Archimede sulla spiaggia di Ortigia

di Maurizio Castellaro, 11 dicembre 2020,

Ho trovato in rete la foto di questa aula scolastica. Al centro della parete troneggia una lavagna digitale, ai lati due piccole lavagne di ardesia. Manca il videoproiettore, quindi il dispositivo è di fatto un grosso pezzo di metallo inutilizzabile. Immagino che la lampada del videoproiettore si sia bruciata e non sia più stata sostituita (costa parecchio). Presumo allora che le attività didattiche in classe trovino sfogo sulle due lavagne ai lati, piccole e poco visibili ancelle del metallico totem silenzioso che è stato posto sull’altare (sopra di lui infatti resiste solo il crocefisso). L’immagine è chiaramente un simbolo del fallimento delle velleitarie politiche di digitalizzazione della scuola, ma ora non ho in mente questo.

Vorrei tentare un confronto tra lavagna digitale e lavagna analogica (quella tradizionale di ardesia, per capirci), basandomi semplicemente sulla mia esperienza di insegnante. Se voglio spiegare ai ragazzi come si calcola ad esempio il minimo comune denominatore tra frazioni devo: mettermi accanto alla lavagna, controllare il tono di voce, cercare gli sguardi dei ragazzi, coinvolgere i più distratti, chiedere ai più fragili se han capito, fare ridere tutti con qualche battuta scema, gratificarli per le risposte giuste, accogliere quelle sbagliate, rispiegare tre volte in modi diversi. Insomma, il solito armamentario che già raccomandava Socrate, maestro dell’ascolto e della domanda, e che oggi chiamiamo causalità circolare, feedback, tranfert, ma che è insomma sempre quella roba lì. In questo processo la lavagna di ardesia è un’alleata discreta. Non fa rumore, è immediatamente pronta all’uso, consuma poco (due o tre gessi all’ora) e non ha memoria.

Proviamo ora ad immaginare la stessa spiegazione con una lavagna digitale. Se sono riuscito ad accendere PC, lavagna e proiettore, e a far partire il programma di gestione, devo verificare che le licenze d’uso siano ancora attive, che la penna digitale non abbia le batterie scariche e che non cada a terra danneggiandosi, che gli studenti, indecifrabili nella penombra, non si distraggano troppo (è noto che la lavagna digitale è nemica del sole, come i vampiri). Tutti gli attori sono rivolti al totem luminoso, mentre la concreta gestione del dispositivo viene a interporsi nella relazione insegnante/classe, rendendola più faticosa. Così descritta la lavagna digitale può essere definita un medium che si mette in mezzo, non un facilitatore, ma un ostacolatore della relazione, che cerca macchinosamente di riprodurre la fluida dimensione analogica dell’apprendimento. Facile e immediata l’obiezione: e l’accesso alle infinite risorse della rete dove lo mettiamo? A parte che ormai i ragazzi hanno accesso illimitato a internet grazie ai cellulari che tengono spenti nello zaino (la scuola, monoteista e monocratica, vede i cellulari individuali come possibili tentazioni ereticali, anche se sono utilizzati per imparare), vogliamo parlare dell’efficienza della rete nelle scuole? Nelle scuole che conosco anche la linea più performante ha, nell’ultimo tratto che porta agli utilizzatori finali, un’efficienza che è paragonabile a quella delle attuali gallerie sull’A26 nel tratto tra Ovada a Masone. Se a questo si aggiunge l’ulteriore dispersione del segnale conseguente alla connessione wi-fi di decine di dispositivi in contemporanea, si hanno come risultato lezioni di DAD che assomigliano spesso a commedie degli equivoci disperanti perché mal scritte, che tutti sperano finiscano prima possibile, dato che alzarsi e andarsene è maleducazione.

Io non sono esperto di neurofisiologia, ma penso che la storia della nostra evoluzione abbia stretto un nodo indissolubile tra il modo in cui funziona il nostro cervello e il modo in cui funzionano le nostre dita. Prima ancora della scrittura penso ai meravigliosi disegni dei primitivi nelle grotte, e prima ancora ai frammenti di pietra e di osso afferrati e lavorati grazie ai nostri pollici opponibili. Stiamo parlando di milioni di anni di esperienze di manipolazione e concettualizzazione racchiuse nel nostro DNA, in cui il sistema del pensiero ha affinato la capacità di interconnettersi con il sistema della motricità fine, in un rapporto di interdipendenza, in cui il pensiero rimanda al gesto e al segno, per poter produrre nuovo pensiero. È quello il nostro linguaggio macchina, fondamento di tutti gli altri linguaggi derivati. Se volete una prova immediata di tutto questo, pensate al valore in termini di interiorizzazione dell’apprendimento garantito dal “copia/incolla” dalla rete che gli studenti propinano da anni a insegnanti inconsapevoli o conniventi, e confrontatelo con il livello di apprendimento che si ottiene sintetizzando lo stesso testo a mano su un foglio di carta, utilizzando frecce, colori, sottolineature, cancellature. E’ evidente, non c’è partita. In fondo se ci facciamo caso lo stesso mondo del digitale è ben consapevole della sua subalternità alla realtà analogica. Imita il libro di carta, la tavoletta dello scriba, la tavolozza del pittore, lo strumento del musicista. Intendiamoci, io questi programmi li uso da anni per lavoro e li trovo indispensabili, e credo che in infiniti settori della nostra vita il digitale e la rete ci stiano migliorando la vita. Però se pensiamo al mondo dell’educazione e dell’apprendimento, e soprattutto alla fase evolutiva degli studenti, dobbiamo ammettere che, dopo l’entusiasmo iniziale, sempre più numerosi ci scopriamo a pensare che forse a questo meraviglioso flusso di silicio fatto di zero e uno, in fondo, manchi qualcosa. Forse è la profondità, forse è il tempo, forse è il peso della materia che viene piegata dal gesto. E allora mi ritrovo a ipotizzare che tra vent’anni quella lavagna digitale da cui siamo partiti, inutilizzato e arrugginito simbolo di una fase della nostra cultura dell’educazione, verrà finalmente smontata e depositata in scantinato, mentre nel frattempo milioni di piccoli gessetti bianchi, grazie alle due piccole e umili lavagne di ardesia, avranno comunque aiutato i cervelli di decine di migliaia di ragazzi a capire il calcolo del minimo comune denominatore tra frazioni, e forse anche altre cose non meno importanti.

Archimede di Siracusa, sulla spiaggia di Ortigia, traccia segni sulla sabbia con uno stecco. Sta lavorando ad un nuovo teorema, ma per ora la soluzione gli sfugge. Corregge e cancella col palmo della mano, riscrive e cancella ancora. Ora si è preso una pausa, sa che le idee arriveranno, prima o poi. Si sofferma a guardare un attimo il tramonto e sorride tra sé e sé. 

Raccontare storie a colori

di Paolo Repetto, 21 maggio 2020

La storia non è soltanto ciò che è stato,
ma anche ciò che se ne è fatto
Marc Bloch, Apologia della storia

Durante una delle interminabili passeggiate alessandrine con Mario Mantelli, di ritorno dall’appuntamento rituale delle sedici al Libraccio (accadeva quasi sempre che mi accompagnasse sin sotto casa, e fossi poi io a riaccompagnare lui alla sua, perché non si poteva lasciare il ragionamento a metà) sentii parlare per la prima volta di Michel Pastoureau, del quale fino a quel momento ignoravo persino il nome (non aggiungo “colpevolmente” perché, insomma, non si può pretendere di conoscere tutto). Il tema quella sera era il significato simbolico dei colori, e in effetti su quell’argomento il suo “Medioevo simbolico” è oggi una Bibbia. Ma io, ripeto, non lo sapevo, e a non saperlo mi sentivo in quel momento davvero un po’ colpevole, perché sulle simbologie medioevali più di quarant’anni prima avevo fatto approfondite ricerche (dopo la scoperta del Medioevo fantastico di Jurgis Baltrušaitis mi si era aperto tutto un mondo, nonché un modo diverso di pensare la storia). Mi sono assolto solo quando ho verificato che gli studi di Pastoureau sono apparsi attorno all’inizio del nuovo secolo, quando ormai i miei interessi viaggiavano in altre direzioni.
L’importanza che Mario attribuiva a questi studi e l’ammirazione che tributava a Pastoureau mi hanno però spinto a tornarci su: in sostanza, sono andato a leggermi prima “Nero. Storia di un colore”, e poi “Medioevo simbolico”. Con enorme diletto, devo dire, e con altrettanto profitto. Ora, però, non ne farò qui la recensione: conviene che leggiate gli originali, se già non lo avete fatto. Ne prendo spunto, invece, per alcune riflessioni sull’insegnamento della storia, su quello “che se ne è fatto”, come scriveva Marc Bolch, e su quello che attualmente se ne fa. E parto necessariamente dalla mia esperienza didattica e più in generale dalle mie velleità di divulgatore.
Ho insegnato Storia (uso sempre la maiuscola quando mi riferisco alla disciplina di studio) per trentadue anni, ho scritto di Storia entro quello che potremmo definire il circuito “ufficiale” per un breve periodo, ho raccontato Storia (o storie) per il resto della mia vita. Lo sto facendo anche adesso. Questa esperienza mi ha lasciato la convinzione che la storia dalle nostre parti sia conosciuta poco o male perché coloro che dovrebbero raccontarla lo fanno in genere nella maniera sbagliata (non che altrove sia conosciuta molto meglio, ma questo avviene per altri motivi).
Questa affermazione potrebbe sembrare quanto meno opinabile: esiste oggi un’offerta ricchissima, addirittura esorbitante, di divulgazione storica, e quest’ultima viene praticata con tutti gli strumenti e su tutti i supporti possibili, dalla conferenza al racconto per immagini, documentario, cinematografico o informatizzato. Ma non è una questione di quantità: “quella” storia trattata come una “merce” culturale qualsiasi, venduta a pezzi come il muro di Berlino, truccata, imbellettata, sia pure, nel migliore dei casi, coi “documenti d’archivio”, insomma condita e precotta e confezionata per il pronto consumo come i quattro salti in padella, non è la stessa cosa di cui parlo io. Io parlo di “senso” storico, inteso naturalmente come sensibilità educata nel soggetto conoscente, e non di un significato intrinseco all’oggetto conosciuto.
Ho scritto sensibilità “educata” perché il primo approccio serio con la storia si ha a scuola: è lì che nasce, o muore, l’imprinting, e la nostra scuola in tal senso non è affatto attrezzata a preservarlo. Ne ho già trattato a più riprese altrove. Non che manchino gli strumenti didattici, anzi, ce ne sono a mio parere sin troppi, e si fa troppo affidamento sul loro ruolo. Ma paradossalmente questi strumenti, anziché contribuire a creare una atmosfera “speciale”, a coltivare un apprendimento che entri sottopelle e circoli in vena, adattano e livellano questo apprendimento ai modi della quotidianità, ad una percezione confusa e indistinta della realtà. Col risultato che la narrazione storica finisce per confondersi e assimilarsi alle altre infinite narrazioni che passano attraverso schermi, teleschermi e monitor.
Faccio un esempio banalissimo. Le scelte iconografiche che corredano oggi i libri di testo delle elementari, giustificate con l’intento di educare gli allievi ad un rapporto e a una dimestichezza precoci con le “fonti documentali”, ottengono l’effetto opposto. Il valore evocativo di un dagherrotipo d’epoca che ritrae Nino Bixio è infinitamente minore rispetto a quello che aveva un tempo la figurina disegnata di un garibaldino, o di Bixio stesso, con la sua brava camicia rossa: illustrazione che avrebbe potuto essere trasposta di sana pianta in uno dei fumetti di capitan Miki o di Tex, o presa da esso, e che rimandava alla dimensione dell’avventura (alimentando peraltro la voglia di andare più tardi a scoprire che faccia aveva davvero quel garibaldino, e di cercare quindi il dagherrotipo). È evidente che oggi le stesse immagini non evocherebbero più nulla, perché nessun ragazzino legge più Miki o Tex, ma ciò che è andato a sostituirle non ha assolutamente un altrettale potere di suggestione, e non potrebbe averlo anche se usato nel migliore dei modi: semplicemente perché su quel versante la mente dei ragazzini è già colonizzata da ben altri effetti speciali.
Il discorso deve dunque spostarsi sul fattore umano. Occorre riscoprire finalmente la centralità della famigerata “lezione frontale”. E qui il problema si presenta nel suo vero aspetto. Ciò che davvero manca sono gli insegnanti, i narratori capaci di trasmettere quel senso di “pervasione del tutto” che solo giustifica e rende possibile la vera conoscenza storica. Mancano perché coloro che si confrontano oggi con i ragazzi a loro volta la storia non la conoscono, o la conoscono male, o ne hanno una conoscenza parziale in termini quantitativi e partigiana in quelli qualitativi. La loro impreparazione è frutto di quarant’anni di improvvisate e raffazzonate riforme dei piani di studio, che hanno sconvolto la tradizionale scansione delle tappe dell’apprendimento per sostituirla con modelli completamente sganciati dalla realtà. La sgrossatura che un tempo era affidata alla scuola elementare, e che con tutti i suoi limiti offriva quantomeno l’idea di un percorso “storico”, di una cavalcata attraverso i tempi, ha lasciato il posto ad una pretesa approfondita “immersione” (l’intero terzo anno dell’odierna primaria dedicato alla preistoria, i due successivi alle civiltà classiche) che rompe i ritmi e ingenera nella mente dei ragazzini – abituata per altri versi ai tempi rapidi di comunicazione degli spot o a quelli frenetici dei videogiochi – un senso di saturazione e un sostanziale disinteresse. Contemporaneamente, il preteso ribaltamento del punto di vista eurocentrico, la pregiudiziale messa sotto accusa della civiltà occidentale e l’ambizioso proposito di trattare sullo stesso piano tutte le civiltà (delle quali chi insegna sa naturalmente ancor meno che della nostra) ha creato un approccio disordinato, velleitario e inversamente “negazionista”.
Chi si è formato in una babele didattica di questo genere non può non essere confuso e inadeguato. Intendiamoci: non sto dicendo che “un tempo” tutti gli insegnanti di storia fossero bravi a raccontarla, o obiettivi nella trattazione, e nemmeno che lo fosse la maggioranza: io stesso ho incontrato nel mio percorso scolastico dapprima una esposizione arida, noiosa e nozionistica, e successivamente una “imposizione” fortemente ideologizzata e altrettanto nozionistica, e ho anche pagato, in termini di valutazioni, i miei timidi tentativi di rendere il tutto un po’ meno insipido aggiungendo qualche grano di sale. Ma quegli insegnanti avevano comunque di fronte degli allievi che il nozionismo, per forza d’abitudine, erano in grado di digerirlo, e di cavarne quindi alimento anziché tossine. Anche quello meno bravo, se appena appena faceva un po’ il suo dovere, qualche plinto di fondazione riusciva a gettarlo. Poi ciascuno, in base alle sue capacità e alle sue disposizioni, ci costruiva sopra l’edificio che voleva. Oggi l’utenza è diversa, e non è certo con i giochini spettacolari offerti da nuovi media, coi quali gli allievi hanno una consuetudine ben superiore a quella dei loro docenti, che si conquista la loro attenzione. Con quelli, quando va bene, li si tiene buoni per qualche mezz’ora. Quindi non si scappa: o si reimpara a narrare, pur con tutti gli ausili e i supporti che si vuole, o si condannano le nuove generazioni all’ignoranza storica.
Naturalmente non mi sto riferendo alle capacità affabulatorie: quelle o si possiedono o no, anche se un buon allenamento può dirozzare o ammorbidire la tecnica di esposizione. Parlo invece di una disposizione mentale che in parte può essere un regalo di natura, ma per il resto va costruita. Ciò che maggiormente difetta, infatti, è la capacità di fare storia con tutto, e quindi di far comprendere ai ragazzi che tutto fa storia. Per rimanere nella metafora gastronomica di cui sopra, manca la capacità che aveva mia madre di costruire piatti appetitosi partendo sempre dagli stessi quattro ingredienti poveri di cui disponeva. Il che significa non essere onniscienti, ma avere la capacità di cogliere in qualsiasi ambito un potenziale di indagine, di chiarimento o di spiegazione storica. Che equivale a dire: di divertirsi e di abituare a un divertimento intelligente chi ti segue.
Conviene però a questo punto passare immediatamente agli esempi, per evitare di girare a vuoto tutto attorno e di strangolarmi da solo. E anche per spiegare il riferimento iniziale. Pastoureau entra in questo discorso perché i colori hanno fatto la loro parte di storia (e lui l’ha raccontata), ne sono stati testimoni e ne sono a loro modo anche motori. Vediamo come. Senza riassumere Pastoureau, ma sviluppando le indicazioni di metodo che ha fornito.
Quando si racconta agli allievi la vicenda della Riforma protestante è difficile appassionarli al dibattito teologico, al problema del libero arbitrio, della grazia o non grazia, della validità o meno dei sacramenti, ecc… Il che non significa che non si debba parlarne, al contrario: ma occorre farlo portandoli a toccare con mano le conseguenze tangibili, immediatamente visibili, delle diverse scelte. Questo lo si può ottenere, ad esempio, comparando la diversa presenza dei colori in un’opera fiamminga della seconda metà del cinquecento e in una del seicento: Brueghel e Rembrandt, tanto per andare sul sicuro. Credo non ci sia nulla che faccia immediatamente percepire il salto di mentalità meglio del passaggio dagli abiti variopinti e chiassosi de la Danza nuziale a quelli neri, uniformi, rigidi della Lezione di Anatomia. Il nero è negazione della varietà dello spettro cromatico, della diversità, della possibile coesistenza di differenti concezioni del mondo: quindi spiega la caccia alle streghe, le guerre di religione, le intolleranze reciproche, ecc … L’uniformità stessa del colore degli abiti rimanda immediatamente all’idea di “uniforme”, nelle accezioni sia sostantivale che aggettivata, e quindi all’operazione di intruppamento dei corpi e delle menti perseguita tanto dai riformatori come dai controriformisti, gli uni e gli altri avendo alle spalle i nascenti stati moderni. E l’associazione nella cultura occidentale del nero col demoniaco, con il pericolo, con la violenza, con il lutto, può magari anche aiutare a far comprendere fenomeni come quello del razzismo.
Allo stesso modo, un piccolo excursus sulle simbologie negative del rosso o del giallo può diventare intrigante, e al tempo stesso, se ben pilotato, sgombrare il terreno da pregiudizi popolari radicati. Quando è associato a tratti morfologici, come il colore dei capelli o della pelle, il rosso connota tradizionalmente una disposizione negativa. Sono rossi i capelli e la barba di Giuda, ad esempio, così come ricorrono nella pittura medioevale (e sopravvivono in quella successiva), ma anche quelli di numerosissimi personaggi biblici o mitologici, o dei reprobi dei poemi cavallereschi, fino a quelli della letteratura romantica, e oltre (il Rosso Malpelo di Verga). Ora, questa valenza simbolica negativa ha un’origine facilmente identificabile: presso quasi tutte le etnie del mondo, con la parziale eccezione dei popoli scandinavi, gli individui di pelo rossiccio rappresentano delle esigue minoranze, e sono quindi percepiti immediatamente come dei “diversi”, alla stessa stregua ad esempio dei mancini. Non a caso, nella rappresentazione iconografica (ancora Giuda) e letteraria i due attributi marciano spesso di conserva. Il rosso diventa quindi per antonomasia il colore che connota, in progressione negativa, una differenza, una anomalia, un pericolo, il male. Diventa il colore di Satana. E l’identificazione simbolica finisce alla lunga per prescindere dal suo movente originario, al punto da imporsi anche presso quelle culture (le nordiche di cui sopra) nelle quali la motivazione della differenza morfologica non ha senso.
Altrettanto intriganti e rivelatori sono poi i risvolti attuali di questo simbolismo. Perché ad un certo punto quello dei reprobi da simbolo infamante diventa invece vessillo di riscatto ed è adottato come bandiera, e questo malgrado il rosso rimanga convenzionalmente associato al pericolo e alla devianza (la bandiera rossa sulle spiagge, il segnale rosso dei semafori, la sottolineatura degli errori su questo computer, le zone rosse dei contagi, ecc). Anzi, è proprio il messaggio di pericolosità connesso al simbolo ad essere rivendicato (le camicie rosse dei garibaldini, l’Armata rossa – cui la reazione oppone naturalmente quelle bianche), e usato come un monito minaccioso da mandare ai nemici. Nello stesso modo in cui viene fatto proprio, e ribaltato nelle sue valenze etiche e politiche, il simbolismo connesso a tutto ciò che concerne la “sinistra”.
Anche qui, una passeggiata nell’iconografia, in particolare in quella sacra, si rivela particolarmente istruttiva. Si considerino ad esempio le trasformazioni avvenute nell’abbigliamento della madonna, nel quale a partire dalla Controriforma il rosso tende a cedere sempre più il posto al bianco, sino alla definitiva affermazione di quest’ultimo dopo il dogma dell’immacolata concezione. La madonna pellegrina che io stesso ho visto nei primi anni cinquanta transitare per Lerma, nel corso di un pellegrinaggio preelettorale che coprì palmo a palmo tutto il territorio nazionale, per esorcizzare il pericolo del fronte popolare, era rigorosamente ammantata di bianco e azzurro: il rosso campeggiava solo nei manifesti che proponevano l’immagine terrificante dell’orso bolscevico.
Dal canto suo, anche il giallo ha conosciuto una associazione simbolica negativa, solo appena più sfumata. Nell’iconografia medioevale, ma anche in quella successiva, è il colore del tradimento e della menzogna, come tale identificato non tanto nei tratti morfologici (ché, anzi, dopo le conquiste normanne il colore biondo dei capelli diventa il tratto distintivo della nuova nobiltà di spada) quanto nell’abbigliamento (dietro il quale, appunto, ci si nasconde). La veste di Giuda è spesso gialla, così come gialla è la stella identificativa degli ebrei, e tali sono molti capi di abbigliamento degli ebrei stessi, o dei buffoni di corte e dei saltimbanchi. In questo caso ad essere sottolineata è una diversità non “naturale”, ma sociale e culturale.
Come si vede, le potenzialità di sviluppo di un discorso di questo tipo sono infinite. Il filo principale può essere svolto, per esempio, partendo dai colori primari, pieni e nitidi, usati da Giotto e nella pittura francescana, passando per quelli opulenti del Beato Angelico e di Benozzo, risalendo a quelli più sfumati della pittura rinascimentale, che coincidono con la liberazione del pensiero da contorni troppo netti e marcati; e si dipana poi, dopo il barocco, con un ritorno al cromatismo vivace, alle tinte pastello nel Settecento, e successivamente con l’utilizzo di tonalità più cupe, e il ritorno al nero degli abiti, nel Romanticismo. Insomma, la storia della nostra civiltà può essere riassunta anche attraverso il filtro cromatico.
Per inciso, in un discorso di questo genere rientrano, naturalmente su un piano diverso, proprio le escursioni storico-antropologiche di Mario Mantelli nel mondo delle impressioni infantili: sia pure circoscritte apparentemente a un microcosmo provinciale, e ad un periodo molto particolare, ma allargate oltre che alle immagini e ai colori anche ai sapori e agli odori, raccontano l’educazione “sensoriale” prima che sentimentale di una intera generazione (tema sul quale Mario è tornato anche recentemente): e questo racconto vale più di qualsiasi dotta indagine o dissertazione per spiegare le scelte ideologiche o esistenziali dei nostri coetanei.

Ma la storia non è solo colorata: può essere anche “colorita”. E qui entra in gioco l’uso dell’aneddotica. Tutti i miei studenti ricordano ancora oggi che Cavour voleva prendere a calci nel sedere Vittorio Emanuele II dopo l’armistizio di Villafranca (storico: testimoniato da Costantino Nigra). Magari ricordano solo quello, e non le date di san Martino e Solferino, ma almeno sanno chi erano Cavour e Vittorio Emanuele, e che rapporti intercorrevano tra i due, e che è stato stipulato un armistizio a Villafranca, e che quindi in precedenza c’era stata una guerra, e perché questa guerra era stata combattuta. Sarei curioso di fare oggi un test a campione sugli studenti usciti dalla scuola secondaria da un paio di anni, per verificare che conoscenza hanno di quei personaggi e di quelle vicende. Lo stesso valore di chiodini nel muro della memoria possono assumere un sacco di altre informazioni, al limite del pettegolezzo, che riescono ad accendere l’attenzione per la loro curiosità e a mantenerla poi desta anche sui fatti essenziali cui sono collegate. Non si tratta di “banalizzare” la storia, cosa che accadrebbe se si raccontassero solo i pettegolezzi, ma di vivacizzarla un po’, di farla uscire dal recinto sacro della disciplina di studio e farla entrare in quelli dell’interesse e del divertimento.
Un discorso analogo vale per la proposta di approcci un po’ sfalsati e marginali rispetto a quello canonico e rituale. La Storia può essere raccontata ad esempio passando attraverso l’esame delle risorse, a partire da quelle alimentari per arrivare alla disponibilità di materie prime indispensabili al processo industriale. Sapere che nell’area mediterranea e mediorientale erano presenti in natura trentadue delle cinquantasei specie erbacee domesticabili ad uso alimentare, contro le undici delle Americhe, le sei dell’Africa subsahariana e dell’Asia orientale e le due dell’Australia, aiuta i ragazzi a capire le ragioni dei diversi tempi di sviluppo di queste zone, e il conseguente fenomeno della dominazione europea, molto più della conoscenza in dettaglio dei rapporti internazionali, o perlomeno consente di spiegare molto meglio questi ultimi. E così, un minimo di storia dell’alimentazione, quel tanto sufficiente a far comprendere che senza l’introduzione in Europa del mais e delle patate forse non ci sarebbe nemmeno stata la rivoluzione industriale, o sarebbe avvenuta in altri luoghi e con altri tempi, rende molto più semplice e chiara la situazione. Allo stesso modo, la sostituzione del petrolio al carbone come fonte energetica primaria spiega la decadenza dell’Europa, e la presenza solo in Africa di elementi come il litio o il coltan ci fa immediatamente intuire perché quel continente non abbia pace.
In definitiva: io credo che la strategia per riaccendere nei giovani, o almeno di una parte di essi, l’interesse per la storia passi in primo luogo per la segnalazione di diversi possibili percorsi: una segnalazione che, se gestita con criterio, scegliendo i momenti e profittando degli agganci opportuni, non confonde affatto le idee dei ragazzi, ma al contrario, apre le loro menti alla curiosità e all’autonomia di pensiero. Il resto, l’apertura agli “eventi”, la ricognizione dei “luoghi storici”, le conferenze dei professionisti della divulgazione, i supporti multimediali, tutto lo strumentario al quale oggi sembra affidarsi e ridursi la didattica, ha valore solo in quanto usato all’interno di questo piano, né più né meno di come lo avevano le carte geografiche appese ai muri delle nostre aule. Ma fin qui credo di non dire in fondo nulla che almeno teoricamente non sia già contemplato nelle linee di indirizzo periodicamente diffuse anche nella nostra scuola. Di nuovo, anzi, a dire il vero, di antico, c’è che questo progetto di riscatto presuppone da un lato, negli allievi, un sostrato essenziale ma solido di conoscenza degli eventi (leggi: nozioni, date, nomi, luoghi) e di competenze nel loro inquadramento cronologico; dall’altro, nei docenti, la capacità di non ridurre il tutto ad imbonimenti autoreferenziali o a pappine precotte. I percorsi possibili vanno suggeriti, assistiti, esemplificati quanto basta, ma lasciati poi aperti e incompiuti. Con le stesse cautele possono anche essere azzardati degli schemi interpretativi che consentano agli studenti non soltanto di guardare alla storia con occhiali diversamente colorati, ma anche di scegliersi particolari postazioni di lettura. Cito, per fare qualche esempio, quelli relativi alla contrapposizione per il passato remoto tra popoli nomadi e popoli sedentari, o tra civiltà particolaristiche “democratiche” e civiltà idrauliche dispotiche; per quello più prossimo, tra popoli che guardano alla terra e popoli che guardano al mare.
Ecco, suggestioni di questo tipo sono, come dicevo, materia estremamente delicata, e vanno trasmesse assieme alla consapevolezza che si tratta di possibili modalità di lettura della storia, e non di chiavi magiche che aprono al suo senso: e che ogni angolo prospettico va confrontato con gli infiniti altri, non per contraddirli o negarli, ma anzi, per trarne conforto e ulteriori stimoli. È una cosa meno facile di quanto possa sembrare: le idee forti, i modelli interpretativi ad alto tasso di assertività esercitano un’indubbia attrattiva sulle menti adolescenziali (e non solo su quelle), che hanno bisogno di spiegazioni semplici, di un “senso” all’interno del quale e in funzione del quale collocare gli eventi storici. Ma d’altro canto queste suggestioni “integraliste” sono una tappa obbligata nel cammino di chi va alla scoperta della storia. Importante è che non rimangano l’ultima: cosa che invece accade quando le alternative offerte non sono altrettanto seducenti.
Per chiudere torno dunque al colore e al mio sussidiario di terza elementare. In esso anche gli opliti di Leonida o i legionari romani erano rappresentati con figurine coloratissime, quanto attendibili nella ricostruzione dell’abbigliamento non so, ma senz’altro capaci di colpire la fantasia, tant’è che ancora le ricordo. In quello di mio nipote le figurine sono state sostituite da fotografie di statue o di monumenti classici, molto belle, per carità, ma tendenti a indurlo a pensare che gli uomini dell’antichità fossero di marmo e che Atene e Roma fossero imbalsamate in un sudario bianco. E come tali, ben poco vivaci e interessanti. Allo stesso modo, per riallacciarmi a quanto dicevo sopra a proposito dell’aneddotica, sono scomparsi dalla narrazione Muzio Scevola e Attilio Regolo, col risultato che della divisione in tribù e in curie, meticolosamente descritta, e dei comizi curiati o centuriati non ricorda già ora nulla, e nemmeno gli è rimasta traccia di quegli episodi simbolici che trasmettevano comunque l’idea di un certo modo di concepire il rapporto tra individuo e stato.
Quindi? Quindi l’argomento è troppo complesso per essere affrontato e liquidato in quattro paginette. Ma anch’io, che pure adolescente non sono più da un pezzo, ho conservato alcune idee semplici e forti, e approfitto di ogni occasione per ribadirle. Non devo argomentare e giustificare l’utilità dello studio della Storia, lo hanno già fatto moltissimi altri, a partire almeno da tremila anni fa, da quando una rudimentale coscienza storica è comparsa a connotare in maniera ancor più netta la “diversità” del genere umano. E neppure intendo entrare nel merito di “cosa” della storia si è fatto, altro tema dai risvolti infiniti. No, semplicemente volevo esprimere la mia preoccupazione per l’uso che se ne farà una volta che nella stragrande maggioranza degli umani quella coscienza storica si sarà atrofizzata: perché questo è il processo in atto, non so dire quanto sapientemente guidato o quanto irresponsabilmente accettato. La riduzione della Storia a spettacolo, a merce culturale, ne rappresenta oggi l’aspetto più fastidioso, in quanto più immediatamente visibile: ma dietro ci sono la sostanziale cancellazione della conoscenza storica, la sua perdita di profondità, il suo appiattimento sul presente, il leopardiano (ma già omerico) “trascolorar del sembiante”, e quindi la sua continua possibile riscrittura su richiesta (on demand, si usa oggi) dei nuovi committenti: dietro c’è un futuro senza conoscenza, e quindi senza coscienza storica.
Non posso assistere inerte a questa deriva, anche se di quel futuro ne vedrò poco. Credo sia doveroso ostinarsi a chiarire, a sé e agli altri, che le colorazioni con filtri speciali, del tipo di quelle operate sui vecchi film western, rovinandoli e falsandone completamente l’aura, così come gli interventi di restauro radicale, che cancellano quella patina del tempo che della storia è segno distintivo, non sono affatto dei rimedi, e la deriva anziché arginarla l’accelerano. Ridare colore alla storia non significa cambiare l’ordine degli eventi o ricalibrarne la rilevanza. Significa molto più semplicemente ricaricare lo sguardo che ad essa rivolgiamo di quello stesso stupore e di quella curiosità che l’hanno originata.

A lezione di economia (e di didattica)

di Paolo Repetto, 2008

Nelle ultime settimane ho scoperto le borse – anche volendo sarebbe stato difficile ignorarle. In un primo tempo ho seguito lo spettacolo un po’ distrattamente, visto che non avevo mutui accesi e investo solo in libri. Anzi, mi divertivano i tonfi e i rimbalzi, l’idea di quelle bolle di gas che esplodevano e si dissolvevano nel nulla. Ad un certo punto, però, ho iniziato ad avvertire un fastidioso puzzo di strine, e non c’è voluto molto a rendermi conto che emanava dalla mia pelle. Mi stavo scottando anch’io.

Quello che sembrava fuoco di sterpaglie è diventato un incendio vero e proprio, e minaccia tutti, non solo “mutuati” e investitori. Capito questo, non è che si possa poi fare molto: nemmeno quei governi che stanno provando a spegnerlo, o almeno a contenerlo, sembrano ottenere grossi risultati. Per cui continueremo a fare gli spettatori, magari sperando che piova: ma, in quanto spettatori paganti possiamo almeno pretendere di sapere come l’incendio è scoppiato, cercare di capire come si è verificato quel distacco tra economia “reale” ed economia “virtuale” che pare essere all’origine del disastro.

Chi nutre questo desiderio non deve aspettarsi soccorso dalla televisione e dalla stampa. Io non credo alle strategie mirate di disinformazione, almeno in questo caso: penso semplicemente che chi lavora in quei settori non abbia la minima idea in proposito, e nemmeno ritenga sia suo compito averla, e meno che mai trasmetterla agli spettatori e ai lettori. Quindi occorre cercate altrove: qualcosa che aiuta a capire prima o poi si presenta.

A me e agli studenti del “Boccardo” lo spunto è stato offerto pochi giorni fa, in una forma trasversale, diciamo di sponda. Abbiamo assistito ad una lezione sulle “fiere di cambio” tenuta da Claudio Marsilio, docente di storia economica alla Bocconi. Ora, le “fiere di cambio” sono senz’altro un bellissimo argomento, ma potrebbero sembrare un tantino riservate agli specialisti del settore, o agli amanti della storia locale, dal momento che hanno visto protagonista per un lungo periodo proprio la città di Novi. Non lo diresti insomma uno di quei temi che possono tenere incollato alla poltrona un pubblico di profani: e invece la trattazione ha coinvolto anche chi, come me, di storia economica era piuttosto digiuno.

Pur rendendomi conto che è impossibile sintetizzare l’argomento senza scadere nella banalizzazione ci provo comunque, anche perché mi consente di farci sopra un paio di considerazioni, relative tanto al tema quanto al modo in cui è stato trattato. Spero solo che il professor Marsilio non me ne voglia.

Vediamo di inquadrare storicamente la faccenda. Si parte agli inizi del ‘500. È in corso la lotta tra Francia e Spagna per l’egemonia continentale, con il neonato regno iberico innalzato al rango di potenza mondiale dalla scoperta (e dalla conquista) dell’America e dal fatto che il suo sovrano, Carlo V, già erede dei possedimenti asburgici sparsi per mezza Europa, ha ottenuto l’investitura imperiale. Tra i due contendenti sta Genova, dapprima schierata con la Francia, poi, dopo il 1528, sotto la guida di Andrea Doria, con la Spagna. Genova detiene all’epoca il monopolio dei traffici sul Mediterraneo occidentale, traffici che hanno portato le grandi famiglie armatoriali a disporre di ingenti capitali. Di questi capitali ha un enorme bisogno Carlo V, che con la sua politica imperiale ha moltiplicato gli impegni militari e che risulta ormai troppo esposto con i gruppi finanziari tedeschi che gli hanno comprato l’investitura. I capitali genovesi sono quindi spinti naturalmente verso l’imperatore, in prospettiva di una partecipazione di Genova alla gestione dell’oro e dell’argento provenienti dall’America e dell’acquisizione di regimi di monopolio commerciale .

Questo lo scenario. In esso si inseriscono, o meglio, da esso hanno origine, le fiere di cambio. Mi spiego meglio. Con la rinascita economica del Basso Medio Evo si sono diffuse e infittite le grandi fiere commerciali, le fiere “di scambio”. Sono le occasioni di incontro per i mercanti che arrivano da tutta l’Europa, di incrocio delle merci dal settentrione al sud e dall’ovest al levante. A margine di queste fiere c’è una appendice economica. Non si possono trattare gli affari in moneta sonante, per ovvi motivi di sicurezza (mettersi per strada col sacchetto dei denari equivarrebbe a rimanere in mutande dopo mezz’ora) e tutto avviene attraverso “lettere di cambio” emesse sulle piazze più diverse. Chi compra e chi vende lo fa sulla base di un rapporto fiduciario assoluto (beati loro!). In sostanza, io, mercante di Prato, mi reco a Lione per acquistare pizzi; ho con me una lettera di cambio, sottoscritta magari da un grosso importatore che ha vasti rapporti internazionali, nella quale si dice più o meno “accordate fiducia al latore della presente per una somma tot, che vi farete rimborsare da tal dei tali, mio corrispondente di Amsterdam.” Viaggio sicuro, compro e pago con la lettera, che vale come oro zecchino.

Ad un certo punto, però, il volume delle transazioni diviene tale (anche perché alle transazioni commerciali si aggiungono e si sovrappongono quelle finanziarie, rappresentate soprattutto dai prestiti agli ormai affermati stati nazionali) da imporre di tenere fiere apposite, quelle appunto di “cambio”, nelle quali si comprano e si cedono non merci, ma debiti e crediti, quelli testimoniati dalle lettere di cambio. Negli spazi ristretti, ad economia di altissima densità, la necessità di uffici di cambio appositi nei quali possano essere scontate le lettere si avverte già nel ‘400. Bruges ed Anversa, e poi Amsterdam, vedono la nascita delle prime Borse nella zona delle Fiandre. Lo stesso non avviene nell’area mediterranea, un po’ per le resistenze ideologiche della chiesa, un po’ per l’esistenza di una situazione politica molto più frammentata e complessa (Genova, Venezia, Firenze, si propongono come centri finanziari concorrenti). Qui rimane pertanto preferibile organizzare “fiere di cambio”, alle quali convergono operatori economici e finanziari da tutte le parti dell’impero di Carlo V. Queste fiere si tengono in un primo tempo in Francia, nei possedimenti borgognoni degli Asburgo, a Besançon e poi a Lione, poi vengono spostate in Italia, verso la fine del ‘500, e cominciano a moltiplicarsi quando i banchieri fiorentini tentano di sottrarsi all’egemonia genovese e Venezia cerca di contrastarla. Per opportunità logistica, soprattutto per la facilità d’accesso dalla pianura e dal milanese, i genovesi eleggono a città di fiera Novi Ligure. Lo rimarrà per quasi tutto il XVII secolo.

Le fiere in pratica funzionano come una Borsa, che invece di agire in continuità si riunisce ad intervalli regolari. Nel corso di questi incontri, che si svolgono con cadenza trimestrale, durano una decina di giorni e hanno luogo all’interno di palazzi nobiliari, vengono trattate da un gruppo ristretto di operatori (massimo un centinaio), delegati a rappresentanza di diversi gruppi o famiglie, o di intere città, le “quotazioni”, tanto quelle degli stati quanto quelle dei maggiori gruppi commerciali e finanziari, e viene fissato di volta in volta, quale base monetaria delle transazioni, una valuta di riferimento (lo scudo di marche, una moneta immaginaria). Da notare che in queste “fiere” non può assolutamente circolare denaro liquido. Tutto si svolge in maniera molto codificata, con rituali e protocolli ben precisi, e tutto in qualche modo è già virtuale. Non girano merci, non corre moneta.

Ecco, qui sta il salto. È questo il momento (momento che dura un paio di secoli, per intenderci, dai primi del ‘500 fino all’apertura delle vere e proprie Borse, come quella di Londra, nelle quali cominciano ad essere trattate anche le quotazioni “industriali”) in cui una parte dell’economia si smaterializza, diventa “fittizia”: e questo ambito “virtuale” dell’economia si chiama finanza. Ciò, paradossalmente, in coincidenza proprio con l’avvento dell’industria moderna, con un materiale “appesantimento” della produzione.

Questo anello mi mancava. O meglio, mi mancava una percezione così chiara dei passaggi. Adesso mi sembrano scontati, elementari: prima merce per merce, poi merce per denaro, più tardi merce per lettera di cambio, infine lettera di cambio per lettera di cambio, con margini percentuali di guadagno correlati al tempo, alle distanze e al rischio, che con la merce, con il prodotto materiale hanno più niente a che vedere. Insomma, non proprio così facile, ma quasi.

Questo dunque l’argomento dell’incontro. E adesso mi prendo lo spazio per le considerazioni.

Sui fraintendimenti dell’etica. Si fa un gran parlare, in questi tempi, della necessità di tornare ad una finanza “etica”. Ma su cosa poi significhi il termine etica, riferito alla finanza, o più in generale all’economia, c’è parecchia confusione. L’etica è un sistema di regole che discendono da una personale visione della vita (anzi, è quella visione della vita, con annessi i comportamenti che ne conseguono). Potremmo definirla un sistema normativo endogeno: è l’individuo a imporsi le regole, o a scegliere di condividere quelle esistenti. Non va confusa con la morale, che è invece un sistema eteronomo, dettato da un ente superiore ed esterno, sia questo la divinità, o in sua assenza, la società. Nell’ambito della morale la sanzione per chi trasgredisce alle norme viene dall’alto, può essere posticipata (la dannazione eterna, o la damnatio memoriae), a volte appare imperscrutabile: in quello dell’etica significa l’esclusione (o l’autoesclusione) immediata dal gioco. Ogni gioco si basa sulla fiducia reciproca tra i partecipanti, su un patto più o meno sottinteso che riguarda il rispetto di “quelle” specifiche regole: e ha poco a che vedere con la morale. Il poker è un gioco considerato immorale, ma ha un suo codice etico. Se bari, sei fuori. Quindi l’etica si fonda su un rapporto orizzontale, di fiducia, la morale su un rapporto verticale, quello con la giustizia divina.

Applichiamo il tutto al campo economico. Il richiamo a tornare alla finanza etica suppone che un tempo questo settore fosse informato ad un qualche ethos. Non necessariamente ad una concezione morale. Esisteva, semmai, sino al tardo medioevo, una condanna “morale” di tutta quanta la sfera economica, dal momento che tutto ciò che ha a vedere con il fattore economico fondamentale, il guadagno, era tacciato di immoralità. Ma anche l’economia moderna, quella per intenderci che nasce con lo spirito protestante, con lo stato moderno, con la rivoluzione scientifica e le sue ricadute tecnologiche e industriali, con l’individualismo e con la rinnovata concezione del diritto, tanto “morale” non è mai stata. Basti ricordare le condizioni di sfruttamento dalle quali trae da sempre origine il capitale. È stata invece “etica”, almeno per quanto concerne i rapporti orizzontali nel mondo finanziario, che come dicevo sopra erano fondati sulla fiducia. Laddove non è la pura forza a determinare le posizioni nello scambio, deve funzionare un rapporto fiduciario. Su scala piccola, nella transazione a livello di vicini di casa o di compaesani, garante della fiducia è la parola. Venir meno alla parola data significa squalifica sociale, emarginazione, estromissione dal circuito economico. Quindi non si tratta solo di una pressione sociale: il guadagno truffaldino di oggi comporta la completa rovina di domani.

Questo tipo di rapporto ha continuato bene o male a funzionare sino alla metà del secolo scorso, fino a quando gli interlocutori economici sono rimasti delle persone. Alla stretta di mano si è semplicemente sostituita la firma. Non ha più funzionato nel momento in cui gli interlocutori sono diventati anonimi e le strutture finanziarie e commerciali si sono complicate. Non voglio certo riscrivere la storia dell’economia: credo semplicemente che quando il rapporto avviene tra soggetti eticamente deresponsabilizzati, quindi tra o con funzionari di società anonime, che anziché venire estromessi dal gioco in caso di mancato rispetto delle regole sono promossi o liquidati con buonuscite faraoniche, l’etica non c’entri più, quei paletti di salvaguardia che erano il nome, la stima ecc.. saltano come birilli. E infatti. La grande crisi che stiamo attraversando è una crisi di sfiducia. Nessuno ha più fiducia in nessuno, e questo vale a maggior ragione nel campo finanziario, dopo l’infilata di bancarotte che ha caratterizzato gli ultimi anni. Quindi, parlare di ritorno alla finanza etica è assurdo, dal momento che è venuto meno quello che ne era il fondamentale presupposto.

Detto questo, è necessario anche non dimenticare che quello della finanza è un gioco di competizione, e che sul lungo periodo è a somma zero (l’aumento della ricchezza è in realtà solo virtuale, la terra rimane comunque un sistema chiuso). Se qualcuno guadagna qualcun altro perde. Se si guadagna o si perde nel rispetto di certe regole è un gioco; se questo non avviene è una guerra, nella quale può sembrare per un qualche tempo che tutti guadagnino, come è avvenuto recentemente, ma alla fine tutti perdono. Vorrei insomma chiarire che il ritorno ad una finanza “etica”, quand’anche fosse possibile (e si è visto che non lo è) non significherebbe comunque l’approdo ad una finanza “filantropica”, intesa al benessere collettivo, ma solo il ripristino di certe norme che disciplinano la lotta.

Sui buchi della storia. Pur reputandomi un dilettante di discreto livello degli studi storici non avevo un’idea precisa di cosa fossero le fiere di cambio. Retaggio di una preparazione, e quindi di un’ottica, molto “umanistica” e “politica”, e troppo poco economicistica. Non credo di essere l’unico, ma questa non è né una consolazione né una giustificazione. Se davvero le fiere di cambio hanno avuto un’importanza tanto cruciale nel passaggio da una concezione dell’economia ad un’altra – e dopo questa conferenza non ho più dubbi – Novi ha avuto un ruolo importante nell’economia mondiale del XVII secolo, almeno come teatro del gioco. Non si tratta ora di trarne pretesto per un carrozzone revivalistico e anniversaristico o che altro, ma almeno di averne coscienza, da parte dei novesi e non. Spesso sappiamo tutto su Anversa e Bruges, e poi non sappiamo che una fase determinante della partita si è giocata proprio sotto le finestre di casa nostra.

Sui “segreti” della didattica. Ho assistito alla conferenza assieme a quaranta studenti delle quinte aziendali. La conferenza è durata due ore, e per tutte quelle due ore nessuno dei ragazzi ha fiatato, se non per rispondere alle domande di Marsilio. Ora, non si trattava di una performance di Baricco o di Busi o di qualche altro imbonitore televisivo: era una lezione sulle fiere di cambio a Novi nel Seicento, apparentemente quanto di più lontano si possa immaginare dagli interessi e dalla sensibilità di odierni diciottenni. Allora, delle due l’una: o il professor Marsilio ha doti sensazionali di intrattenitore, o i ragazzi sono molto meno storditi di quanto si voglia far credere e di quanto appaiano quando vengono inquadrati o intervistati in tivù. La verità sta, come al solito, nel mezzo, e concerne tanto il modo quanto la sostanza. Claudio Marsilio non si limita a sapere le cose, ma le sa anche proporre, e bene; e questo lo posso dire dall’alto di trentacinque anni spesi, credo non invano, nell’insegnamento. Non salta un passaggio, e ti porterebbe a capire anche se non lo volessi. Questo per quanto concerne il modo.

Quanto al merito, quello di cui Marsilio parla è un argomento alla fin fine sostanziale, pregnante, e reso ancora più tale dal suo rapporto con questo territorio. Un conto è parlare di fiere di cambio a Besançon, che il novanta per cento dei ragazzi, e magari anche qualcuno in più tra i parlamentari, avrebbe difficoltà ad individuare anche sulla carta geografica, un conto è dire che si svolgevano in quel palazzo là, a centocinquanta metri da dove ti trovi adesso. Questo si chiama giocare didatticamente il famoso “rapporto col territorio”.

Infine, su quello che chiedono i ragazzi. La soglia di attenzione dei nostri studenti è giudicata minima: tempi da Zelig, tre o quattro minuti. Stando a questa valutazione occorrerebbe passare dal quadro orario a quello dei quarti d’ora, con durate delle lezioni da messaggio pubblicitario. Non è affatto vero. Lo constato ogni volta che, per necessità ma un po’ anche per nostalgia, ho l’occasione di rientrare in classe per un’ora di supplenza. Se hai qualcosa da trasmettere loro, non importa quanto importante, ma qualcosa in cui credi davvero, lo sentono e ti seguono. Non sono del tutto cloroformizzati dai fiumi di retorica che di norma nelle “Grandi Occasioni” vengono rovesciati loro addosso, non sono completamente inariditi dalla povertà e dallo squallore del dibattito in formato televisivo, non hanno il cervello lobotomizzato dalle cretinate che vengono loro imbandite, a pranzo e a cena, perché si ritiene siano l’unico cibo di cui si nutrono: hanno solo bisogno di incontrare ogni tanto gente seria, alla Marsilio, che crede nel proprio lavoro e non ti lascia alibi per l’ignoranza.

La verità è che ne abbiamo un gran bisogno tutti. Dopo settimane di titoli gridati sui giornali e nei telegiornali, di diagrammi in caduta a picco, di economisti da salotto televisivo, ho capito in una sola lezione da dove arriva la tempesta. Per quanto riguarda le conseguenze sono inerme come prima: ma almeno ho goduto di due ore d’esercizio dell’intelligenza. E non è poco.