Introduzione a “Dai quartieri d’inverno”

di Paolo Repetto,

Un tempo persino la guerra rispettava i ritmi della natura. Quando arrivava l’inverno (perché allora l’inverno arrivava ancora), o già addirittura dopo le prime piogge autunnali, le attività militari venivano sospese, per riprendere poi nella primavera successiva. La pausa invernale era determinata da ragioni oggettive (lo stato delle strade, ad esempio, non consentiva lo spostamento di truppe, l’ equipaggiamento dei soldati non permetteva certamente loro di affrontare i rigori del clima, ecc … ), ma era regolamentata anche da un sorta di codice, un patto cavalleresco garantito dalla chiesa stessa. C’erano addirittura delle date, nel medioevo, che aprivano e chiude-vano ufficialmente la stagione della guerra. Durante le pause, in genere piuttosto lunghe, gli eserciti venivano temporaneamente disciolti, ma i graduati trovavano alloggio nelle caserme o in accampamenti fissi, oppure, in mancanza di questi, erano “acquartierati” in particolari zone della città , nelle abitazioni dei civili (si può immaginare con quanta gioia di questi ultimi).
Erano i “quartieri d’inverno”, luoghi dell’ozio, del riposo e anche del vizio. Ma talvolta erano i luoghi e i momenti della riflessione. Cartesio iniziò a pensare alla geometria analitica e alle Meditationes proprio durante una pausa invernale della guerra dei Trent’anni, trascorsa nella Baviera coperta dalla neve. Non è necessario comunque risalire tanto addietro: ne “Il partigiano Johnny” Fenoglio fa muovere il suo eroe proprio in uno di questi particolari momenti. Il “quartiere” è in questo caso rappresentato dalle colline innevate della Langa.
I pezzi che seguono sono stati concepiti in un clima interiore molto simile (quello esterno non poteva essere più diverso, e non solo per l’assoluta assenza di neve e per le temperature anomale); nell’accattivante sensazione di vivere una pausa, ma anche nel timore che possa prolungarsi troppo, che le ostilità non riprendano (o che quand’anche riprendessero, non si avrebbe più voglia o non si sarebbe più in grado di partecipare).
Non sono Cartesio, e nemmeno Fenoglio, ma amo anch’io gli intervalli di pace e di silenzio che consentono di riordinare le idee e magari di immergersi nella lettura accanto al fuoco. Questo libricino non è forse utile alla prima attività, ma è senz’altro congeniale alla seconda. Se annoia, potrà almeno alimentare la fiamma.

 

Critica della ragione informatica

di Paolo Repetto, 2013

Le molte ore trascorse davanti al computer per realizzare questo libretto mi hanno costretto a rimeditare il mio rapporto con la tecnologia. Ne sono scaturite alcune elementari considerazioni, che sarà il caso magari di sviluppare e argomentare meglio in altra sede, ma che vorrei già qui proporre come stimolo, per me e per gli amici, a proseguire lungo il cammino intrapreso. Questo lavoro è stato reso possibile da un supporto tecnologico che è ormai alla portata di chiunque, ma che solo dieci anni fa sarebbe apparso (almeno a noi) fantascientifico. In questo frattempo non è caduto solo il muro di Berlino, sono crollate ben altre barriere. Oggi chiunque è in grado, con un po’ di buona volontà, di far circolare le proprie idee in una veste dignitosa. La stampa e l’impaginazione non hanno nulla da invidiare a quelle dell’editoria professionale, e il risultato non è solo l’appagamento di uno sfizio estetico, ma una leggibilità che si traduce in rispetto per il lettore e incentivazione alla lettura.

Non dobbiamo illuderci, naturalmente, che tutto questo non abbia dei costi, e non mi riferisco a quelli materiali per l’acquisto, la gestione e il ricambio degli strumenti. Mi riferisco a due aspetti, due rovesci di medaglia connessi a questa nuova potenzialità. Il primo concerne proprio la qualità del prodotto. Ciò che ciascuno di noi è in grado di produrre oggi ha sì un aspetto dignitoso, ma si tratta di una dignità conquistata con l’omologazione ad uno standard: ogni nostro discorso sembra acquisire credibilità ed autorevolezza nella misura in cui si allinea, almeno nell’incarto della confezione, al linguaggio ufficiale del sistema. La potenziale diversità dei contenuti viene mimetizzata dalla conformità dell’etichetta, e forse davvero già in parte disinnescata dall’atteggiamento, o meglio dal tipo di attenzione, che induce nel lettore. Per capirci, quando ci si trova di fronte a caratteri e forme del tutto simili a quelli con cui viene confezionata ogni velina del sistema si finisce per rapportarsi al testo con attitudine non molto dissimile.

Ma non è tutto. Una forma di condizionamento viene esercitata dalla informatizzazione del testo anche alla fonte, nel momento in cui abbiamo la possibilità di tradurre in tempo reale i nostri concetti nel formato stampa, cioè in qualche modo di ufficializzarli, e di leggerli in una veste che almeno graficamente ha già le caratteristiche del prodotto finito. La sensazione di precarietà, di soggettività, e quindi lo stimolo al ripensamento implicito nella scrittura manuale, vengono meno quando le nostre parole si allineano in perfetto ordine sul monitor, e prefigurano l’impeccabile schieramento sulla pagina: uno schieramento più adatto allo spettacolo della parata che al caos della battaglia, che finisce per condizionare fortemente anche la manovra dei concetti. Paradossalmente, proprio la possibilità di intervenire infinite volte sul testo in tempi brevissimi, di integrarlo e modificarlo senza scomporne l’ordine visivo, possibilità che così bene si attaglia all’andamento spezzato e cumulativo del nostro pensiero, disattiva le barriere critiche e i filtri di una meditata rilettura.

Di questo dobbiamo essere consapevoli. E tuttavia questa consapevolezza non può andare disgiunta da un’altra, quella che la tecnologia primitiva del ciclostyle, rozza ibridazione tra la manualità e la riproduzione a stampa celebrata come alternativa alla sofisticazione degli strumenti del potere, si alimentava in realtà di un falso mito, gratificava solo chi i testi li produceva (se era di bocca buona) ma non ha mai incoraggiato nessuno a leggerli.

La seconda obiezione attiene invece all’aspetto quantitativo. L’enorme massa di prodotti culturali messi in circolazione sia dalle reti sia dalla produzione editoriale personalizzata vanifica in realtà l’apparente democratizzazione comunicativa. Le voci che prima erano escluse dal coro ora si perdono nella infinita folla dei coristi. Forse era davvero più facile trovare un uditorio minimo ma attento quando gli strumenti di cui si disponeva non erano accordati, e il loro suono risaltava proprio per la distonia. E ancora: perché dovrebbe importarci di giungere virtualmente a milioni di interlocutori, quando ciò che abbiamo da comunicare non attiene più alle idealità universali di liberazione ma ad un riscatto quotidiano e singolare dalla miseria dell’esistenza, ed è in verità condivisibile solo con pochi intimi?

Forse tutto questo è vero, e forse il lavoro che sto facendo è solo una povera compensazione di quel che è andato perduto. Ma questa consapevolezza non riesce comunque a rovinarmi il piacere che ne ho tratto e quello che ancora me ne attendo. Ho realizzato un piccolo sogno, governandone ogni passo, decidendone le sequenze, i tempi, il colore e persino il numero e la qualità dei destinatari. Mi è stato possibile grazie ad una particolare tecnologia, e gliene sono grato. Non mi sono arreso alle sirene dell’utopia tecnologica e non mi sono convertito al suo credo: ho semplicemente sfruttato qualcosa che bene o male avevo a disposizione. Ora me ne stacco, e lo lascio lì, spento e inerte. Sino alla prossima volta.

 

Introduzione a “Le serate della valle del Fabbro”

di Paolo Repetto, 2013

Una parte delle riflessioni e delle conversazioni ospitate in questo libretto era stata edita, diversi anni fa, in una raccolta dal titolo “Ragguaglio sulla coltura dei semplici”. Ho aggiunto alcuni testi che già comparivano in raccolte già edite, ed altri redatti in forma epistolare negli ultimi anni: altri ancora li ho eliminati o semplicemente spostati.

Ho anche cambiato la titolazione, un po’ per non sprecare quella destinata originariamente ad un lavoro che non sarà mai portato a termine, ma soprattutto perché gli spunti di molti di questi scritti sono venuti dagli incontri che si svolgevano a metà degli anni novanta al capanno dei Viandanti, nella Valle del Fabbro.

Quelle serate erano occasione di una convivialità genuina, libera e intelligente. Sono stati momenti molto fertili, e purtroppo irripetibili, che hanno lasciato intravvedere a tutti i partecipanti una possibilità di vita e di amicizia autentica. Per un brevissimo periodo quella possibilità l’abbiamo anche vissuta, ed è già molto.

Anche i pezzi più recenti sono occasionati da incontri e conversazioni che pur non avendo avuto luogo nella Valle del Fabbro in qualche misura ne hanno rinnovato lo spirito.

 

Un elogio del dilettantismo

di Paolo Repetto, 30 maggio 2013

I pavoni nascondono a volte agli occhi di tutti
la loro ruota – e ciò è la loro superbia.
F. Nietzsche

Immagino che il titolo di questa conversazione susciti qualche perplessità. Vengo a tesservi l’elogio del dilettantismo in un’epoca in cui da ogni parte si fa appello alla professionalità: se non di un’eresia, potrebbe avere il sapore di una provocazione e, quel che è peggio, di una provocazione del tutto gratuita. È meglio quindi sgombrare subito il campo da aspettative o interpretazioni fuori misura. La mia sarà una semplice riflessione ad alta voce, nel corso della quale parlerò di cose in cui credo davvero, e che naturalmente possono essere non condivisibili. Di questo avremo modo, se lo riterrete, di discutere. Se invece dovesse risultare proprio un’eresia, vorrei che apparisse almeno motivata e consapevole.

Come chiede lo spirito di questi incontri, racconterò di una passione, quella della scrittura, che coltivo al di fuori della mia occupazione ufficiale, e che tuttavia con quest’ultima ha naturalmente più di un rapporto. Lo faccio volentieri perché raccontare mi piace, in fondo è stato per anni il mio mestiere, e perché l’impegno a parlare di questa passione mi costringe a riflettere sul significato che attribuisco ad alcuni termini e sui comportamenti che conseguono a tale attribuzione.

Partiamo dunque dalla terminologia.

In questa e nelle precedenti serate sono chiamati in gioco due concetti, quelli di professionismo e dilettantismo. Nel modo comune di sentire a questi concetti corrispondono i due diversi atteggiamenti che possono essere assunti, per scelta o per necessità, rispetto ad attività specifiche, ma oserei dire anche rispetto all’esistenza nel suo assieme. Da essi derivano poi i sostantivati professionista e dilettante e gli aggettivi professionale e dilettantesco. Ora, mentre per i concetti e i sostantivati sopravvive bene o male una distinzione neutra, nel senso che non implicano un giudizio di valore ma indicano solo diverse modalità di approccio (che poi nell’utilizzo corrente dei termini il giudizio di valore entri comunque è un altro discorso), per quanto concerne gli aggettivi questi vanno ormai decisamente a connotare nel primo caso un approccio serio, un impegno continuativo e profondo, una conoscenza robusta, nell’altro un interesse quanto meno non prioritario, un impegno sporadico e superficiale, una conoscenza limitata, quando non lacunosa. A monte c’è una separazione tra professione e diletto che oserei dire tutta e solo moderna, e alla cui origine varrebbe la pena dedicare uno specifico incontro: ma non voglio annoiarvi con un’esegesi storica e semantica nella quale affogherei dopo due bracciate. Mi importava solo mettere sullo sfondo alcune delle sfumature che i concetti di dilettantismo e professionismo possono assumere e delle ambiguità cui possono dare origine.

Definito lo sfondo, torno ad occuparmi del tema specifico della serata: la mia passione per la scrittura. Alcuni giorni fa ho provato a redigere una bibliografia di quel che ho scritto nell’ultimo quarto di secolo. Ho recuperato un centinaio di titoli, per cose che variano in consistenza da una a trecento pagine: mi ci sono volute due ore. Provo ora a riassumere l’elenco, limitandomi agli argomenti e ai temi principali, perché l’insieme mi ha lasciato perplesso. Dunque: per lo scaffale filosofia e storia delle idee ho scritto tra l’altro su Pico e Bacone, sull’etica di Kant, sulle origini dell’idea di progresso, sulle rappresentazioni del male nel medioevo, sul mito del buon selvaggio e sulla nascita del razzismo. Per quello di storia sugli eretici e sugli ebrei nel medioevo, sulle esplorazioni geografiche e sul colonialismo, sulla rivoluzione inglese e sugli utopisti del Settecento. E poi, una storia dell’alpinismo e una del fumetto western, una storia della scuola e una della scrittura al femminile nell’800: e biografie di viaggiatori, esploratori, scienziati, anarchici, uomini politici, avventurieri e filosofi, oltre a quella di mio padre, e implicitamente alla mia. E mi fermo qui, perché avrei fatto prima ad elencare quello che non ho scritto. O almeno, che non ho ancora scritto. Perché non è finita. Esiste anche un elenco di quello che non sono riuscito a scrivere. Non preoccupatevi, ve lo risparmio.

Non vorrei che questo inventario fosse letto come una fiera di erudizione: mi sembra ci si possano scorgere piuttosto i sintomi di un notevole disordine mentale, di un cervello che fa più giri di un frullatore e rischia di ottenere gli stessi risultati, un omogeneizzato di neuroni. Di positivo c’è però un fatto: non ho spacciato in giro questa roba. Il che non vuol dire che le cose che ho scritto non abbiano una circolazione: significa semplicemente che non ne ho “pubblicata”, nel senso di “messa sul mercato”, una sola riga. In compenso provvedo io stesso ad editare dei volumetti artigianali (questi appunto che vedete), in tirature nell’ordine delle unità, fascicolati e pinzati a mano, operazione che mi procura un particolare piacere sia fisico, tattile e visivo, che psicologico. Inoltre gli scritti sono reperibili da qualche tempo, in questo stesso formato, sul sito dei Viandanti delle Nebbie; per cui tutto quello che andrò ora a dire ha senso solo sino ad un certo punto, solo all’interno di una concezione appartenente al secolo scorso, che vedeva nella pubblicazione a stampa la certificazione di una qualità “professionale”, e quindi alta, della scrittura.

In sostanza: queste cose girano, sia pure entro un circuito molto ristretto, ma non sono in vendita, non vengono distribuite ad un euro in più rispetto al costo del quotidiano e neppure sono edite a spese di qualche ente pubblico o fondazione bancaria.

Ora, è chiaro che di per sé la mancata pubblicazione non significa niente: a dispetto di tutto, credo che solo in questo paese gli aspiranti autori siano qualche milione. Ciò che restringe alquanto l’apparentamento è il fatto che la pubblicazione non l’ho mai cercata (ma anche qui, siamo ancora in parecchi), o l’ho semplicemente declinata quando mi è stata proposta (e qui direi che diventiamo invece pochini).

Perché non ho cercata, o ho in alcuni casi rifiutata, la pubblicazione? Un’amica mi ha detto che questo mio “disinteresse” è frutto di un atteggiamento snobistico (accreditandomi peraltro di uno snobismo molto sottile, perché in genere, contrariamente a quanto ora sto facendo, non lo ostento). Dal momento che la mia amica è una persona ironica e intelligente presumo abbia assolutamente ragione, e che la sua non volesse affatto essere una critica. Forte poi del fatto che non ho mai ben capito cosa sia snob, io l’ho preso per un complimento: se vuol dire quello che intendo io, mi iscrivo da subito tra i candidati alla qualifica di snob.

Non sono infatti una persona semplice, come sanno tutti quelli che mi conoscono, ma sono paradossalmente troppo sbrigativo, o forse solo troppo pigro, per complicarmi la vita con calcoli del tipo “mi si noterà di più se pubblico o se non pubblico”. E nemmeno mi si addice l’atteggiamento dell’incompreso che difende orgogliosamente la sua dignità: “meglio primo tra gli inediti (ma qui è una bella lotta) che ultimo tra i pubblicati”. Per la carità! È tutto molto più banale (anche se, a rifletterci bene, il mio modo di vedere la cosa è davvero un po’ complesso – che è comunque diverso da complicato).

Non so se sono uno snob, ma sono certamente sotto alcuni aspetti presuntuoso. Presumo, o meglio, pretendo da me (il “tu devi” kantiano) livelli alti. Le misure naturalmente le detto io. Ora, nella scrittura i livelli sono determinati da due fattori: ciò che hai da dire, e come lo dici. Io non credo di avere da dire nulla di particolare. Per quel che concerne la saggistica, in primis gli interessi storici, non ho raccontato alcunché di nuovo e non ho elaborato teorie o interpretazioni innovative. Le cose che ho scritto sono in fondo ovvie, al più le ho magari messe in fila in maniera un po’ diversa, e presentano un colpo d’occhio differente. Ma nulla per cui valga la pena davvero sbattersi a diffonderle. Se sotto sotto un intento c’era, era quello di divulgare divertendo: ma, come vedremo, un intento del genere cozza almeno in parte con la concezione della cultura che coltivo, questa forse davvero snobistica.

Per la narrativa vale invece un’altra considerazione. Qui la forma è quasi (o senza quasi) più importante del contenuto, perché in fondo quelle che si raccontano da duemila e cinquecento anni a questa parte sono sempre le stesse storie, e quindi ciò che conta sono le varianti nell’insaporitura e nella presentazione del piatto. In questo campo credo di avere almeno un dono: so riconoscere la mano felice, e distinguere tra chi ha la mano felice e chi scrive bene. Chi scrive bene fa dei compiti onesti e corretti, chi ha la mano felice regala coinvolgimenti ed emozioni. Bene, io ho capito, molto presto per fortuna, di essere uno scrivano diligente e ordinato, al più talvolta un po’ bizzarro, ma di non avere “il dono”. È stato intuitivo, ma ne ho avuto poi la conferma in più di una occasione, quando ho letto i libri che avrei voluto scrivere io, o che addirittura in parte avevo già scritto, e ho capito che non avrei mai saputo dire le stesse cose altrettanto bene.

Secondo voi, quando uno ha questa duplice consapevolezza, di non aver nulla di così importante da dire e di non avere le qualità per dire le cose in maniera così affascinante e diversa da valer la pena trasmetterle agli altri, che deve fare? Si lascia morire d’inedia o si iscrive a una scuola di samba? No, se come me ama il cibo ed è goffo nei movimenti continua a scrivere, disgiungendo questa attività dalla prospettiva di essere pubblicato. Continua a scrivere per sé, anche se poi, nel momento stesso in cui scrive, lo fa pensando ad ipotetici lettori. Intanto però si gode il fatto di non dover tenere conto di lettori reali, ma di un pubblico perfetto, di non soggiacere allo stress di adattare il proprio pensiero a quello degli altri, perché i suoi lettori ideali sono tanto sensibili e intelligenti da capire senza problemi ciò che sta dicendo.

Questa libertà non è cosa da poco. Chi scrive per sé immagina di rivolgersi ad un ideale pubblico di lettori, e ciò lo aiuta a decidere come impostare il discorso, che sviluppi dargli, ecc…, ma poi in realtà scrive quello che vuole, quello che gli passa per la testa: solo cerca di metterlo in riga in una forma strutturata, discorsiva, argomentativa, convincente, insomma, vedete un po’ voi. Può suonare come un esercizio sofistico fine a se stesso, e magari lo è, ma alla fin fine anche per rispettarsi un po’ di disciplina ci vuole. Personalmente quando mi metto davanti al foglio a quadretti ho già in testa il succo del discorso, so dove voglio arrivare, ma in genere non ho la minima idea di come farlo. Le cose vengono poi da sole. Scrivo di getto, fino a che non ho tirato fuori tutto. Poi riverso quello che ho scritto sul computer, e magari cambio completamente l’ordine, ma quasi nulla della sostanza.

Questo del passaggio al computer è però un argomento particolare, cui vorrei dedicare qualche minuto. Devo innanzitutto confessare che non è del tutto vero che non ho mai pubblicato nulla. Moltissimi anni fa, quasi quaranta, ho collaborato alla scrittura di un’opera a carattere storico a molte mani, che finì per occupare dieci volumi, pubblicati nel giro di cinque o sei anni, e alla quale contribuirono anche nomi importanti, quasi tutti stranieri (ecco una possibile ulteriore motivazione del mio “disinteresse” attuale per la pubblicazione. Diciamo che ho già dato, ho già avuto e non ho bisogno di provare nuove ebbrezze. Ma in questo momento mi serve per parlare di un’altra cosa). All’epoca scrivevo come oggi a mano, correggevo e riscrivevo, battevo poi su una Olivetti 22 e ricorreggevo ancora; infine trascrivevo il testo risultante in tre copie, con la carta carbone. Sembrano secoli, succedeva invece fino a venticinque anni fa.

Bene, questo procedimento imponeva un ordine mentale completamente diverso. Per ogni capitolo stendevo una scaletta, ordinavo gli eventi e le argomentazioni, li sviluppavo, curavo poi le cuciture, ci tornavo per la lucidatura linguistica definitiva. Un lavoro certosino, che comportava lunghe riflessioni su ogni frase, su ogni rigo, prima di passare alla trascrizione. Ricordo ancora l’emozione che provai nel vedere stampato il mio primo capitolo: non mi sembrava neppure più mio, l’ultima volta che lo avevo riletto era tutto rabberciato dalle correzioni che andavano a sovrapporsi alle battute sbiadite di un nastro usato per dritto e per rovescio. Ora era lì, ordinato e disteso in sedicesimo su fogli di carta levigata, in file ordinate, senza lettere spostate in alto o in basso, senza sbavature o spazi superflui. Aveva acquisito l’autorevolezza della parola stampata, che lasciava supporre dietro ben altre conoscenze e anni di ricerche di quelli che io sapevo esserci in realtà.

Oggi quell’autorevolezza, se uno sa impostare un layout editoriale, cosa che è estremamente semplice, le tue parole ce l’hanno subito: ma paradossalmente il fatto di poterle cancellare o spostare o tagliare e ricucire, ecc …, finisce per togliergliela. Non so se riesco a spiegarmi. Il computer induce a scrivere (e infatti!), ma non induce a ripensare e a meditare molto su ciò che si scrive, e alla fine neppure a crederci. Vedi già l’effetto che fa, e questo ti ruba (almeno, lo ruba ad uno snob come me) il piacere e l’affanno di scoprire quello che potrebbe fare. Inoltre, che la destinazione sia o meno quella della stampa, la facilità e la velocità stesse con cui si arriva ad un’alta definizione “visiva” del testo finiscono per fartelo considerare un prodotto di rapido consumo, e quindi a farti curare piuttosto i dettagli della confezione che non la genuinità degli ingredienti. È sufficiente andare a consultare qualche voce su siti di prestigio, che dovrebbero fornire garanzie di accuratezza (provate quello della Treccani, ad esempio), per averne la prova. Chiusa la parentesi.

Torniamo invece alle motivazioni. Insisto, io scrivo per il piacere di scrivere. Quando scrivo un pezzo cerco di salvaguardare i diritti tanto del respiro mentale quanto di quello fisico, di dargli scorrevolezza; voglio che la superficie risulti liscia come quella di un piatto ben lavato. Mi disturbano le scabrosità, e ripasso più volte la spugnetta. Poi, quando finalmente riesco a staccarmene, di norma molto prima di esserne davvero soddisfatto, lo faccio alla maniera dei lupi. È un figlio che deve andare per la sua strada, ho già in mente altro. In genere non rileggo volentieri le cose che ho scritto, perché ogni volta cambierei e rifarei tutto, ma sostanzialmente perché non mi interessano più. Non che non mi interessi più l’argomento: solo, quel pezzo era una sorta di riassunto mentale di cui avevo bisogno per riordinare le mie idee, utilizzabile magari anche per un confronto ristretto con quelle altrui. È normale che dopo qualche tempo, ci sia stato o meno il confronto, mi appaia superato.

Un’altra motivazione del mio … chiamiamolo riserbo, è che ritengo che le cose che scrivo siano strettamente legate alla mia persona e alla mia storia, forse troppo per poter essere lette da chi non mi conosce. Anche qui, non so se considerare questo come un esito o come un presupposto. Voglio dire che quando scrivo, e mi scelgo il mio pubblico, posso dare per scontate certe conoscenze, relative sia ai fatti, ai personaggi o agli argomenti che tratto, sia a chi li tratta. Dato che in genere mi accosto alle cose con un certo disincanto, che io vorrei fosse ironia, e dato che non sempre sono sicuro che si capisca che sto usando quel metro, mi rassicura poter pensare che chi mi conosce sa che sono così, e che uso quel metro. Tutto ciò mi permette anche di civettare col mio lettore ideale, facendo riferimenti o allusioni a ipotetiche conoscenze o esperienze comuni (ecco, il mio pubblico ideale potrebbe essere quello di una cerchia ristretta cui leggere le mie cose, sul modello di Tolkien e degli Inklings. In questo caso il dominio sulla materia sarebbe totale, perché sarei padrone anche dei toni e delle pause. Lo so, questa è già patologia).

A questo punto si sarà capito quanto autocompiacimento c’è dietro quello che scrivo. E come ciò sia incompatibile con una possibile “mercificazione” delle mie cose, perché la pubblicazione è anche questo. Le cose che scrivo non possono avere un prezzo di copertina: nessuno può acquistare il diritto di leggerle per qualche euro. Entrano in un giro di scambio che suppone l’amicizia e la reciprocità. Soprattutto, voglio mantenere una posizione di forza nel rapporto: se non ti piacciono, non ti sono comunque costate nulla, non puoi lamentare una delusione. Non è però solo una deviazione mentale: io ho davvero questa concezione dello scambio culturale, che vale per tutto, dall’arte alla musica. Non concepisco un “professionismo” culturale che non sia quello connesso ad una attività specifica legata alla cultura: l’insegnamento, la ricerca, l’organizzazione. Il mestiere di scrittore per me non esiste. Sebastiano Timpanaro, una delle figure più eminenti della nostra cultura del secondo novecento, diceva: io faccio il “revisore di bozze” (in realtà faceva ben altro, come curatore editoriale; ma dovendo qualificarsi con un’attività concreta, vedeva giusto quella).

Quindi, certo, c’è un sacco di autocompiacimento. D’altro canto, se non ci fosse non si capisce perché perdere tanto tempo (in verità neanche poi tanto) a scrivere. E comunque, per arrivare a questa conclusione ho avuto bisogno della presente seduta di autoanalisi, perché in realtà non ci avevo mai pensato seriamente prima: e forse mi sono inventato tutto per l’occasione.

No, non è così. Mi spiace di avervi fatto perdere tutto questo tempo per arrivare a dire una cosa tanto semplice, anzi, a ribadirla. Scrivo perché mi diverto, mi diverto un mondo. E badate, non ho una visione ristretta del divertimento. Ho saputo e so divertirmi in tanti modi, anzi, a dispetto del mio disincanto ho avuto la fortuna di trovare sempre la vita, tutto sommato, divertente, o almeno di saperne cogliere gli aspetti divertenti. Mi piace stare solo e stare con gli amici, camminare in montagna e rannicchiarmi nel mio studio: ma soprattutto mi piace leggere, e ancor più mi diverte scrivere (per forza, perché qui ho una parte più attiva nel gioco). Quindi mi riesce difficile immaginare una concezione penitenziale della scrittura, il tormento dello scrittore, il rovello della pagina bianca, tutte quelle cose lì che fanno tanto folklore. Non che non ci creda, per carità: immagino che chi ritiene di aver molto da dire voglia farlo nella maniera più incisiva, più perfetta, più definitiva possibile. È giusto, è serio che sia così. Ma, al di là del fatto che dovrebbe essere il traguardo anche di chi da dire ha poco, tutta questa drammatizzazione non è per me. Non ho mai creduto che Pavese si sia suicidato per impotenza creativa, di qualsiasi tipo. Se uno davvero si sente così stanco, ha mille altri motivi più validi per scendere dal treno.

Questo ci riporta comunque al dilettantismo. Dicevo che il dramma creativo non è il mio caso perché sono un dilettante, nel senso appunto che mi diletto. Davanti ad una pagina bianca non mi assale il tormento dello scrittore, casomai una compulsione a riempirla. Se non so cosa scrivere o come scriverlo, disegno: mi piace molto anche disegnare, e riempio fogli su fogli di paesaggi montani con piccole baite (n.d.r: non ho mai dipinto, né reso pubblico un mio disegno). Davanti al monitor mi diverto a cambiare le parole o la loro disposizione. Quando non mi diverto più, faccio dell’altro. E qui torniamo al discorso iniziale: non ho alcuna urgenza di comunicare alcunché al mondo. Ma si badi, sono cosciente che anche questa è a suo modo presunzione. Voglio dire: credo che mi impegnerei fino in fondo per far arrivare il mio verbo al maggior numero di persone possibile se ritenessi che fosse qualcosa di indispensabile, che potrebbe cambiare in meglio la vita di qualcuno. Oggettivamente so che non è così, quindi non vale la pena affannarmi più di tanto. So anche che se tutti la pensassero a questo modo non esisterebbe, o quasi, la letteratura e sarebbe ridotta al minimo la saggistica, perché la prima esiste anche per offrire divertimento e consolazione, e la seconda per assecondare anche le piccole e private curiosità. Per fortuna non è così, direi anzi che prevale l’idea che tutti abbiano qualcosa di significativo da dire, e godiamo di un’ampia scelta.

Sono infine un dilettante perché ho troppi interessi. L’ho già detto, ma ora vorrei chiarire che non penso che l’avere tanti interessi sia sempre un male, anche se è difficile stabilire il confine tra i tanti e i troppi (e nel mio caso poi lo è in modo particolare). Questa attitudine corrisponde evidentemente ad un modo di concepire la vita. In effetti io sono curioso di quasi tutto, e quindi non riesco a concentrarmi su qualcosa in particolare: non so rinunciare a niente che mi intrighi. Ma, ripeto, non credo che questo significhi per forza essere superficiali, e neppure che crei sempre una inconcludente dispersione. Nei casi positivi può rimandare ad esempio all’idea che sotto sotto tutto si tenga, che tra la storia del fumetto western, quella dell’alpinismo e l’etica di Kant corra un sottile legame. Magari poi l’unico legame sarà proprio il fatto che tutte e tre queste cose mi intrigano: e vorrà dire che se non c’era l’avrò creato io. In definitiva, fatte le debite proporzioni, direi che questo è un atteggiamento “enciclopedico”, sul tipo di quello degli ultimi grandi illuministi, del mitico Humboldt. Per forza mi sono innamorato di quell’uomo. Non conosceva per ragioni anagrafiche il fumetto western, ma l’etica kantiana e l’alpinismo li aveva messi assieme eccome.

Ecco, Humboldt – tanto ormai l’ho giocato e conviene quindi andare fino in fondo – è la dimostrazione che si può essere intrigati da tutto senza per forza essere superficiali e approssimativi. Se le cose che ti interessano fanno parte per te di un “grande disegno” (che non è affatto il disegno intelligente dei creazionisti, ma quello più modesto che hai in mente tu) non è necessario che vada a trovare il particolare o il dettaglio inedito per dare un senso al tuo lavoro, a meno che si tratti di un particolare che cambia tutto il quadro. Diciamo che ti riservi un lavoro di sintesi, mentre quello dell’analisi lo lasci agli altri, ai professionisti. L’importante è che qualsiasi parte ci si riserva venga poi interpretata con serietà. Occorre essere molto seri col proprio dilettantismo, perché il diletto può venire solo dalla coscienza di essere “filologicamente” inappuntabili, come avrebbe detto il solito Timpanaro. Non vedo d’altro canto che piacere si possa trarre dall’approssimazione, o dal millantare conoscenze che non si possiedono: visto che uno può scegliersi i lettori ideali, immagino vorrà sceglierli intelligenti, e voglia offrire loro cose quantomeno precise nei contenuti e corrette e accattivanti nella forma. Sono anzi convinto che il vero dilettante, a differenza del professionista, sia in una condizione che non gli consente assolutamente di barare, se non vuole prendere in giro proprio il primo e il solo lettore veramente ideale, cioè se stesso. Quindi, diletto negli intenti, ma professionalità nei modi e negli strumenti.

A chi destinare poi un lavoro svolto con questi principi è un problema secondario; se si ritiene valga la pena, sia almeno dignitoso o sia decisamente importante, lo si partecipa in qualche modo anche ad altri. Ma in genere chi si dedica a questo tipo di ricerca non lo fa per gli altri. Lo fa per rispondere ad un bisogno proprio, se vogliamo ad una propria presunzione: quella di voler capire (nei casi più gravi, di aver capito) il senso del tutto.

Ammetterete che chi si è preso un impegno simile non ha tempo da perdere con la pubblicazione.

 

Tribute to L. M. (quasi un editoriale)

di Paolo Repetto, aprile 2010, apparso su L’almanacco di INCHIOSTRO

Quando si edita un numero speciale di una rivista o di un magazine lo si fa in genere per commemorare un collaboratore scomparso o un tragico evento. Non toccatevi, perché stavolta non è così. Certo, l’evento dal punto di vista dell’Istituto un po’ negativo lo è, perché si tratta dell’uscita di Lorenzo Moro da quella che per cinque anni è stata la sua vera casa; ma lui in compenso sta benissimo, e andrà ad abbeverarsi in qualche prestigiosa università (fossimo all’estero, sarebbe uno dei gioielli all’asta nel mercato estivo).

Conoscendo Lorenzo, non vorrei che anche queste poche parole lo mettessero in imbarazzo. Volevo fingere di parlare in termini generici, ma non è facile, perché una cosa del genere non mi era ancora capitata. Ho salutato con rammarico i pensionamenti di colleghi particolarmente bravi, e con disposizione più gioiosa quelli di emerite nullità, ma l’uscita di un allievo non mi ha mai suscitato sentimenti contrastanti: ero solo felice per lui. Eppure in quarant’anni di insegnamento ho visto passare ragazzi brillantissimi, anche qualche aspirante genio, e allievi eccezionalmente popolari: nessuno però per il quale i compagni chiedessero una sorta di ringraziamento speciale.

Cosa c’è di diverso, stavolta? C’è che si è creata, e non solo tra gli allievi, una sorta di moro-dipendenza. Esiste un problema? Non funziona un computer? dobbiamo iscriverci alle olimpiadi di scienze occulte? Chiediamo a Moro. Ho provato a vedere se fosse possibile non ammetterlo all’esame, per averlo qui anche il prossimo anno, ma sembra non sia legale. Dobbiamo rassegnarci. Fino ad un certo punto, però: perché Lorenzo dovrà impegnarsi a non tagliare i ponti, e a collaborare quanto meno alla redazione del giornale. In fondo INCHIOSTRO, nella nuova versione, è una sua creatura, e potremmo denunciarlo per abbandono.

P.S. I redattori di INCHIOSTRO hanno preparato per questo numero fuori serie alcuni contributi, nello spirito consueto del giornale. Mi sono permesso di aggiungerne uno personale, una cosa scritta molti anni fa, ai tempi felici nei quali invece di lavorare insegnavo. Spero non guasti l’insieme.

S.P.S. Anche il disegno qui sotto è mio. A questo ci tengo.

 

L’Operetta al Nero

di Paolo Repetto, 2001

La saletta è più affollata di quanto temessi; qualcuno addirittura è rimasto in piedi. La scena vorrebbe essere intonata al tema dell’evento, ma la povertà dei mezzi e quella del gusto suggeriscono un’atmosfera squallida, piuttosto che macabra. Lungo le pareti si consuma una fila di moccoletti sepolcrali, mentre in capo alla sala, su un tavolo nudo, un candelabro a tre bracci regge candele di cera rossa, ancora spente. Ai lati del candelabro, dagli sfondi bui di due piccoli dipinti su tela, occhieggiano teschi e ossami vari, diafani come ologrammi: una via di mezzo tra il barocco e il postmoderno (come del resto tutto ciò che si appresta ad accadere qui dentro). Accanto al tavolo un leggio in ferro nero è fiocamente illuminato dall’alto, mentre un impianto di amplificazione celato sotto il tavolo diffonde una litania catacombale, bassa e monotona, sulle prime inquietante ma alla lunga solo fastidiosa.

Anche il pubblico è in tono. Le prime file sono occupate da una pattuglia neroblusonata, volti pallidi e composti, qualcuno incorniciato da una barbetta alla Marianini, e maglioncini scuri a collo alto. Più indietro siedono i non iniziati e i semplici curiosi, che appaiono intrigati, ma non del tutto a proprio agio. Nella penombra della parete di fondo scorgo la sagoma allampanata di Mirko e quella un po’ stralunata di Biune. Anch’io ho la mia claque.

S’inizia alle ventuno e trenta, in perfetto orario. Marco è teso come una corda di violino. Si aggira per il retro della saletta in giacca nera di velluto e cravatta viola, i capelli sparati ad aureola. Apre e chiude la cartellina che raccoglie le sue poesie, con sovracoperta in viola quaresimale intenso, pendant con la cravatta. Abbiamo concordato la scaletta su due piedi (a dire il vero l’ho decisa io). Alterneremo la lettura dei suoi componimenti, quattro alla volta, con brevi interventi miei. Quindi sono previsti una introduzione, quattro sezioni di recitativo (l’ultima con cinque poesie, Marco è stato irremovibile sul numero complessivo – diciassette, naturalmente) separate da tre intervalli, ed un commiato. Tempi ristretti, massimo un’ora e venti. Tocca a me iniziare.

Se sono qui stasera è perché in fondo me lo sono voluto, anche se mi ostino a ripetermi di no. Quando la voce di Marco mi ha sorpreso per telefono, dopo un decennio di assoluto silenzio, per intrappolarmi in una serata di letture poetiche (versi suoi), ho fatto violenza al mio naturale istinto di fuga. Ho sempre problemi a rifiutare qualcosa del genere ad un amico o ad un ex-allievo; al telefono, poi, non ci provo nemmeno. Per telefono riuscirebbero a commissionarmi anche un omicidio, sono privo di difese. Così, colto a bruciapelo, con la forchetta ancora in mano, mi sono fatto incastrare da un assenso che speravo dilatorio, e che invece all’altro capo del filo suonava convinto. Solo più tardi, a mente fredda, mi sono reso conto di aver assunto un impegno, e ho dovuto cominciare a darmene una ragione. Facendo di necessità virtù mi sono detto che ogni occasione di questo genere, quali ne siano le finalità e il valore intrinseco, deve essere considerata la benvenuta, perché ci sottrae per un attimo ai grandi fratelli, quello televisivo ma soprattutto gli altri, quelli che condizionano ogni attimo della nostra giornata. Vada dunque per la session poetica, e amen.

Le perplessità si sono moltiplicate qualche giorno dopo, quando Marco l’ho incontrato ed ho letto le sue poesie. Già il titolo, Elegia del macabro ed estetica della malinconia, era una promessa: le poesie erano anche peggio. Mi sono stramaledetto, mi sono chiesto cosa cavolo avesse a che fare tutto questo con uno che si picca di essere un razionalista, un illuminista (per gli amici, uno scettico) e che nutre per queste cose uno sprezzo oraziano. Ma ormai era fatta; non potevo più tirarmi indietro, e a questo punto dovevo inventarmi ragioni meno vaghe, ben più serie.

Devo confessare che anche stavolta non ho faticato molto a trovarle. Sono incorreggibile. Al solito, ho scovato delle giustificazioni didattiche, e le ho legate ad una sfida. Non è detto che non si possa fare anche di una serata simile, con tali premesse, un momento di positiva riflessione. Il tema in fondo si presta ottimamente. Si tratta né più né meno di parlare del rapporto con la madre di tutte le culture, anzi, dell’idea stessa di cultura: di quel rapporto che l’uomo intrattiene, da quando ha acquisito la coscienza di esistere, con nostra signora morte, delle paure e delle fascinazioni che questa ha su di lui sempre esercitato, e di come queste paure e questo fascino si siano tradotti nei secoli in arte, in poesia, in musica, ecc…

Questo avrei voluto dire. Non lo dico, e vado invece dritto al tema, per introdurre (e sotto sotto neutralizzare) le poesie di Marco. Parto dunque dalla varietà degli atteggiamenti degli uomini di fronte alla morte, di come tali atteggiamenti differiscano a seconda dei tempi, dei luoghi, del tipo di civiltà e soprattutto dei singoli caratteri, e di come possano tuttavia essere ricondotti a tre attitudini di massima: l’esorcizzazione, la rimozione, il corteggiamento. Vado sinteticamente ad analizzarle.

Esorcizzare la morte significa in sostanza negarla. È quello che fanno le grandi religioni escatologiche, quelle che promettono un’altra vita. È un sistema semplice e sicuro, non fosse per un particolare: per funzionare deve sempre tener viva la percezione della morte stessa, deve dipingere quest’ultima a tinte fosche, agitarne costantemente lo spettro. Si deve parlare molto di ladri, se si vogliono vendere porte blindate. Quindi la negazione non implica una cancellazione, anzi: implica però un declassamento, dalla irreversibilità assoluta, eterna, alla reintegrazione nei ranghi del tempo.

C’è anche una forma di esorcizzazione laica. È quella, ad esempio, che affida alla storia il compito di traghettare la nostra vita al di là della morte. Noi superiamo la morte nel momento in cui la nostra vita è spesa per un ideale che ci trascende, che sopravvive alla nostra scomparsa, un ideale comune a gran parte o a tutta l’umanità. Tale assunto è esplicito nel Foscolo, ma in fondo è implicito anche in Marx, o in ogni ideologizzazione del “progresso”. In questo caso più che ad un declassamento della morte siamo di fronte ad una valorizzazione esponenziale, addirittura ad una transustanziazione, della vita.

Il secondo atteggiamento è quello della rimozione della morte. È l’atteggiamento della cultura consumistica, o comunque della civiltà attuale. La morte non è produttiva, se non per le imprese di pompe funebri, e anzi, interferisce nei processi di produzione, può distrarre, costituire un elemento non del tutto controllabile dal sistema. Va rimossa. Consideriamo ad esempio i tempi e i modi dell’elaborazione del lutto, oggi, e ce ne renderemo immediatamente conto. Non esiste più nessuna elaborazione del lutto, la salma è occultata immediatamente, passa dall’ospedale alla camera mortuaria, la si interra o la si crema il più sollecitamente possibile, la si dimentica più velocemente ancora. Non c’è tempo in questa cultura per pensare alla morte: bisogna vivere, produrre, consumare, soprattutto vivere senza pensare, e secondo certi modelli.

Ma la rimozione passa anche per altre vie, più subdole e paradossali. Mai come oggi si sono viste tante morti (apparenti), in televisione o al cinema, ma anche nella letteratura. È una rimozione per accumulo. Otto, dieci, venticinque morti in un’ora, debitamente spappolati da pallottole o schiacciasassi o tritacarne, riuscirebbero a mitridatizzare qualsiasi animo, anche il più sensibile, contro l’emozione della morte, ad abituare all’idea di un evento marginale, ripetibile a piacimento, come accade agli attori. A supporto viene anche l’informazione, che tratta il tema della morte solo in cifre: mezzo milione di trucidati nel Ruanda, ottantacinque vittime della strada nell’ultimo week end, quattro morti ammazzati in un regolamento di conti. Questa è la rimozione: statistiche, accumulo, esposizione esagerata e falsa dell’evento.

La terza attitudine è finalmente quella che a noi interessa. La morte può anche essere blandita. Può esercitare un fascino, più o meno morboso. E noi possiamo in varie forme soggiacervi. Vediamo in quali.

C’è nella poesia, nella letteratura in genere, una vera brama di morte. Può avere motivazioni religiose (Jacopone da Todi e tutti gli aspiranti al martirio o all’espiazione) o esistenziali. In quest’ultimo caso può essere vista come un porto (Petrarca, ma anche Foscolo) o come un abisso orrido e immenso, un buco nero (Leopardi). A volte è proprio la paura a produrre l’attrazione. L’insistenza del Barocco su immagini macabre, sia in letteratura (si pensi a Ciro di Pers) che nella pittura, non è legata soltanto alla ricerca di effettacci speciali; testimonia un terrore diffuso, alimentato magari dalla predicazione controriformistica (e prima ancora da quella riformistica) per qualcosa che ripugna e tuttavia inesorabilmente trascina.

C’è anche però chi con la morte un po’ ci gioca, con quella altrui (Cecco Angiolieri) o con la propria (Ernesto Ragazzoni), e la irride con una sghignazzata liberatoria (ma non troppo). Oppure chi si accosta al tema con animo più sereno, e ne trae soprattutto pretesto per una meditazione sul senso della vita ( Edgard Lee Masters, ad esempio, oppure l’Enzensberger di Mausoleum).

C’è infine, e questo ci riconduce al tema della serata, un rapporto di fascinazione che è quello che da sempre ha caratterizzato i poeti maledetti, da Francois Villon in poi. È un atteggiamento soprattutto romantico (Shelley, Novalis), ma anche antiromantico (gli Scapigliati, Tarchetti) e poi decadente, e ancora esistenzialista, fino ad arrivare al pulp e al postmoderno. Ma in questi ultimi entra già in gioco un altro fattore: qui la fascinazione è già rimozione, non c’è più malinconia.

 

E qui, per il momento, mi fermo. Ho contenuto il tutto in poco più di un quarto d’ora, il che la dice lunga sul livello di profondità cui mi sono spinto. Ora accendo ritualmente il candelabro e lascio il posto a Marco. Le luci vengono spente, la nenia sepolcrale riparte, e Marco da inizio alle letture, partendo da Macabra Operetta e procedendo con Esos Necroscopique, Aura Noir, Fiori di tenebra.

 

Ho l’impressione di non aver lasciato un gran segno. Mi rendo conto che molti dei convenuti sono amici di Marco, accorsi per dovere, più che per condivisione della sua poetica, e che auspicano solo tempi brevi. Altri, pochi, condividono con Marco non solo l’attrazione per il macabro, ma anche una certa pervicace povertà culturale, il disinteresse per una conoscenza un po’ più profonda, articolata e sistematica, almeno rispetto alle cose di cui si credono appassionati. Questo atteggiamento mi irrita. Non mi importa, almeno fino ad un certo punto, della direzione delle idee e degli interessi, e apprezzo gli intenti dilettantistici, anzi, apprezzo solo quelli, nel senso che non concepisco la poesia, la pittura, la letteratura come una “professione”: ma esigo professionalità nei modi. Non posso soffrire l’approssimazione, il pressapochismo. Se si fa una cosa occorre almeno cercare di farla bene. Se si cerca di farla bene è probabile che se ne colgano le incongruenze, oltre a svilupparne tutte le effettive potenzialità. Un atteggiamento poco serio non può che dar luogo ad una adesione superficiale ed acritica, e questa è paradossalmente all’origine di ogni forma di fanatismo. Conoscere un argomento significa padroneggiarlo, non esserne dominati.

 

Al secondo intervallo ho ormai capito che su questo versante la sfida è persa. Ho cercato di nobilitare le allucinate evocazioni di Scheletri o i languori di Reliquiario e del Sole morente aggrappandomi a Tarchetti e agli scapigliati, scomodando Auden e persino Rilke: ma mi accorgo che, oltre ad insultare la poesia, perdo solo del tempo. Ad ogni blocco di letture di Marco segue un compassatissimo e formale applauso: nessuno che si scuota, nessuno che si chieda cosa ci sta a fare lì. Al terzo intermezzo provo l’ultima carta, quella dell’ironia Ho in serbo Ragazzoni, con Il mio funerale, divertita ed irridente prefigurazione delle proprie esequie. Vorrebbe essere un invito: ragazzi, non prendiamoci troppo sul serio, non rimuoviamo la morte ma nemmeno facciamoci irretire da suggestioni pacchiane. Niente, non funziona nemmeno questo. Sui volti degli astanti non si contrae, non si rilassa un muscolo, non cambia una virgola nelle loro espressioni. Adesso comincio ad essere nervoso, davvero ho la sensazione di aver buttato una serata. Subisco con crescente insofferenza le ultime cinque poesie di Marco, mi irritano, a differenza delle prime, che mi infastidivano solo per la pochezza compositiva. Si ripete il rito dell’applauso, identico ai precedenti. Non un commento. Tutti fermi lì, quasi ad aspettare che compaia la parola fine.

 

Ma non posso lasciarli andare così. Una piccola vendetta per questa serata me la devo prendere. Riaccendo le luci, per l’ennesima volta faccio tacere i cori dell’Ade, e mi ripresento per il commiato. “Bene, è finita. Spero che non vi siate annoiati. Adesso andremo magari a farci un grappino, tanto per tirarci un po’ su. Ma voglio lasciarvi con un’ultima poesia, che chiuda degnamente la serata”. Nessun accenno di fastidio, niente. E allora, beccatevi questa. “Morirò di cancro alla colonna vertebrale …” esordisco. Alla buonora. Un movimento unico serpeggia per tutta la sala. Lo percepisco, anche se ho gli occhi fissi sul testo di Boris Vian. E distinguo bene la scena in prima fila. Uno dei blusonati, uno dei più attenti e partecipi, fa un saltino sulla sedia, porta le mani di scatto tra le gambe e sibila – oh, Cristo!

Ho la sensazione che tutto il pubblico abbia avuto la stessa reazione. Avevano abbassato la guardia, e il gesto che fanno all’unisono (anche perché le sedie in plastica non soccorrono in altro modo) mi fa pensare di averli beccati proprio lì. Proseguo imperterrito … accadrà una sera orribile … Morirò della putrefazione/ di certe cellule poco conosciute …, mi accaloro … Morirò per una gamba amputata / da un topo gigante sbucato da una fogna gigante … Morirò annegato nell’olio di spurgo / calpestato da bestie indifferenti … Morirò mangiato vivo / dai vermi … e corro verso la fine per non dare loro il tempo di prendere fiato. Rallento solo sul … Morirò un po’, molto, / senza passione ma con interesse / e poi quando sarà tutto finito …, e sono tutti lì, con le mani più o meno platealmente ancorate alle palle, una strizzata di gruppo. …Morirò. Buona notte.

Quando imbocco l’uscita, dopo aver stretto la mano a Marco che non si è reso conto di nulla, nessuno s’è ancora alzato. Devono uscire dall’apnea da strizzamento.

 

Mirko mi accoglie con un sogghigno. –”Magnifico!” – dice.

“Al bar”, rispondo. “Ho bisogno di una sambuca”. Poi ci guardiamo negli occhi, e seppelliamo la notte di via Cairoli sotto una fragorosa risata.

 

Postilla alla pubblicazione degli “Appunti”

di Paolo Repetto, 1999

Le molte ore trascorse davanti al computer per realizzare questo libretto mi hanno costretto a rimeditare il mio rapporto con la tecnologia. Ne sono scaturite alcune elementari considerazioni, che sarà il caso magari di sviluppare e argomentare meglio in altra sede, ma che vorrei già qui proporre come stimolo, per me e per gli amici, a proseguire lungo il cammino intrapreso. Questo lavoro è stato reso possibile da un supporto tecnologico che è ormai alla portata di chiunque, ma che solo dieci anni fa sarebbe apparso (almeno a noi) fantascientifico. In questo frattempo non è caduto solo il muro di Berlino, sono crollate ben altre barriere. Oggi chiunque è in grado, con un po’ di buona volontà, di far circolare le proprie idee in una veste dignitosa. La stampa e l’impaginazione non hanno nulla da invidiare a quelle dell’editoria professionale, e il risultato non è solo l’appagamento di uno sfizio estetico, ma una leggibilità che si traduce in rispetto per il lettore e incentivazione alla lettura.

Non dobbiamo illuderci, naturalmente, che tutto questo non abbia dei costi, e non mi riferisco a quelli materiali per l’acquisto, la gestione e il ricambio degli strumenti. Mi riferisco a due aspetti, due rovesci di medaglia connessi a questa nuova potenzialità. Il primo concerne proprio la qualità del prodotto. Ciò che ciascuno di noi è in grado di produrre oggi ha sì un aspetto dignitoso, ma si tratta di una dignità conquistata con l’omologazione ad uno standard: ogni nostro discorso sembra acquisire credibilità e autorevolezza nella misura in cui si allinea, almeno nell’incarto della confezione, al linguaggio ufficiale del sistema. La potenziale diversità dei contenuti viene mimetizzata dalla conformità dell’etichetta, e forse davvero già in parte disinnescata dall’atteggiamento, o meglio dal tipo di attenzione, che induce nel lettore. Per capirci, quando ci si trova di fronte a caratteri e forme del tutto simili a quelli con cui viene confezionata ogni velina del sistema si finisce per rapportarsi al testo con attitudine non molto dissimile.

Ma non è tutto. Una forma di condizionamento viene esercitata dall’informatizzazione del testo anche alla fonte, nel momento in cui abbiamo la possibilità di tradurre in tempo reale i nostri concetti nel formato stampa, cioè in qualche modo di ufficializzarli, e di leggerli in una veste che almeno graficamente ha già le caratteristiche del prodotto finito. La sensazione di precarietà, di soggettività, e quindi lo stimolo al ripensamento implicito nella scrittura manuale, vengono meno quando le nostre parole si allineano in perfetto ordine sul monitor, e prefigurano l’impeccabile schieramento sulla pagina: uno schieramento più adatto allo spettacolo della parata che al caos della battaglia, che finisce per condizionare fortemente anche la manovra dei concetti. Paradossalmente, proprio la possibilità di intervenire infinite volte sul testo in tempi brevissimi, di integrarlo e modificarlo senza scomporne l’ordine visivo, possibilità che così bene si attaglia all’andamento spezzato e cumulativo del nostro pensiero, disattiva le barriere critiche e i filtri di una meditata rilettura.

Di questo dobbiamo essere consapevoli. E tuttavia questa consapevolezza non può andare disgiunta da un’altra, quella che la tecnologia primitiva del ciclostile, rozza ibridazione tra la manualità e la riproduzione a stampa celebrata come alternativa alla sofisticazione degli strumenti del potere, si alimentava in realtà di un falso mito, gratificava solo chi i testi li produceva (se era di bocca buona) ma non ha mai incoraggiato nessuno a leggerli.

La seconda obiezione attiene invece all’aspetto quantitativo. L’enorme massa di prodotti culturali messi in circolazione sia dalle reti sia dalla produzione editoriale personalizzata vanifica in realtà l’apparente democratizzazione comunicativa. Le voci che prima erano escluse dal coro ora si perdono nella infinita folla dei coristi. Forse era davvero più facile trovare un uditorio minimo ma attento quando gli strumenti di cui si disponeva non erano accordati, e il loro suono risaltava proprio per la distonia. E ancora: perché dovrebbe importarci di giungere virtualmente a milioni di interlocutori, quando ciò che abbiamo da comunicare non attiene più alle idealità universali di liberazione ma ad un riscatto quotidiano e singolare dalla miseria dell’esistenza, ed è in verità condivisibile solo con pochi intimi?

Forse tutto questo è vero, e forse il lavoro che sto facendo è solo una povera compensazione di quel che è andato perduto. Ma questa consapevolezza non riesce comunque a rovinarmi il piacere che ne ho tratto e quello che ancora me ne attendo. Ho realizzato un piccolo sogno, governandone ogni passo, decidendone le sequenze, i tempi, il colore e persino il numero e la qualità dei destinatari. Mi è stato possibile grazie ad una particolare tecnologia, e gliene sono grato. Non mi sono arreso alle sirene dell’utopia tecnologica e non mi sono convertito al suo credo: ho semplicemente sfruttato qualcosa che bene o male avevo a disposizione. Ora me ne stacco, e lo lascio lì, spento e inerte. Sino alla prossima volta.

 

Ragione e sentimento

di Paolo Repetto, 1999

Editare un proprio libricino non è del tutto inutile. Quanto meno ti aiuta a capire come scrivi. Certe cose infatti le puoi cogliere solo quando tagli finalmente il cordone ombelicale, suggellando con la stampa un distacco definitivo ed entrando nei panni di un improbabile lettore. Rileggendolo tutto (perché malgrado lo conoscessi quasi a memoria la tentazione l’ho avuta), e soprattutto rivedendo il brano sul Perché scrivere, ne ho tratto queste considerazioni:

  • La mia scrittura è destinata ad un pubblico molto ristretto. Praticamente solo a chi mi conosce di persona. Credo che ad altri non possa offrire alcun diletto (sempre che ne offra ai primi). Non ha senso quindi (e sono contento di averlo capito subito) pensare ad una forma di pubblicazione che non sia quella scelta.
  • Il limite di questa scrittura, sempre che tale lo si voglia considerare, è che è di testa. Io ragiono con la testa, e mi comporto col cuore. Ma sulla pagina finisce quello che penso, non quello che faccio. Trasmetto considerazioni, forse idee, qualche volte magari emozioni: ma mai sentimenti. Non è problema di riuscirci o meno. Non mi interessa trasmetterli. I sentimenti sono una cosa mia (e poi i miei sono talmente aggrovigliati che sfido chiunque a distenderli su una pagina).
  • Una volta accettato questo limite, che mi esclude in fondo solo dalla scrittura creativa, deve prendere atto di altri, ben più gravi. Parlavo di messa in circolo di idee: ma si tratta di idee mai rivoluzionarie o innovatrici, di quelle che aprono scenari nuovi, ecc… Non sono nemmeno idee riciclate o usate o orecchiate, questo no. Semplicemente sono convincimenti ai quali sono pervenuto attraverso un percorso molto personale, molto extra-vagante, frutto di scelte e curiosità mai lineari. Per farla breve, in genere arrivo a dire cose che per me sono nuove, e che lo sono magari per qualcun altro, ma che già circolano, o delle quali si sente l’odore. Ma non ci arrivo fiutando il vento, bensì attraverso un mio particolare menù. E queste idee funzionano come le indicazioni di una caccia al tesoro, che appena le trovi ti spediscono da un’altra parte.
  • Non solo. Queste idee quando si sono “concretizzate”, hanno assunto una configurazione meno nebulosa, finiscono in genere per confliggere con i miei sentimenti. Nello stesso momento in cui arrivo a pensare certe cose diffido e dubito per istinto di ciò che sto pensando. O almeno, dubito della sua importanza. Mi importava arrivarci, ma una volta raggiunte certe consapevolezze queste mi appaiono ovvie e scontate (o, in qualche caso, incomunicabili).
  • Il limite maggiore della mia scrittura è comunque un altro: è l’autocompiacimento. La mia è una scrittura che si autocompiace. Credo che tutte le scritture, letterarie o saggistiche, tendano in qualche modo a patire questo difetto: ma nella mia esso è quanto mai evidente. Si sente lo spartito, la volontà di tenere il suono del discorso sempre sotto controllo, di eseguire perfettamente lo schema. Come nelle sinfonie, lo schema è circolare, e un discorso circolare si morde la coda, non porta avanti. Ma io so scrivere solo così.

 

Istruzioni per l’uso

di Paolo Repetto, 1999

  1. Questo volumetto raccoglie gli scritti occasionali, editi o inediti, composti nel corso di un quarto di secolo. Non comprende quindi gli studi a carattere storico già comparsi altrove o non pubblicati, le introduzioni ai saggi tradotti e gli interventi di carattere politico-polemico non più rintracciabili. L’eterogeneità dei temi e la distanza dei tempi di composizione dovrebbero almeno in parte giustificare il vario stile, e comunque non rendere illeggibile quella trama che, pur esilmente, tiene assieme il tutto.
  2. Sillogi come questa, che contemplano la raccolta o la scelta degli scritti di un Maestro, sono in genere concepite in occasione di anniversari (e quindi di vite) “importanti”, dal mezzo secolo in su, o meglio ancora post mortem: e oneri ed onori vengono demandati alla pietà filiale o alla devozione di amici e discepoli. Io il mezzo secolo l’ho superato, non provo ancora alcuna fretta di andarmene e soprattutto ho l’impressione di non aver molto da aggiungere: inoltre, un po’ per carattere, un po’ per esperienza, preferisco non attendermi che altri facciano ciò che non farebbero o farebbero peggio. Ho pertanto ritenuto giunta l’ora di raccogliere gli sparsi stracci di una quasi trentennale militanza, tanto assidua negli intenti quanto disordinata e sterile negli esiti, ma non per questo meno sofferta e genuina, e di farne omaggio a pochi fortunati amici.
  3. Il contributo culturale che questo libretto può offrire è pari a zero, e per ammetterlo non ho nemmeno bisogno di fingere il ricorso alla falsa modestia: anzi, ci tengo a precisare che esso non vuole assolutamente offrirne alcuno, e che nasce dalla mia presunzione di essere già sufficientemente in pari con qualsivoglia erario, culturale ed esistenziale. Vuole dunque essere soltanto un oggettino curioso, che potrà magari tornare utile un giorno a chi ripensando a me volesse chiedersi (ma perché mai dovrebbe farlo?): “chi era costui, cosa voleva davvero?” Leggendo queste righe non capirà di certo chi io sia: ma saprà in compenso come avrei voluto essere. Ed è solo questo ciò che tengo a trasmettere.
  4. Nel concepire questa operazione contavo, per conservarne il controllo, sul mio proverbiale distacco, sulla mia inossidabile autoironia. Salvo accorgermi che nel momento in cui si affida ad una stampante (e forse già alla penna) una qualsiasi propria riflessione l’autoironia la si è già messa a dormire. Ora, al momento di licenziare queste pagine, mi sento scoperto e indifeso contro l’ironia altrui, ma provo anche un incredibile senso di liberazione. Come un profondo respiro dopo un lungo periodo vissuto in apnea. E tuttavia già ho paura dell’embolo, già temo che il sonno dell’autoironia diventi pesante e generi mostriciattoli: inspiro dunque profondamente, e torno ad immergermi.
  5. Quand’anche non dovesse portare giovamento o svago ad altri, questo lavoro si giustifica per i piccoli piaceri che ha dato a me. Mi ha soprattutto colpito, e mi ha spinto a riflettere, nel rileggere cose scritte oltre due decenni fa, la sostanziale identità della consapevolezza e, assieme, la radicale diversità del sogno che ne conseguiva. Oggi la consapevolezza si è soltanto un po’ allargata, mantenendo invariato il fuoco dello sguardo, mentre il sogno si è ristretto, si è ripiegato su se stesso, e stenta ormai a superare l’uscio della coscienza e ad affrontare la luce del giorno. Se questo è un segno di maturità, avrei sinceramente preferito non crescere.
  6. (e poi basta) Questo libricino è opera rozzamente artigianale, stampato alla meglio e impaginato e incollato alla peggio. Se ci tenete a conservarlo leggetelo reggendolo con due mani, con delicatezza, comodamente seduti, o non leggetelo addirittura. Fate un po’ come volete, ma sappiate che non ne avrete un altro.