I mal di pancia della letteratura

di Paolo Repetto, 2013

Carissimo Giovanni,
scusami per non averti risposto subito, ma sono giorni infami (non devo dirlo a te!).

Ho letto la tua tesina. Spero che la destinazione non sia solo quella della Maturità, perché in tal caso avresti sprecato il tuo tempo. Conoscendo i meccanismi, andrà di lusso se qualcuno la leggerà. Ci sono invece tutti i presupposti per svilupparla poi, per una destinazione più nobile. È un bel lavoro, meriterebbe da solo un colloquio di due ore. Nel corso del quale, fossi io il commissario esaminatore, ti opporrei alcune osservazioni spicciole (e magari lo faremo, con calma, all’ombra, quest’estate a Lerma). Te le anticipo:

  1. L’artista e la malattia – Non sono mica così sicuro che l’artista si trovi a disagio nella società borghese. Non gli piace, la snobba, la deride e la patisce, ma in ultima analisi ci sguazza. Può permettersi di fare lo schizzinoso perché viene blandito e coccolato in tutte le maniere, anche se poi qualcuno muore di fame (ma i Modigliani si contano sulle dita): ha bisogno della borghesia, nel mondo moderno, come aveva bisogno della nobiltà e della chiesa in quello medioevale, dell’impero in quello latino, di Pericle in quello greco. L’artista non è mai un oppositore, è sempre legato a doppio filo col potere, non può prescinderne: può permettersi di sbeffeggiarne le forme più vistosamente depravate, magari anche giocandosi la pelle, ma non ne mette mai in forse la sostanza. E ci mancherebbe, dal momento che vive in simbiosi. Guarda che non esistono artisti che lavorino o che creino per il “popolo”: non gliene può fregare di meno, a loro, e tanto più al popolo.
  2. Questo significa che il tormento, la ribellione, la malattia dell’artista sono solo una palla? Si e no. Si per le ragioni che ho esposto prima, no perché comunque l’artista (quello vero, non quello che presume di esserlo, o è incoronato tale da chi ha interesse a farlo, la critica in primis) è colui che ci fa fare un viaggio sottopelle, lungo le vene e le arterie della società, a scoprire pruriti e tumescenze che magari né lo sguardo epidermico, da dermatologo, né le radiografie socio-economiche possono rilevare. L’artista è quindi, anziché un malato, un esperto del sottopelle, e come ogni buon diagnostico ci azzecca tanto più quanto meno si fa coinvolgere (e in questo concordo pienamente con la tua analisi). Il che non significa che viva su di sé tutti quei sintomi.
  3. Mann parlava a ragion veduta: conosceva bene se stesso. Dal punto di vista “umano” era una persona pessima, e lo si capisce benissimo anche leggendo cose come “La montagna incantata”. Ciò non toglie che fosse un grande scrittore, anzi, forse spiega perché lo era: e infatti, teorizza appunto questa distanza, che in un contesto diverso chiameremmo stronzaggine.
    La malattia vera, quella ad esempio di Leopardi, non è mai giocata in chiave “antiborghese”: chi è malato non prova alcun orgoglio di esserlo, non ne fa un merito distintivo, piuttosto ci si arrabbia.
  4. In sostanza, io considero questo della malattia un vezzo. Non molto diverso peraltro da quello tutto femminile di metà ottocento, quando l’essere malaticcia era quasi un obbligo, dettato dalla moda. Prenderei tutte questa grida di dolore, o meglio ancora questi gemiti e singhiozzi, con molto beneficio d’inventario. Star male, dichiararsi inetto, chiamarsi fuori, marcare visita, sono tutti modi per non assumersi responsabilità. Smaschero il marciume l’inconsistenza morale di una società, magari denunciandomi come complice, oppure ritraendomi schifato, e poi? Nell’uno e nell’altro caso sono giustificato ad assumere un atteggiamento “amorale”, che tradotto in polpettine significa a fare quel che cavolo voglio senza neppure la rottura del rimorso. Ti parrà sbrigativa, come analisi critica, ma avrai già capito che non ho molta simpatia per chi fa l’artista o l’intellettuale per mestiere: mi sembra che attività nobili come pensare, scrivere, dipingere o comporre non debbano essere contaminate dalla necessità di rispondere comunque ai desiderata di un’utenza, sia pure presa in giro o disprezzata.
  5. Svevo e l’”incoscienza” di Zeno. Da buon darwiniano Svevo ha capito che la vita non ha un senso, una direzione, un fine, e che quindi tutto questo sbattersi e questo agitarsi per ottenere qualcosa (successo, ricchezza, fama, donne, etc.) non solo non ha senso, ma è anche abbastanza ridicolo. E infatti il paradosso è che l’unico a rimanere in piedi è proprio Zeno, perché rende “adattiva” la sua presunta inettitudine: in pratica lascia lavorare il tempo, senza forzarlo “culturalmente”. Da buon ex-freudiano ha anche capito che non c’è mezzo di guarire, per il semplice motivo che non c’è la malattia, o quantomeno, che non è lui il malato. Guarda caso, Svevo è uno che ha fatto altro nella vita, s’è guadagnato la pagnotta lavorando: non sente il disagio dell’artista, sente molto semplicemente quel male di vivere che è comune a tutti, artisti e non, coloro che hanno il coraggio di guardare negli occhi la realtà e l’animo di viverla senza piangersi troppo addosso
  6. Un bel tipo. Quando Dio gli chiede di sacrificare Isacco, prende su senza farselo ripetere due volte. Solo dopo che il capo gli urla: “ma sei scemo? Prendi tutto sul serio?” capisce che deve cominciare a ragionare con la sua testa. Credo che qui la questione sia grossa: gli ebrei sono gli unici che si permettono di litigare con Dio, di rinfacciargli le sue ingiustizie, di mandarlo a quel paese. Ed ha avuto tutto inizio con Abramo. Si, è molto più grossa di quanto appaia, non è solo questione della “laicità” di Isacco, ma di tutto un sistema di rapporti con la divinità che, paradossalmente, esclude la trascendenza. Infatti, gli Ebrei sono quelli che il paradiso lo vogliono qui, sulla terra: come giustamente pensava Hitler, sono i padri di ogni comunismo. E tutto nasce da Abramo.

Ne riparliamo. Ciao, e in bocca al lupo.

 

Libera volpe in libero pollaio

Il tramonto all’alba del nuovo millennio

di Giuseppe Schepis, da Sottotiro review n. 9, novembre 2002

Questo scritto ha la precisa intenzione di ripetere considerazioni ovvie e solcare percorsi già battuti da pensatori ben più preparati ed acuti del proprio redattore. La necessità che il redattore sente come impellente è quella di unire le tessere conosciute e abusate che descrivono la realtà contemporanea, soprattutto economica, sociale e politica, e tentare di abbozzare un mosaico capace di fornire un quadro completo della situazione. Questo serve soprattutto, come spesso accade, a chiarire le idee di chi scrive, nel forse vano tentativo di prevedere, dall’analisi dell’esistente, almeno un abbozzo del futuro che ci attende.

È oramai un dato di fatto che la realtà sociale ed economica, espressione diretta del sistema capitalista, è soggetta a velocità di cambiamento sempre più alte; questo movimento esponenzialmente accelerato lascia immancabilmente indietro colui che, nel tentativo di eseguire un’analisi, è costretto a fermarsi a riflettere. Così il lavoro scientifico, legato a procedure fisse che in genere vedono una raccolta di dati sperimentali significativi, l’analisi di questi con differenti teorie ben collaudate, la eventuale formulazione di un possibile nuovo modello teorico e la sua valutazione mediante riscontro sperimentale, risulta troppo lento per poter studiare un organismo instabile e mutante come il sistema socioeconomico attuale. I dati raccolti diventano obsoleti nello spazio temporale necessariamente occupato dall’analisi, la considerazione sul presente diventa subito storia del passato, la fantascienza attualità.

Il tentativo qui in atto è quello di cogliere una visione globale del sistema prima che questo muti profondamente. Più difficile è prospettare la forma del tutto dopo la prossima, rapida quanto probabile, mutazione.

 

Libera volpe in libero pollaio

Partendo dalla convinzione che il sistema economico alla base dei rapporti sociali sia la variabile principale dalla quale dipendono la quasi totalità delle leggi che regolano le società umane, è necessario porre un primo punto fermo sul quale nessuno potrà obiettare: l’unico sistema economico che regna – oggi – sull’intero pianeta è quello liberale (capitalista), vanno quindi attribuite ad esso tutte le colpe e tutti i meriti intrinseci alle società umane organizzate. Per onestà intellettuale chi scrive dichiara subito di riuscire a vedere ben pochi meriti e moltissime colpe.

Fino a qualche decennio fa, al modello capitalista era contrapposto ideologicamente un modello socialista o comunista; questo faceva intravedere la possibilità di organizzare in maniera completamente diversa i rapporti economici e i conseguenti patti sociali. Il crollo dei paesi socialisti ha trascinato con sé sotto le macerie anche le idee di contrapposizione e cambiamento rispetto alla società liberale, senza preoccuparsi del fatto che queste fossero realmente o no alla base dei fallimenti cui tutti – in verità – abbiamo assistito.

Il dato principale che va sottolineato è che il mercato non ha più alcun confine geografico o filosofico: il libero commercio e le sue regole – o meglio la sua assenza di regole – hanno conquistato l’intero pianeta. Ora il capitale è realmente libero di spostarsi quasi istantaneamente da un capo all’altro del mondo, da una borsa ad un’altra. Gli investimenti e con essi le strutture produttive sono liberi di ricercare il massimo profitto in ogni luogo fisico e metafisico.

La vittoria del capitale sul piano materiale ha fatto tacere anche gli oppositori filosofici, sia che questi fossero sostenitori di una giustizia sociale nata dalla logica che di rivendicazioni aristocratiche antiliberali o di altro genere. Il libero mercato è in grado, anche grazie all’abbattimento del costo dei trasporti, di mettere in diretta competizione il lavoratore europeo con quello indiano, di sfruttare a proprio vantaggio ogni tipo di materia prima o di risorsa presente in qualunque angolo del pianeta; può decidere di utilizzare un paese solo per la produzione mantenendo bassi i costi legati all’impiego di manodopera e di esportare i prodotti in altri paesi dove la stessa merce acquista un valore infinitamente più elevato ottenendo così margini di guadagno prima impensabili. Un esempio abusato ma emblematico è quello del pallone da calcio prodotto da un bambino indiano, che riceve per questo una paga capace di mantenerlo in vita e poco più, venduto ad un prezzo cento volte superiore ad un bambino europeo: il guadagno è palesemente altissimo, al pari dello sfruttamento intrinseco degli esseri umani.

 

Non più frontiere

Quello che una volta era il sogno degli oppositori del mercato è stato realizzato, in maniera completamente distorta, dal mercato stesso! Le frontiere cadute, inoltre, non sono solo di tipo geografico, ma anche di tipo sociale, etico, fisico.

In merito alle frontiere geografiche, il processo di abbattimento risulta già avanzato: il capitale è da lungo tempo internazionale. Le multinazionali statunitensi hanno iniziato a colonizzare l’Europa al termine della seconda guerra mondiale con il New Deal, imponendo regole e merci, così come l’Europa da tempo guarda ai paesi ex socialisti per investimenti molto remunerativi: la Fiat ha fabbriche in Polonia, in Russia o in Sud America da diversi decenni, mentre è recente l’acquisto di una consistente fetta della Fiat stessa da parte di una grossa multinazionale statunitense. I rivoli del potere economico si stanno intrecciando per sfruttare ogni nicchia ancora libera. Così l’Africa è un ottimo mercato per le industrie occidentali produttrici di armamenti, l’India un paese del bengodi per chi vuole produrre a bassissimi costi sfruttando anche la manodopera infantile e senza regole di sorta per ciò che concerne le norme di sicurezza (Bohpal insegna).

Il nuovo ordine mondiale vede le multinazionali statunitensi padrone incontrastate del mondo, capaci di dettare legge con imposizioni di forza sia di tipo economico, attraverso il controllo quasi egemonico di settori chiave quali quello energetico, sia di tipo militare, sfruttando la macchina bellica più potente del mondo. I mercati vengono conquistati con guerre commerciali che sfruttano opportunamente anche opposti quali il protezionismo economico e la competizione spinta oppure con guerre reali, che vedono sempre una lucrosa fase di ricostruzione dopo una pur sofferta fase di distruzione: molte delle guerre-lampo cui abbiamo assistito negli ultimi anni hanno permesso all’economia dei paesi partecipanti –primi tra tutti gli Stati Uniti – di avere consistenti boccate di ossigeno, anche a scapito del benessere di interi popoli e spesso con l’egida dell’Onu, sotto la falsa bandiera della missione umanitaria.

All’abbattimento delle frontiere geografiche è seguito un abbattimento delle frontiere sociali, con la dissoluzione di ogni contrapposizione di classe e l’uniformazione ai “valori deboli” borghesi da parte di tutti i ceti presenti sia nella pur variegata società occidentale sia nelle società del terzo e quarto mondo, versione enormemente più povera ma in gran parte culturalmente assimilata della società dei consumi. Anche le frontiere etiche sono cadute sotto i colpi del mercato: oggi tutto si può comprare o vendere, senza esclusioni di sorta; è possibile acquistare organi umani per trapianti o bambini da utilizzare come figli o schiavi (a seconda che questi ultimi siano più o meno fortunati), si discute della legalizzazione delle droghe leggere, di quella della prostituzione (su proposta di un ministro donna che si dichiara di sinistra, con buona pace alla memoria della senatrice Merlin). Presto si dirà che il traffico di organi o di bambini su cui si compiono abusi sessuali sono mali incurabili, e si tenterà di far riemergere alla legalità anche questi, regolamentandoli con leggi appropriate.

Il mercato ha così trasformato in merce vendibile ogni cosa, che si tratti di eroina, corpi umani, ore di lavoro prestate da minori o quant’altro. Ha pervaso i corpi, le menti, le case e i sogni. È così invasivo da essere presente in ogni angolo del pianeta, che sia la periferia di una megalopoli del terzo mondo oppure il centro ricco di una città europea.

 

Il lavoro e il frutto del lavoro

Il cavallo di Troia che è penetrato all’interno della cultura di sinistra, aprendo le porte ad altri attacchi ed al suo progressivo snaturamento, è l’attribuzione di un valore etico al lavoro; svincolati oramai dal fine ultimo di soddisfare i bisogni fisici e culturali dell’uomo, il lavoro e la produzione diventano essi stessi il fulcro attorno a cui edificare le società umane: mezzi che si mutano in fini senza logica alcuna.

La rotta che porta alla progressiva liberazione dell’uomo dal lavoro è stata definitivamente abbandonata, tramutando il progresso tecnologico in aumento della produzione, dei consumi e del profitto.

Il frutto del lavoro, lungi dall’andare a chi lavora, viene indirizzato verso l’investimento a più alto guadagno, mentre ogni forma di redistribuzione della ricchezza, dai salari reali dei lavoratori dipendenti all’assistenza sociale e sanitaria, dai servizi pubblici alla salvaguardia dei beni ambientali e culturali, viene via via contratta cedendo all’idea liberista.

 

Democrazia

Contrapposizione tra forma democratica esteriore dello stato liberale e organizzazione sociale di tipo feudale all’interno dei luoghi di lavoro.

 

Valori e plusvalore

di Paolo Repetto, da Sottotiro review n. 8, gennaio 1998

C’è da chiedersi, a margine della lettura dell’articolo di Schepis (Il fascino discreto della borghesia), se sia ancora lecito oggi usare il termine “borghesia”, e soprattutto l’aggettivo che ne deriva, “borghese”. Probabilmente nel lessico storico-politico-sociale di questo secolo nessun altro lemma ricorre con altrettanta frequenza, e in contesti e accezioni altrettanto svariati. La qualificazione di “borghese” si è infatti allargata ad includere, prevalentemente in negativo, tali e tanti significati da perdere qualsiasi valenza connotativa: Questa neutralizzazione non è connessa soltanto all’abuso: la perdita di pregnanza di un aggettivo derivato corrisponde in genere o ad una effettiva obsolescenza o ad una perdita di contorno del sostantivo da cui deriva. Si usa quindi a sproposito l’appellativo “borghese” perché non si ha idea di cosa sia, e se esista, la borghesia.

Noi di “SOTTOTIRO” abbiamo la convinzione che i due termini non siano affatto obsoleti e che semplicemente vada fatto un po’ d’ordine nel loro utilizzo, o almeno vada definita l’accezione nella quale li utilizziamo. Ci proviamo, in forma necessariamente spicciola e schematica, magari rimandando ad una prossima occasione l’approfondimento.

Il termine borghesia è stato utilizzato tradizionalmente per esprimere:

  1. una categoria storica universale. In senso lato, estendendo a ritroso nel tempo l’uso del termine, la borghesia è da sempre la classe mercantile (artigianato, commercio, finanza) propria della città, che si contrappone a quella proprietaria-agricola delle campagne. Durante l’evo antico si sviluppa principalmente nelle città costiere, commerciali per antonomasia, in un’atmosfera che per la quantità dei contatti, lo sradicamento indotto dagli spostamenti, la necessità, ai fini commerciali, di un’apertura verso culture esterne risulta desacralizzata (con conseguente perdita di peso dell’autorità tradizionale aristocratica e sacerdotale). Oltre al ruolo sociale ed economico, quindi, ne riveste da sempre uno culturale, anti-tradizionalista e aperto alle innovazioni.
  2. una categoria storica particolare (occidentale). È la classe urbana che nasce nel Medio Evo in opposizione all’aristocrazia feudale, e che presenta le caratteristiche di cui sopra. Nel passaggio all’età moderna evolve sino a configurarsi come borghesia capitalistica o industriale, cioè come la classe che detiene il possesso dei mezzi di produzione e di scambio e ne capitalizza i guadagni. Essa si dilata sino ad inglobare, sia pure in posizione di subordine (piccola borghesia), le classi intermedie, quelle dei “colletti bianchi”, dei funzionari impiegati nei vari settori della gestione sociale ed economica (amministrazione pubblica, scuola, servizi, e quadri intermedi nelle aziende private). In questa fase la borghesia sviluppa una cultura del diritto (egualitaria) in sostituzione di una cultura della consuetudine (gerarchica). Questa cultura del diritto ha un carattere innovativo sino a quando si contrappone a quella tradizionale, ma diviene conservatrice e difensiva allorché le si oppone quella rivoluzionaria (quindi nell’800).
  3. una categoria culturale (lo spirito borghese). L’accezione in questo caso è quasi sempre negativa, tranne che nello specifico storico (quando cioè indica l’atteggiamento innovativo del sei-settecento). Anche in economia si preferisce parlare di spirito imprenditoriale, e persino “capitalistico” ha una possibile valenza positiva, mentre “borghese” suona ormai quasi come sinonimo di inerte e parassitario. Nei confronti della borghesia “grassa” marca l’assenza di stile, la superficialità dei valori, la grezza spettacolarizzazione di sé e dei propri consumi. Nei confronti invece della “piccola borghesia” implica un complesso di inferiorità, l’ansia di salire il gradino e la paura di scenderlo, la lacerazione tra l’avarizia scrutacentesimi e l’esigenza di apparire. La taccia di “borghese” viene usata con egual disprezzo da destra (in contrapposizione ad “aristocratico”) e da sinistra (in contrapposizione a “proletario”). Di fronte all’odierna eclisse del proletariato, o meglio alla scomparsa della sua coscienza e cultura, la categoria è “esplosa”, finendo per comprendere ogni forma di velleitarismo sociale ed economico, cioè ogni aspirazione a condividere modi e livelli di vita delle classi superiori.

Per quanto ci concerne, noi diamo ai termini borghesia e borghese i seguenti significati:

  1. la borghesia è l’espressione sociale del capitalismo industriale: come tale è una classe aperta, caratterizzata da una appartenenza che non segna (niente blasoni) ma che condiziona, perché tende comunque ad una perpetuazione endogena. In altre parole, tende a divenire condizione sociale ereditaria (cfr. figli di professionisti, industriali, funzionari, ecc…) alla quale è relativamente difficile accedere, ma che garantisce poi la possibilità di attestarsi.
  2. Le caratteristiche culturali della borghesia (lo spirito borghese) sono legate al modo di produzione industriale, costantemente innovativo e dinamico, fondato sul consumo rapido, sulla competizione. Questa classe non sarà mai pertanto portatrice di valori “radicati” e “forti”, dalla lunga durata e dal coinvolgimento profondo, ma piuttosto di idealità relativistiche, effimere e sempre in divenire, speculari alle necessità e alle modalità produttive. L’assenza di valori, nel significato forte del termine, non va dunque intesa come sintomo di una debolezza, e meno ancora di una decadenza, ma piuttosto come condizione ideale per un continuo adeguamento alla trasformazione capitalistica.
    Per quanto possa sembrare paradossale (dal momento che proprio al trionfo dello spirito borghese viene in genere associato il primato dell’etica rispetto alla morale), la borghesia non è stata in grado di produrre né un’etica (sistema di valori) né un’etichetta (stili di comportamento). L’etica, i valori, lo stile privato di vita, si sviluppano in società stabili. Costituiscono l’ossatura ideologica delle forme di potere (e di produzione). Dalla loro volgarizzazione e dalla loro reificazione discende l’etichetta, lo stile di vita pubblico, che a sua volta abbisogna di tempi lunghi per affermarsi. La borghesia non ha prodotto nulla di simile. O meglio, lo ha fatto, almeno nella fase di attacco, quando attraverso l’illuminismo ha elaborato il sistema del diritto borghese (fondato sulle libertà individuali – ivi comprese quelle alla proprietà, al commercio e all’imprenditoria) e il quadro delle istituzioni che esso regolamentano e che su esso si reggono (lo stato), ha creato un nuovo contesto politico e culturale di riferimento (la nazione) e prodotto strumenti extra-istituzionali di salvaguardia e di pressione (l’opinione pubblica), ed ha infine affidato al lavoro-dovere, al lavoro-realizzazione e alle realizzazioni – tecnologiche e capitalistiche – del lavoro il riscatto (attraverso l’idea di progresso) della perdita di senso dell’esistenza individuale e collettiva – della vita e della storia. Ma questi valori – libertà, nazione, stato, lavoro, progresso – che possono apparire quanto mai “forti”, si sono prestati da sempre non tanto all’abuso, che è una deriva, una negazione, e lascia comunque integra la sostanza del concetto, quanto ad interpretazioni ambigue e contraddittorie, e pur tutte legittimate da una intrinseca debolezza e duttilità, dal relativismo scaturente dal loro carattere convenzionale: così da poter essere piegati di volta in volta a rispondere alle trasformazioni indotte dal modo di produzione capitalistico. In questo senso parliamo di idealità o valori relativistici, e in questo senso va interpretato lo stato endemico di “crisi” – e la presenza costante di meditate e consapevoli posizioni di rifiuto – nel quale si è consumata o si consuma la loro affermazione.
  3. Sia “borghesia” che “borghese” conservano una valenza connotativa di classe anche nella nostra epoca, pur nella consapevolezza che i termini del conflitto sociale si sono decisamente modificati nell’ultimo mezzo secolo, e che sarebbe forse più corretto parlare di “mondo borghese occidentale” versus “terzo mondo proletario”. È vero che tutti noi occidentali partecipiamo, sia pure in diversa misura, di un benessere materiale diffuso e consentito proprio dallo sfruttamento e dal mantenimento sotto la soglia della miseria del resto dell’umanità: ma è anche vero che oltre alla diversità nella misura di questa partecipazione esiste ancora la possibilità di comportamenti e atteggiamenti sociali non assimilabili alla “borghesizzazione” a tappeto delle aspettative e dei bisogni. Non stiamo parlando, evidentemente, dei fenomeni di autoemarginazione, o delle scelte pseudo-alternative di soggetti ipergarantiti, ma semplicemente della possibilità di non farsi omologare ai parametri esistenziali della spettacolarità e del consumo. E abbiamo la presunzione di credere che le finalità e le modalità di realizzazione e circolazione di questa rivista ne siano una prova.

 

Il fascino discreto della borghesia

di Giuseppe Schepis, da Sottotiro review n. 8, gennaio1998

La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti.

KARL MARX, Il manifesto del partito comunista

I sistemi sociali umani esistenti sembrano inviare segnali tutti concordi a testimonianza della vittoria filosofica dei valori borghesi. La borghesia – classe sociale e categoria dello spirito – viene dipinta come portatrice di ideali talmente forti da dover necessariamente trionfare su ogni altro modello etico e politico. Questi valori ci pervadono, occhieggiando da ogni cartellone pubblicitario, ipnotizzandoci dalle pagine di ogni giornale e, soprattutto, dal tubo catodico gran sacerdote maestro d’ipnosi.

Analizzando con un minimo di attenzione i messaggi così veicolati, è facile rendersi conto della loro pochezza; perché, dunque, un sistema di valori così misero ha potuto impadronirsi dell’intero pianeta?

Le debolezze e le tare congenite alla classe oggi egemone sono state messe a nudo nelle opere di molti intellettuali durante gli ultimi tre secoli (intellettuali per altro anch’essi borghesi). Soprattutto nella letteratura dell’ottocento – secolo che vede la completa affermazione politica ed economica della borghesia – emerge l’analisi impietosa e l’impietosa condanna di una classe priva di ideali. Due romanzi simbolo di quanto detto possono essere Il Rosso e il Nero di Stendhal e Madame Bovary di Flaubert. Il primo, pubblicato nel 1830, dà il quadro di una società nella quale non si è ancora affermata completamente la borghesia imprenditoriale e che proprio per questo sembra poter ancora avere qualcosa da dire. I personaggi affrescati nell’opera comunque, in comune con quelli del romanzo di Flaubert, appaiono deboli, in balia degli eventi e tesi unicamente alla propria affermazione sociale (Julien Sorel) oppure gretti e ottusi, quasi imprigionati nel loro ruolo di dominio economico (de La Mole); l’unico gesto forte di cui il protagonista risulta capace, segna la sua definitiva sconfitta. Scritto una ventina d’anni dopo, Madame Bovary rappresenta una società che ha già completamente fatto propri i valori del mercato, e descrive minuzio samente le voglie e le miserie della piccola borghesia rurale. I personaggi di questo romanzo anelano le città, l’alta borghesia, l’arrampicata sociale, privi di un’etica o di uno scopo che non sia fittizio; così si dibattono in piccole tragedie, tra sogni fatti di immagini senza contenuto, inutili quanto gli stessi sognatori. Sul finire della vicenda si affaccia un primo attore d’eccezione: il denaro; sarà esso a dirigere gli avvenimenti fino al drammatico epilogo. Gli esseri umani che si muovono nella vicenda sono solo piccoli ingranaggi presi in un gioco che oramai non ha bisogno di motori esterni, capace di alimentarsi da sé, vittime della loro stessa miseria morale. Da qui in avanti non si contano gli autori e le opere che sanciscono la condanna morale della classe dominante e ne rappresentano la decadenza e il tramonto (da Dickens a Mann, da B. Show a Moravia).

Un ulteriore passo per la comprensione della realtà parte dall’analisi del sistema economico in cui la borghesia si muove. Il sistema capitalista ha come unico suo fine quello di aumentare i profitti, perseguendo questo scopo con un aumento della produzione di merci. Il cittadino ideale di questo sistema si definisce consumatore e non uomo, il metro con cui si giudica il successo di un sistema sociale è il prodotto interno lordo e non il benessere psico-fisico o la crescita culturale dei suoi singoli componenti, non il progresso scientifico ma al massimo quello tecnologico che rende più efficente la produzione. La forza peculiare di questo sistema sta nell’essere assolutamente privo di ordine, nello sposare perfettamente la naturale tendenza delle trasformazioni fisiche che vanno verso l’aumento del caos. La produzione ha necessità di consumo, ha necessità di creare e di inseguire bisogni e mode; questa capacità creativa si trasforma in capacità digestiva nel momento in cui all’interno della società nascono germi di contestanzione: due esempi a noi vicini nel tempo sono il movimento hippy, trasformato in consumatori di droghe più o meno leggere e abbigliamento casual e il movimento ecologista trasformato in consumatori di prodotti pseudo-ecologici di vario genere.

Ecco come la borghesia diventa funzionale proprio per merito della sua debolezza. Essa è figlia del sistema economico dominante e contemporaneamente garanzia di prosperità e continuità per questo, allo stesso tempo prodotto e ambiente di coltura ideale per il capitale. Una classe sociale portatrice di valori forti, infatti, mal si adatterebbe ai continui cambiamenti imposti dal mercato e necessari alla sua vitalità; la futilità dei consumi male attecchirebbe su un tessuto sociale sano.

Va detto – infine – che il proletariato, classe che avrebbe dovuto rappresentare il futuro del mondo, la svolta, l’humus dal quale avrebbe dovuto essere generato l’uomo nuovo, ha fallito in ciò che è stato definito “il suo compito storico”, assimilando totalmente (stiamo parlando dei paesi sviluppati) i valori di quello che è stato e continua a essere il suo antagonista sociale.