In pancia alla balena

di Paolo Repetto, 8 novembre 2021

La ricognizione nelle letture della scorsa estate mi sta prendendo la mano. Davvero non mi ero accorto che la stagione fosse stata così ricca. Ero distratto dai nostri successi sportivi (la raccolta continua: ori mondiali nel ciclismo su pista, nella ginnastica a corpo libero e in quella ritmica e nel nuoto: uno persino in matematica; manca più solo il rugby), dall’uscita allo scoperto dei neo-squadristi e dall’epidemia di coming out televisivi.

Riparto dunque dall’acquisizione più recente, quel Balene nella pancia che è comparso poco tempo fa sul sito. Non voglio mettere il becco dappertutto, ma la lettura mi ha intrigato “attivamente”, mi ha indotto a spingere un po’ più in là lo sguardo, e credo fosse ciò che chi lo ha scritto si augurava. L’ho fatto a modo mio, senza scendere in profondità e limitandomi a cercare altri esempi letterari di soggiorni più o meno prolungati nelle pance di mostri marini: il che magari non risponde esattamente agli intenti dell’autore, ma soddisfa piuttosto la mia maniacale sindrome dei repertori. E tuttavia, qualcosa è venuto fuori anche da questa scorribanda in superficie. Le considerazioni che seguono non sono quindi riservate solo a chi è affetto dalla stessa mia malattia.

Per cominciare, ho verificato che la condizione dalla quale il saggio prende spunto, la prigionia nel ventre di un mostro, di un pesce o di un cetaceo, è talmente ricorrente da costituire un vero e proprio tòpos, le cui costanti sono una situazione iniziale negativa, l’essere ingoiato, e una soluzione finale positiva, l’uscirne vivo (e la singolarità sta proprio nel fatto che i protagonisti rimangono incolumi, passano per la bocca senza essere triturati dai denti, scivolano senza essere soffocati in gola e non sono bruciati dagli acidi dello stomaco). Non voglio inseguirne qui tutte le diverse fenomenologie, perché una cosa del genere porterebbe solo ad un elenco arido e inutile: le narrazioni mitologiche e le letterature di tutti i popoli del mondo sono piene di mostri marini di dimensioni immani e dalle forme più fantasiose, balene-isola, serpenti di mare, piovre giganti, draghi, ecc…. Mi limito pertanto a ricordare alcune delle più famose (dando per scontate naturalmente le storie di Giona, di Pinocchio e della balena bianca, che sono già state ampiamente rievocate in Balene nella pancia), cercando di lasciar parlare il più possibile i testi. Credo che anche quelli che ai fini dell’indagine sulla “leviatanologia” paiono irrilevanti possano in realtà diventare rivelatori.

Ciò che veramente importa è infatti quel che accade alle vittime, una volta dentro. La condizione e il tipo di reazione possono variare, ma sono tutte riconducibili grosso modo a due filoni: uno che potremmo definire mistico-biblico (anche se la storia di Giona non è affatto un archetipo, riprende miti mesopotamici molto più antichi) e un altro di matrice greco-razionalistica. Nel primo caso l’incidente è vissuto come occasione di riflessione, di espiazione e di redenzione rispetto ad una colpa originaria, il pesce è uno strumento di Dio e la soluzione arriva dall’esterno, per volontà appunto divina; nel secondo è sofferto come prigionia soffocante da cui evadere, il pesce-mostro è ucciso dall’interno, e la liberazione è frutto della intelligenza e dello spirito di sopravvivenza umani.

In pancia alla balena 02In sostanza, la vicenda viene usata spesso come metafora di una condizione di disagio psicologico, talvolta come simbolico passaggio di rigenerazione, di norma come espediente fantasioso per insaporire l’avventura.

Un esempio di reazione “razionale” (le virgolette qui ci stanno tutte) è offerto, nella letteratura classica, dalla Storia Vera di Luciano di Samosata. Di vero nella Storia di Luciano c’è in effetti ben poco, anzi, proprio nulla, e quindi andrebbe gustata esclusivamente per l’abilità nel tenere sempre alta la curva dell’iperbole, senza pretendere significati reconditi. Ma il confronto con il trattamento biblico della stessa situazione diventa inevitabile.

Vedo di riassumere. L’autore e i suoi compagni, che si sono messi per mare in cerca di avventure, ne trovano più di quante vorrebbero, tanto da finire addirittura sulla luna. Di ritorno dal nostro satellite (dove peraltro le cose vanno esattamente come da noi, tra guerre continue) scendono sulla Terra, o meglio planano sull’oceano, e quasi subito la loro nave viene inghiottita da un’enorme balena. All’interno del cetaceo trovano un grande mare, e in mezzo ad esso un’isola abitata da tribù cannibali e primitive. Lasciamo però la parola al protagonista:

Due soli giorni navigammo con buon tempo, al comparire del terzo dalla parte che spuntava il sole a un tratto vediamo un grandissimo numero di fiere diverse e di balene, e una più grande di tutte lunga ben millecinquecento stadi venire a noi con la bocca spalancata, con larghissimo rimescolamento di mare innanzi a sé, e fra molta schiuma, mostrandoci denti più lunghi dei priapi di Siria, acuti come spiedi, e bianchi come quelli d’elefante. Al vederla: – Siamo perduti –, dicemmo tutti quanti, e abbracciati insieme aspettavamo; ed eccola avvicinarsi, e tirando a sé il fiato c’inghiottì con tutta la nave; ma non ebbe tempo di stritolarci, ché fra gl’intervalli dei denti la nave sdrucciolò giu.

Come fummo dentro la balena, dapprima era buio, e non vedevamo niente; ma dipoi avendo essa aperta la bocca, vediamo una immensa caverna larga e alta per ogni verso, e capace d’una città di diecimila abitanti. Stavano sparsi qua e là pesci minori, molti altri animali stritolati, e alberi di navi, e ancore, e ossa umane, e balle di mercanzie. Nel mezzo era una terra con colline, formatasi, come io credo, dal limo inghiottito; sovr’essa una selva con alberi d’ogni maniera, ed erbe e ortaggi, e pareva coltivata; volgeva intorno un duecento quaranta stadi, e ci vedevamo anche uccelli marini, come gabbiani e alcioni, fare i loro nidi su gli alberi.

Allora venne a tutti un gran pianto, ma infine io diedi animo ai compagni, e fermammo la nave. Essi battuta la selce col fucile accesero del fuoco, e così facemmo un po’ di cotto alla meglio. Avevamo intorno a noi pesci d’ogni maniera, e ci rimaneva ancora acqua di Espero. Il giorno appresso levatici, quando la balena apriva la bocca, vedevamo ora terre e montagne, ora solamente cielo, e talora anche isole, e così ci accorgemmo che essa correva veloce per tutte le parti del mare.

Poiché ci fummo in certo modo abituati a vivere così, io presi sette compagni e andai nella selva per scoprire il paese. […] Affrettato il passo giungemmo a un vecchio e un giovinetto, che con molta cura lavoravano un orticello, e l’annaffiavano con l’acqua condotta dalla fonte.

In pancia alla balena 03Compiaciuti insieme e spauriti, ci fermammo; e loro, come si può credere, commossi del pari, rimasero senza parlare. Dopo alcun tempo il vecchio disse: Chi siete voi, o forestieri? forse geni marini o uomini sfortunati come noi? ché noi siamo uomini, nati e vissuti su la terra, e ora siamo marini, e andiamo nuotando con questa belva che ci chiude, e non sappiamo che cosa siamo diventati, ché ci par d’essere morti, e pur sappiamo di vivere.

A queste parole io risposi: Anche noi, o padre, siamo uomini, e siamo arrivati poco fa, inghiottiti l’altro ieri, con tutta la nave. Ci siamo inoltrati volendo conoscere com’è fatta la selva, che pareva grande e selvaggia […] Ma narraci i casi tuoi: chi sei tu, e come qui entrasti.

Quando fummo sazi, ci domandò di nostra ventura, e io gli narrai distesamente ogni cosa della tempesta, dell’isola, del viaggio per l’aria, della guerra, fino alla discesa nella balena.

Egli ne fece le meraviglie grandi, e poi a sua volta ci narrò i casi suoi, dicendo: Fino alla Sicilia navigammo prosperamente, ma di là un vento gagliardissimo dopo tre giorni ci trasportò nell’Oceano, dove abbattutici nella balena, fummo uomini e nave inghiottiti; e morti tutti gli altri, noi due soli scampammo. Sepolti i compagni, e rizzato un tempio a Nettuno, viviamo questa vita coltivando quest’orto, e cibandoci di pesci e di frutti. La selva, come vedete, è grande, e ha molte viti, dalle quali facciamo vino dolcissimo; ha una fonte, forse voi la vedeste, di chiarissima e freschissima acqua. Di foglie, ci facciamo i letti, bruciamo fuoco abbondante, prendiamo con le reti gli uccelli che volano, e peschiamo vivi i pesci che entrano ed escono per le branchie della balena; qui ci laviamo ancora, quando ci piace, che c’è un lago non molto salato, di un venti stadi di circuito, pieno d’ogni sorta di pesci, dove nuotiamo e andiamo in una barchetta che io stesso ho costruito. Son ventisette anni da che siamo stati inghiottiti, e forse potremmo sopportare ogni altra cosa, ma troppo grave molestia abbiamo dai nostri vicini, che sono intrattabili e selvatici.

A sistemare i vicini ci pensano Luciano e i suoi compagni. Secondo un costume che già all’epoca era consolidato l’equipaggio stermina tutti i selvaggi, ma si ritrova poi ad assistere ad una battaglia tra giganti che combattono stando su isole lunghissime, che spostano a remi come fossero piroghe. I greci capiscono allora che la faccenda può diventare delicata e cominciano a studiare come filarsela.

Da allora in poi, non potendo io sopportare di rimanere più a lungo nella balena, andavo mulinando come uscirne. In prima ci venne il pensiero di forare nella parete del fianco destro, e scappare. Ci mettemmo a cavare; ma cava, e cava quasi cinque stadi, era niente: onde smettemmo, e pensammo di bruciare il bosco, e così far morire la balena. Riuscito questo, ci sarebbe facile uscire. Cominciando dunque dalle parti della coda vi mettemmo fuoco, e per sette giorni ed altrettante notti non sentì bruciarsi; nell’ottavo ci accorgemmo che si risentiva, ché più lentamente apriva la bocca, e come l’apriva la richiudeva. Nel decimo e nell’undecimo era quasi incadaverita, e già puzzava. Nel dodicesimo appena noi pensammo che se in un’apertura di bocca non le fossero puntellati i denti mascellari da non farglieli più chiudere, noi correremmo pericolo di morir chiusi dentro la balena morta: onde puntellata la bocca con grandi travi, preparammo la nave, vi riponemmo molta provvigione d’acqua, e destinammo Scintaro a fare da pilota. Il giorno appresso era già morta, noi varammo la nave, e tiratala per l’intervallo dei denti, e ad essi sospesala dolcemente la calammo nel mare.

Usciti a questo modo, salimmo sul dorso della balena, e fatto un sacrificio a Nettuno, ivi rimanemmo tre dì, ché era bonaccia, e il quarto ci mettemmo alla vela. (Luciano di Samosata, Storia vera, libri I e II)

Al di là degli intenti di Luciano, che cerca solo di catturare e mantenere viva la meraviglia del lettore con gli effetti speciali, e quindi usa toni e modi che con la vicenda biblica di Giona hanno niente a che vedere, vengono fuori dei particolari che segnano una differenza significativa. Il luogo buio ma ricco di pesci, relitti di navi e ossa umane, piuttosto che a un loculo dove giacere per tre giorni in attesa della rinascita (che è il caso di Giona, a cui si rifarà poi dichiaratamente quello di Cristo) somiglia molto ad un possibile aldilà, abitato da uomini cui “pare d’essere morti, e pur sanno di vivere”. Anche se non è lecito leggere nella narrazione romanzesca di Luciano troppi significati simbolici, è pur vero che presso le culture classiche la tomba è un luogo ricco di oggetti e cibo, corredo necessario ad accompagnare il defunto nella sua nuova condizione. Come a dire che di qui o di là, non c’è poi molta differenza. Non è certo quello che pensavano gli eroi omerici, a giudicare dalle interviste che Ulisse realizza durante la discesa nell’Ade, ma si attaglia invece perfettamente all’epicureismo che Luciano professa. I tempi eroici sono finiti da un pezzo, e questo è lo specchio del mondo in cui Luciano vive.

In pancia alla balena 04Anche lui fa però riferimento ad una preesitente mitologia classica che di mostri acquatici ne propone a bizzeffe, o che propone lo stesso con fattezze diverse (è quello che viene denominato kētos; da cui successivamente, nella tradizione cristiana, il cetaceo per eccellenza, identificato nella balena). Perseo, ad esempio, lo combatte per salvare Andromeda (e in alcune versioni del mito lo uccide dopo essersi fatto ingoiare. In altre è invece Eracle ad uccidere ketos).

Particolarmente temuti sono poi i serpenti marini e le piovre. Nel secondo libro dell’Eneide sono proprio due serpenti usciti dal mare ad aggredire sulla spiaggia di Troia Laocoonte ed i suoi due figli. Riporto l’episodio, facendolo però raccontare non da Virgilio, ma da un autore leggermente più tardo, Petronio, perché nella sua narrazione c’è un interessante parallelo tra due tipi di mostruosità, quella naturale rappresentata dai serpenti che ingoiano i figli di Laocoonte e dilaniano il padre accorso in loro aiuto, e quella artificiale, rappresentata dal cavallo, (che tale appare subito ai Troiani, un mostrum, come dice Enea), nella cui pancia si nascondono i Greci per riuscire a penetrare in Troia.

Laocoonte ministro di Nettuno fende urlando la folla, vibra la lancia, la scaglia nel ventre del mostro, ma il volere dei numi gli fa debole il braccio, e il colpo rimbalza attutito, e dà credito all’inganno. Ma ancora egli chiede vigore alla mano spossata e saggia con l’ascia i concavi fianchi. Trasalgono i giovani chiusi nel ventre panciuto, e al loro sussurro la mole di quercia palpita d’estranea angoscia. Quei giovani presi andavano a prendere Troia, finendo per sempre la guerra con frode inaudita. Ma ecco un altro prodigio là dove Tenedo sorge dal mare, i flutti si gonfiano turgidi, rimbalzano le onde, si gonfiano di schiuma che la spiaggia ribatte, quale un tonfo di remi arriva nel cuore sereno della notte, quando solca una flotta le acque del mare che fervide gemono sotto l’impeto delle chiglie. Là noi volgiamo gli occhi e vediamo due draghi, che torcendosi spingono l’onda agli scogli, e coi petti impetuosi vorticano schiume intorno ai fianchi, come alte navi. Il mare percuotono con le code, le sciolte criniere lampeggiano come gli occhi, un bagliore di folgore incendia il mare e le onde sono tutte un tremolio di fremiti. Ogni cuore è sgomento. Cinti di sacre bende e con addosso il costume frigio i due figli gemelli di Laocoonte stavano lì sulla spiaggia. A un tratto li avvinghiano nelle loro spire i due draghi di fiamma, e quelli protendono ai morsi le piccole mani. Ciascuno non sé ma il fratello aiuta, e pietà si scambiano, finché morte li coglie in un mutuo terrore. Alla strage si aggiunge anche il padre, ben debole aiuto, che i due draghi già sazi di morte assalgono e trascinano sul lido. Giace vittima il sacerdote tra le are e il suo corpo percuote la terra. Cosi venne profanato il sacro e Troia affacciata sulla rovina perse per prima cosa gli dèi. (Satyricon, 88.9.4)

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Anche in questo caso lo scotto per il successo è la permanenza nel ventre buio di un animale. Quasi una forma di iniziazione. Ma, come dice Petronio, quella che si compie qui è una dissacrazione. E la dissacrazione vera è quella operata attraverso la téchne, la capacità di artificio degli umani. Il cavallo è una macchina: non è la prima, esistono altre macchine da guerra, ma questa nasconde uomini nella sua pancia. Prelude a mostri di altro tipo.

In pancia alla balena 06Le creature marine mostruose diventano una presenza fissa nelle mappe tardo-medioevali del mondo, soprattutto in quelle nordiche. Ma perdono per strada la loro valenza simbolica, per assumere invece sempre più una funzione narrativa o decorativa. Non esistono per punire chi si è macchiato di qualche colpa o dubita della giustizia divina, ma rientrano nel folklore paesaggistico e nei rischi dell’avventura. Sono significative in questo senso le immagini di draghi marini che corredano la Storia dei popoli settentrionali di Olao Magno (una delle perle della mia biblioteca: In Vinegia, appresso Francesco Bindoni, MDLXI) o la Carta Marina realizzata dallo stesso tra il 1527 ed il 1539, immagini che sono poi state trasferite pari pari nelle carte di Ortelio agli inizi del secolo successivo. I mostri sono rappresentati nel loro rapporto con gli umani, che rimane sempre ambiguo: nell’immagine di fianco, ad esempio, i naviganti hanno agganciato con l’ancora una creatura mostruosa, scambiandola per un’isola, e sono poi scesi tranquillamente dalla nave per accendere un fuoco sulla sua schiena. In questo caso nella situazione paradossale è evidente la linea di discendenza da Luciano: nelle caratteristiche fisiche attribuite al mostro c’è invece quella dalle antiche mitologie norrene, che al mare, e nella fattispecie all’oceano, associavano pericoli di ogni tipo, e quei pericoli li traducevano e li ibridavano visivamente nelle figurazioni più bizzarre.

In pancia alla balena 08Una vera balena in grasso ed ossa la ritroviamo invece nella letteratura cavalleresca tra Quattrocento e Cinquecento. Nel quarto dei Cinque Canti che Ariosto aggiunse e poi ritolse all’Orlando furioso, a finire nel suo ventre è Ruggero, perseguitato dalla maga Alcina.

Avea Ruggier lasciato poche miglia
Tariffa a dietro, e dalla destra sponda
Vede le Gade, e più lontan Siviglia,
E nelle poppe avea l’aura seconda;
Quando a un tratto di man, con maraviglia,
Un’isoletta uscir vide dell’onda:
Isola pare, ed era una balena
Che fuor del mar scopría tutta la schiena.

Nel panico che segue la nave prende fuoco, e Ruggero tra il morire bruciato e l’annegare sceglie la seconda opzione e si butta in mare con tutte le armi. Ma

Qual suol vedersi in lucida onda e fresca
Di tranquillo vivaio correr la lasca
Al pan che getti il pescatore, o all’esca
Ch’in ramo alcun delle sue rive nasca;
Tal la balena, che per lunga tresca
Segue Ruggier, perché di lui si pasca,
Visto il salto, v’accorre, e senza noja
Con un gran sorso d’acqua se lo ingoja.
Ruggier, che s’era abbandonato e al tutto
Messo per morto, dal timor confuso,
Non s’avvide al cader, come condutto
Fosse in quel luogo tenebroso e chiuso;
Ma perché gli parea fetido e brutto,
Esser spirto pensò di vita escluso.
Era come una grotta ampia e capace
L’oscurissimo ventre ove era sceso (…)
Brancolando, le man quanto può stende
Dall’un lato e dall’altro, e nulla prende.
Un picciol lumicin d’una lucerna
Vide apparir lontan per la caverna.

In pancia alla balena 09Chi sopravviene è un vecchio dalla lunga barba bianca, che alla domanda di Ruggero: sono vivo o sono morto? risponde:

Figliuol, rispose il vecchio, tu sei vivo,
Come anch’io son; ma fôra meglio molto
Esser di vita l’uno e l’altro privo,
Che nel mostro marin viver sepolto.
Tu sei d’Alcina, se non sai, captivo;
Ella t’ha il laccio teso, e al fin t’ha côlto,
Come côlse me ancora, con parecchi
Altri che ci vedrai, giovani e vecchi.

Tra questi altri, presso i quali il vecchio conduce Ruggero, e che si sono organizzati come in un camping, c’è anche Astolfo.

Tosto che pon Ruggier là dentro il piede,
Vi riconosce Astolfo paladino,
Che mal contento in un dei letti siede,
Tra sè piangendo il suo fiero destino.
Lo corre ad abbracciar, come lo vede:
Gli leva Astolfo incontra il viso chino:
E come lui Ruggier esser conosce,
Rinnôva i pianti, e fa maggior l’angosce.

I due si confidano vicendevolmente le proprie sventure, e poi si mettono a tavola, per un banchetto imbandito dai compagni di Astolfo. Come siano alla fine usciti dal ventre della balena non lo sappiamo. Ariosto li liquida così:

Ma di Astolfo e Ruggier più non vi sego:
Diròvvi un’altra volta i lor successi.
Finch’io ritorno a rivederli, ponno
Cenare ad agio, e di poi fare un sonno.

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Non ce lo dirà mai perché nella versione definitiva dell’Orlando l’episodio che ho appena raccontato non compare: compare sì la balena, ma Astolfo viaggia sul suo dorso accanto ad Alcina, della quale è follemente innamorato. Ruggero si lancia inutilmente in mare per sottrarlo all’incantesimo amoroso, ma è respinto dalle onde. La differenza tra le due versioni è sostanziale: quella da me riportata è stata elaborata da Ariosto in un momento di ripensamenti morali e religiosi (siamo nella fase più calda della riforma protestante), e si fondava sulla possibilità di riscatto dalla pazzia umana attraverso la fede. Sono propenso a credere che non sia estraneo l’influsso dell’Elogio della follia di Erasmo. Questo spiega la riesumazione del modello biblico, declinato alla luce dell’etica cavalleresca, per cui i due eroi, prigionieri della follia umana e redenti dalla follia della Croce, diventano soldati di Cristo.

Il motivo per il quale i cinque canti non sono stati inseriti è comunque evidente. Ripensamenti o no, Ariosto si è reso conto che non c’entravano affatto con lo spirito e con la temperie del poema, e ce li ha risparmiati.

Esistono però, se non nella mitologia almeno nella tradizione popolare, anche dei pesci buoni, come quello che nella quinta giornata del Pentamerone di Giovan Battista Basile sottrae la giovane Nennella all’annegamento, ingoiandola, e la risputa poi fuori dopo averla condotta in salvo. Nennella e il fratello Ninnillo sono stati lasciati nel bosco per volontà di una matrigna cattiva (un pescecane maledetto, la definisce Basile), Dopo varie vicende finiscono separati, e mentre Ninnillo è adottato da un principe, Nennella, rapita da un corsaro, è coinvolta nel naufragio dell’imbarcazione di quest’ultimo, nel quale tutti muoiono tranne lei.

In pancia alla balena 11Solo Nennella […] scampò questo pericolo perché proprio in quel momento si trovò vicino alla barca un grande pesce fatato, che, aprendo un abisso di bocca, se l’inghiottì. E quando la ragazza credeva di avere finito i suoi giorni proprio allora trovò cose da trasecolare nella pancia di questo pesce, perché c’erano campagne bellissime, giardini deliziosi, una casa signorile con tutte le comodità, dove se ne stava da principessa.

Ora accadde che quel pesce la portasse di peso a uno scoglio, dove […] il principe era venuto a prendere il fresco. E Ninnillo s’era posto a un verone del palazzo. Nennella lo vide attraverso le fauci aperte del pesce e gridò: “fratello mio, fratello mio”. […]

Il principe gli disse di accostarsi a pesce e vedere che cosa fosse […] E Ninnillo si avvicinò al pesce e quello, poggiata la testa sopra uno scoglio e aperti sei palmi di bocca, ne fece uscire Nennella, così bella che sembrava proprio una ninfa che, in un intermezzo, usciva, per incanto di qualche mago, da quella bestia. (Pentamerone, V giornata, favola VII)

Per completezza di informazione, c’è il lieto fine: il principe combina per entrambi dei matrimoni da favola, mentre la matrigna finisce sfracellata dentro una botte fatta rotolare giù da una rupe.

Quasi due secoli dopo un altro eroe letterario fa quest’esperienza: è il barone di Münchausen (a proposito: andando a sfogliare per l’ennesima volta il libro delle sue avventure ho ritrovato l’episodio della trombetta da postiglione che si era congelata e che una volta al caldo della stufa si scongela ed emette le sue note. Qui l’autore si è chiaramente ispirato all’episodio di Gargantua che ho riportato ne L’estate tra i ghiacci). Il barone, o meglio, il suo biografo, Rudolf Erich Raspe, pesca a piene mani dai racconti di Luciano e dell’Ariosto, compreso il viaggio sulla luna, e non può certo mancare di fare la sua esperienza col cetaceo. Anzi, è quasi un habitué degli incontri molto ravvicinati con balene o con pesci comunque enormi. Li racconta ad una maniera che sarà un secolo dopo quella di Mark Twain, perentoria ed essenziale, quasi a non lasciare il tempo al lettore di riprendersi dallo stupore. Come a dire: se non mi credi, cosa stai a fare qui, puoi andare a bere da un’altra parte.

Ma è anche il modello sul quale si fondano i cartoni animati del Vicoyote e di Silvestro, di un mondo paradossale, opposto a quello razionale e reale, nel quale l’inverosimile sconfigge di continuo il verosimile, le situazioni sono rovesciate, i rapporti distorti. In fondo questo cumulo continuo di frottole non fa che anticipare la tecnica persuasiva della pubblicità e del dibattito politico moderni. Procede per accumulo di enfatizzazioni, iperboli, pure invenzioni ed esasperazioni, fino a farci accettare la menzogna come norma. Ma almeno, nella bocca del barone tutto il racconto è simpaticamente surreale, le fanfaronate si susseguono come fuochi d’artificio, esplodono a raffica senza accampare alcuna pretesa di credibilità.

Riporto quasi per intero i passi, che traggo da una vecchia traduzione per Marzocco a cura di Giuseppe Fanciulli, perché difficilmente potrete trovare nelle edizioni moderne una versione così fedele all’originale di Raspe (oggi circolano solo “adattamenti”, e tremo a pensare a cosa succederà quando i “politicamente corretti” si ricorderanno del barone).

Errammo per oltre tre mesi senza sapere dove andavamo, non avendo bussola, finché ci trovammo in un mare che appariva tutto nero. Ne assaggiammo l’acqua e scoprimmo con grandissimo stupore che era ottimo vino, così che ci volle tutta la nostra autorità per impedire ai marinai di ubriacarsi. Purtroppo il nostro pensiero fu presto distolto da questa inezia, perché ci trovammo circondati da immense balene e da altri mostri marini smisurati, uno dei quali era talmente lungo che non riuscii a vederne la coda, neanche con l’aiuto dei migliori cannocchiali.

Per disgrazia ci accorgemmo della sua presenza quando gli eravamo già troppo vicini, e in men che non si dice tutta la nostra nave con le vele spiegate e gli alberi ritti passò nella sua gola.

Là dentro errammo per qualche tempo, finché, avendo il mostro inghiottito una prodigiosa massa d’acqua, la nave seguì la corrente, e ci trovammo in un momento nello stomaco della bestia. L’aria per la verità, era laggiù piuttosto calda, e tuttavia gettammo l’ancora in un sicuro porto e ci guardammo in giro. Vi era un gran numero di ancore, gomene, scialuppe e di navi cariche e vuote inghiottite dal mostro. L’oscurità profonda ci costringeva all’uso continuo delle torce: due volte al giorno galleggiavamo e due eravamo a secco: quando il mostro beveva era il flusso e quando risputava l’acqua era il riflusso. Secondo i nostri calcoli l’acqua immessa era ordinariamente in quantità maggiore di quella contenuta nel lago di Ginevra, che ha trenta chilometri di circonferenza.

Il secondo giorno della nostra prigionia volli tentare, col capitano e gli altri ufficiali, un’escursione durante il periodo del riflusso. Muniti di torce scoprimmo tanta altra gente che si trovava nelle stesse condizioni nostre. Ve n’era di ogni nazione: saranno state più di diecimila persone, che si disponevano appunto a tener consiglio per decidere sul mezzo migliore per uscire da quella prigione.

Vi erano persino dei bambini che non avevano mai visto il mondo, essendo nati là dentro […]

Proposi subito un tentativo di salvataggio con l’introdurre due alberi maestri legati insieme nella gola del pesce, in modo che non potesse più chiudere la bocca. (…) Il mostro sbadigliò, e l’asta lunghissima venne subito piantata nella sua gola, quindi il passaggio rimase per noi definitivamente aperto, e non appena giunse l’ora del reflusso disponemmo un ottimo servizio di scialuppe per rimorchiare tutte le navi fino alla luce del sole.

Potete immaginare con quale gioia lo salutammo dopo quindici giorni di prigionia e di tenebre. […] dopo molte profonde osservazioni io potei riconoscere che ci trovavamo nel Mar Caspio. Come mai potevamo essere giunti a questo mare che è come un gran lago chiuso da ogni parte? … il mostro che ci aveva ospitato nel suo stomaco per due settimane doveva averci trascinato fin là traversando qualche passaggio sottomarino.

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Ci ha preso gusto, perché nella seconda parte del libro, quella dedicata alle avventure di mare, Münchhausen racconta della collisione con una balena addormentata lunga ottocento metri, una botta talmente violenta che un marinaio che stava ammainando la vela maestra è sbalzato in aria di quindici chilometri, e riesce a tornare sulla nave solo aggrappandosi alla coda di un gabbiano. La balena, giustamente risentita, prende in bocca l’ancora e trascina la nave a velocità folle per un sacco di tempo, fino a quando la catena si spezza. Ma il bello viene dopo.

Mentre è al comando di una guarnigione a Marsiglia, il barone decide di concedersi una bella nuotata in mare. Ma:

Ad un tratto, veloce come un lampo, vidi venire verso di me un pesce enorme che mostrava già la bocca spalancata intenzionato a divorarmi. Non avevo via di scampo: fuggire era impossibile. Dovevo escogitare una soluzione al più presto possibile. Impulsivamente mi feci il più piccino possibile, cacciando la testa fra le spalle e stringendo più che potevo le braccia contro il corpo. Mi fu così possibile passare tra le ganasce del pesce e scivolare nel suo stomaco senza finire maciullato dalla sua affilata dentatura.

Puoi immaginare l’oscurità nella quale piombai una volta all’interno di quel corpo, ma ciò che mi risultò veramente insopportabile fu il calore. Di lì a poco sarei morto soffocato. Presi, dunque, una decisione drastica: provocare un tale dolore alle viscere del pesce da indurlo a una qualsiasi reazione! Iniziai, infatti, a ballare, ad agitarmi e a dimenarmi come un pazzo furioso lungo tutto il ventre dell’animale.

L’animale, a sua volta, fece la stessa cosa. Poi cominciò a urlare e a gemere in un modo spaventoso; infine si alzò, emergendo per metà dall’acqua. L’equipaggio di un bastimento mercantile italiano, che usciva allora dal porto, rallentò per ammirare quello spettacolo curioso e mai visto prima. I marinai si armarono di ferri e uncini e attaccarono il pesce, che in pochi minuti fu ucciso. Quindi la preda venne condotta a riva e io udii distintamente quegli uomini che si consultavano su come farla a pezzi per ottenere la maggiore quantità possibile di olio pregiato. II pericolo che stavo correndo era veramente grande. Rischiavo di essere squartato assieme all’animale. Cercai di non farmi prendere dal panico e di ragionare. Avrei atteso pazientemente che i ferri affondassero nella carne del pesce e avrei poi calcolato la direzione del taglio, nascondendomi altrove.

Dapprima i marinai lacerarono il ventre dell’animale cosicché, appena intravidi la punta dell’arpione bucare le viscere, andai a rifugiarmi nella coda dell’animale. Poi, quando la luce naturale illuminò la cavità, presi a gridare con tutta la forza dei miei polmoni. Mi è impossibile descriverti la meraviglia che si dipinse su tutti i volti nel momento in cui la mia voce si fece strada fra le viscere del pesce. Quella meraviglia fu anche più grande quando videro uscire un uomo vivo e completamente nudo come il nostro primo padre Adamo.

In pancia alla balena 13

Il topos dell’ingoiamento torna con frequenza nella letteratura romantica e tardo-romantica, sia pure sotto spoglie rinnovate. Può rientrarci infatti anche la vicenda raccontata da Edgard Allan Poe in Una discesa nel Maelström, così come Le avventure di Gordon Pym, che ci fanno incontrare un altro essere mostruoso, la sfinge dei ghiacci.

In pancia alla balena 14Nel primo racconto una violenta tempesta sospinge tre pescatori norvegesi, tre fratelli, verso un enorme vortice: il maelström. La loro imbarcazione è risucchiata in un abisso che si apre a cono rovesciato e viene attirata verso il fondo. Alla fine uno solo dei tre si salva, aggrappandosi ad un barile vuoto che è risputato fuori. Le correnti lo spingono a questo punto verso la riva, e lì può raccontare la terribile esperienza che ha vissuto: ma ne è uscito trasformato, i suoi capelli si sono completamente sbiancati e il suo equilibrio psichico è distrutto.

Qui dominante è il tema della potenza distruttiva della natura, dalla quale nella sua fragilità l’essere umano viene divorato. Ma, al di là dello sgomento, c’è una certa rassegnata identificazione:

“Ora che eravamo in mezzo al gorgo, mi sentivo più calmo … Avendo compreso che oramai non avevamo più alcuna speranza, mi ero liberato di gran parte del terrore … Penso che fosse la disperazione a distendere i miei nervi.”

che può diventare addirittura attrazione:

“Trovavo fosse una cosa meravigliosa morire in quel modo e folle dare tanta importanza alla mia vita personale di fronte a quella manifesta ne della potenza di Dio.”

Un Poe decisamente biblico, così come biblico è il suo contemporaneo Melville. C’è però anche qualcos’altro. L’orrore viene dall’abisso, e l’abisso sul quale ci affacciamo può essere anche quello degli strati più profondi del nostro animo, nel quale albergano sentimenti che non vorremmo conoscere e che escono allo scoperto nei momenti estremi. Due dei fratelli, ad esempio, si ritrovano a disputarsi l’unico appiglio per la salvezza:

“… Si lanciò verso l’anello dal quale, nella sua agonia di terrore, cercò di strappar via le mie mani, non essendoci posto per due.”

Si torna ai mostri nella pancia di cui parla il saggio dal quale siamo partiti. Ma per prendere subito un’altra direzione, meno intimista.

In pancia alla balena 15Infatti: dove conduce l’abisso? Non necessariamente all’inferno, malgrado le due immagini siano strettamente associate. È possibile che Poe si sia ispirato per questi due racconti alla teoria della “terra cava”, diffusa nella prima metà dell’ottocento da alcuni esploratori, che si cimentarono anche in improbabili spedizioni polari. La versione più fantasiosa di questa teoria postulava che una razza umana abitasse nella pancia della terra, in qualche caso disputandola a residuali mostri preistorici. Anche se Poe non ne fa mai menzione esplicita, direi che la cosa era senz’altro nelle sue corde, e che proprio attraverso la sua opera sia stata trasmessa a diversi autori da lui fortemente influenzati.

A Poe si rifà infatti esplicitamente Verne in Ventimila leghe sotto i mari, facendo inghiottire il Nautilus da un gigantesco maelström (ma il sottomarino riesce a salvarsi, e lo ritroveremo poi in una grotta de L’isola misteriosa.) Il richiamo è ancora più esplicito ne La sfinge dei ghiacci, concepito come un seguito de Le Avventure di Arthur Gordon Pym.

I mostri marini in Verne sicuramente non mancano, ma direi che il più interessante è proprio il Nautilus. Tale appare all’opinione pubblica, visto che i superstiti delle navi da esso affondate raccontano “di avere visto una ‘cosa enorme’, strana, lunga, fusiforme, talvolta fosforescente, infinitamente più grande e più veloce di una balena”, che lancia sbuffi d’acqua a grandi altezze; ma in un primo momento appare tale anche al professor Aronnax, che lo scambia per un enorme narvalo. In effetti il Nautilus è un mostro: un mostro artificiale, che ha un lontano progenitore nel cavallo di Troia. Nel suo ventre dimorano e viaggiano per ottantamila chilometri i tre protagonisti, incontrando calamari giganti ed esplorando foreste sottomarine. Ma hanno anche modo di meditare, confrontandosi col capitano Nemo, che ritorce le conquiste del progresso contro la coscienza sporca della società del profitto. Ed anche loro escono dal soggiorno nella pancia del mostro molto cambiati.

A Verne l’idea di cacciare i protagonisti delle sue storie in caverne, cunicoli, anfratti del sottosuolo piace parecchio (così come quella di farli volare nello spazio: anche lui li manda sulla Luna). Non vuole lasciare spazi inesplorati, si picca dare una spiegazione razionale di tutto (la Sfinge dei ghiacci si rivela alla fine del suo romanzo essere una montagna ghiacciata) ma un gusto particolare lo prova quando può uscire dal binario del verosimile e aprire alla scoperta paesaggi totalmente inediti. Il Viaggio al centro della terra è un’esplorazione dell’abisso che strizza l’occhio alla teoria della terra cava. Tradotto nel linguaggio usato per queste riflessioni, il titolo potrebbe essere Nella pancia del mondo.

Cos’hanno in comune tutte queste vicende? Più di quanto non si pensi. L’unica differenza tra il calarsi nelle viscere della terra e l’entrare nello stomaco di una balena sta nel fatto che nel secondo caso di norma non si sceglie. Non è una differenza da poco, ma l’esito è lo stesso. È la vertigine creata dall’ignoto, dal non sentire sotto i piedi la terra (“sente che sotto i piedi arena giace,/ Che cede, ovunque egli la calchi, al peso” scrive Ariosto), dal roteare e precipitare nel vuoto. Racconta più il disagio della civiltà che non l’epopea del progresso. Come del resto hanno fatto, in maniere diverse, tutti i suoi predecessori.

Per chiudere almeno momentaneamente il cerchio dovrei parlare ora di altri epigoni di Poe, di Edward Bulwer-Lytton e del suo Vril (ne La razza ventura), ad esempio, o di Lovecraft, che ne Il tumulo immagina l’esistenza da tempi remotissimi nel sottosuolo terrestre di un mondo abitato da esseri terribili: ma sono cose di cui ho già trattato più o meno diffusamente altrove, e non voglio ripetermi.

L’impressione rimane quella: che in ogni epoca (anche in quelle nelle quali nasceva o si affermava la fiducia nel progresso) la letteratura abbia espresso, più che i timori per le incognite negative del futuro, i rimpianti per la perdita progressiva di dimensioni misteriose e inesplorate, della possibilità di essere sorpresi o di trovare in esse rifugio. Di qui l’ambiguità. Gli uomini a temono ma al contempo amano tanto il mistero quanto i pericoli che esso può celare: non possono fare a meno di una certa dose di adrenalina, e in un mondo totalmente disvelato e per la gran parte messo in sicurezza il rischio se lo vanno comunque a cercare, come testimoniano gli sport estremi. Oppure cercano i surrogati della vertigine, sulle montagne russe o nel bungee jumping ,

Concludo con una vicenda sulla cui autenticità lascio libero di decidere il lettore, e che in caso positivo non può non produrre qualche riflessione.

Il fatto sembra essere accaduto nel 2019, ed è stato raccontato da un sub che nuotava al largo delle coste sudafricane (pare comunque che esista anche una documentazione fotografica esterna, per quanto confusa). Era intento ad osservare il comportamento degli squali che gli nuotavano attorno (questo la dice già lunga sul personaggio), per cui troppo tardi si è reso conto di quello che gli stava accadendo:

[…] improvvisamente intorno è diventato buio. Ho capito che ero stato inghiottito da qualche animale. Ho trattenuto il respiro perché pensavo che si sarebbe immerso e mi avrebbe liberato molto più profondamente nell’oceano, era buio pesto dentro. Ovviamente poi l’animale si è reso conto che non ero quello che voleva mangiare, quindi mi ha sputato fuori. Una volta che sei preso da qualcosa che pesa oltre 15 tonnellate e si muove molto veloce nell’acqua, ti rendi conto che in realtà sei solo così piccolo in mezzo all’oceano. Ho sentito una pressione pazzesca ai fianchi ed è stato quando la balena si è accorta di aver sbagliato boccone. Lentamente ha spalancato le fauci per liberarmi e sono stato letteralmente spazzato via, insieme a quello che mi è sembrato una tonnellata d’acqua.

Ho confrontato questo racconto con quello di Münchausen. Quand’anche la si accetti come vera, la vicenda in definitiva non ci trasmette nulla. Semmai conferma quel che scrivevo prima a proposito del pericolo volutamente rincorso. Non è nemmeno spettacolare, e neppure lo sarebbe se fosse stata integralmente ripresa in soggettiva dal protagonista: senza i relitti, la possibilità di incontri straordinari, i banchetti a base di pesce e frutta, l’interno di questo pesce è solo una scatola buia e stretta. La dissacrazione delle paure e delle fantasie ancestrali ha lasciato il posto solo a quelle virtuali e artificialmente indotte. Il risultato è che non sappiamo più di cosa davvero dovremmo aver paura, e abbiamo paura di tutto.

P.S. In realtà non è finita qui. Rimane in sospeso il confronto con chi ha scritto un saggio intitolato “Nella pancia della balena”, ovvero George Orwell. Ma Orwell, come Cervantes, non può essere liquidato nelle poche righe di una rassegna come questa. Anche per lui do quindi appuntamento ad una prossima puntata.

Mi arriva notizia nel frattempo che siamo anche campioni d’Europa nel Football americano. Adesso il rugby non ha più scusanti. E io nemmeno.

Ma non sono così sicuro di voler davvero uscire dalla balena.

In pancia alla balena 16

La fuga di Paperino

di Angela Cresta e Maurizio Castellaro, 20 dicembre 2020

La fuga di Nemo

di Angela Cresta e Maurizio Castellaro, 6 dicembre 2020

Ad Ovada c’era il mare

di Angela Cresta e Maurizio Castellaro, 18 novembre 2020

 

Fauna in estinzione

di Fabrizio Rinaldi, 17 settembre 2019

Per fortuna accade ancora di stupirsi nel leggere un incipt che potrebbe competere con “Chiamatemi Ismaele” o con “Se davvero avete voglia di sentire questa storia”. Oggi m’è successo con Fauna di Vittorio G. Rossi.

Mi sono spinto fin sulle colline di Mosùl a cercare il diavolo; ma lassù il diavolo era diventato buono, così non l’ho trovato.
Si trova sempre quello che non si cerca; però si continua a cercare lo stesso, se no la vita diventa stupida.

Vittorio G. Rossi (bellissima e intrigante quella G.) scrisse molti libri sui suoi innumerevoli viaggi per mare e nei deserti mediorientali, con un linguaggio sintetico, pieno di sarcasmo e ironia, mai banale, da cui emergevano riflessioni cariche di poesia e disarmante lucidità come queste tratte da Maestrale.

La quantità di animale che è nell’uomo, nessuno la può calcolare; essa è grandissima; e continuamente essa aumenta o diminuisce, anche da un’ora all’altra, da un minuto all’altro; è un vincere e perdere continuo, senza soste; e il combattimento l’uomo se lo sente dentro, serpeggiare come un liquido pesante e oscuro; e lui non può farci niente per interromperlo o fermarlo.
Solo pochi possono condurre al guinzaglio la loro bestia oscura; ma è sempre una bestia al guinzaglio. […]
Essere animale è facile; essere uomo è difficile.

Le sue riflessioni sulle pulsioni umane non lasciavano spazio a fraintendimenti o a scappatoie di convenienza. Erano levigate e compiute – almeno per lui e per i suoi moltissimi lettori dell’epoca – come sa fare il suo amato mare con i sassi.

Bisogna scrivere con la propria pelle, cioè prima vivere, poi scrivere”. E questo fece: gli spunti li saccheggiava dall’esperienza vissuta sulle navi come capitano di lungo corso, fino ad arrivare a fine carriera, nel 1945, a congedarsi come tenente colonnello. Nel dopoguerra divenne un giornalista di punta del Corriere della Sera e di Epoca, tanto che nel 1951 fu il primo giornalista occidentale non comunista a visitare e descrivere la Russia sovietica. Durante i suoi peregrinare nel mondo fu palombaro, minatore, timoniere e pescatore. Lo si vedeva anche tra i carruggi di Santa Margherita (sua città natale) col suo quadernetto e la matita mentre annotava l’assioma del pescivendolo o la freddura della bottegaia, da cui partiva per i suoi racconti di mare, paragonabili per freschezza e incisività a quelli dei ben più celebri Hemingway e Conrad.

Così recita l’epitaffio sulla sua tomba: “poca terra molto mondo”. Una sintesi di vita piena, fino a ottant’anni, quando morì nel 1978.

Durante quella vita pubblicò molto e vendette tantissimo, ma venne snobbato da premi e salotti, intellettuali e dignitari, pur frequentando abitualmente l’inquilino del Quirinale, che all’epoca era l’amico e solidale Giuseppe Saragat.

Oggi neppure i disperati cacciatori di libri perduti che, come ultima spiaggia – o per narcisismo –, partecipano alla rubrica radiofonica Caccia al libro di Fahrenheit hanno mai cercato un testo di quest’autore. Su Amazon si trovano solo edizioni fuori catalogo da decenni, non una ristampa recente. È sicuramente da ritenersi “estinto” per la logica editoriale attuale.

L’oblio intellettuale calato su Vittorio G. Rossi ha il sapore di una vendetta tardiva per l’errore infamante che commise in gioventù: firmò il Manifesto degli intellettuali fascisti scritto da Giovanni Gentile nel 1925.

Non sarebbe politicamente corretto ripubblicare uno scrittore con questo marchio addosso, a cui s’aggiunge una religiosità marcata e il peccato d’aver evitato l’intellighenzia salottiera dei premi “Strega” o similari. Ad essa preferiva la gente comune con cui condividere esperienze “salate” dal mare.

Per chi se ne frega dei pregiudizi e rifugge il premiato scrittore in erba, non resta che affondare le mani nelle bancarelle di libri dimenticati, con ben chiaro l’orizzonte di Rossi che è rintracciabile nel libro Il cane abbaia alla luna: “Nei libri non c’è l’odore delle cose raccontate; quasi sempre raccontate da gente che non ha mai visto le cose che racconta. Il basilico non è nei libri di botanica; è nell’odore di basilico”.


Collezione di licheni bottone

Tramonto del “colonialismo”?

di Fabrizio Rinaldi, 14 settembre 2019

La parola “colonia” evoca di primo acchito nei più un profumo non troppo esotico, piuttosto leggero, che può riuscire conturbante se pubblicizzato da una procace fanciulla. Per quelli politicizzati, o che qualcosa ancora sanno di storia, è invece sinonimo dell’imperialismo occidentale, e rimanda a vergognose vicende di oppressione e sfruttamento. A molti altri ricorda anche l’odore acre dei calzini usati, la presa di coscienza di ritmi e regole diversi da quelli domestici, la scoperta dei propri sensi, aspirando a fare altrettanto con l’altro sesso (intenti sempre delusi), ma soprattutto la voglia di divertirsi, in compagnia di coetanei, al mare o in montagna.

Qualche “colonia di cura” per i bambini malati, soprattutto per quelli affetti da tubercolosi, era già sorta nella seconda metà dell’Ottocento e ai primi del Novecento, gestita da enti religiosi o da associazioni caritatevoli e ispirata ai benefici terapeutici che la medicina cominciava a riconoscere all’aria pura o allo iodio. L’istituto conobbe però uno sviluppo significativo solo negli anni trenta del secolo scorso, questa volta nel quadro di un più vasto progetto di “educazione fascista totale” varato e gestito direttamente dal regime, che riguardava tutti i minori e andava ben oltre le finalità curative. Bisogna riconoscere che, al netto degli scopi propagandistici e di condizionamento, l’impegno in questo campo fu davvero notevole. Per ideare le strutture vennero mobilitati i migliori architetti del periodo, e negli anni immediatamente precedenti la guerra si arrivò ad ospitare in esse poco meno di un milione di bambini.

Nel secondo dopoguerra il fenomeno è nuovamente esploso, e per almeno due decenni ha rivestito una fortissima valenza sociale. A cavallo tra gli anni quaranta e cinquanta per la maggior parte dei bambini la colonia estiva rappresentava ancora l’unico possibile battesimo del mare, e a molti offriva addirittura il primo contatto con pasti regolari e abbondanti. Dove non arrivavano le istituzioni (le colonie erano di competenza delle amministrazioni pubbliche) intervenivano i privati: ogni grande azienda o gruppo finanziario, moltissime associazioni di categoria e vari istituti religiosi, addirittura le singole parrocchie, facevano a gara nel dotarsi di strutture per le vacanze estive, con livelli di accoglienza molto diversi, speculari ai “ranghi sociali” dei destinatari, ma tutto sommato abbastanza simili nelle finalità e nelle modalità di gestione.

Lo scopo, una volta superata l’emergenza sanitario-alimentare, era quello di offrire ai bambini, soprattutto a quelli abitanti in città che cominciavano a patire i danni dell’inquinamento industriale, una pausa di disintossicazione, e in secondo luogo di favorirne la socializzazione con coetanei di altre zone e di altre regioni. Che poi si divertissero era dato per scontato, ma non costituiva una priorità. Questo spiega ad esempio la percezione negativa dell’esperienza di colonia maturata in genere da chi arrivava dai paesi di campagna (pochi, per la verità): a differenza dei cittadini, costoro si trovavano costretti in una gabbia di orari, di regolamenti e di norme precauzionali ai quali non erano affatto abituati, e che soffocavano la libertà semi-selvaggia nella quale erano cresciuti.

Tutto ciò è andato avanti sino agli anni del boom economico. Poi è iniziata la decadenza. Le famiglie cittadine, anche quelle meno abbienti, quelle operaie, hanno cominciato a potersi permettere brevi periodi di vacanza al mare o in montagna, così che la funzione principale delle colonie è venuta meno: ed anche i bambini, allevati ormai a nutella e televisione in un clima di trionfante lassismo educativo, sono diventati sempre meno disponibili a rinunciare alla loro razione quotidiana di schifezze e a sottostare a regole uguali per tutti.

Il risultato è che la stragrande maggioranza delle colonie non sono sopravvissute al cambiamento. Per rendersi conto concretamente della dimensione del fenomeno e di quanto è successo basta fare un giro lungo la costiera ligure, toscana o adriatica. Si incontreranno numerosissimi edifici, a volte anche decisamente belli e situati in posizioni fantastiche, a un passo dal mare, ormai in totale abbandono, invasi dalla fagocitante vegetazione infestante, quando non già ridotti a scheletri di cemento e a rifugio di sbandati. Solo lungo la costa adriatica ce ne sono più di 200.

Il tramonto di questo “sistema coloniale” è stato determinato naturalmente anche da altre cause, più spicciole. Intanto l’impegno finanziario: i costi per mantenere funzionali questi mastodontici complessi architettonici e adeguarli a normative sulla sicurezza sempre più stringenti sono enormi. Poi ci sono quelli di gestione, anch’essi lievitati in maniera esponenziale assieme al numero di addetti necessari a garantire la sicurezza, l’accoglienza, il divertimento e le aumentate esigenze degli ospiti. Negli anni cinquanta un’educatrice presiedeva gruppi di trenta o quaranta bambini, oggi il rapporto è di molto inferiore. In una società bambinocentrica come quella attuale le responsabilità legali nei confronti dei minori sono pesantissime, e a queste si aggiungono quelle morali create da genitori che mettono costantemente in discussione l’operato delle figure educative a cui sono affidati i figli.

C’è anche un ulteriore aspetto, tutt’altro che marginale, a cui sono particolarmente sensibili i governanti e i sindaci: quale ritorno ha sulla loro immagine politica il finanziamento di queste strutture? La scelta di investire su questi servizi e promuoverli adeguatamente non ha una ricaduta immediata in termini di consenso, non è politicamente remunerativa per una classe politica che ha l’occhio costantemente ai sondaggi o alle prossime elezioni e si preoccupa solo della propria sopravvivenza: sono progetti a lungo termine nei quali paradossalmente sembrano potersi impegnare solo i regimi autoritari, con finalità appunto cui si accennava sopra. Favorire i servizi offerti nelle colonie hanno un ritorno a lungo termine di sensibilizzazione fra coetanei di differenti estrazioni sociali, di arricchimento di esperienze che rafforzano le personalità di chi le vive, di integrazione fra culture lontane e un’infinità di altri fattori stimolanti.

Le colonie di vacanza che sopravvivono sono nel frattempo diventate un’altra cosa. La parola stessa “colonia” è ormai tabù. È stata sostituita per lo più dalla dicitura “centro estivo”, e in effetti la differenza è sostanziale: la prima era un contenitore di esperienze anche fisicamente lontane dalle consuetudini familiari e quotidiane. La seconda è la versione “zuccherata” compatibile con la società attuale: i genitori stazionano in genere a pochi chilometri – se non metri – in modo da poter (dover) intervenire in ogni decisione (la responsabilità è sempre demandata a loro), compreso il programma delle attività che i loro pargoli svolgeranno. Questi ultimi sono dunque parcheggiati in oasi “ricreative”, la cui principale finalità è quella di risolvere i problemi logistici di padri e madri, sempre più indaffarati a fare altro.

Nella logica genitoriale ciò che importa è mantenere un illusorio controllo sul ragazzo (che in realtà è lasciato poi in balìa dei social e della televisione), e questo significa precludergli una esperienza formativa davvero fondamentale, vissuta per più giorni con compagni d’avventura della stessa età, senza avere tra i piedi il parentado pronto al soccorso e alla difesa, resa affascinante proprio dalle paure che uno scopre di poter vincere, dalle piccole complicità che stringe, dalla trasgressione costituita già di per sé dal pernottare fuori casa.

Tuttavia qualcosa sembra stia accadendo. Intanto, se i chiari di luna economici degli ultimi due decenni si protrarranno ancora per un po’ (e sembra certo che sarà così) molte famiglie non riusciranno più ad offrire ai loro pargoli altre vacanze se non un breve periodo di “colonia”. Le resistenze sono molte, per i motivi che ho esposto sopra e per quelli che analizzerò a parte dopo, ma il vento spinge in questa direzione. E spinge già decisamente anche tutta quella parte nuova della nostra popolazione che nelle ex colonie, quelle altre, quelle politiche, ci è nata e c’è scappata sua malgrado, e non ha conosciuto il nostro benessere, e non dispone certo di case per le vacanze.

Ho anche il sentore che sia in atto anche un mutamento di sensibilità, che sta inducendo una diversa attenzione al recupero delle vecchie strutture (giustificata, oltre che ecologicamente motivata, dal fatto che le architetture “coloniali” degli anni trenta sono tutt’altro che disprezzabili): anziché lasciarle andare in pezzi in attesa di poter sfruttare diversamente gli spazi, o di “valorizzarle” trasformandole in alberghi o discoteche o centri commerciali, si comincia, almeno in alcune regioni, a ipotizzare per esse un ritorno alla vecchia funzione.

Infine, questo mutamento sembra investire anche il concetto stesso della vacanza in colonia, e ciò avviene paradossalmente presso i ceti di livello culturale più alto, quelli che si stanno convertendo – più per tendenza che per convinzione – alla sobrietà e alla decrescita felice, ma anche ad un modello educativo meno familista. Vuoi per tendenza, vuoi per snobismo, vuoi per genuina convinzione, sembra che i prossimi fruitori di un rinnovato “sistema coloniale” possano diventare proprio quelli che delle colonie avrebbero meno bisogno, disponendo già con larghezza di doppie o triple case, al mare o in montagna. Ed è quindi ipotizzabile che, costituendo queste élites il parametro di riferimento per chi vuol essere anticipatore di una moda di nicchia, si trascineranno dietro col tempo, almeno fino a quando la scelta alternativa non sarà diventata troppo comune, una buona fetta di quella utenza che oggi arriccia il naso.

Quale possa essere un modello rinnovato di esperienza in colonia mi riservo di esemplificarlo nelle pagine in allegato. Per il momento mi limito a constatare che i presupposti per un rilancio della vacanza in colonia, sia pure pensata per finalità diverse e gestita con modalità più adeguate ai tempi nuovi, ci sarebbero quasi tutti. Ne manca purtroppo uno fondamentale: ovvero una classe politica capace di alzare gli occhi dal proprio ombelico e di guardare al futuro, anziché in termini di vitalizi, in termini di progettazione sociale. Ma a questa assenza, nostro malgrado, ci stiamo ormai abituando. Più importante che mai diventa allora la presenza nostra, attraverso la partecipazione attiva alle politiche locali e la pressione ed il controllo continuo esercitati sulle amministrazioni deputate a dire l’ultima parola sulla destinazione dei vecchi immobili “coloniali”. Nel giro di tre anni, ad esempio, l’amministrazione provinciale alessandrina ha svenduto a privati, nella più totale indifferenza dei partiti e dei cittadini, le due proprietà “coloniali” di Arenzano e di Caldirola. Ad una destinazione alternativa, ad un riutilizzo almeno parziale, magari coinvolgendo nella manutenzione essenziale la miriade di associazioni sportive, culturali, assistenziali, di volontariato che operano in provincia, non si è nemmeno provato a pensarci. Lo stesso sta accadendo quasi ovunque.

Ma i politici non sono arrivati da Marte. Li scegliamo noi, sia pure per modo di dire, e ci rappresentano, non tanto in senso attivo, ma senz’altro in quello passivo: sono cioè il nostro specchio. Per questo, se in futuro i nostri nipoti al mare dovremo accompagnarli noi, imbarcandoci in autostrade fatiscenti, affrontando giornate torride, scottandoci su spiagge roventi, col rischio magari anche di non trovarne un fazzoletto libero, bene, potremo ringraziare solo noi stessi. Conosceremo qualcosa che fino ad oggi abbiamo attribuito solo ai vecchi reazionari o ai rimpatriati dalla Libia: la nostalgia delle colonie.

APPENDICE
Ritorno a casa (vacanze)

L’unica importante amministrazione pubblica che ancora riesce a sostenere politicamente ed economicamente lo sforzo di mandare i suoi piccoli cittadini in colonia è quella milanese.

Le strutture di Milano non si chiamano più colonie, ma “Case Vacanza”. Non è una scelta casuale: il nome allude a momenti di svago e divertimento, escludendo la possibile connessione del termine “colonia” con l’aggettivo “penale”: un perfetto esempio di restyling linguistico.

Il contributo chiesto dal comune alle famiglie per mandare i figli in vacanza è relativamente basso e proporzionato al reddito. Nonostante ciò, negli ultimi anni si è riscontrata una riduzione del numero di partecipanti. Le cause non sono chiare, ma sono sicuramente riconducibili ad un mutamento sostanziale rispetto al tipo di società che ha creato queste strutture. Provo ad azzardarne alcune:

  • il rapporto sempre più claustrofobico genitori-figli infonde un senso di colpa nei primi quando affidano ad altri la preziosa progenie;
  • alle vacanze si deve obbligatoriamente partecipare con i familiari, perché sono uno dei pochi momenti in cui ci si ritrova tutti insieme per vivere la stessa avventura; salvo poi scoprire, magari, che quando l’intento è preservare gli equilibri familiari riesce più opportuno affidare i figli alla babysitter;
  • le colonie sono state pensate decenni fa, per truppe di minori abituati a standard di confort imparagonabili a quelli dei viziatelli di oggi, cui fa orrore condividere il bagno con altri;
  • le attività proposte sono extra-ordinarie rispetto alle consuetudini di casa, sono pensate per favorire la socializzazione tra bambini di ceti sociali e culture differenti; e questo si scontra con un crescente bisogno di unicità, con un agire focalizzato sulle singolarità. Lo dimostra il fatto che la gran parte dei bambini vorrebbe riprodurre nel contesto della colonia i modelli comportamentali casalinghi consueti (vedere la tv, giocare su internet, cellulare, playstation, ecc …). Non sono abituati a giocare con gli altri, a confrontarsi per stabilire le regole comuni di gioco, quindi per un nonnulla litigano e vengono alle mani. Non parliamo poi del semplice camminare: ruzzolano a terra lungo un sentiero o anche per le strade del paese, perché non badano a dove posano i piedi. Rischiamo di perdere nel giro di un paio di generazioni i progressi che in milioni di anni hanno condotto alla deambulazione eretta;
  • il genitore cerca spesso un appagamento e una valorizzazione della propria figura e del proprio ruolo nell’offrire ai figli delle avventure “uniche” (a costo di incrementare ulteriormente il debito con la banca): non importa quanto la magnificentissima prole gradisca, ciò che conta è che le stesse avventure siano magari precluse al figlio del collega, che invece va in colonia. Il mercato è lì pronto con i suoi pacchetti di opportunità per soddisfare il desiderio di emozioni indimenticabili ed “esclusive”: fare rafting nelle rapide di fiumi immacolati, andare per cetacei con la promessa di incontrare Moby Dick, attraversare in barca mari ignoti, visitare siti archeologici il più possibile esotici, ecc …

Nelle colonie – o come vogliamo chiamarle – l’offerta è molto più sobria: il loro scopo è far vivere al bambino esperienze connesse al luogo, nel modo più puro: in montagna si cammina, al mare si nuota. Sembrano banalità, ma troppo spesso si cercano sovrasignificati, dimenticando di apprezzare appieno il luogo in cui ci si immerge. In particolare nelle Case Vacanza ci si sforza di dare l’opportunità al bambino di vivere il momento, di godere il piacere dello stare lì con altri compagni.

 

Nelle strutture di Milano intere classi vivono l’avventura di restare lontani da casa anche durante il periodo scolastico. Il soggiorno in una Casa Vacanza è di un’intera settimana, durante la quale i bambini vengono “immersi” nel territorio, tramite escursioni, laboratori e attività connesse all’ambiente locale, e sviluppano ovviamente anche gli obiettivi di conoscenza e approfondimento delle relazioni fra compagni.

Gli studenti milanesi hanno l’opportunità di vivere, nel loro intero percorso scolastico, più settimane in strutture localizzate in contesti molto diversi: si va dalla Casa di Ghiffa sul lago Maggiore per i bambini dell’infanzia, per poi passare nelle Case liguri di Andora e Pietra Ligure durante la primaria, ed infine a Vacciago sul lago d’Orta e a Zambla Alta sulle Prealpi Orobiche per i ragazzi della secondaria. Un ventaglio di contesti ambientali e di avventure davvero ampio.

Purtroppo, è un’opportunità unica che non viene adeguatamente valorizzata dall’amministrazione pubblica – per i motivi che citavo prima – ma neppure dai milanesi stessi, che spesso rievocano l’esperienza vissuta nella loro infanzia, in positivo o in negativo, senza però considerarne gli effetti “socializzanti”, come cioè abbia inciso poi sulla loro vita da adulti.

Ma accenniamo almeno a come si traduce poi, all’atto pratico, questa opportunità: cosa si fa cioè in colonia. L’avventura inizia in realtà già da fuori per il personale docente delle scuole, che ha l’ingrato compito di organizzare le “uscite didattiche”: invia mail, compila moduli, spiega ai genitori (per lo più disinteressati) gli obiettivi che si perseguono, chiede autorizzazioni, ISEE, attestazioni sanitarie, liberatorie e una valanga di altri documenti.

Arrivati poi in struttura e iniziando ad immergersi nell’esperienza, i docenti si distinguono in tre grosse categorie: quelli scafati, che sanno districarsi nelle vie sconosciute della città visitata e che del duomo di turno conoscono più particolari della guida del luogo; quelli che appena possibile lasciano libero il gregge di fanciulli per dedicarsi allo shopping o per fiondarsi in qualche bar o gelateria; quelli infine – piuttosto rari –che perseguono con ostinazione l’obiettivo di condividere con i minori affidati loro l’esperienza di “stare” fuori la scuola e “fare” comunque scuola. Tutti sono però egualmente coscienti del fatto che non verranno adeguatamente retribuiti per lo sforzo che si sobbarcano e per le enormi responsabilità di cui sono investiti nel portare dei minori fuori dalle aule scolastiche.

Gli educatori presenti nelle strutture non impiegano molto a capire come interagire con loro e con gli studenti per sopravvivere senza fare il pieno di bile: spesso i docenti li trattano, specie all’inizio, con sufficienza, salvo poi apprezzarne nel corso della settimana la professionalità, la capacità di assolvere ai compiti che il loro ruolo richiede e di individuare l’esistenza fra i ragazzi di dinamiche aggrovigliate – e magari sbrogliarle.

Come venga recepita la presenza delle scolaresche sul territorio lo si capisce in primis quando si prendono gli autobus di linea per andare dalla Casa Vacanza al museo o al sentiero. Nei volti dei malcapitati anziani che vi viaggiano si leggono il fastidio e il disprezzo nei confronti di una gioventù turbolenta, vivace, un po’ maleducata: lo dice il modo in cui guardano al ragazzino rasta, alla ragazzina col pearcing o a quelli con la pelle più scura. Specie verso questi ultimi il fastidio arriva a venarsi talvolta persino di un filo d’odio. Sono per un attimo spiazzati quando il “rasta negro” si alza e lascia loro il posto a sedere, e se accennano ad un breve sorriso non è per ringraziare, ma giusto per rimarcare il “ci mancherebbe ancora”.

Poi c’è il gioco. Questo dovrebbe rappresentare uno dei momenti più alti dell’avventura. Ma giocare a cosa, visto che i bambini non lo sanno più fare assieme, se non i maschi a calcio e le femmine a commentare le prestazioni calcistiche maschili? Nell’era digitale anche i preadolescenti sono più interessati a smanettare sui cellulari che a confrontarsi con gli altri. Quando sono costretti a stare assieme ai coetanei manifestano la loro noia di fronte a qualsiasi proposta, una semplice caccia al tesoro o altro gioco di gruppo: per poi rimanere sorpresi nel momento in cui realizzano che si stanno divertendo anche senza l’uso della protesi digitale.

I momenti di genuina crescita sono davvero tanti, e molti di essi sono impliciti nell’esperienza stessa, perché portano alla consapevolezza che nel contesto della colonia sono sperimentabili quelle libertà, quei diritti, ma anche quei doveri verso gli altri, che spesso diamo per scontati, ma che sono sempre più minati dalla falsa emancipazione digitale. Andare in colonia significa mettere alla prova la propria capacità di stare con gli altri, e comprendere che la libertà di ciascuno passa attraverso quella altrui. Tutto ciò è il presupposto del fare politica, nel senso più alto del temine: e la speranza è che in futuro i ragazzi di oggi possano mettere a frutto questa esperienza, portandone gli esiti anche nei palazzi amministrativi e governativi.


Collezione di licheni bottone