Il più crudele?

di Paolo Repetto, 24 aprile 2021

Aprile è il più crudele dei mesi? Non saprei, anche gli altri non scherzano. So comunque che per i Viandanti (e non solo per essi, purtroppo) l’aprile dello scorso anno, quello della prima terribile ondata, è stato crudelissimo. Esattamente un anno fa ci ha portato via due amici, due viandanti onorari, Mario Mantelli e Armando Cremonini. Mario e Armando erano entrati da tempo a far parte del club degli “ultimi illuminati”, e a pieno titolo: il primo quasi mettendoci in soggezione, a dispetto della sua mitezza, per l’eccezionale sensibilità estetica e per la vastità della cultura che la alimentava, il secondo facendosi amare per il sottilissimo umorismo, per quell’aria sorniona che assieme al sigaro gli dava un che di anglosassone (ma un anglosassone tutt’altro che freddo).

Non voglio raccontare di loro, l’ho già fatto e chi volesse conoscerli meglio può trovarli su questo stesso sito (per Mario, oltre ai suoi libri – Di cosa ci siamo nutriti e Viaggio nelle terre di santa Marta e san Rocco – e ai quattro Quaderni di prose e di poesie pubblicati dai Viandanti, si possono leggere: Una raccolta di silenzi; Arrivederci, maestro!; Visite guidate nei giardini della memoria; Che belle figure!. Per Armando, Il collezionista).

Queste poche righe vogliono solo scongiurare il silenzio attonito e subito distratto col quale siamo ormai ridotti ad accettare la scomparsa degli amici. Per me, per noi, non è così. Gli amici ci lasciano, ma non scompaiono. Alla faccia di aprile.

Che belle figure!

di Paolo Repetto, 8 gennaio 2021

Ho pensato questo intervento come un modestissimo omaggio a Mario Mantelli, per fargli sapere, dovunque sia ora, che mi manca molto la sua compagnia ma che la sua lezione non è andata del tutto perduta. L’argomento di cui parlo ricorreva puntuale nei nostri incontri e nelle lunghe flâneries pomeridiane, e la naturalezza e l’umiltà con la quale Mario mi faceva partecipe delle sue straordinarie conoscenze e delle riflessioni che ne ricavava riuscivano ogni volta a stupirmi. Provo ad immaginare cosa avrebbero potuto diventare queste considerazioni se filtrate dalla sua penna (perché con quella scriveva rigorosamente le sue cose), solo per rendermi conto che in realtà lo aveva già fatto, e che proprio da ciò discende la mia voglia di riprenderle. Temo che nelle mie mani verrà fuori solo una brutta copia delle nostre conversazioni; ma credo che a Mario non spiacerà comunque.

1. Se vi raccontano che invecchiando si torna bambini, non credeteci. Non so se sarebbe bello, non ne sarei tanto sicuro, comunque non è così. Al più si rimbambisce un po’, e i bambini tutto sono tranne che rimbambiti. E poi, il loro sguardo è concentrato per i primissimi anni sul presente e subito dopo sul futuro: mentre il nostro non può che essere rivolto al passato, e non è davvero la stessa cosa.

Accade semmai di ripensare molto più spesso alla propria infanzia, mentre si tende a dimenticare tutto ciò che c’è in mezzo. A me, almeno, capita questo. E non credo si tratti di infantilismo. Non rievoco quel periodo sull’onda della malinconia nostalgica, o perseguitato da cupi retaggi del passato: per quanto ne ricordo è stata un’infanzia serena, non ho nulla da recriminare, mi è andata bene così. No, torno invece volutamente indietro per cercare spiegazione del mio modo successivo di pormi nei confronti della vita. In realtà, ho l’impressione di non fare altro da sempre. Insomma, provo a capire quanto e come una disposizione naturale, genetica, senz’altro già molto forte (anche quella, peraltro, tutta da indagare) sia stata rafforzata e implementata, o magari per certi aspetti anche frenata, dalle esperienze “culturali” (libri, film, incontri, accadimenti) maturate in quel primo periodo della mia esistenza.

Le rimpatriate infantili mi hanno convinto che un peso decisivo sullo sviluppo di un’attitudine sognatrice e anarchica (intesa però alla Reclus: per il quale “l’anarchia è la più alta espressione dell’ordine”) lo abbiano avuto le immagini. Lo hanno per tutti, naturalmente, ma credo che nel mio caso siano state davvero determinanti (al contrario, ad esempio, dei suoni). Da piccolo sognavo di diventare un disegnatore – oggi si direbbe un grafico – e provavo nei confronti delle illustrazioni e delle immagini in genere un’attrazione straordinaria e minuziosa: non ne ero semplicemente affascinato, le guardavo già con occhio istintivamente critico. Prima ancora che il soggetto, a colpirmi era il modo in cui veniva trattato, “lo stile” della rappresentazione (e successivamente, col fumetto, la congruenza tra questa e la narrazione). Ci sono favole di Andersen, ad esempio, che non ho letto fino a trent’anni solo perché le illustrazioni che le accompagnavano mi riuscivano indigeste. Quando invece trovavo di mio gradimento un tratto particolare, o l’uso del colore, a partire da quelle figure immaginavo tutto il resto della storia, o ne costruivo una mia, intervenendo anche pesantemente sul soggetto, sulla trama e sulla sceneggiatura. E a volte non mi limitavo ad immaginarla, ma le davo corpo nei disegni “neolitici” che ho sparso per anni a margine dei miei primi libri e in una infinità di quaderni.

La fascinazione poteva nascere da qualsiasi tipo di immagine: quelle sulle scatole tedesche di biscotti della zia, quelle che illustravano il primo libro di lettura o le favole dei Grimm, quelle dei primissimi fumetti, o delle raccolte di figurine, o dei manifesti dei film. Le ho tutte ancora ben presenti, nitide: e il criterio estetico di fondo è rimasto anche in seguito pressoché invariato: volevo contorni netti e ben definiti, colori uniformi. Addirittura non mi spiaceva un certo calligrafismo. Col tempo quelle scelte di gusto si sono poi tradotte in una attenzione persino maniacale alle “confezioni” (le copertine e il tipo di rilegatura dei libri, ad esempio), ma anche alla sobrietà e all’equilibrio negli arredi, nell’abbigliamento, nei comportamenti. Sono l’opposto del dandy, vesto anzi in maniera ordinaria, abito in una casa spartana (nel senso che oltre ai miei scaffali e ai volumi che ospitano – parecchi – c’è ben poco) e reputo sacrosanta la regola per la quale la vera eleganza si definisce in negativo, sta in ciò che non si nota affatto, anche se inconsciamente lo si percepisce.

Le immagini che si sono scolpite nella mia memoria avevano quindi queste caratteristiche: erano precise, chiare, semplici, dirette, e malgrado ciò, anzi, proprio per questo, possedevano una grande forza evocativa. Come ho già detto, non volevo che mi raccontassero una storia: dovevano soltanto darmi le coordinate di base per un percorso che poi sarebbe stato tutto mio. Ho addirittura scoperto, a distanza di sessanta e passa anni, che alcune fiabe non erano affatto come le ricordavo: in realtà ricordavo la rielaborazione che ne avevo tessuto io.

Non sto però accampando una sensibilità anomala alle immagini (semmai, come vedremo, solo un po’ particolare, e comunque precoce). Non era eccezionale perché la mia generazione, e le ultime due o tre che l’hanno preceduta, quelle per intenderci che hanno vissuto l’infanzia tra l’esplosione della letteratura popolare illustrata, nel diciannovesimo secolo, e l’ultima stagione pre-televisiva, si sono formate essenzialmente attraverso quelle, sono state sommerse dalla loro crescente offerta, dal moltiplicarsi delle fonti dalle quali arrivava lo stimolo visivo: testi scolastici, manifesti, libri e giornali sempre più illustrati, diorami, mostre ed esposizioni. Ho quindi sognato sulle figure assieme a moltissimi altri.

Abituati come siamo, oggi, a vivere costantemente immersi nello scorrere delle immagini, dubito che ci rendiamo davvero conto di quanto tutto questo abbia cambiato (e continui a cambiare) la nostra percezione del mondo. Ogni rappresentazione figurativa (un disegno, un dipinto, a volte anche una fotografia) semplifica e al tempo stesso enfatizza la realtà: nel senso che deve per forza schematizzarla e “addomesticarla”, ma al tempo stesso la apre ad una gamma infinita di interpretazioni, mentre la realtà ne impone una sua. Ora, la rappresentazione è il fondamento stesso della “cultura”: la storia di quest’ultima è tutto sommato la storia di come l’uomo si è rappresentato il mondo, ovvero di come si è posto “fuori” dal mondo, per coglierlo dall’esterno (magari poi continuando a cercare di rientrarci, attraverso modalità di conoscenza magiche e intuitive), per anticiparlo, per memorizzarlo, per rappresentarlo, per sopravviverci e da ultimo per arrivare a dominarlo. L’evento “rivoluzionario” si è dato una volta per tutte al momento del distacco originario, quando gli uomini hanno cominciato a porre tra sé e il mondo una distanza che consentisse di “guardare” quest’ultimo, e tutto quel che è venuto dopo è sviluppo, o se si vuole deriva, di questo atto primigenio (il “peccato” biblico).

Nel corso della storia umana questa attitudine ha conosciuto vari “perfezionamenti”, e in alcuni momenti in particolare il cambiamento è stato radicale. Il più prossimo a noi tra questi momenti risale alla seconda metà del quindicesimo secolo, quando sono comparse le mappe e i libri a stampa. Le prime, che si portavano immediatamente appresso il reticolo delle coordinate geografiche, il mondo cercavano di descriverlo per ingabbiarlo: ma nel contempo individuavano ampi spazi bianchi, inesplorati, paurosi e invitanti al tempo stesso. I secondi allargavano in maniera esponenziale gli utenti delle nuove conoscenze. E introducendo apparati iconografici sempre più accattivanti ampliavano gli orizzonti della fantasia: l’immaginazione ha bisogno dell’immagine, che apre ad una infinità di universi e storie paralleli.

Fino a tutto il Settecento, però, a godere di questa rafforzata stimolazione visiva erano pochi fortunati, coloro che avevano accesso ai testi miniati, o vivevano in palazzi con gli interni affrescati, o ricchi di quadri: a tutti gli altri rimanevano solo la statuaria pubblica e l’iconografia religiosa – e rispetto a queste è evidente che gli spazi di libera interpretazione erano pochini (e a coloro che magari se li ritagliavano non conveniva farne parola). In genere chi deteneva il potere era anche in grado di dettare la direzione nella quale la fantasia doveva muoversi. In sostanza: le immagini miravano ad imitare il più possibile la realtà, anche quando si voleva rappresentare una trascendenza. Era un modo per legittimare l’esistente, l’ordine e i rapporti vigenti. Ancoravano il trascendente al reale, e anche se talvolta il genio artistico le faceva staccare da terra creavano una connessione diretta e obbligata tra il visibile e l’invisibile. O almeno, l’intento era quello. Ai fini del mio discorso, però, la cosa più rilevante è che non si trattava ancora di immagini mirate alla gioventù.

Le cose sono cambiate nel periodo cui accennavo più sopra. La coscienza del fascino che le figure riescono ad esercitare c’era già da un pezzo – ne sa qualcosa la Chiesa, che in questo campo è sempre stata all’avanguardia, e ne sono testimoni le feroci resistenze iconoclaste, fino al Savonarola e alla Riforma. Mancavano invece gli strumenti per una diffusione generalizzata e al tempo stesso tenuta sotto controllo. Nell’Ottocento si danno nuove motivazioni ideologiche (il nazionalismo, il culto dello stato, ecc..) ed economiche (la persuasione alla produttività e al consumo) e si creano le condizioni tecniche per sfruttare appieno questo fascino, esaltandone il potenziale “educativo”. Ciò va necessariamente a coinvolgere anche le fasce d’età in precedenza trascurate, l’infanzia e la prima giovinezza, alle quali viene riservato uno specifico spazio iconografico.

Mi occuperò proprio di questo. Ma solo dopo aver anticipato che a partire dalla fine degli anni cinquanta del secolo scorso l’avvento della televisione ha nuovamente del tutto scombussolato le modalità nelle quali percepiamo le immagini, mentre quello della musica “portatile” ne ha scalzato l’assoluta priorità. Le immagini con le quali già i nostri figli sono cresciuti (per non parlare dei nostri nipoti, e dell’ulteriore rivoluzione creata dai nuovi media) trascorrono rapide, non concedono il tempo di fissarle nella mente e nella memoria e costringono a concentrarsi sulla storia narrata, a seguirle passivamente nel loro percorso. Inoltre sono legate costantemente ai suoni, altro vincolo che costringe ad una lettura e ad una interpretazione obbligata; sono recepite principalmente al di fuori di un contesto “sacrale”, quale poteva essere ancora, ad esempio, quello della sala cinematografica di un tempo; e infine sono mescolate e sovrapposte ad altre, che appartengono alla dimensione profana della pubblicità, e che spesso sono più suggestive e accattivanti di quelle che si era scelto di vedere, perché create proprio per stordire e calamitare l’attenzione. Insomma, ci sarebbe materia per tutto un trattato di sociologia dell’immagine, e non è certo questa la sede. Era solo per chiarire che ciò di cui vorrei parlare ha un suo contesto temporale limitato e ben preciso.

In realtà, preciso non è forse il termine più adatto. Al di là del fatto che il tipo di attenzione alle immagini al quale mi riferisco è naturalmente variato nel corso di un secolo e mezzo – caratterizzato tra l’altro da innovazioni continue –, perché col mutare delle condizioni materiali e spirituali cambia anche il modo e l’interesse con cui guardiamo le cose, c’erano poi ragioni ambientali oggettive a condizionarlo: vasti strati sociali sono rimasti ad esempio ancora a lungo esclusi da un rapporto intenso con le immagini, mentre taluni ambienti hanno continuato ad osteggiare questo rapporto per preclusioni di carattere religioso o pedagogico. Insomma, anche il periodo aureo della fascinazione delle immagini ha una sua storia, che corre diversa nei tempi e nei luoghi.

Detto questo, rimane fondamentale il fatto che ogni storia individuale predispone poi a cogliere e a vivere le cose in maniera diversa. È una considerazione ovvia, ma è quella che sfugge ai grandi affreschi di costume, nei quali la particolarità è necessariamente sacrificata al quadro generale, e si parla in termini di generazioni o di grandi gruppi: mentre sono proprio le sfumature, all’interno di una attitudine comune, a rivelarci le differenze più significative.

Vorrei soffermarmi appunto su queste, nella fattispecie prendendo le mosse dalla mia singolarità, come essa emerge dal confronto con altre testimonianze di una speciale relazione con le immagini: quelle di autori che tale relazione l’hanno esplicitamente raccontata e analizzata e quelle più dirette di amici come Mario, dalla consuetudine coi quali sono emerse tante condivisioni, a volte inattese e sorprendenti, ma anche le spie di esperienze infantili e di riletture successive decisamente difformi.

Parto dunque da quella che possiamo considerare una attitudine comune transgenerazionale, premettendo che tutto ciò di cui andrò a parlare si iscrive ancora, almeno idealmente, in un contesto che è stato ben riassunto da Bernard Shaw in Santa Giovanna: “Non c’è niente al mondo di più squisito che un bel libro, con colonne ben ordinate di una ricca scrittura nera, con dei bei bordi e delle miniature elegantemente inserite. Ma al giorno d’oggi la gente invece di ammirare i libri, li legge”.

Io, ancora oggi, i libri prima li ammiro e poi li leggo.

2. A metà Ottocento una scrittrice francese di romanzi e novelle per ragazzi, la Comtesse de Ségur (autrice di almeno venti volumi, che hanno conosciuto una fortuna duratura), già si lamentava col suo editore perché gli illustratori dei suoi libri sembravano viaggiare per conto proprio. (“A quanto pare non si danno nemmeno la pena di leggerli – scriveva – prima di illustrarli”). Anche se le sue rimostranze erano dettate da una presunzione di superiorità autoriale, la Ségur toccava un tasto delicato. È senz’altro vero che gli illustratori sono in fondo degli artisti, e ci mettono del loro. Il fatto è che, anche volendo, non potrebbero tradurre pedissequamente in immagini gli intenti dell’autrice, e il decalage che si crea è in fondo la loro firma. Non si tratta, o meglio, non lo è quasi mai, di una intenzionale rivendicazione d’indipendenza. La distanza sta già tutta nella diversa natura dei due strumenti di trasmissione, la parola, sia pur scritta, e quindi visiva, e l’immagine.

Anche se aveva iniziato a scrivere quasi a sessant’anni, la Ségur era tutt’altro che una zitella acida e permalosa: di bambini se ne intendeva, perché aveva otto figli e venti nipoti, le novelle aveva cominciato a scriverle proprio per loro. Nel caso specifico vedeva giusto: le immagini possono anche seguire tutti i crismi della pedagogia dell’epoca e della iconografia specifica per l’infanzia (ad esempio, il senso infantile delle dimensioni, la gestualità enfatizzata, per rendere esplicite azioni ed intenzioni, la netta distinzione anche nei tratti fisici tra buoni e cattivi, ecc…), ma sono comunque, di per sé, ricche di particolari che rimandano la fantasia ad altro e che in qualche modo contraddicono o si scostano dal discorso del testo. Il che costituisce un valore aggiunto, ma non nella direzione funzionale agli intenti dell’autrice: la quale, ripeto, sia pure entro i limiti della cultura della sua epoca, non era affatto una cariatide passatista. La sua creatura più famosa, la piccola Sophie, è una simpatica peste, tanto da essere stata paragonata a Gianburrasca: e tutti i protagonisti delle sue storie (sarebbe più corretto dire: le protagoniste) vivono in un mondo che offre degli spazi privilegiati di libertà e di creatività, un mondo nel quale gli adulti sono autorevoli, ma non autoritari, accettano di far correre ai bambini dei rischi, ma intanto vigilano responsabilmente sui pericoli da evitare, sono comprensivi nei confronti della trasgressione, ma non per questo mettono in dubbio la necessità di insegnare, sia pure benevolmente, che tra giusto e ingiusto, bene e male, ci sono dei confini, e che le regole vanno rispettate. Insomma, propugnava dei principi etici, nonché delle pratiche educative, che hanno un valore universale ancora oggi.

E tuttavia, la scrittrice avvertiva la distanza tra ciò che le sue storie volevano trasmettere e quel che i giovani lettori, distolti dalla forza delle immagini, alla fine avrebbero recepito. Naturalmente lo scarto è direttamente proporzionale alla qualità, allo stile dell’illustratore: tanto più forte è la personalità e più efficace è il tratto di quest’ultimo, tanto più le immagini acquisteranno una vita e un potenziale evocativo propri. E paradossalmente questo andrà a contrapporsi a qualsiasi intento pedagogico ed edificante. La Ségur per i suoi libri voleva il meglio, e questo era suo malgrado il prezzo da mettere in conto.

3. Ad esaltare l’aspetto libertario e ribelle dell’illustrazione è, settant’anni dopo, Walter Benjamin, non autore in proprio ma vorace lettore e poi collezionista spasmodico di letteratura per l’infanzia. Recensendo l’opera di un suo amico e grande collezionista, Karl Hobrecker (Libri per l’infanzia vecchi e dimenticati) fa propria questa considerazione: “C’è una cosa che salva persino le opere più antiquate, meno libere dal pregiudizio di quest’epoca: l’illustrazione. Quest’ultima sfuggiva al controllo delle teorie filantropiche, e gli artisti e i bambini si sono messi presto d’accordo alle spalle dei pedagogisti”. Che è esattamente ciò che diceva la Comtesse de Ségur, quando parlava di “una sotterranea complicità” tra gli illustratori e il mondo dei bambini: soltanto, qui la complicità viene esaltata, mentre la Ségur la deprecava.

Benjamin non fa che applicare ad un contesto particolare una regola generale, che vale per ogni forma di cultura, anche la più istituzionalizzata. Così come l’illustrazione viene introdotta nei libri per potenziare il valore del testo, fornirgli un supporto visivo che esprima ciò che il testo non può dire, ma finisce poi per assumerne uno autonomo, che può rinviare anche ad altro, persino a ciò che il testo non vorrebbe affatto esprimere (non a caso Benjamin rimarca il valore assieme pedagogico e suscitatore di fantasie degli abbecedari), allo stesso modo ogni forma di cultura esce immediatamente dai binari lungo i quali viene trasmessa. È, per intenderci, la contraddizione intrinseca alla scuola, che nasce per irreggimentare i cervelli e finisce per trasmettere i germi di una autonomia culturale (fermo restando che li trasmette solo a chi la scuola prende sul serio, così come le immagini li coltivano solo in chi davvero le ama).

In cosa consiste il potere “eversivo” che Benjamin attribuisce alle immagini? In un Profilo dedicato all’amico, T. W. Adorno scrive: «Ciò che Benjamin diceva e scriveva sembrava far sue le promesse dei libri di favole per l’infanzia, anziché respingerle con la maturità ignominiosa dell’adulto. […]”. Ovvero, le immagini secondo Benjamin promettono e consentono assoluta libertà, in ciò contraddicendo le intenzioni e le indicazioni interpretative fornite dal testo stesso, quale esso sia. Quando parla di letteratura Benjamin ribadisce costantemente il concetto che “nel regno della lettura chi legge è sovrano”. Tanto più lo è il bambino, che si immerge interamente nella vicenda, si identifica con i personaggi e varca le porte aperte dalle illustrazioni. “Il bambino calca la scena dove vive la fiaba, e drappeggiandosi nei colori ch’egli cattura leggendo e guardando, si trova nel mezzo di una mascherata cui anch’egli prende parte.” Per Benjamin proprio i colori e il linguaggio delle immagini presenti nei vecchi libri illustrati sono decisivi, perché invitano il bambino ad abbandonarsi ai propri sogni. Il che si combina con l’altro grande tema benjaminiano, l’amore per i libri “vecchi e dimenticati” (ma anche con le “rovine” d’ogni sorta): liberata dalla responsabilità di una interpretazione “corretta”, la fantasia può alimentarsi degli “scarti” presenti nell’immagine, di quei particolari apparentemente inutili che i bambini salvano dalla cancellazione e riutilizzano in una personalissima operazione di montaggio.

Tutto ciò contraddice clamorosamente il progetto di condizionamento disciplinare ed etico sotteso sin dall’inizio alla creazione dei libri per l’infanzia. Benjamin ricostruisce le tappe di questo progetto: c’è un primo momento, che possiamo definire “illuministico”, nel quale si mira ad educare “dall’esterno” il bambino guidandone e correggendone passo passo la crescita verso “l’uomo migliore”, il cittadino responsabile e obbediente; ce n’è poi uno successivo nel quale si cerca invece di entrare nella mente del bambino predisponendogli un mondo a sua misura (in questo è implicita anche una critica al metodo montessoriano, che stava conoscendo in quel momento un grande successo ed era considerato all’avanguardia). In pratica, col libro e con le immagini che lo illustrano si completa la costruzione di un mondo infantile a se stante (nel frattempo si creano infatti oggetti e ambienti “adatti” ai bambini). Ciò significa però che ad un certo punto questa fase dell’esistenza andrà chiusa, e che va usata per acquisire comunque gli strumenti per accedere ad un mondo e a una visione adulta.

Ora, tutto questo rientrerebbe in una normalità pedagogica che risale all’età della pietra, se non fosse che Benjamin coglie nella strategia “infantilistica” le spie del modello totalitario: l’identificazione (ma poi, nella sostanza, la creazione) di “bisogni specifici del bambino” mira in realtà a coltivare l’educazione al consumo e a sostituire il consenso all’obbedienza. Per Benjamin i bambini sanno invece benissimo scegliersi gli oggetti adatti a loro e adattarsi agli ambienti, e lo fanno appunto spiazzando l’uso degli oggetti, la lettura delle immagini, l’interpretazione degli ambienti. Certo, lo fanno accedendo ad una esperienza dell’autentico e del diverso che viaggia in direzione diametralmente opposta a quella dell’esistenza borghese: per questo la loro fantasia genuina nasconde un potenziale sovversivo (e qui il potere ci vede altrettanto bene che la Comtesse de Ségur), che appunto va stemperato nelle sdolcinatezze dell’infantilismo.

Benjamin ritiene insomma che la pedagogia moderna miri non a bloccare, ma a incanalare e disinnescare la creatività anarchica del bambino, concedendole una gamma apparentemente vastissima, in realtà pre-selezionata e sterilizzata, di possibilità di esprimersi. Rimane, al di là di tutte le dichiarazioni progressiste di intenti, ancorata all’ideologia dell’“utile”, laddove il bambino nel ricombinare la realtà a suo arbitrio esercita il suo fondamentale diritto di sottrarla a quella schiavitù. E una volta che abbia imparato a farlo, difficilmente potrà essere indotto da adulto ad un atteggiamento differente. Questo potenziale trasgressivo Benjamin lo coglie poi, anche se la cosa potrebbe sembrare paradossale, più nei vecchi libri di favole che in opere moderne in apparenza ispirate appunto alla visione “liberatoria”. In fondo, la sua generazione è già cresciuta con Pinocchio, Alice, Peter Pan, quelli più grandicelli hanno letto Huckleberry Finn, tutti testi concepiti in apparenza “dalla parte del bambino”. Benjamin avverte però che anche queste sono “intrusioni” in un campo dove la fantasia dovrebbe essere lasciata assolutamente libera e sbrigliata: sono anch’esse un modo per giocare d’anticipo, offrendo le varianti fantastiche più ricche e straordinarie, ma pur sempre pensate da adulti per i bambini, e quindi a loro volta egualmente condizionanti.

Benjamin sa bene di cosa parla. Arriva da una esperienza di iniziale entusiasmo e poi di totale disillusione nei confronti della Jugendbewegung, il movimento giovanile, naturista e idealistico, che aveva infiammato i ragazzi tedeschi agli inizi del Novecento e fatto loro intravvedere una liberatoria dimensione di avventura. Il movimento e le sue idealità avevano finito per schiantarsi contro la realtà cruenta della prima guerra mondiale, che i giovani avevano affrontato con un entusiasmo ingannevolmente dirottato dal potere verso il nazionalismo. Di fronte all’assurda carneficina i suoi membri più consapevoli, come appunto Benjamin, si erano resi conto che una vera liberazione poteva arrivare soltanto dal recupero, operato singolarmente e in totale autonomia, dell’innocenza infantile, ovvero di tutto quel potenziale utopico e sovversivo che una pedagogia castrante cercava invece di dissipare o, peggio, di snaturare completamente.

Mi sembra illuminante in proposito il raffronto tra l’idea di una autonomia e centralità dell’esperienza infantile in Benjamin e la “poetica del fanciullino” di Pascoli. Parrebbero esserci diversi punti di contatto, ma a conti fatti risultano ben più significative le differenze. Pascoli afferma, rifacendosi peraltro a Platone, che: “È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi […] ma lagrime ancora e tripudi suoi”. Questo fanciullino si rapporta al mondo attraverso l’immaginazione, e ne scopre quegli aspetti reconditi e misteriosi che “sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione”. Conosce cioè in modo autentico ciò che lo circonda, e lo esprime in un linguaggio che è necessariamente poetico, in quanto racconta un mondo che è percepibile solo dall’intuizione, e non dalla razionalità.

Ora, quel che Pascoli attribuisce alla sensibilità infantile è una capacità di comprensione profonda e reciproca, comune a tutti gli uomini, sulla base della quale diverrebbe possibile la pacificazione di tutti i rapporti. In realtà non parla di una specifica (e irripetibile) disponibilità infantile, ma di un infantilismo del sentire che permane negli adulti, e che quando trova espressione genera poesia. Benjamin non intende questo. La sensibilità infantile è a suo parere soprattutto “scorretta”, e non rimane inalterata al fondo dell’animo degli adulti ma piuttosto crea una disposizione, li abitua ad una modalità di percezione del reale, di sguardo sul mondo, che li porta a contrapporsi alla mentalità borghese e utilitaristica corrente. È evidente che l’interesse di Benjamin per la letteratura infantile è tutt’altro che frutto della recriminazione nostalgica: c’è dietro una vera e propria filosofia politica, che assume a proprio paradigma e laboratorio il mondo incontaminato dell’infanzia.

4. La lezione di Benjamin è stata raccolta soprattutto da autori nati e cresciuti negli anni trenta: ed è interessante vedere l’uso che ne hanno fatto.

Antonio Faeti è senza dubbio il maggiore storico dell’illustrazione italiana (ma non solo). Esistono studi criticamente più approfonditi (c’è, ad esempio, la Storia dell’illustrazione italiana di Paola Pallottino), ma Guardare le figure e La storia dei miei fumetti rimangono in questo campo due caposaldi. Faeti è riuscito a produrre un lavoro documentario estremamente accurato e al tempo stesso a farci rivivere il modo e l’atmosfera in cui lui stesso aveva colto, da fruitore “innocente”, queste immagini. Ci ha poi lavorato sopra per tutta la vita. Leggere i suoi libri significa, anche per chi appartiene alla generazione successiva – quella di chi, come me, è nato immediatamente dopo la seconda guerra –, fare una immersione nel proprio immaginario infantile: è un continuo fuoco d’artificio di riconoscimenti e agnizioni, che permette di rilevare le continuità ma anche le differenze. E dal momento che sono queste a interessarmi, faccio un paio di esempi relativi ai diversi tipi di fascinazione che dalle illustrazioni e dal fumetto possono (potevano?) sprigionare.

Mi ha stupito, in Guardare le figure, trovare l’opera del casalese Vittorio Accornero liquidata in sole quattro righe. Io ho conosciuto il mondo fiabesco di Perrault attraverso le sue illustrazioni, ma prima ancora ero stato affascinato dalle immagini di un calendario capitato chissà come in casa mia, che era poi finito nella mia camera e che ho avuto sotto gli occhi lungo tutta l’infanzia (e oltre). Non so di che anno fosse, perché conservo ancora gelosamente solo le dodici illustrazioni, tratte da fiabe di varie raccolte (Accornero ha illustrato almeno una sessantina di volumi, tra cui gli immancabili fratelli Grimm e Andersen). Faeti sembra rimproverargli un taglio da cartone animato disneyano, o forse il fatto che sia diventato un autore di successo, conosciuto e premiato di qua e di là dall’oceano, attivo anche in settori diversi e marginali all’ambito “artistico”. Di queste possibili “contaminazioni” sapevo nulla, me le ha suggerite solo la sua lettura, ma facendo quattro conti sulle date verrebbe più immediato pensare che sia stato piuttosto Disney a ispirarsi al tratto di Accornero. E comunque: quando le ho viste per la prima volta avevo tre o quattro anni, e quelle immagini nitide, caratterizzate da colori pieni e compatti, ma al tempo stesso delicati, quasi stilizzate nei contorni ben definiti, eppure realistiche, sono state le prime a impressionare la mia mente. Il fatto che in quel caso fossero completamente svincolate da un testo, e che per me lo siano rimaste anche dopo, è risultato senz’altro determinante: ho continuato per anni a costruire a mio arbitrio, in versioni molteplici, il prima e il dopo di quei momenti fermati sulla carta, totalmente libero nella mia immaginazione, perché avevo davanti delle figure prototipiche di principi, orchi, principesse e castelli, un mondo essenziale e pulito: il resto, le ombre, le sfumature, potevo aggiungerle io. Anche quando successivamente ho incontrato artisti sui quali Faeti spende giustamente interi capitoli, come il Carlo Chiostri delle illustrazioni per Pinocchio, il mio immaginario fiabesco è rimasto quello delineato da Accornero. Che era poi del resto lo stesso che ritrovavo negli album delle figurine Lavazza e di quelle Salgari, e poco più tardi in quello delle Giubbe Rosse (rarissimo, a lungo invidiato ad un amico più grande, e avuto poi da lui in regalo quando ha cominciato a coltivare fantasie diverse).

Quasi contemporaneamente agli album è entrato nella mia vita (stavo per scrivere: nella mia vita parallela, ma in realtà i due piani si intersecavano continuamente) un altro protagonista: il Buffalo Bill che usciva in dispense, tradotto negli anni venti e trenta dagli originali americani, e che evidentemente aveva incontrato una grossa fortuna anche nel nostro paese, dal momento che di quella serie furono editate diverse centinaia di titoli. Quei fascicoli arrivavano dal passato, e solo per uno strano giro erano approdati nella bottega da calzolaio di mio padre, in mezzo a fasci di vecchi giornali che venivano usati per incartare le scarpe riparate. Riuscii a salvarli (non servivano per incartare) e ci edificai sopra un’altra buona fetta del mio immaginario.

Le illustrazioni di copertina degli albi di Buffalo Bill. L’eroe del Wild West erano state affidate dall’editrice Nerbini a Tancredi Scarpelli, e quello di Scarpelli è diventato per sempre il mio West. Bill esibiva cappelli Stetson dai cocuzzoli altissimi e arrotondati, stivaloni alla coscia, giacche con le frange, cavalcava mustang con la schiuma alla bocca. E alle spalle aveva sterminate pianure o canyon ripidi e stretti. Nei tratti fondamentali la sua immagine si poneva in continuità con quelle di Accornero, quindi rispondeva perfettamente a ciò che io esigevo. Per il resto, nell’iconografia della pubblicistica popolare dell’epoca ricorrevano una serie di stereotipi. Le figure dovevano essere nitide, per permettere una immediata distinzione dei ruoli, l’azione veniva congelata nel momento di maggiore drammaticità, con i personaggi colti in posture molto teatrali, simili a quelle dell’opera lirica, gli sfondi stessi rimandavano alle scenografie. Era la stessa impostazione già tipica delle illustrazioni che comparivano sul “Giornale Illustrato dei Viaggi” o in quelle dei libri di Verne o di Salgari. Nel caso delle copertine di Buffalo Bill, trattandosi di tavole fuori testo, che non dovevano supportare visivamente la narrazione ma riassumerla e anticiparla, l’effetto teatrale era ancora più ricercato. Comunque, quello stile aveva una sua precisa identità: e infatti l’ho poi immediatamente riconosciuto nella mia prima immersione nel mondo salgariano, in quel “Avventura tra le pelli rosse” che conteneva addirittura trenta illustrazioni di Scarpelli. Non ne ho trovato invece riscontro nei testi, affrontati pochi anni dopo e abbandonati quasi subito: erano davvero troppo gonfi di retorica e poveri di immaginazione, rischiavano di vanificare tutta la mia opera di costruzione del mondo della frontiera.

Cosa mi rimandavano quelle immagini? Intanto, un mondo ordinato, nel quale le parti erano chiare: i buoni, i giusti, i leali da un lato, i malfattori, i cattivi, i traditori dall’altro. Le distinzioni non tenevano conto dell’età, della razza o del ceto, ma solo del coraggio e della viltà. Era un mondo solo apparentemente semplice, perché le dinamiche che si innescavano potevano poi confondere i ruoli e ribaltare le apparenze: ma offriva l’occasione di scelte etiche non ambigue. Ora, tutto questo potrebbe sembrare funzionale a quella pedagogia dell’ordine che Benjamin metteva sotto accusa: in realtà io lo sentivo congeniale perché ci riconoscevo qualcosa del mondo contadino nel quale vivevo, un mondo rozzo ma nel quale i valori sembravano ancora chiaramente definiti, e che già vedevo però giorno dopo giorno sparirmi davanti agli occhi. Le immagini di Scarpelli e di Accornero quel mondo non lo creavano, ma in qualche modo lo rispecchiavano. Il che avvalora paradossalmente proprio la tesi di Benjamin, per la quale i bambini sanno benissimo scegliersi da soli, quale che sia l’offerta, ciò è che loro più “adatto”.

Un altro esempio lo ricavo da La storia dei miei fumetti. Mi ha colpito la lettura che Faeti dà dell’Uomo Mascherato, un personaggio che tanto sembra aver eccitato le fantasie pre-belliche, ma che negli anni cinquanta non era affatto apprezzato, e non solo da me ma un po’ da tutti i miei coetanei. Il motivo di questa disaffezione credo sia da cercarsi nell’improbabilità sia del personaggio, perché uno che si aggira per la giungla o nelle metropoli in calzamaglia rossa e mascherina da notte attorno agli occhi qualche perplessità la suscita, anche in un ragazzino, sia delle vicende e delle loro ambientazioni. Lo stesso Faeti scrive: «Ma “l’Africa fantasma” di Lee Falk o di Ray Moore allude anche alla specificità narrativa di cui è dotato il fumetto in generale: tutte le programmate incongruità che scorgiamo nelle storie dell’Uomo Mascherato, tutti i Bandar che non dovrebbero mai convivere con la Banda Aerea, tutti gli immensi acquari con i pescicani che rimandano ai Sing proprio perché i Sing non dovrebbero possederli, sono l’anima nascosta e vera del fumetto. I buoni frati pellegrini, il buon Togliatti predicatore, le pie signore caritatevoli, gli ispettori scolastici molto aggiornati, insomma, tutte le buone anime che volevano vietarci i fumetti avevano ragione: chi si perde nella savana dei Bandar, la strada di casa non la trova più». Il che in linea di massima è vero: l’impressione è però che negli anni trenta ai fanciulli un po’ più cresciuti andasse davvero bene tutto, purché consentisse loro di distrarsi dai rituali e dall’indottrinamento dei balilla. A noi nati sulle macerie del conflitto si conveniva invece un più sano neorealismo. Ed è anche vero che trasferirsi nella savana dei Bandar è affascinante per chi vive tra l’asfalto e il cemento cittadino, ma lo è già molto meno per chi ha qualcosa di simile attorno a casa. Anziché cercare rifugio in un altro mondo, quello di cui sentivamo noi il bisogno era poter trapiantare, calare le avventure e gli incontri che i fumetti ci promettevano, nel mondo che ci circondava. Ma su questo torneremo.

Ho salutato invece con gioia l’entusiasmo di Faeti per gli Albi d’Oro di Oklahoma. All’epoca sia la vicenda che i disegni mi avevano incantato, malgrado disponessi solo di paio di albi di una serie che ne contava quasi quaranta. Mi mancavano gli antefatti e il prosieguo della storia, e forse proprio questo me li ha fatti amare tanto, così che ho poi continuato a cercarli a lungo (a tutt’oggi: erano molto rari e non sono stati più riediti). In quei due albi, con quei personaggi, c’era però già tanto materiale da imbastirci sopra non una ma mille storie. Ciò che ho fatto regolarmente.

La cosa intrigante è che Oklahoma raccontava il travagliatissimo ritorno a casa, alla fine della guerra di secessione americana, di un ufficiale confederato e di un gruppetto molto eterogeneo che gli si era accodato. Il protagonista avrebbe dovuto appartenere quindi, secondo una lettura “politicamente corretta”, alla schiera dei non giusti, degli schiavisti, aristocratici e ribelli. In realtà la sua si rivelava essere un’aristocrazia di spirito, ciò che gli faceva superare ogni differenza formale e lo portava ad affrontare ogni ingiustizia. Credo sia lì che ho imparato che non esistono cause giuste, ma solo uomini giusti. Ed è una lezione che non ho più dimenticato.

Di Faeti ho condiviso anche il fastidio per le inesattezze. Quando, ad esempio, rileva nel numero 65 degli Albi d’Oro, Il tesoro dell’Isola, “un affronto insopportabile alla memoria di Stevenson: ai personaggi era stata aggiunta Anna, data per figlia del capitano Smollett: una donna nell’isola, una rilettura intollerabile”. O quando, a proposito del numero 111, Tom il vendicatore, dice: “non potevo sopportare che qualcuno, senza una folle ragione tattica o strategica, travestisse da Sioux i nobili e sapienti Navajos delle struggenti città costruite al riparo di grotte immense e scaturite dal Mito”. Sono le stesse idiosincrasie che io coltivavo. Solo che nel mio caso le ho poi estremizzate sino a pretendere dai racconti e dalle immagini (anche in quelli cinematografici) una assoluta verosimiglianza per quanto concerneva ad esempio abitazioni, costumi, armi.

La mia scarsa simpatia per l’uomo mascherato, e addirittura l’insofferenza per i primi supereroi che cominciavano, a metà degli anni cinquanta, a circolare anche in Italia, nasce di lì. Per me le strade dell’utopia sono sempre state lastricate di pietre reali, o almeno verosimili.

5. Certe distanze, non solo generazionali, risultano ancora più evidenti dal confronto con Umberto Eco. Si spiegano senz’altro col fatto che l’infanzia di Eco si è svolta tutta nel periodo pre-bellico, anche se credo non sia solo questo. Faeti centra bene il problema quando parla di “ipoteca generazionale”: “Se questa cui sto lavorando è davvero la storia dei miei fumetti, allora occorre trovare per essa un protettore: è il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset, (guarda caso, uno dei miei santini, n.d.a) perché dalle sue opere ho ricavato quel concetto di generazione al quale faccio riferimento quando accenno a certe date”. Oppure: “Oreste del Buono apparteneva a un’altra generazione, aveva altri amori”.

Sulla sensibilità di Eco per le illustrazioni e per il fumetto non ci piove: come semiologo si è occupato di ogni forma di rappresentazione visiva, e con Apocalittici e integrati ha “sdoganato” ufficialmente il fumetto come espressione culturale, conferendogli una sua dignità specifica. In realtà questo placet arrivava tardi (non certo per colpa di Eco, ma perché il fumetto stava già perdendo nei primi anni sessanta tutta la sua rilevanza “educativa” – sappiamo a vantaggio di chi) e sanciva appunto la dignità di qualcosa che era stato. Ma, soprattutto, l’analisi semiologica che Eco ne sviluppava aveva suo malgrado il sapore di un’autopsia. Negli anni successivi sono stati fatti goffi tentativi di omologare il fumetto agli strumenti pedagogici d’avanguardia (si è arrivati persino agli albi in latino), e questo ha reso evidente che non si era affatto compreso cosa nell’epoca d’oro le strisce disegnate avevano davvero rappresentato, di quale carica eversiva – quella rivendicata appunto da Faeti – fossero portatrici.

Nella mia distanza da Eco come lettore di fumetti e cultore dell’illustrazione non gioca però solo la differenza anagrafica. Mi rendo conto che quando si parla di queste cose non usiamo la stessa lingua perché abbiamo alle spalle storie e culture, e quindi bisogni e aspettative e punti di vista, decisamente diversi. Ma probabilmente è anche questione di carattere, di una disposizione di fondo.

Ne “La misteriosa fiamma della regina Loana” Eco monta un’impalcatura narrativa abbastanza farraginosa (in effetti, come romanzo non è granché), col vero scopo di allestire una vetrina dell’immaginario iconografico giovanile degli anni trenta. Sotto questo aspetto il repertorio messo in mostra è più che esauriente, ed è anche a mio giudizio l’unico motivo per il quale valga la pena leggere il libro. La debolezza dell’impianto porta però allo scoperto il vero spirito col quale Eco affronta l’argomento, che è quello del collezionista e del semiologo, e in subordine quello del sociologo: al contrario che negli scritti di Benjamin, qui il bambino, a dispetto dei tentativi di evocarlo, non lo vedi mai. L’infanzia è rivissuta tutta col senno di poi: di chi ne è uscito da tempo.

Lo dimostra, ce ne fosse bisogno, l’ennesima dissacrazione del libro Cuore (“Dunque, non solo io ma i miei maggiori erano stati educati a concepire l’amore per la propria terra come un tributo di sangue, e a non inorridire ma anzi ad eccitarsi di fronte a una campagna allagata di sangue. […] Tutti sono contro il povero Franti che viene da una famiglia disgraziata. […] Al muro, al muro. Sono quelli come De Amicis che hanno aperto la strada al fascismo.”) Non vorrei tornarci su perché l’ho già fatto troppe volte, ma ne La misteriosa fiamma mi ha infastidito l’allusione ad una precoce coscienza del carattere fascistoide del libro. Non ci credo. Lo leggevamo anche nel secondo dopoguerra, e nessuno di quelli che conosco lo ha mai interpretato così. Al massimo, se paragonato a Stevenson o a Salgari, era considerato un po’ noioso. Ma tutti parteggiavano per Garrone. Cuore era senz’altro tra i libri che non piacevano a Benjamin (non so però se lo conoscesse, non lo cita mai), esemplare di una pedagogia dell’ordine e dell’obbedienza: ma si prestava anche perfettamente ad avvalorare la sua tesi del “lettore sovrano”. Come tale ho amato a modo mio la piccola vedetta lombarda, e arrivando da una campagna allagata di sudore non mi sono fatto tentare da alcuna retorica nazionalista e guerrafondaia. Sarei salito sull’albero non per amore della patria, ma per il gusto del rischio e dell’avventura. Cavalcare gli alberi era una mia specialità.

Se poi uno viene a raccontarmi che nella casa di campagna, in solaio, trova i libri che suo nonno ha collezionato, intere serie degli eroi popolari del primo Novecento, da Fantomas a Nick Carter, a Petrosino, all’immancabile Buffalo Bill, comprese le avventure di Sherlock Holmes in inglese, e quelli che lui stesso ha letto da bambino, tutti o quasi i volumi della Biblioteca dei miei ragazzi, tutto Salgari e moltissimo Verne, e poi ancora raccolte del Giornale illustrato dei viaggi (con in mezzo, per buon peso, anche qualche numero della Revue des Voyages), la collezione completa di Flash Gordon e de l’Avventuroso, e un sacco di altre chicche del genere, costui mi sta parlando di una dimensione che assolutamente non mi appartiene – ma credo appartenga in realtà a pochissimi. So che si tratta di un pretesto narrativo, che Eco ha voluto trascrivere il sogno di ogni appassionato di immagini e inveterato bibliomane, ma è un pretesto rivelatore d’altro.

In primo luogo, appunto, del fatto che Eco non intendeva scrivere un romanzo, ma redigere una sorta di un compendio enciclopedico dell’immagine tra Otto e Novecento, sul tipo di quei bestiari ed erbari e lapidari medioevali per i quali ha sempre manifestato una grande passione. Basta vedere l’ordinein cui la materia è esposta per renderci conto che stiamo visitando le sale di un museo virtuale dell’illustrazione: le stampe tedesche, le paginate di soldatini, le riviste floreali francesi, le illustrazioni del Novissimo Melzi, gli atlanti, le scatole di dolciumi, i pacchetti di sigarette, gli almanacchi, e via via sino ai manifesti, politici o pubblicitari o cinematografici, ai francobolli, alle copertine dei romanzi d’appendice e a quelle dei dischi, insomma, a tutto quanto rientri nel campo dell’immagine e del suo utilizzo. Il resto, la vicenda, è musica di sottofondo, del genere di quella diffusa a volte nelle sale espositive: o è assimilabile al commento dell’audioguida. Ma l’atmosfera riesce fredda: l’autore si aggira per le sale ufficialmente per una operazione come quella che intendevo fare io (e che mi è subito scappata di mano, andandosene per i fatti suoi), in questo caso ricostruire letteralmente la propria memoria, ma sembra non fermarsi mai con gioioso stupore di fronte a qualcosa, avere una qualche epifania: sembra piuttosto impegnato a redigere un ponderosissimo e ponderatissimo elenco. Come dicevo sopra, questo elenco da solo giustifica il possesso del libro: quindi ben venga, è un ottimo stimolatore della memoria. Ma quanto al significato emozionale che il rapporto con le immagini ha avuto per Eco, dice molto poco.

E questo è a sua volta rivelatore dell’abissale differenza di attitudine che esiste tra uno che si trova in casa una biblioteca dalla quale può attingere di tutto e chi invece i libri se li propizia e li sospira e li cova con la mente uno ad uno. Voglio precisare subito che non ho alcun motivo di recriminazione o di rivendicazione nei confronti di chi è nato in mezzo ai libri. Anzi, provo nei loro confronti un’invidia tutt’altro che rancorosa, e una profonda ammirazione per chi ha saputo farne buon uso. Ciò non toglie che la differenza oggettivamente esista, e che spieghi preferenze e atteggiamenti. Ad esempio. Una delle sezioni più vive della mia memoria riguarda gli elenchi di titoli che comparivano in genere nella terzultima di copertina, o nella copertina posteriore stessa, sotto la dicitura: “Sono usciti nella stessa collana”. È viva perché i libri dell’infanzia li ho conservati – non erano moltissimi –, quelli almeno che sono scampati alla lettura di fratelli o figli, e in tutti ritrovo gli elenchi finali irti di spunte che rimandano ai desiderata, molti dei quali rimasti poi tali per decenni. Ora, quando scorro quegli elenchi rivivo tutta l’ansia e l’aspettativa che caratterizzavano ogni mio Natale (altre occasioni per attendersi regali non c’erano), nella speranza che fosse preso in considerazione dalla zia uno di quei titoli (il regalo era un dono, non un obbligo, per cui era considerato molto sconveniente dare indicazioni su ciò che ci si attendeva). Nel frattempo, se avevo letto l’anno precedente un romanzo del ciclo malese di Salgari, mi era stato concesso tutto il tempo per fantasticarci attorno e scrivere mentalmente tutti i prequel e i sequel immaginabili. Ho potuto leggere I misteri della Jungla Nera e I pirati della Malesia solo a quasi trent’anni, ma ne avevo già elaborato infinite versioni. Per forza poi la mia fantasia, e anche la mia scrittura, sono cresciute così indisciplinate.

Questo intendo quando parlo di diversa percezione. Chi ha già disponibile tutta la collana, o è in condizione di farsi regalare i libri mano a mano che ne finisce uno, è naturale che proceda nelle letture, non ha bisogno di crearsi da sé i seguiti, li trova belli e pronti. Ed è anche meno portato a costruirci sopra il gioco, se è un lettore appassionato non ne ha nemmeno il tempo. Laddove invece ogni mia lettura diventava il canovaccio con infinite varianti per i giochi di gruppo di tutta la banda, o per quelli solitari in soffitta, con i soldatini e le grette. Lo stesso vale naturalmente per le illustrazioni: le poche cui avevo accesso diventavano delle vere icone, dettavano i gesti, l’abbigliamento, le scelte dei luoghi per le avventure future. Insomma, è tutto un altro modo di viverle, e di questo modo in Eco, giustamente, non ho trovato nulla.

L’altra differenza concerne, al di là della “condizione”, della possibilità di accedere al libro, al fumetto, all’immagine, il modo in cui li si “guarda”. Che non è in realtà disgiunto dalla condizione “materiale” di cui parlavo sopra, perché la quantità e la disponibilità senza dubbio orientano e focalizzano diversamente lo sguardo: è una legge economica, quanto più l’offerta aumenta, tanto più diminuisce il valore intrinseco degli oggetti, la loro sacralità. Pur senza presumere di aver amato i libri e i fumetti e le immagini in generale più di Eco, sono certo che nei loro confronti il mio sentimento fosse diverso, in quanto dettato dall’assenza anziché dalla presenza. Ciò che Eco sembra maggiormente apprezzare nel fumetto, ad esempio, è la valenza ironica, cioè la capacità del disegnatore di andare al di là di quello che il testo narrativo dice. Bene, questo è significativo di una lettura “adulta” del fumetto, nella quale funziona il gioco delle strizzate d’occhio tra l’illustratore e il lettore, delle citazioni, dei rimandi, dei paradossi, inseriti attraverso elementi che col racconto non avrebbero nulla a che fare (ad esempio, figure che escono dai quadri appesi alle pareti e cose simili): come a dire: prendiamola bassa, stiamo giocando. Ed è un tipo di lettura che ha alle spalle una qualche saturazione, per cui l’effetto “piacevole distrazione”, quando non “analisi professionale”, ha preso il posto dello stupore commosso. Ma tutto ciò a mio parere non ha a che vedere con la lettura infantile: la lettura infantile non è affatto un gioco, è seria, e ogni intrusione che apra in una direzione diversa sottrae al giovane lettore un po’ della sua autonomia, tarpa la sua fantasia facendola polarizzare su quella dell’autore. Quella saturazione io non l’ho mai raggiunta, devo recuperare un sacco di storie o di puntate che mi sono perso sessant’anni fa, e dalle quali ancora mi attendo, a dispetto dell’età, qualche scampolo di sogno.

6. Credo che neppure Mario Mantelli considerasse chiusa la fase “illustrata” della sua esistenza: per questo l’ho sentito immediatamente così affine. Il clima generazionale c’entra senz’altro, perché Mario era un mio quasi coetaneo, ha respirato la stessa aria, letto più o meno le stesse favole e gli stessi fumetti, visti gli stessi manifesti e giornali: ma c’era di più. Anche se non sempre ero d’accordo con lui, e le nostre preferenze divergevano (avrebbe molto da obiettare su quanto ho scritto fino ad ora), avvertivo chiaramente, di qualunque cosa stessimo discutendo, che quell’argomento l’avevamo affrontato con la stessa disposizione d’animo, la medesima “postura interiore”. Questo atteggiamento rendeva possibile il confronto. Parlavamo della stessa cosa, e il fatto di averla vissuta in ambienti e situazioni diverse faceva sì che non si riducesse a un semplice reciproco innesco di nostalgie, ma diventasse uno scambio vero di figurine dell’album del passato: ce l’ho, mi manca.

Nel “Viaggio nelle terre di Santa Maria e san Rocco” sono le immagini a prendere per mano il bambino e fargli scoprire il mondo attorno. Le immagini segnano le tappe, marcano i luoghi e i tempi del passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Ogni etichetta, francobollo, carta da gioco, copertina di Pinocchio, del Principe Valiant o di Topolino, ogni insegna di negozio o pubblicità o cartolina, o immaginina sacra o pagina del Vittorioso, rievoca sogni, speranze, scoperte. E ti stupisci soprattutto quando dal cilindro della memoria vengono poi fuori il volto scarsamente mascherato di “El Coyote”, la copertina di Gim Toro a China Town, l’albo d’oro di Pecos Bill, le vignette di Tiramolla e il rebus de La settimana enigmistica: perché sono segnavia anche tuoi, e li ritrovi non esposti come reliquie nelle fredde vetrine di un museo, ma scaldati dalla stessa meraviglia nella quale erano stati originariamente avvolti.

Nella ricostruzione di Mantelli domina un costante senso di stupore. Mario ri-conosce quelle immagini non col senno di poi, attraverso il filtro delle esperienze e delle letture successive, ma calandosi direttamente nei momenti e nei luoghi in cui gli erano apparse la prima volta. Le conosce daccapo. Aziona una perfetta macchina del tempo che riproduce gli sfondi, l’urbanistica, le architetture, i rumori e gli odori e persino i sapori della vita di ringhiera, e quelli delle scampagnate domenicali, appena fuori porta o addirittura nell’oriente magico dei paesini del pavese. Quelle immagini vengono poi trasposte nel quotidiano (le cantine come sotterranei salgariani, le periferie come confini africani), in un andirivieni continuo tra il sogno e la realtà, senza neppure tanto sforzo, perché quella realtà è già di per sé sogno.

Questi sogni li abbiamo confrontati mille volte, e abbiamo verificato quanto nella trasposizione incidessero le differenze di contesto, a volte anche quelle lievi. Mario viveva in città, in una casa di ringhiera con cortiletto interno, che rappresentava lo spazio deputato al gioco protetto, ma aveva un qualche sentore di carcerario (io, perlomeno, lo immagino cosi): per valicare quelle quattro mura, all’interno delle quali si era ancora sotto controllo, bisognava lasciare briglia sciolta alla fantasia. Io ho vissuto l’infanzia in uno spazio completamente aperto, sia in paese che presso la cascina dei nonni. La fantasia non doveva nemmeno scomodarsi, avevamo giungle e foreste e deserti appena dietro casa, potevamo scorrazzare tutto il santo giorno fuori della portata di vista o di voce dei genitori. Tutta questa libertà reale ci consentiva di giocare al risparmio su quella fantastica. Non avevamo bisogno di inventarci quasi nulla. L’unico impegno era quello di trasferire nelle scenografie naturali personaggi, vicende, cavalli, banditi, indiani, tughs. Accadeva in automatico. Quando nel circolo parrocchiale assistevamo alle primissime programmazioni televisive di Rin-tin-Tin, al the end seguiva un fuggi fuggi velocissimo per risparmiarci il rosario o la novena, e il ritrovo era nella dolina di tufo lontana nemmeno centro metri, dietro un boschetto di roveri. Quello era già Forte Apache.

Quanto allo stupore di Mario, allo stato d’animo in cui riesce perfettamente a reimmergersi, confesso che per me non funziona proprio così. Il motivo è probabilmente quello cui accennavo sopra. Per questo la lettura del “Viaggio nelle terre di Santa Maria e san Rocco” mi ha così colpito, addirittura mi ha commosso. Ho continuato a immaginare quel ragazzino in timida e timorosa esplorazione, sia pure senza mai staccarsi dalle calcagna del fratello maggiore, alla scoperta delle meraviglie di un altrove che stava a cento metri da casa sua (le vetrine! “portafiamma di fornelli a gas esposti su fondi scuri come pezzi anatomici su un tavolo d’autopsia”. Fantastico!), ma al quale accedeva rasentando muri che dovevano sembrargli altissimi e che gli precludevano i misteri di altri cortili, di altri palazzi, percorrendo vie che aprivano ad altre possibili terre incognite. Quelle meraviglie oggettivamente non ci sono (lo scrive lui stesso), è anche plausibile che ad occhi infantili le dimensioni e le forme si dilatassero, ma il resto lo metteva tutto lui. «Per prima mi apparve ondulante, forse anche per un simultaneo suono di campane, la punta del campanile di San Rocco simile ad un enorme cappello di Mago Merlino, poi la facciata della chiesa dai grandi boccoli arricciolati sui fianchi dell’alta fronte e il medaglione del santo. E fu come si scaricasse su di me un empito di magnificenza e di maestosità incredibili, come un traboccamento del cielo. […] Quel giorno l’impressione fu quella di avere su di me precipiti, incombenti, sul punto di franare ma resistenti in piedi per un prodigio, le torri e le cupole di un intero Cremlino, con dentro tutto il prezioso trionfo delle chiese d’Occidente e d’Oriente. L’unico termine di riferimento per una possibile aggettivazione erano per me in quel momento le illustrazioni di Golia per l’Oriente di Marco Polo ne “I grandi viaggiatori” della collana “Scala d’Oro”».

Ecco, devo lasciare parlare lui. I grandi boccoli arricciolati sono quelli che avevo visto in una illustrazione di Antonio Rubino, incorniciavano il volto di un re bonario, e quando sono finalmente andato a verificare le volute barocche della chiesa di San Rocco li ho subito riconosciuti (ma quando l’ho poi detto a Mario ha manifestato qualche dubbio: Rubino disegna i boccoli girati all’interno – disse –, forse era Mussino). Insomma, tutta questa esperienza è filtrata dalle prime immagini raccolte nell’archivio della mente, in un gioco di montaggio che viaggiava all’inverso di quello che facevo io. Io leggevo le illustrazioni di Accornero riconoscendo le cantine del castello alle quali si accedeva (per un “passaggio segreto”) dallo strapiombo della Catenaia, i fumetti di Oklahoma come si svolgessero nel bosco della Cavalla o nelle gole della Lavarena, e Hukleberry Finn come navigasse lungo il Piota.

E anche il rapporto col fratello. “Con me era mio fratello, ragazzino più grande di me, ma mago, profeta di fini del mondo ed evocatore di emozioni sconvolgenti.” Altra situazione capovolta. Io, come primogenito, non sono stato guidato da nessuno, sono stato quello sempre in avanscoperta, anche per le letture e le immagini. Ho “guidato” io alle immagini mio fratello, che tra l’altro non era certo uno docile e devoto come Mario. Ho dovuto anzi difendere gelosamente i miei libri e miei fumetti, combattere per strappargli i suoi, soffrire quando ero costretto (da mia madre) a lasciarglieli in mano, non per insana gelosia ma perché in fondo lui era già uno di quelli che i libri e i fumetti, sia pure pochi, se li trovava in casa, e non li aveva nel concetto di tesoro in cui li tenevo io. Quindi il mio era un sentimento ben diverso da quello di gratitudine che provava Mario per essere ammesso a quei misteri, a quelle cose da più grandi (che gli arrivavano però già un po’ mediate). Io me le conquistavo palmo a palmo, e le difendevo coi denti.

Ad accomunarci è invece l’accesso inizialmente molto razionato alle immagini, e quindi la sorpresa e la felicità estatica suscitate dalla loro inattesa comparsa. “Il numero uno di Topolino formato tascabile fu in casa nostra come l’ingresso fruttuoso di una ricchezza. Ne venimmo in possesso non per acquisto diretto (troppo care le sessanta lire per quell’aprile 1949) ma perché ci fu lasciato da una coppia di amici di famiglia ricchi, come ex trastullo presto consumato dal loro figlio di pochi mesi.” Eventi come questo sono fondativi di una passione che durerà tutta la vita. A proposito della copertina di quel Topolino arrivato dal cielo Mario scrive: “Dopo la figurina Fidass, questa può considerarsi la seconda immagine fondante del concetto di gioia instillatosi nell’animo dell’autore di queste righe”. È difficile descrivere con maggiore semplicità ed efficacia l’effetto di certe immagini: quello esercitato su di me, ad esempio, della copertina di “La rivincita di Yanez”, arrivato ormai inaspettato, col vecchio corriere che faceva la spola una volta la settimana con Genova, dopo che l’avevo atteso la sera di Natale per quattro ore, seduto su un gradino ghiacciato davanti al suo deposito. Il fatto che non mi fossi beccato una polmonite venne considerato un miracolo, ma ad operarlo non fu il bambinello: fu quella copertina, col portoghese cavalcioni ad un elefante, a scongelarmi istantaneamente e a far correre il mio sangue così veloce da non lasciarmi chiudere occhio per tutta la notte.

Antonio Faeti racconta di una sensazione del genere, quando, immediatamente dopo la guerra, ragazzino decenne, si vide recapitare in casa da un ex “camerata” del padre scatoloni pieni di libri e di fumetti: era un gesto di solidarietà per una famiglia che si dibatteva in gravi difficoltà economiche, apparentemente bizzarro, visto che mancavano soprattutto farina e olio e capi di vestiario: ma per Faeti fu la cosa che dava senso ad una stentata esistenza, che zittiva la fame e faceva passare in secondo piano ogni altra necessità.

«Nella mia tristissima e povera infanzia ci fu un lungo periodo in cui noi quattro fratelli ci trovammo privi di ogni reddito. Mia madre era morta nel ’44, mio padre, squadrista non pentito e oltremodo capace di dichiararsi tale, fu “epurato”, cioè cacciato dal suo posto di vigile urbano. Così non c’era un soldo, e a volte appariva anche la fame vera. Intervenivano i vecchi camerati […] Ci fu uno che portava solo libri, in grandi scatoloni […] Così che il bambino che mancava di pane ebbe moltissimi libri, tanti di più di quanti ne avessero i suoi amici coetanei, forniti anche di companatico. E leggeva, pertanto, con un’ottica famelica e distorta, guardava le figure inventando solitarie classificazioni: molto prima di conoscere e studiare Lo stupore infantile di Zolla, ne era permeato. Guardava le figure delineando sempre nuovi Altrove.» Una situazione certamente diversa da quella mia e di Mario, paragonabile per certi versi piuttosto a quella di chi, come il protagonista de “La misteriosa fiamma

”, scopre in casa bauli pieni di libri: ma il risultato, a quanto pare, è stato lo stesso. Fame di sempre nuovi sogni. Rispetto a tutti coloro che ho chiamato a testimoniare sino ad ora, comunque, per tutta l’infanzia, e anche un po’ oltre, il mio rapporto con le immagini è stato quantitativamente molto più scarno. Sorprese come quella toccata a Faeti le ho sognate a lungo, ma ho potuto provarle solo da adulto, e la gioia a quel punto era già di un altro tipo. Libri, fumetti, figurine entravano in casa col contagocce, non circolavano riviste, la cosa più illustrata che conoscevo fino a sette o otto anni erano i cataloghi dei Fratelli Ingegnoli, vivaisti in quel di Milano, che per qualche oscuro motivo a mio padre arrivavano gratis. Riuscivo comunque a fantasticare anche su quelli, sui colori e sui nomi esotici dei fiori e delle piante, e sull’incredibile loro varietà. Ho avuto il tempo di masticarle bene quelle immagini, di digerire e metabolizzare con calma i libri, di consentire alle une e agli altri, ai sogni che evocavano, di entrarmi in vena. Girano ancora nel mio sangue.

Oggi la mia casa è quella di un bulimico: tra scaffali e quadri e carte geografiche e foto non rimane un centimetro libero per piantarci un chiodo. I muri grondano letteralmente di immagini o di promesse di immagini. Eppure, l’appetito è rimasto immutato. A quanto pare funziona come per chi la fame l’ha patita da piccolo, che non riesce mai più a togliersela definitivamente di dosso. In me quello stillicidio rarefatto infantile ha lasciato addosso una bramosia di immagini (e dei libri che le ospitano, e di quelli che le immagini si tirano appresso) che non è mai stata saziata.

Mi accorgo che è arrivato il momento di chiudere, prima di affogare nel sentimentale. Conviene davvero però che lasci il commiato ad altri. Ancora Faeti. Riassume davvero tutto.

Fin dal primo dopoguerra, e ancora di più all’inizio degli anni cinquanta, il figurinaio (è il termine che Faeti usa per indicare l’illustratore classico) non esiste più: si assiste allora ad una totale ricomposizione, che accosta, secondo i termini di un progetto complessivo, gli illustratori per l’infanzia ai messaggi dei media che guidano e determinano l’intrattenimento infantile. È l’epoca del cartoonist, “colto”, integrato, attento a cogliere le sfumature di un gusto che segue gli schemi della televisione e della immagine pubblicitaria.

Da quest’ultimo ambito sembrano, soprattutto, ricavati i termini entro i quali l’opera del cartoonist si realizza: essa è sempre falsamente ottimista, pedagogicamente edulcorata, cerca di sbarazzarsi di ogni problema, sublima le ansie, spegne i timori. Il figurinaio, che riproponeva un repertorio antico e denso di contraddizioni, sembrava guardare l’infanzia sempre con gli occhi di Wilhelm Busch o con quelli di H. Hoffmann: non esitava a spaventare i bambini, non rimuoveva i corposi fantasmi di una antipedagogia popolare, bizzarra e saturnina.

Autentico “pifferaio di Hamelin” trascinava inspiegabilmente i bambini, attratti da immagini remote, che essi non riuscivano a decifrare interamente.

Sono uno di quei bambini. E inseguo ancora quelle immagini.

I testi cui si fa riferimento in queste pagine sono:

Walter Benjamin, Orbis Pictus. Scritti sulla letteratura infantile, Giometti & Antonello, 2020

Umberto Eco, La misteriosa fiamma della regina Loana, Bompiani, 2004

Antonio Faeti, Guardare le figure, Einaudi, 1972

Antonio Faeti, La storia dei miei fumetti, Donzelli, 2013

Karl Hobrecker, Alte vergessene Kinderbücher, Mauritius Verlag, Berlin, 1924

Mario Mantelli, Viaggio nelle terre di Santa Maria e San Rocco, Boccassi, 2003

Mario Mantelli, Di che cosa ci siamo nutriti, Boccassi, 2011

Raccontare storie a colori

di Paolo Repetto, 21 maggio 2020

La storia non è soltanto ciò che è stato,
ma anche ciò che se ne è fatto
Marc Bloch, Apologia della storia

Durante una delle interminabili passeggiate alessandrine con Mario Mantelli, di ritorno dall’appuntamento rituale delle sedici al Libraccio (accadeva quasi sempre che mi accompagnasse sin sotto casa, e fossi poi io a riaccompagnare lui alla sua, perché non si poteva lasciare il ragionamento a metà) sentii parlare per la prima volta di Michel Pastoureau, del quale fino a quel momento ignoravo persino il nome (non aggiungo “colpevolmente” perché, insomma, non si può pretendere di conoscere tutto). Il tema quella sera era il significato simbolico dei colori, e in effetti su quell’argomento il suo “Medioevo simbolico” è oggi una Bibbia. Ma io, ripeto, non lo sapevo, e a non saperlo mi sentivo in quel momento davvero un po’ colpevole, perché sulle simbologie medioevali più di quarant’anni prima avevo fatto approfondite ricerche (dopo la scoperta del Medioevo fantastico di Jurgis Baltrušaitis mi si era aperto tutto un mondo, nonché un modo diverso di pensare la storia). Mi sono assolto solo quando ho verificato che gli studi di Pastoureau sono apparsi attorno all’inizio del nuovo secolo, quando ormai i miei interessi viaggiavano in altre direzioni.
L’importanza che Mario attribuiva a questi studi e l’ammirazione che tributava a Pastoureau mi hanno però spinto a tornarci su: in sostanza, sono andato a leggermi prima “Nero. Storia di un colore”, e poi “Medioevo simbolico”. Con enorme diletto, devo dire, e con altrettanto profitto. Ora, però, non ne farò qui la recensione: conviene che leggiate gli originali, se già non lo avete fatto. Ne prendo spunto, invece, per alcune riflessioni sull’insegnamento della storia, su quello “che se ne è fatto”, come scriveva Marc Bolch, e su quello che attualmente se ne fa. E parto necessariamente dalla mia esperienza didattica e più in generale dalle mie velleità di divulgatore.
Ho insegnato Storia (uso sempre la maiuscola quando mi riferisco alla disciplina di studio) per trentadue anni, ho scritto di Storia entro quello che potremmo definire il circuito “ufficiale” per un breve periodo, ho raccontato Storia (o storie) per il resto della mia vita. Lo sto facendo anche adesso. Questa esperienza mi ha lasciato la convinzione che la storia dalle nostre parti sia conosciuta poco o male perché coloro che dovrebbero raccontarla lo fanno in genere nella maniera sbagliata (non che altrove sia conosciuta molto meglio, ma questo avviene per altri motivi).
Questa affermazione potrebbe sembrare quanto meno opinabile: esiste oggi un’offerta ricchissima, addirittura esorbitante, di divulgazione storica, e quest’ultima viene praticata con tutti gli strumenti e su tutti i supporti possibili, dalla conferenza al racconto per immagini, documentario, cinematografico o informatizzato. Ma non è una questione di quantità: “quella” storia trattata come una “merce” culturale qualsiasi, venduta a pezzi come il muro di Berlino, truccata, imbellettata, sia pure, nel migliore dei casi, coi “documenti d’archivio”, insomma condita e precotta e confezionata per il pronto consumo come i quattro salti in padella, non è la stessa cosa di cui parlo io. Io parlo di “senso” storico, inteso naturalmente come sensibilità educata nel soggetto conoscente, e non di un significato intrinseco all’oggetto conosciuto.
Ho scritto sensibilità “educata” perché il primo approccio serio con la storia si ha a scuola: è lì che nasce, o muore, l’imprinting, e la nostra scuola in tal senso non è affatto attrezzata a preservarlo. Ne ho già trattato a più riprese altrove. Non che manchino gli strumenti didattici, anzi, ce ne sono a mio parere sin troppi, e si fa troppo affidamento sul loro ruolo. Ma paradossalmente questi strumenti, anziché contribuire a creare una atmosfera “speciale”, a coltivare un apprendimento che entri sottopelle e circoli in vena, adattano e livellano questo apprendimento ai modi della quotidianità, ad una percezione confusa e indistinta della realtà. Col risultato che la narrazione storica finisce per confondersi e assimilarsi alle altre infinite narrazioni che passano attraverso schermi, teleschermi e monitor.
Faccio un esempio banalissimo. Le scelte iconografiche che corredano oggi i libri di testo delle elementari, giustificate con l’intento di educare gli allievi ad un rapporto e a una dimestichezza precoci con le “fonti documentali”, ottengono l’effetto opposto. Il valore evocativo di un dagherrotipo d’epoca che ritrae Nino Bixio è infinitamente minore rispetto a quello che aveva un tempo la figurina disegnata di un garibaldino, o di Bixio stesso, con la sua brava camicia rossa: illustrazione che avrebbe potuto essere trasposta di sana pianta in uno dei fumetti di capitan Miki o di Tex, o presa da esso, e che rimandava alla dimensione dell’avventura (alimentando peraltro la voglia di andare più tardi a scoprire che faccia aveva davvero quel garibaldino, e di cercare quindi il dagherrotipo). È evidente che oggi le stesse immagini non evocherebbero più nulla, perché nessun ragazzino legge più Miki o Tex, ma ciò che è andato a sostituirle non ha assolutamente un altrettale potere di suggestione, e non potrebbe averlo anche se usato nel migliore dei modi: semplicemente perché su quel versante la mente dei ragazzini è già colonizzata da ben altri effetti speciali.
Il discorso deve dunque spostarsi sul fattore umano. Occorre riscoprire finalmente la centralità della famigerata “lezione frontale”. E qui il problema si presenta nel suo vero aspetto. Ciò che davvero manca sono gli insegnanti, i narratori capaci di trasmettere quel senso di “pervasione del tutto” che solo giustifica e rende possibile la vera conoscenza storica. Mancano perché coloro che si confrontano oggi con i ragazzi a loro volta la storia non la conoscono, o la conoscono male, o ne hanno una conoscenza parziale in termini quantitativi e partigiana in quelli qualitativi. La loro impreparazione è frutto di quarant’anni di improvvisate e raffazzonate riforme dei piani di studio, che hanno sconvolto la tradizionale scansione delle tappe dell’apprendimento per sostituirla con modelli completamente sganciati dalla realtà. La sgrossatura che un tempo era affidata alla scuola elementare, e che con tutti i suoi limiti offriva quantomeno l’idea di un percorso “storico”, di una cavalcata attraverso i tempi, ha lasciato il posto ad una pretesa approfondita “immersione” (l’intero terzo anno dell’odierna primaria dedicato alla preistoria, i due successivi alle civiltà classiche) che rompe i ritmi e ingenera nella mente dei ragazzini – abituata per altri versi ai tempi rapidi di comunicazione degli spot o a quelli frenetici dei videogiochi – un senso di saturazione e un sostanziale disinteresse. Contemporaneamente, il preteso ribaltamento del punto di vista eurocentrico, la pregiudiziale messa sotto accusa della civiltà occidentale e l’ambizioso proposito di trattare sullo stesso piano tutte le civiltà (delle quali chi insegna sa naturalmente ancor meno che della nostra) ha creato un approccio disordinato, velleitario e inversamente “negazionista”.
Chi si è formato in una babele didattica di questo genere non può non essere confuso e inadeguato. Intendiamoci: non sto dicendo che “un tempo” tutti gli insegnanti di storia fossero bravi a raccontarla, o obiettivi nella trattazione, e nemmeno che lo fosse la maggioranza: io stesso ho incontrato nel mio percorso scolastico dapprima una esposizione arida, noiosa e nozionistica, e successivamente una “imposizione” fortemente ideologizzata e altrettanto nozionistica, e ho anche pagato, in termini di valutazioni, i miei timidi tentativi di rendere il tutto un po’ meno insipido aggiungendo qualche grano di sale. Ma quegli insegnanti avevano comunque di fronte degli allievi che il nozionismo, per forza d’abitudine, erano in grado di digerirlo, e di cavarne quindi alimento anziché tossine. Anche quello meno bravo, se appena appena faceva un po’ il suo dovere, qualche plinto di fondazione riusciva a gettarlo. Poi ciascuno, in base alle sue capacità e alle sue disposizioni, ci costruiva sopra l’edificio che voleva. Oggi l’utenza è diversa, e non è certo con i giochini spettacolari offerti da nuovi media, coi quali gli allievi hanno una consuetudine ben superiore a quella dei loro docenti, che si conquista la loro attenzione. Con quelli, quando va bene, li si tiene buoni per qualche mezz’ora. Quindi non si scappa: o si reimpara a narrare, pur con tutti gli ausili e i supporti che si vuole, o si condannano le nuove generazioni all’ignoranza storica.
Naturalmente non mi sto riferendo alle capacità affabulatorie: quelle o si possiedono o no, anche se un buon allenamento può dirozzare o ammorbidire la tecnica di esposizione. Parlo invece di una disposizione mentale che in parte può essere un regalo di natura, ma per il resto va costruita. Ciò che maggiormente difetta, infatti, è la capacità di fare storia con tutto, e quindi di far comprendere ai ragazzi che tutto fa storia. Per rimanere nella metafora gastronomica di cui sopra, manca la capacità che aveva mia madre di costruire piatti appetitosi partendo sempre dagli stessi quattro ingredienti poveri di cui disponeva. Il che significa non essere onniscienti, ma avere la capacità di cogliere in qualsiasi ambito un potenziale di indagine, di chiarimento o di spiegazione storica. Che equivale a dire: di divertirsi e di abituare a un divertimento intelligente chi ti segue.
Conviene però a questo punto passare immediatamente agli esempi, per evitare di girare a vuoto tutto attorno e di strangolarmi da solo. E anche per spiegare il riferimento iniziale. Pastoureau entra in questo discorso perché i colori hanno fatto la loro parte di storia (e lui l’ha raccontata), ne sono stati testimoni e ne sono a loro modo anche motori. Vediamo come. Senza riassumere Pastoureau, ma sviluppando le indicazioni di metodo che ha fornito.
Quando si racconta agli allievi la vicenda della Riforma protestante è difficile appassionarli al dibattito teologico, al problema del libero arbitrio, della grazia o non grazia, della validità o meno dei sacramenti, ecc… Il che non significa che non si debba parlarne, al contrario: ma occorre farlo portandoli a toccare con mano le conseguenze tangibili, immediatamente visibili, delle diverse scelte. Questo lo si può ottenere, ad esempio, comparando la diversa presenza dei colori in un’opera fiamminga della seconda metà del cinquecento e in una del seicento: Brueghel e Rembrandt, tanto per andare sul sicuro. Credo non ci sia nulla che faccia immediatamente percepire il salto di mentalità meglio del passaggio dagli abiti variopinti e chiassosi de la Danza nuziale a quelli neri, uniformi, rigidi della Lezione di Anatomia. Il nero è negazione della varietà dello spettro cromatico, della diversità, della possibile coesistenza di differenti concezioni del mondo: quindi spiega la caccia alle streghe, le guerre di religione, le intolleranze reciproche, ecc … L’uniformità stessa del colore degli abiti rimanda immediatamente all’idea di “uniforme”, nelle accezioni sia sostantivale che aggettivata, e quindi all’operazione di intruppamento dei corpi e delle menti perseguita tanto dai riformatori come dai controriformisti, gli uni e gli altri avendo alle spalle i nascenti stati moderni. E l’associazione nella cultura occidentale del nero col demoniaco, con il pericolo, con la violenza, con il lutto, può magari anche aiutare a far comprendere fenomeni come quello del razzismo.
Allo stesso modo, un piccolo excursus sulle simbologie negative del rosso o del giallo può diventare intrigante, e al tempo stesso, se ben pilotato, sgombrare il terreno da pregiudizi popolari radicati. Quando è associato a tratti morfologici, come il colore dei capelli o della pelle, il rosso connota tradizionalmente una disposizione negativa. Sono rossi i capelli e la barba di Giuda, ad esempio, così come ricorrono nella pittura medioevale (e sopravvivono in quella successiva), ma anche quelli di numerosissimi personaggi biblici o mitologici, o dei reprobi dei poemi cavallereschi, fino a quelli della letteratura romantica, e oltre (il Rosso Malpelo di Verga). Ora, questa valenza simbolica negativa ha un’origine facilmente identificabile: presso quasi tutte le etnie del mondo, con la parziale eccezione dei popoli scandinavi, gli individui di pelo rossiccio rappresentano delle esigue minoranze, e sono quindi percepiti immediatamente come dei “diversi”, alla stessa stregua ad esempio dei mancini. Non a caso, nella rappresentazione iconografica (ancora Giuda) e letteraria i due attributi marciano spesso di conserva. Il rosso diventa quindi per antonomasia il colore che connota, in progressione negativa, una differenza, una anomalia, un pericolo, il male. Diventa il colore di Satana. E l’identificazione simbolica finisce alla lunga per prescindere dal suo movente originario, al punto da imporsi anche presso quelle culture (le nordiche di cui sopra) nelle quali la motivazione della differenza morfologica non ha senso.
Altrettanto intriganti e rivelatori sono poi i risvolti attuali di questo simbolismo. Perché ad un certo punto quello dei reprobi da simbolo infamante diventa invece vessillo di riscatto ed è adottato come bandiera, e questo malgrado il rosso rimanga convenzionalmente associato al pericolo e alla devianza (la bandiera rossa sulle spiagge, il segnale rosso dei semafori, la sottolineatura degli errori su questo computer, le zone rosse dei contagi, ecc). Anzi, è proprio il messaggio di pericolosità connesso al simbolo ad essere rivendicato (le camicie rosse dei garibaldini, l’Armata rossa – cui la reazione oppone naturalmente quelle bianche), e usato come un monito minaccioso da mandare ai nemici. Nello stesso modo in cui viene fatto proprio, e ribaltato nelle sue valenze etiche e politiche, il simbolismo connesso a tutto ciò che concerne la “sinistra”.
Anche qui, una passeggiata nell’iconografia, in particolare in quella sacra, si rivela particolarmente istruttiva. Si considerino ad esempio le trasformazioni avvenute nell’abbigliamento della madonna, nel quale a partire dalla Controriforma il rosso tende a cedere sempre più il posto al bianco, sino alla definitiva affermazione di quest’ultimo dopo il dogma dell’immacolata concezione. La madonna pellegrina che io stesso ho visto nei primi anni cinquanta transitare per Lerma, nel corso di un pellegrinaggio preelettorale che coprì palmo a palmo tutto il territorio nazionale, per esorcizzare il pericolo del fronte popolare, era rigorosamente ammantata di bianco e azzurro: il rosso campeggiava solo nei manifesti che proponevano l’immagine terrificante dell’orso bolscevico.
Dal canto suo, anche il giallo ha conosciuto una associazione simbolica negativa, solo appena più sfumata. Nell’iconografia medioevale, ma anche in quella successiva, è il colore del tradimento e della menzogna, come tale identificato non tanto nei tratti morfologici (ché, anzi, dopo le conquiste normanne il colore biondo dei capelli diventa il tratto distintivo della nuova nobiltà di spada) quanto nell’abbigliamento (dietro il quale, appunto, ci si nasconde). La veste di Giuda è spesso gialla, così come gialla è la stella identificativa degli ebrei, e tali sono molti capi di abbigliamento degli ebrei stessi, o dei buffoni di corte e dei saltimbanchi. In questo caso ad essere sottolineata è una diversità non “naturale”, ma sociale e culturale.
Come si vede, le potenzialità di sviluppo di un discorso di questo tipo sono infinite. Il filo principale può essere svolto, per esempio, partendo dai colori primari, pieni e nitidi, usati da Giotto e nella pittura francescana, passando per quelli opulenti del Beato Angelico e di Benozzo, risalendo a quelli più sfumati della pittura rinascimentale, che coincidono con la liberazione del pensiero da contorni troppo netti e marcati; e si dipana poi, dopo il barocco, con un ritorno al cromatismo vivace, alle tinte pastello nel Settecento, e successivamente con l’utilizzo di tonalità più cupe, e il ritorno al nero degli abiti, nel Romanticismo. Insomma, la storia della nostra civiltà può essere riassunta anche attraverso il filtro cromatico.
Per inciso, in un discorso di questo genere rientrano, naturalmente su un piano diverso, proprio le escursioni storico-antropologiche di Mario Mantelli nel mondo delle impressioni infantili: sia pure circoscritte apparentemente a un microcosmo provinciale, e ad un periodo molto particolare, ma allargate oltre che alle immagini e ai colori anche ai sapori e agli odori, raccontano l’educazione “sensoriale” prima che sentimentale di una intera generazione (tema sul quale Mario è tornato anche recentemente): e questo racconto vale più di qualsiasi dotta indagine o dissertazione per spiegare le scelte ideologiche o esistenziali dei nostri coetanei.

Ma la storia non è solo colorata: può essere anche “colorita”. E qui entra in gioco l’uso dell’aneddotica. Tutti i miei studenti ricordano ancora oggi che Cavour voleva prendere a calci nel sedere Vittorio Emanuele II dopo l’armistizio di Villafranca (storico: testimoniato da Costantino Nigra). Magari ricordano solo quello, e non le date di san Martino e Solferino, ma almeno sanno chi erano Cavour e Vittorio Emanuele, e che rapporti intercorrevano tra i due, e che è stato stipulato un armistizio a Villafranca, e che quindi in precedenza c’era stata una guerra, e perché questa guerra era stata combattuta. Sarei curioso di fare oggi un test a campione sugli studenti usciti dalla scuola secondaria da un paio di anni, per verificare che conoscenza hanno di quei personaggi e di quelle vicende. Lo stesso valore di chiodini nel muro della memoria possono assumere un sacco di altre informazioni, al limite del pettegolezzo, che riescono ad accendere l’attenzione per la loro curiosità e a mantenerla poi desta anche sui fatti essenziali cui sono collegate. Non si tratta di “banalizzare” la storia, cosa che accadrebbe se si raccontassero solo i pettegolezzi, ma di vivacizzarla un po’, di farla uscire dal recinto sacro della disciplina di studio e farla entrare in quelli dell’interesse e del divertimento.
Un discorso analogo vale per la proposta di approcci un po’ sfalsati e marginali rispetto a quello canonico e rituale. La Storia può essere raccontata ad esempio passando attraverso l’esame delle risorse, a partire da quelle alimentari per arrivare alla disponibilità di materie prime indispensabili al processo industriale. Sapere che nell’area mediterranea e mediorientale erano presenti in natura trentadue delle cinquantasei specie erbacee domesticabili ad uso alimentare, contro le undici delle Americhe, le sei dell’Africa subsahariana e dell’Asia orientale e le due dell’Australia, aiuta i ragazzi a capire le ragioni dei diversi tempi di sviluppo di queste zone, e il conseguente fenomeno della dominazione europea, molto più della conoscenza in dettaglio dei rapporti internazionali, o perlomeno consente di spiegare molto meglio questi ultimi. E così, un minimo di storia dell’alimentazione, quel tanto sufficiente a far comprendere che senza l’introduzione in Europa del mais e delle patate forse non ci sarebbe nemmeno stata la rivoluzione industriale, o sarebbe avvenuta in altri luoghi e con altri tempi, rende molto più semplice e chiara la situazione. Allo stesso modo, la sostituzione del petrolio al carbone come fonte energetica primaria spiega la decadenza dell’Europa, e la presenza solo in Africa di elementi come il litio o il coltan ci fa immediatamente intuire perché quel continente non abbia pace.
In definitiva: io credo che la strategia per riaccendere nei giovani, o almeno di una parte di essi, l’interesse per la storia passi in primo luogo per la segnalazione di diversi possibili percorsi: una segnalazione che, se gestita con criterio, scegliendo i momenti e profittando degli agganci opportuni, non confonde affatto le idee dei ragazzi, ma al contrario, apre le loro menti alla curiosità e all’autonomia di pensiero. Il resto, l’apertura agli “eventi”, la ricognizione dei “luoghi storici”, le conferenze dei professionisti della divulgazione, i supporti multimediali, tutto lo strumentario al quale oggi sembra affidarsi e ridursi la didattica, ha valore solo in quanto usato all’interno di questo piano, né più né meno di come lo avevano le carte geografiche appese ai muri delle nostre aule. Ma fin qui credo di non dire in fondo nulla che almeno teoricamente non sia già contemplato nelle linee di indirizzo periodicamente diffuse anche nella nostra scuola. Di nuovo, anzi, a dire il vero, di antico, c’è che questo progetto di riscatto presuppone da un lato, negli allievi, un sostrato essenziale ma solido di conoscenza degli eventi (leggi: nozioni, date, nomi, luoghi) e di competenze nel loro inquadramento cronologico; dall’altro, nei docenti, la capacità di non ridurre il tutto ad imbonimenti autoreferenziali o a pappine precotte. I percorsi possibili vanno suggeriti, assistiti, esemplificati quanto basta, ma lasciati poi aperti e incompiuti. Con le stesse cautele possono anche essere azzardati degli schemi interpretativi che consentano agli studenti non soltanto di guardare alla storia con occhiali diversamente colorati, ma anche di scegliersi particolari postazioni di lettura. Cito, per fare qualche esempio, quelli relativi alla contrapposizione per il passato remoto tra popoli nomadi e popoli sedentari, o tra civiltà particolaristiche “democratiche” e civiltà idrauliche dispotiche; per quello più prossimo, tra popoli che guardano alla terra e popoli che guardano al mare.
Ecco, suggestioni di questo tipo sono, come dicevo, materia estremamente delicata, e vanno trasmesse assieme alla consapevolezza che si tratta di possibili modalità di lettura della storia, e non di chiavi magiche che aprono al suo senso: e che ogni angolo prospettico va confrontato con gli infiniti altri, non per contraddirli o negarli, ma anzi, per trarne conforto e ulteriori stimoli. È una cosa meno facile di quanto possa sembrare: le idee forti, i modelli interpretativi ad alto tasso di assertività esercitano un’indubbia attrattiva sulle menti adolescenziali (e non solo su quelle), che hanno bisogno di spiegazioni semplici, di un “senso” all’interno del quale e in funzione del quale collocare gli eventi storici. Ma d’altro canto queste suggestioni “integraliste” sono una tappa obbligata nel cammino di chi va alla scoperta della storia. Importante è che non rimangano l’ultima: cosa che invece accade quando le alternative offerte non sono altrettanto seducenti.
Per chiudere torno dunque al colore e al mio sussidiario di terza elementare. In esso anche gli opliti di Leonida o i legionari romani erano rappresentati con figurine coloratissime, quanto attendibili nella ricostruzione dell’abbigliamento non so, ma senz’altro capaci di colpire la fantasia, tant’è che ancora le ricordo. In quello di mio nipote le figurine sono state sostituite da fotografie di statue o di monumenti classici, molto belle, per carità, ma tendenti a indurlo a pensare che gli uomini dell’antichità fossero di marmo e che Atene e Roma fossero imbalsamate in un sudario bianco. E come tali, ben poco vivaci e interessanti. Allo stesso modo, per riallacciarmi a quanto dicevo sopra a proposito dell’aneddotica, sono scomparsi dalla narrazione Muzio Scevola e Attilio Regolo, col risultato che della divisione in tribù e in curie, meticolosamente descritta, e dei comizi curiati o centuriati non ricorda già ora nulla, e nemmeno gli è rimasta traccia di quegli episodi simbolici che trasmettevano comunque l’idea di un certo modo di concepire il rapporto tra individuo e stato.
Quindi? Quindi l’argomento è troppo complesso per essere affrontato e liquidato in quattro paginette. Ma anch’io, che pure adolescente non sono più da un pezzo, ho conservato alcune idee semplici e forti, e approfitto di ogni occasione per ribadirle. Non devo argomentare e giustificare l’utilità dello studio della Storia, lo hanno già fatto moltissimi altri, a partire almeno da tremila anni fa, da quando una rudimentale coscienza storica è comparsa a connotare in maniera ancor più netta la “diversità” del genere umano. E neppure intendo entrare nel merito di “cosa” della storia si è fatto, altro tema dai risvolti infiniti. No, semplicemente volevo esprimere la mia preoccupazione per l’uso che se ne farà una volta che nella stragrande maggioranza degli umani quella coscienza storica si sarà atrofizzata: perché questo è il processo in atto, non so dire quanto sapientemente guidato o quanto irresponsabilmente accettato. La riduzione della Storia a spettacolo, a merce culturale, ne rappresenta oggi l’aspetto più fastidioso, in quanto più immediatamente visibile: ma dietro ci sono la sostanziale cancellazione della conoscenza storica, la sua perdita di profondità, il suo appiattimento sul presente, il leopardiano (ma già omerico) “trascolorar del sembiante”, e quindi la sua continua possibile riscrittura su richiesta (on demand, si usa oggi) dei nuovi committenti: dietro c’è un futuro senza conoscenza, e quindi senza coscienza storica.
Non posso assistere inerte a questa deriva, anche se di quel futuro ne vedrò poco. Credo sia doveroso ostinarsi a chiarire, a sé e agli altri, che le colorazioni con filtri speciali, del tipo di quelle operate sui vecchi film western, rovinandoli e falsandone completamente l’aura, così come gli interventi di restauro radicale, che cancellano quella patina del tempo che della storia è segno distintivo, non sono affatto dei rimedi, e la deriva anziché arginarla l’accelerano. Ridare colore alla storia non significa cambiare l’ordine degli eventi o ricalibrarne la rilevanza. Significa molto più semplicemente ricaricare lo sguardo che ad essa rivolgiamo di quello stesso stupore e di quella curiosità che l’hanno originata.

Arrivederci, maestro

di Paolo Repetto, 24 aprile 2020

Nei giorni scorsi è mancato, a settantaquattro anni, Mario Mantelli. La sua morte non ha nulla a che vedere con il coronavirus, ma le circostanze e le restrizioni attuali ci impediranno di rendergli l’ultimo saluto e di accompagnarlo, per l’ennesima volta, nella consueta passeggiata. Rimandiamo dunque a tempi meno calamitosi le manifestazioni più tangibili e sacrosante del nostro affetto. Per intanto, però, vogliamo cominciare da subito a ricordarlo (e anzi, avevamo già cominciato) attraverso le sue stesse parole, quelle che potete trovare nei saggi e nelle raccolte poetiche comparse negli anni su questo sito.

Il termine “mancato” si rivela nel caso di Mario quanto mai calzante, perché essendo la sua una scomparsa annunciata avevamo già cominciato a fare i conti con la sua assenza. E difficilmente riusciremo a farli tornare, perché Mario ci mancherà davvero moltissimo. Se ha un senso l’espressione “maître à penser”, lui per noi era tale, ma un maestro di quelli autentici, che ti illuminano con una domanda, con una osservazione, con il loro stesso modo di essere e di rapportarsi, in una parola col loro stile, e ti aiutano a scoprire sempre nuovi modi di guardare al mondo e di sorridere per come lo viviamo.

Ci auguriamo che anche la sua città, quell’Alessandria che ha tanto amato da dedicarle l’opera di tutta una vita, si accorga, almeno dopo la sua scomparsa, di aver ospitato per tre quarti di secolo un uomo che per garbatezza, lucidità di pensiero e raffinatezza del gusto, unite ad un pudore nel proporsi sin eccessivo, aveva ben pochi eguali, e non solo a livello provinciale.

Per non fare di queste righe un pesante epitaffio, pensiamo vadano chiuse con la voce stessa di Mario. Da una delle sue ultime missive, in risposta alla richiesta che gli avevamo rivolto per un suo profilo sul sito dei Viandanti.

Caro Paolo,

Ti invio questo Ritratto dell’autore da vecchio non senza un’ombra di compiacimento, grazie al tuo sostegno. Ad maiora, Mario

“Mario Mantelli, nato nel 1945, studi di architettura, si è occupato di identità urbana e di beni culturali della propria città, Alessandria, specialmente nel settore del moderno (il Palazzo delle Poste e i mosaici di Severini, la città di Borsalino e i Gardella).

Più in generale ha interessi per i luoghi e la memoria (Viaggio nelle terre di Santa Maria e San Rocco, Di che cosa ci siamo nutriti), per la “parola breve” (vedi gli haiku e le poesie delle presenti edizioni, oltre a Disciplinare dello haiku) e per l’immagine.

Si esercita nelle occasioni offerte dal ricordo e dalla quotidianità per approfondire la pratica e la teoria di un’estetica esperienziale (Discorso sul campo desiderante). Al proposito sta componendo Cinque gioie per cinque sensi. Esercizio di estetica tascabile. Come capita a quasi tutti i suoi scritti vi è contenuto un implicito invito al lettore a fornire la sua “versione dei fatti”: dite anche voi quali sono le vostre cinque esperienze fondamentali di vista, udito, tatto, olfatto e gusto, totale: venticinque. Vi farà bene: è pura “estetica di riconoscenza”, un genere letterario con cui è nata la poesia italiana. Francesco d’Assisi aveva dato il là con qualcosa del genere”.

E infine, aggiungiamo quello che può sembrare un presago augurio, rivolto a noi (da Stenografia emotiva. Centocinquanta haiku):

Pasà l’inver
Ui vén la stagiòn bòn-na
Ténti da cònt
(16/12/12)

 

Una raccolta di silenzi

di Paolo Repetto, 2016

Prima di leggere il Disciplinare di Mario Mantelli (Bravomerlo, 2012) dello haiku sapevo poco o nulla (e nemmeno ero curioso di saperne di più). Più che un genere poetico mi sembrava un gioco cervellotico, a livello di settimana enigmistica, e confermava semmai la mia immagine dei giapponesi come gente strana, fanatica dell’autocontrollo e delle costrizioni.

Il Disciplinare mi ha fatto scoprire un modo diverso di guardare il mondo e un’intenzione diversa nel raccontarlo. Questo modo e questa intenzione sono spiegati ora benissimo nella Stenografia Emotiva premessa da Mario a questa raccolta. Potrei quindi godermi in santa pace il piacere di leggere le sue composizioni in un libretto dei Viandanti, e lasciarlo gustare anche agli altri: ma come Wilde non so resistere alle tentazioni, e questa è davvero forte. Anch’io infatti, come i giapponesi, ho bisogno della costrizione della scrittura per mettere a fuoco quello che sento e dare ordine a quello che penso. Ora, gli haiku mi hanno fornito parecchi spunti e soprattutto mi hanno chiarito cose che già mi giravano in testa, ma molto confusamente: e allora ne approfitto per metterle subito in riga, sperando solo di non guastare le gioie che il libretto ha regalato.

Dunque, cominciamo ad allacciare un po’ di fili. Parto dai modi di guardare alle cose. Possono sembrare infiniti, ma nella sostanza poi si riducono a due: da dentro o da fuori. E questo va da sé, con o senza haiku. In realtà, guardare da fuori sarebbe la nostra condizione (per alcuni, la nostra condanna) “esistenziale” unica e assoluta. Siamo impediti all’intimità col mondo da quella consapevolezza che ci ha resi appunto uomini, facendo di noi degli estranei di passaggio. Ma non ci rassegniamo, per cui scegliamo un angolo prospettico che costituisce già di per sé un metro di giudizio e ricostruiamo la realtà, il più possibile a nostra immagine.

Ora, se il mondo vogliamo coglierlo nel suo assieme, e trovare in questo assieme un significato, suo e nostro, e magari anche il modo, oltre che di comprenderlo, per controllarlo o per dominarlo, possiamo posizionarci ad una certa distanza: ma se desideriamo invece “rientrare nel mondo”, sentircene parte integrante, dobbiamo portarci a una distanza minima, facendoci piccoli abbastanza per sgusciare, sia pure per pochi infinitesimali attimi, attraverso le porte spazio-temporali che a volte si aprono. Nel primo caso prevale l’intenzione storico-scientifica, che sfocia in una narrazione del mondo, mentre nel secondo agisce una disposizione “estetica” (forse sarebbe più appropriato “estatica”), che vuole “fissare” in una pagina, sulla tela, o attraverso i suoni, una intuizione, un frammento intravisto, un’illuminazione. Semplificando al massimo, potremmo dire che il primo atteggiamento introduce nella narrazione il tempo, e quindi produce dei film, mentre il secondo il tempo lo vuole fermare, e produce quindi delle fotografie.

Personalmente, credo di essere un cinematografaro. Il mio modello ideale sono quei cartografi raccontati da Borges che realizzarono una mappa dell’impero in scala uno a uno. Ma mi accorgo che la cosa è contradditoria, perché in questo modo si parte guardando il mondo da un’enorme distanza e si finisce per soffermarsi poi su ogni filo d’erba. Si nasce narratori e si finisce esteti. In una certa misura accade persino ai campioni dell’intenzione scientifica, gente come Galilei o Newton, quando individuano una chiave di lettura (in questo caso quella matematica) del mondo e finiscono per far combaciare la serratura con il mondo stesso.

Mi accorgo però che su questa strada rischio di incartarmi, e provo allora a metterla in maniera diversa, con qualche esempio più immediato. Prendiamo Manzoni: inizia il suo racconto con un campo lunghissimo dall’alto, stringendolo poi progressivamente sino al primo piano su don Abbondio. Oppure inquadra un paesaggio di rovine e poco a poco lo popola, avvicinandosi, di volti e di occhi smarriti. Parte cioè presentando un mondo che di lontano appare immobile e sempre uguale a se stesso, per coglierne e narrarne poi invece il movimento. Ma il movimento, diceva già Aristotele, è la condizione che crea il tempo: il tempo è movimento nello spazio. Scegliere di raccontare nel tempo, attraverso il tempo, magari anche per dire che in fondo le cose si ripetono o si somigliano, come fa Manzoni, significa scegliere di raccontare comunque ciò che sta fuori, che rimane in superfice e cambia incessantemente, così come è percepito dagli uomini. E darne una spiegazione, sia essa razionale o meno, nella quale questi ultimi abbiano una parte, possibilmente da protagonisti. Si cerca di leggere il mondo, piuttosto che di viverlo.

Leopardi inizia invece guardando dal basso verso la luna, fa cioè un percorso esattamente inverso: e pone delle domande. Le pone alla luna perché il movimento di questa, infinitamente ripetuto, in fondo è solo apparente. Quindi essa è una possibile depositaria del senso (o, volendo, del non-senso) ultimo. Leopardi però non è alla ricerca di spiegazioni razionali, o compatibili con le nostra modalità di pensiero (tutte le sue domande, a partire dal che fai?, sono puramente retoriche): dice subito, proprio con quelle domande, che spiegazioni non ce ne sono, o se ci sono rischiano di non piacerci affatto, e per questo motivo rinuncia alla narrazione e continua a cercare epifanie, spiragli (le brecce montaliane nel muretto) che consentano di dare comunque un’occhiata all’interno. Quando scrive:

Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna

non ha bisogno di darsi o di darci un perché. È l’istantanea di un dato di fatto, colto attraverso il grandangolo della sua sensibilità.

Sono evidentemente due modi diversi di guardare il mondo. Ed entrambi legittimi. Il primo, però, lo sguardo esterno, nasconde un intento aggressivo: svelare strappando il velo. Il secondo, lo sguardo da dentro, il velo non lo strappa, spera che qualche refolo lo scosti. Questa disposizione non rappresenta tuttavia una resa incondizionata alla ineffabilità del mondo, della natura. Anzi, è il contrario. Nemmeno quello di Leopardi è infatti un atteggiamento totalmente disarmato, e il poeta ne è perfettamente consapevole, a differenza di altri, Pascoli ad esempio, che ritengono che per raccontare da dentro sia necessario tornare allo sguardo del fanciullino: vale a dire spogliarci di ogni armamentario culturale e lasciarci risucchiare dal mondo (che è diverso da immergersi). Ora, la cosa è già molto improbabile a livello di percezione, dell’esperienza che si fa del mondo, perché hai voglia a denudarti degli abiti e delle corazze cuciti e forgiati dalla cultura, il nostro modello di percezione circola sottopelle: ma soprattutto si scontra poi, al momento di comunicare ciò che si è esperito – ed è questa da sempre l’aspirazione, se non la funzione, dell’arte – con la necessità di universalizzarlo e condividerlo attraverso segni, suoni e colori, che sono tutte forme di imitazione e ricreazione del mondo. Insomma, quale che sia l’attitudine è necessario ricorrere comunque a convenzioni espressive, strumenti, che non ci adattano al mondo, ma adattano il mondo a noi. E nel farlo, di norma, lo allontanano. Leopardi, ripeto, questo lo sa benissimo, e opera proprio sugli strumenti, usando un doppio segno negativo (quello intrinseco al mezzo e quello impresso dalla poetica dell’indefinito) per ottenere un risultato positivo, di avvicinamento (è ciò che Pascoli dimostra di non aver capito, quando gli rimprovera l’accostamento temporale di rose e viole, ma anche quando si trastulla in onomatopee e bamboleggiamenti)

Questo ci riporta finalmente allo haiku.

La distanza dal mondo si misura appunto, tanto in letteratura come nelle altre arti, in parole, in segni, in note. Non dico che sia direttamente proporzionale alla lunghezza di un testo, all’accuratezza di una immagine o alla complessità di uno spartito, ma in un certo senso è così. Quanto più indulgo in una descrizione, riproduco i singoli peli di un coniglio, accumulo e armonizzo suoni diversi, tanto più mi allontano dalla immediatezza della sensazione o dell’emozione per ricreare un “mio” mondo, pensato a mia immagine o a quella del mio tempo: un mondo che a differenza di quello reale è “interpretabile”, e del quale potrò fare ciò che voglio: dargli un’anima, leggerci foreste di simboli, ecc… Visto che il creato mi esclude, mi erigo a creatore: che è una cosa bellissima, senza dubbio, ma anche parecchio inquietante, perché da subito tende a sforare dalla dimensione narrativa a quella operativa, ad adattare il mondo a noi non solo attraverso le parole, ma anche attraverso i fatti. E nei fatti ormai gli spazi sono parecchio confusi.

Ma qui parliamo di poesia. Qui lo spazio occupato dai segni, nella nostra fattispecie dalle parole, è ancora quello che ci separa dalle cose. E non lo si annulla scombinando semplicemente il tradizionale allineamento dei primi: anzi, le grandi narrazioni a ruota libera, l’Ulisse come Sulla strada, l’arte informale, la musica dodecafonica, sono quelle che meno ci avvicinano all’oggetto, perché ruotano costantemente attorno al soggetto. Quindi non è questione di rompere una consolidata disciplina espressiva: non è questa a raffreddare l’emozione: anzi, la disciplina aiuta semmai a trovare un equivalente narrativo, ad avvicinarci.

Nemmeno è questione di ridurre semplicemente i segni all’osso. Ungaretti riesce ad esprimere uno stato d’animo con meno della metà delle sillabe canoniche di uno haiku, Quasimodo con un paio di più. Ma al centro ci stanno loro, non il mondo. Lo stesso accade per le opere di Fontana o per quelle di John Cage, dietro le quali devi supporre un percorso chilometrico, se vuoi che abbiano un senso. Un percorso faticoso, pesante. Stavo per scrivere “tipicamente occidentale”, ma non è del tutto giusto.

Anche quello dello haiku è infatti un percorso culturale che parte dall’esterno. Ma mi sembra che a differenza di quello occidentale, che mira a narrare e quindi a disciplinare il mondo, tenda invece a disciplinare lo sguardo sul mondo, nel significato scolastico in cui veniva usato un tempo il verbo, di non disturbare, di interferire il meno possibile, di prestare attenzione. Rispecchia un modo d’essere, di muoversi, di pensare, al quale i giapponesi sono stati educati per secoli e che hanno intimamente assimilato. Per questo sino a ieri ho continuato a ritenerlo estraneo alle mie frequenze. I pochi casi di trasposizione occidentale che conoscevo, quelli legati al coté orientaleggiante della controcultura degli anni cinquanta/sessanta (Alan Watts, I vagabondi del Dharma), o peggio, quelli prodotti dalla moda new age degli anni novanta, non facevano che confermare la mia impressione. Quando non erano patetici, perché semplicemente inscatolavano il vuoto, davano l’impressione di serrare i contenuti in una gabbia, anziché aderire loro come un abito. Nell’uno e nell’altro caso il problema nasceva comunque da un uso improprio o gratuito dello strumento. Ma questo l’ho capito solo dopo aver letto le istruzioni e le esemplificazioni prodotte da Mario.

Ho capito ad esempio che lo haiku è riconducibile a quella forma più universale di ascetismo che da sempre ha cercato di minimizzare il vivere per enfatizzare il sentire: il silenzio è una delle vie preferenziali scelte da stiliti, monaci, eremiti anche in occidente per forzare le porte della percezione. Solo che per la cultura occidentale questa è sempre stata una scelta a suo modo clamorosa, mentre in quella orientale è una consuetudine discreta.

Per non tirarla troppo in lungo, lo haiku è un esercizio non di forza, ma di estremo equilibrio. Calvino direbbe di leggerezza. Il che può sembrare paradossale, perché le parole prosciugate acquistano un peso specifico enorme. Ma qui la leggerezza è consentita da ciò che le parole vogliono esprimere: che non è conoscenza del mondo, ma stupore e consonanza col mondo. Lo haiku esprime uno stato d’animo che fa tutt’uno con uno stato della natura, in fondo lo stesso che Leopardi descrive nell’incipit de “La sera del dì di festa” (anche se per Leopardi questo è appunto solo un incipit, e nel prosieguo la sua occidentalità ha la meglio). La leggerezza è data dalla sensazione di essersi fatti così piccoli da poter entrare nel quadro, senza disturbarlo. Come del resto accade per tutta la pittura paesaggistica orientale, nella quale le forme di vita umana sono appena percettibili, nascoste nel paesaggio. Oserei dire che lo haiku realizza addirittura il sogno del doppio sguardo: da fuori, perché passa attraverso un’operazione complessa di pesatura, misurazione, scelta delle parole: da dentro, perché questa chiave consente di entrare per un attimo nella dimensione perduta.

Per come l’ho messa viene a questo punto da chiedersi come mai Mario abbia scelto di praticare un esercizio così lontano dalla nostra tradizione – e perché io abbia così fortemente voluto ripubblicare i suoi haiku nelle edizioni dei Viandanti. Scartato in partenza ogni sospetto di condiscendenza alle mode, o di compiacimento per l’esotismo spirituale, non rimane che la pista della disciplina. Mario è stato conquistato da un esercizio disciplinare che apre ad una eccezionale libertà. Si è accorto che in realtà le diciassette sillabe non costituiscono affatto una limitazione, e che il piacere del risultato, dell’eureka finale, viene già anticipato nell’atto di isolare immagini e di cancellare metri di parole-spazio. Che una volta ripulite e ordinate le sue emozioni conservano la freschezza dell’istantanea. Il resto lo fanno Oviglio e il Monferrato, che offrono stagioni e ritmi come quelli di Kōbe, e il fondale delle Alpi, che non fa rimpiangere il Fuji.

Post scriptum. Rileggendo questi haiku mi è tornato in mente un racconto di Heinrich Böll, La raccolta di silenzi del dottor Murke. Murke non aspira al “grande” silenzio. Raccoglie piccoli scarti di nastro magnetico, i tempi morti silenziosi che vengono eliminati per ottimizzare la programmazione radiofonica, li unisce e li fa scorrere. Quello che ne vien fuori non è un silenzio assoluto, continuativo: è la successione di brevissime pause, che arrivano cariche di tensioni, paure, tristezze, stupori. Nel monotono, leggero fruscio del nastro tutto viene scaricato, mescolato, dimenticato. Non so quale sia il nesso, ma sono certo che c’è.

 

Lo stato dell’arte

di Paolo Repetto, marzo 2015

Carissimo Mario,

dì la verità, l’aspettavi. Ormai sei rassegnato al ruolo di corinzio. Non mi accade con tutti, anzi; la coazione a commentare gli ‘eventi’ scatta come un riflesso condizionato soltanto nelle occasioni che condividiamo. Un motivo ci sarà. (c’è senz’altro, e ne abbiamo già parlato).

Vengo subito al dunque. L’evento valenzano dell’altro giorno era di quelli che di norma lasciano il tempo che trovano. Solo in apparenza, però. Di fatto, proprio perché ci si alza da tavola tutt’altro che sazi, sono queste le occasioni che spingono a riflettere su quanto non è stato detto – nella fattispecie, per ciò che mi riguarda, su quello che tu non hai detto, perché al solito hai avuto l’urbanità di lasciare spazio agli altri (me compreso), che se lo sono preso tutto. Ora, come sai io rumino i miei pasti culturali sin troppo velocemente (e infatti poi li digerisco male), e per fermare un po’ le idee che scappano da tutte le parti ho bisogno di ancorarle alla carta, dando all’insieme una parvenza di percorso. O almeno, provandoci.

 

Bene. Parto dal ricordare che un paio di mesi fa abbiamo presenziato assieme ad un altro “Evento”, questo davvero con la maiuscola, che avrebbe dovuto stimolare ancor più la riflessione. Non dico che non sia stato così, e infatti abbiamo avuto il tempo di tornarci su lungo il viaggio, prima e dopo: ma la mostra di Casorati non ci ha posti brutalmente di fronte alla madre di tutte le domande, ovvero: cosa è, cosa non è arte? Entrambi eravamo tranquillamente coscienti di trovarci in presenza di opere d’arte, e il tema potevano essere semmai la bontà e l’efficacia dell’allestimento, il posto che compete a Casorati nella vicenda artistica del ‘900, come un territorio può essere coinvolto o meno dalla politica delle sue istituzioni culturali o da quella dell’imprenditoria economica. Credo che a nessuno delle centinaia di visitatori di quel pomeriggio sia passato per la mente di chiedersi ‘che cosa’ conferiva a quelle tele lo status di Arte.

L’altra sera, al contrario, il problema è venuto immediatamente fuori. Non per la qualità delle foto esposte, tutto sommato interessanti, ma perché era in ballo una modalità espressiva che con l’arte ha un rapporto ambiguo. Qualcuno ci ha girato attorno, altri, come il buon sindaco, l’hanno posto in maniera semplicistica (sdoganare o no la fotografia?), altri ancora hanno citato Mc Luhan o la discendenza diretta dalla litografia e dall’incisione: io stesso ho cercato di dire che non era quello il tema, ma probabilmente senza molta convinzione. Perché il tema è invece proprio quello. Non avevamo dubbi davanti ai dipinti di Casorati solo perché rientravano in un canone espressivo consacrato, per tecniche e strumenti e modalità? Non lo credo affatto. Deve esserci dell’altro. Ma quell’emozione, sarebbe stata la stessa se avessimo visto uno di quei quadri in casa di un amico? Se le opere ci fossero state offerte in un altro incarto? Per noi forse si; ma per palati “diversamente educati” – penso alle greggi di studenti (ed ex-studenti) condotte a pascolare in massa entro il sacro recinto dell’Arte? Ritieni che domani saprebbero distinguerle da un qualsiasi manifesto pubblicitario?

 

Questo ci porta lontano dal tema in cartellone per l’ultimo incontro (anche se ancora non ho ben capito quale fosse). Ma l’andamento dell’incontro stesso dimostra che nei confronti dell’Arte abbiamo tutti idee un po’ confuse. Io per primo, tanto che in me il rovello ricompare ogni volta che devo confrontarmi con qualche “prodotto”, evento, discussione che chiamino in causa lo statuto artistico. C’è qualcosa che non mi torna. E allora sento il bisogno non di darmi delle risposte, per le quali evidentemente non sono attrezzato, ma almeno di cercare di pormi correttamente le domande. Per questo chiamo te al soccorso: perché ho di fronte il libricino sui sagrati, e sulla scrivania il tuo disciplinare dell’haiku, e mi dicono che di lì qualche lume può senz’altro venire.

Mettiti seduto, perché la piglio larga. Dunque, tornando da Valenza accennavi al fatto che il problema di fondo è quello del corretto uso del linguaggio. Penso anch’io che il nodo sia questo, e infatti quando parlavo della madre di tutte le domande ero consapevole che in quei termini la domanda non può essere posta. Intendo dire che è insensato chiedersi cosa è, cosa non è arte, mentre ha un senso piuttosto stabilire preliminarmente di cosa parliamo quando parliamo di arte, che è faccenda ben diversa. Socrate l’avrebbe messa in questo modo: in assenza di un criterio universale ed oggettivo, e nella convinzione che non sia possibile definirlo, varrebbe almeno la pena, prima di iniziare il gioco, stabilire a che gioco si vuole giocare, e accordarsi su regole chiare e accettate da tutti. Cosa di cui nell’occasione si è avvertita subito la mancanza. Si fosse trattato di una partita di briscola, sarebbe andata a monte al primo giro.

 

Allora, vediamo se un accordo sul significato che intendiamo attribuire al termine ‘ArtÈ è possibile, senza far rientrare dalla finestra la domanda insensata. Etimologicamente l’ars è un’abilità, un talento. Se usiamo il termine in questa pura accezione rientrano nel territorio dell’arte tutte le espressioni di eccellenza di una qualsivoglia capacità, da quella culinaria a quella nel tennis o nella falsificazione di banconote. Non mi pare il nostro caso: penso che a dispetto del successo delle trasmissioni di cucina o delle banconote da trecento euro, e della facilità con cui viene attribuita oggi la qualifica di artista a qualsiasi canterino o imbianchino, noi intendiamo parlare d’altro. Di qualcosa che supera il valore d’uso (e di mercato) e che permane al di là dell’immediato consumo, perché esprime un valore simbolico aggiunto. Quindi potremmo dire che l’arte non è solo il frutto di un talento, ma il frutto di un talento intenzionato alla produzione di simboli. Questo restringe ulteriormente il perimetro, perché elimina anche la possibile identificazione dell’arte con ciò che suscita una emozione, un piacere immediato: mi piace il gelato alla crema e adoro il ciclismo, gli affogati e i gran premi della montagna mi procurano anche emozioni, ma penso non c’entrino nulla con l’arte. Quella relativa al valore simbolico non è forse la percezione più comune e diffusa, ma indubbiamente è la più universale, come dimostra per assurdo la furia iconoclasta dei militanti dell’Isis: per distruggere o assoggettare un popolo non è sufficiente sterminarlo, è necessario cancellarne la memoria, e la memoria è principalmente affidata alle espressioni artistico-simboliche della sua cultura. Il che ci dice anche un’altra cosa: nella percezione comune l’arte è identificata soprattutto con gli esiti dell’attività di produzione simbolica, non con l’attività stessa (anche se poi i fanatici e i regimi totalitari, che hanno una percezione molto acuta, accomunano nel massacro opere e autori), e si capisce anche il perché: noi ci confrontiamo normalmente con il prodotto, e non con l’atto creativo e con l’intento che lo muove. Faccio quindi riferimento soprattutto al primo, anche se è evidente che non si può prescindere da ciò che lo precede e lo informa. In questo senso il dominio dell’arte è comunemente inteso, e non solo in Occidente, come un ideale contenitore di oggetti (o atti) ai quali viene attribuita una valenza estetica, emozionale e simbolica particolare.

A questo punto dobbiamo stabilire se si vuol fare del contenitore un uso indiscriminato, privilegiando magari il fattore dell’intenzionalità (in virtù del quale sarebbero arte anche i disegni di mio nipote), oppure se intendiamo restringere e definire l’ambito al quale va riconosciuta una “dimensione artistica”, optando per la raccolta finale differenziata. A me pare che nel primo caso si potrebbe tranquillamente chiudere il discorso, perché se l’intenzionalità oltre che necessaria è ritenuta anche sufficiente finiamo nella notte in cui tutte le vacche sono nere; mentre nel secondo l’accordo va ulteriormente articolato. Ovvero: se riteniamo di riconoscere una “dimensione artistica” che va oltre gli intenti e attiene invece agli esiti, una volta ammesso che si tratta di una dimensione proteiforme e che i fattori sono quasi tutti variabili, così come il loro segno o il loro posizionamento, è ancora possibile individuare un qualche denominatore comune, tracciare dei confini, individuare dei criteri di inclusione?

Aspetta a lasciar cadere sconsolato le braccia. Non sto cercando la regola aurea: vorrei soltanto capire se la materia in gioco sfugge per sua natura ad ogni possibile “definizione”, sia pure convenzionale e temporanea. Tu mi conosci, vedo il mondo in bianco e nero e quanto a sfumature di grigio arrivo al massimo a due, chiaro e scuro. Per un discorso sull’arte non è certo la premessa ideale, e me ne rendo conto. Ma vorrei arrivare al prossimo appuntamento con le idee più chiare, e poter almeno dire con convinzione: non è di questo che siamo a parlare.

 

Torno dunque proprio all’altra sera, alle diverse posizioni che confusamente sono emerse e che mi sembrano alla fin fine confrontarsi in ogni occasione. Ad una ho in qualche modo già accennato. È quella che sostiene che la definizione dell’arte vada completamente storicizzata. Ogni epoca, ogni cultura, ne elaborano una propria, e quindi, all’ingrosso, “l’arte è tutto ciò che gli uomini – in una data epoca e in un dato luogo – chiamano arte”. Prescinde dal perché lo facciano, o meglio, ammette un numero tale di variabili da rendere l’equazione “x + y + z + ….= A” impossibile o indefinita, ricadendo nell’azzeramento di cui sopra, salvo il fatto di mantenere in vita una molto vaga “dimensione artistica a sé”. È insomma un “liberi tutti”, al limite della raccolta indifferenziata, che da un lato giustifica qualsiasi operazione, dall’altro si presta ad ogni possibile strumentalizzazione, ideologica e/o mercantile. Mi riferisco ad esempio alla funzione “provocatoria” che in quest’ottica viene oggi attribuita all’arte. Quando sorridevo ironicamente di fronte alla mostra dell’Arte per fede messa in piedi da mio fratello, che aveva raccolto dei massi lungo il Piota e li aveva esposti in pompa magna alla Loggia di Ovada, sostenendo che occorreva riconoscere in essi la mano modellatrice di un dio spinoziano, mi sono sentito giustamente obiettare che se è un’operazione artistica incartare un palazzo o un monumento lo è tanto più risvegliare una coscienza della profondità del tempo e della essenza minerale dell’universo. Avrebbe potuto dire qualsiasi altra cosa, e magari, conoscendolo, con altri lo ha fatto, e sarebbe stato comunque difficile contraddirlo. Era una burla, ma il muro di gomma di un sistema onnivoro e onnipervasivo gliel’ha ributtata in faccia. Mio fratello era partito per dissacrare il mondo fasullo dell’arte, ed è poi finito ad esporre a Cernobbio, nel parco della villa dove si incontravano i politici e big dell’industria, dei trogoli da verderame e dei pali da vigna, e a convincersi per qualche tempo di essere davvero entrato in quella dimensione che intendeva irridere. Non ha sfondato (in realtà ha sfondato il pianale della Panda) solo perché le pietre e i trogoli erano troppo grandi e pesanti, inadatti persino alla decorazione da giardino.

Lo trovo emblematico. A mio giudizio dimostra intanto che in un sistema “liquido” ogni provocazione fa aggio a ciò che vorrebbe combattere, in questo caso all’idea di un’arte-mercato o di un’arte-spettacolo; ma soprattutto denuncia i limiti del trucco messo in atto per ottenere l’effetto provocatorio: la decontestualizzazione degli oggetti (o delle azioni). Di più: evidenzia l’inconsistenza di una concezione dell’arte tutta di testa e poco o niente di mano, che rinnega uno dei fattori originari, quello dell’abilità, e prescinde quindi totalmente dal peso della componente tecnica e operativa. In questo caso il contenitore diventa inutile, a meno che non sia quello dell’Amiu, perché salta il presupposto sul quale pensiamo un ruolo e una storia dell’arte, ovvero la produzione e la sopravvivenza di “oggetti” (materiali e non) che trascendono un uso quotidiano e strumentale e si pongono fuori dello scorrere del tempo. Ma lo trascendono per una forza e una volontà interni, non perché vengono estrapolati e riproposti fuori contesto. Voglio dire, la Gioconda è in fondo una fototessera in formato gigante, e sarebbe un qualsiasi documento se l’artista avesse voluto semplicemente dipingere un ritratto; in realtà ha usato il ritratto come pretesto (letteralmente) per andare oltre. C’è riuscito, perché aveva in mente qualcosa, voleva esprimerlo ed era padrone di una tecnica che gli consentiva di farlo. Quella fototessera oggi ancora ci parla, tanto che qualcuno trova impertinente farle i baffi, o comodo utilizzarla come testimonial per l’acqua minerale, o ricamarci su misteri: tutti usi impropri, che testimoniano comunque della sua vitalità, ma che poi, chiaramente, li si consideri idioti o provocatori o furbeschi, con la dimensione artistica non hanno più nulla a che fare. O forse no?

Immagino una possibile obiezione. Come la mettiamo con quelle espressioni artistiche delle quali non rimangono documenti, se non il racconto e i giudizi di protagonisti e spettatori: ad esempio, non è una espressione d’arte il balletto? Mi trovi completamente spiazzato. In questo caso l’unico documento che rimane è la partitura, che costituisce la potenziale base per un gesto artistico, così come il libretto e lo sparito lo sono per un melodramma e il testo per una messa in scena teatrale. Ora, è possibile che da una base mediocre si origini un’esecuzione eccelsa, o viceversa: ma questo secondo momento, nel quale si dispiegano abilità interpretative e la componente tecnica e operativa è addirittura prevalente, e che è infinitamente ripetibile, ha domicilio nei territori dell’arte o piuttosto in quelli dello spettacolo?

 

Come vedi, non ho ben chiari i passaggi: mi rendo conto di cacciarmi in un paradosso, ma l’idea che decontestualizzare un oggetto o un’azione dia di per sé accesso alla dimensione artistica mi sembra solo uno dei tanti prodotti di risulta della “storicizzazione a tappeto” operata nel Novecento. Il paradosso sta nel fatto che in una declinazione corretta “storicizzare” significa leggere atti, idee, oggetti nel particolare contesto che li ha espressi, per acquisire tutti gli strumenti utili alla comprensione: fermo restando che l’attribuire una posizione non va confuso con l’esprimere un giudizio di valore, e nemmeno implica il sospenderlo. Posso capire per quali ragioni le povere vedove indiane fossero obbligate al suicidio, ma una volta che ho capito la pratica continua a sembrarmi aberrante (anzi, nel caso specifico riesce anche più odiosa). La “storicizzazione a tappeto” investe invece anche i valori, e questo significa cancellazione della storia, ovvero della possibilità di un racconto e di una lettura dei fatti secondo una linea di continuità – non necessariamente di progresso. Lasciamo perdere se questa linea di continuità poi esista realmente, anche solo all’interno della nostra risibile scala temporale, perché questo ci proietta nella metafisica, e ci mancherebbe altro: di fatto noi la cerchiamo, e possiamo poi leggerla in chiave ciclica o lineare o a spirale, ma per rintracciarla dobbiamo avere comunque in mente dei punti certi e obbligati.

Questo mi pare tanto più evidente nella storia dell’arte. La storicizzazione dei valori ha comportato che nel secolo scorso fosse liquidata ogni considerazione per la “tecnica artistica”, privilegiando un’astratta valenza “conoscitiva” (l’arte concettuale?). Ma a questo punto, di cosa stiamo parlando? Nell’assunto conoscitivo il fattore di maggior rilievo non può che essere la novità. Ma la novità è un valore per sé, o è un aggiornamento dei valori, non sempre e non necessariamente positivo? O piuttosto: non attiene forse ad una considerazione meramente strumentale dell’arte, che confonde l’esito con l’intenzione? A me pare che, venute meno la funzione religiosa, quella didattica, quella celebrativa o di creazione del consenso, si voglia caricare oggi l’opera d’arte del ruolo di detonatore della coscienza. Solo che le esplosioni sono soltanto fuochi d’artificio. Nel caso della provocazione l’idea di fondo è che spiazzando e irritando il fruitore lo si spinge a riflettere: ma nella realtà poi il tutto si risolve in un gioco ormai trito, nel mettere cornici alle finestre per dire che sono quadri (e magari venderli). Mi ripeto: decontestualizzare un tubo di scappamento arrugginito, separandolo dall’auto o dall’ammasso del rottamatore e piazzandolo in mezzo al salone di una mostra, avrà anche un significato simbolico, ma ha a che vedere con l’arte?

Lo stesso discorso vale quando ad essere decontestualizzato non è un elemento “povero”, tratto dalla quotidianità e cacciato a forza nella dimensione artistica, bensì qualcosa che già appartiene alla storia dell’arte. Mi sto riferendo, evidentemente, al citazionismo postmoderno, che da un lato parrebbe isolare ed evidenziare elementi e tratti del gusto perenni, a riprova dalla continuità nel tempo di taluni significati simbolici, dall’altro usa queste simbologie in contesti che non sono quelli che le hanno prodotte, e conferiscono loro significato non per aggiornare quel significato stesso, ma per stravolgerlo: per provocare, appunto. E finiscono per ridursi quindi ad un giochetto masturbatorio, tutto mentale ed autoreferenziale, spesso solo idiota. Non sempre, ma quasi. Posso infatti essere colpito dal trovare in un sequenza delle storie di Dylan Dog (come vedi, altro che confini e dogane: il mio concetto di ambito artistico è in linea di principio molto ampio) la citazione di un quadro di Hopper, che si incastona perfettamente in una atmosfera di buio e solitudine e deserto da provincia americana by night appena fuori le geometrie a luce fredda del bar e del bancone, perché questo mi significa che quella sensazione era già stata così perfettamente espressa in quel dipinto da non poter essere evocata meglio che da un rimando: mentre mi lascia perplesso il piazzare una miniaturale agorà, con tanto di frontoni e pronai e colonnati, ma accessibile al traffico delle automobili, perché quello pedonale tanto non c’è più, al centro della Zona Pista in Alessandria. Ci vedo la stessa filosofia che determina l’attuale successo del mercatino dell’usato: la ricerca della vecchia caffettiera da esporre sul caminetto con lastra di vetro o della ruota da carro da trasformare in lampadario per la tavernetta: oggetti che avrebbero un significato, quanto meno affettivo, se appartenuti ai bisnonni, non ne hanno alcuno in un contesto estraneo, e meno che mai in un utilizzo che ad essi è del tutto estraneo.

Ho superato da un pezzo il crinale della banalità. È meglio quindi che non mi spinga oltre e provi a stringere. Spero però si capisca ciò che intendo dire. Il rischio di una storicizzazione che di per sé, considerata come condizione preliminare, necessaria ma non sufficiente, risulterebbe più che legittima, è quello di attribuire un sei politico a qualsiasi puttanata. Dietro la presunta maggiore “democraticità” vedo solo la rassegnazione a rinunciare a qualsiasi educazione al gusto che non sia educazione al consumo (le grandi mostre, i grandi eventi, …, che parrebbero andare in direzione contraria, finiscono in realtà per atrofizzare quel sesto composito senso che è il senso estetico).

 

E andiamo alla posizione opposta, quella che si basa sul convincimento dell’esistenza di una costante di fondo nella dimensione artistica: sul che, come nel caso della corretta storicizzazione, non ci piove. A patto però di non farne “il” fattore unico e discriminante che circoscrive il dominio dell’arte. Questa costante può infatti essere intesa in vari modi: Croce parla ad esempio di una idea di bellezza innata e universalmente condivisa. È una posizione platonica, postula che le idee del vero, del buono, del bello, siano in noi congenite e che noi ne riconosciamo o meno l’impronta nella realtà esterna. Bada che non è affatto campata per aria: a Croce non sarebbe fregato niente, per come la metteva lui (a Platone invece si), ma i più recenti studi sul funzionamento del nostro cervello, e quindi sulle modalità della nostra appercezione, dicono che il gradimento, l’attribuzione di un significato, la collocazione stessa nel nostro quadro sensoriale prima e intellettivo-interpretativo poi avvengono in funzione dei modi in cui i nostri apparati sono strutturati: ad esempio, noi inquadriamo il mondo, lo spazio e gli oggetti che lo abitano, secondo precisi modelli e coordinate geometriche. Allo stesso modo, cogliamo le sfumature cromatiche e acustiche entro spettri di possibilità ampi ma limitati. Insomma, in realtà nulla di veramente nuovo: queste cose le aveva già dette Kant. Questo significa però che la nostra sensibilità verso un oggetto o un’azione cambia in ragione della sua corrispondenza ai parametri che la natura stessa ci impone. Gli ultrasuoni, che pure sappiamo esistere, nemmeno li percepiamo, almeno con l’apparato che sarebbe deputato a farlo. Così certe gradazioni di luce, ad esempio l’infrarosso. Sono quindi indotto a pensare che certe forme volumetriche, certi accostamenti cromatici, o acustici, ci siano più congeniali di altri, o magari, se portati al limite senza scadere in una cacofonica insensatezza, attivino una curiosità positiva. Ora, è difficile stabilire quanto di questo apparato sia geneticamente determinato e quanto sia epigeneticamente appreso: quanto cioè il nostro “gusto” sia fissato dalla nostra stessa fisiologia e quanto invece sia “storicamente” coltivato: e non sono certo io a poterne discettare, ma ho l’impressione che l’argomento lasci ancora larghissimi spazi agli orientamenti personali. Personalmente credo che le forme conoscitive dello spazio e del tempo dell’homo sapiens di mezzo milione di anni fa fossero molto diverse da quelle del sapiens-sapiens attuale, in termini non solo quantitativi, ma anche quantitativi. La percezione di una distanza, quindi della profondità di uno spazio, cambia in base ai mezzi e alla possibilità di superarla, ma anche della conoscenza o meno di ciò che sta oltre. Ciò non toglie che il fascino, l’inquietudine e l’orrore prodotti da quella distanza alla fin fine rimangano. In sostanza, penso ci sia del vero in questa posizione “idealistica”, a patto che la costante venga declinata di volta in volta, di luogo in luogo, in funzione delle modificazioni del gusto, delle tecniche diverse, del peso della religione, della politica e delle condizioni economiche, ecc… Sostanzialmente permane invariabile a difesa dei confini del dominio artistico, contro le invasioni barbariche, ma si annette i territori periferici che accolgano le stesse leggi.

 

Credo si possa individuare infine anche una terza posizione. In questo caso il perimetro della dimensione artistica non ha a che fare né con i criteri oggettivi (il bello, il brutto) né con le diverse declinazioni storiche. Il discrimine è la rilevanza simbolica: è arte ciò che riesce ad attingere ad un significato comunicativo universale, dove per universale non si intende ciò che più o meno arriva a tutti i contemporanei o dintorni, perché in questo caso si ricadrebbe nella storicizzazione, e nemmeno ciò che risponde a un canone estetico connaturato, ma ciò che mantiene la sua valenza significativo-simbolica a prescindere dalle interpretazioni attraverso il tempo e le modificazioni del gusto. Il che in fondo potrebbe risolverci la questione, ma fa rientrare nella dimensione artistica anche oggetti (pensa all’arte preistorica) che nelle intenzioni dei loro creatori avevano una funzione prettamente utilitaria, o al massimo decorativa (le ceramiche ad esempio, o le armature …), e che per un ennesimo paradosso diventano oggetti d’arte proprio nel momento in cui li percepiamo fuori contesto. Siamo quindi daccapo. Non sto mettendo in discussione la rilevanza simbolica di questi oggetti, ma la loro rilevanza “artistica”. Qui torna in ballo il fattore intenzionalità: è importante o no che il simbolismo sia intenzionale, per accedere al sopramondo dell’Arte? Mi sembra un distinguo non da poco.

 

Nella discussione dell’altra sera erano rappresentate tutte e tre queste posizioni. Più una quarta, la tua, che purtroppo è rimasta inespressa, mentre le premesse erano interessanti. Hai avuto appena il tempo di accennare a due fattori, l’aura e il contesto, che mi hanno fatto pensare che tu volessi correttamente spostare il discorso dalla produzione alla fruizione: e già questo avrebbe comportato un chiarimento. Ora, di contesto e decontesto ho sproloquiato sino ad ora, ma non credo nell’accezione cui facevi riferimento tu. Dell’aura ho provato a dire qualcosa nel corso dell’incontro, ma anche qui penso tu intendessi altro. Bene, è questo altro ad interessarmi. Sarò sincero: il libricino sui sagrati, ma anche tutte la altre cose tue, mi suggeriscono che del pippone di cui sopra e delle domande madri o zie che lo motivano ti importi in definitiva ben poco, nel senso che hai educato il tuo sguardo a cogliere segni e simboli essenziali di una cultura o di un’epoca là dove altri vedono solo vecchie insegne, etichette, portali, ringhiere, ecc… Il che consente di godere appieno i prodotti dell’alta cucina, ma anche di cogliere le suggestioni e apprezzare i sapori delle zuppe di cavoli o delle minestrine con l’uovo. Per questo, pur sapendo che non condividi affatto i miei rovelli, ti considero la persona più adatta ad aiutarmi a fare ordine. Forse devo rieducare il mio palato, o forse, più semplicemente, dovrei parlare e scrivere d’altro, di ciò che almeno un po’ conosco.

È vero, caro Mario: ma allora, dove sarebbe il mio nutrimento? E soprattutto, che gusto ci sarebbe?

 

In bianco e nero

di Paolo Repetto, 11 Agosto 2014

Carissimo Mario,

voglio ancora ringraziarti per l’incontro di Gamalero. Mi ha dato l’opportunità di conoscere, oltre ai familiari di Nico, un bel gruppo di persone in gamba. È ancora gente che ha il coraggio di credere nella cultura come occasione d’incontro, anziché venderla come evento. Il riscontro ottenuto nel pubblico fa ben sperare.

Ti sono grato anche per un’altra cosa: mi hai spinto a riprendere in mano “Il supplente” e a rileggerlo integralmente, a distanza di forse vent’anni. Mi è piaciuto più ancora della prima volta, ora sono davvero curioso di sapere altro su Puccinelli. Ne riparleremo.

Riparliamo invece subito di Nico, perché la rilettura ha coinvolto anche le sue prose. Gamalero, come prevedibile, non era la sede per approfondire le nostre reazioni al testo e scambiarcele. Comincio a farlo quindi in queste brevi righe, in attesa di tornarci sopra faccia a faccia, magari qui a Lerma, quando ti deciderai ad abbandonare per un pomeriggio le pianure. Mi limito a qualche spunto, sapendo che poi tu ci rimuginerai sopra.

 

Dunque: in primo luogo il bianco e nero. Ho buttata lì nel corso dell’incontro questa impressione, senza spiegarla. È legata alle case di ringhiera, quelle appunto del tardo neorealismo cinematografico, alla Luciano Emmer, per intenderci. Le foto stesse presenti nel libro e utilizzate nel video di presentazione, anche se a colori, ci rimandano solo gradazioni di grigio, magari seppiato. Voglio dire che quel mondo lo ricordiamo in bianco e nero perché era davvero in bianco e nero, sia pure declinato in tutte le sfumature intermedie (mio padre, mio nonno, mia nonna e le mie zie, non li ho mai visti indossare un abito colorato). E così ci era rimandato non soltanto dalle fotografie ma anche dai quotidiani, dagli albi a fumetti e da rotocalchi come l’Europeo e l’Espresso, o magari La Domenica del Corriere e Oggi, e dai noir e dai western classici. Al più erano a colori le copertine, le locandine e i manifesti, a segnare l’ingresso in un’altra dimensione: ma all’interno anche questa era poi monocromatica. Perciò ogni ricostruzione colorata (ad esempio gli sceneggiati televisivi, quelli che oggi chiamano fiction e che raccontano la storia di Girardengo o di Majorana; o i film, come quello tratto da Levi – hai presente? – arrivati dopo che ci eravamo fatti gli occhi e la coscienza sui documenti filmati della guerra e dei campi di sterminio e sulla Settimana Incom) suona insopportabilmente falsa, perché quei colori non appartenevano a quel mondo.

 

Secondo spunto. Riguarda la voglia cui accenni di “evadere attraverso i libri, le riviste, le novità, le golosità”, ecc. La smania di “evasione” è da sempre connaturata agli spiriti giovani, impropriamente confusi con quelli liberi, ma almeno per ragioni biologiche senz’altro più aperti al cambiamento: e quindi ogni forma di racconto di una qualche diversità, da quello orale a quello per immagini e a quello scritto (e certo, anche quello che passa per le scoperte gastronomiche) l’ha alimentata. Tuo fratello ha vissuto in questo senso l’ultimo bagliore di un crepuscolo, mentre già incombeva la notte. Intendo dire che mai come nella prima metà del ‘900 quegli strumenti (e parlo di novecento perché ci metto anche il cinema) hanno lavorato in quantità (per la maggiore facilità di accesso) e in qualità (per la ricchezza iconografica, ad esempio, ma anche perché aprivano su mondi sempre meno remoti) a favorire piani di fuga. La notte però già incombeva, perché quegli stessi strumenti, la loro ricchezza, la loro accessibilità, il loro riferirsi a mondi prossimi, finivano per ridurre l’evasione ad una escursione fuori porta (tu stesso, in “Di che cosa ci siamo nutriti”, parli della ritualità quasi sacrale del Mottarello. Oggi li vendono a pacchi da dieci nei supermercati, è sufficiente aprire il frigorifero e scartarne uno, magari anche due: quale sacralità, quali mondi vuoi che ti aprano! Lo stesso vale per qualsiasi specialità non solo dell’albese o della Lomellina, ma thainlandese o malgascia). E inoltre venivano sempre più scopertamente e sfacciatamente utilizzati per condizionare e persuadere.

Hanno in pratica preparata la strada all’“invasione”: quella televisiva, che non ti faceva venir voglia di buttarti fuori, ma induceva a rimanere lì seduti. Con la televisione il mondo viene a te, non c’è più alcun bisogno di andarlo a cercare. Di conseguenza, la forza e la funzione dei libri e delle riviste è cambiata: oggi offrono delle conferme, non più delle scoperte.

 

Terzo. Poesia e prosa = Fotografia e cinema. Ripeto cose scontate. La prima induce, anzi, obbliga a soffermarsi, a riflettere sulla singola immagine, o sulla singola parola-immagine. La seconda (e il secondo) ti tira via per la maglietta, devi spostare l’attenzione velocemente, se non vuoi perdere il filo. È vero che ci sono pagine di prosa che “documentano” perfettamente una realtà o una situazione: ma anche in esse ogni parola è un fotogramma che acquista senso solo in funzione di quanto precede e di quanto segue, e non possiede una sua intrinseca icasticità. E tuttavia, possono esistere anche una prosa e un cinema nei quali l’urgenza della storia non la vince sulla profondità dello sguardo.

Mi spiego. I ritmi e i toni della scrittura di tuo fratello mi hanno fatto immediatamente riandare al cinema di Robert Bresson, quello che nei primissimi anni sessanta proprio la televisione (in splendido bianco e nero) e Claudio G. Fava – ma ora mi viene in mente che prima di lui c’era un altro, del quale non ricordo il nome – mi facevano scoprire al bar Italia, per una consumazione minima di cinque caramelle Mou e nel quasi religioso silenzio degli altri avventori, che al termine di ogni film di Bergman o di Dreyer mi chiedevano cosa cavolo significasse, ma il lunedì successivo erano pronti a riprovarci (ho avuto un momento di vera gloria solo col primo favoloso ciclo di John Ford). Ho riconosciuto un modo di raccontare assolutamente asciutto, come asciutte erano ancora le persone, prima del boom e delle merendine: e in fondo, anche la prigione de “Un condannato a morte è fuggito” era una casa di ringhiera (ora che ci penso, potrebbe essere un titolo emblematico – e non solo per Nico – se parafrasato all’ottativo – “avrebbe voluto”, oppure “ha provato a” fuggire).

Ecco, quel tipo di scrittura, tutta particolare perché in apparenza ha i modi, oltre a riguardare i luoghi, di Pavese e di Fenoglio, ma applicati ad altro oggetto e al servizio di un diverso sguardo, mi sembra l’estrema espressione di un mondo provvisorio, quello che giustamente tu definisci “sospeso”. Sospeso tra il rimpianto per un passato che per altri versi è avvertito come opprimente, ma dal quale è difficile staccarsi, e un futuro che si è sognato attraverso le letture e il cinema, ma che già si intuisce non sarà quello sperato. Il futuro è appunto quello dominato dal colore, e il colore è immediatamente spettacolarizzazione. Io possiedo alcuni calendari tedeschi e svizzeri degli anni trenta: immagini di baite o di castelli, o di interi paesini, sotto la neve. Un mondo esattamente simile a quello attraversato da Leigh Fermor nella sua favolosa camminata dell’inverno del ‘33, che infatti lo racconta, a distanza di quarant’anni, in bianco e nero. Perché era così. Il colore suona paradossalmente falso. Le sinopie del mondo sono in bianco e nero e siamo noi poi a colorarlo, e i toni e le sfumature non sono mai oggettivi. Ricolorare è una interpretazione, ma quando non siamo noi a farlo, quando i colori non li scegliamo ma ci vengono già serviti, o meglio, imposti, allora è una falsificazione: serve solo a distrarci, a riempirci gli occhi per coprire la povertà di contenuti e di significato, a moltiplicare le sfumature per negare i contrasti. Il bianco della giubba di Alan Ladd, il nero della camicia di Jack Palance, e sai subito dove sta il bene e dove sta il male; quando hai uno spettro cromatico infinito non ci capisci più nulla.

Era anche un mondo lento, che poteva essere raccontato appunto solo alla velocità di chi cammina a piedi, massimo a quella di una vecchia corriera di linea. Oggi guardiamo e raccontiamo il mondo come se lo vedessimo dai finestrini di un TGV lanciato a trecento all’ora. Non ci è concesso fermare lo sguardo su una casa, su un albero, su una mucca al pascolo; divoriamo distanze immense senza vedere nulla.

 

La condizione vissuta da tuo fratello nei primi anni sessanta è la stessa che tu ed io abbiamo vissuto nei trenta successivi. Eravamo presi in mezzo in un mondo in trasformazione, questa non ci piaceva ma continuavamo a pensare che fosse comunque naturale e necessaria, e che dopo le brutture della fase di demolizione sarebbe tornato il bello. Negli ultimi venti abbiamo cessato di crederlo e ci siamo rassegnati ad una difesa poco convinta, ad una conservazione di luoghi e modi e memorie che rischia sempre l’immediata patinatura, ad una rievocazione possibilmente intima e parcamente condivisa. Sappiamo che potrà essere solo peggio. Nico e i suoi coetanei (vedi Puccinelli) l’avevano già capito, perché il passaggio dal bianco e nero al colore l’avevano vissuto più direttamente; era stato anzi la loro speranza, perché i colori erano quelli artificiali del tecnicolor, tuniche rosse fuoco, praterie verde pastello, cieli azzurro intenso; o quelli delle copertine di Tex, del Vittorioso e di El Coyote: o delle etichette di biscotti e di liquori. I colori del sogno, appunto. Erano depositari di una speranza di cambiamento che andava avanti da quasi un secolo, che era stata rallentata – ma anche alimentata – da due successive guerre, e che soprattutto dopo l’ultima sembrava aver trovato il terreno su cui posare i piedi. Ma erano anche quelli che, appena posati i piedi, si stavano accorgendo che si trattava di un terreno paludoso, nel quale era facile impantanarsi e sul quale crescevano rigogliose solo le malepiante. Che a differenza del bianco e del nero gli altri colori sbiadiscono velocemente, e in un mondo artificialmente colorato tutti i gatti diventano presto grigi.

 

Certo, qualcuno lo aveva previsto: il suo Heidegger, ad esempio. Ma senza varcare le Alpi e molto prima, qui da noi, Leopardi. Per la generazione di Nico il vero maestro avrebbe potuto essere, se spogliato del colore – appunto  politico, Timpanaro.

La nostra, di generazione, ha già perduta nell’infanzia la chiarezza dello sguardo. Gli ultimi film di Ford, alla fine degli anni cinquanta, vengono girati a colori. I colori falsano la realtà, illustrano il sogno: ma noi, a differenza di Nico, non lo sapevamo. Per questo ci siamo ridotti a quella parodia di rivoluzione che è stato il Sessantotto, a quella parodia di cultura che è l’arte contemporanea, astratta, povera, concettuale, informale, postmoderna che si voglia, tutta necessitante a priori di un aggettivo giustificativo, perché da sola non reggerebbe, a quella sostituzione del prodotto all’opera che ha supermercatizzato la musica e la letteratura.

Il fascino asciutto delle pagine di Nico è quindi, per ciò che mi riguarda, nella perfetta e lenta essenzialità che le informa. Nico guarda, constata: non fa analisi sociologiche o antropologiche, non dà letture politiche. Non è necessario. Ciò che vede, che sente, non ha bisogno di commenti. E questo ha niente a che fare, naturalmente, col realismo. È oggettività dello sguardo, una cosa ben diversa. In Francia la chiamavano école du regard, non c’entra con Bresson, ma il risultato è lo stesso. Significa inquadrare le cose, scegliere i particolari, metterli a fuoco, tutte operazioni che richiedono calma e lentezza. Insomma, io penso che raccontare attraverso i tempi lunghi di posa consenta di scegliere della vita ciò che davvero ci interessa, creare un percorso; mentre la possibilità di cogliere la realtà attraverso istantanee significa lasciar scegliere alla realtà stessa, mettersi in sua balìa.

 

Come puoi constatare ho idee molto confuse. In questo momento, che per me è di ulteriore transizione, più del solito. Magari una chiacchierata potrebbe aiutarmi a riordinarle. E quindi aspetto. Nel frattempo cerco di tener sveglio il cervello con la lettura delle prime cose di George Steiner, raccolte in “Linguaggio e silenzio”. Sono saggi composti tra gli anni cinquanta e i sessanta, guarda caso, incredibilmente lucidi e scritti divinamente. Nascita, apogeo e morte (o almeno agonia) del linguaggio umanistico, e conseguentemente del pensare umanistico, e in pratica di tutto ciò in cui abbiamo identificato fino a ieri la specificità, sia pure sempre in fieri, dell’umano. Il piacere che ne traggo è solo guastato dalla rabbia per il tempo perso sino ad ora non leggendoli. Se non li conosci, te li consiglio vivamente. Sono molto agostani (ma potrebbero anche essere dicembrini).

A presto, Paolo

 

Epifanie sotto vetro

di Paolo Repetto, 22 Aprile 2013

Valenza, 19 aprile (a Mario Mantelli)

Carissimo Mario,

avrei dovuto buttare giù queste riflessioni a caldo, la sera stessa dell’incontro-conferenza-conversazione (o che diavolo era). Sono uscito dal centro di cultura con la testa piena di domande – e di risposte – che facevano ressa: domande che ti avrei posto subito, non fosse stato per l’urbanità minima di lasciare un po’ di spazio anche agli altri (a dire il vero non ne abbiamo lasciato molto, e pochissimo anche a te. Ad un certo punto avevi l’aria di un maestro che ha scatenato la discussione tra gli allievi e non sa se essere compiaciuto o preoccupato della piega che sta prendendo).

Oggi purtroppo, a distanza di una settimana, che significa sette giorni di allievi petulanti e docenti postulanti e genitori recriminanti, oltre che di circolari ministeriali, la testa non è più la stessa. Non è sempre vero che le cose vadano lasciate decantare: funziona solo con le bacinelle, non nell’acqua corrente. Provo comunque a recuperare qualcosa di ciò che urgeva all’uscita, cercando di essere schematico (e già questo mi farà pensare e dire cose diverse da quelle che avrei detto). Hai posto l’altra sera tre questioni. Ricostruisco a memoria, ma mi sembra fossero nell’ordine:

  1. Quanto può essere importante la fotografia per la difesa del territorio, e nella fattispecie in quella di luoghi o scorci “magici” che stanno scomparendo?
  2. Può, e se si, come, la fotografia cogliere il “carattere” di un luogo?
  3. Può la fotografia fermare e cogliere un’epifania?

 

  1. Credo che nelle tue intenzioni il primo interrogativo fosse insieme retorico e reale. Certo, la documentazione fotografica ha un ruolo fondamentale nella difesa del territorio. Per i luoghi o per gli scorci “magici” poi l’importanza è ancora maggiore, perché certifica l’esistenza di un particolare “valore aggiunto”. E questa risposta era già implicita nella domanda retorica. Ma, e questa era la domanda vera, riveste davvero per tutti la stessa importanza? Evidentemente no. Prima di certificarli i luoghi occorre vederli, e per coglierne certi particolari o sfumature occorrono occhiali speciali, tipo quelli per il 3D al cinema. Questi occhiali appunto trasfondono la magia: e non sono molti ad indossarli. Cerco di spiegarmi, perché mi rendo conto di rasentare pericolosamente la banalità, ed è anche possibile che ci sia già caduto dentro. Allora, è probabile che davanti alle immagini fotografiche delle piazze, dei campanili, dei porticati di paesini della Val Borbera o dell’Alto Monferrato che hai evocati l’altra sera un sacco di gente esclamerà: ma guarda che bello. Il che è quanto la documentazione fotografica si proponeva, e va molto bene – ma, tu mi capisci, non sarà la stessa cosa. Non sarà “quella cosa” che vale per noi, e capisco che questo sia normale, ci mancherebbe, ma capisco anche che si corre il rischio, nel più ottimistico dei casi, di mettere cornici alle finestre per dire che sono quadri. Non voglio quadri, voglio poter aprire le finestre per guardare fuori, e vedere quelle cose lì. È lo stesso discorso che per vale il dialetto. Io amo il dialetto, perché lo parlo (ormai quasi solo con mio fratello), impreco in dialetto, ragiono in dialetto (e questo tra l’altro mi ha sempre impedito di sintonizzarmi col pensiero filosofico “alto”): ma penso che scrivere in dialetto sia un assurdo. Il dialetto nasce ed esiste solo come strumento di comunicazione orale, e si possono inventare tutti i segni e le convenzioni fonetiche che si vogliono, non può essere tradotto per iscritto. I vocabolari, i glossari, le raccolte di poesia dialettale sono certamente dei documenti, e non li brucerò sulla pubblica piazza: ma sono un falso. In quei grafemi non c’è nulla delle tonalità, delle asprezze, delle mollezze, degli strascicamenti, della perentorietà, della gestualità specifica del dialetto. Allo stesso modo nella fotografia non c’è nulla dei profumi, dei suoni, dell’aria torrida o ghiaccia o umidiccia di quel pomeriggio nella cui cornice hai visto i portici o che altro. La funzione documentaria rimane, ma riduce il tutto a due dimensioni e ad un senso. Si potrebbe obiettare che allora questo vale anche per la pittura: ma la pittura non ha una funzione documentaria. La pittura crea, o ricrea, una realtà, la fotografia si limita a coglierla. Certo, è possibile scegliere l’angolazione, le condizioni di luce, il particolare da cogliere: ma si sceglie entro una realtà data, non se ne crea un’altra. E quando si tenta di farlo non si parla più di fotografia, si entra in un ibrido (“sembra un dipinto” – è il caso delle immagini di questa mostra, per altro bellissime), e gli ibridi, almeno in natura, non sono fecondi.
    A me sembra importante non perdere di vista la funzione per la quale la fotografia è nata. La fotografia è nata da una rivoluzione tecnologica, da una combinazione di chimica e di meccanica, ma soprattutto da una rivoluzione mentale. È figlia dell’accelerazione, come il treno (del quale è contemporanea), e infatti accelera (oggi addirittura azzera) i tempi necessari a “fermare”, a “fissare” gli spazi o le persone. Nasce dalla prosaica necessità di buttare solo pochi minuti a posare per un ritratto, perché il tempo nella società borghese è denaro, mentre non lo era in quella nobiliare. Nasce quindi da un rapporto diverso col tempo, nel quale produzione e consumi devono diventare sempre più rapidi e sono finalizzati al presente, magari ad un presente un po’ più esteso, ma che non è comunque il futuro. Quelle foto, che per noi vorrebbero “fermare” il futuro, sono per i più un semplice, magari “molto carino”, istante del presente.
  2. Vale quello che ho già detto per il punto precedente. Il documento fotografico non è una carta d’identità. L’identità è data dalla somma di caratteri eterogenei. Per rilasciarti quella personale ti chiedono quando sei nato (dato storico) e dove, dove risiedi (dati geografici), quanto sei alto, quanto pesi, di che colore hai occhi e capelli (dati morfologici) se sei sposato o meno, che lavoro fai (dati sociologici) e se hai segni particolari. L’altezza, la professione, la residenza, l’età, lo stato civile e il colore degli occhi sono dati disgiunti che acquistano un senso solo se incrociati (sarebbe bizzarro un sessantenne zoppo, alto come Brunetta, che dichiarasse come professione la pratica sportiva della pallacanestro). Ti chiedono poi anche la fotografia, che è in ultima analisi lo strumento indispensabile all’identificazione (oggi in realtà non più: siamo all’impronta digitale o addirittura al DNA), ma non dice nulla sul tuo stato civile o su quello sociale, e meno che mai sul tuo carattere. Certo, la foto di Ruskin poggiato al caminetto e quella di Clay mentre atterra Liston dicono molte differenze, o almeno le fanno intuire. Ma resta il fatto che noi sappiamo molto dell’uno e dell’altro, e la differenza la mettiamo noi (altrimenti, per quel che vale la documentazione fotografica, Hemingway sarebbe stato un campione dei massimi – mentre come pugile in realtà valeva ben poco). Ovvero, la “magia” dei luoghi di cui parlavi ha un retroterra di storia e di storie, che solo chi possiede ancora il senso del passato (e per abbrivio, quello del futuro) può usare per colorare immagini “in bianco e nero”, intese come puro documento (o anche per fare l’operazione inversa).
  3. e vengo alla terza domanda, quella che più mi ha colpito ed intrigato. Chiedevi (e ti chiedevi) se la fotografia può cogliere un’epifania. In parte ho già risposto l’altra sera, in parte nei punti precedenti. Decisamente no. Dell’epifania le manca una dimensione, la profondità del tempo. La foto coglie lo spazio, ma del tempo impressiona solo un attimo. L’epifania è certo un attimo, ma un attimo preparato nel tempo. È suscitata da una tua particolare disposizione, da una tua sensibilità in quel momento a cogliere “presenze”, non so come altro chiamarle, che popolano di senso quello che stai vedendo e vivendo: e questa disposizione può nascere per contrasto (non te l’aspettavi) o per accumulo, dolce o scabro che sia, come quello dannunziano in Maremma o montaliano alle Cinque Terre. Di tutto questo la macchina fotografica non sa nulla. Quando ti affidi non più all’occhio ma all’otturatore lasci fuori tutto ciò che ha condotto nel tempo alla magia, oltre a quello che concorre nello spazio (i profumi, l’umidità, un refolo di vento o un grido lontano, o lo stesso profondissimo silenzio). Come dicevo l’altra sera, la macchina coglie appunto la realtà, mentre l’epifania è la verità. La realtà è l’uno, l’epifania è il molteplice, anzi, è il tutto.
    Ho anche azzardato che siano possibili epifanie a posteriori, che sortiscano dalla foto. Ma la foto in questo caso non è neppure un mezzo, è solo il pretesto per un’operazione tutta mnemonica di trasposizione di altre esperienze. È quindi un atto mentale, sia pure inconscio, del soggetto, mentre l’epifania il soggetto, attraverso i sensi, la subisce.

Credo che a questo punto mi convenga fermarmi: ho ingarbugliato tutto, e non è nemmeno un decimo di quel che avrei voluto dire l’altra sera: gli altri nove me li sono già persi.

Piuttosto, un’altra cosa mi è passata per la testa, mentre scendevo con guida dolce verso Valmadonna. Uno egli amici presenti ti ha definito “l’unico vero maître à penser dell’alessandrino”. Concordo pienamente, e credo di non essere il solo. Ma mi sono anche chiesto: perché Mario è un veritable maître à penser, mentre io, ad esempio, non potrei mai esserlo? (bada, la domanda non era “come posso diventarlo?” perché credo ci si nasca, non ci si diventi, e quindi non c’era invidia, solo curiosità). Bene, prima degli Orti mi ero già dato le necessarie spiegazioni.

Il termine maître in francese ha una vasta gamma di significati, che sfumano in italiano da “padrone” a “maestro”. Maestro è colui che insegna a pensare, conduce a riflettere, non dispensa pillole di saggezza e non spaccia dosi di pensiero. Tu incarni questo primo significato, perché anche quando non usi l’interrogativo poni delle domande, e non scolpisci risposte: al più le suggerisci, ma con l’accortezza di renderle talmente personali da implicare “questa è la mia risposta. Ora, per favore, cercatene una tua”. Nel mio caso, invece, prevale la sfumatura “padronale”. Sciorino pensieri, ma non aiuto affatto a pensare. Se avessi fatto io quella presentazione, le cose che ho espresso ora le avrei dette nella stessa forma asseverativa, e gli astanti, invece di andarsene con la testa piena di stimoli, avrebbero pensato: “Come parla bene”, oppure “Che coglione!”, e sarebbe finita lì. Anch’io dico “questa è la mia risposta”, ma con un tono che sembra (non è così, ma so che lo sembra) sottintendere, “e della vostra non mi importa un fico”. Che non è esattamente il modo migliore per stimolare qualcuno a pensare.

Ripeto, non me ne faccio un problema, mi sono semplicemente data una spiegazione. Penso tra l’altro che tu sia un maître à penser proprio perché non sai di esserlo, e se lo sapessi non ci crederesti, o addirittura ti darebbe fastidio. Ma non ti preoccupare: sono i profeti o i messia a fare danni, a sguinzagliare discepoli. I maître, per loro e nostra fortuna, hanno solo amici.

A presto, Paolo.

P.S. Avevo scritto questa lettera “a mano”, ma ho poi sentito la necessità di trascriverla sul computer. È un sintomo, credo, e piuttosto grave: dice di una dipendenza, della perdita di confidenza nel rapporto diretto, o quasi, tra cervello e carta. Queste pagine rischiano di essere delle istantanee, invece che degli schizzi. À bientôt.

 

Caro Paolo.
ti ringrazio per le parole molto belle e gratificanti; soprattutto per l’attenzione portata agli argomenti, ai contenuti. E chi se lo ricordava più un atteggiamento di questo tipo? Devo risalire al tempo della mia prima giovinezza per ricordare un tale interessamento al dialogo e alla discussione (poi un giorno o l’altro mi spiegherai come hai fatto a preservare, per tanto tempo e ancora oggi, questa enclave di comportamento adolescenziale dove vige tuttora la morale di Kant e dell’Intrepido).

Ammiro anche molto la tua facilità di scrittura e come si accompagna costantemente alla qualità. Non mi stupisco allora della gran mole di scritti che hai scritto, come spieghi nel secondo pezzo del libretto.

Ciò, a dire la verità, non ti esimerebbe dal pubblicare almeno un’antologia, senza venire meno alle tue opinioni su dilettantismo e professionismo. A me pare che i tempi siano maturi, anche perché questa raccolta sembra già costituirla in piccolo.

Un Repetto secondo Repetto, per argomenti: didattica, Ego, etica, evoluzionismo (la e mi pare predominante), padre, viaggi, “(così) vittime di ogni attualità possibile” (questa è di De Piaz) ecc. Una cosa come i Sillabari di Parise, ma con più attenzione alla giustificazione di sé e della propria storia (vedi sopra).

Pensaci seriamente, nel frattempo ti auguro buona settimana.
Mario