosa, con divagazioni e colti riferi­menti, su come ben condursi e proficuamente nella passeggiata, fragile esercizio etico-estetico.
Karl Gottlob Schelle, L’arte di andare a passeggio, Sellerio 1993

La salitaInizio d’estate, primissime ore del mattino: nel profondo delle Alpi, al punto di congiunzione fra due valli, su sedie verdi di metallo, davanti a un caffè ancora addormentato, sono sedute due figure che l’abbigliamento e l’attrezzatura rendono facil­mente riconoscibili come alpinisti (spessi abiti di lana e cap­pelli di feltro, sacchi da montagna, uno dei quali con la fune arrotolata sopra, lunghe piccozze e pesanti scarpe chiodate: la vicenda si svolge in uno dei primi decenni del secolo).

La prosa scarna ma pregnante di Hohl trasforma la descrizione di un’ascensione in montagna in una parabola sulla vita, con un susseguirsi di interrogativi e riflessioni fulminanti come afori­smi.
Protagonisti sono due giovani alpinisti e il ghiacciaio: uno scenario grandioso dalla cui descrizione minuziosa e al contempo lirica traspare l’immenso amore che Hohl stesso provò per la montagna.
In La salita quasi tutto appare estremo, non ultimo il rigore stilistico, perché la scrit­tura, diceva l’autore deve essere “più leggera di un pezzo di carta”.
Ludwig Hohl, La salita, Marcos y Marcos 1991

L uomo che piantava alberiQuando penso che un uomo solo, ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e morali, è bastato a far uscire dal deserto quel paese di Canaan, trovo che, malgrado tutto, la condizione umana sia ammirevole.

Durante una delle sue passeggiate in Provenza, Jean Giono ha incontrato una personalità indimenticabile: un pastore solitario e tranquillo, di po­che parole, con le pecore e il cane. Quest’uomo stava compiendo una grande azione, un’impresa che avrebbe cambiato la faccia della sua terra e la vita delle generazioni future.
Jean Giono, L’uomo che piantava gli alberi, Salani Ed. 1996

Le prolisse passeggiate mi ispirano mille pensieri fruttuosi, men­tre rinchiuso in casa avvizzirei e inaridirei miseramente. L’andare a spasso non è per me solo salutare, ma anche profitte­vole, non è solo bello ma anche utile. Una passeggiata mi stimola professionalmente, ma al contempo mi procura anche uno svago personale; mi consola, allieta e ristora, mi dà godimento, ma ha anche il vantaggio di spronarmi a nuove creazioni, perché mi of­fre numerose occasioni concrete, più o meno significative, che, tornato a casa, posso elaborare con impegno. Ogni passeggiata è piena di incontri, di cose che meritano d’esser viste, sentite. Di figure, di poesie viventi, di oggetti attraenti, di bellezze naturali brulica letteralmente, per solito, ogni piacevole passeggiata, sia pur breve. La cono­scenza della natura e del paese si schiude piena di deliziose lusinghe ai sensi e agli sguardi dell’attento passeggiatore, che beninteso deve andare in giro ad occhi non già abbassati, ma al contrario ben aperti e limpidi, se desidera che sorga in lui il bel sentimento, l’idea alta e nobile del passeggiatore.

La passeggiataLa passeggiata è uno dei testi più perfetti di Walser, il grande scrittore svizzero che ormai viene posto fra i massimi autori di lingua tedesca del nostro secolo. Ma La passeggiata ha anche un significato peculiare in rapporto a tutta l’opera di Walser: è in certo modo la metafora della sua scrittura nomade, perpetuamente dissociata e ab­bandonata agli incontri più incongrui, casuali, e sorprendenti, come lo è appunto ogni accanito passeggiatore – e tale Walser era -, che abbraccia amorosamente ogni parti­colare del circostante e insieme lo osserva da una invalicabile distanza, quella del so­litario, estraneo a ogni rapporto funzionale col mondo.
Robert Walser, La passeggiata, Adelphi 1993

Breviario per nomadiIl seguire un percorso dal principio alla fine dà una spe­ciale soddisfazione sia nella vita che nella letteratura (il viaggio come struttura narrativa) […]. La necessità di comprendere in un’immagine la dimensione del tempo in­sieme dal principio alla fine dà una speciale soddisfazione sia nella vita che nella letteratura (il viaggio come struttura narrativa) […]. La necessità di comprendere in un’immagine la dimensione del tempo insieme a quella dello spazio è all’origine della cartografia. Tempo come storia del passato […] tempo al futuro: come presenza di ostacoli che s’incrotreranno nel viaggio, e qui il tempo atmosferico si salda al tempo cronologico […]. La cartografia insomma, anche se statica, presuppone una idea narrativa, è concepita in funzione di un itinerario, è Odissea.
ITALO CALVINO

Soprattutto, non perdete la voglia di camminare: io, camminando ogni giorno, rag­giungo uno stato di benessere e mi lascio alle spalle ogni malanno; i pensieri mi­gliori li ho avuti mentre camminavo, e non conosco pensiero così gravoso da non poter essere lasciato alle spalle con una camminata … ma stando fermi si arriva sempre più vicini a sentirsi malati … Perciò basta continuare a camminare, e andrà tutto bene.
SØREN KIERKEEGAARD

Sono come un animale selvatico: mi faccio le mie piste […] non come l’antilope o la zebra né come il bufalo o altri animali da branco: di quelli che si soccorrono, af­frontano in massa le difficoltà per sopravvivere a ciò cui singolarmente soccombe­rebbero, e che tuttavia diventano singole prede e muoiono soli, ciascuno a suo tempo. Io faccio la mia pista privata […]. Forse dovrei dire che anch’io sopravvivo qui, ma conto su me sola; anche nei giorni in cui mi sembra che la terra sia piena di serpenti.
WILMA STOKENSTRÖM

Questa raccolta di citazioni, massime, aforismi e proverbi è dedicata al viaggio, al nomadismo, al territorio da percorrere, fuori e dentro di sé.
Vanni Beltrami, Breviario per nomadi, Biblioteca del Vascello 1995

Viaggiare HesseNoi, vassalli della voglia di viaggiare, passiamo la vita a inse­guire la nostra madre terra in tutte le sue forme ed espressioni, vorremmo perfino fare tutt’uno con essa, pronti alla dedizione assoluta, lo sogniamo, lo desideriamo con tutte le nostre forze. E questa nostra passione, questa nostra caccia alla terra non è in sé, forse, meglio di una qualsiasi altra passionaccia, sia quella del giocatore o dello speculatore, del Don Giovanni e dell’arrivista. Quando la terra ci chiama, quando noialtri eterni camminatori senza sosta prendiamo commiato da casa, non stiamo abbandonando alcunché, non stiamo fuggendo, stiamo semplicemente per tuffarci nel fuoco dell’esperienza. Siamo curiosi del Sud-america, di una qualsiasi baietta ancora inesplorata dei Mari del Sud, dei Poli della terra, vogliamo comprendere il moto dei venti, delle correnti, dei lampi, delle slavine – ma ancor più curiosi siamo della morte, l’ultima e forse più intensa esperienza del nostro esserci. Perché di tutte le esperienze possibili, sono fondamentali, secondo noi, quelle per cui siamo pronti anche a dare la vita.

Per amore o per sfida, per necessità o per fuga, tutti i personaggi di Hermann Hesse, prima o poi, si misurano con il viaggio. Questa raccolta offre un compendio esau­riente e ben organizzato con i migliori scritti di viaggio del giovane Hesse.
Hermann Hesse, Viaggiare, Marcos y Marcos 1994

VagabondaggioSe esistessero molti uomini nei quali fosse così radicato come lo è in me il disprezzo per i confini nazionali, allora non ci sarebbero più guerre né blocchi. Niente è più odioso dei confini, niente è più stupido. Essi sono come cannoni, come generali: sino a quando ragione, senso di umiltà e pace dominano, non se ne ha sentore e di loro si ride, – ma non appena guerra e follia divampano essi divengono importanti e sacri.

Nel mondo poetico e narrativo dell’autore ricorre con frequenza la figura del vagabondo, del cercatore irrequieto, sospinto senza tregua tra boschi e villaggi, sempre a un valico o a una frontiera. In questa condizione di libertà assoluta, di totale disponibilità, il viandante si fa protagonista di un’esperienza superiore, quasi sacrale. In senso e la poesia del vagabondaggio sono chiaramente metaforici: ogni uomo che voglia incamminarsi alla ricerca dell’essenza mistica e spirituale della vita, è da quel momento viandante, uomo solo.
Hermann Hesse, Vagabondaggio, Newton 1992

 

Viaggio nelle CévennesIl sole era già calato dietro a una nebbia dall’aspetto ventoso e […] il nostro sentiero era immerso nel grigio e nel freddo. Un’infinità di stradine secondarie portava qua e là tra i campi. Era un labirinto senza capo né coda. Potevo vedere sopra di me la mia destinazione, ovvero la cima che la dominava; ma qualsiasi di esse scegliessi, le strade finivano sempre per allontanarsene e scendere a serpentina verso la valle o salire verso nord lungo il margine delle colline.

Stevenson racconta in questo libro il viaggio che lo portò ad attra­versare, in compagnia di un asino, le Cévennes, nel sud della Fran­cia. Un viaggio davvero avventuroso, fatto a piedi, con bivacchi sotto le stelle e in­contri insoliti, in un paesaggio dagli ampi spazi e dai grandi silenzi.
Robert Louis Stevenson, Viaggio nelle Cévennes in compagnia di un asino, Ibis 1993

Impressioni di viaggioVoglio andarmene sui monti
dove stanne le capanne quiete
dove il cuore si dilata libero
e l’aria soffia libera.

Voglio andarmene sui monti
dove sono gli abeti alti e scuri,
dove i ruscelli mormorano, gli uccelli cantano,
e le nuvole galoppano orgogliose.

Addio, saloni lucidi,
lucidi gentiluomini, signore levigate,
voglio andarmene sui monti
e da lassù ridere su di voi.

I resoconti di viaggio sono da secoli un genere letterario molto comune, quello di Heine fu uno dei meglio riusciti.
Heinrich Heine, Impressioni di viaggio, Istituto Geografico De Agostini 1983

In patagoniaNessun suono tranne quello del vento, che sibilava fra i cespugli spinosi e l’erba morta, nessun altro segno di vita all’infuori di un falco e di uno scarafaggio immobile su una pietra bianca.
Il deserto della Patagonia non è un deserto di sabbia o di ghiaia, ma una distesa di bassi rovi dalle foglie grigie, che quando sono schiacciate emanano un odore amaro. Diversamente dai deserti dell’Arabia non ha prodotto nessun drammatico eccesso dello spirito, ma ha certamente un posto nella storia dell’esperienza umana. Darwin trovò le sue qualità negative irresistibili. Ricapitolando Il viaggio della Beagle tentò, senza riuscirvi, di spiegare perché, più di tutte le meraviglie da lui viste, questo “arido deserto” aveva tanto colpito la sua mente.

Dopo l’ultima guerra, alcuni ragazzi inglesi, fra cui l’autore di questo libro, chini sulle carte geografiche, cercavano l’unico luogo giusto per sfuggire alla prossima di­struzione nucleare. Scelsero la Patagonia. E proprio in Patagonia si sarebbe spinto Bruce Chatwin per trovare l’incanto di viaggiare. All’interno di una natura povera, disabituata all’uomo, incontrerà un arcipelago di vite e di casi molto più sorprendente di quel che ogni esotismo permetta di pensare. Questa terra eccentrica per eccellenza è un perfetto ricettacolo per l’allucinazione, la solitudine e l’esilio.
La Patagonia di Chatwin diventa, per chiunque si appassioni a questo libro, un luogo che mancava alla propria geografia personale e di cui avvertiva segretamente il biso­gno.
Bruce Chatwin, In Patagonia, Adelphi 1982

Ritorno in patagoniaLa Patagonia è la cura per i mali dell’umanità.

Melville usò l’aggettivo “patagonico” per indicare qualcosa di to­talmente esotico, mostruoso e pericolosamente attraente. Un’attrazione che agì anche sul giovane Bruce Chatwin. Fin dall’età di tre anni la Patagonia gli apparve come la Terra delle meraviglie. Poi dall’esperienza nacque In Patagonia, il più bel libro di viaggi dei nostri tempi. Qualche tempo dopo, un altro scrittore di viaggi, Paul Theroux, pubblicava un altro affascinante libro su quella terra, The Old Patagoniam Express. Infine, nel 1985, i due scrittori com­posero, in una sorta di contrappunto a due voci, questo libretto, dove entrambi tornano sulle tracce della loro passione.
Bruce Chatwin – Paul Theroux, Ritorno in Patagonia, Adelphi 1991

Le vie dei cantiDopo la marcia forzata, i portatori rifiutano di camminare e aspettano di essere raggiunti dalle loro anime.
Gli aborigeni non credono all’esistenza del paese finché non lo vedono e lo cantano.
Quasi tutti noi, che eroi non siamo, nella vita perdiamo il nostro tempo, agiamo a sproposito e alla fine siamo vittime dei nostri vari disordini emotivi. L’Eroe no. L’Eroe – e per questo lo proclamiamo tale – affronta ogni cimento quando gli si pre­senta, e accumula punti su punti.

Per gli aborigeni australiani, la loro terra era tutta segnata da un intrecciarsi di Vie dei Canti, un labirinto di percorsi visibili soltanto ai loro occhi. Dietro questo fenomeno, che apparve subito enigmatico agli antropologi occidentali, si cela una vera metafi­sica del nomadismo. Questo libro potrebbe essere descritto anch’esso come una Via del Canti: romanzo e percorso di idee, una musica di idee che muove tutta da un in­terrogativo: perché l’uomo, fin dalle origini, ha sentito un impulso irresistibile a spo­starsi, a migrare?
Bruce Chatwin, Le Vie del Canti, Adelphi 1988

 

E venne chiamata due cuoriMi spiegarono come misurassero le distanze intonando canzoni dai ritmi ben precisi. Alcune erano composte da oltre cento versi, e ogni parola e ogni pausa doveva essere ripetuta fedelmente, né erano permessi vuoti di memoria o improvvisazioni dato che ogni canzone costituiva una vera e propria asta di misurazione.

… e vene chiamata Due Cuori è il racconto romanzato della straor­dinaria avventura umana e spirituale di una donna, Marlo Morgan, che per motivi di lavoro si trova a vivere in Australia e accetta un invito di una tribù di aborigeni. Con sua grande sorpresa, Marlo viene portata nel cuore di una foresta, e inizia da qui il vagabondaggio che durerà per quattro mesi percorrendo a piedi nudi l’Outback australiano.
Marlo Morgan, … e venne chiamata Due Cuori, Rizzoli 1994

Sabbie arabeMe ne andai a zonzo fino a un lontano costone, contento di star solo per un po’, e mi sedetti a guardare le ombre uniformi che screziavano la pianura color terra d’ombra su cui nient’altro si muoveva. Tutto era immobile, con quel silenzio che noi abbiamo cacciato dal nostro mondo.

Wilfred Thesiger, che possiamo considerare in un certo senso l’ultimo dei grandi esploratori britannici di stampo romantico, ci restituisce con questo “diario di viaggi” un affresco vivo e affascinante dei deserti meridionali della penisola arabica.
Dopo aver condiviso per diversi anni, subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, la dura vita delle popo­lazioni beduine che vivono ai margini di queste immense distese desolate di sabbia, l’autore racconta un’esperienza probabilmente unica, intessuta di particolari quotidiani.
L’andamento narrativo è quello del resoconto di stampo antropologico, che ci porta con immediatezza nell’atmosfera implacabile e silenziosa del deserto, a contatto con le genti fiere e generose che faticosamente trascorrono la propria esistenza in un ha­bitat tanto inospitale.
Wilfred Thesiger, Sabbie arabe – Viaggio nell’Arabia deserta, Mondadori 1991

 

Il viaggiatore delle duneNel mezzo della giornata, la fornace arde; il cielo, da tanto è luminoso, si scolora; il caldo torrido si abbatte dal sole a picco in nastri brucianti; sale dalla sabbia incandescente e dalle pietre surriscaldate. Allora è impossibile posare il piede sulla nuda terra; il suolo può raggiungere gli 80°C.
Tappe. Bivacchi di una sera in luoghi senza nome, che non ri­vedremo più. Partenze, eterne partenze senza arrivo che sono l’immagine pregnante del nostro viaggio interiore per non straziarci l’anima.

Questo libro, risultato di lunghi anni di esplorazione, è un inno al deserto del Sahara, alla sua grandezza opprimente, alla sua selvaggia e pericolosa bellezza, ma è anche un resoconto affa­scinante della fauna, della flora, della storia e della preistoria di questa regione, non­ché una descrizione della vita quotidiana dell’uomo del deserto, con una tale dovizia di dettagli che questo libro potrebbe essere utilizzato come un vero e proprio manuale di sopravvivenza.
Theodore Monod, Il viaggiatore delle dune, Tasco 1990

Arabia felix“Poiché Sua Maestà, malgrado le pesanti preoccupazioni di governo in questi tempi così calamitosi, cerca incessantemente di promuovere la diffusione delle conoscenze e delle scienze e di accrescere l’onore del suo popolo con imprese utili e lodevoli …”
Malgrado questi tempi calamitosi … Forse è proprio in tempi calamitosi che si sogna di partire per l’Arabia Felice.

La meta della spedizione scientifica danese è lo Yemen, terra sconosciuta detta anche “Arabia Felice”. Gli scienziati partono, per scoprire e conoscere, ma in realtà proiet­tano sogni – di sapere, di gloria, di ricchezza – troveranno sofferenze, fatiche, gioie, conquiste, fallimenti, e la morte. Solo uno farà ritorno, partito convinto di non essere all’altezza del suo compito, ma aperto alle esperienze, capace perfino di rinunciare alla propria identità per fare sua la lezione del deserto: “non avere niente, non essere niente”.
Thorkild Hansen, Arabia Felix, Iperborea 1993

Viaggiatore solitarioDopo tutto ‘sto casino, e via dicendo, arrivai al punto che avevo bisogno di un po’ di solitudine proprio per fermare il meccani­smo di “pensare” e di “godere” che chiamano “vita”, avevo bi­sogno di stendermi sull’erba e guardare le nuvole –
È scritto anche nell’antica scrittura: – “La saggezza può essere raggiunta soltanto nella solitudine.”

Viaggiatore solitario è una raccolta di scritti collegati da uno stesso filo conduttore: il viaggiare. I viaggi coprono gli Stati Uniti dal sud alla costa orientale, fino a quella occidentale e al lontano nord-ovest, il Messico, il Marocco, Parigi, Londra, l’oceano At­lantico e quello Pacifico percorsi in nave e vi sono incluse altre città e persone interessanti.
Lo scopo e l’intenzione è semplicemente la poesia o, le descrizioni naturali.
Jack Kerouac, Viaggiatore solitario, Sugarco 1987

Sentieri nel ghiaccioBreve sosta in un boschetto. Vedo la valle, prendo la scorciatoia per prati fradici, sguazzanti; la strada qui fa come un grande otto. Che razza di tempesta di neve; ora tutto torna a placarsi, a poco a poco mi asciugo. […] Dagli abeti piovono ancora gocce sul terreno coperto di aghi. Le mie cosce fumano come se fossi un cavallo. Paesaggio ondulato, molto bosco, e tutto mi è così sconosciuto. Quando ci si avvicina, i paesi fanno finta di essere morti.

Questo libro è la storia di un viaggio in certo modo straordinario: il viaggio a piedi intrapreso nell’inverno 1974 da Werner Herzog, per recarsi da Monaco a Parigi, dove lo aspettava un’amica ma­lata, Lotte Eisner, storica e studiosa del cinema tedesco. Strade, bo­schi, paesi squassati da temporali e bufere di neve, villaggi deserti e campi disabitati: questo il paesaggio che percorriamo insieme a un uomo che compie il più anacronistico dei gesti.
Werner Herzog, Sentieri nel ghiaccio, Guanda 1994

La via per l'OxianaSotto la bufera bianca è avvenuta una straordinaria transizione. Nell’arco di cinque minuti siamo usciti da un mondo di pietra, di fango, di sabbia e di perenne siccità, che ci aveva accompagnato da Damasco in poi, per penetrare in un mondo di legna, di foglie e di linfa, dove le montagne erano ricoperte di arbusti, che diventavano al­beri, e questi, cessata la neve, si raggruppavano in una lucida foresta di tronchi nudi le cui volte frondose velavano il cielo.

Secondo Bruce Chatwin questo libro è il capolavoro dei libri che trattano di viaggio. L’Oxiana è una regione fra l’Afghanistan e l’Iran dove si può procedere sulle orme di Marco Polo.
Robert Byron, La via per l’Oxiana, Adelphi 1993

Verso SantiagoNon è dimostrabile, eppure io ci credo: nel mondo ci sono luoghi in cui un arrivo o una partenza vengono misteriosamente moltipli­cati dai sentimenti di quanti nello stesso luogo sono arrivati o da lì ripartiti. […] Ormai i viaggi non durano anni, sappiamo dove andare e anche le probabilità di tornare sono molto più alte.

Un viaggio spagnolo nello spazio e nel tempo, lungo percorsi inu­suali, attraverso le vie di pellegrinaggio, il labirinto dei ricordi, le suggestioni del paesaggio, l’intreccio di colori, di parole, di leg­gende, l’ispirazione del momento. Da Don Chisciotte a Zurbaràn, da Velàzquez a Garcia Lorca, da una sperduta abbazia cistercense alla solennità del Prado: Cees Nooteboom ci guida alla scoperta di personaggi e luo­ghi di una Spagna profonda e misteriosa, invitandoci ad abbandonare le vesti del turi­sta per diventare veri viaggiatori.
Cees Nooteboom, Verso Santiago – Itinerari spagnoli, Feltrinelli 1996

 

In transiberianaLa steppa ha grandi ondulazioni, come delle lunghissime dune biondastre, separate da grandi distanze l’una dall’altra. Non è priva di colore. Alcuni tratti sono dello stesso bianco-biondo spento dei capelli dei bambini russi. Ma numerose sono le tinte – sempre spente – che serpeg­giano per la distesa come correnti marine. Anche l’aria ha un colore spento.

Un libro e un viaggio su rotaie lunghe trentamila chilo­metri. Dopo i primi tremilacinquecento chilometri da Roma a Mosca, i novemila in Transiberiana, da Mosca a Pechino. E poi, sempre in treno, da Pechino a Shangai. Poi c’è il ritorno, con un unico biglietto ferroviario, dalla foce del fiume Azzurro sino alla Yogoslavia passando, a differenza della andata, attraverso la Mongolia e il Gobi. Al rientro in Italia non si è più gli stessi, anche se si torna a sedersi sulla stessa poltrona. Tra la persona di prima e quella del ritorno c’è di mezzo una buona metà del mondo e straordinari incontri umani. Non è poco.
Allora è giocoforza raccontare.
Angelo Maria Pellegrino, In Transiberiana, Stampa Alternativa 1992

 

Inter rail manFarsi coinvolgere, comunicare sono essenziali per arricchirsi mediante i viaggi. Si potrebbe andare ovunque senza urtare contro qualcosa di nuovo, se si rimane legati al proprio mondo. Oggi è data molta importanza a dove si va, ma forse importa soprattutto come e perché lo si fa.

L’inter rail – un mese di treno a basso costo in giro per l’Europa, il Marocco, la Turchia per chi ha meno di 26 anni – è, per chi lo vuole, disorganizzazione, in una società sempre più inquadrata ed asettica.
L’inter rail è, per chi sa giocarsela bene, libertà in una società che organizza e limita anche l’avventura, la sorpresa, la gioia, il sogno. Abbiamo provato con l’inter rail a disorganizzarci, a riprenderci spazi di li­bertà. Qui lo raccontiamo con le istruzioni per l’uso.
Luca Conti, Inter rail man – Manuale per chi viaggia in treno, Stampa Alterna­tiva 1992

Il libro del ventoIl silenzio ci mette a disagio.
Il silenzio radio viene chiamato “aria morta”, qualcosa da evitare ad ogni costo. Così lo tamponiamo con parole o musica, spesso parole e musica, e troviamo sollievo nello schiamazzo, per quanto possa essere privo di significato. Abbiamo perduto la pausa ricca di significato. Il silenzio durante l’audizione viene invariabilmente distrutto dall’applauso di qualche idiota che pensa che il concerto sia finito.

La prima definitiva storia del vento: come porta la vita nel mondo distribuendo energia e calore, influenzando i fenomeni meteorologici, favorendo la riproduzione delle piante e la migrazione di molte specie di animali, modificando il paesaggio, agendo sul comportamento dell’uomo.
Lyall Watson, Il libro del vento, Frassinelli 1985

Strade bluCosa fa un viaggiatore di notte in una città sconosciuta quando vuole scambiar due parole? Negli Stati Uniti non c’è quasi altra scelta che ficcarsi in un bar. […]
In una angolo c’era una stecca da biliardo spezzata; la piccola stanza laterale era illuminata soltanto dal tremolio di una luce al neon che reclamizzava una birra, quel tipo di luce vacillante che farebbe impazzire chiunque.

Un tempo, sulle vecchie cartine d’America, le strade principali erano segnate in rosso e quelle secondarie in blu. È sulle strade blu che si svolge di tre mesi di un solitario mezzo pellirossa, che, re­stando privo del suo lavoro e della sua donna, va a ricercare un poco di interesse alla vita in un itinerario circolare che lo porta e riporta nell’America settentrionale. E ri­trova, ricostruisce, riscopre l’America periferica, decentrata, provinciale come un al­tro, diverso continente.
William Least Heat-Moon, Strade blu, Einaudi 1995

 

Sulla strada[…] perché le uniche persone che esistono per me sono i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e del subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d’artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede scoppiare la luce azzurra e tutti fanno “Oooooh!”.

Intere generazioni hanno preso a modello i protagonisti di que­sto libro che in trent’anni è diventano un libro di culto. In fuga dalla mediocrità del mondo, in auto, in camper traballanti.
La fuga attraverso gli Stati Uniti e il Messico su malconce auto, traballanti camper, o autobus affollati di umanità americana ed europea. Il ro­manzo dell’amicizia e delle difficoltà, dell’amore, del malessere e della rivolta. Il “manifesto” della beat generation preso a modello da sempre nuove generazioni di giovani.
Jack Kerouac, Sulla strada, Leonando Ed. 1989

Terra e acquaSono qui raccolte alcune fra le migliori pagine di Vittorio G. Rossi: vorremmo dire le più limpide, atte a delineare la sua schietta e spontanea vena di narratore: scritti d’avventura, di viaggi, di “conoscenze”, tutte profondamente umane e sentite.
I giovani potranno invidiare le innumerevoli esperienze dell’autore, che ha fatto “quasi tutti i mestieri rischiosi difficili: il palombaro, il minatore, il navigante, il pescatore di balene, di merluzzi, l’uomo di bordo delle navi-faro”, ma sapranno sco­prire il messaggio racchiuso nelle sue opere: “presi l’uomo come protagonista e feci del viaggio un racconto, come av­ventura umana. Insieme come l’uomo, ho preso come protago­niste le grandi forze della natura, sopra tutto il mare …”. V’è quindi in queste pagine narrative anche una profonda attenzione agli ideali, ai dolori e alle miserie degli uomini. Pur senza perdere nulla della sua vivacità, della sua arguta visione delle cose, del suo stile tutto particolare, Vittorio G. Rossi ci induce a medi­tare su ciò che rappresenta l’uomo nel mondo, su noi stessi, sul senso della vita.
Vittorio G. Rossi, Terra e acqua, Mursia 1966