Natura e letteratura per cammini di viandanza

Copertina per incontri tematici2di Fabrizio Rinaldi, 10 dicembre 2022

Pubblichiamo la trascrizione di un momento dell’incontro “Natura e letteratura”, nell’ambito della mostra sentieri in utopia.

Ad avvicinare coloro che sarebbero poi diventati i Viandanti delle Nebbie, prima ancora che nascesse l’amicizia, furono le comuni letture di libri nei quali il rapporto con la natura veniva proposto senza eccessive epiche parolaie. È stato quindi decisivo per ciascuno, oltre alla frequentazione di Paolo, individuare le coordinate per le proprie letture in scrittori che avevano messo al centro della narrazione il rapporto con il bosco, la montagna, il mare o semplicemente con la quotidianità contadina, magari con approcci differenti e in tempi non troppo lontani.

C’era chi si riconosceva nella tendenza di Hemingway a raccontare la lotta con gli elementi e quindi le resistenze, le sconfitte o le pochezze umane. Chi si ritrovava nelle parole di Chatwin, per il quale le descrizioni dello spazio naturale (anche cantato, come per l’Australia) erano l’espediente per indagare la propensione umana all’inquietudine, l’irrequietezza che assale quando si è costretti a sostare in un posto per troppo tempo e a soffocare l’istinto di cercare ciò che sta oltre il conosciuto (magari – come nel suo caso – dormendo a scrocco da amici accondiscendenti). Oppure chi amava i racconti di Conrad e Melville, nei quali le superfici acquee su cui si svolgevano le cacce all’uomo o alla balena permettevano di immergersi nelle linee d’ombra dell’anima. C’era anche chi si immedesimava nel vivere appartato (ma non troppo) di Thoreau, che aveva fatto scuola (wilderness) con la sua propensione a ricaricare i neuroni vivendo nel bosco, eludendo la crescente frenesia della modernità e la compulsione a fagocitare tutto ciò che ci sta attorno, senza badare alle reali necessità.

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I miei occhi sono nuovi.
Tutto quello che vedo è come non veduto mai;
e le cose più vili e consuete,
tutto m’intenerisce e mi dà gioia.

Personalmente a queste vette della letteratura mondiale accosto due autori italiani. Nelle antologie scolastiche Camillo Sbarbaro è inserito tra i poeti del Novecento con una smilza paginetta e con una poesia dedicata al padre, legata ancora a quella metrica classica che appariva superata rispetto al suo contemporaneo Ungaretti. Traduttore dei classici greci, Sbarbaro ha saputo conciliare una vita estremamente ritirata con le intense amicizie che lo legavano a intellettuali come Montale, Campana e Pound; ma soprattutto inviava e riceveva dagli Stati Uniti dei pacchi contenenti croste secche apparentemente insignificanti, con indecifrabili nomi in latino, tanto che venne indagato dalla polizia fascista per atti ostili al regime. Dietro la sua pacatezza nello stare al mondo celava un’immensa conoscenza del mondo dei licheni. Autodidatta, ne divenne uno dei più importati esperti, tanto che la sua collezione è suddivisa oggi tra il museo di Storia Naturale di Genova e altre collezioni sparse nel mondo. Uno così non poteva non entrare nel novero degli ispiratori del nostro pensiero, per la sua propensione verso le cose insignificanti che gli capitavano e che vedeva. Oltretutto, era stato anche un gran camminatore lungo i sentieri liguri, sempre alla ricerca delle sue amate e naturali esistenze in sordina.

  • Il lichene prospera dalla regione delle nubi agli spruzzati dal mare. Scala le vette dove nessun altro vegetale attecchisce. Non lo scoraggia il deserto; non lo sfratta il ghiacciaio; non i tropici o il circolo polare. Sfida il buio della caverna e s’arrischia nel cratere del vulcano. Teme solo la vicinanza dell’uomo. Per questa sua misantropia, la città è la sola barriera che lo arresta. Se lo varca ci rimette i connotati. Il lichene urbano è sterile, tetro, asfittico. Il fiato umano lo inquina.
  • Più tardi, preso a mano dalla mia predilezione per le esistenze in sordina, mi volsi a forme più scartate di vita.
  • Mi ingombra la stanza, la impregna di sottobosco un erbario di licheni. Sotto specie di schegge di legno, di scaglie, di pietra contiene pocomeno un Campionario del Mondo. Perché far raccolta di piante è farla di luoghi.

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Il momento culminante della mia vita non è quando ho vinto premi letterari o scritto libri, ma quando sono partito dal Don con 70 alpini e ho camminato verso occidente per arrivare a casa. Sono riuscito a sganciarmi dal mio caposaldo senza perdere un uomo, riuscire a partire dalla prima linea organizzando lo sganciamento, quello è stato il capolavoro della mia vita.

L’altro mio autore di riferimento è Mario Rigoni Stern. È conosciuto soprattutto per Il sergente nella neve, in cui ha descritto il “capolavoro” della sua vita, l’aver riportato in patria tutti i suoi commilitoni durante la ritirata dalla Russia. Ma al di là di questo ci è affine soprattutto per la denuncia dei dissesti ambientali (quando ancora non era una moda), per le attente descrizioni di ciò che avviene nel bosco, e soprattutto per la corrispondenza fra ciò che scriveva e ciò che faceva: una coerenza esemplare, che quasi metteva soggezione perché presente in ogni suo gesto, a partire da come accatastava la legna o coltivava l’orto.

  • inserto dolomitiCome vivere? Allora questa domanda ce la dobbiamo porre non soltanto alla fine di un millennio, di un secolo, di un anno, ma tutti i giorni, e tutti i giorni svegliandoci, si dovrebbe dire: “Oggi che cosa ci aspetta?”. Allora io considero che si dovrebbero fare le cose bene, perché non c’è maggiore soddisfazione di un lavoro ben fatto. Un lavoro ben fatto, qualsiasi lavoro, fatto dall’uomo che non si prefigge solo il guadagno, ma anche un arricchimento, un lavoro manuale, un lavoro intellettuale che sia, un lavoro ben fatto è quello che appaga l’uomo. Io coltivo l’orto, e qualche volta, quando vedo le aiuole ben tirate con il letame ben sotto, con la terra ben spianata, provo soddisfazione uguale a quella che ho quando ho finito un buon racconto. E allora dico anche questo: una catasta di legna ben fatta, ben allineata, ben in squadra, che non cade, è bella; un lavoro manuale quando non è ripetitivo è sempre un lavoro che va bene, perché è anche creativo: un bravo falegname, un bravo artigiano, un bravo scalpellino, un bravo contadino. E oggi dico sempre quando mi incontro con i ragazzi: voi magari aspirate ad avere un impiego in banca, ma ricordatevi che fare il contadino per bene è più intellettuale che non fare il cassiere di banca, perché un contadino deve sapere di genetica, di meteorologia, di chimica, di astronomia persino. Tutti questi lavori che noi consideriamo magari con un certo disprezzo, sono lavori invece intellettuali.

  • Per diventare amici, prima bisogna annusarsi, come i cani poi, se non ci si è morsi, può nascere l’amicizia.

Con Primo Levi e Nuto Revelli sognava di andare per boschi e montagne, in silenzio. Ecco, credo che non si potrebbe desiderare nulla di meglio che questa visione di sobria eternità: vagare con le persone care facendo esperienze. Era il suo “pensiero anarchico”.

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È questo che – istintivamente e senza una dichiarazione esplicita – ispira l’immagine dei due viandanti nella locandina della mostra sentieri in utopia. L’uno indica all’altro ciò che attrae la sua attenzione: in questo caso una luce conduce fuori dalla nebbia, ma da sempre i Viandanti hanno segnalato ai sodali degli “stupa”, quelle letture che sapevano essere di comune interesse. Non è un semplice consigliare libri, ma il desiderio di condividere un percorso da fare assieme, uno accanto all’altro. Per questo la maggior parte delle pubblicazioni dei Viandanti è accompagnata da una bibliografia, e nella rivista “ufficiale”, sguardistorti, la rubrica finale Punti di vista segnala anche i luoghi per i quali vale la pena mettersi in viaggio.

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Questa carrellata di “maestri” non può concludersi  senza citarne uno di fantasia, il Ken Parker creato da Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo. Lui viveva il west che stava ormai scomparendo, cacciando per sopravvivere e rifiutando un progresso di cui intravvedeva le incongruenze. È lui che ci ha accompagnato durante le escursioni e nelle letture, grazie al fatto che i suoi album sono zeppi di allusioni ai classici della letteratura di viaggio. E poi, era l’unico protagonista del west che pensava prima di premere il grilletto e che la sera, davanti al fuoco, leggeva un libro.

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Questi, naturalmente assieme a molti altri, sono stati gli intermediari fra storie personali spesso molto distanti. Senza di loro probabilmente non sarebbe stato intrapreso alcun percorso comune. La loro conoscenza è stata il nostro mezzo per “individuare ciò che non è inferno e dargli spazio”, come direbbe Calvino. E per dare vita a una forma genuina di amicizia.

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Faccio una parentesi di commento sulla mostra. L’altro giorno mi sono concesso il privilegio di guardarmela senza che ci fosse nessuno. A dire il vero la possibilità mi è stata data spesso, perché non l’abbiamo promossa nei canali mediatici, non abbiamo fatto comunicati stampa, non abbiamo invitato le rappresentanze pubbliche, ma abbiamo volutamente diffuso l’evento semplicemente con il passaparola tra amici, conoscenti e simpatizzanti del nostro viatico. Risultato? Non l’hanno vista in molti.

È snobismo, questo? Non credo. È semplicemente coerenza con l’intento di raggiungere solo chi è realmente interessato a visioni del mondo magari divergenti, ma accomunate dalla consapevolezza che viviamo in una realtà complessa. E che quindi il pensiero, per coglierla, non può essere semplicistico e sbrigativo: nessuna delle nostre pubblicazioni si potrebbe liquidare con un twitter.

Ebbene, esaminando la mostra mi sono stupito di quanto materiale sia stato prodotto in tutti questi anni. Lo sapevo già, naturalmente, perché ne ho curato la grafica, ma nel vedere esposte tutte assieme le copertine di 79 Quaderni, 31 Album, 30 numeri fra Sottotiro review e sguardistorti, per un totale di oltre 7200 pagine, senza contare un bel po’ di articoli sparsi e i 14 testi della Biblioteca, mi ha impressionato l’incredibile varietà dei temi trattati.

Quella mole di riflessioni e l’idea del tempo che sta alle loro spalle mi ha confermato che i Viandanti hanno occupato una parte importante della nostra vita: di quella di Paolo senz’altro, visto che ha scritto o curato molti di questi testi, ma non solo della sua. Negli anni hanno contribuito in molti, attivamente o come semplici fruitori: e questo ha fatto sì che le nostre pubblicazioni continuino ad essere gratuite e siano stampabili liberamente. Per apprezzarle necessita solo una sufficiente dose di curiosità per ciò che non appare sotto i riflettori dei consueti media.

Si potrà notare che nessuno degli scrittori di cui ho parlato prima è originario dei nostri luoghi: non si tratta di un intenzionale rifiuto del campanilismo. Non ho citato Fenoglio e Pavese, che sono comunque nostri riferimenti imprescindibili, solo perché non volevo farla troppo lunga, e perché in qualche modo li do per scontati, in quanto hanno raccontato colline e storie simili alle nostre. Che è quello che anche i Viandanti hanno cercato di fare, narrando un territorio che viene spesso dimenticato.

Concludo con le parole delle mie figlie che alla domanda su cosa stessimo combinando Paolo ed io nell’altra stanza, risposero: “Stanno facendo la mostra. Si divertono così”. In effetti “divertire” significa volgere altrove, deviare. Ecco, questo facciamo: non marciamo lungo percorsi obbligati, muovendoci in branco verso mete che altri hanno fissato, ma camminiamo di lato, ai margini, pronti a deviare sui sentieri che ci danno maggiore soddisfazione. Quelli anche dell’amicizia, che sono la realizzazione della nostra utopia.

1-Le-colline-sacreCollezione di licheni bottone

Ritratti di famiglia

La storia è una galleria di quadri,
dove ci sono pochi originali e molte copie.

Ritratti di famiglia copertinaIn concomitanza con la mostra-rassegna delle loro attività (la prima, e con ogni probabilità anche l’unica) i Viandanti delle Nebbie offrono ai “followers” una strenna natalizia. L’idea iniziale prevedeva una plaquette sul modello dei vecchi calendarietti profumati dei barbieri, per i quali proviamo tanta nostalgia (per i libretti, ma anche per i barbieri): poi abbiamo optato per una linea meno frivola.
Distribuiremo quindi cinquanta libretti (il che significa presumere, molto ottimisticamente, un numero di lettori doppio rispetto a quelli del Manzoni) che vogliono suggerire da dove arrivano i Viandanti, chi c’è idealmente alle loro spalle. Certi dell’impunità, perché quasi tutti gli interessati non sono più in vita, ci siamo permessi di vantare nobili ascendenze.
Rispetto a molti dei personaggi evocati i gradi di separazione sono almeno quattro o cinque. Il sesto ci avrebbe portato direttamente a Gesù, e ci pareva un tantino esagerato. E tuttavia …

03 Quadri in mostraL’albero genealogico dei Viandanti è fittissimo e composito. Risalendo di due secoli (non abbiamo voluto andare oltre, era già abbastanza complicato così) si incontrano un po’ tutte le tipologie e le varietà umane: scrittori, artisti, esploratori, viaggiatori, rivoluzionari, filosofi, storici, fumettisti, ecc…). In un modo o nell’altro coloro che abbiamo rintracciato hanno contribuito a indicare percorsi, a suggerire svolte, a portare ristoro e a orientarci nella nebbia. Non sono gli unici, naturalmente, perché la nostra è una famiglia molto allargata. Potremmo citarne almeno altrettanti, e anzi, quella dei gradi meno prossimi di parentela potrebbe già essere un’idea per una strenna futura.

Abbiamo volutamente omesso ogni indicazione biografica o bibliografica relativa ai personaggi presentati. Il bello del gioco sta proprio qui: ciascuno potrà fare eventuali ricerche di approfondimento per conto proprio.
Questo è lo spirito dei Viandanti.

Nella Galleria non hanno trovato posto figure femminili. Chiamatelo maschilismo, se volete, ma di fatto non ci è venuta in mente alcuna protagonista significativa dei nostri percorsi culturali. Questo non significa che non abbiamo incontrato donne eccezionali: significa solo che queste donne non hanno lasciato il segno. Per un difetto nostro di sensibilità, indubbiamente: ma ci sembrava terribilmente ipocrita inserirne qualcuna solo in ossequio al politicamente corretto.01a Tin Tin

P.s: Il fatto che Tintin o Milù compaiano sia in prima che in quarta di copertina non è casuale: sono tra gli antenati più nobili, non potevano mancare all’appello.

04 Bustin in mostra

Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo

Isaiah Berlin

Camillo Berneri

Renzo Calegari

Albert Camus

Nicola Chiaromonte

Stig Dagermann. 12

Charles Darwin

Franz De Waal

Hans Magnus Enzensberger

Patrick Leith Fermor

Caspar David Friedrich

Piero Gobetti

Knut Hamsun

William Henry Hudson

Alexander von Humboldt 20

Pëtr Kropotkin

Furio Jesi

Toni Judt

Gustav Landauer

Giacomo Leopardi

Primo Levi

Jack London

Herman Melville

Albert Frederic Mummery

George Orwell

Hugo Pratt

Élisée Reclus

Mario Rigoni Stern

Albert Robida

J.D. Salinger

Camillo Sbarbaro

Erwin Schrödinger

Johann Gottfied Seume

George  Steiner

Robert Louis Stevenson

Henry David Thoreau

Sebastiano Timpanaro

Alexis De Tocqueville

Sergio Toppi

Alfred Wallace

Charles Waterton

Titn Tin con bandiera dei pirati con sfondo uniforme

Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo

08 Ken Parker06 Milazzo05 BerardiHo impugnato il fucile per tutta la vita, eppure, il mio popolo è stato distrutto, la mia sposa torturata a morte…
Se mio figlio vivrà dovrà trovare un altro modo di combattere…Addio, “Lungo fucile” …

Isaiah Berlin

12 Isaiah BerlinGarantire la libertà ai lupi significa condannare a morte le pecore.

Non esiste alcuna istanza primaria in base a cui la verità, una volta scoperta, debba per forza essere anche interessante

11 Isaiah Berlin

Camillo Berneri

14 Camillo BerneriL’anarchismo è il viandante che va per le vie della Storia, e lotta con gli uomini quali sono e costruisce con le pietre che gli fornisce la sua epoca. Egli si sofferma per adagiarsi all’ombra avvelenata, per dissetarsi alla fontana insidiosa. Egli sa che il destino, che la sua missione è riprendere il cammino, additando alle genti nuove mete.

 

16 Camillo Berneri

Renzo Calegari

17 Renzo CalegariQuesta storia è finita come doveva, con dei vincitori e dei vinti … il mio guaio è che non appartengo né agli uni né agli altri.

19 Renzo Calegari

Albert Camus

21 Albert CamusPerché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime. Bisogna che si cambi in esempio.


Nicola Chiaromonte

25 Nicola ChiaromonteQuando giunge l’ora in cui la morte comincia a guardarci negli occhi con una certa continuità, e quindi noi lei, se non vogliamo distogliere lo sguardo e far finta che tutto è come prima e non c’è niente da cambiare, la domanda che per pri-ma ci si articola nella mente è: Che cosa rimane?… Rimane, se rimane, quello che si è, quello che si era: il ricordo d’esser stati “belli”, direbbe Plotino… Rimane, se rimane, la capacità di mantenere che ciò che è bene è bene, ciò che è male è male, e non si può fare che sia diversa-mente (e non si deve fare che appaia diversamente).

24 Nicola Chiaromonte

La nostra non è un’epoca di fede, ma neppure d’incredulità. È un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine. 

Stig Dagermann

26 Stig DagermanLe auguro due cose che spesso ostacolano il successo esteriore e hanno tutto il diritto di farlo perché sono più importanti: l’amore e la libertà.

  27 Stig Dagerman

L’inconfutabile segno della mia libertà è che il timore arretra e lascia spazio alla calma gioia dell’indipendenza. Sembra che io abbia bisogno della dipendenza per provare infine la consolazione d’essere un uomo libero, e questo sicuramente è vero.

 

Charles Darwin

30 Charles DarwinNella lunga storia del genere umano (e anche del genere animale) hanno prevalso coloro che hanno imparato a collaborare ed a improvvisare con più efficacia.

  

 

32 Charles Darwin

Lo stadio più elevato di cultura morale si ha quando riconosciamo che dovremmo controllare i nostri pensieri.

 

Franz De Waal

33 Franz de WaalTutti sanno che gli animali hanno emozioni e sentimenti, e che prendono decisioni simili alle nostre. Gli unici a fare eccezione, sembrerebbe, sono alcuni universitari. 

35 Franz de Waal

Tutto conferma la mia visione della morale “venuta dal basso”. La legge morale non è né imposta dall’alto, né dedotta da principi accuratamente razionalizzati, ma nasce da valori ben radicati, presenti da tempo immemorabile. Il più fondamentale deriva dal valore della vita collettiva per la sopravvivenza. Il desiderio di appartenenza, la voglia di capirsi, di amarsi e di essere amati ci spingono a fare tutto ciò che possiamo per restare nel miglior rapporto possibile con le persone dalle quali dipendiamo.


Hans Magnus Enzensberger

38 Han Magnus EnzesbergerLa televisione è puro terrorismo. La parola scompare, e con la parola ogni possibilità di riflessione.

39 Han Magnus Enzesberger e Umberto Eco

Negli ultimi duecento anni le società più evolute hanno suscitato attese di uguaglianza che non si possono soddisfare; e al contempo hanno fatto sì che ogni giorno per ventiquattro ore la disuguaglianza venga dimostrata su tutti i canali televisivi a tutti gli abitanti del pianeta. Ragione per cui la delusione umana è aumentata con ogni progresso.

Al perdente, per radicalizzarsi, non basta quello che gli altri pensano di lui, siano essi concorrenti o sodali… Egli stesso deve metterci del suo; deve dirsi: io sono un perdente e basta. L’estinzione non solo di altri, ma anche di se stesso, è la sua soddisfazione estrema.

 

Patrick Leith Fermor

44 Patrick Leith FermorUna magica pace vive nelle rovine dei templi greci. Il viaggiatore si adagia tra i capitelli caduti e lascia passare le ore, e l’incantesimo gli vuota la mente di ansie e pensieri molesti e a poco a poco la riempie di un’estasi tranquilla.

45 Patrick Leith FermorNon si parte per andare da nessuna parte senza aver prima di tutto sognato un posto. E viceversa, senza viaggiare prima o poi finiscono tutti i sogni, o si resta bloccati sempre nello stesso sogno.

 

Caspar David Friedrich

47 Caspar David friedrichL’unica vera sorgente dell’arte è il nostro cuore, il linguaggio di un animo infallibilmente puro. Un’opera che non sia sgorgata da questa sorgente può essere soltanto artificio.

 

49 Caspar David friedrichPerché, mi son sovente domandato, scegli sì spesso a oggetto di pittura la morte, la caducità, la tomba? È perché, per vivere in eterno, bisogna spesso abbandonarsi alla morte.


Piero Gobetti

52 Piero GobettiIl fascismo è il governo che si merita un’Italia di disoccupati e di parassiti ancora lontana dalle moderne forme di convivenza democratiche e liberali, e che per combatterlo bisogna lavorare per una rivoluzione integrale, dell’economia come delle coscienze.

51 Piero Gobetti

Nessun cambiamento può avvenire se non parte dal basso, mai concesso né elargito, se non nasce nelle coscienze come autonoma e creatrice volontà rinnovarsi e di rinnovare.

Knut Hamsun

53 Knut HamsunQuando parlo con un uomo, non ho bisogno di guardarlo per seguire esattamente quello che dice; sento subito se egli mi dà a bere qualche cosa o me ne nasconde qualche altra; la voce, credetemi, è un apparecchio pericoloso

54 Knut Hamsun

  “Amo tre cose”, dico allora.
“Amo il sogno d’amore di un tempo, amo te e amo quest’angolo di terra.”
“E cosa ami di più?”
“Il sogno.”

 

William Henry Hudson

57 William Henry HudsonProvo un sentimento d’amicizia verso i maiali in generale, e li considero tra le bestie più intelligenti. Mi piacciono il temperamento e l’atteggiamento del maiale verso le altre creature, soprattutto l’uomo. Non è sospettoso o timidamente sottomesso, come i cavalli, i bovini e le pecore; né impudente e strafottente come la capra; non è ostile come l’oca, né condiscendente come il gatto; e neppure un parassita adulatorio come il cane. Il maiale ci osserva da una posizione totalmente diversa, una specie di punto di vista democratico,

58 William Henry Hudson


Alexander von Humboldt

61 Alexander von HumboldtCi sono popoli più acculturati, avanzati e nobilitati dall’educazione di altri, ma non esistono razze più valide di altre, perché sono tutte egualmente destinate alla libertà.

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La visione del mondo più pericolosa di tutte è quella di coloro i quali il mondo non l’hanno visto.

 

Pëtr Kropotkin

65 Petr KropotkinL’evoluzione non è lenta e uniforme come si vuol sostenere. Evoluzione e rivoluzione si alternano, e le rivoluzioni – i periodi cioè di evoluzione accelerata – appartengono all’unità della natura esattamente come i periodi in cui l’evoluzione è più lenta.

 

Non appena avrai scorto un’ingiustizia e l’avrai compresa – un’ingiustizia nella vita, una menzogna nella scienzao una sofferenza imposta da altri – ribellati contro di essa!  LottaRendi la vita sempre più intensa!

66 Petr Kropotkin

E così tu avrai vissuto, e poche ore di questa vita valgono molto di più di anni interi passati a vegetare.

 

 Milioni di esseri umani hanno lavorato per creare questa civiltà, della quale oggi andiamo gloriosi. Altri milioni, sparsi in tutti gli angoli del mondo, lavorano per mantenerla. Senza di essi, fra cinquanta anni non ne rimarrebbero che le rovine.

Furio Jesi

67 Furio JesiLa cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche  Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire. La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra.

68 Furio Jesi

Toni Judt

71 Toni JudtIl problema è che i socialisti hanno sempre nutrito una fiducia incondizionata nella razionalità degli uomini.

70 Toni Judt

Lo stile materialista ed egoísta della vita contemporánea non è inerente alla condizione umana. Gran parte di quello che a noi pare “naturale” data dalla decade del 1980: l’ossessione per la creazione di ricchezza, il culto della privatizzazione e del settore privato, le crescenti differenze tra ricchi e poveri. E, soprattutto, la retorica che li accompagna: un’acrítica ammirazione per i mercati sregolati, il disprezzo per il settore pubblico, l’illusione della crescita infinita.

 

Gustav Landauer

73 Gustav LandauerLo Stato non è qualcosa che si può distruggere con una rivoluzione, dato che esso esprime una condizione, una certa relazione tra gli esseri umani, una modalità del comportamento umano; lo possiamo distruggere solo contraendo altri tipi di relazioni, assumendo altri tipi di comportamento.

 L’anarchia non riguarda il futuro, riguarda il presente; non è questione di ciò che speri, è questione di come vivi.

 


Giacomo Leopardi

74 Giacomo LeopardiPasseggere: Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Venditore: Speriamo.

  La ragione è un lumela Natura vuol essere illuminata dalla ragionenon incendiata. 75 Giacomo Leopardi

Primo Levi

153ab Primo LeviPerché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità? A che serve la memoria?”

 

 Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo.

 

Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra. Ma questa è una verità che non molti conoscono.

156 Primo Levi

Jack London

77 Jack LondonNon era della loro tribù, non poteva parlare il loro gergo, non poteva far finta di essere come loro. La maschera sarebbe stata scoperta e, per altro, le mascherate erano estranee alla sua natura.

78 Jack London

Dalla creazione del mondola barbarie umana non ha fatto un solo passo verso il progressoNel corso dei secolil’abbiamo soltanto ricoperta  con una mano di vernice, nient’altro.


Herman Melville

154 Herman MelvilleNoi non possiamo vivere soltanto per noi stessi. Le nostre vite sono connesse da un migliaio di fili invisibili, e lungo queste fibre sensibili, corrono le nostre azioni come cause e ritornano a noi come risultati.  

157 Herman Melville

Io sono tormentato da un’ansia continua per le cose lontane. Mi piace navigare su mari proibiti e scendere su coste barbare.

156 Herman Melville

Dell’amicizia a prima vista, come dell’amore a prima vista, va detto che è la sola vera.

 

Albert Frederic Mummery

81 Albert Frederic MummeryLa via più difficile alle cime più difficili è sempre la cosa giusta da tentare, mentre i pendii di sgradevole pietrisco vanno lasciati agli scienziati. Il Grépon merita di essere salito perché da nessuna altra parte l’alpinista troverà torrioni più arditi, fessure più selvagge, precipizi più spaventosi.
Assolutamente impossibile con mezzi leali.

 

George Orwell

85 George OrwellSapere dove andare e sapere come andarci sono due processi mentali diversi, che molto raramente si combinano nella stessa personaI pensatori della politica si dividono generalmente in due categorie: gli utopisti con la testa fra le nuvole, e i realisti con i piedi nel fango.

  

Così come per la religione cristiana, anche per il socialismo la peggior pubblicità sono i suoi seguaci.

86 George Orwell

Ciò che le masse pensano o non pensano incontra la massima indifferenzaA loro può essere garantita la libertà intellettuale proprio perché non hanno intelletto.

 

 

Hugo Pratt

88 Hugo PrattQuelli che sognano ad occhi aperti sono pericolosi, perché non si rendono conto di quando i sogni finiscono.

89 Hugo Pratt - Corto Maltese

Forse sono il re degli imbecilli, l’ultimo rappresentante di una dinastia completamente estinta che credeva nella generosità!… Nell’eroismo…

Élisée Reclus

92 Elisée ReclusL’Anarchia è la più alta espressione dell’ordine. 

93 Elisée Reclus

Se noi dovessimo realizzare la felicità di tutti coloro che  portano una figura umana e destinare alla morte tutti coloro che hanno un muso e che non differiscono da noi che per un angolo facciale meno aperto, noi non avremmo certo realizzato il nostro ideale. Da parte mia, nel mio affetto di solidarietà socialista, io abbraccio anche tutti gli animali.


Mario Rigoni Stern

159 Mario Rigoni SternI ricordi sono come il vino che decanta dentro la bottiglia: rimangono limpidi e il torbido resta sul fondo. Non bisogna agitarla, la bottiglia. 

 

163 Mario Rigoni SternDomando tante volte alla gente: avete mai assistito a un’alba sulle montagne? Salire la montagna quando è ancora buio e aspettare il sorgere del sole. È uno spettacolo che nessun altro mezzo creato dall’uomo vi può dare, questo spettacolo della natura.

 

160 Mario Rigoni SternIl tempo, nella vita di un uomo, non si misura con il calendario ma con i fatti che accadono; come la strada che si percorre non è segnata dal contachilometri ma dalla difficoltà del percorso.

 

Albert Robida

96 Albert RobidaMio caro Mandibola – diceva quasi sempre Farandola terminando – abbandono definitivamente ogni idea di riforma sociale, e mi lancio con tutte le vele spiegate, nella più vasta industria. Gli affari, il commercio, ecco ciò che mi occorre; e dal momento che le grandi imprese sono necessarie alla mia salute, avanti con le gigantesche speculazioni commerciali! 

  Il vecchio telegrafo permetteva di comunicare a distanza con un interlocutore. Il telefono permise di sentirlo. Il telefonoscopio superò entrambi rendendo possibile anche vederlo. Che si può volere di più?

99 Albert Robida

J. D. Salinger

100 J D SalingerIo sono una specie di paranoico alla rovescia. Sospetto le persone di complottare per rendermi felice.

 

101 J D Salinger - Il giovane HoldenLa più spiccata differenza tra la felicità e la gioia è che la felicità è un solido e la gioia è un liquido.

 

Camillo Sbarbaro

103 Camillo SbarbaroSe potessi promettere qualcosa
se potessi fidarmi di me stesso
se di me non avessi anzi paura,
padre, una cosa ti prometterei:
di viver fortemente come te
sacrificato agli altri come te
e negandomi tutto come te,
povero padre, per la fiera gioia
di finir tristemente come te.

 

 Nella vita come in tram quando ti siedi è il capolinea.

 Si comincia a scrivere per essere notati, si seguita perché si è noti.

105 Camillo Sbarbaro

Erwin Schrödinger

107 Erwin SchrödingerIl mondo è una sintesi delle nostre sensazioni, delle nostre percezioni e dei nostri ricordi. È comodo pensare che esista obiettivamente, di per sé. Ma la sua semplice esistenza non basterebbe, comunque, a spiegare il fatto che esso ci appare.

Se questi dannati salti quantici dovessero esistere, rimpiangerò di essermi occupato di meccanica quantistica.

  106 Erwin Schrödinger

Johann Gottfied Seume

110 Johann Gottfied SeumeCamminare è l’attività più libera e indipendente, niente vi è di peggio che star seduti troppo a lungo in una scatola chiusa. 

113 Johann Gottfied Seume

In tutta la mia vita non mi sono mai abbassato a chiedere qualcosa che non abbia meritato, e nemmeno chiederò mai quel che ho meritato finché esistono in questo mondo tanti mezzi di vivere onestamente: e quando poi anche questi finissero, ne resterebbero alcuni altri per non vivere più.

115 Johann Gottfied Seume

 

George  Steiner

116 George SteinerTutta la metafisica è un ramo della letteratura fantastica.

Un genio degli scacchi è un essere umano che concentra doni mentali ampi e poco compresi, e lavora su un’impresa umana alla fine insignificante.

L’etichetta di homo sapiens, a parte pochi casi, probabilmente è solo un’infondata millanteria.

120 George Steiner

Robert Louis Stevenson

121 Robert Louis StevensonNon chiedo ricchezzené speranze, né amorené un amico che mi comprenda; tutto quello che chiedo è il cielo sopra di me e una strada ai miei piedi.
Io non ho viaggiato per andare da qualche parte, ma per il gusto di viaggiare.
La questione è muoversi.

122 Robert Louis Stevenson

La politica è forse l’unica professione per la quale non viene ritenuta necessaria alcuna preparazione specifica.


Henry David Thoreau

125 Henry David ThoreauNon c’è valore nella vita eccetto ciò che scegli di mettere in essa e nessuna felicità in nessun posto eccetto ciò che gli apporti tu.

126 Henry David Thoreau

Sebastiano Timpanaro

128 Sebastiano TimpanaroScrivere significa svolgere un ragionamento che deve servire a illuminare un problema e a convincere delle intelligenze. Senza esibizioni, senza narcisismi, senza trucchi o effetti speciali. Seguendo la logica e le procedure della ragione, senza gli orpelli della retorica e senza gli appelli alle emozioni. Chi scrive offre al lettore la propria coerenza di ragionamento e lo invita ad analoga coerenza.


Alexis De Tocqueville

135 Alexis De TocquevilleSe cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente all’infanzia; ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi. Non potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare e la pena di vivere?

137 Alexis De Tocqueville 

In una rivoluzione, come in un raccontola parte più difficile è quella di inventare un finale.

 

Sergio Toppi

138 Sergio ToppiIo detesto essere chiamato artista: sono disciplinato, come tutti quelli che fanno fumetti. Considero il fumetto un lavoro molto artigianale, in certi casi di ottimo livello, ma sempre artigianale. È chiaro che non siamo pelatori di patate, è un lavoro per cui occorre una certa sensibilità, ma il fumetto rispetto a quello che viene considerato la creazione artistica è molto più severo.

 

139 Sergio ToppiIl suo lavoro tende alla perfezione, per semplice senso del dovere. Il dovere di essere sempre più bravo, il dovere di continuare ad imparare, perché non si finisce mai d’imparare a questo mondo, specie per chi si è assunto l’incarico di creare immagini, di mettere la propria fantasia e le proprie risorse al servizio degli altri.

 

Alfred Wallace

142 Alfred WallaceQuesta progressione, per piccoli passi, in varie direzioni, ma sempre controllata ed equilibrata dalle condizioni necessarie, soggette alle quali solo l’esistenza può essere preservata, può, si crede, essere seguita in modo da concordare con tutti i fenomeni presentati da esseri organizzati, la loro estinzione e successione nelle epoche passate, e tutte le straordinarie modificazioni di forma, istinto e abitudini che esibiscono.

146 Alfred Wallace

 

Charles Waterton

147 Charles WatertonMentre mi avvicinavo all’orango questi mi venne incontro a mezza strada e ci accingemmo subito ad un esame delle rispettive persone. Ciò che mi colpì più vivamente fu la non comune morbidezza dell’interno delle sue mani. Quelle di una delicata signora non avrebbero potuto essere di una grana più fine. Egli si impossessò del mio polso e scorse con le dita le vene azzurrine che vi si trovavano; io per parte mia, mi ero perso nella contemplazione della sua enorme bocca prominente. Con la massima cortesia egli lasciò che gliela aprissi, cosicché potei esaminare a mio bell’agio le sue magnifiche file di denti. Poi ci mettemmo l’un l’altro una mano intorno al collo, restando per un po’ in questa posizione.

Tin Tin si avvia

In pancia alla balena

di Paolo Repetto, 8 novembre 2021

La ricognizione nelle letture della scorsa estate mi sta prendendo la mano. Davvero non mi ero accorto che la stagione fosse stata così ricca. Ero distratto dai nostri successi sportivi (la raccolta continua: ori mondiali nel ciclismo su pista, nella ginnastica a corpo libero e in quella ritmica e nel nuoto: uno persino in matematica; manca più solo il rugby), dall’uscita allo scoperto dei neo-squadristi e dall’epidemia di coming out televisivi.

Riparto dunque dall’acquisizione più recente, quel Balene nella pancia che è comparso poco tempo fa sul sito. Non voglio mettere il becco dappertutto, ma la lettura mi ha intrigato “attivamente”, mi ha indotto a spingere un po’ più in là lo sguardo, e credo fosse ciò che chi lo ha scritto si augurava. L’ho fatto a modo mio, senza scendere in profondità e limitandomi a cercare altri esempi letterari di soggiorni più o meno prolungati nelle pance di mostri marini: il che magari non risponde esattamente agli intenti dell’autore, ma soddisfa piuttosto la mia maniacale sindrome dei repertori. E tuttavia, qualcosa è venuto fuori anche da questa scorribanda in superficie. Le considerazioni che seguono non sono quindi riservate solo a chi è affetto dalla stessa mia malattia.

Per cominciare, ho verificato che la condizione dalla quale il saggio prende spunto, la prigionia nel ventre di un mostro, di un pesce o di un cetaceo, è talmente ricorrente da costituire un vero e proprio tòpos, le cui costanti sono una situazione iniziale negativa, l’essere ingoiato, e una soluzione finale positiva, l’uscirne vivo (e la singolarità sta proprio nel fatto che i protagonisti rimangono incolumi, passano per la bocca senza essere triturati dai denti, scivolano senza essere soffocati in gola e non sono bruciati dagli acidi dello stomaco). Non voglio inseguirne qui tutte le diverse fenomenologie, perché una cosa del genere porterebbe solo ad un elenco arido e inutile: le narrazioni mitologiche e le letterature di tutti i popoli del mondo sono piene di mostri marini di dimensioni immani e dalle forme più fantasiose, balene-isola, serpenti di mare, piovre giganti, draghi, ecc…. Mi limito pertanto a ricordare alcune delle più famose (dando per scontate naturalmente le storie di Giona, di Pinocchio e della balena bianca, che sono già state ampiamente rievocate in Balene nella pancia), cercando di lasciar parlare il più possibile i testi. Credo che anche quelli che ai fini dell’indagine sulla “leviatanologia” paiono irrilevanti possano in realtà diventare rivelatori.

Ciò che veramente importa è infatti quel che accade alle vittime, una volta dentro. La condizione e il tipo di reazione possono variare, ma sono tutte riconducibili grosso modo a due filoni: uno che potremmo definire mistico-biblico (anche se la storia di Giona non è affatto un archetipo, riprende miti mesopotamici molto più antichi) e un altro di matrice greco-razionalistica. Nel primo caso l’incidente è vissuto come occasione di riflessione, di espiazione e di redenzione rispetto ad una colpa originaria, il pesce è uno strumento di Dio e la soluzione arriva dall’esterno, per volontà appunto divina; nel secondo è sofferto come prigionia soffocante da cui evadere, il pesce-mostro è ucciso dall’interno, e la liberazione è frutto della intelligenza e dello spirito di sopravvivenza umani.

In pancia alla balena 02In sostanza, la vicenda viene usata spesso come metafora di una condizione di disagio psicologico, talvolta come simbolico passaggio di rigenerazione, di norma come espediente fantasioso per insaporire l’avventura.

Un esempio di reazione “razionale” (le virgolette qui ci stanno tutte) è offerto, nella letteratura classica, dalla Storia Vera di Luciano di Samosata. Di vero nella Storia di Luciano c’è in effetti ben poco, anzi, proprio nulla, e quindi andrebbe gustata esclusivamente per l’abilità nel tenere sempre alta la curva dell’iperbole, senza pretendere significati reconditi. Ma il confronto con il trattamento biblico della stessa situazione diventa inevitabile.

Vedo di riassumere. L’autore e i suoi compagni, che si sono messi per mare in cerca di avventure, ne trovano più di quante vorrebbero, tanto da finire addirittura sulla luna. Di ritorno dal nostro satellite (dove peraltro le cose vanno esattamente come da noi, tra guerre continue) scendono sulla Terra, o meglio planano sull’oceano, e quasi subito la loro nave viene inghiottita da un’enorme balena. All’interno del cetaceo trovano un grande mare, e in mezzo ad esso un’isola abitata da tribù cannibali e primitive. Lasciamo però la parola al protagonista:

Due soli giorni navigammo con buon tempo, al comparire del terzo dalla parte che spuntava il sole a un tratto vediamo un grandissimo numero di fiere diverse e di balene, e una più grande di tutte lunga ben millecinquecento stadi venire a noi con la bocca spalancata, con larghissimo rimescolamento di mare innanzi a sé, e fra molta schiuma, mostrandoci denti più lunghi dei priapi di Siria, acuti come spiedi, e bianchi come quelli d’elefante. Al vederla: – Siamo perduti –, dicemmo tutti quanti, e abbracciati insieme aspettavamo; ed eccola avvicinarsi, e tirando a sé il fiato c’inghiottì con tutta la nave; ma non ebbe tempo di stritolarci, ché fra gl’intervalli dei denti la nave sdrucciolò giu.

Come fummo dentro la balena, dapprima era buio, e non vedevamo niente; ma dipoi avendo essa aperta la bocca, vediamo una immensa caverna larga e alta per ogni verso, e capace d’una città di diecimila abitanti. Stavano sparsi qua e là pesci minori, molti altri animali stritolati, e alberi di navi, e ancore, e ossa umane, e balle di mercanzie. Nel mezzo era una terra con colline, formatasi, come io credo, dal limo inghiottito; sovr’essa una selva con alberi d’ogni maniera, ed erbe e ortaggi, e pareva coltivata; volgeva intorno un duecento quaranta stadi, e ci vedevamo anche uccelli marini, come gabbiani e alcioni, fare i loro nidi su gli alberi.

Allora venne a tutti un gran pianto, ma infine io diedi animo ai compagni, e fermammo la nave. Essi battuta la selce col fucile accesero del fuoco, e così facemmo un po’ di cotto alla meglio. Avevamo intorno a noi pesci d’ogni maniera, e ci rimaneva ancora acqua di Espero. Il giorno appresso levatici, quando la balena apriva la bocca, vedevamo ora terre e montagne, ora solamente cielo, e talora anche isole, e così ci accorgemmo che essa correva veloce per tutte le parti del mare.

Poiché ci fummo in certo modo abituati a vivere così, io presi sette compagni e andai nella selva per scoprire il paese. […] Affrettato il passo giungemmo a un vecchio e un giovinetto, che con molta cura lavoravano un orticello, e l’annaffiavano con l’acqua condotta dalla fonte.

In pancia alla balena 03Compiaciuti insieme e spauriti, ci fermammo; e loro, come si può credere, commossi del pari, rimasero senza parlare. Dopo alcun tempo il vecchio disse: Chi siete voi, o forestieri? forse geni marini o uomini sfortunati come noi? ché noi siamo uomini, nati e vissuti su la terra, e ora siamo marini, e andiamo nuotando con questa belva che ci chiude, e non sappiamo che cosa siamo diventati, ché ci par d’essere morti, e pur sappiamo di vivere.

A queste parole io risposi: Anche noi, o padre, siamo uomini, e siamo arrivati poco fa, inghiottiti l’altro ieri, con tutta la nave. Ci siamo inoltrati volendo conoscere com’è fatta la selva, che pareva grande e selvaggia […] Ma narraci i casi tuoi: chi sei tu, e come qui entrasti.

Quando fummo sazi, ci domandò di nostra ventura, e io gli narrai distesamente ogni cosa della tempesta, dell’isola, del viaggio per l’aria, della guerra, fino alla discesa nella balena.

Egli ne fece le meraviglie grandi, e poi a sua volta ci narrò i casi suoi, dicendo: Fino alla Sicilia navigammo prosperamente, ma di là un vento gagliardissimo dopo tre giorni ci trasportò nell’Oceano, dove abbattutici nella balena, fummo uomini e nave inghiottiti; e morti tutti gli altri, noi due soli scampammo. Sepolti i compagni, e rizzato un tempio a Nettuno, viviamo questa vita coltivando quest’orto, e cibandoci di pesci e di frutti. La selva, come vedete, è grande, e ha molte viti, dalle quali facciamo vino dolcissimo; ha una fonte, forse voi la vedeste, di chiarissima e freschissima acqua. Di foglie, ci facciamo i letti, bruciamo fuoco abbondante, prendiamo con le reti gli uccelli che volano, e peschiamo vivi i pesci che entrano ed escono per le branchie della balena; qui ci laviamo ancora, quando ci piace, che c’è un lago non molto salato, di un venti stadi di circuito, pieno d’ogni sorta di pesci, dove nuotiamo e andiamo in una barchetta che io stesso ho costruito. Son ventisette anni da che siamo stati inghiottiti, e forse potremmo sopportare ogni altra cosa, ma troppo grave molestia abbiamo dai nostri vicini, che sono intrattabili e selvatici.

A sistemare i vicini ci pensano Luciano e i suoi compagni. Secondo un costume che già all’epoca era consolidato l’equipaggio stermina tutti i selvaggi, ma si ritrova poi ad assistere ad una battaglia tra giganti che combattono stando su isole lunghissime, che spostano a remi come fossero piroghe. I greci capiscono allora che la faccenda può diventare delicata e cominciano a studiare come filarsela.

Da allora in poi, non potendo io sopportare di rimanere più a lungo nella balena, andavo mulinando come uscirne. In prima ci venne il pensiero di forare nella parete del fianco destro, e scappare. Ci mettemmo a cavare; ma cava, e cava quasi cinque stadi, era niente: onde smettemmo, e pensammo di bruciare il bosco, e così far morire la balena. Riuscito questo, ci sarebbe facile uscire. Cominciando dunque dalle parti della coda vi mettemmo fuoco, e per sette giorni ed altrettante notti non sentì bruciarsi; nell’ottavo ci accorgemmo che si risentiva, ché più lentamente apriva la bocca, e come l’apriva la richiudeva. Nel decimo e nell’undecimo era quasi incadaverita, e già puzzava. Nel dodicesimo appena noi pensammo che se in un’apertura di bocca non le fossero puntellati i denti mascellari da non farglieli più chiudere, noi correremmo pericolo di morir chiusi dentro la balena morta: onde puntellata la bocca con grandi travi, preparammo la nave, vi riponemmo molta provvigione d’acqua, e destinammo Scintaro a fare da pilota. Il giorno appresso era già morta, noi varammo la nave, e tiratala per l’intervallo dei denti, e ad essi sospesala dolcemente la calammo nel mare.

Usciti a questo modo, salimmo sul dorso della balena, e fatto un sacrificio a Nettuno, ivi rimanemmo tre dì, ché era bonaccia, e il quarto ci mettemmo alla vela. (Luciano di Samosata, Storia vera, libri I e II)

Al di là degli intenti di Luciano, che cerca solo di catturare e mantenere viva la meraviglia del lettore con gli effetti speciali, e quindi usa toni e modi che con la vicenda biblica di Giona hanno niente a che vedere, vengono fuori dei particolari che segnano una differenza significativa. Il luogo buio ma ricco di pesci, relitti di navi e ossa umane, piuttosto che a un loculo dove giacere per tre giorni in attesa della rinascita (che è il caso di Giona, a cui si rifarà poi dichiaratamente quello di Cristo) somiglia molto ad un possibile aldilà, abitato da uomini cui “pare d’essere morti, e pur sanno di vivere”. Anche se non è lecito leggere nella narrazione romanzesca di Luciano troppi significati simbolici, è pur vero che presso le culture classiche la tomba è un luogo ricco di oggetti e cibo, corredo necessario ad accompagnare il defunto nella sua nuova condizione. Come a dire che di qui o di là, non c’è poi molta differenza. Non è certo quello che pensavano gli eroi omerici, a giudicare dalle interviste che Ulisse realizza durante la discesa nell’Ade, ma si attaglia invece perfettamente all’epicureismo che Luciano professa. I tempi eroici sono finiti da un pezzo, e questo è lo specchio del mondo in cui Luciano vive.

In pancia alla balena 04Anche lui fa però riferimento ad una preesitente mitologia classica che di mostri acquatici ne propone a bizzeffe, o che propone lo stesso con fattezze diverse (è quello che viene denominato kētos; da cui successivamente, nella tradizione cristiana, il cetaceo per eccellenza, identificato nella balena). Perseo, ad esempio, lo combatte per salvare Andromeda (e in alcune versioni del mito lo uccide dopo essersi fatto ingoiare. In altre è invece Eracle ad uccidere ketos).

Particolarmente temuti sono poi i serpenti marini e le piovre. Nel secondo libro dell’Eneide sono proprio due serpenti usciti dal mare ad aggredire sulla spiaggia di Troia Laocoonte ed i suoi due figli. Riporto l’episodio, facendolo però raccontare non da Virgilio, ma da un autore leggermente più tardo, Petronio, perché nella sua narrazione c’è un interessante parallelo tra due tipi di mostruosità, quella naturale rappresentata dai serpenti che ingoiano i figli di Laocoonte e dilaniano il padre accorso in loro aiuto, e quella artificiale, rappresentata dal cavallo, (che tale appare subito ai Troiani, un mostrum, come dice Enea), nella cui pancia si nascondono i Greci per riuscire a penetrare in Troia.

Laocoonte ministro di Nettuno fende urlando la folla, vibra la lancia, la scaglia nel ventre del mostro, ma il volere dei numi gli fa debole il braccio, e il colpo rimbalza attutito, e dà credito all’inganno. Ma ancora egli chiede vigore alla mano spossata e saggia con l’ascia i concavi fianchi. Trasalgono i giovani chiusi nel ventre panciuto, e al loro sussurro la mole di quercia palpita d’estranea angoscia. Quei giovani presi andavano a prendere Troia, finendo per sempre la guerra con frode inaudita. Ma ecco un altro prodigio là dove Tenedo sorge dal mare, i flutti si gonfiano turgidi, rimbalzano le onde, si gonfiano di schiuma che la spiaggia ribatte, quale un tonfo di remi arriva nel cuore sereno della notte, quando solca una flotta le acque del mare che fervide gemono sotto l’impeto delle chiglie. Là noi volgiamo gli occhi e vediamo due draghi, che torcendosi spingono l’onda agli scogli, e coi petti impetuosi vorticano schiume intorno ai fianchi, come alte navi. Il mare percuotono con le code, le sciolte criniere lampeggiano come gli occhi, un bagliore di folgore incendia il mare e le onde sono tutte un tremolio di fremiti. Ogni cuore è sgomento. Cinti di sacre bende e con addosso il costume frigio i due figli gemelli di Laocoonte stavano lì sulla spiaggia. A un tratto li avvinghiano nelle loro spire i due draghi di fiamma, e quelli protendono ai morsi le piccole mani. Ciascuno non sé ma il fratello aiuta, e pietà si scambiano, finché morte li coglie in un mutuo terrore. Alla strage si aggiunge anche il padre, ben debole aiuto, che i due draghi già sazi di morte assalgono e trascinano sul lido. Giace vittima il sacerdote tra le are e il suo corpo percuote la terra. Cosi venne profanato il sacro e Troia affacciata sulla rovina perse per prima cosa gli dèi. (Satyricon, 88.9.4)

In pancia alla balena 05

Anche in questo caso lo scotto per il successo è la permanenza nel ventre buio di un animale. Quasi una forma di iniziazione. Ma, come dice Petronio, quella che si compie qui è una dissacrazione. E la dissacrazione vera è quella operata attraverso la téchne, la capacità di artificio degli umani. Il cavallo è una macchina: non è la prima, esistono altre macchine da guerra, ma questa nasconde uomini nella sua pancia. Prelude a mostri di altro tipo.

In pancia alla balena 06Le creature marine mostruose diventano una presenza fissa nelle mappe tardo-medioevali del mondo, soprattutto in quelle nordiche. Ma perdono per strada la loro valenza simbolica, per assumere invece sempre più una funzione narrativa o decorativa. Non esistono per punire chi si è macchiato di qualche colpa o dubita della giustizia divina, ma rientrano nel folklore paesaggistico e nei rischi dell’avventura. Sono significative in questo senso le immagini di draghi marini che corredano la Storia dei popoli settentrionali di Olao Magno (una delle perle della mia biblioteca: In Vinegia, appresso Francesco Bindoni, MDLXI) o la Carta Marina realizzata dallo stesso tra il 1527 ed il 1539, immagini che sono poi state trasferite pari pari nelle carte di Ortelio agli inizi del secolo successivo. I mostri sono rappresentati nel loro rapporto con gli umani, che rimane sempre ambiguo: nell’immagine di fianco, ad esempio, i naviganti hanno agganciato con l’ancora una creatura mostruosa, scambiandola per un’isola, e sono poi scesi tranquillamente dalla nave per accendere un fuoco sulla sua schiena. In questo caso nella situazione paradossale è evidente la linea di discendenza da Luciano: nelle caratteristiche fisiche attribuite al mostro c’è invece quella dalle antiche mitologie norrene, che al mare, e nella fattispecie all’oceano, associavano pericoli di ogni tipo, e quei pericoli li traducevano e li ibridavano visivamente nelle figurazioni più bizzarre.

In pancia alla balena 08Una vera balena in grasso ed ossa la ritroviamo invece nella letteratura cavalleresca tra Quattrocento e Cinquecento. Nel quarto dei Cinque Canti che Ariosto aggiunse e poi ritolse all’Orlando furioso, a finire nel suo ventre è Ruggero, perseguitato dalla maga Alcina.

Avea Ruggier lasciato poche miglia
Tariffa a dietro, e dalla destra sponda
Vede le Gade, e più lontan Siviglia,
E nelle poppe avea l’aura seconda;
Quando a un tratto di man, con maraviglia,
Un’isoletta uscir vide dell’onda:
Isola pare, ed era una balena
Che fuor del mar scopría tutta la schiena.

Nel panico che segue la nave prende fuoco, e Ruggero tra il morire bruciato e l’annegare sceglie la seconda opzione e si butta in mare con tutte le armi. Ma

Qual suol vedersi in lucida onda e fresca
Di tranquillo vivaio correr la lasca
Al pan che getti il pescatore, o all’esca
Ch’in ramo alcun delle sue rive nasca;
Tal la balena, che per lunga tresca
Segue Ruggier, perché di lui si pasca,
Visto il salto, v’accorre, e senza noja
Con un gran sorso d’acqua se lo ingoja.
Ruggier, che s’era abbandonato e al tutto
Messo per morto, dal timor confuso,
Non s’avvide al cader, come condutto
Fosse in quel luogo tenebroso e chiuso;
Ma perché gli parea fetido e brutto,
Esser spirto pensò di vita escluso.
Era come una grotta ampia e capace
L’oscurissimo ventre ove era sceso (…)
Brancolando, le man quanto può stende
Dall’un lato e dall’altro, e nulla prende.
Un picciol lumicin d’una lucerna
Vide apparir lontan per la caverna.

In pancia alla balena 09Chi sopravviene è un vecchio dalla lunga barba bianca, che alla domanda di Ruggero: sono vivo o sono morto? risponde:

Figliuol, rispose il vecchio, tu sei vivo,
Come anch’io son; ma fôra meglio molto
Esser di vita l’uno e l’altro privo,
Che nel mostro marin viver sepolto.
Tu sei d’Alcina, se non sai, captivo;
Ella t’ha il laccio teso, e al fin t’ha côlto,
Come côlse me ancora, con parecchi
Altri che ci vedrai, giovani e vecchi.

Tra questi altri, presso i quali il vecchio conduce Ruggero, e che si sono organizzati come in un camping, c’è anche Astolfo.

Tosto che pon Ruggier là dentro il piede,
Vi riconosce Astolfo paladino,
Che mal contento in un dei letti siede,
Tra sè piangendo il suo fiero destino.
Lo corre ad abbracciar, come lo vede:
Gli leva Astolfo incontra il viso chino:
E come lui Ruggier esser conosce,
Rinnôva i pianti, e fa maggior l’angosce.

I due si confidano vicendevolmente le proprie sventure, e poi si mettono a tavola, per un banchetto imbandito dai compagni di Astolfo. Come siano alla fine usciti dal ventre della balena non lo sappiamo. Ariosto li liquida così:

Ma di Astolfo e Ruggier più non vi sego:
Diròvvi un’altra volta i lor successi.
Finch’io ritorno a rivederli, ponno
Cenare ad agio, e di poi fare un sonno.

In pancia alla balena 10

Non ce lo dirà mai perché nella versione definitiva dell’Orlando l’episodio che ho appena raccontato non compare: compare sì la balena, ma Astolfo viaggia sul suo dorso accanto ad Alcina, della quale è follemente innamorato. Ruggero si lancia inutilmente in mare per sottrarlo all’incantesimo amoroso, ma è respinto dalle onde. La differenza tra le due versioni è sostanziale: quella da me riportata è stata elaborata da Ariosto in un momento di ripensamenti morali e religiosi (siamo nella fase più calda della riforma protestante), e si fondava sulla possibilità di riscatto dalla pazzia umana attraverso la fede. Sono propenso a credere che non sia estraneo l’influsso dell’Elogio della follia di Erasmo. Questo spiega la riesumazione del modello biblico, declinato alla luce dell’etica cavalleresca, per cui i due eroi, prigionieri della follia umana e redenti dalla follia della Croce, diventano soldati di Cristo.

Il motivo per il quale i cinque canti non sono stati inseriti è comunque evidente. Ripensamenti o no, Ariosto si è reso conto che non c’entravano affatto con lo spirito e con la temperie del poema, e ce li ha risparmiati.

Esistono però, se non nella mitologia almeno nella tradizione popolare, anche dei pesci buoni, come quello che nella quinta giornata del Pentamerone di Giovan Battista Basile sottrae la giovane Nennella all’annegamento, ingoiandola, e la risputa poi fuori dopo averla condotta in salvo. Nennella e il fratello Ninnillo sono stati lasciati nel bosco per volontà di una matrigna cattiva (un pescecane maledetto, la definisce Basile), Dopo varie vicende finiscono separati, e mentre Ninnillo è adottato da un principe, Nennella, rapita da un corsaro, è coinvolta nel naufragio dell’imbarcazione di quest’ultimo, nel quale tutti muoiono tranne lei.

In pancia alla balena 11Solo Nennella […] scampò questo pericolo perché proprio in quel momento si trovò vicino alla barca un grande pesce fatato, che, aprendo un abisso di bocca, se l’inghiottì. E quando la ragazza credeva di avere finito i suoi giorni proprio allora trovò cose da trasecolare nella pancia di questo pesce, perché c’erano campagne bellissime, giardini deliziosi, una casa signorile con tutte le comodità, dove se ne stava da principessa.

Ora accadde che quel pesce la portasse di peso a uno scoglio, dove […] il principe era venuto a prendere il fresco. E Ninnillo s’era posto a un verone del palazzo. Nennella lo vide attraverso le fauci aperte del pesce e gridò: “fratello mio, fratello mio”. […]

Il principe gli disse di accostarsi a pesce e vedere che cosa fosse […] E Ninnillo si avvicinò al pesce e quello, poggiata la testa sopra uno scoglio e aperti sei palmi di bocca, ne fece uscire Nennella, così bella che sembrava proprio una ninfa che, in un intermezzo, usciva, per incanto di qualche mago, da quella bestia. (Pentamerone, V giornata, favola VII)

Per completezza di informazione, c’è il lieto fine: il principe combina per entrambi dei matrimoni da favola, mentre la matrigna finisce sfracellata dentro una botte fatta rotolare giù da una rupe.

Quasi due secoli dopo un altro eroe letterario fa quest’esperienza: è il barone di Münchausen (a proposito: andando a sfogliare per l’ennesima volta il libro delle sue avventure ho ritrovato l’episodio della trombetta da postiglione che si era congelata e che una volta al caldo della stufa si scongela ed emette le sue note. Qui l’autore si è chiaramente ispirato all’episodio di Gargantua che ho riportato ne L’estate tra i ghiacci). Il barone, o meglio, il suo biografo, Rudolf Erich Raspe, pesca a piene mani dai racconti di Luciano e dell’Ariosto, compreso il viaggio sulla luna, e non può certo mancare di fare la sua esperienza col cetaceo. Anzi, è quasi un habitué degli incontri molto ravvicinati con balene o con pesci comunque enormi. Li racconta ad una maniera che sarà un secolo dopo quella di Mark Twain, perentoria ed essenziale, quasi a non lasciare il tempo al lettore di riprendersi dallo stupore. Come a dire: se non mi credi, cosa stai a fare qui, puoi andare a bere da un’altra parte.

Ma è anche il modello sul quale si fondano i cartoni animati del Vicoyote e di Silvestro, di un mondo paradossale, opposto a quello razionale e reale, nel quale l’inverosimile sconfigge di continuo il verosimile, le situazioni sono rovesciate, i rapporti distorti. In fondo questo cumulo continuo di frottole non fa che anticipare la tecnica persuasiva della pubblicità e del dibattito politico moderni. Procede per accumulo di enfatizzazioni, iperboli, pure invenzioni ed esasperazioni, fino a farci accettare la menzogna come norma. Ma almeno, nella bocca del barone tutto il racconto è simpaticamente surreale, le fanfaronate si susseguono come fuochi d’artificio, esplodono a raffica senza accampare alcuna pretesa di credibilità.

Riporto quasi per intero i passi, che traggo da una vecchia traduzione per Marzocco a cura di Giuseppe Fanciulli, perché difficilmente potrete trovare nelle edizioni moderne una versione così fedele all’originale di Raspe (oggi circolano solo “adattamenti”, e tremo a pensare a cosa succederà quando i “politicamente corretti” si ricorderanno del barone).

Errammo per oltre tre mesi senza sapere dove andavamo, non avendo bussola, finché ci trovammo in un mare che appariva tutto nero. Ne assaggiammo l’acqua e scoprimmo con grandissimo stupore che era ottimo vino, così che ci volle tutta la nostra autorità per impedire ai marinai di ubriacarsi. Purtroppo il nostro pensiero fu presto distolto da questa inezia, perché ci trovammo circondati da immense balene e da altri mostri marini smisurati, uno dei quali era talmente lungo che non riuscii a vederne la coda, neanche con l’aiuto dei migliori cannocchiali.

Per disgrazia ci accorgemmo della sua presenza quando gli eravamo già troppo vicini, e in men che non si dice tutta la nostra nave con le vele spiegate e gli alberi ritti passò nella sua gola.

Là dentro errammo per qualche tempo, finché, avendo il mostro inghiottito una prodigiosa massa d’acqua, la nave seguì la corrente, e ci trovammo in un momento nello stomaco della bestia. L’aria per la verità, era laggiù piuttosto calda, e tuttavia gettammo l’ancora in un sicuro porto e ci guardammo in giro. Vi era un gran numero di ancore, gomene, scialuppe e di navi cariche e vuote inghiottite dal mostro. L’oscurità profonda ci costringeva all’uso continuo delle torce: due volte al giorno galleggiavamo e due eravamo a secco: quando il mostro beveva era il flusso e quando risputava l’acqua era il riflusso. Secondo i nostri calcoli l’acqua immessa era ordinariamente in quantità maggiore di quella contenuta nel lago di Ginevra, che ha trenta chilometri di circonferenza.

Il secondo giorno della nostra prigionia volli tentare, col capitano e gli altri ufficiali, un’escursione durante il periodo del riflusso. Muniti di torce scoprimmo tanta altra gente che si trovava nelle stesse condizioni nostre. Ve n’era di ogni nazione: saranno state più di diecimila persone, che si disponevano appunto a tener consiglio per decidere sul mezzo migliore per uscire da quella prigione.

Vi erano persino dei bambini che non avevano mai visto il mondo, essendo nati là dentro […]

Proposi subito un tentativo di salvataggio con l’introdurre due alberi maestri legati insieme nella gola del pesce, in modo che non potesse più chiudere la bocca. (…) Il mostro sbadigliò, e l’asta lunghissima venne subito piantata nella sua gola, quindi il passaggio rimase per noi definitivamente aperto, e non appena giunse l’ora del reflusso disponemmo un ottimo servizio di scialuppe per rimorchiare tutte le navi fino alla luce del sole.

Potete immaginare con quale gioia lo salutammo dopo quindici giorni di prigionia e di tenebre. […] dopo molte profonde osservazioni io potei riconoscere che ci trovavamo nel Mar Caspio. Come mai potevamo essere giunti a questo mare che è come un gran lago chiuso da ogni parte? … il mostro che ci aveva ospitato nel suo stomaco per due settimane doveva averci trascinato fin là traversando qualche passaggio sottomarino.

In pancia alla balena 12

Ci ha preso gusto, perché nella seconda parte del libro, quella dedicata alle avventure di mare, Münchhausen racconta della collisione con una balena addormentata lunga ottocento metri, una botta talmente violenta che un marinaio che stava ammainando la vela maestra è sbalzato in aria di quindici chilometri, e riesce a tornare sulla nave solo aggrappandosi alla coda di un gabbiano. La balena, giustamente risentita, prende in bocca l’ancora e trascina la nave a velocità folle per un sacco di tempo, fino a quando la catena si spezza. Ma il bello viene dopo.

Mentre è al comando di una guarnigione a Marsiglia, il barone decide di concedersi una bella nuotata in mare. Ma:

Ad un tratto, veloce come un lampo, vidi venire verso di me un pesce enorme che mostrava già la bocca spalancata intenzionato a divorarmi. Non avevo via di scampo: fuggire era impossibile. Dovevo escogitare una soluzione al più presto possibile. Impulsivamente mi feci il più piccino possibile, cacciando la testa fra le spalle e stringendo più che potevo le braccia contro il corpo. Mi fu così possibile passare tra le ganasce del pesce e scivolare nel suo stomaco senza finire maciullato dalla sua affilata dentatura.

Puoi immaginare l’oscurità nella quale piombai una volta all’interno di quel corpo, ma ciò che mi risultò veramente insopportabile fu il calore. Di lì a poco sarei morto soffocato. Presi, dunque, una decisione drastica: provocare un tale dolore alle viscere del pesce da indurlo a una qualsiasi reazione! Iniziai, infatti, a ballare, ad agitarmi e a dimenarmi come un pazzo furioso lungo tutto il ventre dell’animale.

L’animale, a sua volta, fece la stessa cosa. Poi cominciò a urlare e a gemere in un modo spaventoso; infine si alzò, emergendo per metà dall’acqua. L’equipaggio di un bastimento mercantile italiano, che usciva allora dal porto, rallentò per ammirare quello spettacolo curioso e mai visto prima. I marinai si armarono di ferri e uncini e attaccarono il pesce, che in pochi minuti fu ucciso. Quindi la preda venne condotta a riva e io udii distintamente quegli uomini che si consultavano su come farla a pezzi per ottenere la maggiore quantità possibile di olio pregiato. II pericolo che stavo correndo era veramente grande. Rischiavo di essere squartato assieme all’animale. Cercai di non farmi prendere dal panico e di ragionare. Avrei atteso pazientemente che i ferri affondassero nella carne del pesce e avrei poi calcolato la direzione del taglio, nascondendomi altrove.

Dapprima i marinai lacerarono il ventre dell’animale cosicché, appena intravidi la punta dell’arpione bucare le viscere, andai a rifugiarmi nella coda dell’animale. Poi, quando la luce naturale illuminò la cavità, presi a gridare con tutta la forza dei miei polmoni. Mi è impossibile descriverti la meraviglia che si dipinse su tutti i volti nel momento in cui la mia voce si fece strada fra le viscere del pesce. Quella meraviglia fu anche più grande quando videro uscire un uomo vivo e completamente nudo come il nostro primo padre Adamo.

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Il topos dell’ingoiamento torna con frequenza nella letteratura romantica e tardo-romantica, sia pure sotto spoglie rinnovate. Può rientrarci infatti anche la vicenda raccontata da Edgard Allan Poe in Una discesa nel Maelström, così come Le avventure di Gordon Pym, che ci fanno incontrare un altro essere mostruoso, la sfinge dei ghiacci.

In pancia alla balena 14Nel primo racconto una violenta tempesta sospinge tre pescatori norvegesi, tre fratelli, verso un enorme vortice: il maelström. La loro imbarcazione è risucchiata in un abisso che si apre a cono rovesciato e viene attirata verso il fondo. Alla fine uno solo dei tre si salva, aggrappandosi ad un barile vuoto che è risputato fuori. Le correnti lo spingono a questo punto verso la riva, e lì può raccontare la terribile esperienza che ha vissuto: ma ne è uscito trasformato, i suoi capelli si sono completamente sbiancati e il suo equilibrio psichico è distrutto.

Qui dominante è il tema della potenza distruttiva della natura, dalla quale nella sua fragilità l’essere umano viene divorato. Ma, al di là dello sgomento, c’è una certa rassegnata identificazione:

“Ora che eravamo in mezzo al gorgo, mi sentivo più calmo … Avendo compreso che oramai non avevamo più alcuna speranza, mi ero liberato di gran parte del terrore … Penso che fosse la disperazione a distendere i miei nervi.”

che può diventare addirittura attrazione:

“Trovavo fosse una cosa meravigliosa morire in quel modo e folle dare tanta importanza alla mia vita personale di fronte a quella manifesta ne della potenza di Dio.”

Un Poe decisamente biblico, così come biblico è il suo contemporaneo Melville. C’è però anche qualcos’altro. L’orrore viene dall’abisso, e l’abisso sul quale ci affacciamo può essere anche quello degli strati più profondi del nostro animo, nel quale albergano sentimenti che non vorremmo conoscere e che escono allo scoperto nei momenti estremi. Due dei fratelli, ad esempio, si ritrovano a disputarsi l’unico appiglio per la salvezza:

“… Si lanciò verso l’anello dal quale, nella sua agonia di terrore, cercò di strappar via le mie mani, non essendoci posto per due.”

Si torna ai mostri nella pancia di cui parla il saggio dal quale siamo partiti. Ma per prendere subito un’altra direzione, meno intimista.

In pancia alla balena 15Infatti: dove conduce l’abisso? Non necessariamente all’inferno, malgrado le due immagini siano strettamente associate. È possibile che Poe si sia ispirato per questi due racconti alla teoria della “terra cava”, diffusa nella prima metà dell’ottocento da alcuni esploratori, che si cimentarono anche in improbabili spedizioni polari. La versione più fantasiosa di questa teoria postulava che una razza umana abitasse nella pancia della terra, in qualche caso disputandola a residuali mostri preistorici. Anche se Poe non ne fa mai menzione esplicita, direi che la cosa era senz’altro nelle sue corde, e che proprio attraverso la sua opera sia stata trasmessa a diversi autori da lui fortemente influenzati.

A Poe si rifà infatti esplicitamente Verne in Ventimila leghe sotto i mari, facendo inghiottire il Nautilus da un gigantesco maelström (ma il sottomarino riesce a salvarsi, e lo ritroveremo poi in una grotta de L’isola misteriosa.) Il richiamo è ancora più esplicito ne La sfinge dei ghiacci, concepito come un seguito de Le Avventure di Arthur Gordon Pym.

I mostri marini in Verne sicuramente non mancano, ma direi che il più interessante è proprio il Nautilus. Tale appare all’opinione pubblica, visto che i superstiti delle navi da esso affondate raccontano “di avere visto una ‘cosa enorme’, strana, lunga, fusiforme, talvolta fosforescente, infinitamente più grande e più veloce di una balena”, che lancia sbuffi d’acqua a grandi altezze; ma in un primo momento appare tale anche al professor Aronnax, che lo scambia per un enorme narvalo. In effetti il Nautilus è un mostro: un mostro artificiale, che ha un lontano progenitore nel cavallo di Troia. Nel suo ventre dimorano e viaggiano per ottantamila chilometri i tre protagonisti, incontrando calamari giganti ed esplorando foreste sottomarine. Ma hanno anche modo di meditare, confrontandosi col capitano Nemo, che ritorce le conquiste del progresso contro la coscienza sporca della società del profitto. Ed anche loro escono dal soggiorno nella pancia del mostro molto cambiati.

A Verne l’idea di cacciare i protagonisti delle sue storie in caverne, cunicoli, anfratti del sottosuolo piace parecchio (così come quella di farli volare nello spazio: anche lui li manda sulla Luna). Non vuole lasciare spazi inesplorati, si picca dare una spiegazione razionale di tutto (la Sfinge dei ghiacci si rivela alla fine del suo romanzo essere una montagna ghiacciata) ma un gusto particolare lo prova quando può uscire dal binario del verosimile e aprire alla scoperta paesaggi totalmente inediti. Il Viaggio al centro della terra è un’esplorazione dell’abisso che strizza l’occhio alla teoria della terra cava. Tradotto nel linguaggio usato per queste riflessioni, il titolo potrebbe essere Nella pancia del mondo.

Cos’hanno in comune tutte queste vicende? Più di quanto non si pensi. L’unica differenza tra il calarsi nelle viscere della terra e l’entrare nello stomaco di una balena sta nel fatto che nel secondo caso di norma non si sceglie. Non è una differenza da poco, ma l’esito è lo stesso. È la vertigine creata dall’ignoto, dal non sentire sotto i piedi la terra (“sente che sotto i piedi arena giace,/ Che cede, ovunque egli la calchi, al peso” scrive Ariosto), dal roteare e precipitare nel vuoto. Racconta più il disagio della civiltà che non l’epopea del progresso. Come del resto hanno fatto, in maniere diverse, tutti i suoi predecessori.

Per chiudere almeno momentaneamente il cerchio dovrei parlare ora di altri epigoni di Poe, di Edward Bulwer-Lytton e del suo Vril (ne La razza ventura), ad esempio, o di Lovecraft, che ne Il tumulo immagina l’esistenza da tempi remotissimi nel sottosuolo terrestre di un mondo abitato da esseri terribili: ma sono cose di cui ho già trattato più o meno diffusamente altrove, e non voglio ripetermi.

L’impressione rimane quella: che in ogni epoca (anche in quelle nelle quali nasceva o si affermava la fiducia nel progresso) la letteratura abbia espresso, più che i timori per le incognite negative del futuro, i rimpianti per la perdita progressiva di dimensioni misteriose e inesplorate, della possibilità di essere sorpresi o di trovare in esse rifugio. Di qui l’ambiguità. Gli uomini a temono ma al contempo amano tanto il mistero quanto i pericoli che esso può celare: non possono fare a meno di una certa dose di adrenalina, e in un mondo totalmente disvelato e per la gran parte messo in sicurezza il rischio se lo vanno comunque a cercare, come testimoniano gli sport estremi. Oppure cercano i surrogati della vertigine, sulle montagne russe o nel bungee jumping ,

Concludo con una vicenda sulla cui autenticità lascio libero di decidere il lettore, e che in caso positivo non può non produrre qualche riflessione.

Il fatto sembra essere accaduto nel 2019, ed è stato raccontato da un sub che nuotava al largo delle coste sudafricane (pare comunque che esista anche una documentazione fotografica esterna, per quanto confusa). Era intento ad osservare il comportamento degli squali che gli nuotavano attorno (questo la dice già lunga sul personaggio), per cui troppo tardi si è reso conto di quello che gli stava accadendo:

[…] improvvisamente intorno è diventato buio. Ho capito che ero stato inghiottito da qualche animale. Ho trattenuto il respiro perché pensavo che si sarebbe immerso e mi avrebbe liberato molto più profondamente nell’oceano, era buio pesto dentro. Ovviamente poi l’animale si è reso conto che non ero quello che voleva mangiare, quindi mi ha sputato fuori. Una volta che sei preso da qualcosa che pesa oltre 15 tonnellate e si muove molto veloce nell’acqua, ti rendi conto che in realtà sei solo così piccolo in mezzo all’oceano. Ho sentito una pressione pazzesca ai fianchi ed è stato quando la balena si è accorta di aver sbagliato boccone. Lentamente ha spalancato le fauci per liberarmi e sono stato letteralmente spazzato via, insieme a quello che mi è sembrato una tonnellata d’acqua.

Ho confrontato questo racconto con quello di Münchausen. Quand’anche la si accetti come vera, la vicenda in definitiva non ci trasmette nulla. Semmai conferma quel che scrivevo prima a proposito del pericolo volutamente rincorso. Non è nemmeno spettacolare, e neppure lo sarebbe se fosse stata integralmente ripresa in soggettiva dal protagonista: senza i relitti, la possibilità di incontri straordinari, i banchetti a base di pesce e frutta, l’interno di questo pesce è solo una scatola buia e stretta. La dissacrazione delle paure e delle fantasie ancestrali ha lasciato il posto solo a quelle virtuali e artificialmente indotte. Il risultato è che non sappiamo più di cosa davvero dovremmo aver paura, e abbiamo paura di tutto.

P.S. In realtà non è finita qui. Rimane in sospeso il confronto con chi ha scritto un saggio intitolato “Nella pancia della balena”, ovvero George Orwell. Ma Orwell, come Cervantes, non può essere liquidato nelle poche righe di una rassegna come questa. Anche per lui do quindi appuntamento ad una prossima puntata.

Mi arriva notizia nel frattempo che siamo anche campioni d’Europa nel Football americano. Adesso il rugby non ha più scusanti. E io nemmeno.

Ma non sono così sicuro di voler davvero uscire dalla balena.

In pancia alla balena 16

Balene nella pancia

Balene nella pancia copertinadi Lordo de Cetus, 30 ottobre 2021

elementi di leviatanologia

Qualche riga di presentazione (Paolo Repetto)

Cercando-mi-mostro

La bestia vista dal di dentro: come trovare un perché

A fiutarne le orme: descrizione di alcuni animali strani

Con la pancia nel fango. Ovvero, mostro ciò che ero o ciò che sarò?

In certi laghi del Messico, da milioni di anni. Ovvero, siamo tutti neotenici

Una situazione nuova. Ovvero, mi difendo legittimamente?

Prima e al di là di qualsiasi parola. Ovvero, il suono del mostro

Un cencio. Ovvero, malattia in aspetto di mostro

Uccidere Chimere. Ovvero, uomini d’un tempo mostruoso

Un sogno nel sangue: la tensione profonda verso l’altro

Il morso nella carne, il verme del pensiero: soma e psiche

Vedere dalle orecchie, sentire nelle mani, toccare con gli occhi

Conclusione inconcludente: mostrando-mi-nascondo

Appendice(ctomia): due punti di vista, o di fuga

dell’Affondare, una favola

del Riemergere, una preghiera

Qualche riga di presentazione

(sperando non guasti il piacere)
di Paolo Repetto, 28 ottobre 2021

Questo “Trattato di Leviatanologia” probabilmente vi sorprenderà. Può infatti sembrare non in linea con l’atteggiamento “neo-illuministico” (definiamolo così, anche se ci va un po’ stretto) che i Viandanti hanno sino ad oggi praticato. Io sono invece convinto del contrario, credo anzi valga la pena cogliere l’occasione per ribadire un paio di concetti. Ogni tanto è opportuno ricordare anche a noi stessi perché esiste il sito e cosa intendiamo per coerenza.

A proposito di quest’ultima, pare persino superfluo sottolineare che nel nostro caso essa non può riguardare una qualsivoglia “linea”, dal momento che i Viandanti non se ne sono mai data una: nel senso almeno che non hanno mai definito una qualche “ortodossia”, né in merito allo specifico degli argomenti né per quanto concerne angoli prospettici preferenziali dai quali affrontarli o eventuali criteri formali da rispettare. Naturalmente, a farci incontrare e a tenerci assieme da almeno un quarto secolo è stata la comune adesione ad alcuni valori di fondo, quelli dichiarati nella presentazione del sodalizio e rimasti tali nel tempo (e che sono esplicitati in apertura del sito, nella finestra “Chi siamo”). A questi valori siamo tuttora attaccati, e continueremo a propugnarli. Ma ciò significa solo che abbiamo un’idea più o meno concorde di come gira il mondo e una mezza idea altrettanto condivisa di come vorremmo girasse. Non neghiamo l’esistenza o la possibilità di altri valori, altre idealità, altri stili di vita: solo che alcuni li riteniamo degni di rispetto e di una considerazione curiosa, altri di un’attenzione puramente difensiva. In questo secondo caso la linea diventa visibile, si traccia da sola: è il muro di resistenza da opporre all’imbecillità. Tutto qui.

Pertanto: non siamo “moderni”, nel senso che non ci riconosciamo in alcuna ideologia, ma nemmeno siamo “post-moderni”, nel senso che continuiamo a coltivare delle idealità, pur rimanendo consapevoli che di idealità si tratta (ovvero di linee guida per un progetto di vita, e non del suo disegno esecutivo), e che non crediamo che tutto possa essere recuperato e giustificato alla stessa stregua.

Quanto al sito, in questi venticinque anni i Viandanti hanno ospitato, e continuano a farlo, prima sulla rivista cartacea e poi nel loro spazio web, i contributi più diversi sugli argomenti più disparati. Ma non in maniera indiscriminata. Questi contributi devono rispondere ad alcune condizioni che, pur non essendo mai state “codificate” in maniera esplicita, discendono in automatico dallo spirito del sodalizio. Sono condizioni molto semplici: il sito non è un ricovero per aspirazioni autoriali frustrate dal mancato apprezzamento, quindi non è aperto alle “prose d’arte”, alla “fiction”, a una qualsivoglia concezione “mercantile” della letteratura. Non è insomma una vetrina per le ambizioni di chi aspira ad entrare nel “giro buono” (e d’altro canto, stante l’irrilevanza della nostra voce, comparirvi sarebbe comunque una perdita di tempo). Il che non vuol dire che chi scrive per i Viandanti non possa aspirare comunque ad un pubblico più vasto, ma semplicemente che non può essere questa la sua principale motivazione.

E arriviamo allora al testo di cui parlavo. Che considero esemplare, perché non è stato composto per il sito, ma ha tutti i requisiti per trovarvi spazio. È perfettamente “allineato” sulla non-esistenza di una “linea” dei Viandanti, per almeno tre motivi. Per ciò che tratta, per come l’argomento è trattato e per chi lo ha trattato.

Il tema del mostro marino intanto non è così peregrino: è già stato toccato ad esempio non molto tempo fa da Fabrizio (cfr. Mai oramai, ma ora!). A cambiare è la prospettiva nella quale l’argomento viene inquadrato. Sono invece del tutto originali i modi della trattazione, che entra ed esce disinvoltamente da pagine poco frequentate e scopre al loro interno percorsi di lettura inediti. Infine, l’autore. Ho conosciuto poche persone che incarnino lo spirito dei Viandanti più di chi ha redatto questo “trattato”. Condivide con un’umiltà che a qualcuno di noi (mi riferisco soprattutto a me stesso) senz’altro manca i valori semplici e solidi cui accennavo prima, lo fa in maniera trasparente e discreta ed è coerente nella loro pratica. Lo dimostra il fatto che questo scritto, così come le poesie in idioma genovese che pubblicheremo a breve, ho dovuto quasi estorcerglieli: e alla condizione che l’uno e le altre comparissero sotto uno pseudonimo. Non per snobismo o per falsa modestia, ma per un pudore autentico e capace di autoironia: ciò che del resto si può immediatamente verificare leggendo “Balene nella pancia”.

Infine. Anche le poesie di “Cö-o dindõ” chiedono due righe a parte. La poesia era assente da qualche tempo dalle pubblicazioni dei Viandanti, ma anche prima non vi aveva trovato grande spazio. Non si tratta di scelte o di preclusioni “editoriali”: semplicemente riesce molto più difficile (e questo è senz’altro un limite nostro, ma è anche oggettivamente vero) il rapporto con una modalità espressiva che è a metà tra quella letteraria e quella musicale, e suppone quindi una sintonia “immediata”, che preceda cioè la mediazione della comprensione razionale (così almeno la vedo io). Ora, la scrittura dei Viandanti è volta in linea di massima a capire qualcosa del mondo, mentre la poesia, anche quando è davvero tale (ovvero quando non è solo una scorciatoia ), proprio per la sua natura simbolica ed evocativa il mondo aiuta piuttosto a “sentirlo” che a spiegarlo. E noi “sentiamo” più facilmente, siamo naturalmente più partecipi e coinvolti in esperienze che già ci appartengono, nelle quali ci rispecchiamo. Per farla breve: attraverso il ragionamento in prosa conosciamo il mondo e lo raccontiamo, nella evocazione poetica ci riconosciamo.

Bene. È quanto accade anche con i versi di questo piccolo canzoniere. Anzi, la scelta del dialetto parrebbe accentuare ancor più il particolarismo identitario, restringere il campo dei possibili utenti ed escluderne tutti coloro che quell’idioma non lo masticano. Invece non è così. Certo, nella musicalità scabra ed essenziale del dialetto genovese (che in realtà non è un dialetto, ma una sorta di pidgin) noi semi-liguri riconosciamo il profilo delle creste appenniniche che abbiamo tanto spesso cavalcato, e immediatamente siamo rimandati ad ambienti, situazioni, personaggi, giochi, emozioni che nel loro assieme, comprensivo anche degli aspetti più mesti o dolorosi, ci parlano di un mondo che abbiamo conosciuto: ma questi versi vanno oltre, e con un leggero sforzo di decrittazione (perché non è sufficiente accontentarsi della traduzione a fronte, le versioni vanno confrontate e la sonorità dialettale va recuperata e assaporata) possono parlare a chiunque. Possono dirgli che questo mondo lo stiamo attraversando un po’ troppo in fretta, e che prima di affannarci a cambiarlo dovremmo avere almeno la pazienza di guardarci attorno, per goderne e per vedere cosa davvero varrebbe la pena salvare.

A me hanno parlato. E comincio a salvare proprio loro.

Vi era un grande drago e i Babilonesi lo veneravano. Il re disse a Daniele: “Non potrai dire che questo non è un dio vivente; adoralo, dunque”. Daniele rispose: “Io adoro il Signore, mio Dio, perché egli è il Dio vivente; se tu me lo permetti, o re, io, senza spada e senza bastone, ucciderò il drago”. Soggiunse il re: “Te lo permetto”. Daniele prese allora pece, grasso e peli e li fece cuocere insieme, poi preparò delle polpette e le gettò in bocca al drago che le inghiottì e scoppiò; quindi soggiunse: “Ecco che cosa adoravate!”. (Dn 14,23-27)

 

Cercando-mi-mostro

un impresentabile inseguimento

…quand’ecco uscir fuori dall’acqua e venirgli incontro una orribile testa di mostro marino, con la bocca spalancata come una voragine, e tre filari di zanne che avrebbero fatto paura anche a vederle dipinte.

Pinocchio inghiottito dal Pescecane. Giona nel ventre della Balena, come Cristo, anche lui tre giorni e tre notti, nelle viscere più profonde. Decine di personaggi, dalla mitologia alla fantascienza, dalle fiabe ai testi sacri, esseri umani minacciati, aggrediti, fagocitati, da creature inimmaginabili, abnormi, terrificanti. Sono io, eccomi qua, inabissato nella mia Paura. Sei tu, anima divorata dal Mostro che ti rincorre, Corpo avvoltolato nel Morbo che ti rosicchia. Il terribile Drago che più ci minaccia, il Serpente sepolto fin dalle Origini, dentro di noi. La grande Bestia che esce dal mare, ci spaventa e sottomette, l’Ossessione archetipica profonda dell’Oceano della mia preistorica Mente/Coscienza. Eccomi qua. Sempre io, sono. La Minaccia ungulata, le Fauci spalancate, l’enorme Massa ignorante e ricoperta di alghe e conchiglie, il Bestione cornuto e ululante. Arcaico Cervello di Rettile sepolto nella mia evolutissima Neocorteccia. Io, ancora qua, a divorarmi, a scavarmi, da dentro. La Bestia più atroce, ce l’ho in fondo al Ventre, annidata nei recessi del mio personalissimo Essere, cellula Uovo feconda di ogni paradossale inquietudine di specie, annidata irrimediabilmente nella nutriente mucosa dell’utero della mia incerta esistenza…

– E sapete chi era quel mostro marino? Quel mostro marino era, né più né meno, quel gigantesco Pescecane ricordato più volte in questa storia, e che, per le sue stragi e per la sua insaziabile voracità, veniva soprannominato l’Attila dei pesci e dei pescatori.

Chi è, il Mostro, cos’è? Che mi rappresenta? Come mi si presenta? Perché me lo trovo sempre davanti, dentro, piantato lì, come Chiodo di Croce, inabissato nel mio esserci, maligno Granchio intanato? Che Diavolo cerchiamo, davvero, noi, andando a frugare così il Male nel mare? Che tormento brutale ci spinge, quale fascinosa Sirena ci attira laggiù? Cosa, in fondo, vorremmo trovare, nella pancia del Mostro? Ma non siamo noi, poi, i mostri più minacciosi, non è nella nostra pancia, inquietissimo mare, che dobbiamo pescare il male di noi? La mia Malattia, la mia Bianca Balena naviga sovrana sul fondo dell’Oceano di me. Sono forse io, il Creatore del Mostro, divorato da ciò a cui ha dato la vita…?

Perché, chiedo, occuparsi di Mostri? Perché preoccuparsene? Magari, proprio per questo: perché siamo noi, i nostri più mostruosi nemici; sono io, l’invincibile Pescecane, l’Attila vorace, affamato di me stesso. Frugarci, allora, ci serva a capire qualcosa, della nostra Storia e Materia, delle nostre più intime Malattie.

Da sempre, l’uomo prende tutte le sue più inconfessabili e incomprensibili fobie, le riforgia in terrificanti figure, dà loro improbabili forme e dimensioni, le arricchisce di inverosimili attributi, le storpia vieppiù con atavici terrori o con avveniristiche improbabilità, le gonfia, le deforma e le sporca ben bene, e poi le sbatte, quasi a dimenticarle, sul fondo del mare. E quelle lì se ne stanno, nuotando tranquille e inguardabili, nei silenzi profondissimi, nelle oscurità abissali. Soltanto, qualcuna, di tanto in tanto, senza troppi apparenti motivi, se ne ritorna a galla, butta fuori l’orrendo capino. Fa bella e ricca mostranza di sé.

Immaginatevi lo spavento del povero Pinocchio alla vista del mostro. Cercò di scansarlo, di cambiare strada, cercò di fuggire; ma quella immensa bocca spalancata gli veniva sempre incontro con la velocità di una saetta.

Queste inorganiche e parzialissime riflessioni sull’argomento, nella forma sciocca dell’accumulo di materiali per la fondazione di una Scienza del Leviatano, sono in realtà il tentativo di rispondere ad un’unica domanda: perché Dio, nel quinto giorno della Creazione, dopo aver preparato l’ambiente, con gli astri, il sole, la luna, le acque, la terra, la meravigliosa varietà del mondo vegetale, come primo essere animale vivente, mette nel mare il tannin, il ‘mostro marino’? (Gn 1,21). Una curiosa questione, mi pare. Soprattutto se la mettiamo accanto al fatto che più o meno tutte le culture antiche prevedono nei loro miti fondativi, divinità o mostruosità acquatiche, con cui o contro cui l’Ordine cosmico ha ragione sul Caos primordiale.

La mia risposta alla domanda è semplicemente questa: il Mostro marino è Necessario.

Questa incomprensibile Presenza risulta indispensabile, all’equilibrio globale della Natura. Quindi all’Uomo. È come se Dio mettesse l’uomo, non a caso l’ultimo animale posato nell’esistenza dal Creatore, davanti allo Specchio: “Questo, tu sei. Da questo tu vieni, questo puoi diventare”. Eccolo lì, il padrone del mondo: il Gran Leviatano di se stesso, davanti al suo Segno. “Persino l’Abnorme, l’Incredibile, l’Inconfigurabile, è dentro il Mio Ordine. Devi, dunque, imparare a convivere con il Disordinato Animale nascosto nel fondo di te…”.

– Affrettati, Pinocchio, per carità! – gridava belando le bella Caprettina. E Pinocchio notava disperatamente con le braccia, col petto, con le gambe e coi piedi. – Corri, Pinocchio, perché il mostro si avvicina! E Pinocchio, raccogliendo tutte le sue forze, raddoppiava di lena nella corsa. – Bada, Pinocchio!… il mostro ti raggiunge!… Eccolo…! eccolo!… Affrettati per carità, o sei perduto! E Pinocchio a notar più lesto che mai, e via e via e via, come andrebbe una palla di fucile. E già era presso allo scoglio, e già la Caprettina, spenzolandosi tutta sul mare, gli porgeva le sue zampine per aiutarlo a uscire dall’acqua…

Questa, dunque, la tesi. L’inevitabilità del Mostruoso, in specie di quello marino, come altra faccia dell’incapacità dell’uomo di rimanere dentro l’Ordine, della sua diabolica tendenza a non comprendere in sé ciò che gli appare Diverso da sé. Tesi che, con buone probabilità, non riuscirò davvero a dimostrare. Però è divertente lo stesso, averla immaginata…

Partirò, come si è intuito, dalla Bibbia, perché è il Libro che leggo più spesso. Ma credo che potremmo portare avanti le stesse considerazioni anche avendo come punto d’avvio altra letteratura sapienziale del Vicino Oriente Antico, oppure Omero, o le Favole Popolari, o ancora i Veda e altri Testi Sacri d’ogni religione e paese. E financo la Letteratura o la storia del Cinema. Faremo comunque in questi ambiti qualche scorribanda, con la nostra barchetta. Un’ultima considerazione preliminare. Da un rispolvero anche molto sommario di riferimenti al tema sepolti nella mia tremolante memoria, mi pare di poter dire che la figura mostruosa marina ha due grandi rimandi simbolici. Da una parte è personificazione, incanalamento di Forze Negative, più o meno assimilabili all’idea di Male, insomma. Ossessione, Malattia, Minaccia, e universi collegati. Ma in altri, per quanto certo meno numerosi casi, essa può invece rappresentare l’Essere Luminoso, una forza asservita al Bene, Segno (premonitore, ammonitore, rammemoratore) dell’Essenza Divina; Elemento decisamente Salvifico, in buona sostanza. Credo che, nello sviluppo di queste riflessioni, dovremo tenere presente e far emergere questi due poli tematici dell’argomento.

Ma ormai era tardi! Il mostro lo aveva raggiunto: il mostro, tirando il fiato a sé, si bevve il povero burattino come avrebbe bevuto un uovo di gallina; e lo inghiottì con tanta violenza e con tanta avidità, che Pinocchio, cascando giù in corpo al Pescecane, batté il colpo così screanzato, da restarne sbalordito per un quarto d’ora.

 

La bestia vista dal di dentro:
come trovare un perché

Ma il Signore dispose che un grosso pesce inghiottisse Giona.

Giona restò nel ventre del pesce tre giorni e tre notti.

Qualche giorno fa passando davanti ad un televisore acceso, ho assistito a questo interessante scambio di battute: dopo aver descritto le eccezionali caratteristiche di uno stranissimo enorme animale acquatico, un uomo, apparentemente uno scienziato, concludeva dicendo entusiasta: “Un Dio, un Dio a tutti gli effetti!”. Il giovane di fronte a lui, che lo aveva ascoltato con mimica via via sempre più preoccupata, ribatteva, con intonazione conclusiva e disperata: “Un mostro!”. Mi ha incuriosito e stupito molto, quest’accostamento spericolato, Dio/Mostro, enfatizzato dal contrasto nel timbro di voce dei due personaggi, tra l’entusiasmo vivissimo dell’uno e il funereo sconforto dell’altro. Non ho potuto vedere tutto il film, ma di un’altra sequenza sono riuscito ad annotare ancora una frase. Sempre quello lo scienziato, cercando di spiegare la sua teoria su quell’essere sconosciuto e abnorme, diceva: “La Natura ha un Ordine, e il potere di ristabilire l’equilibrio. Io credo che sia Lui quel potere!”. Mi ha fatto pensare molto, questa immagine. La mia visione del Dio ‘Pantocrator’, Colui che Tutto regge nelle mani e tiene al suo posto ogni cosa, non è molto lontana dalla descrizione che lo scienziato dava del Bestione. Il film, naturalmente, si chiama Godzilla, una produzione del 2014, che nella mia pressoché totale ignoranza della recente cinematografia, non conoscevo. Ho cercato di tradurre il titolo-nome, e ho scritto qualcosa come: ‘le Branchie di Dio’, o forse ‘il Dio con le branchie’, o ancora meglio, “Colui che respira sotto l’acqua” (viene in mente lo Spirito che alla Creazione aleggia sopra le acque, in Gn 1,2).

Apriamo la Bibbia, dunque.

È facilmente immaginabile che la cultura ebraica antica avesse un concetto del “mostro” parecchio lontano dal nostro. Senza entrare troppo nel dettaglio, pensiamo anche solo al fatto banale della quantità e qualità della conoscenza. Essendo una componente dell’idea del mostruoso anche ciò che è difficilmente spiegabile secondo le competenze scientifiche del tempo in cui quell’idea è elaborata, un grande numero di animali di cui oggi possiamo ammirare vita e abitudini, raccontati in documentari dettagliatissimi, sette o ottomila anni fa facevano invece parte della categoria dei mostri più misteriosi e spaventevoli, oppure erano adorati e temuti come divinità buone o cattive.

La Scrittura, comunque, intorno al tema del “mostruoso”, in specie di quello marino, ha una posizione decisamente articolata, sia nella terminologia che nei significati, e direi anche nella considerazione, negli atteggiamenti di fronte al mostro.

Cominciamo dall’analisi lessicale. Sono tre i termini che il Libro usa per dire il ‘Mostro del Caos’, l’Essere primordiale, la personificazione mitica della forza che si oppone alla Signoria creatrice di YHWH: Raab (p.e. Gb 9,13 e 26,12); Leviatàn (p.e. Gb 3,8 e 26,13); e, appunto, Tannin (oltre a Gn 1,21, p.e. Gb 7,12).

Dicevo della varietà di interpretazione. Raab, per esempio, è usato come personificazione mitica delle acque primordiali, essere potente fatto a pezzi da YHWH (Is 51,9), o ancora, in contesto storico, personificazione del Mar Rosso e dell’Egitto (il ‘domato’ di Is 30,7).

Il Leviatàn, drago, gran serpe che fugge, ripreso dalla mitologia fenicia, pure esso mostro del caos primitivo, ritenuto anche responsabile delle eclissi quando, ridestato da maledizioni efficaci di stregoni nemici della luce, inghiottiva momentaneamente il sole. Isaia 27,1 riprende pressoché testualmente un poema di Ras-Samra (sec. XIV a.C.) che dice: “Tu schiaccerai Leviatàn, serpente fuggiasco, tu consumerai il serpente tortuoso, il potente dalle sette teste”. Il profeta Amos ne parla come di un’arma nelle mani di Dio: tra i vari annunci di castigo ai popoli, fa dichiarare al Signore: “Anche se si nascondessero al mio sguardo in fondo al mare, laggiù ordinerei al Serpente di morderli…” (9,2). E curioso, rispetto al Leviatàn è anche il doppio registro che si ritrova nel Salterio: il Salmo 104,26 lo presenta come un Bestione pacifico e giocherellone, plasmato nel mare “perché in esso si diverta”; il Salmo 74,16 invece ricorda a YHWH: “gli hai spezzato la testa e lo hai dato in pasto ai mostri marini”, trattandolo quindi come minaccioso pericolo.

Anche il termine Tannin viene applicato a tipologie di bestie differenti. Secondo la versione CEI 2008 della Bibbia di Gerusalemme, le 14 occorrenze del termine sono rese così: mostri marini (Gn 1,21; Gb 7,12; Sl 148,7); serpenti (Es 7,9.10.12; Dt 32,33); draghi (Sl 74,13; Sl 91,13; Is 27,1; Is 51,9; Ger 51,34); coccodrillo (Ez 29,3; 32,2, in entrambi personificazione del Faraone e dell’Egitto).

Ma torniamo, arricchiti dalla consapevolezza terminologica, al nostro enigma di partenza.

L’altro ieri ho posto la mia domanda (“perché Dio crea il mostro marino”) a un biblista (laico). Purtroppo il canale comunicativo era decisamente limitato (un sms!), quindi non potevo aspettarmi grandi rivelazioni. Però la sua risposta, per quanto sostanzialmente corretta, non mi convince fino in fondo. Mi ha detto, più o meno: per sottolineare il potere ordinativo di YHWH sul creato, anche sulle più infime creature degli abissi (corsivo mio). Ora, questo è sicuramente vero, e parte non trascurabile della questione. Resta però la posizione assolutamente preminente – il primo essere vivente creato; ventunesimo versetto del primo Libro! – che sembra sottolinearne un’importanza particolare. Più che di ‘infime creature’, sembrerebbe trattarsi di abitatori degnissimi e importantissimi dell’Universo in via di ordinazione. Senza contare, poi, che solo il Tannin è individuato nominalmente, mentre per tutti gli altri esseri viventi si usano categorie molto varie, uccelli, esseri che guizzano e brulicano nell’acqua, e nel giorno successivo, bestiame, rettili, animali selvatici. Aggiungo, per completare il quadro, che all’atto creativo che pone nell’essere i tanninim, con tutti i pesci del mare e gli uccelli del cielo, Dio vede che è ‘cosa buona’, e li benedice con la formula: ‘siate fecondi e moltiplicatevi’! Il mostro non è, quindi, un errore, un difetto di fabbricazione, qualcosa venuto male o sfuggito al controllo della Mente Ordinatrice. No, è un essere voluto, e voluto proprio così, il primo a prendere il suo posto nel Cosmo, originariamente buono, e destinato anch’esso, come tutte le altre creature, a far prole, a riprodursi per popolare di sé il mondo. Non ho detto questo, per messaggino, al biblista, ma so che nel suo modo scanzonato e ironico mi darebbe quasi ragione.

Anche perché c’è dell’altro. Come abbiamo visto, il Mostro ritorna, più e più volte, in modi e forme diverse, nell’intero corpo della Scrittura. Ed è presente nelle due ‘ricapitolazioni cosmiche’, che spesso si ripropongono anche nella Liturgia delle Ore, di Daniele 3,52-90: “Benedite, mostri marini e quanto si muove nell’acqua, il Signore” (v.79) e del già citato Salmo 148: “Lodate il Signore dalla terra / mostri marini e voi tutti abissi” (v.7). Anche questo deve avere la sua rilevanza.

Riassumendo (riprendo queste considerazioni da alcune note della Bibbia di Gerusalemme), possiamo ricostruire l’evoluzione ‘sapienziale’ della ‘presenza mostruosa’ di cui abbiamo visto l’origine in Genesi 1 in questo modo. Recuperando elementi dalla cosmologia babilonese, a YHWH si attribuisce la vittoria, anteriore all’organizzazione del Caos, sul Mare (Tiamat) e sui mostri suoi ospiti, e il loro perdurante assoggettamento. Leviatàn, in particolare, che l’immaginazione popolare e poetica raffigura dormiente, e di cui sempre si teme il risveglio distruttivo e catastrofico per l’ordine esistente.

Ancora BJ suggerisce che il Drago di Apocalisse 12 (enorme, rosso, con sette teste e dieci corna, e la coda che trascina un terzo delle stelle del cielo), incarnazione della resistenza della potenza del male contro Dio, è per certi versi assimilabile a quel Serpente del Caos descritto sopra. Ricordiamo anche che il Drago, sconfitto in cielo e precipitato sulla terra (12, 7-9), va ad appostarsi sulla spiaggia del mare. E dal mare sale una Bestia, anch’essa con sette teste e dieci corna, “simile a una pantera, con le zampe come quelle di un orso e la bocca come quella di un leone” (13,2). A lei il Drago dà la sua forza e il suo potere. Entrambi, personaggi mostruosi di figura e ruolo decisamente negativi, nell’ultimo combattimento escatologico, finiranno nello stagno di fuoco e zolfo.

Ma chiudiamo questa carrellata biblica con un’immagine decisamente più simpatica. Del Leviatàn occorre segnalare ancora lo stupendo encomio di Gb 40,25-41,26, a mia memoria la descrizione più estesa e dettagliata di un essere vivente nella Sacra Scrittura. Qui il mostro prende un po’ le caratteristiche del coccodrillo, ma certo rimane il riferimento simbolico alla potenza primordiale ostile al Principio Ordinatore, e soltanto da Lui soggiogata. Siamo, direi, al punto più alto della Scienza del Mostruoso in campo biblico. È Dio stesso che descrive a Giobbe la perfezione e la potenza della creatura mostruosa. Questa diretta testimonianza della Voce Divina, questa ‘Parola di Dio’ espressamente dedicata all’Essere abnorme, conferma, credo, quell’importanza particolare, di cui sopra parlavo. Possiamo stralciarne alcuni frammenti, come squame preziose di un variopinto mantello, unico per bellezza e intensità lirica (brani tratti da Gb 40,31-41,26):

 

“Crivellerai tu di dardi la sua pelle / e con la fiocina la sua testa? / Prova a mettere su di lui la tua mano: / al solo ricordo della lotta, non ci riproverai! / Ecco, davanti a lui ogni sicurezza viene meno, / al solo vederlo si resta abbattuti. / […] / Non passerò sotto silenzio la forza delle sue membra, / né la sua potenza né la sua imponente struttura. / […] / Il suo dorso è formato da file di squame, / saldate con tenace suggello: / l’una è così unita all’altra / che l’aria fra di esse non passa. / […] / Il suo starnuto irradia luce, / i suoi occhi sono come le palpebre dell’aurora. / Dalla sua bocca erompono vampate, / sprizzano scintille di fuoco. / Dalle sue narici esce fumo / come da caldaia infuocata e bollente. / […] / Compatta è la massa della sua carne, / ben salda su di lui e non si muove. / Il suo cuore è duro come pietra, / duro come la macina inferiore. / Quando si alza si spaventano gli dei / e per il terrore restano smarriti. / […] / La sua pancia è fatta di cocci aguzzi / e striscia sul fango come trebbia. / Fa ribollire come pentola il fondo marino, / fa gorgogliare il mare come un vaso caldo di unguenti. / Dietro di sé produce una scia lucente / e l’abisso appare canuto. / Nessuno sulla terra è pari a lui, / creato per non aver paura. / Egli domina tutto ciò che superbo s’innalza, / è sovrano su tutte le bestie feroci”.

 

A fiutarne le orme:
descrizione di alcuni animali strani

Puoi tu pescare il Leviatàn con l’amo

e tenere ferma la sua lingua con una corda…?

Se spostiamo lo sguardo dalla letteratura sacra a quella profana, credo che potremmo mettere insieme davvero un’infinità di tessere per arricchire il nostro mosaico che tenta di rappresentare l’Essere Mostruoso, in specie quello di ambiente o provenienza marina. Direi che scrittori e poeti di tutti i tempi hanno preso il mare e le sue più imprevedibili e improbabili creature, come campo di ricerca estetico-narrativo o etico-filosofico, come costruzione e disvelamento di simboli e del mistero dell’esistenza, o semplicemente come esercizio di stile e di fantasia. Del racconto di Omero, per esempio, che raccoglie tutta la favolistica e le mitologie precedenti e dischiude gran parte della letteratura a venire, leggo: “Un viaggio da oriente verso occidente, in una dimensione orizzontale. Ma, una volta immerso nella sfera marina, è come se fosse, il suo, un viaggio in verticale, una discesa negli abissi, nelle ignote dimore, dove, a grado a grado, tutto diventa orrifico, subdolo, distruttivo. Si muove il navigante tra streghe, giganti, mostri impensati, tra smarrimenti, inganni, oblii, allucinazioni, perdite tremende, fino alla solitudine, all’assoluta nudità, al rischio estremo per la ragione e per la vita”. È la descrizione della mia vita, della nostra vita, precisamente, la vita di ognuno di noi, nel grande mare dell’esistenza, le prove mostruose che prima o poi ci troviamo davanti. E ancora: “Il romanzo di Ulisse non poteva svolgersi che in mare, perché il mare, cammino fluido e mutevole, sconfinato e monotono, è il luogo dove il concreto, il reale si sfalda, vanifica, e insorge l’irreale, s’installa il sogno, l’allucinazione: il generatore dei mostri, che sono le immagini delle nostre paure, dei nostri rimorsi” (Vincenzo Consolo, L’isola dei mostri, in Letture Omeriche a cura di S. Colmagro).

Difficile orientarsi, in un oceano sconfinato così, intere biblioteche di riferimenti e citazioni. Però, proprio per l’abbondanza di materiale a disposizione, direi che in tale mare, ovunque si pesca, si pesca bene … Abbandono quindi volontariamente qualsiasi pretesa di ricerca metodica o criterio di scelta. Mi affido a pochi esempi, significativi perché scelti pressoché random, testi che stanno sulle dita di una mano (esadattila, naturalmente …), che posso afferrare soltanto allungando un braccio (appena appena, naturalmente, telescopico …).Ci daranno comunque senz’altro qualche apertura panoramica interessante.

Consigliabile, ovviamente, la lettura preventiva del testo a cui il commento fa riferimento[1].

I riferimenti sono:

allegato 1. Lo zio acquatico, da Le Cosmicomiche di Italo Calvino (1965);

allegato 2. Angelica farfalla, da I Racconti di Primo Levi (1966);

allegato 3. L’uomo che vide la lucertola mangiare suo figlio, da Vietate le sedie di Ignacio de Loyola Brandao (1981);

allegato 4. Il mostro, da L’orrore del mare di William Hope Hodgson (1914);

allegato 5. Il mostro, da I lavoratori del mare (parte II, libro IV, cap. II) di Victor Hugo (1866);

allegato 6. La Chimera, da Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese (1947);

allegato 7. Il cancro come simbolo di una partenogenesi inconscia, da Cancro perché di A. Caddeo, D. Marafante, R. Morelli, A. Setton (Riza Scienze n.5, settembre 1984);

allegato 8. Freaks – Miti e immagini dell’io segreto, di Leslie Fiedler (1978) (Garzanti 1981).

Inoltre:

Vincenzo Consolo, L’isola dei mostri, in Letture omeriche a cura di Stefano Colmagro. – Venezia : Marsilio, 1994).

Allegato 1.

Con la pancia nel fango. Ovvero, mostro ciò che ero o ciò che sarò?

Vogliamo partire dai progenitori preistorici? Ecco qua. Un gustosissimo racconto di Italo Calvino, in cui, con maestria, si descrive, in una ironica condensazione temporale, il passaggio evolutivo dalla vita acquatica alla terrestre, con le problematiche e i traumi collegati. L’invenzione ‘cosmicomica’ ci insegna che a volte quello che ci sembra mostruoso è ciò che di noi non vogliamo più accettare, di cui vogliamo, magari con troppa fretta e impazienza, liberarci. Così è mostruosa la sapienza degli anziani, tutta la tradizione che si vuole superare. Vediamo mostruoso ciò che pensiamo ci impedisca di guardare avanti, di progredire, di essere più ‘nuovi’. Si chiarifica qui bene il contrasto tra il bisogno ‘evolutivo’ dell’andare oltre, della ricerca verso territori inesplorati, e la sicurezza del conosciuto, la saldezza delle radici, nel nostro testo rappresentato dall’opposizione tra le trasformazioni continue imposte dalle necessità di adattamento alla variabilità della terraferma e invece l’immutabilità, il costante equilibrio di una vita ‘senza metamorfosi’, nella quale soltanto possono essere mantenute ‘le ragioni per cui è bello vivere’, e si può ‘arrivare all’essenza di sé e di ogni cosa’. “Va là, girino, che appena torni a bagno torni a casa!” è una battuta geniale, che dovremmo tenere presente, nella nostra ansia ‘mostruosa’ di proiettarci nel non ancora conosciuto. Lo sviluppo della storia ci dice che è lecito anche tornare indietro, che ‘solitudine’ è anche incapacità di essere in sintonia col proprio tempo. Che la mostruosità di essere ‘uno che è uno’, è un destino come un altro.

Allegato 2.

In certi laghi del Messico, da milioni di anni. Ovvero, siamo tutti neotenici.

Cambiamo cornice storica, torniamo più vicini a noi, trattando però ancora un’epoca tormentata, ‘di passaggio’. E trasferiamoci dal genere comico-cosmologico a quello tragistorico. ‘Tempi propizi alla teoria’, li definisce l’autore. Tempi di mortificazione, di mostrificazione dell’uomo, direi io. Ci facciamo guidare da un altro scrittore italiano, contemporaneo di Calvino, che ha attraversato con il proprio corpo e conosciuta nella propria carne la mostruosità come Barbarie della belva umana. Il racconto che leggiamo, come tutta la narrativa di Primo Levi, ci ricorda che quando il Mostro è l’uomo a cui si è addormentata la ragione, facilmente esso tende a generare altri mostri. Un processo a cascata, potremmo definirlo. In effetti, in questa breve storia, tutti i protagonisti sono o diventano mostruosamente inumani, come contagiati da un’epidemia inarrestabile. La vera “eresia della Natura”! Tutti mostri: lo scienziato pazzo, e le gerarchie militari che gli permettono gli esperimenti; i poveri uomini mutanti e anche chi, affamato fino alla disumanità, rosicchia le loro ossa; il guardiano, infermiere che si fa carnefice, e chi dice: meglio voltarsi dall’altra parte. E, in fondo, pure noi, mostri curiosi, che leggiamo magari sorridendo o ammirando la ‘fantasia’ dell’autore, senza chiederci troppo a fondo o troppo a lungo come mai cose simili, magari con dettagli solo leggermente diversi, possano essere accadute in tempi non molto lontani da noi, accadano in luoghi non molto distanti dai nostri, e probabilmente ancora accadranno, a persone non molto diverse da noi… Anche l’ambiente in cui la storia si svolge, è adeguatamente ‘mostrificato’. Citando solo dall’incipit: selciato sconnesso, colate di macerie, crateri di bombe, acque melmose, bolle vischiose. Persino gli orti, sono rachitici. Tutto, ovviamente, in esplosivo contrasto con il morbido e paradisiaco titolo, che ci fa sognare candore di serafini e svolazzar d’ali variopinte! E, invece, ancora: il campanello non funziona, la porta è sfondata, all’interno polvere, ragnatele, odore di muffa, fughe di topi nel buio, immondizia, macchie di sangue, pullulare di vermi… ossa di origine indefinibile. I sentimenti degli uomini: ‘ribrezzo, odio, curiosità’. Eccoci ancora qua, davanti a quel dannato specchio: mostri che guardano mostri.

(Tra i Racconti di Levi ce ne sono diversi altri, che potrebbero proficuamente entrare nella nostra analisi. Ricordo soltanto, almeno: il curioso L’amico dell’uomo; il bellissimo Quaestio de Centauris, con la geniale descrizione introduttiva della ‘panspermìa’, post-diluvio, “un tempo mai più ripetuto di fecondità delirante, furibonda, in cui l’universo intero sentì amore, tanto che per poco non ritornò in caos… giorni in cui la terra stessa fornicava col cielo, in cui tutto germinava, dava frutto” (stupenda l’immagine dell’origine delle grandi balene, i leviatani, dal connubio tra il fango primordiale e la chiglia femminea dell’arca…); e ancora le inquietanti pagine di Vilmy e di Ottima è l’acqua).

Allegato 3.

Una situazione nuova. Ovvero, mi difendo legittimamente?

Fulminante, come il guizzo d’una vipera che scompare tra i sassi, il perturbante, surreale racconto di Ignàcio de Loyola Brandão. Cosa dirne, non so. Riesco solo ad arruffare lì una sfilza di domande, stupide e senza risposta. Cosa facciamo, di fronte a ciò che ci accade, quand’esso ha dell’inaspettato, del sorprendente, del mostruoso? Sappiamo reagire? E come? C’è la paralisi? O riusciamo ancora a usare l’intelligenza, la sensibilità, la volontà? Le nostre paure, sono reali? Oppure sono fantasie ossessive? O forse, meno razionalmente, mi chiedo: gridare? prendere il coltello, avere una pistola? O, più semplicemente, girarsi dall’altra parte, e continuare a dormire… Si può ‘comprendere’ la Diversità, nel suo violento manifestarsi? In fondo, quelle due paginette senza senso mi strappano fuori la domanda vera. La Domanda delle domande: qual è la Bestia che mi divorerà? Di che Mostro devo morire, che Bandito sta per assalirmi, quale Malattia mi sto costruendo, nella mia fantasia cellulare?

Mah, comunque sarà meglio andare a vedere se abbiamo chiuso bene la porta di casa. Che non entri davvero qualcuno, a rubarci tutto… Posso dirlo? Sento già un peso sul petto… mio Dio, sembra proprio una brutta zampaccia pelosa …

 

Allegato 4.

Prima e al di là di qualsiasi parola. Ovvero, il suono del mostro.

Un’altra ‘orrenda creatura’ ce la regala Hodgson, scrittore inglese di fine Ottocento, morto soldato nella prima guerra mondiale. Di lui qualcuno ha scritto: “Pochi lo eguagliano nell’adombrare la vicinanza di forze sconosciute e di mostruose entità attraverso accenni casuali e particolari insignificanti, oppure nel comunicare le sensazioni dello spettrale e dell’anormale legati ai luoghi”. Ma in questo racconto, che traggo da una raccoltina ‘millelire’ intitolata ‘L’orrore del mare’, il mostruoso, l’orrorifico, l’abnorme, più che adombrato, è dispiegato in tutta la sua dirompente spaventosa teatralità, distruttiva e terrificante. A differenza del brano precedente, qui tutto l’impianto è realistico, cronachistico direi. L’ambientazione, le reazioni degli uomini, i movimenti delle cose, i dettagli dei rumori, delle forme e dei colori, tutto è dipinto naturalisticamente, ci è messo davanti in tutta la sua reale crudeltà e oggettività, e questo ci costringe alla partecipazione, siamo lì, su quella nave invasa, a tremare per il terrore, ad assistere allo spettacolo del Mostro che ci sgomenta, lentamente ci annienta. Forse è proprio la precisione di quel realismo descrittivo ambientale e psicologico, che ci costringe a considerare reale anche l’orrenda ‘Cosa’ che minaccia e divora tutto e tutti. Più d’ogni altra cosa, impressiona quello sgranocchiare di mascelle, ‘odioso suono di mandibole’, e quei muggiti bestiali, ‘infernali’, di rabbia, di dolore, di sazietà, che danno il ritmo all’azione, cadenzano la progressiva inarrestabile solitudine del protagonista. Nella quasi totale assenza di dialoghi, la ‘colonna sonora’ del racconto costruisce intorno a noi la gabbia della paura, della disperazione, dell’incubo. Cosa c’è, dietro l’invenzione letteraria? Dove va a scavare l’autore? Fino a dove arriva quel suo artiglio a tenaglia, che sfonda l’oblò della nostra coscienza e ci fruga le viscere? Cosa mastica, rumorosamente, il Mostro, di noi?

Allegato 5.

Un cencio. Ovvero, malattia in aspetto di mostro.

Victor Hugo ci dà esempi altissimi di indagine su cosa è mostro e su come l’uomo ci si pone e trova davanti, soprattutto in campo sociale e relazionale-sentimentale. Almeno due suoi romanzi sono interamente costruiti intorno a queste tematiche, (1831) e Notre-Dame de Paris L’Homme qui rit (1869). Ma c’è un altro romanzo, forse meno conosciuto, Les Travailleurs de la Mer (1866), tutto di ambiente marino, in cui ad un certo punto della vicenda l’uomo si trova davvero solo davanti, anzi tra le braccia, del Mostro. Nella sua stupenda prosa descrittivo-catalogatoria, enciclopedica ma tendente al meditativo, lo scrittore francese ci conduce passo passo per mano, dal ritratto realistico dell’animale inquadrato, fino alle sue più profonde significazioni simboliche. Hugo ci spiega bene, credo, che il mostro non è qualcosa che si trova ‘fuori’ della Realtà, non è invenzione, fantascienza, costruzione di una mente – seppur perversa – umana. No. Come già dalla Bibbia, ancora capiamo che esso è parte della Creazione, parte di noi, zona magari oscura, certo inspiegabile per la nostra ragione, ma componente integrante della Natura, parte viva e realissima di ciò che biologicamente e ontologicamente siamo. Qualcosa che ci spaventa, che ci attacca, ci disgusta e distrugge. Ma la modalità dell’Incontro tra l’uomo e la sua Ossessione Tentacolare, e il Significato Ultimo di questa Presenza Orripilante, questo ci interessa e ci tocca molto da vicino. “L’artiglio è niente, a paragone della ventosa. L’artiglio è la bestia che penetra nella vostra carne; la ventosa siete voi che entrate nella bestia”. L’idra si incorpora nell’uomo; l’uomo si amalgama con l’idra. Forma con essa un solo essere. Le ipotesi filosofiche di ‘lettura’ delle creature ‘ripugnanti’ non riescono comunque a rispondere all’eterna domanda: “A qual fine? A che serve ciò?”. Il punto di approdo della meditazione filosofica di Hugo, quindi, è lo sconfinamento nel campo del demoniaco. “Il demonio è la tigre dell’invisibile”. Se i cerchi d’ombra continuano indefinitamente, se questa catena esiste, è certo che l’esistenza della piovra ad una estremità prova l’esistenza di Satana all’altra. Si ripropone il terribile enigma del male. Ma di questo, semmai, in un altro capitolo.

Allegato 6.

Uccidere Chimere. Ovvero, uomini d’un tempo mostruoso.

Ho aperto questa piccola rassegna letteraria con un tuffo nel mare della preistoria ‘evoluzionistica’; la chiudo con un volo nei cieli di quella ‘mitologica’. Ritorno, in conclusione, ad un autore ‘nostrano’. Un libro stupendo, in cui i miti classici diventano strumenti di lettura della storia intima, personale dello scrittore e del lettore e collettiva del nostro tempo, di tutti i tempi. Nei suoi ‘dialoghetti’, Pavese recupera alcuni dei personaggi delle storie omeriche, della tragedia greca, delle Metamorfosi ovidiane. La classicità greco-latina, i miti ellenici, scelti perché “il mito è un linguaggio, un mezzo espressivo – cioè non qualcosa di arbitrario ma un vivaio di simboli cui appartiene, come a tutti i linguaggi, una particolare sostanza di significati che null’altro potrebbe rendere”, dice l’autore stesso, nella sua ‘Avvertenza’. Dei, Titani, Mostri, Semi-Dei, Eroi, Uomini, nel loro complicato esistere e succedersi, incontrarsi, scontrarsi e sopprimersi, amarsi, odiarsi o ignorarsi, durare o scomparire. Tutto questo e altro, nei temi base di tutta la mitologia e la poesia di ogni tempo: la vita e la morte; la sessualità e il sangue; la ‘comprensibilità’ della Natura; la ‘irragionevolezza’ dell’Esistenza… “Non c’è dubbio che Pavese in questi dialoghi sia partito alla ricerca di una simbologia inconscia e dei tramiti in cui poteva avverarsi il passaggio dal proprio ‘caso’ personale, dal proprio orrore di esistere al mito sottostante, all’immensa, brulicante naturalità degli archetipi” (dalla nota introduttiva, di Roberto Cantini). Il dialogo che ho scelto ricorda Bellerofonte, figlio di Sisifo, l’uccisore di Chimera, il mostro della Licia, metà leonessa e metà drago, dal fiato di fuoco. Bellerofonte fu uomo ‘giusto e pietoso’ ma, divenuto vecchio, si sente abbandonato dagli dei. Sembrerebbe la semplice sorte di tutti gli uomini, ma in lui la cosa assume una misura ulteriore: non è soltanto triste, vecchio e solo, lui ‘sconta la Chimera’, cioè il suo destino di essere uccisore di mostro. “Chi una volta affrontò la Chimera, come può rassegnarsi a morire?”. A che serve uccidere l’Essere Mostruoso, se per l’uomo ‘trionfatore’ la conseguenza è, comunque, la vecchiaia, il deperimento e la perdita delle forze, la solitudine, la morte? È la sfida, la possibilità del combattimento, che dà la vita, sapere che una Chimera ti aspetta, da qualche parte tra le rupi. Una volta uccisa, tutto finisce, con lei. Spunto interessante di riflessione, sulla ‘necessità’ dei mostri, e la conseguente impossibilità della loro soppressione, sulla nostra relazione con loro, sulle nostre illusioni di ‘supremazia’… Questo ci insegna colui che “non è più nulla e sa ogni cosa”, e ci mostra la Verità, il nostro ‘Destino’.

In riferimento alla ‘problematicità’ dell’uccisione del mostro, anche Ovidio, parlando dell’Idra (Met. IX,70-73), ci ricorda: “Vulneribus fecunda suis erat illa, nec ullum / de centum numero caput est impune recisum, / quin gemino cervix herede valentior esset”. Anche questa è una lezione del mostro che dovremmo far nostra: la capacità di rigenerarsi dalle proprie ferite.

Altri Dialoghi si potrebbero leggere, tutti molto ricchi e stimolanti per le nostre riflessioni. Ne riporto solo un secondo, senza commento, il bellissimo ‘La rupe’, che lo stesso autore introduce così: “(nell’era titanica) qualcuno anzi pensa che non ci fossero che mostri – vale a dire intelligenze chiuse in un corpo deforme e bestiale. Di qui il sospetto che molti degli uccisori di mostri versassero sangue fraterno”.

A proposito, comunque, del destino di uccisore del mostro, apriamo un nuovo capitolo.

 

Un sogno nel sangue:
la tensione profonda verso l’altro

…ha incrociato una volta

da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,

e.ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,

ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue

e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia…

La bella poesia di Pavese (I mari del Sud) porta il fuoco della nostra lente d’indagine sopra un’opera unica, ci dischiude un nuovo universo da esplorare. Non a caso, fu proprio lui, lo scrittore piemontese a portare in Italia e a tradurre per primo il capolavoro di Melville.

In effetti, uno degli aspetti positivi di tutto questo frugare tra mostri, per me, è stata proprio la ‘discesa’ nel Moby Dick. Uno dei libri che da tutta la vita mi porto dietro nei miei traslochi esistenziali, ma che mai avevo letto integralmente e seriamente. Anche di questo, ringrazio chi mi ha ‘stimolato’ a questa apparentemente insensata indagine. Perché il libro di cui parliamo è molto bello, uno di quelli che vale la pena di aver letto, uno dei pochi di cui è bene fare tesoro, prima di morire.

Ora, ovviamente, non faccio qui l’analisi del ‘romanzo’, chiamiamolo così (“un vero e proprio poema sacro cui non sono mancati né il cielo né la terra a por mano”, lo definì Pavese stesso). Come tutti i veri capolavori, se ne può dire tutto, ma è bene dirne il meno possibile. Lascio agli studiosi, ai critici il loro mestiere. Vorrei riuscire soltanto a capire cosa può insegnare a me questa storia, col girotondo apocalittico dei suoi personaggi, a me, intorno alle questioni su cui sto riflettendo.

Ma non è cosa facile: significa voler classificare, né più né meno, gli elementi del caos.

Il vocabolario mi suggerisce che il latino Ballaena descriveva un animale fantastico che appariva e scompariva improvvisamente. Da questo, il nostro ‘balenare’, lampeggiare, brillare e subito scomparire. Interessante anche l’etimo di ‘cetaceo’, dal latino coetus, di derivazione greca Ketos: mostro marino. Ecco perché qualche traduzione della Bibbia traduce effettivamente il termine di Genesi 1,21 con ‘cetacei’.

Oggi, di questi animali meravigliosi sappiamo quasi tutto. Misticeti (balene) e odontoceti (delfini) sono mammiferi a tutti gli effetti, e specializzatissimi, respirano con polmoni, hanno sangue caldo, ghiandole mammarie con cui allattano i piccoli; alcune specie possiedono un cervello grande all’incirca come quello dei primati. Soprattutto le dimensioni, sono impressionanti: un capodoglio può arrivare ad una lunghezza di 20 metri e a un peso di 60 tonnellate!

Chi sono io, per presumere di pigliare all’amo il naso del Leviatano?

Quindi la Balena, scelta come biblico ‘Leviatano’ dallo scrittore americano è decisamente affascinante. Vero simbolo animale di ciò che è strutturalmente e fisiologicamente vicino e assimilabile a noi (sistema respiratorio, circolatorio, nervoso, riproduttivo), e di ciò che rispetto a noi è anatomicamente e morfologicamente totalmente sproporzionato (dimensioni, habitat, comportamento, vita sociale). Melville, se vogliamo, come Genesi, mette uno di fronte all’altro, l’uomo e il suo mostro. Ma, vorrei dire, lui va oltre questo: ci invita a prendere in considerazione l’ipotesi più ardita. Tra le tante simbologie che possono essere attribuite alla Balena Bianca, non credo sia da escludere il riferimento all’Essere in assoluto, cioè a Dio.

E di tutte queste cose la balena albina era il simbolo.

“Moby Dick è per ognuno ciò che ognuno lo crede”, dice con molta ragione Nemi d’Agostino nell’introduzione alla mia edizione del romanzo. Per Padre Mapple è il mostro biblico, strumento misterioso di Dio, di cui bisogna soltanto accettare l’operato, e dunque inseguirla per vendetta è blasfemia; per Achab è “il cancro che aveva nell’anima”, incarnazione del male metafisico, orrore della natura che deve essere estirpato; per Quequeg è un demone contro cui i suoi fratelli selvaggi da sempre hanno lottato; per Stubb e Flask un semplice sorcio d’acqua ingigantito… e per qualcuno può perfino non esistere. Mi pare che siamo decisamente nel campo della ricerca teologica. “Solo per Ismaele essa è tutto questo e più”: l’io narrante raccogliendo in sé tutte le convinzioni individuali dei vari personaggi, e riuscendo a fonderle nella sua visione empatica e onnicomprensiva, ci propone l’unico modo ‘sensato’ di porsi di fronte all’Altro: la comprensione rispettosa, l’inchino davanti al Mistero, quel tentativo di incontro e conoscenza profondo, che potremmo definire: ‘Relazione d’Amore’.

… e sventolando nell’aria la coda ammonitrice come una bandiera, il gran dio si mostrò, si tuffò e scomparve.

Ancora citando d’Agostino: “Ambigua come la natura … benigna e malvagia, vulnerabile e immortale … la balena leggendaria comprende in sé l’essere e il non-essere … In quel bizzarro abbozzo di sistema cetologico che Ismaele si rimugina in testa durante gli ozi di bordo (e che è manuale scientifico-pratico e inchiesta sul Profondo, rassegna delle meraviglie del mare e trattato sull’altra faccia delle apparenze, tentativo di classificazione del Caos e allegoria della ricerca del Vero) più si indaga sulla balena e più si scoprono solo misteri. Associata fin dall’inizio al mistero stesso dell’Essere, al Caos e alla Divinità, essa è anche l’altro da noi che è parte di noi. Evitarla vuol dire evitare noi stessi, volerla distruggere volerci distruggere…”. Solo una buona disposizione, quindi, davanti all’altro da me che è parte di me, solo l’Accettazione, il Rispetto, la Benevolenza consapevole, la sana Curiosità, l’intelligente riconoscimento d’essere parte d’un Unico Tutto, può salvare, cioè restituire il senso vero all’esistenza: Ismaele, disponibile a “riverire il mistero delle cose”, è l’unico personaggio della storia capace di sopravvivenza e rinascita, e l’unico a poter testimoniare tutto questo. “E sono scampato io solo per informartene”, scrive, citando ancora Giobbe, nell’ultima pagina l’autore del Moby Dick. Quell’Amore, che è rispettosa disponibilità alla conoscenza dell’Alterità, ci propone Melville nel suo capolavoro. Strappo una decina di righe dal libro, come esemplificazione narrativa dell’Amore di cui parlo.

Ma del grande capodoglio, quell’alta e possente dignità divina che inerisce alla fronte è così immensamente ampliata, che se lo guardate bene di fronte sentite la divinità e le tremende potenze più fortemente che alla vista di qualsiasi altra cosa viva nella natura. Perché non vedete nessun singolo punto, nessun tratto distinto, né naso né occhi né orecchi né bocca, nessuna faccia perché il capodoglio non ne ha, nulla tranne quell’unico vasto firmamento della fronte, pieghettato di enigmi, silenziosamente gravato del destino di navi, lance e uomini. Né di profilo questa fronte meravigliosa appare più piccola. […] Di profilo vedete benissimo quella depressione orizzontale, a forma di semiluna spezzata, che per Lavater è nell’uomo il segno del genio. Ma come, genio in un capodoglio? Ha mai scritto un libro o pronunciato un discorso, il capodoglio? No, il suo grande genio si rivela in questo, che egli non fa nulla di speciale per provarlo. E inoltre è dichiarato nel suo silenzio da piramide. […] Come può sperare questo ignorante Ismaele di leggere il tremendo caldaico della fronte del capodoglio? Non posso che mettervela davanti. Leggetela voi se potete.

Ismaele si pone così, davanti alla Balena bianca. Sono capace, io, di mettermi in questa posizione di prossemica relazionale amorosa, di fronte a ciò che mi appare infinitamente diverso dalla norma a cui sono abituato? Ognuno di noi, ha questo terribile compito. Guardare la fronte del Capodoglio. Provare a leggere quelle enigmatiche rughe, ascoltare quel misterioso impenetrabile silenzio…

Il baleniere è solo in acque così solitarie.

 

Il morso nella carne, il verme del pensiero:
soma e psiche

Moby Dick non ti cerca.

Sei tu, che pazzamente lo insegui.

A. Del mostrarsi del Diavolo.

Qualche pagina indietro abbiamo lasciato scivolar via Victor Hugo mentre sconfinava nel ‘demoniaco’. Proviamo a riacciuffare per la coda la bestiaccia… Anni fa dentro una sacca di libri che un amico mi ha portato trovai pure un ‘Trattato di Demonologia e Manuale dell’Esorcista’, dall’inquietante titolo: “Summa Daemoniaca”. Confesso di non averlo mai aperto, ma ora mi pare il momento di dargli una sfogliata. L’autore è un sacerdote teologo spagnolo, naturalmente specializzato in demonologia ed esorcista. Scorrendo il libro capisco perché istintivamente l’ho un po’ ignorato. La materia è decisamente lontana dalla mia sensibilità, in più è organizzata e presentata in una forma per me di difficile penetrazione. La struttura del libro, il tipo di linguaggio usato, perfino la veste grafica, tutto impedisce che questo libro mi risulti simpatico. Ma ho solo questo sull’argomento, quindi cercherò di raccogliervi qualcosa, nonostante tutto. Nella ‘Questione 51’, “Che forma hanno i demoni quando si manifestano agli uomini?”, trovo un’osservazione che mi sembra interessante per l’apertura di orizzonte di questo capitolo: “Quando diciamo che Satana è un drago o un serpente, quello a cui in realtà ci riferiamo è il suo carattere mostruoso, fiero, velenoso e astuto, tipico di questi esseri. Ma non ci riferiamo ad un’immagine concreta, dato che Satana continua ad avere l’aspetto di un bellissimo angelo nonostante la ripugnanza del suo aspetto morale. Ha sofferto una deformazione solo nella sua persona, ma non nella sua natura. Il suo essere personale si è deformato, ma la sua natura resta e resterà intatta, faccia quel che faccia. Dato che entrambe le cose sono inseparabili, egli in verità è un mostro, un essere deforme, qualcuno che causa ripugnanza e avversione”. Direi che questo è condivisibile, ad ogni livello, al di là di ciò che pensiamo sull’esistenza ‘personale’ di Satana. Il Mostro non sempre si presenta vestito da mostro, a volte il mostruoso è invisibile allo sguardo, si nasconde dietro un’apparenza ‘angelica’, e magari allora è anche più pericoloso e devastante. Ognuno potrebbe ricordare nella propria vita incontri e accadimenti del genere, maligne mostruosità mascherate da eventi luminosi, con i danni che magari ne sono conseguiti.

  1. Nel Mare della Psiche, i Mostri dell’Inconscio.

Non mi allontano troppo. Leggevo in questi giorni un tomo d’una collana di studi sulla psicologia del profondo: “Colpa. Considerazioni su rimorso, vendetta e responsabilità”. Un bel polpettone, ma parecchio interessante. Nel bel mezzo delle sue ‘analisi’, l’autore inserisce uno strano ‘interludio’, dal titolo: ‘Il diavolo con le mammelle’, sul significato psicanalitico dei demoni, indagato attraverso lo loro raffigurazione e il loro sesso. Il punto di partenza, direi, è il ‘bisogno di creare demoni’ in tutte le popolazioni e religioni antiche, come intermediari, mediatori tra l’uomo e la divinità. Questi spiriti possono essere benigni o maligni, e le loro raffigurazioni e interpretazioni variano da cultura a cultura. Il Serpente, ad esempio, simbolo fallico per eccellenza, in ambiente biblico è archetipo del ‘tentatore’, nella cultura cinese diventa il Drago, simbolo del Verbo creatore; nella saga sumerica di Gilgamesh è il nemico che induce al male, mentre nella tradizione cretese allude alla capacità di curare, di guarire, metafora quindi di rinascita dopo la malattia (la capacità di ‘cambiare pelle’), da cui anche il mito di Asclepio e il serpente simbolo della Medicina.

Altre figure apparentemente terrifiche del buddhismo cinese o giapponese, sono in realtà protettori di individui e luoghi sacri, difendendoli da influssi malefici. Interessante questo passaggio: “Nel momento in cui perde la sua funzione di intermediario, il demoniaco sembra predisporsi a divenire il ricettacolo delle proiezioni di tutto ciò che gli esseri umani non possono tollerare in se stessi e nella vita. O più semplicemente: non vogliono o non possono conoscere pienamente”.

  1. La Malattia come Disordine.

Arriviamo così a uno dei risvolti per me più interessante del ‘mostruoso argomento’. La riflessione sulla Malattia come concretizzazione della Paura, il Male fisico o psicologico come trasformazione neuro-organica, fisio-patologica, dei fantasmi e dei simboli del pensiero. Il Mostro che diventa la ‘confusione’ delle mie cellule, il panico della mia memoria immunitaria, l’ingarbugliarsi delle mie strategie biologiche difensive. Raccolgo un paio di stimoli da una raccolta di saggi di diversi autori (Il Male, a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica).

Innanzitutto la conferma che il Male può arrivare dall’esterno, ma anche dall’interno di noi, più precisamente: “L’oscura consapevolezza di essere esposti non solo al male che bisogna subire da parte degli altri ma anche a quello che può nascere, in particolari circostanze, dal fondo melmoso e oscuro di ciascuna esistenza”. L’uomo mente a se stesso, e piuttosto che riconoscere il male dentro di sé, lo rimuove, lo rinnega, lo proietta all’esterno. Questo “ci fa individuare come nemici coloro che sono diversi, combattere le idee che non abbiamo pensato, rifiutare la realtà che non riusciamo a possedere e a manipolare”. E soprattutto non ci permette di difenderci dall’attacco distruttivo di quel male interiore che abbiamo infantilmente ignorato o scaraventato altrove.

Ancora: l’organizzazione delle strategie terapeutiche nel rapporto dell’uomo con il male. “Con la malattia il disordine irrompe nella vita del soggetto e della società, ne altera gli equilibri. Il ruolo del medico e della medicina ha sempre avuto attinenza con la capacità di ripristinare un ordine, un equilibrio alterati. Ruolo che l’etimologia conferma: il latino medeor (guarire) e il greco mèdomai (prendere cura di) derivano dalla radice indoeuropea med– che implica il senso di ‘misura’, ma non con il significato di misurazione, bensì con quello di moderazione (latino modus, modestus), quella moderazione necessaria a ristabilire un ordine perturbato”. ‘Guarire’, quindi, non è tanto ‘far passare un malato allo stato di salute’, ma piuttosto ‘sottomettere un organismo turbato a regole previste, riportare l’ordine in una perturbazione’. Da questo concetto deriva quello di ‘incurabilità’, la ‘forza’ che si oppone con ogni mezzo al ristabilimento dell’ordine “ancorandosi con determinazione assoluta alla malattia e alla sofferenza. Questi fenomeni costituiscono prove inequivocabili della presenza, nella vita psichica, di una forza che per le sue mete denominiamo pulsione di aggressione o di distruzione, e che consideriamo derivata dall’originaria pulsione di morte insita nella materia vivente” (Freud). La domanda conseguente è: come mettersi davanti all’incurabile? Cioè, come aver cura della sofferenza altrui se essa appare immodificabile? È possibile curare, senza pretendere di trionfare, di modificare, di cercare di mettere ostinatamente in ordine ciò che è definitivamente fuori quadro? “Di fronte alle apparenti contraddizioni presenti in queste domande sarà utile fare riferimento al pensiero junghiano, che proprio nella contrapposizione degli opposti apparentemente inconciliabili riconosce il principale aspetto dinamico della vita psichica. […] È indubbio che nella sua visione della psiche e dell’esistenza umana il male, il negativo svolgono un ruolo attivo, inducendo un’integrazione e un allargamento dell’orizzonte di coscienza. Nel pensiero junghiano il confronto con il male contiene un’intrinseca possibilità di rovesciamento nell’opposto: da un massimo di negatività può emergere la possibilità di una trasformazione positiva, che si sviluppa attraverso un’esperienza simbolica in grado di conciliare le componenti della personalità che fino a quel momento si escludevano reciprocamente”. Davanti alla ‘incurabilità’, il primo passo è l’accettazione dell’incurabilità stessa, per arrivare con pazienza alla consapevolezza che ciò che può essere utilmente trasformato non è il disturbo, che in quanto incurabile rimarrà immodificato, ma il ruolo che esso svolge nell’economia psichica complessiva del soggetto. Questo, in sostanza, il ‘rovesciamento nell’opposto’ junghiano: “rinunciare a una volontà trasformatrice può essere talvolta la sola via che rende possibile la trasformazione”. Che poi non è altro che il principio che sta alla base della mia personale dolorosa esperienza di morte/risurrezione e della mia attuale esistenza cristiana.

D. Nel segno del Cancro. La poesia in un guscio di noce.

Per molto tempo, la “metafora privilegiata dell’incurabilità” era identificata con il cancro. Esso è anche uno dei mostri che più ci spaventano: cosa c’è di più abnorme e allucinante, infatti, di un Essere che nasce e cresce dentro di me, ospite indesiderato e imprevisto, ingombrante, invadente, inarrestabile, che mi occupa, mi consuma, mi deforma, mi prosciuga la vita da dentro? Ho davanti uno dei libri che più ho amato da giovane: “Di cancro si vive”, di Luigi Oreste Speciani. Leggo che l’antico nome egizio di granchio (tradotto in greco karkinos e in latino cancer) viene dall’aspetto osservato dagli imbalsamatori che aprivano l’addome del cadavere, simile a un crostaceo, con una massa centrale e gettate radiali periferiche. Perché ne scrivo qui? Cosa c’entra questo mostro con la mia vita? Quanto la minaccia? Quanto lo temo, o lo desidero? Lo combatto o lo invoco. Non lo so. Nessuno, probabilmente, lo sa. Io, però, ricordo. Era l’ottobre dell’83, avevo dunque 23 anni, e per tre giorni partii da Mornese al mattino alle cinque, un treno da Arquata, verso Milano. Il congresso si intitolava “cancro perché”, così, tutto minuscolo e senza punto interrogativo, organizzato dalla Società di Medicina Psicosomatica e dall’Istituto di Medicina Integrata. Ho tra le mani, 35 anni dopo, gli atti di quel congresso. Se mi chiedo cosa mi portava là, solo, in un ambiente in cui non c’entravo davvero nulla, proprio non so rispondere. Eppure, credo, la mia vita doveva passare anche attraverso quella grande sala da conferenze. Qualcosa deve essersi piantato, dentro di me, di quell’esperienza. Niente è rimasto, nella mia memoria consapevole, dei discorsi che ora rileggo su queste ultradatate pagine. Ma piango, ripensando al dolcissimo volto di una ragazza, che nelle pause leggeva Castaneda. Scrissi per lei una poesiola (sicuramente impresentabile!), la chiusi in un guscio di noce, e pensai che se riuscivo a fargliene dono, se avessi saputo chiamare per nome la Bellezza, guardarla negli occhi, in qualche modo avrei allontanato per sempre da me il Mostro Maligno. Oggi penso: il gheriglio ha la forma del cervello, il sentimento poetico è il cuore: era il mio modo goffo di mettere l’Amore al posto della Ragione, una terapia ‘alternativa’ nella prevenzione del Male. Non so dire nulla di più di queste poche stupide banalità. Se non che, ovviamente, non fui capace di far arrivare quel bigliettino a quella mano. Mi consolai però, quando sentii dire che i pazzi hanno una probabilità molto bassa di ammalarsi di cancro…

Torniamo all’oggetto. Mi piace questa definizione: “Il cancro è una crisi esistenziale, primitivamente emozionale e sentimentale, che solo successivamente si somatizza nella nostra architettura fisica e cellulare”. Chi dice questo, conclude così il suo intervento: “In rigorosi termini probabilistico-statistici ed entropici, la crescita tumorale identifica il comportamento autonomo della cellula normale nei suoi stadi precoci di sviluppo (disgenesia regressiva). Siamo invece noi, gli organizzati, ad essere straordinariamente improbabili, e costretti a reinventare questo equilibrio psico-morfo-funzionale, matematicamente impossibile, ad ogni istante della nostra vita come organismi. A rischio, se si turba o si infrange, di regredire (biologicamente!) a uno stato cellulare entropicamente più probabile, quale una coltura non-organizzata di amebe, limitata solo dall’esaurimento del pabulum”. Ecco, dunque, la verità. Il mostro sono io, non la mia malattia. Io sono, l’Improbabile, il complicatissimo marchingegno, l’esagerato divoratore di energia. La minaccia più grande, per me e per tutto, sono io. Che quel Principio Ordinatore, capace di tenere insieme l’universo di 60 trilioni di cellule del mio corpo, che muoiono e si rigenerano al folle numero di 18 biliardi al minuto, continui ad occuparsi con benevolenza di me…

Rimando ad uno degli articoli della rivista che raccoglie gli atti del convegno (allegato 7), che affronta il panorama simbolico contenuto e scatenato dalla malattia. In fondo, il mostro che mi cresce dentro, la balena che mi rosicchia dalla pancia, non è altro, forse, che un estremo tentativo di ri-creazione di me, confusa e male orientata certamente, ma spinta vitale, comunque, energia novella che vuole prendere forma, il figlio a cui ‘dare la vita’, ribelle, malefico, magari assassino, come di frequente i figli sono, ma che non posso non amare, perché è parte di me. Spesso, la parte più preziosa, più personale, più intima, inconfessabile, di me.

E. ‘Quel che ho inteso dall’esempio dei semi’.

Ho parlato di Amore risanante. Mi viene in mente il suo opposto. La declinazione della ‘mostruosità dell’amore’. Eros strettamente congiunto con Tànatos. Conosco un luogo, dove questo si fa carne viva, pagine in cui quel tema prende dolorosamente Corpo. Il Teatro di Pier Paolo Pasolini. Dovremmo leggere una ad una le sue sei tragedie, per vedere rappresentato in tutta la sua esplosiva drammatica problematicità il nodo della ‘Diversità’ nella relazione d’amore, come metafora della dialettica persona/società, o meglio del rapporto ‘incurabile’ tra individuo e Potere. Calderon (diverse variazioni oniriche sull’Incesto mitico), Orgia (l’inutile e distruttiva evasione-fuga sadomasochistica nella coppia piccolo-borghese), Affabulazione (il difficile rapporto tra un Padre e il Figlio, in una reinvenzione dei miti di Crono divoratore della prole e di Edipo parricida), Pilade (diversità incarnata, come Disadattamento, bestemmia alla Religione della Ragione), Porcile (la zoorastia, abominevole commercio carnale con i maiali del figlio ribelle, come il più infimo oggetto di passione amorosa, per contrastare la più infima abiezione del Potere paterno assassino), Bestia da Stile (l’autobiografica esposizione ‘definitiva’ del poeta, che si offre sull’Altare dell’Impotenza). Questo il campo di battaglia in cui lo scontro avviene, il campionario di ogni possibile inquadratura del tema: “l’analisi delle pulsioni oscure e violente che agiscono dal profondo dentro di noi, fra noi e intorno a noi” (Aurelio Roncaglia). Il corpo umano si sperimenta come il luogo del sacrificio, la vittima sacrificale e, in un certo senso, anche il sacerdote officiante, in un terrificante Rito dell’Essere se stesso nell’Essere Altro.

Da un saggio che indaga l’articolata posizione di Pasolini rispetto al Sacro mi piace raccogliere questa osservazione: “Con la soppressione delle culture popolari, soprattutto nel loro carattere religioso, si è perduto un momento che risultava fenomenologicamente essenziale alla cognizione del diverso, all’avvertimento del mistero, di ciò che si svela come ‘completamente altro’”. Con lo smarrimento del sentimento del sacro, l’alterità si muta in diversità, si perde la capacità di aprirsi ad accogliere l’altro in quanto irriducibile altro. Citando Baudrillard: “Non esiste razzismo finché l’Altro è Altro, finché lo straniero resta estraneo. Il razzismo comincia ad esistere non appena l’altro diventa diverso, cioè pericolosamente prossimo. È a questo punto che si sveglia la velleità di tenerlo a distanza”. La democratica frase: “siamo tutti uguali”, cioè, significa in realtà: “l’altro deve essere uguale a me”. Ciò che si identifica come ‘diverso’ diventa un ostacolo, da rimuovere, da sopprimere o, se questo non è possibile, da ‘tollerare’. Nel Prologo di Orgia Pasolini fa dire al suo personaggio, l’Uomo, morto da poco: “Cos’è insomma la Diversità / se non un puro termine di negazione della norma? / E quindi parte della norma stessa? / E, quel che importa, che cosa deve fare chi è Diverso? / Negro, Ebreo, mostro, cosa sei tenuto a fare?”. Pasolini, nel testo citato come nel drammatico compiersi della sua esistenza (morirà ad Ostia, ricordo, dal latino hostia, vittima espiatoria!), sembra concludere che il Diverso è costretto ad accettare un destino di Sacrificio: solo andando incontro alla Santità può riaffermare la propria sacralità e quindi quella del mondo[2]. “‘Luogo’ dove solo il poeta può accedere e da cui, nello scoprire il senso dell’irriducibilità degli opposti, può denunciare come un’illusione mortifera la pretesa universalistica della cultura dominante che, nella ‘certezza’ di poter riconciliare, finisce al contrario col distruggere tutto ciò che è altro da sé”.

F. Io sono te. La Lezione del Corpo Deforme.

Il piano sociale, il piano morale. Il piano fisico. La ‘difformità’, come condanna, come destino, come scelta, come antagonismo, come vocazione… C’è ancora una sezione che dobbiamo almeno citare. Il sottotitolo del testo che prendo come riferimento recita: “Mostri o mutanti, scherzi di natura, incubi viventi, incarnazione delle nostre paure, caricatura delle nostre illusioni”. Si tratta di una ricerca approfondita che parte dalla teratologia per arrivare alla rivoluzione culturale degli anni 60-70 del Novecento, dalla teologia al ‘Baraccone dei Fenomeni’. Dalle tavolette babilonesi a Plinio, dai trattati medievali al film di Browning.

Credo che la cosa migliore sia allegare direttamente e integralmente il libro, così da permetterne la sua più approfondita fruizione. Si tratta, ovviamente, di Freaks, di Leslie Fiedler. Buona lettura e proficuo utilizzo! (allegato 8).

Segnalo soltanto alcuni spunti, raccolti dall’introduzione al saggio, che potrebbero essere approfonditi e arricchiti da altre riflessioni e testimonianze.

In primo luogo la questione del ‘nome’: come chiamare ciò che si manifesta come diverso?

Ricordando anche l’etimologia del termine ‘mostro’, che ci dà informazioni interessanti: da moneo, ammonisco, o monstro, esibisco, entrambi i significati dicono che l’oggetto mostruoso non è soltanto qualcosa da guardare con disgusto o paura, da allontanare o sopprimere, o peggio, da ignorare, ma è qualcosa che ci serve, è messo lì, davanti a noi, per insegnarci, ricordarci qualcosa, mostrarcela, appunto. L’Anormalità fisica, psicologica, esistenziale, non è un capriccio, un errore della Natura, ma fa parte a pieno titolo del Disegno della Provvidenza (come anche Genesi ci ha suggerito).

L’autore ci spiega bene il “senso di sgomento quasi religioso” di fronte all’essere ‘strano’. Uno spavento irrazionale, davanti a qualcosa che ‘ci guarda’, ci riguarda, ci chiama, come dicendoci: “Noi ti conosciamo. Noi siamo te!”. Un’ansia profonda, un timore atavico, perché il ‘deforme’ raccoglie in sé tutte le nostre paure primordiali: la violazione dell’armonia e delle proporzioni organiche; la sfera della sicurezza e della funzionalità sessuale; il confronto ‘presuntuoso’ con le altre specie animali e l’angoscia per la nostra componente ‘bestiale’; il territorio, i confini, la precisa definizione della nostra identità. Da qui l’analisi della Psicologia del Profondo, soprattutto a partire dalla letteratura per l’infanzia.

Dalle più antiche testimonianze dell’inspiegabile deformità teratologica ai nani e buffoni di corte, dalle esibizioni nei ‘Freaks Show’ ottocenteschi agli stati mentali alterati da sostanze allucinogene degli anni 60, fino all’ostentazione parossistica di tatuaggi e piercing e alla ricerca estrema, ai limiti e oltre i limiti dell’autolesionismo, della Body Art, la recezione del ‘Fenomeno della Ripugnanza’ oscilla, dal vertice del sublime all’abisso dell’orrido. Sbagli o punizioni di Dio, oppure premonizioni, auspici di sorte favorevole? Perversione dell’ordine naturale, oppure rivelazioni dell’Io più segreto? Segno, dono, arricchimento, oppure macchia, nemico, colpa del genere umano? Colui che mi porta ciò che mi manca, che mi insegna ciò che non so, oppure insolente, inutile, comico aborto di me?

 

Vedere dalle orecchie, sentire nelle mani,
toccare con gli occhi

Appunti per la lettura teologica di un film

In lui era la vita…

Bene. Ho già scritto tante bestialità. Ora butterò giù la più grossa. Sto per mostrare tutta la mia mostruosità concettuale. Cammino sul filo della Bestemmia, e sento che sto per scivolar giù. Perciò, chi è troppo sensibile d’animo o troppo dogmatico di mente, chi ha cuore debole o cervello raffinato, può tralasciare la lettura di questa pagina. Ma, per chi ha ancora curiosità e coraggio d’ascoltare, voglio dire da ultimo questo. Se davvero il Mostro è colui che ci ammonisce, ciò che attraverso lo Stupore ci racconta qualcosa, attraverso il suo Essere fuori norma ci fa conoscere la Norma, se è il Portatore di Novità, il bizzarro, paradossale Educatore, l’Insegnante esagerato di Tutto, allora… per me, il mostro più mostruoso, il vero Mostro Maestro, è Lui, l’uomo Gesù Cristo. Riflettiamo: una nascita a dir poco misteriosa; una vita fatta di gesti stravaganti (uno su tutti? camminare sull’acqua…); l’ostinata propensione alla provocazione; la sua soppressione ‘scandalosa’, vera e insostituibile e consapevole Vittima Sacrificale; la ‘discesa nel ventre della terra’, il suo ‘durare’, oltre la morte, oltre ogni morte, ucciso infinite volte, ogni giorno, sempre Vivente, e continuamente risacrificato per la liberazione dell’Uomo. Colui che era, che ancora verrà. Il sempre Presente. Conoscete un essere più mostruoso di questo? Lo conferma il Catechismo: una sola persona, due nature, l’umana e la divina (Concilio di Calcedonia, 451). Doppia natura, come detto, caratteristica fondamentale dell’Essere Altro.

Questo bizzarro cappello introduttivo mi serve per affrontare l’ultimo compito: organizzare alcune riflessioni intorno ad un film. Mi hanno regalato un dvd, e ho promesso di vederlo. Non so nulla della storia, non conosco l’autore. Quindi sono completamente libero da qualsiasi preconcetto d’analisi, posso godermi la visione, e lasciar correre il pensiero e la fantasia.

Guardo La forma dell’acqua (di Guillermo del Toro, Premio Oscar come miglior film, 2017) nel giorno della memoria di Maria Maddalena, la donna che seppe così amare il Cristo, da incontrarlo per prima dopo la sua morte. Uno dei primi pensieri, finita la visione, è se questo non è un Vangelo. Mi chiedo: che differenza c’è fra l’Essere descritto e Gesù Cristo? Anche alcuni Evangelisti terminano la loro narrazione con la constatazione: “Tu sei un Dio!”, ultima battuta del ‘cattivo’ persecutore morente, sovrapponibile al: “Davvero quest’uomo era figlio di Dio” pronunciato dal centurione, dopo la morte di Cristo, in Marco 15,39. Del resto, cos’è il Messia, se non il Maestro, il Profeta dell’Amore, che è direi anche il senso globale dell’Essere descritto nel film: Colui che spalanca nuove possibilità alla relazione d’Amore. Tra l’altro, fin dall’inizio si dice di lui che da alcuni (i ‘Primitivi’ del luogo da cui è stato prelevato, un fiume in Amazzonia) viene creduto un Dio. Questa ‘ipotesi’ torna nel corso del film, ad esempio nell’episodio dell’incontro tra la ‘creatura’ e il gatto. La poesia finale, poi, non lascia troppi dubbi e conferma l’indirizzo di lettura che sto proponendo: il film è, anche, una parabola ‘teologica’, si parla della Relazione con Dio. O meglio, ma è lo stesso, della possibilità di una relazione d’Amore ‘Ulteriore’ con l’Essere Altro. Trascrivo gli ultimi versi che la voce fuori campo dell’amico della protagonista recita sulla scena finale del film, nella fusione totale dell’Essere nell’ambiente originario che lo accoglie:

Incapace di percepire la Tua Forma / Ti trovo ovunque intorno a me / la Tua Presenza mi riempie gli occhi / e con il Tuo Amore / il mio cuore si fa piccolo / perché Tu sei ovunque…

Un sonetto di Shakespeare? Una canzone di John Donne? Un frammento della Dickinson? Non so. Sant’Agostino, praticamente. Per alcuni aspetti, direi che tutto il racconto del film ha qualcosa del Cantico dei Cantici, il Libro della Bibbia in cui si cerca di descrivere l’esperienza unitiva tra uomo e Dio, attraverso le parole dell’Amore umano, anche nella sua dimensione più fisica.

Tra l’altro, sempre a conferma di quel che sto dicendo, notiamo che i rimandi biblici sono diversi, e importanti: ricordo qui solo l’episodio di Sansone, interamente raccontato in due puntate, come collegamento e rimando tra l’inizio (la presentazione dei personaggi buoni e cattivi, col riferimento all’amica di nome Dalila) e la fine (col ‘tradimento’, la delazione che, attraverso la pur incolpevole stessa Dalila, introduce la catastrofe finale). In effetti è probabile che questa citazione del personaggio biblico sia usata proprio per contrasto, a dimostrazione che l’amore cercato nell’esclusiva dimensione umana, senza il necessario fondamento divino, non può che portare alla rovina definitiva dell’esistenza.

Riassumendo all’osso la trama: come spesso accade nei film di ambientazione e tematica più o meno fantascientifica, si tratta della lotta tra il Bene e il Male. Ma qui non sul piano politico, sociale o morale, ma nel suo significato più alto, Religioso. La contrapposizione è tra ciò che sembra capace di provare Amore, e chi invece, tetragono, ne risulta impermeabile, come vetro su cui scorrono gocce di pioggia.

Annoto, in ordine sparso e senza svilupparli, alcuni spunti tematici, su cui si potrebbe riflettere (lo confesso: sono troppo pigro per sistemarli e approfondirli…).

. perché la Maddalena/Elisa ‘sente’, è ‘capace di riconoscere e incontrare’ l’Essere sommerso nella sua materia fluida?

. c’è una ‘predisposizione’ alla ‘chiamata’e all’incontro? (la ragazza ha già prima una sua relazione ‘erotica’ con l’acqua, se ogni mattina si masturba immersa nella vasca piena!)

. perché è muta? C’è un Silenzio che è necessario all’Incontro? La diversità, la ‘menomazione’ dispone al ‘sentire’? Le Diversità si attraggono?

. perché il primo ‘Contatto’ avviene attraverso l’Uovo (simbolo dei simboli, riferimento creazionale, che dice Inizio, Fecondità, Nascita, Vita, Riproduzione; anch’esso già anticipato dal timer della colazione).

. qual è il significato profondo dell’offerta rituale del cibo?

. il senso, anch’esso mistico e cultuale, della Musica e della Danza.

. anche il Male, la forma assoluta del Negativo, si costruisce e propone come un dio. Il dio dell’Autosufficienza, dell’Autoimposizione, dell’uomo Artefice di sé e Capace di Tutto. Il Grande-Estimatore-di-Se-Stesso. Anche questo dio perverso chiede il Silenzio, ne è attratto, eccitato. L’Amore, a qualunque livello, sembra non abbia proprio bisogno di parole umane.

. episodi di Guarigione miracolosa (la ferita al braccio; la crescita dei capelli; anche i muti parlano!). L’importanza dell’Imposizione delle Mani, gesto sacro per eccellenza, usato qui sia come atto risanante, sia come Benedizione finale al momento della separazione.

. cosa sono, invece, le due dita strappate, (le Colonne del Tempio), e perché sono rigettate?

. la ridicola e disastrosa autostima dell’uomo sempre votato al male: “Io non fallisco, io risolvo”, davanti all’inarrestabile e salvifico Disegno Superiore dell’Amore.

. la ‘Risurrezione’ dell’Essere. E la ‘Partecipazione’ alla sua Vita Ulteriore: apparentemente Elisa, nell’Unione Sponsale marina definitiva ritorna alla vita: nell’Abbraccio e dopo il Bacio dello Sposo, in lei torna il Respiro.

. la ‘doppia natura’ dell’Essere: Acqua/Aria; somma potenza e libertà vs prigionia, sottomissione, debolezza. L’Essere è in grado di respirare e sopravvivere in due ambienti, ma quello ‘umano’ è soffocante, opprimente, avvilente; quello ‘immerso nell’Alterità’ invece è liberante e rivitalizzante nel modo più pieno e totale.

. il genere ‘Parabola’: ricercata ingenuità, irrealismo e parossismo come cifra narrativa, sforamento e contaminazione di generi (spy-noir-fantasy-horror-love-musical), con il gusto per il rovesciamento spiazzante (fantascienza proiettata nel passato, il russo buono, ecc.), che ambienta e facilita la considerazione del ‘Diverso’ come migliore del ‘Normale’; il finale nell’inevitabile proiezione favolistica di felicità e contentezza senza fine.

. il discorso sulla ‘Solitudine’: tutti i personaggi sono infinitamente, irrimediabilmente, definitivamente soli. L’unico farmaco contro la Solitudine pare essere questo: credere, praticare, ‘salvare’ l’Alterità.

. da dove viene l’Essere? (dal Fango! è un nuovo Adamo?). A cosa serve? (è salvifico? come? individualmente, per la ragazza, probabilmente sì, ma la dimensione Universale e Cosmica della Salvezza? Come siamo coinvolti nella sua Presenza? dalla sua Sopravvivenza? dal suo Ritorno alla Vita?).

. cosa è l’Altro. Chi è. La ‘Banalità’ certo voluta della Descrizione della Mostruosità. Il ‘Mostro’, il Diverso, l’Altro, non è avere un po’ di membrana tra le dita o le orecchie che si gonfiano… ‘Diversità’, forse, si dà tra chi ha ‘Sentimenti Umani’ e chi non li ha… (su criteri, cioè, di sensibilità, delicatezza, rispetto, disponibilità al sacrificio di sé, ecc.).

. l’Altro come l’Abitatore di un diverso Elemento. Vivere sulla (e venire dalla) Terra; Respirare Aria; Essere fatti d’Acqua; Avere dentro il Fuoco. Colui che usa e combina gli Elementi in modo ‘Diverso’ (ancora nel riferimento a Cristo: calma la tempesta di vento, porta sulla terra il fuoco, cambia la natura dell’acqua, fa tremare la terra alla sua morte).

. il 10 pioverà. Il Divino è padrone degli eventi atmosferici (v., p.e., il profeta Elia e la sua relazione con gli elementi).

. l’Essere ‘Primordiale’ coincide con l’Essere ‘Ultimo’. Il Primo e il Secondo Adamo.

. l’apice del paradossale: il Gesto Sessuale come atto ‘ricreativo’ d’una realtà ‘altra’, diversa, dagli elementi capovolti, appunto (la stanza piena d’acqua!). Ma cosa vuol dire, davvero? E perché l’Acqua, ‘realtà Altra’, invade il Cinema?

. la dolcezza del sentimento, nel canto di Elisa, altro momento di forte ‘tensione religiosa’: “Sei andato via, e il mio cuore ti ha seguito. Dico il Tuo Nome in ogni mia Preghiera…”.

. la Storia di Ruth. Un film di Henry Koster, del 1960 (lo registro con simpatia, per ragioni anagrafiche personali… anche se fa una certa impressione essere coetanei di un kolossal che pare così datato. Ma mi consolo, in quell’anno qualcuno girava Come in uno specchio). Anche il film dentro il film, dunque, è biblico. Perché? E perché l’Essere ci si incanta, ci si perde davanti? Rut è il racconto dell’apertura, dell’Universalismo, dell’Amore verso la Straniera. E insieme la Promessa della Discendenza: dall’Amore tra Rut e Booz nascerà Davide, da cui verrà il Cristo. L’inseminazione della sala cinematografica può farci immaginare una ‘discendenza’ al rapporto tra la ragazza e l’Essere. In qualche profondità oceanica, un Uovo si schiuderà, forse… Di quella citazione cinematografico-scritturistica, degna di nota mi pare anche la prima battuta: “Ho peccato, ho dubitato della necessità del sacrificio…”, che direi distribuisce una certa luce interpretativa sull’intero film, e sulla ‘messianicità’ della mostruosa creatura protagonista.

È poco, lo so. Si può fare meglio. “Non si traggono profitti dal pesce della settimana prima”, per citare il malcitato Lenin! Non sono un critico cinematografico, tanto meno un buon teologo. E anche, il mio cervellino è limitato, e dopo un po’ fuma e puzza come pesce marcio… Però il film mi è piaciuto, non so dire cosa, ma qualcosa mi ha dato. E sicuramente, ci può anche aiutare a considerare la Vita non “il naufragio dei nostri piani”, ma una splendida nuotata nel mare dell’Amore, del piano di Dio.

 

Conclusione inconcludente:
mostrando-mi-nascondo

A quanti però lo hanno accolto

ha dato il potere di diventare figli di Dio…

Dall’Incontro con l’Altro ci sono tanti modi di ‘venirne fuori’. Si può far finta di niente. Si può farsi toccare, o cercare di rendersi intoccabili, si può perdere o trovare Tutto; soccombere o tornare alla Vita. Sfiorare il Cielo, farsi avvolgere dal mare o sprofondare sottoterra.

Pinocchio, appena che ebbe detto addio al suo buon amico Tonno, si mosse brancolando in mezzo a quel buio, e cominciò a camminare a tastoni dentro il corpo del Pescecane, avviandosi un passo dietro l’altro verso quel piccolo chiarore che vedeva baluginare lontano lontano.

Da ragazzino giocavo a pallanuoto. Passavo cinque o sei ore al giorno pucciato nell’acqua. Per un po’ di tempo ho pensato che quello era il mio vero elemento; qualcuno già mi diceva che le mani mi stavano diventando palmate (a proposito di membrane tra le dita), come le zampe di un’anatra! Sì, stavo decisamente meglio a mollo, nell’acqua, che con i piedi per terra e la testa per aria, tra le nuvole… Poi è finita: un altro fuoco è venuto a strapparmi via da quella miaimmersione nei primordi. Falò della Passione. Innamoramenti, Ribellioni. Partenze come Fughe. Distanze come Rifiuti. Abbandoni come Alterità. La mia generazione si nutriva soprattutto di ri-sentimenti poetico-estetico-politici: l’Avversario, il Nemico, il Diverso era colui che leggeva altri libri, vestiva altri abiti, conteneva in sé idee diverse dalle tue. Una generazione che potremmo riassumere nel titolo di un film: “Sbatti il mostro in prima pagina”… Ma bando all’autobiografia. (Comunque, a pensarci bene, anche i titoli dei giornali, sono pieni di ‘mostri’, più o meno reali o ‘costruiti’, intercambiabili a seconda dei bisogni: terroristi, dittatori genocidi, serial killers, pedofili, le folle di migranti, mostro collettivo più alla moda e, ultimi arrivati, femminicidi).

E nel camminare sentì che i suoi piedi sguazzavano in una pozzanghera d’acqua grassa e sdrucciolona, e quell’acqua sapeva di un odore così acuto di pesce fritto, che gli pareva d’essere a mezza quaresima.

Della Cosa Politica, dunque. Lo ‘Stato Sociale’ non è un gruppetto easy-rock che vince Sanremo. Bensì uno dei mostri più indagati e temuti, corteggiati e combattuti. Nel 1651, a Londra, Thomas Hobbes dà alle stampe Leviathan, la sua opera più importante e famosa. Essa ci ammaestra intorno al ‘mostro sociale’, collettivo, creato dall’uomo per limitare la sua innata e insopprimibile tendenza/necessità di essere ‘mostro’ al suo simile. Un Leviatano gigantesco e onnicomprensivo dove si raccolgono e soffocano tutte le mostruosità individuali. Gli uomini, per sopravvivere al loro individualismo distruttivo, si uniscono in società, e istituiscono lo Stato, il potere politico, ‘volontà comune’ che diventa sovrano assoluto delle volontà dei singoli. Il terribile mostro biblico è quindi la metafora del Contratto Sociale, quel Patto che, in definitiva, libera e insieme sottomette tutti gli uomini: “Per parlarne con più reverenza, il Dio mortale al quale dobbiamo, al di sotto del Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa”, poiché “col terrore è capace di disciplinare la volontà di tutti alla pace interna e al mutuo aiuto contro i nemici esterni”. Ma anche i mostri più terribili, a lungo andare, si addomesticano, e finiscono col perdere gran parte delle mirabili e funzionali caratteristiche originarie…

E più andava avanti e più il chiarore si faceva rilucente e distinto; finché, cammina cammina, alla fine arrivò, e quando fu arrivato… che cosa trovò? Ve lo do a indovinare in mille: trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco come se fosse di neve o di panna montata, il quale se ne stava lì biascicando alcuni pesciolini vivi, ma tanto vivi, che alle volte, mentre li mangiava, gli scappavano perfino di bocca.

Discorsi stantii, d’altri tempi. Qui bisogna, piuttosto, trovare il modo di sgattaiolar fuori da questi fogli. Come fare, dove andare, a finire? Tirare le somme, è sempre stata una delle mie più insormontabili difficoltà…

Intanto, dichiaro che sono consapevole di non aver detto nulla. Di sensato e di nuovo.

Si sa, non riesco mai a dimostrare tesi, io, ho semmai solamente pensieri da dispensare.

Ma non è colpa mia: io sono l’Altro, questo l’abbiamo capito. Quindi, prendetevela con Lui!

Del resto, bibliografie sconfinate s’occupano di mostri, li raccontano, li descrivono, li spiegano e documentano, li sezionano e analizzano: potrei forse io immaginare, aggiungere qualcosa, che non sia già stato detto?

Non ho parlato di Storia dell’Arte, ad esempio. Un’iconografia abbondante: i draghi di san Giorgio, i pazzi di Gericault, per dirne solo un paio, i primi che mi vengono in mente.

E poi, fantasie e fantasmi di tutti i tempi, per tutte le età: dinosauri, sirenette, orchi, squali d’ogni tipo e mostriciattoli d’ogni forma… dovunque ti giri, un essere informe in agguato!

Il solito monitor gracchiante giusto iersera ha sputacchiato maligne sequenze di un’Hydra, francamente imbarazzante, per qualità e contenuti. Un mostro decisamente di serie B, ma l’immaginario umano è pieno pure di quelli. Eccome!

Mostruosi anche, a volte, i più dolci gesti d’affetto. Mi hanno recapitato pochi giorni fa una bella cartolina di saluti: un angolo di palazzo con portico immagino medioevale, in Salita Motta al Lago d’Orta: sulla facciata l’affresco (uno stemma?) che riproduce un serpentone antropofago incoronato, con tanto di ometto tra le fauci! (quale, il messaggio? Chi sono io, il divorato, o il divoratore? Ed è più mostruosamente spaventevole quel blu profondo di lago che si spalanca accanto alla piazza, o la folla di turisti, che gli stanno inconsciamente seduti davanti, sul bordo dell’inquieta liquida materia?)

I laghi, già. Proprio all’inizio di questa mia esplorazione, mi si era messo davanti, civettuolo, un cartone di Lock Ness; tutto giocato sul filo della realtà/finzione, esistenza/inesistenza del Mostro. Queste, le ultime parole con cui la storia si conclude:

Ma credo che alcuni misteri, debbano rimanere insoluti!”.

E questa, potremmo davvero prenderla come provvisoria ultima stazione del nostro viaggio.

A quella vista il povero Pinocchio ebbe un’allegrezza così grande e così inaspettata, che ci mancò un ette non cadesse in delirio. Voleva ridere, voleva piangere, voleva dire un monte di cose; e invece mugolava confusamente e balbettava delle parole tronche e sconclusionate. Finalmente gli riuscì di cacciar fuori un grido di gioia e, spalancando le braccia e gettandosi al collo del vecchietto, cominciò a urlare: – Oh, babbino mio! finalmente vi ho ritrovato! Ora poi non vi lascio più, mai più, mai più!

Ho finito le idee. Eppure, almeno una cosa bisogna ancora dirla, faticosamente pensarla. Pinocchio nel ventre del Pescecane ritrova e riabbraccia Geppetto. Giona, nella pancia della sua Balena, prega, e rincontra Dio Padre. Anche questo, dovrà pur insegnarci qualcosa. Monstrum, ciò che ammonisce, fa riflettere. Ci ricorda ciò che siamo, che siamo stati, ci fa vedere quello che possiamo o non possiamo diventare. Ci aiuta a non dimenticare ciò che è accaduto, a non temere, o a temere ‘con giusta misura’, ciò che dovrà accadere. L’Essere inghiottito dal Mostro ci apre al tema del ‘Ritorno’, dell’Incontro, della Riappacificazione (interiore, generazionale, transnazionale, ultraterrena). Giona, nel punto più profondo della sua Discesa, innalza un Inno al Dio che salva. Questo, per lui, l’Inizio della Nuova Vita.

Il Signore parlò al pesce ed esso rigettò Giona sulla spiaggia.

Il pesce della storia, nella lingua ebraica originaria, è di genere femminile: essere inghiottiti dal pesce come rientrare nell’Utero materno, essere risputati a terra come essere nuovamente partoriti. È, dunque, davvero un riappropriarsi delle Origini, la risistemazione della propria biografia; Ricapitolazione di Tutto, il riconoscimento del necessario Ricongiungimento: un Essere mancante, che si completa nell’Infinità. Non è qualcosa del genere, la Risurrezione?

Questo, anche, ci dice il mostro: che non può esserci fine.

 

Appendice(ctomia):
due punti di vista, o di fuga

Come in tutti i percorsi, come nella vita, anche nel ‘comprendere’ il Mostro, c’è un doppio movimento: dapprima si scende e poi si risale.

dell’Affondare, una favola[3]

mi son caduto dentro! non so com’è successo, devo essere scivolato sullo scendiletto dell’identità, precipitando giù a capofitto, nello scantinato profondo ventre della mia persona vana. è stato come un perdersi, nell’abissale rintrovarsi, o il c’ostruirsi vis cerico d’un m’isterico in cavarsi. roba da matti, chi me l’avesse detto! ora passeggio, le braccia ciò ndoloni nel puzzo antico di budella molli. raccolgo ingenuo pezzi rimasti cati di ciò che m’hanu trito, ritr’ovo quasi tutto quello che avido mi sono divo rato, son come di lavato dal passato di sventura. la chiamo in digestione di esistenza, mi sporgo su ogni ansa che sparge vecchia ansia. mi guardo intorno, nell’interno: sono una cosa flaccida, in movimento ipocrita, insulsa bava di bolo, spiaccicosa poltigliola, stravagante arabesco imputridente, divertimenticolo accecato di sé. dunque, niente di che. eppure è lì, nel buio indigerito d’un me finora inconosciuto, che – lo credereste? – ho incontrato il Bestino. la chiamo così, l’anima letta, che mi è parente rale, quel quid del m’io me stesso, chissà da dov’è uscito, colui che, polso fermo, d’un tratto chiaroscuro, disegna precisissimo la mia d’estinazione, il filo di equilibrio del cammino, nel bene e male, l’univoco, l’inestinguibile mio stretto vasto Vaso Destino. Bestino è d’una forma strana, poco mprensibile, misura men d’un mignolo micragno, tendente all’infinito, è amorfo con propaggini e senza cartilagini, non ha occhi, ma sente, tutto riceve e mèmora, senza nessuna remora. e sempre dice il vero, a volte dolce mente lenta ma avvolta lenta mente. sostengono, qui attorno, che sappia l’ora, il modo, il luogo del Ritorno, sia lui, una specie speciale di Semenza-Sostanza-Sentenza, della durata, della sensatezza di tutta l’esistenza. chissà s’è vero, sembra un innocuo vermiciattolo, che schiacci con un dito, invece è il Senso Unico della tua carreggiata. Fino all’ultima, sospirata espiatoria scoreggia ben tirata. davanti a quest’ameba di mia sincera malattia, ho dunque ancora una speranza. io, disarmato e nudo così, involtolato d’escremento, precipitato dentro, incrementato di fecalica ospitalità, fracico di villi e di bacilli, davanti a questa tenace tenia di me mòria, io, una cosa, credo, la comprendo. io sono ancora io, in quest’antro d’Assenza, stanza di me nticanza, ancora tengo, dentro di me, nel fondo della pancia, un’oncia del mio Ben essere. è un minuscolissimo microbino di me, mostriciattolo inverosimile inimmaginabile. Lui, Bestino del mio in Testino, sono sicuro, che Lui mi salverà.

del Riemergere, una preghiera.

vedi?, sono confuso, Dio, sono pieno di me,

colmo d’ogni stranezza, obbrobrio, alterità

un’informe sgraziata accozzaglia di rozzi pezzi

impazzita proliferazione di cellule ingorde

cicatrici mal cucite, rammendi di cadute

cisti e ricordi, escrescenze dell’impossibilità.

Aiutami Tu, Sistematore delle Cose Strane,

mettimi a posto, sanami, insegnami il mio posto

nella Semplicità, nel placido coesistere di Tutto.

dammelo, l’Ordine, comandami ch’io sia

qualcosa in mezzo a qualcos’altro, ben combinato

con i giusti rapporti, di scambio e di distanza,

omeostasi felice, ordinami che sia, soltanto,

mostruosa cosa, Tua

briciola in equilibrio, bestiolina che nuota,

capace di nuotare, nel mare malato dell’Amore.

(E naufragare ci sia dolce).

alla parte insana, distorta di noi

tra s.Olga e Maria Regina, 2018

dalla Rocchetta, con intenzione

[1] *(n.d.e.) Non tutti i brani e i racconti commentati dall’autore sono facilmente reperibili. Si era pensato in un primo momento di allegarli direttamente, così da agevolare il percorso del lettore: ma l’allegato sarebbe diventato a questo punto più corposo della trattazione stessa e avrebbe comportato difficoltà per la stampa D’altro canto, un testo del genere, che è stato redatto senza alcun ausilio informatico, chiede e merita un piccolo sforzo anche da parte di chi lo affronta: ambisce a qualcosa di più di una lettura veloce e distratta, vuole incuriosire il lettore, fornirgli indizi e spingerlo a investigare in proprio. Se riuscirà a trasmettervi questo stimolo, la ricerca di questi pezzi costituirà un piacere aggiuntivo.

[2] Sul Destino del Sacrificio. Oggi è san Lorenzo. Leggendo una pagina di Agostino sul senso del Martirio come partecipazione all’Offerta di Cristo (“Lui ha dato la sua vita per noi, anche noi dobbiamo dare la nostra vita per gli altri”, 1 Gv 3,16), penso che spesso anche il Mostro ‘deve’ essere sacrificato per la salvezza dell’Uomo e del Mondo. Possiamo dunque, nel paradosso delle nostre riflessioni, immaginare un’ ‘Imitatio Monstri’: il Mostro è tale se porta la sua Diversità fino all’Offerta Espiatoria, e io devo ‘partecipare’ della Mostruosità, fino a far passare attraverso di me la necessità del suo destino sacrificale…

[3] (chiedo scusa per il lessico singhiozzante, al limite del dislessico, ma qui dentro non si vede un fico secco, e poi con tutti questi scossoni peristaltici, non è mica facile scrivere correttamente, con tutt’i puntini sugl’i).

Ringraziamenti dovuti

di Fabrizio Rinaldi, 1 novembre 2019

Ringrazio i miei figli per la pazienza, mia moglie per avermi sostenuto nelle avversità, l’editore per aver creduto in me, i professori Tizio e l’esimio Caio per l’inestimabile contributo offertomi durante le ricerche, il mio cane Bobby per l’amore incondizionato … e avanti così per mezza, una o addirittura due pagine.

Spesso, durante la lettura, alla prima distrazione o stanchezza, vado a sbirciare chi l’autore ha sentito l’urgenza di ringraziare per la sua opera: a volte quella dei ringraziamenti è la pagina più ben scritta e divertente del libro. Capita di rintracciare lì suggerimenti per ulteriori scoperte, o scovare chi maledire per aver sostenuto tale imbrattacarte.

La sequela dei ringraziamenti è diventata un atto dovuto in calce alle fatiche letterarie dei tanti – troppi – scrittori; i più ossequiosi addirittura li azzardano prima dell’introduzione, dopo l’altrettanto immancabile dedica.

È un costume nuovo, almeno per quanto riguarda la letteratura. Oggi c’è chi ringrazia pure la mamma per aver regalato al mondo cotanto genio, mentre un tempo la riconoscenza si esprimeva soprattutto nelle tesi di laurea, con intenti chiaramente ruffiani. Solo in casi particolari si rendeva omaggio a qualcuno.

Gustave Flaubert ad esempio apriva Madame Bovary  con questa dedica e questo ringraziamento:

A Marie-Antoine-Jules Sénard
dell’Ordine degli avvocati di Parigi,
ex presidente dell’Assemblea nazionale,
ex ministro dell’Interno

Caro ed illustre amico,
mi permetta di scrivere il suo nome in testa a questo libro, e sopra la stessa sua dedica; perché a lei soprattutto ne devo la pubblicazione. Passando attraverso la sua splendida arringa la mia opera ha acquisito ai miei stessi occhi come un’autorità inaspettata. Voglia quindi accettare un questa l’omaggio della mia gratitudine che, per grande che possa essere, non sarà mai all’altezza della sua eloquenza e dedizione.

Ne aveva ben donde. Con la sua appassionata difesa Sénard aveva fatto assolvere il romanzo dall’accusa di oscenità, vincendo un processo che aveva suscitato un enorme clamore e che decretò il successo e la fama di Flaubert anche fuori dal suo paese.

Per contro, noto che Herman Melville in Moby Dick non ringraziò proprio nessuno per l’immensità del suo libro, ma si limitò ad una dedica:

In segno della mia ammirazione per il suo genio
questo libro è dedicato a Nathaniel Hawthorne

In questo caso l’intento è di rimarcare una solidarietà e un’amicizia reali, che rimasero sino alla fine intense e sincere, come si può evincere dal carteggio tra i due. Il ringraziamento è sottinteso: non è neppure necessario esprimerlo.

Ho invece l’impressione che nel costume attuale l’intento non sia solo quello di evidenziare il personale debito dell’autore verso chi gli è stato accanto nella realizzazione del libro o, più in generale, nella sua formazione letteraria o umana. È spesso anche l’occasione per rivalersi nei confronti di chi non ha dimostrato una convinta fiducia nelle sue capacità: che siano gli insegnanti, gli editor o l’ex ragazza. Come è possibile che non abbiano compreso la genialità quando si palesava loro innanzi? Per questo sono puniti o ignorandoli nella stesura dei ringraziamenti o addirittura ringraziandoli per il mancato sostegno, perché questo ha reso più forte e convinto di sé lo scrittore.

È, infine, l’ultima opportunità, prima che il lettore chiuda definitivamente il libro, per mettere in evidenza le capacità dello scrittore di trattenerne l’attenzione, rendendo interessante un elenco di persone. È, in sintesi, un esercizio di stile: vedi come so rendere intrigante persino una lista, come sono bravo a scrivere ciò che voglio e ciò che vuoi.

È un po’ quel che accade coi titoli di coda dei film: quando scorrono come semplice elenco di nomi su uno sfondo nero, ci alziamo, usciamo dal cinema o cambiamo canale. Mentre quando i nomi di produttori, attori, sceneggiatori, costumisti e tecnici vari, si sovrappongono a sequenze di backstage o a scene magari tagliate, rimaniamo a leggerli fino alla fine.

Ma anche i selfie e i social hanno le stesse funzioni dei ringraziamenti nei libri: sono l’autorappresentazione narcisistica dei molti cui importa l’apparire piuttosto che l’essere nella quotidianità. La vanità è assecondata e incoraggiata da una sequela di “grazie d’aver creduto in me”.

Insomma, dalla paginetta dei ringraziamenti emergono molti aspetti, tutti intesi a soddisfare la sete sempre più morbosa di conoscere i dati privati degli altri, piuttosto che a illuminarci in qualche modo sul contenuto del volume: l’ambiente familiare, la rete delle relazioni e dei legami sociali dello scrivente sono, qualche volta, una involontaria spia delle sue reali capacità. Recentemente mi è capitato di leggere i ringraziamenti in un manuale per incidere il legno. Da quella pagina si desumeva in pratica che il libro l’aveva scritto l’editor.

Alla fine comunque ciò che conta in un libro è il testo stesso. Ma anche qui, è sempre più evidente il bisogno narcisistico di protagonismo. È vero che ogni scrittore in ultima analisi scrive sempre di se stesso, ma un tempo la cosa non era così spudorata: si parlava di marinai e della caccia alle balene per raccontare i propri tormenti interiori. Oggi si scrive per lo più in prima persona narrando le proprie avventure, vicissitudini, meschinità, per poi assolversi con i compiacenti ringraziamenti finali.

Anch’io non posso dunque che ringraziare tutti voi per la paziente lettura, e mi sprofondo nella confortevole poltrona dell’amor proprio a leggere i ringraziamenti degli altri. Buon pro mi faccia.

Collezione di licheni bottone

Beato chi lasciò presto il festino

Variazioni intorno alla figura del viandante

di Marcello Furiani da Sottotiro review n. 5, novembre 1996

1.

Il viaggio, luogo privilegiato dell’immaginario mitico e romanzesco, si manifesta essenzialmente in due forme classiche: il viaggio come prova, percorso doveroso per l’eroe alla conquista di una meta, e il viaggio come educazione, come conoscenza e crescita che preventiva il ritorno in qualità di momento finale.

Via, via dagli uomini e dalle città
verso il bosco selvatico e le dune
alla silenziosa selvatichezza
dove l’anima non deve reprimere la sua musica
per timore che non ne trovi
un’eco nella mente degli altri.
PERCY B. SHELLEY

Ci imbattiamo poi in un terzo modello di viaggio, nel quale gli obiettivi si allentano, i profitti restano più impliciti, racchiusi nel momento e nel gesto stesso del viaggiare: mi riferisco al vagabondaggio in tutte le sue forme, dal ramigare all’errare, ad un movimento erratico in cui la linea che unisce due punti non è quella retta (cioè la più economica e la meno speculativa), ad uno spostamento che non ha necessariamente nemmeno il fine di unire due punti. Il viaggio come erranza, divagazione, deriva.

Questa idea del viaggio è la più “moderna” e quindi ha una storia più recente delle precedenti. Ma prima di ripercorrere, senza presunzione di esaustività, la figura del viandante attraverso personaggi letterari, vediamo di definirla più precisamente.

Il viandante non possiede una casa: si sposta di città in città, di villaggio in villaggio, dorme dove accade, talora viene ospitato. Pur essendo una figura che si situa ai margini, non è un antisociale. Spesso è un giovane, piacevole e attraente, non di rado sa suonare o cantare, intreccia nei suoi brevi soggiorni piccole storie d’amore, è capace talora di parole profonde e illuminate. Ma tutto ciò dura poco, perché il viandante riparte mimando col suo continuo allontanarsi la parvenza delle cose, il doppio effimero di qualcos’altro che si sottrae e si dilegua, l’inespugnabilità di ciò che egli stesso vagheggia. Ogni luogo lo soffoca, ogni luogo è un luogo sbagliato che tradisce e consuma: il viandante è alla ricerca infinita del luogo che non c’è, cioè dell’utopia.

Perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due? 
BRUCE CHATWIN

Nel Lieder einer fahrenden gesellen (I canti di un giramondo) di Gustaf Mahler il protagonista procede al passo di una marcia funebre nel viaggio verso “l’estrema provincia della memoria”: l’assenza di una patria, di una heimat è quindi anche la morte, il luogo definitivo.

Il viandante sa che ogni cosa finisce e se decidesse di fermarsi non sarebbe per sempre: per ciò riparte. Nel finale del Eugenio Oneghin di Puskin l’autore prende congedo dal proprio personaggio esprimendo il desiderio di tutti i viandanti: “Beato chi lasciò presto il festino / della vita e il boccale pien di vino / non vuotò fino in fondo, chi ha saputo / staccarsi dal romanzo suo più caro / come da Oneghin ora io mi separo”.

Nella letteratura ci si inbatte spesso nella figura del viandante, o flaneur o wanderer; soprattutto la letteratura romantica è abitata da questo personaggio, confermando che l’anima romantica è un’anima nostalgica, inqueta, notturna, inappagata, che iterativamente vagheggia qualcosa che sta al di là dell’immediatamente sensibile. Il viandante ha in se l’inesausta smania e l’inestinguibile struggimento per l’altrove, la romantica sehnsucht, quella che Rousseau chiama una fitta del cuore verso un’altra forma di godimento e di possesso. Tutto ciò cambia il movimento in un errare senza sosta, privato di un risolutivo nostos: come osserva Nietzsche in Umano, troppo umano il ritorno si addice al viaggiatore diretto ad una destinazione, non al viandante che non conosce meta e configura il compimento del proprio destino nella provvisorietà e nell’instabilità.

2.

La Storia di un fannullone di Joseph Von Eichendorff è un’alternativa alla realtà, non un’evasione dalla storia, è la nostalgia di una dimensione umana integra e libera, non un superamento del passato.

La poesia è nella vita feriale e diretta; non c’è l’inquietudine per un ‘oltre’ inconseguibile: solo l’appagamento di ogni battito del fluire della vita in un’identificazione dello spirito con il respiro cosmico, altrettanto umano quanto i tormenti e gli affanni delle anime del Romanticismo. Tutto è epifania, eppure il dolore si comprende presente, per nulla soffocato da un ottuso ottimismo o da una furia trionfalistica; lo si indovina come l’altra faccia della gioia e ciò dà credito, più di ogni altro pensiero, alla possibilità di sentirsi in corrispondenza con il vivere in tutta la sua apparente semplicità. Ciò accade a differenza, per esempio, delle pagine di Hans Christian Andersen, delicate ed idilliche, nelle quali – si veda la novella “Compagno di viaggio” – la figura del viandante puro di cuore e nomade nell’anima si muove in una natura stilizzata e priva di profondità, senza altezze e senza ombre, colorata ma inodore. Il viandante di Andersen rimuove il dolore e la tragedia, avvolto e annebbiato in una visione cristiana dell’esistenza diluita da un ottimismo filisteo e semplicistico.

Intorno non si vedeva anima viva e non si sentiva rumore. Per altro, vagabondare a quel modo era bellissimo.
JOSEPH VON EICHENDORFF

In Eichendorff il fascino del vagabondo in continua fuga, inesausto nella capacità di cantare e di essere felice, è nel ritrovare passo dopo passo lo stereotipo previsto e puntualmente mai disatteso: ciò che realisticamente è l’imprevedibile corrisponde con l’estremo prevedibile della fantasia; ogni elemento del proprio immaginario d’avventura trova spazio nella sue pagine.

I personaggi di Robert Walser sono viandanti che si aggirano per il mondo, osservano la vita, si mimetizzano svestendosi della coscienza, volgono la propria attenzione a fuggevoli dettagli apparentemente trascurabili, non si concedono a nulla in fedeltà ad una condizione d’assenza. Vivono in un eterno presente, sognano una vita come attesa, vigilia di promesse senza modello né costrutto. Nel loro ritirarsi perpetuano infinitamente il congedo, annullati in una nozione del tempo estremamente incerta e indeterminata, quasi per una volontà di perdersi in qualcosa che trascende.

La condizione del viandante disposto ad ogni esperienza non entra in contraddizione con questa modalità, in quanto la libertà per i personaggi walseriani è predisposizione a non legarsi, a non entrare in contatto con alcunché abbia una forma definita: è un’immobilità che si nega al gesto che spartisce il mondo.

Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del genere io mi imbatta in giganti, abbia l’onore di incontrare professori, visiti di passata librai e funzionari di banca, discorra con cantanti e con attrici, pranzi con signore intellettuali, vada per boschi, imposti lettere pericolose e mi azzuffi fieramente con sarti e ironici. Eppure ciò può avvenire, e io credo che in realtà sia avvenuto. 
ROBERT WALSER

Eppure di quale leggerezza e di quale profondità sono capaci le figure di Walser. Il loro sguardo è lieve e acuto, come quello di chi, non mettendo in gioco se stesso, coglie la bellezza gratuita del mondo e contemporaneamente lo osserva con ironia per quello che è nel suo orrore, nei suoi rapporti di forza, nella morte che è propria delle strutture e dei rapporti sociali irrigiditi.

Ma i suoi viandanti, lievi, trasparenti e fatalisti non sono dei rivoluzionari: non cambiano e non vogliono cambiare nulla, non hanno altra aspirazione che condurre una vita vagabonda, alla periferia di cose e persone con le quali si trastullano senza farsi toccare, quasi che non vi sia nulla oltre la loro superficie, che il loro statuto ontologico sia la loro stessa inconsistenza.

Il vagabondare senza meta fissa è un topos della poesia lirica dal pre al post romanticismo, al punto che ancora nel 1885 Gustav Mahler intendeva il viandante come personaggio del suo ciclo di Lieder Lieder eines fahrenden gesellen, in termini che si adattono altrettanto bene alla Winterreise schubertiana e ad altre centinaia di composizioni poetico-musicali. Nella maggioranza dei casi il Viandante – che diventa il Solitario – esercita il proprio sentimento della natura su fioriti paesaggi primaverili e boschi lussureggianti, donde il contrasto tra la solitudine interiore dell’io e il circostante trionfo della vita e della bellezza. Ma nei Lieder di Mahler e di Schubert la meditazione sul senso dell’esistenza, sulla immutabile presenza della morte, si svolge sullo sfondo di una natura livida e cupa e per ciò stesso partecipe: l’osservazione della natura è il parallelo dell’indagine sullo spirito. Si respira uno stato di vita sospesa, congelata, immobile – assai simile a certi dipinti di Caspar David Friedrich – dove il pensiero del viandante si riduce a rimuginazione ossessiva di ferite narcisistiche e grandiose fantasie compensatorie.

Il viandante diventa straniero al mondo ed erra sospinto da una condanna senza colpa, portatore di un’immedicabile ferita al cuore, che lo trascina verso la distruzione, simbolo ingigantito dell’uomo romantico in preda ai suoi sentimenti, dello straniero senza casa sulla terra gelata, del fuggitivo dal mondo, escluso dalla compagnia degli uomini con cui non ha più sentimenti in comune, dalla forza sovverchiante e autodistruttiva delle sue emozioni. Non c’è scampo all’inesorabilità del lungo cammino verso la morte – dalla quale per altro il viandante si sente attratto – espresso sia con doloroso realismo, sia con un espressionismo visionario.

Walter Benjamin ricorda anche Knut Hamsun come un altro autore capace di creare la figura del fannullone perdigiorno, randagio e sbandato. Versione moderna e tragica, il viandante di Hamsun incarna vitalità, durezza, pietà, nichilismo e protesta: è un distruttore e contemporaneamente un lacerato capace di rilevare l’irrazionalità dell’esistere, con il gesto altero del personaggio epico, frugando impietosamente nella miseria materiale e spirituale dell’uomo moderno. Ma finisce per esserne accecato e cerca nella fuga dai legami sociali l’immediatezza della vita non contaminata dalle idee; si muove spinto da una sprezzante ribellione che ne fa, paradossalmente e inconsapevolmente, un intellettuale modernissimo e anticipatore, nell’alienazione e nella perdita, del nuovo.

Il percorso del viandante di Hamsun conduce alla nevrastenia: fugge davanti alle patologie della società moderna fraintendendo la modernità come patologia, rimanendone vittima e tanto più irreversibilmente condizionato dai legami sociali quanto più si illude di affrancarsene. Ondeggiando tra la brama di un inattuabile assoluto sovratemporale e un compiaciuto sguardo alla caducità di ogni cosa, tentando di avversare il senso univoco delle ideologie con l’informe indefinitezza delle cose e della natura, che pur resta sempre irreparabilmente lontana, approda all’anti-ideologia. La sua ribellione s’irrigidisce in un nichilismo che non ha altri approdi se non quelli di una tendenza regressiva e di un atteggiamento reazionario.

Il viandante dei romanzi di Hamsun, crudele e tenero, sprezzante e fragile, compiaciuto del disordine del mondo, è un inconscio alla deriva che si tutela dalla realtà esterna con vomiti di parole e sequele di gesti provocatori e stonati, è l’io psicologico borghese disgregato, riluttante nel prendere coscienza che il suo destino è solo la vana forma di una vita errabonda, segnata dalla sconfitta e avvilita dall’ostinazione al disprezzo.

Nelle pagine scritte da Walter Benjamin il flaneur si muove come figura di passaggio, che attraversa una sorta di altrove, di sconosciuta città in un orizzonte all’imbrunire, immagine incerta e dubbia, sostanzialmente tragica. Sospeso nel tempo e nello spazio, è sicuramente straniero alla folla, talmente estreneo ai suoi ritmi da apparire in netto contrasto con il processo produttivo.

La città è uno sterminato panorama, quasi il luogo di una rappresentazione teatrale, che desta nel viandante una primitiva curiosità che i suoi occhi alieni e pacificanti cercano di soddisfare. Fondamentalmente è un ozioso, di un’inoperosità che è soprattutto irresolutezza: predominando in lui il dubbio, tutto diventa possibile anche se irrealizzabile.

Può essere permesso ad un vagabondo di disporre degli ultimi istanti come più gli piace?
KNUT HAMSUN

Eppure quanta nostalgia percorre ogni suo passo: ma il flaneur non possiede un passato né una memoria personale: la sua è nostalgia di una vita anteriore, del tempo dell’infanzia. Il viandante è in Benjamin una figura senza tempo e senza storia, il cui motivo di desistere consiste nel “dare un’anima” alla città altrimenti amorfa. In effetti nella Parigi fantastica disegnata da Benjamin pesa come un sasso il vuoto di un’assenza, al di là dell’alacrità delle occupazioni dei suoi abitanti, dominati in sostanza dalla ripetitività del culto che celebrano, quello che l’autore chiamerà culto della merce. Il flaneur benjaminiano è in una comunità immobile e inaccessibile alle novità l’esule che incarna inconsapevolmente la totalità dell’esperienza originaria, l’unico l’uomo a cui sia stata data in sorte l’inattività, in virtù della sua capacità di sognare.

L’utopia di Benjamin, uomo senza patria, è di tornare a ciò che è spezzato, di ridare vita alle cose morte, ma ciò dissimula il desiderio di tornare nelle tenebre, nell’abbandono del non essere, di riavvolgersi verso la propria origine.

La purezza del viandante lo rende impotente di fronte al mondo, da cui per altro nemmeno viene riconosciuto nella sua condizione di estraneità. Ma la sua stessa speranza di non avere una meta, di non arrivare, è la vana illusione di restare nell’infanzia dell’uomo e di non approdare a quello che Benjamin chiama l’“uomo-sandwich”, diventando egli stesso merce venduta al mercato, identificato con il valore di scambio, a proprio agio ormai nell’essere ritenuto vendibile.

Il flaneur oscilla tra queste due inconsistenze: l’estraneità più radicale e la contestualizzazione più omologante che lo prosciuga da ogni parvenza di identità. Può solo, nel suo continuo movimento che simula l’immobilità, mostrarci quanto sfolgorante, fantastico, eccessivo e fragile sia il fiore dell’utopia.

Il tempo presente è il tempo della disperazione, il tempo dell’Ebreo Errante.
SOREN KIERKEGAARD

L’erranza, la tragica volubilità nello spazio, nell’esperienza e nel tempo è specificità che descrive non di meno la figura dell’Ebreo Errante, è la sostanza dell’espiazione per chi non ha compreso e riconosciuto il Messia, con la contraddittoria valenza di seduzione e di maledizione che il rapporto con il sacro implica.

Il mito dell’Ebreo Errante è come pochi altri un mito incompiuto, variamente rappresentato e interpretato nel corso dei secoli, attraverso diversi generi (dalla prosa alla poesia, dalla pittura al folclore) e difformi registri (dal comico al tragico, dal dolente al farsesco). Se il mito popolare fa dell’Ebreo Errante un personaggio per racconti popolari, ballate di menestrelli, melodrammi, balletti, opere liriche e romanzi d’appendice (basti ricordare L’Ebreo errante di Eugéne Sue, in cui l’eroe diventa una metafora del popolo sfruttato e l’errare un’allegoria della fatica del lavoro), sono i poeti, i prosatori, i filosofi e i pittori a costruire su questa figura il mito letterario.

Ripercorrere le tappe della rappresentazione di un mito significa anche attraversare la storia delle idee: così si passa dal viator medioevale che testimonia la verità, investito di una maledizione inemendabile, alla riabilitazione del philosophe illuminista, in cui l’erranza diviene memoria del tempo del mondo, diventa una condizione privilegiata da cui distinguere e tradurre i mali che angustiano la società contemporanea dell’autore. Parallelamente alla figura del viaggiatore ed esploratore, nel ‘700 prese forma anche un Ebreo Errante avventuriero, imbroglione, impostore e baro da cui discende il personaggio inquieto e malinconico che appare fugacemente ne Il monaco di Matthew G. Lewis, in cui, tra l’altro, assistiamo ad una delle prime commistioni del mito dell’Ebreo Errante con quello del Faust. Questa contaminazione, figlia dell’epoca dell’occultismo e dell’esorcismo, fu determinante nella metamorfosi dell’Errante da testimone delle verità cristiane a personaggio dedito alla stregoneria.

L’Errante diventa in seguito l’incarnazione dell’inquietudine e della disperazione romantica: il gusto per il primitivo, per i miti popolari e cristiani, la predilezione per il trascendente e le problematiche religiose tipici della spiritualità romantica si accordano ad un personaggio il cui destino è eccezionalmente unico e tragico, il cui passato è oscuro e ambiguo, la cui colpa suscita orrore e perplessità, il cui desiderio è eternamente inappagato e la cui attrazione verso la morte è il riscatto dal dolore e dalla afflizione.

Mitigando la figura dell’Ebreo Errante della sua singolarità ebraica i romantici acuiscono positivamente le facoltà del mito: la loro sensibilità avverte dolorosamente i caratteri di esilio, di solitudine, di scacco e di disperazione dell’errante e li traduce in veggenza e saggezza, accentuandone l’anima di déraciné e maturandone gli aspetti di ribelle che predilige la libertà dell’inferno alla schiavitù del cielo, figura debitrice del Satana di John Milton.

Il mito continua, trascinando le proprie ambiguità e le proprie contraddizioni, ma ricavando vitalità dalla propria leggenda, come gli Ebrei Erranti di Marc Chagall che volano sopra Vitéck, poiché il viaggio è eterno come l’inferno cristiano.

Nel dipinto di Caspar David Friedrich Viandante sul mare di nebbia del 1818 l’immagine transita dalla più diretta vicinanza alla più radicale lontananza: questa distonia dello sguardo traduce la frattura fra l’uomo e l’assoluto. Ma questa misura tragica si dissimula in una contemplazione idillica, pur trasparendo come in filigrana un irreparabile struggimento per distanze impenetrabili, per lontananze inconseguibili. Il viandante di Friedrich esprime il proprio scacco attraverso l’opposizione di una dimensione interna e di uno spazio esterno che si toccano senza penetrarsi, dando forma ad una sensazione di vertigine e di smarrimento.

Vuoi avermi con te, ma quell’io che ti piace non desidera stare con te. Devo essere solo e sapere che sono solo per poter veder e sentire pienamente la natura. 
CASPAR DAVID FRIEDRICH

Esso è evidentemente una figura di passaggio, colta nell’attimo in cui si è temporaneamente fermata e, fermandosi, misura la propria condizione di estraneità al paesaggio nella sola possibilità di contemplazione, nella propria impotenza a divenire una cosa con esso. Raffigurato di spalle – come moltissime figure di Friedrich – il solitario déraciné trasmette, oltre al mistero del proprio sguardo negato, la vulnerabilità di chi è visto a sua insaputa. Il viandante guarda in avanti, pur escluso dallo spazio sconfinato cui non appartiene, in un cupo desiderio di qualcosa che non accade: per altro il tempo del viandante è un tempo sospeso, immobile, raggelato nell’“hic et nunc” d’un eterno presente, che pur suggerisce l’inarrestabilità della dissoluzione, cioè la morte. Ma la sua anima non si appaga né si placa in una compiaciuta contemplazione della natura.

Il personaggio non ci narra una storia o una vicenda ma, attraverso la propria agghiacciata solitudine e il confine che impietosamente la racchiude, esprime con asciutto dolore l’impossibilità della mente di comprendere (in senso etimologico) l’infinito e la coscienza dell’inafferrabilità del mondo nella sua essenza, tragicamente percorsa da un disperato anelito ad un’osmosi con l’assoluto e la totalità.

Non c’è quiete né casa nel destino di Holden Caulfield, protagonista di The Catcher in the rye (Il giovane Holden) di J. D. Salinger, e di Dean Moriarty, personaggio di On the road (Sulla strada) di J. Kerouac; soggetti la cui condizione si definisce con il loro vagare incessante, sono tra i più famosi prototipi di erranti della letteratura americana.

Ciò che li muove sembra essere una sorta di esigenza esterna alla propria volontà e alla propria consapevolezza, nonostante il rifiuto dei valori della società a loro contemporanea, la profonda frattura con l’America borghese e benpensante e l’innocenza, la superiorità morale, l’esaltazione dell’individuo che non si uniforma ai preconcetti di una società sempre più corrotta e decadente.

Essi vagano senza trovare la loro patria, quasi dovessero scontare una colpa commessa dall’America nei confronti di se stessa e che consiste nel tradimento di quelle promesse e di quella fede nell’uomo e nelle sue possibilità che avevano fatto sognare scrittori come Ralph W. Emerson e Walt Whitman.

Per i personaggi di Salinger e Kerouac spostarsi continuamente significa, oltre il rifiuto d’ogni forma di tirannia e di prevaricazione, entrare in contatto con elementi essenziali della vita. La loro crescita avviene al di fuori, o più precisamente in polemica con la società: dal linguaggio che utilizzano – estraneo al consorzio perbenista, fasullo e convenzionale – al più volte dichiarato rispetto della verità, al punto di non omettere nulla nel racconto, dai lati più seducenti ai più miserevoli e sordidi, tutto denuncia il tentativo di muoversi al di fuori dei canoni narrativi tradizionali.

Queste narrazioni, quasi diari di viaggio in cui si scruta nel proprio animo alla ricerca della propria identità – una sorta di percorso iniziatico sostanzialmente individuale – sono l’espressione di un disperato desiderio di totalità e di appagamento.

Solo affidando alla scrittura le ragioni profonde del proprio errare spirituale e metafisico i personaggi di Salinger e Kerouac diventano i simboli del tormento interiore, dell’alienazione e dell’inquietudine esistenziale di chi si sente destinato alla precarietà, senza poter trovare qualcosa cui aggrapparsi, senza pace né patria, senza una figura cui affidare i propri turbamenti e i propri dubbi.

La sorte umana è il distacco da ogni luogo e casa ove sostammo.
ERNST JUNGER

Il viandante è, in ogni sua sembianza, il custode dell’utopia, è un soggetto mitico che non utilizza le proprie potenzialità a fini costruttivi: Per questo incarna lo spirito di ribellione, la libertà dell’individuo, la sua dignità elementare e la trasgressione antiproduttivistica.

Ciò avviene in un continuo movimento, che vuol dire anche impossibilità di fermarsi, e soprattutto, rifiuto di raccogliere i frutti. C’è qualcosa per cui la drammatica leggerezza del viandante, la sua fuga dal mondo, la sua vulnerabilità e la sua protervia hanno un che di sacrificale: ciò sta nella sua mancanza. Egli si muove eternamente per cercare qualcosa che non troverà e che forse in fondo non gli preme trovare. In ogni modo, nel momento in cui trovasse ciò che cerca, abbandonerebbe la sua condizione di errante.

Il suo fascino consiste nell’impulso spirituale che lo porta sempre oltre, sempre altrove, ma l’eterno vagare, in qualche misura, corrisponde ad una sostanziale immobilità, ad un andare sempre verso lo stesso luogo o verso nessun luogo, che è il luogo dell’esilio. Così se il viandante addita ciò che potrebbe essere, in contraddizione con ciò che invece è, in realtà non assume mai una forma stabile e compiuta, abbozza ma non conclude, considerando anzi le forme irrigidite e compiute come un irrevocabile indizio di morte.

Il viandante è “l’uomo senza religio”, ossia si nega ai legami familiari e sociali, non possiede casa né patria e, sempre errando, si sottrae ad ogni inalterabile codice morale. Prototipo della protesta romantica contro la pianificazione borghese del mondo, che confina il soggetto nella misura della sua funzione sociale, egli vuole solo vivere, respingendo ogni limite alle potenzialità della vita, per quanto ipotetiche, e rifugge da ruoli, legami, impegni predefiniti che ne imprigionano l’esistenza.

Nell’anima del viandante s’agita una profonda inquietudine, mascherata da uno struggente sogno d’armonia: egli è il figliol prodigo che si nega al perdono paterno, è Caino che si fregia del marchio d’inavvicinabilità impresso sulla fronte, è il nomade guerriero che mitizza l’ethos maschile della lotta e della fraternità d’armi in spregio alla tentazione del sesso e della pietà incarnati dalla donna, è l’antitesi della risolta e responsabile certezza dell’Ulisse omerico. Appartiene ad un’odissea senza Itaca, ben più moderno del viandante dell’Enrico di Ofterdingen di Novalis, in cui il viaggio prevede il ritorno come momento finale dopo che tutte le esperienze, i dolori affrontati e vinti nel cammino sono integrati ed elaborati dalla sua individualità, in cui tutto si ricompone e si riconcilia nell’armonia di un’identità ritrovata.

Oggi questa totalità umana e poetica ci ferisce di nostalgia, ma non ci compete né ci appartiene: da Musil in avanti – in cui l’uomo è un insieme di qualità senza un centro che le unifichi – il viandante procede in un’odissea senza fine né ritorno, ben lontana dal rassicurante movimento circolare che preserva ed itera l’ordine immutabile delle cose, come nell’Ulisse di Joyce, nelle cui pagine questa legge garantisce senso e assetto nella salvaguardia del soggetto individuale.

Il viandante moderno – come un Don Chisciotte errante in un mondo abbandonato dai significati e dai valori, come un Achab maledetto ed escluso dalla Natura che rimpiange – non ritorna a casa confortato nella sua identità, ma si dispende straniero a se stesso, senza più libertà di riconoscersi, in una realtà spezzata e precaria dove solo la nostalgia (nel senso etimologico del doloroso desiderio di tornare), similmente ad una lingua segreta, può conferire la piena comprensione del sentimento di un’odissea senza ritorno, di un esilio dell’anima tra sforzi d’identità e sofferenze senza riscatto.