La ferrea legge del mercato

di Paolo Repetto, 2014

Il mercato è implacabile. Non fa sconti a nessuno.

Me lo conferma un giro estivo tra i banchi di piazza Assunta, dai quali grossi cartelli scritti a mano gridano: tutto a 3 euri, tutto a 5 euri! Tra le signore che frugano nervosamente nel mucchio, dragando improbabili canottiere trasparenti e casacche di finto lino indiano, una si volta, mi guarda e sorride: “Buongiorno professore, come va?”.

È vero, è un’ex-allieva, mi sembra di riconoscerla ma non so metterla a fuoco. Mentre balbetto un: “E tu? Cosa fai di bello?”, che è tutto quel che mi riesce di dire, una ragazzina la tira per la maglia, le mostra un’altra canottiera coi lustrini. “Mia figlia” si scusa. Faccio un cenno, come a dire: “Capisco”, e mi congedo. In realtà non ho capito niente, me ne vado senza sapere chi cavolo fosse.

Solo a metà di via Cairoli, quando ormai non ci pensavo più, arriva il lampo: ecco chi era! Ma non è possibile! L’ho lasciata una ragazzina smilza e simpatica, di quelle che capiscono al volo e sanno dove vogliono arrivare: prometteva faville. La ritrovo vent’anni dopo già imbolsita, con l’aria spenta di chi gira ormai tra i banchi al rimorchio della figlia, e non sembra attendersi altro.

Il mercato è impietoso. Ma, come dicono i teorici del liberismo selvaggio, è indispensabile. Offre un sacco di opportunità. A me offre quella di rispolverare le foto di volti e corpi che avevo messo in archivio, e di ritrovarle ora gualcite, sbiadite, qualche volta deformate, come riflesse in uno specchio da baraccone. Tanto più grottesche quando conservano forti i tratti che mi avevano indotto a scattarle.

Incrocio ad esempio l’ex collega che un tempo illuminava l’aula insegnanti e rendeva care le ore a disposizione, stretta ancora in quei vestitini attillati che allora ne esaltavano la grazia ma che ora raccontano una storia diversa da quella del volto rifatto. Rivedo il tizio col quale gareggiavo al fiume per le traversate in apnea, trascinato innanzi da una pancia straripante e sorridente da un volto paonazzo e un po’ inebetito. O il biondo gigolò che quarant’anni fa sbancava nelle rotonde di paese, e mi aveva soffiato una ragazza cui stavo facendo un pensierino, e adesso gira in tondo, sempre solo, sgusciando tra la gente come se avesse un appuntamento importante, e pare imbalsamato, una statua mobile di cera.

Che malinconia! È normale che il tempo passi, ma riesce difficile accettare che imprima orme così profonde. Vorrei una cosa dolce, una patina lieve che si deposita sulle cose e sulle persone, conferendo loro addirittura il fascino del seppia, e invece mi trovo di fronte a trasformazioni devastanti, a membra, torsi e, ho l’impressione, anche cervelli inflacciditi. E il fastidio aumenta quando balza agli occhi che la foto è ritoccata, quando il ricorso all’artificio è sbandierato, o quando l’immagine dei Kiss copre seni sconfitti dalle leggi newtoniane o addomi a mongolfiera; dal malinconico si scade nel patetico. Infine arriva lo sgomento, quando realizzo che gli altri guardano me e leggono lo stesso processo. Mi chiedo che foto stanno vedendo, se do anch’io l’impressione degli orologi di Dalì, se appaio loro come la caricatura dell’uomo che ero.

A questo punto ho già appreso la prima legge fondamentale del mercato, il cui preambolo recita più o meno così: è inutile guardarsi ogni mattina allo specchio per rintracciare i segni del tempo che passa. Le modificazioni sono impercettibili, impiegano giusto il tempo per permetterti di abituarti e di illuderti. Non valgono nemmeno le rimpatriate con gli ex compagni di scuola, gli incontri a convegni, matrimoni, cerimonie ufficiali, gare di danza latinoamericana, perché in tali occasioni tutti si ingegnano di dare l’immagine migliore di sé, e a volte fanno veri miracoli. Come dice la prima legge, invece, l’unico efficace ed obiettivo strumento di rilevazione della condizione umana è il giro annuale, rigorosamente estivo, sulla piazza del mercato. L’inciso è fondamentale: nelle altre stagioni si è tutti più o meno tappati, se non altro per difendersi dal freddo o dal maltempo, e ci si muove contratti e frettolosi. Si incrociano occhi un po’ meno brillanti, ma i corpi e i visi sfuggono all’analisi. D’estate invece i soggetti si mostrano in piena luce, inermi, rilassati, semivestiti e lieti di esibire i frutti di una settimana al mare e pantaloni arancione al polpaccio.

Questo avvalora la seconda legge, per la quale l’estate al mercato è l’esame finestra del restringersi e dell’infeltrirsi dei sogni, di quelli di ciascuno per la propria vita, come di quello in cui ciascuno ha collocato gli altri. Rivela le macchie e le smagliature prodotte dal tempo. Dice come abbiamo vissuto e come stiamo vivendo. Di alcuni racconta la tenuta e la progressione, di altri, di troppi, racconta la resa. Perché alla fine è questo il punto: non si tratta di negare il tempo, ci mancherebbe altro, si tratta di viverlo con dignità. Questo è ciò che vorresti vedere, e che speri gli altri vedano in te. Si può crescere, e non solo di peso: anzi, si deve crescere. Ciò che dà fastidio è incontrare gente che sembra aver smesso di crescere dall’ultima volta in cui l’hai vista, e che da allora pare essersi limitata ad allargarsi.

Crescere significa imparare a distinguere tra i propri sogni, riporre nell’armadio quattro-stagioni quelli che non possono essere indossati ora, e che forse non lo potranno mai, ma che è giusto tenere a disposizione per eventuali, improbabili occasioni, e coltivare quelli realizzabili nella quotidianità, che hanno comunque bisogno di una cura costante. Significa avere magari progettato a vent’anni di trasferirsi in Canada, e ritrovarsi a quaranta a ristrutturare la casa dei nonni a Trisobbio, e non considerarla una sconfitta: senza tuttavia chiudere per sempre la finestrella sul Canada, almeno per darci ogni tanto un’occhiata. Nel frattempo si può imparare l’inglese.

La terza legge è dunque solo un corollario “tecnico” della seconda: Il mercato è il borsino delle ambizioni, racconta di investimenti, di guadagni e di perdite. Il listino lo fanno non solo i corpi o i volti, ma soprattutto gli atteggiamenti. I segnali sono inequivocabili. Il fatto stesso che qualcuno ti guardi in attesa di essere riconosciuto, invece di venirti incontro sicuro, è già un indicatore significativo: ma ce ne sono infiniti altri.

Se ad esempio rivedi la conoscente che tre anni fa si trascinava avvizzita da una bancarella all’altra, e ti era sembrata parecchio imbarazzata dall’incontro, ora tirata a lucido, pimpante, sicura nel gesto di scegliere tra le magliette e sorridente senza imbarazzi mentre rovista tra l’intimo un po’ cafone, pensi subito che abbia lasciato il marito, o che sia stata lasciata (a medio termine non fa differenza): ha nuovi progetti, si è rimessa anche lei in corsa. Segno positivo. Sta crescendo.

Se invece l’ex compagno di scuola che a diciott’anni invidiavi perché era disinvolto con le ragazze, e che aveva continuato ad aggiornarti a cadenza decennale sulle sue trasferte di lavoro in mezzo mondo, nell’intervista di quattro minuti che ti rilascia con moglie sbuffante ti parla solo di ristoranti per una improbabile rimpatriata di classe, sei di fronte a un tracollo.

Ma un’identica conclusione puoi trarre se si aggira tra i banchi in canotta e pantaloncini da atletica, tirato e abbronzatissimo, la lunga chioma candida raccolta a coda di cavallo, in compagnia di una ragazza che potrebbe essere sua nipote (ma non lo è) e che lo ascolta con lo sguardo assente quando ti magnifica come intellettuale di grido e cerca di tirare il discorso sui comuni trascorsi culturali. Tu mastichi il più educatamente possibile il pezzo di focaccia che avevi appena addentato, che non puoi deglutire pena lo strafogamento e non ti consente nemmeno un sorriso di modestia, e pensi: ma questo, quando cresce? Segno negativo, in gergo tecnico si chiama recessione o, volendo, regressione.

Insomma. Pensavo di concedermi un tranquillo bagno di folla, in attesa di quello pomeridiano al fiume, e mi ritrovo invece a leggere il grafico in discesa delle quotazioni della vita, mia e altrui. E mi è rimasta sullo stomaco anche la focaccia.

Nel risalire in auto, rimpiangendo di non aver dedicato quelle ore al giardinaggio o alla lettura, rifletto allora sulla quarta legge del mercato, che in realtà è precondizione e fondamento delle altre: al mercato non si va per acquistare ciò che serve. Quando hai bisogno davvero di qualcosa ti rivolgi da un’altra parte. Nel mondo del mercato non vige la legge della domanda e dell’offerta. Vige solo quest’ultima, ed è sfacciatamente svincolata dalla prima. La regola vale indistintamente per qualsiasi tipo di fiera, da quella del libro al mercatino dell’usato, dal mercato rionale alle appendici di sagre e feste varie. Quando vaghi tra le bancarelle non stai cercando nulla di specifico, anche se poi, al momento, qualche scusa la inventi. Come potresti altrimenti spiegare il bisogno di una rana di ghisa fermalibri? Stai rispondendo ad una infantile compulsione al possesso, svincolata da ogni considerazione utilitaristica. Ma soprattutto stai rispondendo all’obbligo della revisione periodica, del bilancio sul tuo stato di conservazione o di evoluzione, e questo lo puoi leggere solo negli sguardi, negli atteggiamenti, nei corpi di chi non condivide quotidianamente il tuo percorso. La verità la si incontra solo agli incroci.

Per questo vieni via con qualcosa, il clone della maglietta griffata, il giubbotto senza maniche da cacciatore di cinghiali, o addirittura il coppo decorato a mano, quasi a giustificare il tempo che hai perso. Ma in realtà non il tempo non lo hai perso: lo hai visto anzi in faccia, sin troppo bene, e ora non sai se ti basterà un altro anno per dimenticarne l’espressione.

 

A lezione di economia (e di didattica)

di Paolo Repetto, 2008

Nelle ultime settimane ho scoperto le borse – anche volendo sarebbe stato difficile ignorarle. In un primo tempo ho seguito lo spettacolo un po’ distrattamente, visto che non avevo mutui accesi e investo solo in libri. Anzi, mi divertivano i tonfi e i rimbalzi, l’idea di quelle bolle di gas che esplodevano e si dissolvevano nel nulla. Ad un certo punto, però, ho iniziato ad avvertire un fastidioso puzzo di strine, e non c’è voluto molto a rendermi conto che emanava dalla mia pelle. Mi stavo scottando anch’io.

Quello che sembrava fuoco di sterpaglie è diventato un incendio vero e proprio, e minaccia tutti, non solo “mutuati” e investitori. Capito questo, non è che si possa poi fare molto: nemmeno quei governi che stanno provando a spegnerlo, o almeno a contenerlo, sembrano ottenere grossi risultati. Per cui continueremo a fare gli spettatori, magari sperando che piova: ma, in quanto spettatori paganti possiamo almeno pretendere di sapere come l’incendio è scoppiato, cercare di capire come si è verificato quel distacco tra economia “reale” ed economia “virtuale” che pare essere all’origine del disastro.

Chi nutre questo desiderio non deve aspettarsi soccorso dalla televisione e dalla stampa. Io non credo alle strategie mirate di disinformazione, almeno in questo caso: penso semplicemente che chi lavora in quei settori non abbia la minima idea in proposito, e nemmeno ritenga sia suo compito averla, e meno che mai trasmetterla agli spettatori e ai lettori. Quindi occorre cercate altrove: qualcosa che aiuta a capire prima o poi si presenta.

A me e agli studenti del “Boccardo” lo spunto è stato offerto pochi giorni fa, in una forma trasversale, diciamo di sponda. Abbiamo assistito ad una lezione sulle “fiere di cambio” tenuta da Claudio Marsilio, docente di storia economica alla Bocconi. Ora, le “fiere di cambio” sono senz’altro un bellissimo argomento, ma potrebbero sembrare un tantino riservate agli specialisti del settore, o agli amanti della storia locale, dal momento che hanno visto protagonista per un lungo periodo proprio la città di Novi. Non lo diresti insomma uno di quei temi che possono tenere incollato alla poltrona un pubblico di profani: e invece la trattazione ha coinvolto anche chi, come me, di storia economica era piuttosto digiuno.

Pur rendendomi conto che è impossibile sintetizzare l’argomento senza scadere nella banalizzazione ci provo comunque, anche perché mi consente di farci sopra un paio di considerazioni, relative tanto al tema quanto al modo in cui è stato trattato. Spero solo che il professor Marsilio non me ne voglia.

Vediamo di inquadrare storicamente la faccenda. Si parte agli inizi del ‘500. È in corso la lotta tra Francia e Spagna per l’egemonia continentale, con il neonato regno iberico innalzato al rango di potenza mondiale dalla scoperta (e dalla conquista) dell’America e dal fatto che il suo sovrano, Carlo V, già erede dei possedimenti asburgici sparsi per mezza Europa, ha ottenuto l’investitura imperiale. Tra i due contendenti sta Genova, dapprima schierata con la Francia, poi, dopo il 1528, sotto la guida di Andrea Doria, con la Spagna. Genova detiene all’epoca il monopolio dei traffici sul Mediterraneo occidentale, traffici che hanno portato le grandi famiglie armatoriali a disporre di ingenti capitali. Di questi capitali ha un enorme bisogno Carlo V, che con la sua politica imperiale ha moltiplicato gli impegni militari e che risulta ormai troppo esposto con i gruppi finanziari tedeschi che gli hanno comprato l’investitura. I capitali genovesi sono quindi spinti naturalmente verso l’imperatore, in prospettiva di una partecipazione di Genova alla gestione dell’oro e dell’argento provenienti dall’America e dell’acquisizione di regimi di monopolio commerciale .

Questo lo scenario. In esso si inseriscono, o meglio, da esso hanno origine, le fiere di cambio. Mi spiego meglio. Con la rinascita economica del Basso Medio Evo si sono diffuse e infittite le grandi fiere commerciali, le fiere “di scambio”. Sono le occasioni di incontro per i mercanti che arrivano da tutta l’Europa, di incrocio delle merci dal settentrione al sud e dall’ovest al levante. A margine di queste fiere c’è una appendice economica. Non si possono trattare gli affari in moneta sonante, per ovvi motivi di sicurezza (mettersi per strada col sacchetto dei denari equivarrebbe a rimanere in mutande dopo mezz’ora) e tutto avviene attraverso “lettere di cambio” emesse sulle piazze più diverse. Chi compra e chi vende lo fa sulla base di un rapporto fiduciario assoluto (beati loro!). In sostanza, io, mercante di Prato, mi reco a Lione per acquistare pizzi; ho con me una lettera di cambio, sottoscritta magari da un grosso importatore che ha vasti rapporti internazionali, nella quale si dice più o meno “accordate fiducia al latore della presente per una somma tot, che vi farete rimborsare da tal dei tali, mio corrispondente di Amsterdam.” Viaggio sicuro, compro e pago con la lettera, che vale come oro zecchino.

Ad un certo punto, però, il volume delle transazioni diviene tale (anche perché alle transazioni commerciali si aggiungono e si sovrappongono quelle finanziarie, rappresentate soprattutto dai prestiti agli ormai affermati stati nazionali) da imporre di tenere fiere apposite, quelle appunto di “cambio”, nelle quali si comprano e si cedono non merci, ma debiti e crediti, quelli testimoniati dalle lettere di cambio. Negli spazi ristretti, ad economia di altissima densità, la necessità di uffici di cambio appositi nei quali possano essere scontate le lettere si avverte già nel ‘400. Bruges ed Anversa, e poi Amsterdam, vedono la nascita delle prime Borse nella zona delle Fiandre. Lo stesso non avviene nell’area mediterranea, un po’ per le resistenze ideologiche della chiesa, un po’ per l’esistenza di una situazione politica molto più frammentata e complessa (Genova, Venezia, Firenze, si propongono come centri finanziari concorrenti). Qui rimane pertanto preferibile organizzare “fiere di cambio”, alle quali convergono operatori economici e finanziari da tutte le parti dell’impero di Carlo V. Queste fiere si tengono in un primo tempo in Francia, nei possedimenti borgognoni degli Asburgo, a Besançon e poi a Lione, poi vengono spostate in Italia, verso la fine del ‘500, e cominciano a moltiplicarsi quando i banchieri fiorentini tentano di sottrarsi all’egemonia genovese e Venezia cerca di contrastarla. Per opportunità logistica, soprattutto per la facilità d’accesso dalla pianura e dal milanese, i genovesi eleggono a città di fiera Novi Ligure. Lo rimarrà per quasi tutto il XVII secolo.

Le fiere in pratica funzionano come una Borsa, che invece di agire in continuità si riunisce ad intervalli regolari. Nel corso di questi incontri, che si svolgono con cadenza trimestrale, durano una decina di giorni e hanno luogo all’interno di palazzi nobiliari, vengono trattate da un gruppo ristretto di operatori (massimo un centinaio), delegati a rappresentanza di diversi gruppi o famiglie, o di intere città, le “quotazioni”, tanto quelle degli stati quanto quelle dei maggiori gruppi commerciali e finanziari, e viene fissato di volta in volta, quale base monetaria delle transazioni, una valuta di riferimento (lo scudo di marche, una moneta immaginaria). Da notare che in queste “fiere” non può assolutamente circolare denaro liquido. Tutto si svolge in maniera molto codificata, con rituali e protocolli ben precisi, e tutto in qualche modo è già virtuale. Non girano merci, non corre moneta.

Ecco, qui sta il salto. È questo il momento (momento che dura un paio di secoli, per intenderci, dai primi del ‘500 fino all’apertura delle vere e proprie Borse, come quella di Londra, nelle quali cominciano ad essere trattate anche le quotazioni “industriali”) in cui una parte dell’economia si smaterializza, diventa “fittizia”: e questo ambito “virtuale” dell’economia si chiama finanza. Ciò, paradossalmente, in coincidenza proprio con l’avvento dell’industria moderna, con un materiale “appesantimento” della produzione.

Questo anello mi mancava. O meglio, mi mancava una percezione così chiara dei passaggi. Adesso mi sembrano scontati, elementari: prima merce per merce, poi merce per denaro, più tardi merce per lettera di cambio, infine lettera di cambio per lettera di cambio, con margini percentuali di guadagno correlati al tempo, alle distanze e al rischio, che con la merce, con il prodotto materiale hanno più niente a che vedere. Insomma, non proprio così facile, ma quasi.

Questo dunque l’argomento dell’incontro. E adesso mi prendo lo spazio per le considerazioni.

Sui fraintendimenti dell’etica. Si fa un gran parlare, in questi tempi, della necessità di tornare ad una finanza “etica”. Ma su cosa poi significhi il termine etica, riferito alla finanza, o più in generale all’economia, c’è parecchia confusione. L’etica è un sistema di regole che discendono da una personale visione della vita (anzi, è quella visione della vita, con annessi i comportamenti che ne conseguono). Potremmo definirla un sistema normativo endogeno: è l’individuo a imporsi le regole, o a scegliere di condividere quelle esistenti. Non va confusa con la morale, che è invece un sistema eteronomo, dettato da un ente superiore ed esterno, sia questo la divinità, o in sua assenza, la società. Nell’ambito della morale la sanzione per chi trasgredisce alle norme viene dall’alto, può essere posticipata (la dannazione eterna, o la damnatio memoriae), a volte appare imperscrutabile: in quello dell’etica significa l’esclusione (o l’autoesclusione) immediata dal gioco. Ogni gioco si basa sulla fiducia reciproca tra i partecipanti, su un patto più o meno sottinteso che riguarda il rispetto di “quelle” specifiche regole: e ha poco a che vedere con la morale. Il poker è un gioco considerato immorale, ma ha un suo codice etico. Se bari, sei fuori. Quindi l’etica si fonda su un rapporto orizzontale, di fiducia, la morale su un rapporto verticale, quello con la giustizia divina.

Applichiamo il tutto al campo economico. Il richiamo a tornare alla finanza etica suppone che un tempo questo settore fosse informato ad un qualche ethos. Non necessariamente ad una concezione morale. Esisteva, semmai, sino al tardo medioevo, una condanna “morale” di tutta quanta la sfera economica, dal momento che tutto ciò che ha a vedere con il fattore economico fondamentale, il guadagno, era tacciato di immoralità. Ma anche l’economia moderna, quella per intenderci che nasce con lo spirito protestante, con lo stato moderno, con la rivoluzione scientifica e le sue ricadute tecnologiche e industriali, con l’individualismo e con la rinnovata concezione del diritto, tanto “morale” non è mai stata. Basti ricordare le condizioni di sfruttamento dalle quali trae da sempre origine il capitale. È stata invece “etica”, almeno per quanto concerne i rapporti orizzontali nel mondo finanziario, che come dicevo sopra erano fondati sulla fiducia. Laddove non è la pura forza a determinare le posizioni nello scambio, deve funzionare un rapporto fiduciario. Su scala piccola, nella transazione a livello di vicini di casa o di compaesani, garante della fiducia è la parola. Venir meno alla parola data significa squalifica sociale, emarginazione, estromissione dal circuito economico. Quindi non si tratta solo di una pressione sociale: il guadagno truffaldino di oggi comporta la completa rovina di domani.

Questo tipo di rapporto ha continuato bene o male a funzionare sino alla metà del secolo scorso, fino a quando gli interlocutori economici sono rimasti delle persone. Alla stretta di mano si è semplicemente sostituita la firma. Non ha più funzionato nel momento in cui gli interlocutori sono diventati anonimi e le strutture finanziarie e commerciali si sono complicate. Non voglio certo riscrivere la storia dell’economia: credo semplicemente che quando il rapporto avviene tra soggetti eticamente deresponsabilizzati, quindi tra o con funzionari di società anonime, che anziché venire estromessi dal gioco in caso di mancato rispetto delle regole sono promossi o liquidati con buonuscite faraoniche, l’etica non c’entri più, quei paletti di salvaguardia che erano il nome, la stima ecc.. saltano come birilli. E infatti. La grande crisi che stiamo attraversando è una crisi di sfiducia. Nessuno ha più fiducia in nessuno, e questo vale a maggior ragione nel campo finanziario, dopo l’infilata di bancarotte che ha caratterizzato gli ultimi anni. Quindi, parlare di ritorno alla finanza etica è assurdo, dal momento che è venuto meno quello che ne era il fondamentale presupposto.

Detto questo, è necessario anche non dimenticare che quello della finanza è un gioco di competizione, e che sul lungo periodo è a somma zero (l’aumento della ricchezza è in realtà solo virtuale, la terra rimane comunque un sistema chiuso). Se qualcuno guadagna qualcun altro perde. Se si guadagna o si perde nel rispetto di certe regole è un gioco; se questo non avviene è una guerra, nella quale può sembrare per un qualche tempo che tutti guadagnino, come è avvenuto recentemente, ma alla fine tutti perdono. Vorrei insomma chiarire che il ritorno ad una finanza “etica”, quand’anche fosse possibile (e si è visto che non lo è) non significherebbe comunque l’approdo ad una finanza “filantropica”, intesa al benessere collettivo, ma solo il ripristino di certe norme che disciplinano la lotta.

Sui buchi della storia. Pur reputandomi un dilettante di discreto livello degli studi storici non avevo un’idea precisa di cosa fossero le fiere di cambio. Retaggio di una preparazione, e quindi di un’ottica, molto “umanistica” e “politica”, e troppo poco economicistica. Non credo di essere l’unico, ma questa non è né una consolazione né una giustificazione. Se davvero le fiere di cambio hanno avuto un’importanza tanto cruciale nel passaggio da una concezione dell’economia ad un’altra – e dopo questa conferenza non ho più dubbi – Novi ha avuto un ruolo importante nell’economia mondiale del XVII secolo, almeno come teatro del gioco. Non si tratta ora di trarne pretesto per un carrozzone revivalistico e anniversaristico o che altro, ma almeno di averne coscienza, da parte dei novesi e non. Spesso sappiamo tutto su Anversa e Bruges, e poi non sappiamo che una fase determinante della partita si è giocata proprio sotto le finestre di casa nostra.

Sui “segreti” della didattica. Ho assistito alla conferenza assieme a quaranta studenti delle quinte aziendali. La conferenza è durata due ore, e per tutte quelle due ore nessuno dei ragazzi ha fiatato, se non per rispondere alle domande di Marsilio. Ora, non si trattava di una performance di Baricco o di Busi o di qualche altro imbonitore televisivo: era una lezione sulle fiere di cambio a Novi nel Seicento, apparentemente quanto di più lontano si possa immaginare dagli interessi e dalla sensibilità di odierni diciottenni. Allora, delle due l’una: o il professor Marsilio ha doti sensazionali di intrattenitore, o i ragazzi sono molto meno storditi di quanto si voglia far credere e di quanto appaiano quando vengono inquadrati o intervistati in tivù. La verità sta, come al solito, nel mezzo, e concerne tanto il modo quanto la sostanza. Claudio Marsilio non si limita a sapere le cose, ma le sa anche proporre, e bene; e questo lo posso dire dall’alto di trentacinque anni spesi, credo non invano, nell’insegnamento. Non salta un passaggio, e ti porterebbe a capire anche se non lo volessi. Questo per quanto concerne il modo.

Quanto al merito, quello di cui Marsilio parla è un argomento alla fin fine sostanziale, pregnante, e reso ancora più tale dal suo rapporto con questo territorio. Un conto è parlare di fiere di cambio a Besançon, che il novanta per cento dei ragazzi, e magari anche qualcuno in più tra i parlamentari, avrebbe difficoltà ad individuare anche sulla carta geografica, un conto è dire che si svolgevano in quel palazzo là, a centocinquanta metri da dove ti trovi adesso. Questo si chiama giocare didatticamente il famoso “rapporto col territorio”.

Infine, su quello che chiedono i ragazzi. La soglia di attenzione dei nostri studenti è giudicata minima: tempi da Zelig, tre o quattro minuti. Stando a questa valutazione occorrerebbe passare dal quadro orario a quello dei quarti d’ora, con durate delle lezioni da messaggio pubblicitario. Non è affatto vero. Lo constato ogni volta che, per necessità ma un po’ anche per nostalgia, ho l’occasione di rientrare in classe per un’ora di supplenza. Se hai qualcosa da trasmettere loro, non importa quanto importante, ma qualcosa in cui credi davvero, lo sentono e ti seguono. Non sono del tutto cloroformizzati dai fiumi di retorica che di norma nelle “Grandi Occasioni” vengono rovesciati loro addosso, non sono completamente inariditi dalla povertà e dallo squallore del dibattito in formato televisivo, non hanno il cervello lobotomizzato dalle cretinate che vengono loro imbandite, a pranzo e a cena, perché si ritiene siano l’unico cibo di cui si nutrono: hanno solo bisogno di incontrare ogni tanto gente seria, alla Marsilio, che crede nel proprio lavoro e non ti lascia alibi per l’ignoranza.

La verità è che ne abbiamo un gran bisogno tutti. Dopo settimane di titoli gridati sui giornali e nei telegiornali, di diagrammi in caduta a picco, di economisti da salotto televisivo, ho capito in una sola lezione da dove arriva la tempesta. Per quanto riguarda le conseguenze sono inerme come prima: ma almeno ho goduto di due ore d’esercizio dell’intelligenza. E non è poco.

 

Il piacer vano

di Giuseppe Schepis, da Sottotiro review n. 4, giugno 1996

Nella società contemporanea il mercato sembra essere rimasto l’unico sistema economico possibile. Al centro di esso – protagonista assoluta – la merce. Val la pena allora di tornare ad analizzare l’essenza della regina incontrastata del nostro tempo, rispolverando la teoria marxiana sul feticismo delle merci. Questa, a grandi linee, è nota a tutti, ma anche a rischio di essere pedanti è bene riprenderla brevemente per vedere se si siano verificati cambiamenti economici da quando è stata formulata ad oggi. Si parta dal fatto che la realizzazione di ciò che, in maniera molto generica, possiamo definire merce, è nata dalla necessità di soddisfare i bisogni che la specie umana, lungo la sua evoluzione fisica e culturale, si è trovata ad avere. Questi bisogni – i più svariati – possono essere sia di natura materiale che di natura intellettuale: non faremo da qui in poi differenze di merito dato che l’uomo, animale il cui intelletto è enormemente sviluppato, ha comportamenti appetitivi nei confronti di ambedue le categorie di “cose”.

Un oggetto dunque, qualunque sia la sua natura, ha un certo valore correlato alla sua possibile utilità per i membri della specie umana. Il suo valore è così legato alla capacità di soddisfare delle esigenze, ma si verifica – spesso – che oggetti capaci di uguali prestazioni abbiano un valore di mercato profondamente diverso. Possiamo lambiccarci più e più volte il cervello, senza riuscire a trovare nulla che li differenzi se non il valore di mercato e la complessità produttiva; nasce così il sospetto che queste ultime due grandezze siano strettamente correlate tra di loro e solo minimamente dipendenti dall’oggettivo valore della merce. Ma allora cosa dà alla merce il suo valore di mercato, se non direttamente la sua capacità di soddisfare bisogni come logica imporrebbe, e perché due oggetti con analoghe possibilità di utilizzo devono avere uno un dato valore di mercato e l’altro un valore magari superiore? L’arcano è facilmente risolto: per realizzare il primo occorrono meno ore di lavoro, si hanno minori scarti di lavorazione, necessitano un numero inferiore di Kwh di energia e simili. Il secondo oggetto, quindi, vale più del primo solo perché è stata necessaria alla sua foggia una maggiore quantità di “lavoro di produzione”. Così il feticcio del lavoro speso nella produzione diventa una delle qualità dell’oggetto e lo segue nel suo viaggio attraverso il mercato. Così la merce viene caricata di un significato sociale che nulla ha più a che vedere con il reale valore legato all’utilizzo e che esiste solo all’interno della società stessa. Senza le convenzioni sociali borghesi questo secondo valore sparirebbe di colpo, non essendo intrinseco agli oggetti. È già stato detto da voce ben più autorevole dei danni provocati dal verificarsi di questo, di come così l’uomo diventi funzionale ai bisogni della produzione e non viceversa – come sarebbe auspicabile e logico – la produzione funzionale al soddisfacimento dei bisogni umani. Si aggiunga che esiste un altro aspetto: il valore feticistico spesso riesce a nasconderci le qualità reali delle cose; il primo, che è semplicemente involucro, ci nasconde ormai l’essenza, aggiungendo inganno ad inganno e facendo sì che non si riesca nemmeno a cogliere appieno i benefici che un oggetto – fisico o intellettuale – può darci.

Tutto questo è reso poi ancora più devastante dal fatto che, massimamente nella società contemporanea, oltre ai bisogni reali se ne manifestano altri indotti dal sistema – che così tenta di autoalimentarsi – sempre in quantità crescente. Così la pubblicità veicolata in tutti i mezzi di comunicazione di massa è come ossigeno per il mercato: lo vivifica arrivando ad ogni cellula elementare (il cosiddetto consumatore), fino a far prosperare questo tumore maligno che con le sue metastasi sta sostituendo completamente quelle che dovrebbero essere le cellule sane – ben differenti – di un organismo degno del nome di società umana. È bene sottolineare che anche le risorse economiche spese nel pubblicizzare un prodotto diventano, schizzofreneticamente, valore feticistico aggiunto di questo.

Forse se riuscissimo a togliere le lenti deformanti che il mercato ci ha messo davanti agli occhi, apprezzando così solo l’essenza di ciò che ci circonda, potremmo arrestare il moto dell’ingranaggio in cui siamo presi e da cui rischiamo di essere dilaniati; spinti verso l’autodistruzione da un sistema per sua natura non regolato, rischiamo di far scomparire la nostra civiltà e di arrecare seri danni al pianeta che ci ospita.

Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni.
GIACOMO LEOPARDI