Natura e letteratura per cammini di viandanza

Copertina per incontri tematici2di Fabrizio Rinaldi, 10 dicembre 2022

Pubblichiamo la trascrizione di un momento dell’incontro “Natura e letteratura”, nell’ambito della mostra sentieri in utopia.

Ad avvicinare coloro che sarebbero poi diventati i Viandanti delle Nebbie, prima ancora che nascesse l’amicizia, furono le comuni letture di libri nei quali il rapporto con la natura veniva proposto senza eccessive epiche parolaie. È stato quindi decisivo per ciascuno, oltre alla frequentazione di Paolo, individuare le coordinate per le proprie letture in scrittori che avevano messo al centro della narrazione il rapporto con il bosco, la montagna, il mare o semplicemente con la quotidianità contadina, magari con approcci differenti e in tempi non troppo lontani.

C’era chi si riconosceva nella tendenza di Hemingway a raccontare la lotta con gli elementi e quindi le resistenze, le sconfitte o le pochezze umane. Chi si ritrovava nelle parole di Chatwin, per il quale le descrizioni dello spazio naturale (anche cantato, come per l’Australia) erano l’espediente per indagare la propensione umana all’inquietudine, l’irrequietezza che assale quando si è costretti a sostare in un posto per troppo tempo e a soffocare l’istinto di cercare ciò che sta oltre il conosciuto (magari – come nel suo caso – dormendo a scrocco da amici accondiscendenti). Oppure chi amava i racconti di Conrad e Melville, nei quali le superfici acquee su cui si svolgevano le cacce all’uomo o alla balena permettevano di immergersi nelle linee d’ombra dell’anima. C’era anche chi si immedesimava nel vivere appartato (ma non troppo) di Thoreau, che aveva fatto scuola (wilderness) con la sua propensione a ricaricare i neuroni vivendo nel bosco, eludendo la crescente frenesia della modernità e la compulsione a fagocitare tutto ciò che ci sta attorno, senza badare alle reali necessità.

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I miei occhi sono nuovi.
Tutto quello che vedo è come non veduto mai;
e le cose più vili e consuete,
tutto m’intenerisce e mi dà gioia.

Personalmente a queste vette della letteratura mondiale accosto due autori italiani. Nelle antologie scolastiche Camillo Sbarbaro è inserito tra i poeti del Novecento con una smilza paginetta e con una poesia dedicata al padre, legata ancora a quella metrica classica che appariva superata rispetto al suo contemporaneo Ungaretti. Traduttore dei classici greci, Sbarbaro ha saputo conciliare una vita estremamente ritirata con le intense amicizie che lo legavano a intellettuali come Montale, Campana e Pound; ma soprattutto inviava e riceveva dagli Stati Uniti dei pacchi contenenti croste secche apparentemente insignificanti, con indecifrabili nomi in latino, tanto che venne indagato dalla polizia fascista per atti ostili al regime. Dietro la sua pacatezza nello stare al mondo celava un’immensa conoscenza del mondo dei licheni. Autodidatta, ne divenne uno dei più importati esperti, tanto che la sua collezione è suddivisa oggi tra il museo di Storia Naturale di Genova e altre collezioni sparse nel mondo. Uno così non poteva non entrare nel novero degli ispiratori del nostro pensiero, per la sua propensione verso le cose insignificanti che gli capitavano e che vedeva. Oltretutto, era stato anche un gran camminatore lungo i sentieri liguri, sempre alla ricerca delle sue amate e naturali esistenze in sordina.

  • Il lichene prospera dalla regione delle nubi agli spruzzati dal mare. Scala le vette dove nessun altro vegetale attecchisce. Non lo scoraggia il deserto; non lo sfratta il ghiacciaio; non i tropici o il circolo polare. Sfida il buio della caverna e s’arrischia nel cratere del vulcano. Teme solo la vicinanza dell’uomo. Per questa sua misantropia, la città è la sola barriera che lo arresta. Se lo varca ci rimette i connotati. Il lichene urbano è sterile, tetro, asfittico. Il fiato umano lo inquina.
  • Più tardi, preso a mano dalla mia predilezione per le esistenze in sordina, mi volsi a forme più scartate di vita.
  • Mi ingombra la stanza, la impregna di sottobosco un erbario di licheni. Sotto specie di schegge di legno, di scaglie, di pietra contiene pocomeno un Campionario del Mondo. Perché far raccolta di piante è farla di luoghi.

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Il momento culminante della mia vita non è quando ho vinto premi letterari o scritto libri, ma quando sono partito dal Don con 70 alpini e ho camminato verso occidente per arrivare a casa. Sono riuscito a sganciarmi dal mio caposaldo senza perdere un uomo, riuscire a partire dalla prima linea organizzando lo sganciamento, quello è stato il capolavoro della mia vita.

L’altro mio autore di riferimento è Mario Rigoni Stern. È conosciuto soprattutto per Il sergente nella neve, in cui ha descritto il “capolavoro” della sua vita, l’aver riportato in patria tutti i suoi commilitoni durante la ritirata dalla Russia. Ma al di là di questo ci è affine soprattutto per la denuncia dei dissesti ambientali (quando ancora non era una moda), per le attente descrizioni di ciò che avviene nel bosco, e soprattutto per la corrispondenza fra ciò che scriveva e ciò che faceva: una coerenza esemplare, che quasi metteva soggezione perché presente in ogni suo gesto, a partire da come accatastava la legna o coltivava l’orto.

  • inserto dolomitiCome vivere? Allora questa domanda ce la dobbiamo porre non soltanto alla fine di un millennio, di un secolo, di un anno, ma tutti i giorni, e tutti i giorni svegliandoci, si dovrebbe dire: “Oggi che cosa ci aspetta?”. Allora io considero che si dovrebbero fare le cose bene, perché non c’è maggiore soddisfazione di un lavoro ben fatto. Un lavoro ben fatto, qualsiasi lavoro, fatto dall’uomo che non si prefigge solo il guadagno, ma anche un arricchimento, un lavoro manuale, un lavoro intellettuale che sia, un lavoro ben fatto è quello che appaga l’uomo. Io coltivo l’orto, e qualche volta, quando vedo le aiuole ben tirate con il letame ben sotto, con la terra ben spianata, provo soddisfazione uguale a quella che ho quando ho finito un buon racconto. E allora dico anche questo: una catasta di legna ben fatta, ben allineata, ben in squadra, che non cade, è bella; un lavoro manuale quando non è ripetitivo è sempre un lavoro che va bene, perché è anche creativo: un bravo falegname, un bravo artigiano, un bravo scalpellino, un bravo contadino. E oggi dico sempre quando mi incontro con i ragazzi: voi magari aspirate ad avere un impiego in banca, ma ricordatevi che fare il contadino per bene è più intellettuale che non fare il cassiere di banca, perché un contadino deve sapere di genetica, di meteorologia, di chimica, di astronomia persino. Tutti questi lavori che noi consideriamo magari con un certo disprezzo, sono lavori invece intellettuali.

  • Per diventare amici, prima bisogna annusarsi, come i cani poi, se non ci si è morsi, può nascere l’amicizia.

Con Primo Levi e Nuto Revelli sognava di andare per boschi e montagne, in silenzio. Ecco, credo che non si potrebbe desiderare nulla di meglio che questa visione di sobria eternità: vagare con le persone care facendo esperienze. Era il suo “pensiero anarchico”.

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È questo che – istintivamente e senza una dichiarazione esplicita – ispira l’immagine dei due viandanti nella locandina della mostra sentieri in utopia. L’uno indica all’altro ciò che attrae la sua attenzione: in questo caso una luce conduce fuori dalla nebbia, ma da sempre i Viandanti hanno segnalato ai sodali degli “stupa”, quelle letture che sapevano essere di comune interesse. Non è un semplice consigliare libri, ma il desiderio di condividere un percorso da fare assieme, uno accanto all’altro. Per questo la maggior parte delle pubblicazioni dei Viandanti è accompagnata da una bibliografia, e nella rivista “ufficiale”, sguardistorti, la rubrica finale Punti di vista segnala anche i luoghi per i quali vale la pena mettersi in viaggio.

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Questa carrellata di “maestri” non può concludersi  senza citarne uno di fantasia, il Ken Parker creato da Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo. Lui viveva il west che stava ormai scomparendo, cacciando per sopravvivere e rifiutando un progresso di cui intravvedeva le incongruenze. È lui che ci ha accompagnato durante le escursioni e nelle letture, grazie al fatto che i suoi album sono zeppi di allusioni ai classici della letteratura di viaggio. E poi, era l’unico protagonista del west che pensava prima di premere il grilletto e che la sera, davanti al fuoco, leggeva un libro.

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Questi, naturalmente assieme a molti altri, sono stati gli intermediari fra storie personali spesso molto distanti. Senza di loro probabilmente non sarebbe stato intrapreso alcun percorso comune. La loro conoscenza è stata il nostro mezzo per “individuare ciò che non è inferno e dargli spazio”, come direbbe Calvino. E per dare vita a una forma genuina di amicizia.

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Faccio una parentesi di commento sulla mostra. L’altro giorno mi sono concesso il privilegio di guardarmela senza che ci fosse nessuno. A dire il vero la possibilità mi è stata data spesso, perché non l’abbiamo promossa nei canali mediatici, non abbiamo fatto comunicati stampa, non abbiamo invitato le rappresentanze pubbliche, ma abbiamo volutamente diffuso l’evento semplicemente con il passaparola tra amici, conoscenti e simpatizzanti del nostro viatico. Risultato? Non l’hanno vista in molti.

È snobismo, questo? Non credo. È semplicemente coerenza con l’intento di raggiungere solo chi è realmente interessato a visioni del mondo magari divergenti, ma accomunate dalla consapevolezza che viviamo in una realtà complessa. E che quindi il pensiero, per coglierla, non può essere semplicistico e sbrigativo: nessuna delle nostre pubblicazioni si potrebbe liquidare con un twitter.

Ebbene, esaminando la mostra mi sono stupito di quanto materiale sia stato prodotto in tutti questi anni. Lo sapevo già, naturalmente, perché ne ho curato la grafica, ma nel vedere esposte tutte assieme le copertine di 79 Quaderni, 31 Album, 30 numeri fra Sottotiro review e sguardistorti, per un totale di oltre 7200 pagine, senza contare un bel po’ di articoli sparsi e i 14 testi della Biblioteca, mi ha impressionato l’incredibile varietà dei temi trattati.

Quella mole di riflessioni e l’idea del tempo che sta alle loro spalle mi ha confermato che i Viandanti hanno occupato una parte importante della nostra vita: di quella di Paolo senz’altro, visto che ha scritto o curato molti di questi testi, ma non solo della sua. Negli anni hanno contribuito in molti, attivamente o come semplici fruitori: e questo ha fatto sì che le nostre pubblicazioni continuino ad essere gratuite e siano stampabili liberamente. Per apprezzarle necessita solo una sufficiente dose di curiosità per ciò che non appare sotto i riflettori dei consueti media.

Si potrà notare che nessuno degli scrittori di cui ho parlato prima è originario dei nostri luoghi: non si tratta di un intenzionale rifiuto del campanilismo. Non ho citato Fenoglio e Pavese, che sono comunque nostri riferimenti imprescindibili, solo perché non volevo farla troppo lunga, e perché in qualche modo li do per scontati, in quanto hanno raccontato colline e storie simili alle nostre. Che è quello che anche i Viandanti hanno cercato di fare, narrando un territorio che viene spesso dimenticato.

Concludo con le parole delle mie figlie che alla domanda su cosa stessimo combinando Paolo ed io nell’altra stanza, risposero: “Stanno facendo la mostra. Si divertono così”. In effetti “divertire” significa volgere altrove, deviare. Ecco, questo facciamo: non marciamo lungo percorsi obbligati, muovendoci in branco verso mete che altri hanno fissato, ma camminiamo di lato, ai margini, pronti a deviare sui sentieri che ci danno maggiore soddisfazione. Quelli anche dell’amicizia, che sono la realizzazione della nostra utopia.

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Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». (n.d.r).

di Maurizio Castellaro, 28 novembre 2022

Beppe

Fenoglio è morto a quarant’anni, e chissà quante righe meravigliose avrebbe scritto ancora se fosse vissuto più a lungo, come il suo amico Calvino, ad esempio. Però fumava come un turco, tutto il giorno e tutte le notti che passava sveglio a scrivere nella sua casa di Alba, e queste cose alle volte le paghi care. Fenoglio e le sue parole sono piantate come un ciocco nelle nostre colline, e anch’io, che sono figlio adottato di questa terra grazie alle tante vendemmie e al profumo delle acacie in fiore, sono stato come tutti folgorato dalla sua voce. Fenoglio ti incanta per i tagli secchi di marasso con cui ti restituisce l’essenziale, ti incanta per quello che non dice, nella sua scrittura che sembra tutta cose e che invece è tutta spirito, perché lo spirito è la verità delle cose. E che sia così lo capisci anche di fronte a casa sua, dove hanno messo un monumento e ci hanno scritto: “Johnny pensò che un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina guardando la città la sera della sua morte. Ecco l’importante: che ne rimanesse sempre uno”. Quel monumento tra 100 anni potrebbe non esserci più, ma quelle parole saranno di ispirazione alle resistenze dei prossimi duemila anni. Attraversando Alba la ricca in cerca delle parole di Beppe Fenoglio ho una volta di più la conferma che siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, grazie a dio.

Introduzione a “Dai quartieri d’inverno”

di Paolo Repetto,

Un tempo persino la guerra rispettava i ritmi della natura. Quando arrivava l’inverno (perché allora l’inverno arrivava ancora), o già addirittura dopo le prime piogge autunnali, le attività militari venivano sospese, per riprendere poi nella primavera successiva. La pausa invernale era determinata da ragioni oggettive (lo stato delle strade, ad esempio, non consentiva lo spostamento di truppe, l’ equipaggiamento dei soldati non permetteva certamente loro di affrontare i rigori del clima, ecc … ), ma era regolamentata anche da un sorta di codice, un patto cavalleresco garantito dalla chiesa stessa. C’erano addirittura delle date, nel medioevo, che aprivano e chiude-vano ufficialmente la stagione della guerra. Durante le pause, in genere piuttosto lunghe, gli eserciti venivano temporaneamente disciolti, ma i graduati trovavano alloggio nelle caserme o in accampamenti fissi, oppure, in mancanza di questi, erano “acquartierati” in particolari zone della città , nelle abitazioni dei civili (si può immaginare con quanta gioia di questi ultimi).
Erano i “quartieri d’inverno”, luoghi dell’ozio, del riposo e anche del vizio. Ma talvolta erano i luoghi e i momenti della riflessione. Cartesio iniziò a pensare alla geometria analitica e alle Meditationes proprio durante una pausa invernale della guerra dei Trent’anni, trascorsa nella Baviera coperta dalla neve. Non è necessario comunque risalire tanto addietro: ne “Il partigiano Johnny” Fenoglio fa muovere il suo eroe proprio in uno di questi particolari momenti. Il “quartiere” è in questo caso rappresentato dalle colline innevate della Langa.
I pezzi che seguono sono stati concepiti in un clima interiore molto simile (quello esterno non poteva essere più diverso, e non solo per l’assoluta assenza di neve e per le temperature anomale); nell’accattivante sensazione di vivere una pausa, ma anche nel timore che possa prolungarsi troppo, che le ostilità non riprendano (o che quand’anche riprendessero, non si avrebbe più voglia o non si sarebbe più in grado di partecipare).
Non sono Cartesio, e nemmeno Fenoglio, ma amo anch’io gli intervalli di pace e di silenzio che consentono di riordinare le idee e magari di immergersi nella lettura accanto al fuoco. Questo libricino non è forse utile alla prima attività, ma è senz’altro congeniale alla seconda. Se annoia, potrà almeno alimentare la fiamma.

 

In bianco e nero

di Paolo Repetto, 11 Agosto 2014

Carissimo Mario,

voglio ancora ringraziarti per l’incontro di Gamalero. Mi ha dato l’opportunità di conoscere, oltre ai familiari di Nico, un bel gruppo di persone in gamba. È ancora gente che ha il coraggio di credere nella cultura come occasione d’incontro, anziché venderla come evento. Il riscontro ottenuto nel pubblico fa ben sperare.

Ti sono grato anche per un’altra cosa: mi hai spinto a riprendere in mano “Il supplente” e a rileggerlo integralmente, a distanza di forse vent’anni. Mi è piaciuto più ancora della prima volta, ora sono davvero curioso di sapere altro su Puccinelli. Ne riparleremo.

Riparliamo invece subito di Nico, perché la rilettura ha coinvolto anche le sue prose. Gamalero, come prevedibile, non era la sede per approfondire le nostre reazioni al testo e scambiarcele. Comincio a farlo quindi in queste brevi righe, in attesa di tornarci sopra faccia a faccia, magari qui a Lerma, quando ti deciderai ad abbandonare per un pomeriggio le pianure. Mi limito a qualche spunto, sapendo che poi tu ci rimuginerai sopra.

 

Dunque: in primo luogo il bianco e nero. Ho buttata lì nel corso dell’incontro questa impressione, senza spiegarla. È legata alle case di ringhiera, quelle appunto del tardo neorealismo cinematografico, alla Luciano Emmer, per intenderci. Le foto stesse presenti nel libro e utilizzate nel video di presentazione, anche se a colori, ci rimandano solo gradazioni di grigio, magari seppiato. Voglio dire che quel mondo lo ricordiamo in bianco e nero perché era davvero in bianco e nero, sia pure declinato in tutte le sfumature intermedie (mio padre, mio nonno, mia nonna e le mie zie, non li ho mai visti indossare un abito colorato). E così ci era rimandato non soltanto dalle fotografie ma anche dai quotidiani, dagli albi a fumetti e da rotocalchi come l’Europeo e l’Espresso, o magari La Domenica del Corriere e Oggi, e dai noir e dai western classici. Al più erano a colori le copertine, le locandine e i manifesti, a segnare l’ingresso in un’altra dimensione: ma all’interno anche questa era poi monocromatica. Perciò ogni ricostruzione colorata (ad esempio gli sceneggiati televisivi, quelli che oggi chiamano fiction e che raccontano la storia di Girardengo o di Majorana; o i film, come quello tratto da Levi – hai presente? – arrivati dopo che ci eravamo fatti gli occhi e la coscienza sui documenti filmati della guerra e dei campi di sterminio e sulla Settimana Incom) suona insopportabilmente falsa, perché quei colori non appartenevano a quel mondo.

 

Secondo spunto. Riguarda la voglia cui accenni di “evadere attraverso i libri, le riviste, le novità, le golosità”, ecc. La smania di “evasione” è da sempre connaturata agli spiriti giovani, impropriamente confusi con quelli liberi, ma almeno per ragioni biologiche senz’altro più aperti al cambiamento: e quindi ogni forma di racconto di una qualche diversità, da quello orale a quello per immagini e a quello scritto (e certo, anche quello che passa per le scoperte gastronomiche) l’ha alimentata. Tuo fratello ha vissuto in questo senso l’ultimo bagliore di un crepuscolo, mentre già incombeva la notte. Intendo dire che mai come nella prima metà del ‘900 quegli strumenti (e parlo di novecento perché ci metto anche il cinema) hanno lavorato in quantità (per la maggiore facilità di accesso) e in qualità (per la ricchezza iconografica, ad esempio, ma anche perché aprivano su mondi sempre meno remoti) a favorire piani di fuga. La notte però già incombeva, perché quegli stessi strumenti, la loro ricchezza, la loro accessibilità, il loro riferirsi a mondi prossimi, finivano per ridurre l’evasione ad una escursione fuori porta (tu stesso, in “Di che cosa ci siamo nutriti”, parli della ritualità quasi sacrale del Mottarello. Oggi li vendono a pacchi da dieci nei supermercati, è sufficiente aprire il frigorifero e scartarne uno, magari anche due: quale sacralità, quali mondi vuoi che ti aprano! Lo stesso vale per qualsiasi specialità non solo dell’albese o della Lomellina, ma thainlandese o malgascia). E inoltre venivano sempre più scopertamente e sfacciatamente utilizzati per condizionare e persuadere.

Hanno in pratica preparata la strada all’“invasione”: quella televisiva, che non ti faceva venir voglia di buttarti fuori, ma induceva a rimanere lì seduti. Con la televisione il mondo viene a te, non c’è più alcun bisogno di andarlo a cercare. Di conseguenza, la forza e la funzione dei libri e delle riviste è cambiata: oggi offrono delle conferme, non più delle scoperte.

 

Terzo. Poesia e prosa = Fotografia e cinema. Ripeto cose scontate. La prima induce, anzi, obbliga a soffermarsi, a riflettere sulla singola immagine, o sulla singola parola-immagine. La seconda (e il secondo) ti tira via per la maglietta, devi spostare l’attenzione velocemente, se non vuoi perdere il filo. È vero che ci sono pagine di prosa che “documentano” perfettamente una realtà o una situazione: ma anche in esse ogni parola è un fotogramma che acquista senso solo in funzione di quanto precede e di quanto segue, e non possiede una sua intrinseca icasticità. E tuttavia, possono esistere anche una prosa e un cinema nei quali l’urgenza della storia non la vince sulla profondità dello sguardo.

Mi spiego. I ritmi e i toni della scrittura di tuo fratello mi hanno fatto immediatamente riandare al cinema di Robert Bresson, quello che nei primissimi anni sessanta proprio la televisione (in splendido bianco e nero) e Claudio G. Fava – ma ora mi viene in mente che prima di lui c’era un altro, del quale non ricordo il nome – mi facevano scoprire al bar Italia, per una consumazione minima di cinque caramelle Mou e nel quasi religioso silenzio degli altri avventori, che al termine di ogni film di Bergman o di Dreyer mi chiedevano cosa cavolo significasse, ma il lunedì successivo erano pronti a riprovarci (ho avuto un momento di vera gloria solo col primo favoloso ciclo di John Ford). Ho riconosciuto un modo di raccontare assolutamente asciutto, come asciutte erano ancora le persone, prima del boom e delle merendine: e in fondo, anche la prigione de “Un condannato a morte è fuggito” era una casa di ringhiera (ora che ci penso, potrebbe essere un titolo emblematico – e non solo per Nico – se parafrasato all’ottativo – “avrebbe voluto”, oppure “ha provato a” fuggire).

Ecco, quel tipo di scrittura, tutta particolare perché in apparenza ha i modi, oltre a riguardare i luoghi, di Pavese e di Fenoglio, ma applicati ad altro oggetto e al servizio di un diverso sguardo, mi sembra l’estrema espressione di un mondo provvisorio, quello che giustamente tu definisci “sospeso”. Sospeso tra il rimpianto per un passato che per altri versi è avvertito come opprimente, ma dal quale è difficile staccarsi, e un futuro che si è sognato attraverso le letture e il cinema, ma che già si intuisce non sarà quello sperato. Il futuro è appunto quello dominato dal colore, e il colore è immediatamente spettacolarizzazione. Io possiedo alcuni calendari tedeschi e svizzeri degli anni trenta: immagini di baite o di castelli, o di interi paesini, sotto la neve. Un mondo esattamente simile a quello attraversato da Leigh Fermor nella sua favolosa camminata dell’inverno del ‘33, che infatti lo racconta, a distanza di quarant’anni, in bianco e nero. Perché era così. Il colore suona paradossalmente falso. Le sinopie del mondo sono in bianco e nero e siamo noi poi a colorarlo, e i toni e le sfumature non sono mai oggettivi. Ricolorare è una interpretazione, ma quando non siamo noi a farlo, quando i colori non li scegliamo ma ci vengono già serviti, o meglio, imposti, allora è una falsificazione: serve solo a distrarci, a riempirci gli occhi per coprire la povertà di contenuti e di significato, a moltiplicare le sfumature per negare i contrasti. Il bianco della giubba di Alan Ladd, il nero della camicia di Jack Palance, e sai subito dove sta il bene e dove sta il male; quando hai uno spettro cromatico infinito non ci capisci più nulla.

Era anche un mondo lento, che poteva essere raccontato appunto solo alla velocità di chi cammina a piedi, massimo a quella di una vecchia corriera di linea. Oggi guardiamo e raccontiamo il mondo come se lo vedessimo dai finestrini di un TGV lanciato a trecento all’ora. Non ci è concesso fermare lo sguardo su una casa, su un albero, su una mucca al pascolo; divoriamo distanze immense senza vedere nulla.

 

La condizione vissuta da tuo fratello nei primi anni sessanta è la stessa che tu ed io abbiamo vissuto nei trenta successivi. Eravamo presi in mezzo in un mondo in trasformazione, questa non ci piaceva ma continuavamo a pensare che fosse comunque naturale e necessaria, e che dopo le brutture della fase di demolizione sarebbe tornato il bello. Negli ultimi venti abbiamo cessato di crederlo e ci siamo rassegnati ad una difesa poco convinta, ad una conservazione di luoghi e modi e memorie che rischia sempre l’immediata patinatura, ad una rievocazione possibilmente intima e parcamente condivisa. Sappiamo che potrà essere solo peggio. Nico e i suoi coetanei (vedi Puccinelli) l’avevano già capito, perché il passaggio dal bianco e nero al colore l’avevano vissuto più direttamente; era stato anzi la loro speranza, perché i colori erano quelli artificiali del tecnicolor, tuniche rosse fuoco, praterie verde pastello, cieli azzurro intenso; o quelli delle copertine di Tex, del Vittorioso e di El Coyote: o delle etichette di biscotti e di liquori. I colori del sogno, appunto. Erano depositari di una speranza di cambiamento che andava avanti da quasi un secolo, che era stata rallentata – ma anche alimentata – da due successive guerre, e che soprattutto dopo l’ultima sembrava aver trovato il terreno su cui posare i piedi. Ma erano anche quelli che, appena posati i piedi, si stavano accorgendo che si trattava di un terreno paludoso, nel quale era facile impantanarsi e sul quale crescevano rigogliose solo le malepiante. Che a differenza del bianco e del nero gli altri colori sbiadiscono velocemente, e in un mondo artificialmente colorato tutti i gatti diventano presto grigi.

 

Certo, qualcuno lo aveva previsto: il suo Heidegger, ad esempio. Ma senza varcare le Alpi e molto prima, qui da noi, Leopardi. Per la generazione di Nico il vero maestro avrebbe potuto essere, se spogliato del colore – appunto  politico, Timpanaro.

La nostra, di generazione, ha già perduta nell’infanzia la chiarezza dello sguardo. Gli ultimi film di Ford, alla fine degli anni cinquanta, vengono girati a colori. I colori falsano la realtà, illustrano il sogno: ma noi, a differenza di Nico, non lo sapevamo. Per questo ci siamo ridotti a quella parodia di rivoluzione che è stato il Sessantotto, a quella parodia di cultura che è l’arte contemporanea, astratta, povera, concettuale, informale, postmoderna che si voglia, tutta necessitante a priori di un aggettivo giustificativo, perché da sola non reggerebbe, a quella sostituzione del prodotto all’opera che ha supermercatizzato la musica e la letteratura.

Il fascino asciutto delle pagine di Nico è quindi, per ciò che mi riguarda, nella perfetta e lenta essenzialità che le informa. Nico guarda, constata: non fa analisi sociologiche o antropologiche, non dà letture politiche. Non è necessario. Ciò che vede, che sente, non ha bisogno di commenti. E questo ha niente a che fare, naturalmente, col realismo. È oggettività dello sguardo, una cosa ben diversa. In Francia la chiamavano école du regard, non c’entra con Bresson, ma il risultato è lo stesso. Significa inquadrare le cose, scegliere i particolari, metterli a fuoco, tutte operazioni che richiedono calma e lentezza. Insomma, io penso che raccontare attraverso i tempi lunghi di posa consenta di scegliere della vita ciò che davvero ci interessa, creare un percorso; mentre la possibilità di cogliere la realtà attraverso istantanee significa lasciar scegliere alla realtà stessa, mettersi in sua balìa.

 

Come puoi constatare ho idee molto confuse. In questo momento, che per me è di ulteriore transizione, più del solito. Magari una chiacchierata potrebbe aiutarmi a riordinarle. E quindi aspetto. Nel frattempo cerco di tener sveglio il cervello con la lettura delle prime cose di George Steiner, raccolte in “Linguaggio e silenzio”. Sono saggi composti tra gli anni cinquanta e i sessanta, guarda caso, incredibilmente lucidi e scritti divinamente. Nascita, apogeo e morte (o almeno agonia) del linguaggio umanistico, e conseguentemente del pensare umanistico, e in pratica di tutto ciò in cui abbiamo identificato fino a ieri la specificità, sia pure sempre in fieri, dell’umano. Il piacere che ne traggo è solo guastato dalla rabbia per il tempo perso sino ad ora non leggendoli. Se non li conosci, te li consiglio vivamente. Sono molto agostani (ma potrebbero anche essere dicembrini).

A presto, Paolo