Maksim Gorkij

di Paolo Repetto, 2014

Maksim Gorkij non considerò mai le sventure della sua infanzia come un “utile apprendistato alla vita”, nemmeno col senno di poi, in quella rielaborazione in chiave epica che caratterizza spesso le narrazioni autobiografiche, e che non manca neppure nella sua. In qualche modo invece lo furono, e proverò a spiegare in queste pagine quanto influirono sulle sue idealità politiche. Maksim riuscì a sopravvivere, e ne venne fuori forgiato nel bronzo: ma non avrebbe augurato a nessuno questo percorso iniziatico. «Oggi, rievocando il passato, faccio fatica a credere che sia stato proprio così come è stato, e molte cose desidererei discutere e confutare, troppo piena di crudeltà mi pare la cupa vita della “razza irragionevole”. Ma la verità è superiore alla compassione, e io non racconto queste cose per me, ma per quell’angusto e soffocante ambiente di spaventose impressioni in cui ho vissuto» scrive nelle prime pagine dell’Autobiografia.

Era nato in una famiglia di artigiani non particolarmente poveri ma nemmeno agiati, attaccati ad ogni singolo copeco più che ai consanguinei. A cinque anni aveva perso il padre, e la madre lo aveva affidato ai propri genitori per potersi risposare; ma era morta a sua volta poco dopo. L’ingresso nella famiglia materna fu salutato con la fustigazione di un cuginetto: entro la prima settimana toccò anche a lui. Venne battuto dal nonno fino a svenire e rimase a letto febbricitante per una settimana. Era la prima di una lunga serie di lezioni che avrebbero potuto spezzare il suo carattere e abbrutirlo, e ne fecero invece un consapevole ribelle.

Il racconto della sua infanzia ha nulla da invidiare alle narrazioni dickensiane: un impasto di odi familiari, di violenza, di avidità e avarizia, di bambini picchiati a sangue per ogni minima mancanza e donne pestate per scaricare l’ubriachezza e la frustrazione. L’unica figura positiva in quel tetro panorama risultava quella della nonna Akulina, dalla quale ereditò il gusto del fantasticare e l’amore per le leggende popolari; ma nemmeno lei, e nemmeno il fatto di aver iniziato a lavorare già ad otto anni in un calzaturificio artigianale, gli evitarono di essere ad un certo punto buttato fuori casa dal nonno, un uomo violento, a suo modo tormentato e intelligente, ma indurito dalle difficoltà, e per di più un “dogmatico” imbevuto di un’ortodossia tutta formale, che gli disse senza tanti complimenti: “Caro Leksjei, non sei una medaglia che deve starmi attaccata al collo; qui non c’è posto per te, vattene tra la gente”. Gorkij, come lo stesso amato Dickens (“Dickens è rimasto per me l’autore davanti al quale mi inchino reverente. Egli era un uomo che comprese mirabilmente la difficilissima arte di amare gli uomini”), dovette quindi imparare molto presto ad arrangiarsi.

Cacciato di casa a dieci anni cominciò a vagabondare, facendo per strada i mestieri più disparati: il calzolaio, l’apprendista pittore di icone, il giardiniere, lo sguattero. Mentre lavorava come aiutante di cucina a bordo di un battello sul Volga ebbe però la fortuna di imbattersi nel cuoco filosofo Smuri, che invece di umiliarlo e tiranneggiarlo lo prese a benvolere e gli trasmise la passione per la lettura. In un terreno come l’animo di Maksim quel seme era destinato ad attecchire e a dare frutti eccezionali. A casa dei nonni Gorkij aveva imparato a compitare sul libro dei Salmi e su un salterio: da questo momento, partendo dalle Vite dei santi, divorò letteralmente le opere dei maggiori romantici e realisti russi e francesi, da Puskin a Balzac, da Gogol a Dumas, da Turgenev a Flaubert. E anche il Manifesto di Marx ed Engels. Scrive: “Prima di conoscere quel cuoco avevo odiato i libri e tutta la carta stampata, compreso il passaporto. Dopo i quindici anni cominciai a sentire un ardente desiderio di studiare, e a questo scopo andai a Kazan, pensando che là l’istruzione fosse impartita gratuitamente. E invece nulla”.

Per oltre dieci anni percorse in lungo e in largo l’immenso territorio tra il Don, il Volga e gli Urali, continuando a sostenersi con occupazioni saltuarie come fornaio, corista in una compagnia operistica ambulante, scaricatore di porto, giovane di studio presso un avvocato, casellante e custode di notte. L’irrequietudine fisica era lo specchio di quella spirituale: la coscienza di sé acquisita come autodidatta non gli consentiva di accettare il destino scritto nelle sue origini. Conobbe momenti di sconforto, nei quali non vedeva alcuno sbocco, e arrivò anche a tentare il suicidio: ma non si rassegnò. Continuava a leggere, provava a scrivere, filtrava le esperienze attraverso la lente della cultura. Poi, improvvisamente, la svolta. Nel 1892 un giornale di Tiflis pubblicò un suo racconto, Makar Čudra. Il racconto piacque, e quel piccolo successo gli cambiò l’esistenza.

Queste cose, e le molte altre che si possono apprendere dalla splendida trilogia (Infanzia, Tra la gente e Le mie università) dedicata da Gorkij al suo percorso di formazione, ci dicono per quale motivo lo scrittore simbolo dell’ortodossia culturale sovietica e del “realismo socialista” in realtà non sia mai stato del tutto “organico” ad alcun potere. La spiegazione è proprio nel difficile rapporto instaurato da subito con la vita. Chi cresce alla maniera di Gorkij finisce per indurirsi dentro, corazzarsi contro le emozioni: se non fa così non sopravvive. È portato a pensare: ce l’ho fatta io, significa che si può fare, e ad essere molto severo con gli altri, oltre che con se stesso, a non concedere attenuanti alle debolezze o spazio all’autocommiserazione. Tale atteggiamento implica una risposta individualistica al pessimismo sociale: non sono le riforme, le condizioni esterne, le appartenenze di classe, in poche parole tutto ciò che attiene alla sfera della politica, quindi del negoziabile, a fare l’uomo; è la sfera dell’etica a determinare la coscienza, ed è quest’ultima a muovere la volontà, quella di conoscere e quella di fare.

In qualche caso però, quando le varie vicissitudini sono assimilate attraverso un filtro culturale robusto, che le libera dalle scorie della contingenza personale per diluirle in una comune esperienza umana del dolore, il rigore etico può convivere con la compassione, con una partecipazione consapevole alle sofferenze dei propri simili. E questo atteggiamento ha in genere poco a che vedere con qualsivoglia disciplina di partito.

Gorkij comunque non sceglie la strada: letteralmente, ce lo sbattono. Questo va sempre tenuto presente, se si vogliono capire certe sue apparenti contraddizioni. Quando a posteriori rievocherà i tempi del vagabondaggio potrà magari gettarli sul piatto, per dimostrare di conoscere bene la realtà di cui sta parlando. Ma al momento in cui in quella realtà era immerso non se ne compiaceva affatto, e quando la racconta non ne ha alcuna nostalgia. “Perché racconto tali abominazioni Ma perché le conosciate, egregi signori:; perché vedete, tutto questo non è passato, non è affatto passato! A voi piacciono le scene paurose inventate, gli orrori raccontati con arte; le cose fantasticamente terribili vi eccitano piacevolmente. Ma io conosco ciò che è realmente terribile, l’orrore quotidiano, ed ho l’innegabile diritto di commuovervi in modo spiacevole con il racconto di tutto ciò, affinché ricordiate come vivete e di cosa vivete! Io amo molto gli uomini, e non voglio far soffrire nessuno, ma non si può essere sentimentali …”.

Gli anni di vagabondaggio sono pertanto vissuti nella costante speranza di raggiungere una condizione diversa, di liberarsi dallo spettro di quel lavoro fisico che nella situazione russa non poteva essere che degradante e umiliante. Non è la curiosità a spingerlo, ma la necessità, la voglia di riscatto: vuole dimostrare qualcosa a sé e agli altri, e capisce di poterlo fare solo attraverso l’istruzione e la conoscenza. La prima, quella che passa per i libri, se la conquista con una volontà di ferro; la seconda la trae affrontando le prove che la vita gli impone, anziché col rancore della vittima, con lo spirito di un involontario ma partecipe testimone. La sua università sono quindi i bassifondi di Kazan, quelli descritti nell’opera teatrale che consacrerà in patria e all’estero la sua fama (Bassifondi, appunto, da noi conosciuto come L’albergo dei poveri), i moli sui quali fatica come scaricatore, le bettole dove assiste a risse e a colossali ubriacature, e annota mentalmente storie e personaggi. L’essersene tirato fuori equivale ad una laurea a pieni voti.

Quanto infine alle origini, Gorkij non ha un legame diretto con la terra. La sua, per quanto povera, è pur sempre una famiglia di artigiani, che tutto si considerano tranne che paria contadini. Anche se nell’autobiografia gioca al ribasso, per crearsi delle credenziali proletarie (del padre dice che era un tappezziere, quando invece era stato anche amministratore di una piccola società di navigazione), le sue radici rimangono “piccolo borghesi”, o perlomeno affondano in quel terreno sul quale, a suo parere, all’epoca della rivoluzione si sarebbe dovuta coltivare la base della tanto invocata intelligencija tecnica. La presunzione di superiorità nei confronti del mondo contadino, passivo, inerte, analfabeta, reazionario per indole, lo accompagna per tutta la vita. Arriva a scrivere: “Per tutta la vita sono stato perseguitato dall’analfabetismo delle campagne …”. In effetti la chiusura della sua autobiografia (che avrebbe dovuto essere provvisoria) coincide proprio con un episodio tragicamente significativo. Dopo il tentativo di suicidio Maksim viene invitato a vivere a Krasnovidivo, un villaggio sulle rive del Volga, dove l’ucraino Michail Romas, conosciuto nell’ambiente della cospirazione studentesca a Kazan, e il pescatore Izot stanno cercando di organizzare i contadini e i proprietari di orti per strapparli dalle mani degli speculatori. Anziché aiutarli, i piccoli contadini locali, aizzati da quelli più ricchi e dai mercanti che li sfruttano, arrivano ad uccidere Izot e a bruciare l’isba dove Romas tiene le merci. Ucciderebbero lo stesso ucraino e Maksim, se questi non si dimostrassero disposti a vendere cara la pelle.

Malgrado questa esperienza, il battesimo rivoluzionario Gorkij lo riceve attorno ai vent’anni proprio dai narodniki (populisti). Entra nelle fila dei derevenščiki, gli agitatori legati a Zemlja i volia (Terra e libertà) che operano nelle campagne anche dopo il fallimento della andata al popolo, e svolge attività di propaganda tra i contadini. Ne trae solo la conferma di quanto già pensava: da quel mondo non ci si può attendere alcuna trasformazione. “Il contadino è zarista – gli aveva spiegato Romas – Aspetta il giorno in cui lo zar gli spiegherà il significato della libertà. E allora arrafferà chi potrà. Tutti aspettano quel giorno e ognuno lo teme, ognuno vive in apprensione dentro di sé: teme di lasciarsi sfuggire il giorno decisivo della distribuzione universale: e teme se stesso. Vuole molto e molto c’è da prendere, ma come prenderlo? Tutti aguzzano i denti verso la stessa cosa”.

In compenso viene quasi subito arrestato e schedato come sovversivo. Constata quindi, e sconta sulla propria pelle, quanto velleitaria sia l’idealità populista e quanto confusa sia la sua riorganizzazione in un partito, quello social-rivoluzionario, pesantemente infiltrato dagli agenti provocatori dello zarismo e pericolosamente incline allo spontaneismo. Si sposta quindi ben presto sul versante socialdemocratico, e quando all’interno di questo si delineano due diverse strategie rispetto alle potenziali alleanze, con la borghesia per un programma di graduali rivendicazioni democratiche o con le campagne per una lotta armata, anche a carattere terroristico, abbraccia senza alcuna esitazione la prima.

Ciò non significa che si risparmi. La sua fama, soprattutto dopo la pubblicazione di Bassifondi e di un’altra opera teatrale, Piccoli borghesi, si è rapidamente espansa. I suoi lavori vengono tradotti e portati in giro per l’Europa, ciò che gli assicura subito una dimensione internazionale, mentre in patria è un sorvegliato speciale. In dieci anni, gli ultimi dell’Ottocento, passa dall’indigenza all’agiatezza, dalla disperazione al successo. Sente di dovere qualcosa anche al destino, oltre che a se stesso, e paga il suo debito con un impegno crescente, che se richiama l’attenzione di Lenin tiene in allerta anche quella della polizia, tanto che nel 1901 finisce nuovamente in carcere. Viene rilasciato a furor di popolo, ma confinato in pratica in Crimea.

La detenzione e l’esilio sono quasi un percorso obbligato per l’intellettuale russo: Nekrasov, Dostoevkij, Korolenko, passano tutti per il carcere e la Siberia. Gorkij il carcere lo conosce un’ennesima volta, sia pure per poche settimane, durante la rivoluzione del 1905. Nello stesso periodo incontra anche Lenin. Tra i due nasce un rapporto stranamente altalenante: si stimano sul piano umano, ma non saranno mai d’accordo quasi su nulla.

Quando esce dal carcere Maksim si rende conto che per lui in Russia non è più aria: è un sorvegliato speciale, ha la polizia politica sempre alle calcagna. Elude quindi la sorveglianza e va ad infoltire l’ampia schiera di esuli socialisti, Lenin compreso, dispersi per tutta l’Europa. Può farlo senza patemi, è famoso ed è coperto economicamente anche all’estero. Compie dapprima un giro in Francia e in Inghilterra, poi si imbarca per l’America. È stato incaricato ufficialmente dai socialdemocratici di raccogliere fondi per aiutare i rivoluzionari in carcere o costretti all’esilio: ma è anche molto curioso di quel mondo che agli occhi degli europei personifica l’immagine stessa della libertà e dell’uguaglianza. Là lo aspettano tra l’altro gli intellettuali progressisti vicini al socialismo, come Mark Twain, o i militanti socialisti come Jack London. Il primo impatto è folgorante: “Qui si deve venire – scrive ad un amico – è una sorprendente fantasia di pietra, vetro e ferro … costruita da pazzi giganti, mostri che aspirano alla bellezza, anime tempestose piene di selvaggia energia”.

Dura poco. Ben presto il viaggio si rivela un fallimento: la stampa conservatrice lo attacca per essersi presentato non con la moglie (si era sposato giovanissimo con un’attrice appartenente ad una compagnia di girovaghi) ma con la nuova compagna, ancora un’attrice teatrale, Maria Gelabuskaija, cosa che contravviene alle leggi sull’immigrazione; gli intellettuali si stancano presto e nel giro di un paio di settimane lo abbandonano a se stesso; lo scrittore, dopo gli entusiasmi iniziali per il livello tecnico raggiunto dagli occidentali, comincia ad esprimere pareri sempre più impietosi sulla società americana. Prima che siano trascorsi sei mesi lo invitano a togliere il disturbo senza fare troppe storie, in quanto persona non gradita.

La vicenda irrita parecchio Gorkij, che si vendica appena tornato nel vecchio continente pubblicando un libretto velenoso (Le città del diavolo giallo) e che conserverà sempre un ricordo estremamente negativo dell’America. Per il suo esilio sceglie l’Italia, e più precisamente Capri, allo scopo di curare una affezione polmonare causata a suo tempo dal tentativo di suicidio. Nell’isola lo scrittore affitta una villa e ne fa la base per un esperimento di scuola di partito, non senza suscitare apprensione nelle autorità e ostilità nella popolazione (si teme che la presenza dei rivoluzionari tenga lontani i turisti più facoltosi). A Capri sono in effetti suoi ospiti quasi stabili Lunačarskij e Bogdanov, e vengono fatti arrivare semiclandestinamente gruppi di operai e tecnici socialdemocratici che dovrebbero costituire i quadri della sospirata intelligencija tecnica”. La cosa non funziona, anche perché Lenin, che è in guerra con Bogdanov per la leadership nel partito bolscevico, mette i bastoni tra le ruote (ma non avrebbe funzionato comunque, per un sacco di altri motivi).

Nel 1913, in seguito ad una amnistia concessa da Nicola II, Gorkij rientra in patria. Nel frattempo ha pubblicato La madre, destinato ad essere il suo romanzo più conosciuto e a diventare una sorta di lettura propedeutica obbligata per i proletari di tutta Europa. Di lì a poco è chiamato a schierarsi contro la guerra, e deve constatare come la solidarietà tra i vari socialismi nazionali valga zero, dal momento che messi con le spalle al muro tutti o quasi si sono arresi al nazionalismo (a favore della guerra si pronunciano persino anarchici come Kropotkin).

La rivoluzione del febbraio 1917 sembra finalmente muovere un primo passo nella direzione giusta. Gorkij però non è affatto tranquillo. Teme che gli eccessi favoriscano la controrivoluzione, e dalle pagine della Novaja Zižn’ dà vita ad una campagna per coalizzare le forze “di buon senso” e isolare gli estremisti (i bolscevichi). Questi lo ripagano con la stessa moneta. In una delle Lettere da lontano, datata 25 marzo 1917 e intestata “Come ottenere la pace”, Lenin scrive: «Si prova un senso d’amarezza a leggere questo scritto (la dichiarazione di Gorkij sulla necessità di una pace senza condizioni con i tedeschi), tutto imbevuto di pregiudizi filistei molto diffusi. L’autore di queste righe, durante i suoi incontri con Gorki nell’isola di Capri, ha avuto modo di metterlo sull’avviso e di rimproverargli i suoi errori politici. A questi rimproveri Gorki ha opposto il suo affascinante sorriso e una dichiarazione molto sincera: “So di essere un cattivo marxista. Del resto, noi artisti siamo tutti un po’ irresponsabili”. Non è facile obiettare qualcosa.

Gorki ha senza dubbio un talento artistico prodigioso, con cui si è già reso e si renderà ancora molto utile al movimento proletario internazionale. Ma per quale motivo deve intromettersi nella politica?».

A ottobre il colpo di mano di Lenin lo sorprende, anche se da Lenin si aspetta di tutto: o meglio, lo sorprende il fatto che abbia successo. E lo spaventa. Come le cose vadano a finire è raccontato proprio in Pensieri intempestivi, attraverso il dibattito che lo contrappone ai bolscevichi.

La piega presa dagli eventi lo costringe, sia pure a denti stretti, a collaborare col nuovo potere, in una posizione però politicamente defilata. Fonda la “Casa delle Arti”, che dovrebbe curare la formazione delle “avanguardie culturali”, e una casa editrice per offrire lavoro e protezione agli intellettuali che non hanno provveduto in tempo a salire sul carro dei bolscevichi. Negli anni del governo dei Commissari del popolo si prodiga per salvare la pelle a qualche amico, ma ne vede molti altri finire in carcere o assassinati.

Alla fine accetta il consiglio (in realtà, un ordine) di Lenin di tornare a curarsi in Italia. Ha davvero grossi problemi di salute, ma a preoccuparlo sono soprattutto quelli che potrebbero aggiungersi insistendo a fare la fronda nel cuore della guerra che si gioca in Russia tra le forze rivoluzionarie stesse, e che sta dando luogo ad un nuovo Terrore. Riesce a rientrare in Italia solo nel 1924, dopo un soggiorno in Germania, perché paradossalmente come “amico” di Lenin non è gradito; e qui rimarrà, questa volta a Sorrento, fino al 1928, tornandoci poi a più riprese per prendere boccate d’aria sino a 1932. Nel frattempo in Russia il potere è passato nelle mani di Stalin.

Per richiamarlo in patria vengono date a Gorkij ampie assicurazioni, sia politiche che finanziarie; gli si garantisce anche un ruolo centrale di organizzatore della cultura, malgrado molti degli uomini della cerchia di Stalin non lo abbiano in particolare simpatia. Il suo ritorno è celebrato da tutta la stampa, la cittadina in cui è nato viene ribattezzata col suo pseudonimo. A motivarlo sono anche considerazioni economiche, perché rischia di perdere i diritti per la sua opera in URSS, e le pressioni della sua ultima compagna, Marija Budberg, che è al soldo dei servizi segreti sovietici. Sulla decisione dello scrittore pesano però soprattutto la nostalgia e la sensazione che lontano dal suo popolo e dalla sua terra la vena si stia esaurendo. Inizia così un ambiguo rapporto anche con Stalin, giocato sull’equilibrio dei reciproci interessi.

Al contrario di quanto accadeva con Lenin, tra i due non c’è una intesa umana. È vero che ancora nel ‘31, dall’Italia, Gorkij scrive al georgiano: “La scorsa estate a Mosca, le ho esternato i miei sentimenti di simpatia e stima amichevole e profonda. Mi sia consentito ripeterlo. Non si tratta di complimenti, ma del naturale bisogno di dire a un compagno: io ho di te una stima sincera, tu sei un’ottima persona, un autentico bolscevico. Il bisogno di dire queste parole solo di rado può essere soddisfatto, lei lo sa benissimo”. Ma non tarda a ricredersi. Due anni dopo confida all’amico Bukarin:“Se ingrandissi alcune migliaia di volte una comune pulce vedresti l’animale più spaventoso della terra, che nessuno sarebbe abbastanza forte da dominare. Ma le smorfie più mostruose della storia producono simili ingrandimenti anche nel mondo reale. Stalin è una pulce che la propaganda bolscevica e l’ipnosi della paura hanno ingrandito fino a dimensioni impensabili”.

Eppure, su molti aspetti del decorso della rivoluzione, ad esempio sulla questione contadina, sulla necessità di spingere l’industrializzazione, sulla alfabetizzazione a tappeto, la pensano allo stesso modo. Nel ’29 Gorkij scrive: “I nostri lavoratori comprendono perfettamente lo scopo dei propri governanti. Ciò è testimoniato dal fatto che il popolo partecipa appassionatamente allo sviluppo della nazione. Chi coopera alla modernizzazione del paese, coopera al rafforzamento della libertà”. Questo spiega perché nell’estate del 1933, dopo aver guidato un gruppo di scrittori a visitare i lavori del canale tra il Mar Bianco e il Mar Baltico, si presti poi a ricavarne una pubblicazione propagandistica collettiva (Il canale Stalin) che descrive l’impresa in toni epici, sottolineando come l’opera sia stata compiuta in tempi da record (diavoli di uomini, non vi rendete neppure conto di quello che avete fatto!”) e tacendone il costo umano, la morte di decine di migliaia di deportati. Questi vengono anzi presentati come dei “deviazionisti” che hanno avuto nel lavoro forzato l’occasione di un riscatto (il che suona anche come un efficace monito per i visitatori). A proposito delle baracche dei detenuti, afferma addirittura che “non sembrano affatto prigioni […], in alcune stanze ho visto pure dei fiori”. Del resto, già nel 1929, dopo una visita al gulag di Solovetcky, aveva commentato che si trattava di “un nuovo tipo di istituzione, un grande esperimento, in cui a dei criminali è data la possibilità di trasformarsi in cittadini sovietici”.

Ciò che davvero lo entusiasma è però, almeno inizialmente, la politica culturale. Aveva già apprezzato e sostenuto la lotta all’analfabetismo ingaggiata dal Commissario all’Istruzione, il suo amico Lunačarskij, che in undici anni, dalla rivoluzione al ’29, aveva ridotto la percentuale degli analfabeti dall’ottanta al trenta per cento. Gli era preso invece un mezzo infarto quando nel 1923 la moglie di Lenin, la Krupskaja, aveva redatto una lista di proscrizione delle opere da eliminare dalle biblioteche, comprendente Platone, Kant e lo stesso Tolstoj (in tale occasione aveva meditato di farsi revocare la cittadinanza russa). Tanto più apprezza quindi le iniziative volute da Stalin: la creazione e la diffusione in milioni di copie di una biblioteca universale popolare da destinare ai lavoratori gli sembra la realizzazione più alta dei suoi desideri e degli scopi spirituali della rivoluzione. Questo lo porta ad assumere spontaneamente una posizione in perfetta linea con quella del potere anche per quanto concerne il ruolo degli intellettuali, e dei letterati in particolare: anzi, a dettare la linea lui stesso. Al congresso degli scrittori sovietici del ’34 dirà: “Il realismo socialista […] richiede all’artista una rappresentazione veridica e storicamente concreta del reale, nel suo sviluppo rivoluzionario. Con ciò, la veridicità e la concretezza storica della rappresentazione artistica del reale devono unirsi all’obiettivo del mutamento ideologico e dell’educazione dei lavoratori nello spirito del socialismo”, che tradotto in spiccioli significa: signori, lasciate perdere le vostre fantasie e mettetevi sotto a raccontare i nostri successi. “La letteratura sovietica[…] dev’essere organizzata come un insieme collettivo, come un’arma potente della cultura socialista […]. Il realismo socialista stabilisce l’esistenza di un’attività creativa il cui scopo è di promuovere ininterrottamente lo sviluppo delle preziose capacità individuali dell’uomo perché vinca le forze della natura, si conservi a lungo e in salute, per la grande felicità dell’uomo che vive sulla terra che egli, nel continuo aumento delle sue necessità, vuole trasformare in una splendida dimora per l’umanità riunita in una grande famiglia”. È quindi naturale che a Platonov, che gli ha inviato in visione un suo manoscritto, risponda: Ho letto il suo racconto: mi ha impressionato. Lei scrive con forza ed espressività, ma proprio per questo – in questo caso – ancora di più si sottolinea e si rivela l’irreale contenuto del racconto, al limite di una terribile fantasticheria febbrile”. Ovvero: ragazzo, cambia registro.

È anche naturale che a Stalin Gorkij come narratore piaccia: ma soprattutto gli serve. È l’autore russo del momento più conosciuto all’estero, rappresenta agli occhi del mondo una garanzia dell’impegno sovietico a promuovere la cultura nel paese, e di conseguenza la democrazia. Gorkij per parte sua si illude di poter essere utile alla causa di una umanizzazione del regime, di una maggiore attenzione nei confronti degli intellettuali. Quando però Stalin avverte che il prestigio dello scrittore, compromesso proprio dalla sua collaborazione col potere, è ormai appannato, e che da un Gorkij sempre più insofferente non possono venire altro che grane, non esita un istante a farlo liquidare. Non può permettersi di lasciare in vita un amico di Bucharin e Kamenev, che si accinge a eliminare. In più, se da vivo Gorkij sta diventando un problema, da morto può essere beatificato e diventare un’icona del regime. Maksim Gorkij muore quindi nel 1936, ufficialmente per complicazioni polmonari, in realtà avvelenato dai suoi stessi medici curanti. Tre mesi prima era stato assassinato suo figlio, Max Peskov.

Gli ultimi anni sono proprio quelli cui mi riferivo quando all’inizio parlavo del personaggio pubblico. Lo scrittore li vive in una sorta di prigione dorata. Non è libero di muoversi, di spostarsi: non ha più alcun contatto con la sua gente, con quel popolo che aveva abitato i suoi libri migliori: è circondato da una corte di parassiti, di intellettuali adulanti e arrivisti che cercano il suo patrocinio per avere incarichi e prebende, conservando nel contempo una patina di eterodossia. È spiato persino in casa: la sua corrispondenza verrà consegnata dalla Budberg alla polizia segreta, mettendo nei guai un sacco di persone che confidavano in lui. Presiede congressi nei quali si ripete stancamente il rituale dell’incensazione del regime e della professione di lealtà della classe intellettuale: vede anche il suo nome speso, senza neppure consultarlo, per avvallare attacchi feroci che preludono alla liquidazione di intellettuali scomodi o di avversari politici.

Questo non ne fa una vittima. È vero che dalle più recenti ricerche negli archivi sovietici sono uscite lettere indirizzate a Stalin molto critiche sulla politica culturale del regime; che in esse definisce i commissari politici voluti da Stalin stesso alla guida dell’Unione degli scrittori “degli ignoranti privi di principi, ipocriti e desiderosi di circondarsi di uomini ancora più insignificanti”; che difende autori come Babel, prima perseguitati e poi eliminati: ma non basta ad assolverlo dai troppi silenzi di comodo e da una pur relativa complicità. In Arcipelago Gulag Aleksandr Solženicyn racconta la sciagurata visita dello scrittore al campo di lavoro di cui egli stesso era malauguratamente ospite, condita di apprezzamenti per l’opera di rieducazione svolta dallo stalinismo (addirittura lo accusa di aver provocato in quell’occasione la morte di un detenuto). E d’altro canto ancora nel gennaio del 1936, pochi mesi prima della morte, Gorkij scrive: “Tra una cinquantina d’anni, quando le cose si saranno calmate un po’ e la prima metà del XX secolo apparirà come una stupenda tragedia e un’epopea del proletariato; allora forse l’arte, e anche la storia, chiariranno lo straordinario lavoro culturale di tanti semplici cekisti nei campi”. Il dramma è che lo pensa davvero, e il perché nutra questa convinzione cercherò appunto di spiegarlo più avanti.

Persino la sua morte viene usata dal regime come un’occasione autocelebrativa. Ai funerali partecipa una folla immensa, che segue il feretro non dell’uomo Maksim, ma del “massimo scrittore proletario”.

Ripeto, tutto questo non ne fa una vittima: ma nemmeno può far dimenticare ciò che Gorkij aveva fatto e significato per la cultura e per il popolo russi nei sui primi cinquant’anni, il coraggio delle sue denunce, la sincerità delle sue testimonianze, la sua partecipe difesa di tutti gli oppressi. È una fine ben triste, per uno che nei primi racconti aveva infuso, secondo Prampolini «con i suoi nuovi e insoliti eroi, i ‘bosjakì’ (letteralmente: piedi scalzi), nella grigia atmosfera feudo di Čecov un inebriante soffio di vita libera, sana, forte».

E proprio di questo andiamo a parlare.