Ritratti di famiglia

La storia è una galleria di quadri,
dove ci sono pochi originali e molte copie.

Ritratti di famiglia copertinaIn concomitanza con la mostra-rassegna delle loro attività (la prima, e con ogni probabilità anche l’unica) i Viandanti delle Nebbie offrono ai “followers” una strenna natalizia. L’idea iniziale prevedeva una plaquette sul modello dei vecchi calendarietti profumati dei barbieri, per i quali proviamo tanta nostalgia (per i libretti, ma anche per i barbieri): poi abbiamo optato per una linea meno frivola.
Distribuiremo quindi cinquanta libretti (il che significa presumere, molto ottimisticamente, un numero di lettori doppio rispetto a quelli del Manzoni) che vogliono suggerire da dove arrivano i Viandanti, chi c’è idealmente alle loro spalle. Certi dell’impunità, perché quasi tutti gli interessati non sono più in vita, ci siamo permessi di vantare nobili ascendenze.
Rispetto a molti dei personaggi evocati i gradi di separazione sono almeno quattro o cinque. Il sesto ci avrebbe portato direttamente a Gesù, e ci pareva un tantino esagerato. E tuttavia …

03 Quadri in mostraL’albero genealogico dei Viandanti è fittissimo e composito. Risalendo di due secoli (non abbiamo voluto andare oltre, era già abbastanza complicato così) si incontrano un po’ tutte le tipologie e le varietà umane: scrittori, artisti, esploratori, viaggiatori, rivoluzionari, filosofi, storici, fumettisti, ecc…). In un modo o nell’altro coloro che abbiamo rintracciato hanno contribuito a indicare percorsi, a suggerire svolte, a portare ristoro e a orientarci nella nebbia. Non sono gli unici, naturalmente, perché la nostra è una famiglia molto allargata. Potremmo citarne almeno altrettanti, e anzi, quella dei gradi meno prossimi di parentela potrebbe già essere un’idea per una strenna futura.

Abbiamo volutamente omesso ogni indicazione biografica o bibliografica relativa ai personaggi presentati. Il bello del gioco sta proprio qui: ciascuno potrà fare eventuali ricerche di approfondimento per conto proprio.
Questo è lo spirito dei Viandanti.

Nella Galleria non hanno trovato posto figure femminili. Chiamatelo maschilismo, se volete, ma di fatto non ci è venuta in mente alcuna protagonista significativa dei nostri percorsi culturali. Questo non significa che non abbiamo incontrato donne eccezionali: significa solo che queste donne non hanno lasciato il segno. Per un difetto nostro di sensibilità, indubbiamente: ma ci sembrava terribilmente ipocrita inserirne qualcuna solo in ossequio al politicamente corretto.01a Tin Tin

P.s: Il fatto che Tintin o Milù compaiano sia in prima che in quarta di copertina non è casuale: sono tra gli antenati più nobili, non potevano mancare all’appello.

04 Bustin in mostra

Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo

Isaiah Berlin

Camillo Berneri

Renzo Calegari

Albert Camus

Nicola Chiaromonte

Stig Dagermann. 12

Charles Darwin

Franz De Waal

Hans Magnus Enzensberger

Patrick Leith Fermor

Caspar David Friedrich

Piero Gobetti

Knut Hamsun

William Henry Hudson

Alexander von Humboldt 20

Pëtr Kropotkin

Furio Jesi

Toni Judt

Gustav Landauer

Giacomo Leopardi

Primo Levi

Jack London

Herman Melville

Albert Frederic Mummery

George Orwell

Hugo Pratt

Élisée Reclus

Mario Rigoni Stern

Albert Robida

J.D. Salinger

Camillo Sbarbaro

Erwin Schrödinger

Johann Gottfied Seume

George  Steiner

Robert Louis Stevenson

Henry David Thoreau

Sebastiano Timpanaro

Alexis De Tocqueville

Sergio Toppi

Alfred Wallace

Charles Waterton

Titn Tin con bandiera dei pirati con sfondo uniforme

Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo

08 Ken Parker06 Milazzo05 BerardiHo impugnato il fucile per tutta la vita, eppure, il mio popolo è stato distrutto, la mia sposa torturata a morte…
Se mio figlio vivrà dovrà trovare un altro modo di combattere…Addio, “Lungo fucile” …

Isaiah Berlin

12 Isaiah BerlinGarantire la libertà ai lupi significa condannare a morte le pecore.

Non esiste alcuna istanza primaria in base a cui la verità, una volta scoperta, debba per forza essere anche interessante

11 Isaiah Berlin

Camillo Berneri

14 Camillo BerneriL’anarchismo è il viandante che va per le vie della Storia, e lotta con gli uomini quali sono e costruisce con le pietre che gli fornisce la sua epoca. Egli si sofferma per adagiarsi all’ombra avvelenata, per dissetarsi alla fontana insidiosa. Egli sa che il destino, che la sua missione è riprendere il cammino, additando alle genti nuove mete.

 

16 Camillo Berneri

Renzo Calegari

17 Renzo CalegariQuesta storia è finita come doveva, con dei vincitori e dei vinti … il mio guaio è che non appartengo né agli uni né agli altri.

19 Renzo Calegari

Albert Camus

21 Albert CamusPerché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime. Bisogna che si cambi in esempio.


Nicola Chiaromonte

25 Nicola ChiaromonteQuando giunge l’ora in cui la morte comincia a guardarci negli occhi con una certa continuità, e quindi noi lei, se non vogliamo distogliere lo sguardo e far finta che tutto è come prima e non c’è niente da cambiare, la domanda che per pri-ma ci si articola nella mente è: Che cosa rimane?… Rimane, se rimane, quello che si è, quello che si era: il ricordo d’esser stati “belli”, direbbe Plotino… Rimane, se rimane, la capacità di mantenere che ciò che è bene è bene, ciò che è male è male, e non si può fare che sia diversa-mente (e non si deve fare che appaia diversamente).

24 Nicola Chiaromonte

La nostra non è un’epoca di fede, ma neppure d’incredulità. È un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine. 

Stig Dagermann

26 Stig DagermanLe auguro due cose che spesso ostacolano il successo esteriore e hanno tutto il diritto di farlo perché sono più importanti: l’amore e la libertà.

  27 Stig Dagerman

L’inconfutabile segno della mia libertà è che il timore arretra e lascia spazio alla calma gioia dell’indipendenza. Sembra che io abbia bisogno della dipendenza per provare infine la consolazione d’essere un uomo libero, e questo sicuramente è vero.

 

Charles Darwin

30 Charles DarwinNella lunga storia del genere umano (e anche del genere animale) hanno prevalso coloro che hanno imparato a collaborare ed a improvvisare con più efficacia.

  

 

32 Charles Darwin

Lo stadio più elevato di cultura morale si ha quando riconosciamo che dovremmo controllare i nostri pensieri.

 

Franz De Waal

33 Franz de WaalTutti sanno che gli animali hanno emozioni e sentimenti, e che prendono decisioni simili alle nostre. Gli unici a fare eccezione, sembrerebbe, sono alcuni universitari. 

35 Franz de Waal

Tutto conferma la mia visione della morale “venuta dal basso”. La legge morale non è né imposta dall’alto, né dedotta da principi accuratamente razionalizzati, ma nasce da valori ben radicati, presenti da tempo immemorabile. Il più fondamentale deriva dal valore della vita collettiva per la sopravvivenza. Il desiderio di appartenenza, la voglia di capirsi, di amarsi e di essere amati ci spingono a fare tutto ciò che possiamo per restare nel miglior rapporto possibile con le persone dalle quali dipendiamo.


Hans Magnus Enzensberger

38 Han Magnus EnzesbergerLa televisione è puro terrorismo. La parola scompare, e con la parola ogni possibilità di riflessione.

39 Han Magnus Enzesberger e Umberto Eco

Negli ultimi duecento anni le società più evolute hanno suscitato attese di uguaglianza che non si possono soddisfare; e al contempo hanno fatto sì che ogni giorno per ventiquattro ore la disuguaglianza venga dimostrata su tutti i canali televisivi a tutti gli abitanti del pianeta. Ragione per cui la delusione umana è aumentata con ogni progresso.

Al perdente, per radicalizzarsi, non basta quello che gli altri pensano di lui, siano essi concorrenti o sodali… Egli stesso deve metterci del suo; deve dirsi: io sono un perdente e basta. L’estinzione non solo di altri, ma anche di se stesso, è la sua soddisfazione estrema.

 

Patrick Leith Fermor

44 Patrick Leith FermorUna magica pace vive nelle rovine dei templi greci. Il viaggiatore si adagia tra i capitelli caduti e lascia passare le ore, e l’incantesimo gli vuota la mente di ansie e pensieri molesti e a poco a poco la riempie di un’estasi tranquilla.

45 Patrick Leith FermorNon si parte per andare da nessuna parte senza aver prima di tutto sognato un posto. E viceversa, senza viaggiare prima o poi finiscono tutti i sogni, o si resta bloccati sempre nello stesso sogno.

 

Caspar David Friedrich

47 Caspar David friedrichL’unica vera sorgente dell’arte è il nostro cuore, il linguaggio di un animo infallibilmente puro. Un’opera che non sia sgorgata da questa sorgente può essere soltanto artificio.

 

49 Caspar David friedrichPerché, mi son sovente domandato, scegli sì spesso a oggetto di pittura la morte, la caducità, la tomba? È perché, per vivere in eterno, bisogna spesso abbandonarsi alla morte.


Piero Gobetti

52 Piero GobettiIl fascismo è il governo che si merita un’Italia di disoccupati e di parassiti ancora lontana dalle moderne forme di convivenza democratiche e liberali, e che per combatterlo bisogna lavorare per una rivoluzione integrale, dell’economia come delle coscienze.

51 Piero Gobetti

Nessun cambiamento può avvenire se non parte dal basso, mai concesso né elargito, se non nasce nelle coscienze come autonoma e creatrice volontà rinnovarsi e di rinnovare.

Knut Hamsun

53 Knut HamsunQuando parlo con un uomo, non ho bisogno di guardarlo per seguire esattamente quello che dice; sento subito se egli mi dà a bere qualche cosa o me ne nasconde qualche altra; la voce, credetemi, è un apparecchio pericoloso

54 Knut Hamsun

  “Amo tre cose”, dico allora.
“Amo il sogno d’amore di un tempo, amo te e amo quest’angolo di terra.”
“E cosa ami di più?”
“Il sogno.”

 

William Henry Hudson

57 William Henry HudsonProvo un sentimento d’amicizia verso i maiali in generale, e li considero tra le bestie più intelligenti. Mi piacciono il temperamento e l’atteggiamento del maiale verso le altre creature, soprattutto l’uomo. Non è sospettoso o timidamente sottomesso, come i cavalli, i bovini e le pecore; né impudente e strafottente come la capra; non è ostile come l’oca, né condiscendente come il gatto; e neppure un parassita adulatorio come il cane. Il maiale ci osserva da una posizione totalmente diversa, una specie di punto di vista democratico,

58 William Henry Hudson


Alexander von Humboldt

61 Alexander von HumboldtCi sono popoli più acculturati, avanzati e nobilitati dall’educazione di altri, ma non esistono razze più valide di altre, perché sono tutte egualmente destinate alla libertà.

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La visione del mondo più pericolosa di tutte è quella di coloro i quali il mondo non l’hanno visto.

 

Pëtr Kropotkin

65 Petr KropotkinL’evoluzione non è lenta e uniforme come si vuol sostenere. Evoluzione e rivoluzione si alternano, e le rivoluzioni – i periodi cioè di evoluzione accelerata – appartengono all’unità della natura esattamente come i periodi in cui l’evoluzione è più lenta.

 

Non appena avrai scorto un’ingiustizia e l’avrai compresa – un’ingiustizia nella vita, una menzogna nella scienzao una sofferenza imposta da altri – ribellati contro di essa!  LottaRendi la vita sempre più intensa!

66 Petr Kropotkin

E così tu avrai vissuto, e poche ore di questa vita valgono molto di più di anni interi passati a vegetare.

 

 Milioni di esseri umani hanno lavorato per creare questa civiltà, della quale oggi andiamo gloriosi. Altri milioni, sparsi in tutti gli angoli del mondo, lavorano per mantenerla. Senza di essi, fra cinquanta anni non ne rimarrebbero che le rovine.

Furio Jesi

67 Furio JesiLa cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche  Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire. La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra.

68 Furio Jesi

Toni Judt

71 Toni JudtIl problema è che i socialisti hanno sempre nutrito una fiducia incondizionata nella razionalità degli uomini.

70 Toni Judt

Lo stile materialista ed egoísta della vita contemporánea non è inerente alla condizione umana. Gran parte di quello che a noi pare “naturale” data dalla decade del 1980: l’ossessione per la creazione di ricchezza, il culto della privatizzazione e del settore privato, le crescenti differenze tra ricchi e poveri. E, soprattutto, la retorica che li accompagna: un’acrítica ammirazione per i mercati sregolati, il disprezzo per il settore pubblico, l’illusione della crescita infinita.

 

Gustav Landauer

73 Gustav LandauerLo Stato non è qualcosa che si può distruggere con una rivoluzione, dato che esso esprime una condizione, una certa relazione tra gli esseri umani, una modalità del comportamento umano; lo possiamo distruggere solo contraendo altri tipi di relazioni, assumendo altri tipi di comportamento.

 L’anarchia non riguarda il futuro, riguarda il presente; non è questione di ciò che speri, è questione di come vivi.

 


Giacomo Leopardi

74 Giacomo LeopardiPasseggere: Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Venditore: Speriamo.

  La ragione è un lumela Natura vuol essere illuminata dalla ragionenon incendiata. 75 Giacomo Leopardi

Primo Levi

153ab Primo LeviPerché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità? A che serve la memoria?”

 

 Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo.

 

Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra. Ma questa è una verità che non molti conoscono.

156 Primo Levi

Jack London

77 Jack LondonNon era della loro tribù, non poteva parlare il loro gergo, non poteva far finta di essere come loro. La maschera sarebbe stata scoperta e, per altro, le mascherate erano estranee alla sua natura.

78 Jack London

Dalla creazione del mondola barbarie umana non ha fatto un solo passo verso il progressoNel corso dei secolil’abbiamo soltanto ricoperta  con una mano di vernice, nient’altro.


Herman Melville

154 Herman MelvilleNoi non possiamo vivere soltanto per noi stessi. Le nostre vite sono connesse da un migliaio di fili invisibili, e lungo queste fibre sensibili, corrono le nostre azioni come cause e ritornano a noi come risultati.  

157 Herman Melville

Io sono tormentato da un’ansia continua per le cose lontane. Mi piace navigare su mari proibiti e scendere su coste barbare.

156 Herman Melville

Dell’amicizia a prima vista, come dell’amore a prima vista, va detto che è la sola vera.

 

Albert Frederic Mummery

81 Albert Frederic MummeryLa via più difficile alle cime più difficili è sempre la cosa giusta da tentare, mentre i pendii di sgradevole pietrisco vanno lasciati agli scienziati. Il Grépon merita di essere salito perché da nessuna altra parte l’alpinista troverà torrioni più arditi, fessure più selvagge, precipizi più spaventosi.
Assolutamente impossibile con mezzi leali.

 

George Orwell

85 George OrwellSapere dove andare e sapere come andarci sono due processi mentali diversi, che molto raramente si combinano nella stessa personaI pensatori della politica si dividono generalmente in due categorie: gli utopisti con la testa fra le nuvole, e i realisti con i piedi nel fango.

  

Così come per la religione cristiana, anche per il socialismo la peggior pubblicità sono i suoi seguaci.

86 George Orwell

Ciò che le masse pensano o non pensano incontra la massima indifferenzaA loro può essere garantita la libertà intellettuale proprio perché non hanno intelletto.

 

 

Hugo Pratt

88 Hugo PrattQuelli che sognano ad occhi aperti sono pericolosi, perché non si rendono conto di quando i sogni finiscono.

89 Hugo Pratt - Corto Maltese

Forse sono il re degli imbecilli, l’ultimo rappresentante di una dinastia completamente estinta che credeva nella generosità!… Nell’eroismo…

Élisée Reclus

92 Elisée ReclusL’Anarchia è la più alta espressione dell’ordine. 

93 Elisée Reclus

Se noi dovessimo realizzare la felicità di tutti coloro che  portano una figura umana e destinare alla morte tutti coloro che hanno un muso e che non differiscono da noi che per un angolo facciale meno aperto, noi non avremmo certo realizzato il nostro ideale. Da parte mia, nel mio affetto di solidarietà socialista, io abbraccio anche tutti gli animali.


Mario Rigoni Stern

159 Mario Rigoni SternI ricordi sono come il vino che decanta dentro la bottiglia: rimangono limpidi e il torbido resta sul fondo. Non bisogna agitarla, la bottiglia. 

 

163 Mario Rigoni SternDomando tante volte alla gente: avete mai assistito a un’alba sulle montagne? Salire la montagna quando è ancora buio e aspettare il sorgere del sole. È uno spettacolo che nessun altro mezzo creato dall’uomo vi può dare, questo spettacolo della natura.

 

160 Mario Rigoni SternIl tempo, nella vita di un uomo, non si misura con il calendario ma con i fatti che accadono; come la strada che si percorre non è segnata dal contachilometri ma dalla difficoltà del percorso.

 

Albert Robida

96 Albert RobidaMio caro Mandibola – diceva quasi sempre Farandola terminando – abbandono definitivamente ogni idea di riforma sociale, e mi lancio con tutte le vele spiegate, nella più vasta industria. Gli affari, il commercio, ecco ciò che mi occorre; e dal momento che le grandi imprese sono necessarie alla mia salute, avanti con le gigantesche speculazioni commerciali! 

  Il vecchio telegrafo permetteva di comunicare a distanza con un interlocutore. Il telefono permise di sentirlo. Il telefonoscopio superò entrambi rendendo possibile anche vederlo. Che si può volere di più?

99 Albert Robida

J. D. Salinger

100 J D SalingerIo sono una specie di paranoico alla rovescia. Sospetto le persone di complottare per rendermi felice.

 

101 J D Salinger - Il giovane HoldenLa più spiccata differenza tra la felicità e la gioia è che la felicità è un solido e la gioia è un liquido.

 

Camillo Sbarbaro

103 Camillo SbarbaroSe potessi promettere qualcosa
se potessi fidarmi di me stesso
se di me non avessi anzi paura,
padre, una cosa ti prometterei:
di viver fortemente come te
sacrificato agli altri come te
e negandomi tutto come te,
povero padre, per la fiera gioia
di finir tristemente come te.

 

 Nella vita come in tram quando ti siedi è il capolinea.

 Si comincia a scrivere per essere notati, si seguita perché si è noti.

105 Camillo Sbarbaro

Erwin Schrödinger

107 Erwin SchrödingerIl mondo è una sintesi delle nostre sensazioni, delle nostre percezioni e dei nostri ricordi. È comodo pensare che esista obiettivamente, di per sé. Ma la sua semplice esistenza non basterebbe, comunque, a spiegare il fatto che esso ci appare.

Se questi dannati salti quantici dovessero esistere, rimpiangerò di essermi occupato di meccanica quantistica.

  106 Erwin Schrödinger

Johann Gottfied Seume

110 Johann Gottfied SeumeCamminare è l’attività più libera e indipendente, niente vi è di peggio che star seduti troppo a lungo in una scatola chiusa. 

113 Johann Gottfied Seume

In tutta la mia vita non mi sono mai abbassato a chiedere qualcosa che non abbia meritato, e nemmeno chiederò mai quel che ho meritato finché esistono in questo mondo tanti mezzi di vivere onestamente: e quando poi anche questi finissero, ne resterebbero alcuni altri per non vivere più.

115 Johann Gottfied Seume

 

George  Steiner

116 George SteinerTutta la metafisica è un ramo della letteratura fantastica.

Un genio degli scacchi è un essere umano che concentra doni mentali ampi e poco compresi, e lavora su un’impresa umana alla fine insignificante.

L’etichetta di homo sapiens, a parte pochi casi, probabilmente è solo un’infondata millanteria.

120 George Steiner

Robert Louis Stevenson

121 Robert Louis StevensonNon chiedo ricchezzené speranze, né amorené un amico che mi comprenda; tutto quello che chiedo è il cielo sopra di me e una strada ai miei piedi.
Io non ho viaggiato per andare da qualche parte, ma per il gusto di viaggiare.
La questione è muoversi.

122 Robert Louis Stevenson

La politica è forse l’unica professione per la quale non viene ritenuta necessaria alcuna preparazione specifica.


Henry David Thoreau

125 Henry David ThoreauNon c’è valore nella vita eccetto ciò che scegli di mettere in essa e nessuna felicità in nessun posto eccetto ciò che gli apporti tu.

126 Henry David Thoreau

Sebastiano Timpanaro

128 Sebastiano TimpanaroScrivere significa svolgere un ragionamento che deve servire a illuminare un problema e a convincere delle intelligenze. Senza esibizioni, senza narcisismi, senza trucchi o effetti speciali. Seguendo la logica e le procedure della ragione, senza gli orpelli della retorica e senza gli appelli alle emozioni. Chi scrive offre al lettore la propria coerenza di ragionamento e lo invita ad analoga coerenza.


Alexis De Tocqueville

135 Alexis De TocquevilleSe cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente all’infanzia; ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi. Non potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare e la pena di vivere?

137 Alexis De Tocqueville 

In una rivoluzione, come in un raccontola parte più difficile è quella di inventare un finale.

 

Sergio Toppi

138 Sergio ToppiIo detesto essere chiamato artista: sono disciplinato, come tutti quelli che fanno fumetti. Considero il fumetto un lavoro molto artigianale, in certi casi di ottimo livello, ma sempre artigianale. È chiaro che non siamo pelatori di patate, è un lavoro per cui occorre una certa sensibilità, ma il fumetto rispetto a quello che viene considerato la creazione artistica è molto più severo.

 

139 Sergio ToppiIl suo lavoro tende alla perfezione, per semplice senso del dovere. Il dovere di essere sempre più bravo, il dovere di continuare ad imparare, perché non si finisce mai d’imparare a questo mondo, specie per chi si è assunto l’incarico di creare immagini, di mettere la propria fantasia e le proprie risorse al servizio degli altri.

 

Alfred Wallace

142 Alfred WallaceQuesta progressione, per piccoli passi, in varie direzioni, ma sempre controllata ed equilibrata dalle condizioni necessarie, soggette alle quali solo l’esistenza può essere preservata, può, si crede, essere seguita in modo da concordare con tutti i fenomeni presentati da esseri organizzati, la loro estinzione e successione nelle epoche passate, e tutte le straordinarie modificazioni di forma, istinto e abitudini che esibiscono.

146 Alfred Wallace

 

Charles Waterton

147 Charles WatertonMentre mi avvicinavo all’orango questi mi venne incontro a mezza strada e ci accingemmo subito ad un esame delle rispettive persone. Ciò che mi colpì più vivamente fu la non comune morbidezza dell’interno delle sue mani. Quelle di una delicata signora non avrebbero potuto essere di una grana più fine. Egli si impossessò del mio polso e scorse con le dita le vene azzurrine che vi si trovavano; io per parte mia, mi ero perso nella contemplazione della sua enorme bocca prominente. Con la massima cortesia egli lasciò che gliela aprissi, cosicché potei esaminare a mio bell’agio le sue magnifiche file di denti. Poi ci mettemmo l’un l’altro una mano intorno al collo, restando per un po’ in questa posizione.

Tin Tin si avvia

Che belle figure!

di Paolo Repetto, 8 gennaio 2021

Ho pensato questo intervento come un modestissimo omaggio a Mario Mantelli, per fargli sapere, dovunque sia ora, che mi manca molto la sua compagnia ma che la sua lezione non è andata del tutto perduta. L’argomento di cui parlo ricorreva puntuale nei nostri incontri e nelle lunghe flâneries pomeridiane, e la naturalezza e l’umiltà con la quale Mario mi faceva partecipe delle sue straordinarie conoscenze e delle riflessioni che ne ricavava riuscivano ogni volta a stupirmi. Provo ad immaginare cosa avrebbero potuto diventare queste considerazioni se filtrate dalla sua penna (perché con quella scriveva rigorosamente le sue cose), solo per rendermi conto che in realtà lo aveva già fatto, e che proprio da ciò discende la mia voglia di riprenderle. Temo che nelle mie mani verrà fuori solo una brutta copia delle nostre conversazioni; ma credo che a Mario non spiacerà comunque.

1. Se vi raccontano che invecchiando si torna bambini, non credeteci. Non so se sarebbe bello, non ne sarei tanto sicuro, comunque non è così. Al più si rimbambisce un po’, e i bambini tutto sono tranne che rimbambiti. E poi, il loro sguardo è concentrato per i primissimi anni sul presente e subito dopo sul futuro: mentre il nostro non può che essere rivolto al passato, e non è davvero la stessa cosa.

Accade semmai di ripensare molto più spesso alla propria infanzia, mentre si tende a dimenticare tutto ciò che c’è in mezzo. A me, almeno, capita questo. E non credo si tratti di infantilismo. Non rievoco quel periodo sull’onda della malinconia nostalgica, o perseguitato da cupi retaggi del passato: per quanto ne ricordo è stata un’infanzia serena, non ho nulla da recriminare, mi è andata bene così. No, torno invece volutamente indietro per cercare spiegazione del mio modo successivo di pormi nei confronti della vita. In realtà, ho l’impressione di non fare altro da sempre. Insomma, provo a capire quanto e come una disposizione naturale, genetica, senz’altro già molto forte (anche quella, peraltro, tutta da indagare) sia stata rafforzata e implementata, o magari per certi aspetti anche frenata, dalle esperienze “culturali” (libri, film, incontri, accadimenti) maturate in quel primo periodo della mia esistenza.

Le rimpatriate infantili mi hanno convinto che un peso decisivo sullo sviluppo di un’attitudine sognatrice e anarchica (intesa però alla Reclus: per il quale “l’anarchia è la più alta espressione dell’ordine”) lo abbiano avuto le immagini. Lo hanno per tutti, naturalmente, ma credo che nel mio caso siano state davvero determinanti (al contrario, ad esempio, dei suoni). Da piccolo sognavo di diventare un disegnatore – oggi si direbbe un grafico – e provavo nei confronti delle illustrazioni e delle immagini in genere un’attrazione straordinaria e minuziosa: non ne ero semplicemente affascinato, le guardavo già con occhio istintivamente critico. Prima ancora che il soggetto, a colpirmi era il modo in cui veniva trattato, “lo stile” della rappresentazione (e successivamente, col fumetto, la congruenza tra questa e la narrazione). Ci sono favole di Andersen, ad esempio, che non ho letto fino a trent’anni solo perché le illustrazioni che le accompagnavano mi riuscivano indigeste. Quando invece trovavo di mio gradimento un tratto particolare, o l’uso del colore, a partire da quelle figure immaginavo tutto il resto della storia, o ne costruivo una mia, intervenendo anche pesantemente sul soggetto, sulla trama e sulla sceneggiatura. E a volte non mi limitavo ad immaginarla, ma le davo corpo nei disegni “neolitici” che ho sparso per anni a margine dei miei primi libri e in una infinità di quaderni.

La fascinazione poteva nascere da qualsiasi tipo di immagine: quelle sulle scatole tedesche di biscotti della zia, quelle che illustravano il primo libro di lettura o le favole dei Grimm, quelle dei primissimi fumetti, o delle raccolte di figurine, o dei manifesti dei film. Le ho tutte ancora ben presenti, nitide: e il criterio estetico di fondo è rimasto anche in seguito pressoché invariato: volevo contorni netti e ben definiti, colori uniformi. Addirittura non mi spiaceva un certo calligrafismo. Col tempo quelle scelte di gusto si sono poi tradotte in una attenzione persino maniacale alle “confezioni” (le copertine e il tipo di rilegatura dei libri, ad esempio), ma anche alla sobrietà e all’equilibrio negli arredi, nell’abbigliamento, nei comportamenti. Sono l’opposto del dandy, vesto anzi in maniera ordinaria, abito in una casa spartana (nel senso che oltre ai miei scaffali e ai volumi che ospitano – parecchi – c’è ben poco) e reputo sacrosanta la regola per la quale la vera eleganza si definisce in negativo, sta in ciò che non si nota affatto, anche se inconsciamente lo si percepisce.

Le immagini che si sono scolpite nella mia memoria avevano quindi queste caratteristiche: erano precise, chiare, semplici, dirette, e malgrado ciò, anzi, proprio per questo, possedevano una grande forza evocativa. Come ho già detto, non volevo che mi raccontassero una storia: dovevano soltanto darmi le coordinate di base per un percorso che poi sarebbe stato tutto mio. Ho addirittura scoperto, a distanza di sessanta e passa anni, che alcune fiabe non erano affatto come le ricordavo: in realtà ricordavo la rielaborazione che ne avevo tessuto io.

Non sto però accampando una sensibilità anomala alle immagini (semmai, come vedremo, solo un po’ particolare, e comunque precoce). Non era eccezionale perché la mia generazione, e le ultime due o tre che l’hanno preceduta, quelle per intenderci che hanno vissuto l’infanzia tra l’esplosione della letteratura popolare illustrata, nel diciannovesimo secolo, e l’ultima stagione pre-televisiva, si sono formate essenzialmente attraverso quelle, sono state sommerse dalla loro crescente offerta, dal moltiplicarsi delle fonti dalle quali arrivava lo stimolo visivo: testi scolastici, manifesti, libri e giornali sempre più illustrati, diorami, mostre ed esposizioni. Ho quindi sognato sulle figure assieme a moltissimi altri.

Abituati come siamo, oggi, a vivere costantemente immersi nello scorrere delle immagini, dubito che ci rendiamo davvero conto di quanto tutto questo abbia cambiato (e continui a cambiare) la nostra percezione del mondo. Ogni rappresentazione figurativa (un disegno, un dipinto, a volte anche una fotografia) semplifica e al tempo stesso enfatizza la realtà: nel senso che deve per forza schematizzarla e “addomesticarla”, ma al tempo stesso la apre ad una gamma infinita di interpretazioni, mentre la realtà ne impone una sua. Ora, la rappresentazione è il fondamento stesso della “cultura”: la storia di quest’ultima è tutto sommato la storia di come l’uomo si è rappresentato il mondo, ovvero di come si è posto “fuori” dal mondo, per coglierlo dall’esterno (magari poi continuando a cercare di rientrarci, attraverso modalità di conoscenza magiche e intuitive), per anticiparlo, per memorizzarlo, per rappresentarlo, per sopravviverci e da ultimo per arrivare a dominarlo. L’evento “rivoluzionario” si è dato una volta per tutte al momento del distacco originario, quando gli uomini hanno cominciato a porre tra sé e il mondo una distanza che consentisse di “guardare” quest’ultimo, e tutto quel che è venuto dopo è sviluppo, o se si vuole deriva, di questo atto primigenio (il “peccato” biblico).

Nel corso della storia umana questa attitudine ha conosciuto vari “perfezionamenti”, e in alcuni momenti in particolare il cambiamento è stato radicale. Il più prossimo a noi tra questi momenti risale alla seconda metà del quindicesimo secolo, quando sono comparse le mappe e i libri a stampa. Le prime, che si portavano immediatamente appresso il reticolo delle coordinate geografiche, il mondo cercavano di descriverlo per ingabbiarlo: ma nel contempo individuavano ampi spazi bianchi, inesplorati, paurosi e invitanti al tempo stesso. I secondi allargavano in maniera esponenziale gli utenti delle nuove conoscenze. E introducendo apparati iconografici sempre più accattivanti ampliavano gli orizzonti della fantasia: l’immaginazione ha bisogno dell’immagine, che apre ad una infinità di universi e storie paralleli.

Fino a tutto il Settecento, però, a godere di questa rafforzata stimolazione visiva erano pochi fortunati, coloro che avevano accesso ai testi miniati, o vivevano in palazzi con gli interni affrescati, o ricchi di quadri: a tutti gli altri rimanevano solo la statuaria pubblica e l’iconografia religiosa – e rispetto a queste è evidente che gli spazi di libera interpretazione erano pochini (e a coloro che magari se li ritagliavano non conveniva farne parola). In genere chi deteneva il potere era anche in grado di dettare la direzione nella quale la fantasia doveva muoversi. In sostanza: le immagini miravano ad imitare il più possibile la realtà, anche quando si voleva rappresentare una trascendenza. Era un modo per legittimare l’esistente, l’ordine e i rapporti vigenti. Ancoravano il trascendente al reale, e anche se talvolta il genio artistico le faceva staccare da terra creavano una connessione diretta e obbligata tra il visibile e l’invisibile. O almeno, l’intento era quello. Ai fini del mio discorso, però, la cosa più rilevante è che non si trattava ancora di immagini mirate alla gioventù.

Le cose sono cambiate nel periodo cui accennavo più sopra. La coscienza del fascino che le figure riescono ad esercitare c’era già da un pezzo – ne sa qualcosa la Chiesa, che in questo campo è sempre stata all’avanguardia, e ne sono testimoni le feroci resistenze iconoclaste, fino al Savonarola e alla Riforma. Mancavano invece gli strumenti per una diffusione generalizzata e al tempo stesso tenuta sotto controllo. Nell’Ottocento si danno nuove motivazioni ideologiche (il nazionalismo, il culto dello stato, ecc..) ed economiche (la persuasione alla produttività e al consumo) e si creano le condizioni tecniche per sfruttare appieno questo fascino, esaltandone il potenziale “educativo”. Ciò va necessariamente a coinvolgere anche le fasce d’età in precedenza trascurate, l’infanzia e la prima giovinezza, alle quali viene riservato uno specifico spazio iconografico.

Mi occuperò proprio di questo. Ma solo dopo aver anticipato che a partire dalla fine degli anni cinquanta del secolo scorso l’avvento della televisione ha nuovamente del tutto scombussolato le modalità nelle quali percepiamo le immagini, mentre quello della musica “portatile” ne ha scalzato l’assoluta priorità. Le immagini con le quali già i nostri figli sono cresciuti (per non parlare dei nostri nipoti, e dell’ulteriore rivoluzione creata dai nuovi media) trascorrono rapide, non concedono il tempo di fissarle nella mente e nella memoria e costringono a concentrarsi sulla storia narrata, a seguirle passivamente nel loro percorso. Inoltre sono legate costantemente ai suoni, altro vincolo che costringe ad una lettura e ad una interpretazione obbligata; sono recepite principalmente al di fuori di un contesto “sacrale”, quale poteva essere ancora, ad esempio, quello della sala cinematografica di un tempo; e infine sono mescolate e sovrapposte ad altre, che appartengono alla dimensione profana della pubblicità, e che spesso sono più suggestive e accattivanti di quelle che si era scelto di vedere, perché create proprio per stordire e calamitare l’attenzione. Insomma, ci sarebbe materia per tutto un trattato di sociologia dell’immagine, e non è certo questa la sede. Era solo per chiarire che ciò di cui vorrei parlare ha un suo contesto temporale limitato e ben preciso.

In realtà, preciso non è forse il termine più adatto. Al di là del fatto che il tipo di attenzione alle immagini al quale mi riferisco è naturalmente variato nel corso di un secolo e mezzo – caratterizzato tra l’altro da innovazioni continue –, perché col mutare delle condizioni materiali e spirituali cambia anche il modo e l’interesse con cui guardiamo le cose, c’erano poi ragioni ambientali oggettive a condizionarlo: vasti strati sociali sono rimasti ad esempio ancora a lungo esclusi da un rapporto intenso con le immagini, mentre taluni ambienti hanno continuato ad osteggiare questo rapporto per preclusioni di carattere religioso o pedagogico. Insomma, anche il periodo aureo della fascinazione delle immagini ha una sua storia, che corre diversa nei tempi e nei luoghi.

Detto questo, rimane fondamentale il fatto che ogni storia individuale predispone poi a cogliere e a vivere le cose in maniera diversa. È una considerazione ovvia, ma è quella che sfugge ai grandi affreschi di costume, nei quali la particolarità è necessariamente sacrificata al quadro generale, e si parla in termini di generazioni o di grandi gruppi: mentre sono proprio le sfumature, all’interno di una attitudine comune, a rivelarci le differenze più significative.

Vorrei soffermarmi appunto su queste, nella fattispecie prendendo le mosse dalla mia singolarità, come essa emerge dal confronto con altre testimonianze di una speciale relazione con le immagini: quelle di autori che tale relazione l’hanno esplicitamente raccontata e analizzata e quelle più dirette di amici come Mario, dalla consuetudine coi quali sono emerse tante condivisioni, a volte inattese e sorprendenti, ma anche le spie di esperienze infantili e di riletture successive decisamente difformi.

Parto dunque da quella che possiamo considerare una attitudine comune transgenerazionale, premettendo che tutto ciò di cui andrò a parlare si iscrive ancora, almeno idealmente, in un contesto che è stato ben riassunto da Bernard Shaw in Santa Giovanna: “Non c’è niente al mondo di più squisito che un bel libro, con colonne ben ordinate di una ricca scrittura nera, con dei bei bordi e delle miniature elegantemente inserite. Ma al giorno d’oggi la gente invece di ammirare i libri, li legge”.

Io, ancora oggi, i libri prima li ammiro e poi li leggo.

2. A metà Ottocento una scrittrice francese di romanzi e novelle per ragazzi, la Comtesse de Ségur (autrice di almeno venti volumi, che hanno conosciuto una fortuna duratura), già si lamentava col suo editore perché gli illustratori dei suoi libri sembravano viaggiare per conto proprio. (“A quanto pare non si danno nemmeno la pena di leggerli – scriveva – prima di illustrarli”). Anche se le sue rimostranze erano dettate da una presunzione di superiorità autoriale, la Ségur toccava un tasto delicato. È senz’altro vero che gli illustratori sono in fondo degli artisti, e ci mettono del loro. Il fatto è che, anche volendo, non potrebbero tradurre pedissequamente in immagini gli intenti dell’autrice, e il decalage che si crea è in fondo la loro firma. Non si tratta, o meglio, non lo è quasi mai, di una intenzionale rivendicazione d’indipendenza. La distanza sta già tutta nella diversa natura dei due strumenti di trasmissione, la parola, sia pur scritta, e quindi visiva, e l’immagine.

Anche se aveva iniziato a scrivere quasi a sessant’anni, la Ségur era tutt’altro che una zitella acida e permalosa: di bambini se ne intendeva, perché aveva otto figli e venti nipoti, le novelle aveva cominciato a scriverle proprio per loro. Nel caso specifico vedeva giusto: le immagini possono anche seguire tutti i crismi della pedagogia dell’epoca e della iconografia specifica per l’infanzia (ad esempio, il senso infantile delle dimensioni, la gestualità enfatizzata, per rendere esplicite azioni ed intenzioni, la netta distinzione anche nei tratti fisici tra buoni e cattivi, ecc…), ma sono comunque, di per sé, ricche di particolari che rimandano la fantasia ad altro e che in qualche modo contraddicono o si scostano dal discorso del testo. Il che costituisce un valore aggiunto, ma non nella direzione funzionale agli intenti dell’autrice: la quale, ripeto, sia pure entro i limiti della cultura della sua epoca, non era affatto una cariatide passatista. La sua creatura più famosa, la piccola Sophie, è una simpatica peste, tanto da essere stata paragonata a Gianburrasca: e tutti i protagonisti delle sue storie (sarebbe più corretto dire: le protagoniste) vivono in un mondo che offre degli spazi privilegiati di libertà e di creatività, un mondo nel quale gli adulti sono autorevoli, ma non autoritari, accettano di far correre ai bambini dei rischi, ma intanto vigilano responsabilmente sui pericoli da evitare, sono comprensivi nei confronti della trasgressione, ma non per questo mettono in dubbio la necessità di insegnare, sia pure benevolmente, che tra giusto e ingiusto, bene e male, ci sono dei confini, e che le regole vanno rispettate. Insomma, propugnava dei principi etici, nonché delle pratiche educative, che hanno un valore universale ancora oggi.

E tuttavia, la scrittrice avvertiva la distanza tra ciò che le sue storie volevano trasmettere e quel che i giovani lettori, distolti dalla forza delle immagini, alla fine avrebbero recepito. Naturalmente lo scarto è direttamente proporzionale alla qualità, allo stile dell’illustratore: tanto più forte è la personalità e più efficace è il tratto di quest’ultimo, tanto più le immagini acquisteranno una vita e un potenziale evocativo propri. E paradossalmente questo andrà a contrapporsi a qualsiasi intento pedagogico ed edificante. La Ségur per i suoi libri voleva il meglio, e questo era suo malgrado il prezzo da mettere in conto.

3. Ad esaltare l’aspetto libertario e ribelle dell’illustrazione è, settant’anni dopo, Walter Benjamin, non autore in proprio ma vorace lettore e poi collezionista spasmodico di letteratura per l’infanzia. Recensendo l’opera di un suo amico e grande collezionista, Karl Hobrecker (Libri per l’infanzia vecchi e dimenticati) fa propria questa considerazione: “C’è una cosa che salva persino le opere più antiquate, meno libere dal pregiudizio di quest’epoca: l’illustrazione. Quest’ultima sfuggiva al controllo delle teorie filantropiche, e gli artisti e i bambini si sono messi presto d’accordo alle spalle dei pedagogisti”. Che è esattamente ciò che diceva la Comtesse de Ségur, quando parlava di “una sotterranea complicità” tra gli illustratori e il mondo dei bambini: soltanto, qui la complicità viene esaltata, mentre la Ségur la deprecava.

Benjamin non fa che applicare ad un contesto particolare una regola generale, che vale per ogni forma di cultura, anche la più istituzionalizzata. Così come l’illustrazione viene introdotta nei libri per potenziare il valore del testo, fornirgli un supporto visivo che esprima ciò che il testo non può dire, ma finisce poi per assumerne uno autonomo, che può rinviare anche ad altro, persino a ciò che il testo non vorrebbe affatto esprimere (non a caso Benjamin rimarca il valore assieme pedagogico e suscitatore di fantasie degli abbecedari), allo stesso modo ogni forma di cultura esce immediatamente dai binari lungo i quali viene trasmessa. È, per intenderci, la contraddizione intrinseca alla scuola, che nasce per irreggimentare i cervelli e finisce per trasmettere i germi di una autonomia culturale (fermo restando che li trasmette solo a chi la scuola prende sul serio, così come le immagini li coltivano solo in chi davvero le ama).

In cosa consiste il potere “eversivo” che Benjamin attribuisce alle immagini? In un Profilo dedicato all’amico, T. W. Adorno scrive: «Ciò che Benjamin diceva e scriveva sembrava far sue le promesse dei libri di favole per l’infanzia, anziché respingerle con la maturità ignominiosa dell’adulto. […]”. Ovvero, le immagini secondo Benjamin promettono e consentono assoluta libertà, in ciò contraddicendo le intenzioni e le indicazioni interpretative fornite dal testo stesso, quale esso sia. Quando parla di letteratura Benjamin ribadisce costantemente il concetto che “nel regno della lettura chi legge è sovrano”. Tanto più lo è il bambino, che si immerge interamente nella vicenda, si identifica con i personaggi e varca le porte aperte dalle illustrazioni. “Il bambino calca la scena dove vive la fiaba, e drappeggiandosi nei colori ch’egli cattura leggendo e guardando, si trova nel mezzo di una mascherata cui anch’egli prende parte.” Per Benjamin proprio i colori e il linguaggio delle immagini presenti nei vecchi libri illustrati sono decisivi, perché invitano il bambino ad abbandonarsi ai propri sogni. Il che si combina con l’altro grande tema benjaminiano, l’amore per i libri “vecchi e dimenticati” (ma anche con le “rovine” d’ogni sorta): liberata dalla responsabilità di una interpretazione “corretta”, la fantasia può alimentarsi degli “scarti” presenti nell’immagine, di quei particolari apparentemente inutili che i bambini salvano dalla cancellazione e riutilizzano in una personalissima operazione di montaggio.

Tutto ciò contraddice clamorosamente il progetto di condizionamento disciplinare ed etico sotteso sin dall’inizio alla creazione dei libri per l’infanzia. Benjamin ricostruisce le tappe di questo progetto: c’è un primo momento, che possiamo definire “illuministico”, nel quale si mira ad educare “dall’esterno” il bambino guidandone e correggendone passo passo la crescita verso “l’uomo migliore”, il cittadino responsabile e obbediente; ce n’è poi uno successivo nel quale si cerca invece di entrare nella mente del bambino predisponendogli un mondo a sua misura (in questo è implicita anche una critica al metodo montessoriano, che stava conoscendo in quel momento un grande successo ed era considerato all’avanguardia). In pratica, col libro e con le immagini che lo illustrano si completa la costruzione di un mondo infantile a se stante (nel frattempo si creano infatti oggetti e ambienti “adatti” ai bambini). Ciò significa però che ad un certo punto questa fase dell’esistenza andrà chiusa, e che va usata per acquisire comunque gli strumenti per accedere ad un mondo e a una visione adulta.

Ora, tutto questo rientrerebbe in una normalità pedagogica che risale all’età della pietra, se non fosse che Benjamin coglie nella strategia “infantilistica” le spie del modello totalitario: l’identificazione (ma poi, nella sostanza, la creazione) di “bisogni specifici del bambino” mira in realtà a coltivare l’educazione al consumo e a sostituire il consenso all’obbedienza. Per Benjamin i bambini sanno invece benissimo scegliersi gli oggetti adatti a loro e adattarsi agli ambienti, e lo fanno appunto spiazzando l’uso degli oggetti, la lettura delle immagini, l’interpretazione degli ambienti. Certo, lo fanno accedendo ad una esperienza dell’autentico e del diverso che viaggia in direzione diametralmente opposta a quella dell’esistenza borghese: per questo la loro fantasia genuina nasconde un potenziale sovversivo (e qui il potere ci vede altrettanto bene che la Comtesse de Ségur), che appunto va stemperato nelle sdolcinatezze dell’infantilismo.

Benjamin ritiene insomma che la pedagogia moderna miri non a bloccare, ma a incanalare e disinnescare la creatività anarchica del bambino, concedendole una gamma apparentemente vastissima, in realtà pre-selezionata e sterilizzata, di possibilità di esprimersi. Rimane, al di là di tutte le dichiarazioni progressiste di intenti, ancorata all’ideologia dell’“utile”, laddove il bambino nel ricombinare la realtà a suo arbitrio esercita il suo fondamentale diritto di sottrarla a quella schiavitù. E una volta che abbia imparato a farlo, difficilmente potrà essere indotto da adulto ad un atteggiamento differente. Questo potenziale trasgressivo Benjamin lo coglie poi, anche se la cosa potrebbe sembrare paradossale, più nei vecchi libri di favole che in opere moderne in apparenza ispirate appunto alla visione “liberatoria”. In fondo, la sua generazione è già cresciuta con Pinocchio, Alice, Peter Pan, quelli più grandicelli hanno letto Huckleberry Finn, tutti testi concepiti in apparenza “dalla parte del bambino”. Benjamin avverte però che anche queste sono “intrusioni” in un campo dove la fantasia dovrebbe essere lasciata assolutamente libera e sbrigliata: sono anch’esse un modo per giocare d’anticipo, offrendo le varianti fantastiche più ricche e straordinarie, ma pur sempre pensate da adulti per i bambini, e quindi a loro volta egualmente condizionanti.

Benjamin sa bene di cosa parla. Arriva da una esperienza di iniziale entusiasmo e poi di totale disillusione nei confronti della Jugendbewegung, il movimento giovanile, naturista e idealistico, che aveva infiammato i ragazzi tedeschi agli inizi del Novecento e fatto loro intravvedere una liberatoria dimensione di avventura. Il movimento e le sue idealità avevano finito per schiantarsi contro la realtà cruenta della prima guerra mondiale, che i giovani avevano affrontato con un entusiasmo ingannevolmente dirottato dal potere verso il nazionalismo. Di fronte all’assurda carneficina i suoi membri più consapevoli, come appunto Benjamin, si erano resi conto che una vera liberazione poteva arrivare soltanto dal recupero, operato singolarmente e in totale autonomia, dell’innocenza infantile, ovvero di tutto quel potenziale utopico e sovversivo che una pedagogia castrante cercava invece di dissipare o, peggio, di snaturare completamente.

Mi sembra illuminante in proposito il raffronto tra l’idea di una autonomia e centralità dell’esperienza infantile in Benjamin e la “poetica del fanciullino” di Pascoli. Parrebbero esserci diversi punti di contatto, ma a conti fatti risultano ben più significative le differenze. Pascoli afferma, rifacendosi peraltro a Platone, che: “È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi […] ma lagrime ancora e tripudi suoi”. Questo fanciullino si rapporta al mondo attraverso l’immaginazione, e ne scopre quegli aspetti reconditi e misteriosi che “sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione”. Conosce cioè in modo autentico ciò che lo circonda, e lo esprime in un linguaggio che è necessariamente poetico, in quanto racconta un mondo che è percepibile solo dall’intuizione, e non dalla razionalità.

Ora, quel che Pascoli attribuisce alla sensibilità infantile è una capacità di comprensione profonda e reciproca, comune a tutti gli uomini, sulla base della quale diverrebbe possibile la pacificazione di tutti i rapporti. In realtà non parla di una specifica (e irripetibile) disponibilità infantile, ma di un infantilismo del sentire che permane negli adulti, e che quando trova espressione genera poesia. Benjamin non intende questo. La sensibilità infantile è a suo parere soprattutto “scorretta”, e non rimane inalterata al fondo dell’animo degli adulti ma piuttosto crea una disposizione, li abitua ad una modalità di percezione del reale, di sguardo sul mondo, che li porta a contrapporsi alla mentalità borghese e utilitaristica corrente. È evidente che l’interesse di Benjamin per la letteratura infantile è tutt’altro che frutto della recriminazione nostalgica: c’è dietro una vera e propria filosofia politica, che assume a proprio paradigma e laboratorio il mondo incontaminato dell’infanzia.

4. La lezione di Benjamin è stata raccolta soprattutto da autori nati e cresciuti negli anni trenta: ed è interessante vedere l’uso che ne hanno fatto.

Antonio Faeti è senza dubbio il maggiore storico dell’illustrazione italiana (ma non solo). Esistono studi criticamente più approfonditi (c’è, ad esempio, la Storia dell’illustrazione italiana di Paola Pallottino), ma Guardare le figure e La storia dei miei fumetti rimangono in questo campo due caposaldi. Faeti è riuscito a produrre un lavoro documentario estremamente accurato e al tempo stesso a farci rivivere il modo e l’atmosfera in cui lui stesso aveva colto, da fruitore “innocente”, queste immagini. Ci ha poi lavorato sopra per tutta la vita. Leggere i suoi libri significa, anche per chi appartiene alla generazione successiva – quella di chi, come me, è nato immediatamente dopo la seconda guerra –, fare una immersione nel proprio immaginario infantile: è un continuo fuoco d’artificio di riconoscimenti e agnizioni, che permette di rilevare le continuità ma anche le differenze. E dal momento che sono queste a interessarmi, faccio un paio di esempi relativi ai diversi tipi di fascinazione che dalle illustrazioni e dal fumetto possono (potevano?) sprigionare.

Mi ha stupito, in Guardare le figure, trovare l’opera del casalese Vittorio Accornero liquidata in sole quattro righe. Io ho conosciuto il mondo fiabesco di Perrault attraverso le sue illustrazioni, ma prima ancora ero stato affascinato dalle immagini di un calendario capitato chissà come in casa mia, che era poi finito nella mia camera e che ho avuto sotto gli occhi lungo tutta l’infanzia (e oltre). Non so di che anno fosse, perché conservo ancora gelosamente solo le dodici illustrazioni, tratte da fiabe di varie raccolte (Accornero ha illustrato almeno una sessantina di volumi, tra cui gli immancabili fratelli Grimm e Andersen). Faeti sembra rimproverargli un taglio da cartone animato disneyano, o forse il fatto che sia diventato un autore di successo, conosciuto e premiato di qua e di là dall’oceano, attivo anche in settori diversi e marginali all’ambito “artistico”. Di queste possibili “contaminazioni” sapevo nulla, me le ha suggerite solo la sua lettura, ma facendo quattro conti sulle date verrebbe più immediato pensare che sia stato piuttosto Disney a ispirarsi al tratto di Accornero. E comunque: quando le ho viste per la prima volta avevo tre o quattro anni, e quelle immagini nitide, caratterizzate da colori pieni e compatti, ma al tempo stesso delicati, quasi stilizzate nei contorni ben definiti, eppure realistiche, sono state le prime a impressionare la mia mente. Il fatto che in quel caso fossero completamente svincolate da un testo, e che per me lo siano rimaste anche dopo, è risultato senz’altro determinante: ho continuato per anni a costruire a mio arbitrio, in versioni molteplici, il prima e il dopo di quei momenti fermati sulla carta, totalmente libero nella mia immaginazione, perché avevo davanti delle figure prototipiche di principi, orchi, principesse e castelli, un mondo essenziale e pulito: il resto, le ombre, le sfumature, potevo aggiungerle io. Anche quando successivamente ho incontrato artisti sui quali Faeti spende giustamente interi capitoli, come il Carlo Chiostri delle illustrazioni per Pinocchio, il mio immaginario fiabesco è rimasto quello delineato da Accornero. Che era poi del resto lo stesso che ritrovavo negli album delle figurine Lavazza e di quelle Salgari, e poco più tardi in quello delle Giubbe Rosse (rarissimo, a lungo invidiato ad un amico più grande, e avuto poi da lui in regalo quando ha cominciato a coltivare fantasie diverse).

Quasi contemporaneamente agli album è entrato nella mia vita (stavo per scrivere: nella mia vita parallela, ma in realtà i due piani si intersecavano continuamente) un altro protagonista: il Buffalo Bill che usciva in dispense, tradotto negli anni venti e trenta dagli originali americani, e che evidentemente aveva incontrato una grossa fortuna anche nel nostro paese, dal momento che di quella serie furono editate diverse centinaia di titoli. Quei fascicoli arrivavano dal passato, e solo per uno strano giro erano approdati nella bottega da calzolaio di mio padre, in mezzo a fasci di vecchi giornali che venivano usati per incartare le scarpe riparate. Riuscii a salvarli (non servivano per incartare) e ci edificai sopra un’altra buona fetta del mio immaginario.

Le illustrazioni di copertina degli albi di Buffalo Bill. L’eroe del Wild West erano state affidate dall’editrice Nerbini a Tancredi Scarpelli, e quello di Scarpelli è diventato per sempre il mio West. Bill esibiva cappelli Stetson dai cocuzzoli altissimi e arrotondati, stivaloni alla coscia, giacche con le frange, cavalcava mustang con la schiuma alla bocca. E alle spalle aveva sterminate pianure o canyon ripidi e stretti. Nei tratti fondamentali la sua immagine si poneva in continuità con quelle di Accornero, quindi rispondeva perfettamente a ciò che io esigevo. Per il resto, nell’iconografia della pubblicistica popolare dell’epoca ricorrevano una serie di stereotipi. Le figure dovevano essere nitide, per permettere una immediata distinzione dei ruoli, l’azione veniva congelata nel momento di maggiore drammaticità, con i personaggi colti in posture molto teatrali, simili a quelle dell’opera lirica, gli sfondi stessi rimandavano alle scenografie. Era la stessa impostazione già tipica delle illustrazioni che comparivano sul “Giornale Illustrato dei Viaggi” o in quelle dei libri di Verne o di Salgari. Nel caso delle copertine di Buffalo Bill, trattandosi di tavole fuori testo, che non dovevano supportare visivamente la narrazione ma riassumerla e anticiparla, l’effetto teatrale era ancora più ricercato. Comunque, quello stile aveva una sua precisa identità: e infatti l’ho poi immediatamente riconosciuto nella mia prima immersione nel mondo salgariano, in quel “Avventura tra le pelli rosse” che conteneva addirittura trenta illustrazioni di Scarpelli. Non ne ho trovato invece riscontro nei testi, affrontati pochi anni dopo e abbandonati quasi subito: erano davvero troppo gonfi di retorica e poveri di immaginazione, rischiavano di vanificare tutta la mia opera di costruzione del mondo della frontiera.

Cosa mi rimandavano quelle immagini? Intanto, un mondo ordinato, nel quale le parti erano chiare: i buoni, i giusti, i leali da un lato, i malfattori, i cattivi, i traditori dall’altro. Le distinzioni non tenevano conto dell’età, della razza o del ceto, ma solo del coraggio e della viltà. Era un mondo solo apparentemente semplice, perché le dinamiche che si innescavano potevano poi confondere i ruoli e ribaltare le apparenze: ma offriva l’occasione di scelte etiche non ambigue. Ora, tutto questo potrebbe sembrare funzionale a quella pedagogia dell’ordine che Benjamin metteva sotto accusa: in realtà io lo sentivo congeniale perché ci riconoscevo qualcosa del mondo contadino nel quale vivevo, un mondo rozzo ma nel quale i valori sembravano ancora chiaramente definiti, e che già vedevo però giorno dopo giorno sparirmi davanti agli occhi. Le immagini di Scarpelli e di Accornero quel mondo non lo creavano, ma in qualche modo lo rispecchiavano. Il che avvalora paradossalmente proprio la tesi di Benjamin, per la quale i bambini sanno benissimo scegliersi da soli, quale che sia l’offerta, ciò è che loro più “adatto”.

Un altro esempio lo ricavo da La storia dei miei fumetti. Mi ha colpito la lettura che Faeti dà dell’Uomo Mascherato, un personaggio che tanto sembra aver eccitato le fantasie pre-belliche, ma che negli anni cinquanta non era affatto apprezzato, e non solo da me ma un po’ da tutti i miei coetanei. Il motivo di questa disaffezione credo sia da cercarsi nell’improbabilità sia del personaggio, perché uno che si aggira per la giungla o nelle metropoli in calzamaglia rossa e mascherina da notte attorno agli occhi qualche perplessità la suscita, anche in un ragazzino, sia delle vicende e delle loro ambientazioni. Lo stesso Faeti scrive: «Ma “l’Africa fantasma” di Lee Falk o di Ray Moore allude anche alla specificità narrativa di cui è dotato il fumetto in generale: tutte le programmate incongruità che scorgiamo nelle storie dell’Uomo Mascherato, tutti i Bandar che non dovrebbero mai convivere con la Banda Aerea, tutti gli immensi acquari con i pescicani che rimandano ai Sing proprio perché i Sing non dovrebbero possederli, sono l’anima nascosta e vera del fumetto. I buoni frati pellegrini, il buon Togliatti predicatore, le pie signore caritatevoli, gli ispettori scolastici molto aggiornati, insomma, tutte le buone anime che volevano vietarci i fumetti avevano ragione: chi si perde nella savana dei Bandar, la strada di casa non la trova più». Il che in linea di massima è vero: l’impressione è però che negli anni trenta ai fanciulli un po’ più cresciuti andasse davvero bene tutto, purché consentisse loro di distrarsi dai rituali e dall’indottrinamento dei balilla. A noi nati sulle macerie del conflitto si conveniva invece un più sano neorealismo. Ed è anche vero che trasferirsi nella savana dei Bandar è affascinante per chi vive tra l’asfalto e il cemento cittadino, ma lo è già molto meno per chi ha qualcosa di simile attorno a casa. Anziché cercare rifugio in un altro mondo, quello di cui sentivamo noi il bisogno era poter trapiantare, calare le avventure e gli incontri che i fumetti ci promettevano, nel mondo che ci circondava. Ma su questo torneremo.

Ho salutato invece con gioia l’entusiasmo di Faeti per gli Albi d’Oro di Oklahoma. All’epoca sia la vicenda che i disegni mi avevano incantato, malgrado disponessi solo di paio di albi di una serie che ne contava quasi quaranta. Mi mancavano gli antefatti e il prosieguo della storia, e forse proprio questo me li ha fatti amare tanto, così che ho poi continuato a cercarli a lungo (a tutt’oggi: erano molto rari e non sono stati più riediti). In quei due albi, con quei personaggi, c’era però già tanto materiale da imbastirci sopra non una ma mille storie. Ciò che ho fatto regolarmente.

La cosa intrigante è che Oklahoma raccontava il travagliatissimo ritorno a casa, alla fine della guerra di secessione americana, di un ufficiale confederato e di un gruppetto molto eterogeneo che gli si era accodato. Il protagonista avrebbe dovuto appartenere quindi, secondo una lettura “politicamente corretta”, alla schiera dei non giusti, degli schiavisti, aristocratici e ribelli. In realtà la sua si rivelava essere un’aristocrazia di spirito, ciò che gli faceva superare ogni differenza formale e lo portava ad affrontare ogni ingiustizia. Credo sia lì che ho imparato che non esistono cause giuste, ma solo uomini giusti. Ed è una lezione che non ho più dimenticato.

Di Faeti ho condiviso anche il fastidio per le inesattezze. Quando, ad esempio, rileva nel numero 65 degli Albi d’Oro, Il tesoro dell’Isola, “un affronto insopportabile alla memoria di Stevenson: ai personaggi era stata aggiunta Anna, data per figlia del capitano Smollett: una donna nell’isola, una rilettura intollerabile”. O quando, a proposito del numero 111, Tom il vendicatore, dice: “non potevo sopportare che qualcuno, senza una folle ragione tattica o strategica, travestisse da Sioux i nobili e sapienti Navajos delle struggenti città costruite al riparo di grotte immense e scaturite dal Mito”. Sono le stesse idiosincrasie che io coltivavo. Solo che nel mio caso le ho poi estremizzate sino a pretendere dai racconti e dalle immagini (anche in quelli cinematografici) una assoluta verosimiglianza per quanto concerneva ad esempio abitazioni, costumi, armi.

La mia scarsa simpatia per l’uomo mascherato, e addirittura l’insofferenza per i primi supereroi che cominciavano, a metà degli anni cinquanta, a circolare anche in Italia, nasce di lì. Per me le strade dell’utopia sono sempre state lastricate di pietre reali, o almeno verosimili.

5. Certe distanze, non solo generazionali, risultano ancora più evidenti dal confronto con Umberto Eco. Si spiegano senz’altro col fatto che l’infanzia di Eco si è svolta tutta nel periodo pre-bellico, anche se credo non sia solo questo. Faeti centra bene il problema quando parla di “ipoteca generazionale”: “Se questa cui sto lavorando è davvero la storia dei miei fumetti, allora occorre trovare per essa un protettore: è il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset, (guarda caso, uno dei miei santini, n.d.a) perché dalle sue opere ho ricavato quel concetto di generazione al quale faccio riferimento quando accenno a certe date”. Oppure: “Oreste del Buono apparteneva a un’altra generazione, aveva altri amori”.

Sulla sensibilità di Eco per le illustrazioni e per il fumetto non ci piove: come semiologo si è occupato di ogni forma di rappresentazione visiva, e con Apocalittici e integrati ha “sdoganato” ufficialmente il fumetto come espressione culturale, conferendogli una sua dignità specifica. In realtà questo placet arrivava tardi (non certo per colpa di Eco, ma perché il fumetto stava già perdendo nei primi anni sessanta tutta la sua rilevanza “educativa” – sappiamo a vantaggio di chi) e sanciva appunto la dignità di qualcosa che era stato. Ma, soprattutto, l’analisi semiologica che Eco ne sviluppava aveva suo malgrado il sapore di un’autopsia. Negli anni successivi sono stati fatti goffi tentativi di omologare il fumetto agli strumenti pedagogici d’avanguardia (si è arrivati persino agli albi in latino), e questo ha reso evidente che non si era affatto compreso cosa nell’epoca d’oro le strisce disegnate avevano davvero rappresentato, di quale carica eversiva – quella rivendicata appunto da Faeti – fossero portatrici.

Nella mia distanza da Eco come lettore di fumetti e cultore dell’illustrazione non gioca però solo la differenza anagrafica. Mi rendo conto che quando si parla di queste cose non usiamo la stessa lingua perché abbiamo alle spalle storie e culture, e quindi bisogni e aspettative e punti di vista, decisamente diversi. Ma probabilmente è anche questione di carattere, di una disposizione di fondo.

Ne “La misteriosa fiamma della regina Loana” Eco monta un’impalcatura narrativa abbastanza farraginosa (in effetti, come romanzo non è granché), col vero scopo di allestire una vetrina dell’immaginario iconografico giovanile degli anni trenta. Sotto questo aspetto il repertorio messo in mostra è più che esauriente, ed è anche a mio giudizio l’unico motivo per il quale valga la pena leggere il libro. La debolezza dell’impianto porta però allo scoperto il vero spirito col quale Eco affronta l’argomento, che è quello del collezionista e del semiologo, e in subordine quello del sociologo: al contrario che negli scritti di Benjamin, qui il bambino, a dispetto dei tentativi di evocarlo, non lo vedi mai. L’infanzia è rivissuta tutta col senno di poi: di chi ne è uscito da tempo.

Lo dimostra, ce ne fosse bisogno, l’ennesima dissacrazione del libro Cuore (“Dunque, non solo io ma i miei maggiori erano stati educati a concepire l’amore per la propria terra come un tributo di sangue, e a non inorridire ma anzi ad eccitarsi di fronte a una campagna allagata di sangue. […] Tutti sono contro il povero Franti che viene da una famiglia disgraziata. […] Al muro, al muro. Sono quelli come De Amicis che hanno aperto la strada al fascismo.”) Non vorrei tornarci su perché l’ho già fatto troppe volte, ma ne La misteriosa fiamma mi ha infastidito l’allusione ad una precoce coscienza del carattere fascistoide del libro. Non ci credo. Lo leggevamo anche nel secondo dopoguerra, e nessuno di quelli che conosco lo ha mai interpretato così. Al massimo, se paragonato a Stevenson o a Salgari, era considerato un po’ noioso. Ma tutti parteggiavano per Garrone. Cuore era senz’altro tra i libri che non piacevano a Benjamin (non so però se lo conoscesse, non lo cita mai), esemplare di una pedagogia dell’ordine e dell’obbedienza: ma si prestava anche perfettamente ad avvalorare la sua tesi del “lettore sovrano”. Come tale ho amato a modo mio la piccola vedetta lombarda, e arrivando da una campagna allagata di sudore non mi sono fatto tentare da alcuna retorica nazionalista e guerrafondaia. Sarei salito sull’albero non per amore della patria, ma per il gusto del rischio e dell’avventura. Cavalcare gli alberi era una mia specialità.

Se poi uno viene a raccontarmi che nella casa di campagna, in solaio, trova i libri che suo nonno ha collezionato, intere serie degli eroi popolari del primo Novecento, da Fantomas a Nick Carter, a Petrosino, all’immancabile Buffalo Bill, comprese le avventure di Sherlock Holmes in inglese, e quelli che lui stesso ha letto da bambino, tutti o quasi i volumi della Biblioteca dei miei ragazzi, tutto Salgari e moltissimo Verne, e poi ancora raccolte del Giornale illustrato dei viaggi (con in mezzo, per buon peso, anche qualche numero della Revue des Voyages), la collezione completa di Flash Gordon e de l’Avventuroso, e un sacco di altre chicche del genere, costui mi sta parlando di una dimensione che assolutamente non mi appartiene – ma credo appartenga in realtà a pochissimi. So che si tratta di un pretesto narrativo, che Eco ha voluto trascrivere il sogno di ogni appassionato di immagini e inveterato bibliomane, ma è un pretesto rivelatore d’altro.

In primo luogo, appunto, del fatto che Eco non intendeva scrivere un romanzo, ma redigere una sorta di un compendio enciclopedico dell’immagine tra Otto e Novecento, sul tipo di quei bestiari ed erbari e lapidari medioevali per i quali ha sempre manifestato una grande passione. Basta vedere l’ordinein cui la materia è esposta per renderci conto che stiamo visitando le sale di un museo virtuale dell’illustrazione: le stampe tedesche, le paginate di soldatini, le riviste floreali francesi, le illustrazioni del Novissimo Melzi, gli atlanti, le scatole di dolciumi, i pacchetti di sigarette, gli almanacchi, e via via sino ai manifesti, politici o pubblicitari o cinematografici, ai francobolli, alle copertine dei romanzi d’appendice e a quelle dei dischi, insomma, a tutto quanto rientri nel campo dell’immagine e del suo utilizzo. Il resto, la vicenda, è musica di sottofondo, del genere di quella diffusa a volte nelle sale espositive: o è assimilabile al commento dell’audioguida. Ma l’atmosfera riesce fredda: l’autore si aggira per le sale ufficialmente per una operazione come quella che intendevo fare io (e che mi è subito scappata di mano, andandosene per i fatti suoi), in questo caso ricostruire letteralmente la propria memoria, ma sembra non fermarsi mai con gioioso stupore di fronte a qualcosa, avere una qualche epifania: sembra piuttosto impegnato a redigere un ponderosissimo e ponderatissimo elenco. Come dicevo sopra, questo elenco da solo giustifica il possesso del libro: quindi ben venga, è un ottimo stimolatore della memoria. Ma quanto al significato emozionale che il rapporto con le immagini ha avuto per Eco, dice molto poco.

E questo è a sua volta rivelatore dell’abissale differenza di attitudine che esiste tra uno che si trova in casa una biblioteca dalla quale può attingere di tutto e chi invece i libri se li propizia e li sospira e li cova con la mente uno ad uno. Voglio precisare subito che non ho alcun motivo di recriminazione o di rivendicazione nei confronti di chi è nato in mezzo ai libri. Anzi, provo nei loro confronti un’invidia tutt’altro che rancorosa, e una profonda ammirazione per chi ha saputo farne buon uso. Ciò non toglie che la differenza oggettivamente esista, e che spieghi preferenze e atteggiamenti. Ad esempio. Una delle sezioni più vive della mia memoria riguarda gli elenchi di titoli che comparivano in genere nella terzultima di copertina, o nella copertina posteriore stessa, sotto la dicitura: “Sono usciti nella stessa collana”. È viva perché i libri dell’infanzia li ho conservati – non erano moltissimi –, quelli almeno che sono scampati alla lettura di fratelli o figli, e in tutti ritrovo gli elenchi finali irti di spunte che rimandano ai desiderata, molti dei quali rimasti poi tali per decenni. Ora, quando scorro quegli elenchi rivivo tutta l’ansia e l’aspettativa che caratterizzavano ogni mio Natale (altre occasioni per attendersi regali non c’erano), nella speranza che fosse preso in considerazione dalla zia uno di quei titoli (il regalo era un dono, non un obbligo, per cui era considerato molto sconveniente dare indicazioni su ciò che ci si attendeva). Nel frattempo, se avevo letto l’anno precedente un romanzo del ciclo malese di Salgari, mi era stato concesso tutto il tempo per fantasticarci attorno e scrivere mentalmente tutti i prequel e i sequel immaginabili. Ho potuto leggere I misteri della Jungla Nera e I pirati della Malesia solo a quasi trent’anni, ma ne avevo già elaborato infinite versioni. Per forza poi la mia fantasia, e anche la mia scrittura, sono cresciute così indisciplinate.

Questo intendo quando parlo di diversa percezione. Chi ha già disponibile tutta la collana, o è in condizione di farsi regalare i libri mano a mano che ne finisce uno, è naturale che proceda nelle letture, non ha bisogno di crearsi da sé i seguiti, li trova belli e pronti. Ed è anche meno portato a costruirci sopra il gioco, se è un lettore appassionato non ne ha nemmeno il tempo. Laddove invece ogni mia lettura diventava il canovaccio con infinite varianti per i giochi di gruppo di tutta la banda, o per quelli solitari in soffitta, con i soldatini e le grette. Lo stesso vale naturalmente per le illustrazioni: le poche cui avevo accesso diventavano delle vere icone, dettavano i gesti, l’abbigliamento, le scelte dei luoghi per le avventure future. Insomma, è tutto un altro modo di viverle, e di questo modo in Eco, giustamente, non ho trovato nulla.

L’altra differenza concerne, al di là della “condizione”, della possibilità di accedere al libro, al fumetto, all’immagine, il modo in cui li si “guarda”. Che non è in realtà disgiunto dalla condizione “materiale” di cui parlavo sopra, perché la quantità e la disponibilità senza dubbio orientano e focalizzano diversamente lo sguardo: è una legge economica, quanto più l’offerta aumenta, tanto più diminuisce il valore intrinseco degli oggetti, la loro sacralità. Pur senza presumere di aver amato i libri e i fumetti e le immagini in generale più di Eco, sono certo che nei loro confronti il mio sentimento fosse diverso, in quanto dettato dall’assenza anziché dalla presenza. Ciò che Eco sembra maggiormente apprezzare nel fumetto, ad esempio, è la valenza ironica, cioè la capacità del disegnatore di andare al di là di quello che il testo narrativo dice. Bene, questo è significativo di una lettura “adulta” del fumetto, nella quale funziona il gioco delle strizzate d’occhio tra l’illustratore e il lettore, delle citazioni, dei rimandi, dei paradossi, inseriti attraverso elementi che col racconto non avrebbero nulla a che fare (ad esempio, figure che escono dai quadri appesi alle pareti e cose simili): come a dire: prendiamola bassa, stiamo giocando. Ed è un tipo di lettura che ha alle spalle una qualche saturazione, per cui l’effetto “piacevole distrazione”, quando non “analisi professionale”, ha preso il posto dello stupore commosso. Ma tutto ciò a mio parere non ha a che vedere con la lettura infantile: la lettura infantile non è affatto un gioco, è seria, e ogni intrusione che apra in una direzione diversa sottrae al giovane lettore un po’ della sua autonomia, tarpa la sua fantasia facendola polarizzare su quella dell’autore. Quella saturazione io non l’ho mai raggiunta, devo recuperare un sacco di storie o di puntate che mi sono perso sessant’anni fa, e dalle quali ancora mi attendo, a dispetto dell’età, qualche scampolo di sogno.

6. Credo che neppure Mario Mantelli considerasse chiusa la fase “illustrata” della sua esistenza: per questo l’ho sentito immediatamente così affine. Il clima generazionale c’entra senz’altro, perché Mario era un mio quasi coetaneo, ha respirato la stessa aria, letto più o meno le stesse favole e gli stessi fumetti, visti gli stessi manifesti e giornali: ma c’era di più. Anche se non sempre ero d’accordo con lui, e le nostre preferenze divergevano (avrebbe molto da obiettare su quanto ho scritto fino ad ora), avvertivo chiaramente, di qualunque cosa stessimo discutendo, che quell’argomento l’avevamo affrontato con la stessa disposizione d’animo, la medesima “postura interiore”. Questo atteggiamento rendeva possibile il confronto. Parlavamo della stessa cosa, e il fatto di averla vissuta in ambienti e situazioni diverse faceva sì che non si riducesse a un semplice reciproco innesco di nostalgie, ma diventasse uno scambio vero di figurine dell’album del passato: ce l’ho, mi manca.

Nel “Viaggio nelle terre di Santa Maria e san Rocco” sono le immagini a prendere per mano il bambino e fargli scoprire il mondo attorno. Le immagini segnano le tappe, marcano i luoghi e i tempi del passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Ogni etichetta, francobollo, carta da gioco, copertina di Pinocchio, del Principe Valiant o di Topolino, ogni insegna di negozio o pubblicità o cartolina, o immaginina sacra o pagina del Vittorioso, rievoca sogni, speranze, scoperte. E ti stupisci soprattutto quando dal cilindro della memoria vengono poi fuori il volto scarsamente mascherato di “El Coyote”, la copertina di Gim Toro a China Town, l’albo d’oro di Pecos Bill, le vignette di Tiramolla e il rebus de La settimana enigmistica: perché sono segnavia anche tuoi, e li ritrovi non esposti come reliquie nelle fredde vetrine di un museo, ma scaldati dalla stessa meraviglia nella quale erano stati originariamente avvolti.

Nella ricostruzione di Mantelli domina un costante senso di stupore. Mario ri-conosce quelle immagini non col senno di poi, attraverso il filtro delle esperienze e delle letture successive, ma calandosi direttamente nei momenti e nei luoghi in cui gli erano apparse la prima volta. Le conosce daccapo. Aziona una perfetta macchina del tempo che riproduce gli sfondi, l’urbanistica, le architetture, i rumori e gli odori e persino i sapori della vita di ringhiera, e quelli delle scampagnate domenicali, appena fuori porta o addirittura nell’oriente magico dei paesini del pavese. Quelle immagini vengono poi trasposte nel quotidiano (le cantine come sotterranei salgariani, le periferie come confini africani), in un andirivieni continuo tra il sogno e la realtà, senza neppure tanto sforzo, perché quella realtà è già di per sé sogno.

Questi sogni li abbiamo confrontati mille volte, e abbiamo verificato quanto nella trasposizione incidessero le differenze di contesto, a volte anche quelle lievi. Mario viveva in città, in una casa di ringhiera con cortiletto interno, che rappresentava lo spazio deputato al gioco protetto, ma aveva un qualche sentore di carcerario (io, perlomeno, lo immagino cosi): per valicare quelle quattro mura, all’interno delle quali si era ancora sotto controllo, bisognava lasciare briglia sciolta alla fantasia. Io ho vissuto l’infanzia in uno spazio completamente aperto, sia in paese che presso la cascina dei nonni. La fantasia non doveva nemmeno scomodarsi, avevamo giungle e foreste e deserti appena dietro casa, potevamo scorrazzare tutto il santo giorno fuori della portata di vista o di voce dei genitori. Tutta questa libertà reale ci consentiva di giocare al risparmio su quella fantastica. Non avevamo bisogno di inventarci quasi nulla. L’unico impegno era quello di trasferire nelle scenografie naturali personaggi, vicende, cavalli, banditi, indiani, tughs. Accadeva in automatico. Quando nel circolo parrocchiale assistevamo alle primissime programmazioni televisive di Rin-tin-Tin, al the end seguiva un fuggi fuggi velocissimo per risparmiarci il rosario o la novena, e il ritrovo era nella dolina di tufo lontana nemmeno centro metri, dietro un boschetto di roveri. Quello era già Forte Apache.

Quanto allo stupore di Mario, allo stato d’animo in cui riesce perfettamente a reimmergersi, confesso che per me non funziona proprio così. Il motivo è probabilmente quello cui accennavo sopra. Per questo la lettura del “Viaggio nelle terre di Santa Maria e san Rocco” mi ha così colpito, addirittura mi ha commosso. Ho continuato a immaginare quel ragazzino in timida e timorosa esplorazione, sia pure senza mai staccarsi dalle calcagna del fratello maggiore, alla scoperta delle meraviglie di un altrove che stava a cento metri da casa sua (le vetrine! “portafiamma di fornelli a gas esposti su fondi scuri come pezzi anatomici su un tavolo d’autopsia”. Fantastico!), ma al quale accedeva rasentando muri che dovevano sembrargli altissimi e che gli precludevano i misteri di altri cortili, di altri palazzi, percorrendo vie che aprivano ad altre possibili terre incognite. Quelle meraviglie oggettivamente non ci sono (lo scrive lui stesso), è anche plausibile che ad occhi infantili le dimensioni e le forme si dilatassero, ma il resto lo metteva tutto lui. «Per prima mi apparve ondulante, forse anche per un simultaneo suono di campane, la punta del campanile di San Rocco simile ad un enorme cappello di Mago Merlino, poi la facciata della chiesa dai grandi boccoli arricciolati sui fianchi dell’alta fronte e il medaglione del santo. E fu come si scaricasse su di me un empito di magnificenza e di maestosità incredibili, come un traboccamento del cielo. […] Quel giorno l’impressione fu quella di avere su di me precipiti, incombenti, sul punto di franare ma resistenti in piedi per un prodigio, le torri e le cupole di un intero Cremlino, con dentro tutto il prezioso trionfo delle chiese d’Occidente e d’Oriente. L’unico termine di riferimento per una possibile aggettivazione erano per me in quel momento le illustrazioni di Golia per l’Oriente di Marco Polo ne “I grandi viaggiatori” della collana “Scala d’Oro”».

Ecco, devo lasciare parlare lui. I grandi boccoli arricciolati sono quelli che avevo visto in una illustrazione di Antonio Rubino, incorniciavano il volto di un re bonario, e quando sono finalmente andato a verificare le volute barocche della chiesa di San Rocco li ho subito riconosciuti (ma quando l’ho poi detto a Mario ha manifestato qualche dubbio: Rubino disegna i boccoli girati all’interno – disse –, forse era Mussino). Insomma, tutta questa esperienza è filtrata dalle prime immagini raccolte nell’archivio della mente, in un gioco di montaggio che viaggiava all’inverso di quello che facevo io. Io leggevo le illustrazioni di Accornero riconoscendo le cantine del castello alle quali si accedeva (per un “passaggio segreto”) dallo strapiombo della Catenaia, i fumetti di Oklahoma come si svolgessero nel bosco della Cavalla o nelle gole della Lavarena, e Hukleberry Finn come navigasse lungo il Piota.

E anche il rapporto col fratello. “Con me era mio fratello, ragazzino più grande di me, ma mago, profeta di fini del mondo ed evocatore di emozioni sconvolgenti.” Altra situazione capovolta. Io, come primogenito, non sono stato guidato da nessuno, sono stato quello sempre in avanscoperta, anche per le letture e le immagini. Ho “guidato” io alle immagini mio fratello, che tra l’altro non era certo uno docile e devoto come Mario. Ho dovuto anzi difendere gelosamente i miei libri e miei fumetti, combattere per strappargli i suoi, soffrire quando ero costretto (da mia madre) a lasciarglieli in mano, non per insana gelosia ma perché in fondo lui era già uno di quelli che i libri e i fumetti, sia pure pochi, se li trovava in casa, e non li aveva nel concetto di tesoro in cui li tenevo io. Quindi il mio era un sentimento ben diverso da quello di gratitudine che provava Mario per essere ammesso a quei misteri, a quelle cose da più grandi (che gli arrivavano però già un po’ mediate). Io me le conquistavo palmo a palmo, e le difendevo coi denti.

Ad accomunarci è invece l’accesso inizialmente molto razionato alle immagini, e quindi la sorpresa e la felicità estatica suscitate dalla loro inattesa comparsa. “Il numero uno di Topolino formato tascabile fu in casa nostra come l’ingresso fruttuoso di una ricchezza. Ne venimmo in possesso non per acquisto diretto (troppo care le sessanta lire per quell’aprile 1949) ma perché ci fu lasciato da una coppia di amici di famiglia ricchi, come ex trastullo presto consumato dal loro figlio di pochi mesi.” Eventi come questo sono fondativi di una passione che durerà tutta la vita. A proposito della copertina di quel Topolino arrivato dal cielo Mario scrive: “Dopo la figurina Fidass, questa può considerarsi la seconda immagine fondante del concetto di gioia instillatosi nell’animo dell’autore di queste righe”. È difficile descrivere con maggiore semplicità ed efficacia l’effetto di certe immagini: quello esercitato su di me, ad esempio, della copertina di “La rivincita di Yanez”, arrivato ormai inaspettato, col vecchio corriere che faceva la spola una volta la settimana con Genova, dopo che l’avevo atteso la sera di Natale per quattro ore, seduto su un gradino ghiacciato davanti al suo deposito. Il fatto che non mi fossi beccato una polmonite venne considerato un miracolo, ma ad operarlo non fu il bambinello: fu quella copertina, col portoghese cavalcioni ad un elefante, a scongelarmi istantaneamente e a far correre il mio sangue così veloce da non lasciarmi chiudere occhio per tutta la notte.

Antonio Faeti racconta di una sensazione del genere, quando, immediatamente dopo la guerra, ragazzino decenne, si vide recapitare in casa da un ex “camerata” del padre scatoloni pieni di libri e di fumetti: era un gesto di solidarietà per una famiglia che si dibatteva in gravi difficoltà economiche, apparentemente bizzarro, visto che mancavano soprattutto farina e olio e capi di vestiario: ma per Faeti fu la cosa che dava senso ad una stentata esistenza, che zittiva la fame e faceva passare in secondo piano ogni altra necessità.

«Nella mia tristissima e povera infanzia ci fu un lungo periodo in cui noi quattro fratelli ci trovammo privi di ogni reddito. Mia madre era morta nel ’44, mio padre, squadrista non pentito e oltremodo capace di dichiararsi tale, fu “epurato”, cioè cacciato dal suo posto di vigile urbano. Così non c’era un soldo, e a volte appariva anche la fame vera. Intervenivano i vecchi camerati […] Ci fu uno che portava solo libri, in grandi scatoloni […] Così che il bambino che mancava di pane ebbe moltissimi libri, tanti di più di quanti ne avessero i suoi amici coetanei, forniti anche di companatico. E leggeva, pertanto, con un’ottica famelica e distorta, guardava le figure inventando solitarie classificazioni: molto prima di conoscere e studiare Lo stupore infantile di Zolla, ne era permeato. Guardava le figure delineando sempre nuovi Altrove.» Una situazione certamente diversa da quella mia e di Mario, paragonabile per certi versi piuttosto a quella di chi, come il protagonista de “La misteriosa fiamma

”, scopre in casa bauli pieni di libri: ma il risultato, a quanto pare, è stato lo stesso. Fame di sempre nuovi sogni. Rispetto a tutti coloro che ho chiamato a testimoniare sino ad ora, comunque, per tutta l’infanzia, e anche un po’ oltre, il mio rapporto con le immagini è stato quantitativamente molto più scarno. Sorprese come quella toccata a Faeti le ho sognate a lungo, ma ho potuto provarle solo da adulto, e la gioia a quel punto era già di un altro tipo. Libri, fumetti, figurine entravano in casa col contagocce, non circolavano riviste, la cosa più illustrata che conoscevo fino a sette o otto anni erano i cataloghi dei Fratelli Ingegnoli, vivaisti in quel di Milano, che per qualche oscuro motivo a mio padre arrivavano gratis. Riuscivo comunque a fantasticare anche su quelli, sui colori e sui nomi esotici dei fiori e delle piante, e sull’incredibile loro varietà. Ho avuto il tempo di masticarle bene quelle immagini, di digerire e metabolizzare con calma i libri, di consentire alle une e agli altri, ai sogni che evocavano, di entrarmi in vena. Girano ancora nel mio sangue.

Oggi la mia casa è quella di un bulimico: tra scaffali e quadri e carte geografiche e foto non rimane un centimetro libero per piantarci un chiodo. I muri grondano letteralmente di immagini o di promesse di immagini. Eppure, l’appetito è rimasto immutato. A quanto pare funziona come per chi la fame l’ha patita da piccolo, che non riesce mai più a togliersela definitivamente di dosso. In me quello stillicidio rarefatto infantile ha lasciato addosso una bramosia di immagini (e dei libri che le ospitano, e di quelli che le immagini si tirano appresso) che non è mai stata saziata.

Mi accorgo che è arrivato il momento di chiudere, prima di affogare nel sentimentale. Conviene davvero però che lasci il commiato ad altri. Ancora Faeti. Riassume davvero tutto.

Fin dal primo dopoguerra, e ancora di più all’inizio degli anni cinquanta, il figurinaio (è il termine che Faeti usa per indicare l’illustratore classico) non esiste più: si assiste allora ad una totale ricomposizione, che accosta, secondo i termini di un progetto complessivo, gli illustratori per l’infanzia ai messaggi dei media che guidano e determinano l’intrattenimento infantile. È l’epoca del cartoonist, “colto”, integrato, attento a cogliere le sfumature di un gusto che segue gli schemi della televisione e della immagine pubblicitaria.

Da quest’ultimo ambito sembrano, soprattutto, ricavati i termini entro i quali l’opera del cartoonist si realizza: essa è sempre falsamente ottimista, pedagogicamente edulcorata, cerca di sbarazzarsi di ogni problema, sublima le ansie, spegne i timori. Il figurinaio, che riproponeva un repertorio antico e denso di contraddizioni, sembrava guardare l’infanzia sempre con gli occhi di Wilhelm Busch o con quelli di H. Hoffmann: non esitava a spaventare i bambini, non rimuoveva i corposi fantasmi di una antipedagogia popolare, bizzarra e saturnina.

Autentico “pifferaio di Hamelin” trascinava inspiegabilmente i bambini, attratti da immagini remote, che essi non riuscivano a decifrare interamente.

Sono uno di quei bambini. E inseguo ancora quelle immagini.

I testi cui si fa riferimento in queste pagine sono:

Walter Benjamin, Orbis Pictus. Scritti sulla letteratura infantile, Giometti & Antonello, 2020

Umberto Eco, La misteriosa fiamma della regina Loana, Bompiani, 2004

Antonio Faeti, Guardare le figure, Einaudi, 1972

Antonio Faeti, La storia dei miei fumetti, Donzelli, 2013

Karl Hobrecker, Alte vergessene Kinderbücher, Mauritius Verlag, Berlin, 1924

Mario Mantelli, Viaggio nelle terre di Santa Maria e San Rocco, Boccassi, 2003

Mario Mantelli, Di che cosa ci siamo nutriti, Boccassi, 2011

Sul metodo e nel merito

Considerazioni sull’uso delle biografie

di Paolo Repetto, 22 dicembre 2018, da sguardistorti 05 – 2018 Natale

Mi accade sempre più spesso – stavo per aggiungere “a dispetto dell’età”: ma forse è proprio in ragione di questa – di riscoprire storie e figure che sino a ieri avevo colpevolmente trascurate, o che proprio non conoscevo, anche perché relegate da tempo ai margini della scena. Queste storie per i più disparati motivi cominciano invece ad intrigarmi, suggerendomi interpretazioni apparentemente inedite e accostamenti originali: salvo poi, appena ci metto mano, constatare che in molti ci hanno già pensato o ci stanno pensando, e magari si sono spinti parecchio avanti. Ormai so come funziona la faccenda, eppure ogni volta mi sorprendo: mi sorprende in positivo scoprire che altri condividono i miei singolari interessi, mentre mi irrita un po’ il fatto di non aver avuto sentore prima dei lavori in corso. Forse ho antenne poco sensibili, o magari sono solo orientate male.

In realtà non c’è nulla di strano. Cambia semplicemente la visibilità. Quando si focalizza l’attenzione su un argomento, tutto ciò che con esso ha una qualche attinenza diventa di colpo rilevante, e scavando appena sotto la polvere di superficie si trovano innumerevoli tracce di percorsi che quell’argomento lo attraversano, o ad esso conducono, o ne partono. È anche normale in questi casi guardare con occhi nuovi a quello che già si conosceva, riconoscendolo, assegnandogli una nuova collocazione e dandone una nuova interpretazione. È la sindrome dell’auto nuova: appena inizi a guidarla hai l’impressione che circoli solo quel modello, mentre prima non ne vedevi in giro.

Non è questo però il tema. Serve solo a introdurlo: anzi, a introdurre una premessa sul “metodo”, o se vogliamo sulla sua assenza, che per quanto scontata e autoreferenziale mi pare necessaria.

 

Del metodo – La conoscenza è una catena di sant’Antonio: ogni nuova scoperta rimanda immediatamente ad altro, quasi sempre in più di una direzione, con un gioco infinito che non procede senza logica, perché nel ventaglio dei percorsi che si aprono scegliamo naturalmente quelli che per qualche motivo più ci attirano. E anche quando la coerenza delle scelte non è immediatamente chiara, alla lunga viene fuori.

È così per chiunque ami l’avventura del conoscere: ma questa avventura non è vissuta da tutti allo stesso modo. C’è chi è portato da un’indole più “sedentaria” a sostare a lungo nei nuovi approdi, in qualche caso a stabilirvisi proprio (conosco gente che ha studiato per una vita lo stesso argomento, o si è dedicata a un solo specifico ambito): e “sedentario” non va qui inteso in accezione negativa, perché queste persone lavorano in realtà moltissimo di scavo, scendono in profondità. Altri invece, e io sono tra costoro, non resistono alla tentazione di risalpare immediatamente, di esplorare sempre nuovi territori, sacrificando la profondità delle conoscenze alla vastità degli interessi. Hanno menti nomadi e irrequiete, e come tali risultano in genere molto meno “produttivi” dei primi: direi che privilegiano il vagabondaggio divertito nei confronti del lavoro serio.

In questi ultimi, quelli che spostano incessantemente il fuoco della loro attenzione, l’attitudine dispersiva e onnivora è oggi enormemente stimolata dall’offerta della rete. Muovendosi con un po’ di criterio possono scoprire orizzonti che fino a vent’anni fa erano non solo preclusi, ma neppure immaginabili. Ciò significa che la peregrinazione copre spazi sempre più ampi, i tempi di ricerca sono accelerati, i percorsi sono spianati: ma giustifica anche le scoperte tardive cui accennavo, perché in effetti tutto ciò che bolle nel pentolone culturale è diventato di colpo molto più accessibile, ma non necessariamente anche più visibile. Se prima si pescava risalendo fiumi, torrenti e ruscelli, ora ci si muove in mezzo ad un oceano, ma si naviga a zig zag, in acque meno limpide, lungo coordinate confuse e spesso contraddittorie: l’attenzione risulta per forza di cose meno vigile, il gusto stesso dell’indagine diventa più insipido. È come passare dalla cucina della nonna al fast food. La qualità del pescato è inversamente proporzionale alla quantità: ma tant’è, per un bulimico è quest’ultima a contare.

Nel mio caso specifico entra poi in gioco anche una compulsione maniacale che mi spinge ad accumulare libri: è una smania apparentemente del tutto estranea a questo discorso, ma in realtà segue anch’essa una sua logica e finisce per intersecarlo. Non accumulo libri a caso, anche quando sembrerebbe così: li colleziono come tessere di un puzzle mentale del quale ho solo vagamente presente il disegno. Queste tessere prima o poi, per i più inaspettati giochi di sponda analogici, trovano la loro collocazione, danno risposte alle mie curiosità, fanno intravvedere nuove immagini e altre possibili rotte.

Insomma, è evidente che come studioso sono tutt’altro che sistematico. E tuttavia (o forse proprio per questo) i miei percorsi sembrano ormai ricalcare uno schema fisso. Come dicevo, appena approdo a luoghi che pensavo inesplorati, o quanto meno dimenticati, trovo regolarmente ceneri più o meno calde di bivacco e impronte che vanno in tutte le direzioni. Faccio un esempio per tutti. L’ultimo caso del genere in ordine di tempo riguarda gli anarco-geografi. Mi ero incapricciato di un’idea, riassumibile nel fatto che gli anarchici hanno privilegiato la geografia e i marxisti la storia, e mi ero proposto di verificarla, o almeno di vedere dove conduceva. Bene, è stato sufficiente digitare “anarchia e geografia” per scoprire che Federico Ferretti aveva già scritto dieci anni fa (nel 2007) Il mondo senza la mappa, dove racconta le storie di Elisée Réclus, di Kropotkin e di quelli che io definisco anarco-geografi. Scendendo poco più in profondità mi sono imbattuto in Geoanarchia. Appunti di resistenza ecologica, di Matteo Meschiari, un saggio uscito solo lo scorso anno, e ho realizzato che lo stesso Meschiari sta lavorando proprio attorno a quei personaggi. Nel corso dello scavo ho raccolto poi innumerevoli altre indicazioni che fanno pensare ad un interesse davvero vivo, anche se di nicchia, per questo tema. Fino a ieri non ne sapevo nulla.

Di qui la mia reazione. È comprensibile che mi senta spiazzato. Contrariamente però a quanto l’incipit di questa riflessione potrebbe suggerire, non provo disappunto nel constatare che altri mi hanno preceduto su terreni che ritenevo più o meno vergini. Non ne avrei motivo, visto che nella stragrande maggioranza dei casi gli studi in cui mi imbatto sono in circolazione da un pezzo, e non ho quindi precedenze da far valere. E se anche così fosse, se potessi accampare una qualche primogenitura, il constatare che altri percorrono la mia stessa strada non può che confortarmi. Per mia fortuna non ho mai patita la necessità di misurarmi sul “mercato” culturale. Così, ogni volta che qualcosa mi entusiasma perché oltre a offrirmi delle conferme rende più chiari i convincimenti che già avevo (sia pure maturati, per dirla alla Vico, “con animo perturbato e commosso”), oppure mi spinge oltre, aprendomi a nuove possibilità, mi sembra di fare un passo avanti verso la terra promessa. Conoscere non mi farà capire il perché della vita, ma mi aiuta senz’altro ad accettarla: e mi consentirà di uscirne, quando verrà l’ora, con gli occhi aperti.

Al di là di questo, le ragioni per compiacermi di aver trovato compagnia sono svariate. Sapere che qualcuno sta facendo o ha già fatto quello che io con ogni probabilità non mi sarei mai deciso a fare mi tranquillizza. Una disposizione bulimica come la mia impedisce di soffermarsi su un qualsiasi argomento per il tempo sufficiente a lavorarci seriamente: l’avrei fatto quindi comunque peggio. Ma c’è di più: c’è che di norma ad avermi preceduto sono degli studiosi molto più giovani di me, appartenenti alla fascia d’età che comprende mio figlio. E questo mi rassicura intanto sul fatto che la generazione successiva alla mia è ancora capace (a dispetto dell’eredità decostruzionista e post-modernista che le abbiamo trasmesso) di un pensiero originale e di ottimo livello, ma dice anche che certe curiosità e consapevolezze sono comunque nell’aria e aprono spiragli per il futuro. Infine, considerazione molto soggettiva, che gli interessi di questa generazione combaciano coi miei, e quindi almeno per quanto concerne gli entusiasmi culturali posso considerarmi ancora relativamente giovane: ciò che non è sempre una buona cosa, ma in questo specifico caso si.

Non che gli studiosi di Réclus siano particolarmente rappresentativi dei loro coetanei: anzi, lo sono ben poco. Ma la cosa vale per tutti i vagabondi culturali: io stesso non mi sento affatto rappresentativo di una generazione che, non scordiamolo, ha preso sul serio Sartre, Mao e Althusser: per questo ambisco piuttosto a inscrivermi in una linea transgenerazionale, e mi consola sapere che questa linea esiste.

 

Ora, quello che è capitato per gli anarco-geografi (e rivendico l’etichetta, anche se lessicalmente impropria: “geografo” è per me un qualifica che si applica ad un modo di essere, quello appunto “anarchico”, e non viceversa) era già accaduto per diversi altri argomenti. Solo dopo aver scritto La discesa dal monte analogo ho realizzato quanti sparassero da un pezzo sul post-moderno e sulla demonizzazione della civiltà occidentale (ultimi, e molto espliciti, Rodney Stark con La vittoria dell’Occidente e Franco La Cecla con Elogio dell’occidente); quando mi sono deciso a far girare l’Humboldt controcorrente erano già apparsi una serie di studi sullo scienziato esploratore e almeno un paio di sue nuove biografie; la critica all’istituzionalizzazione della memoria è ormai diventata moneta corrente (vedi Toni Judt o Daniele Giglioli), ecc … Insomma, mi rendo conto che a questo punto dovrei lasciar perdere le tirate sull’etica e le biografie di non conformisti, per dedicarmi invece più utilmente a scovare, segnalare e recensire ciò che già esiste. Cosa che, ripeto, non mi spiacerebbe affatto. E anzi, per accelerare i tempi lancio fin da oggi un’opa propiziatoria su personaggi e temi che ancora, credo, non sono stati riscoperti e sfruttati: Raimondi, Tonti, Boggiani, Dolomieu, Timpanaro, l’umanesimo socialista e libertario, ecc … Magari, col cuore in pace e attendendo fiducioso, farò ancora a tempo a leggere in proposito qualcosa di decente.

 

Nel merito – In realtà non me la cavo così a buon mercato. Per tante ragioni. Quella oggettiva è che come recensore valgo poco, esco volentieri per la tangente, seguendo il filo delle mie idee piuttosto che il pensiero del recensito; e ancor meno funziono come divulgatore, perché un po’ per scelta e un po’ per limiti oggettivi raggiungo solo i pochissimi già sintonizzati sulle mie frequenze. Quella soggettiva è invece che troppo spesso il modo in cui vicende e personaggi che mi stanno a cuore vengono affrontati non mi soddisfa affatto. Ho quasi sempre l’impressione che troppe cose siano rimaste in ombra, che molte suggestioni non siano state raccolte. Anche questa è una cosa naturale, nessuno può riuscire esaustivo su un qualsivoglia argomento: ma l’approssimazione può nascere da motivi diversi, e non tutti questi motivi sono a mio parere accettabili.

Ad esempio. Molte tra le più recenti opere a carattere biografico che vengono spacciate per “definitive” sono in realtà solo astute operazioni di assemblaggio, e risultano definitive nel senso che vogliono chiudere una volta per tutte il discorso, anziché aprirlo: esattamente l’opposto di ciò cui si dovrebbe mirare. È quel che penso della più recente biografia di Alexander von Humboldt scritta da Andrea Wulf (L’invenzione della natura, 2017), della quale ho già parlato altrove. Ma in molti casi, anche quando il lavoro è affrontato con rigore e competenza, qualità che non posso che ammirare proprio perché ne sono quasi totalmente privo, e persino con un pizzico di originalità, manca poi la capacità di alzare un po’ lo sguardo per dare un’occhiata attorno, per cercare le radici o seguire le ramificazioni di un pensiero o di una vicenda in territori apparentemente lontani, per inserirli in una linea di continuità che ne faccia qualcosa di vivo, di attuale. Certi studi biografici somigliano sinistramente ad autopsie, e a volte proprio l’eccessiva correttezza “filologica” impedisce di cogliere quei segni di vitalità del biografato che sarebbero invece davvero illuminanti.

In altri casi, al contrario, le interpretazioni sono decisamente forzate, e l’attualizzazione ha finalità partigiane, strumentali al dibattito politico o accademico, o più prosaicamente commerciali, quando asseconda gli umori del mercato. Insomma, troppe biografie sono palesemente bandiere piantate su un territorio a sancirne la proprietà, come facevano gli “scopritori” dell’età della conquista. Ciò ha poco a che vedere con la genuina curiosità culturale, che è invece capacità di leggere “altro”, di interpretare anche gli spazi tra le righe e soprattutto di lasciare aperte le porte ad ulteriori ingressi. Ma ho l’impressione che questa capacità appartenga di preferenza a chi non ha un’attitudine specialistica.

 

Il che, immodestamente, mi rimette in gioco. E riparto proprio dagli anarchici, geografi o no. Il discorso sugli anarco-geografi rimanda infatti necessariamente a quello più generale sull’anarchia, altro argomento rispetto al quale ci sono segnali di un ritorno di interesse (parlo naturalmente di un interesse vero, non del malcostume giornalistico di tirare in ballo l’anarchismo per ogni cassonetto incendiato). Si sta riscoprendo, ad esempio, sia pure con molte cautele, la figura di Camillo Berneri. Il caso Berneri si presta bene a ciò di cui voglio parlare: il personaggio non è facile da maneggiare, mette a disagio tanto i sedicenti anarchici quanto i vetero-marxisti, e sfugge anche all’incasellamento da parte della storiografia di impostazione più “laica”. La sua difficile collocazione induce insomma ad avvicinarlo con prudenza: ma nel contempo consente anche di piegarne la lettura, di volta in volta, ai propri punti di vista. Non solo infatti non esiste una biografia sorretta da un adeguato corredo documentale, ma nemmeno è disponibile una edizione passabilmente significativa dei suoi scritti – la maggior parte dei quali sono accessibili solo in edizioni molto artigianali, o risultano addirittura irreperibili.

Ora, a me non interessa affatto che venga ripristinata filologicamente la lettera degli scritti di Berneri, che oltretutto sono per la gran parte interventi polemici, occasionali, buttati giù in mezzo a difficoltà enormi e a situazioni di precarietà estrema: mi interessa però che non gli si faccia dire ciò che non ha detto, o che non si isolino o estrapolino certe sue prese di posizione, senza dare conto delle situazioni e delle occasioni in cui sono state espresse. Penso anche che, essendo Berneri dotato di molto senso pratico, poco incline a teorizzare sui grandi sistemi e molto bravo invece ad analizzare le situazioni immediate, concrete, in questi scritti non debbano essere cercate le grandi verità di un “padre nobile” dell’anarchismo, o un credo anarchico “revisionato”, magari per stigmatizzarne le debolezze e gli errori, ma debba essere invece colto lo spirito, l’atteggiamento mentale che li anima. Berneri non è un teorico o un filosofo della politica, e nemmeno offre soluzioni buone per tutte le stagioni: indica dei percorsi, sa benissimo quanto possano essere impervi, è consapevole che non tutti hanno il fiato per affrontarli e tiene aperta la possibilità di procedere per tappe. Non quella però di cambiare direzione e meta. È chiaro che le strade cui si riferisce potevano sembrare praticabili quasi un secolo fa, in un mondo che non era neppure lontanamente parente di quello attuale, mentre oggi non sono nemmeno più visibili. Ecco allora che ciò che esattamente ha detto, e scritto e fatto, e in quale occasione, diventa importante solo se letto in funzione di coglierne l’esemplarità, una coerenza di atteggiamento che va al di là delle possibili contraddizioni o dei ripensamenti (in Berneri, peraltro, davvero pochi). È questo ciò che va recuperato del suo messaggio, e contrapposto alla odierna “liquidità” etica, e trasmesso alle future generazioni.

 

Non ho tirato in ballo Berneri a caso. Non è lui l’oggetto ultimo di queste considerazioni (l’ho già trattato in Lo zio Micotto e le cattive compagnie), ma nella sua vicenda e nella sua biografia si incrociano, a volte direttamente, altre in maniera meno evidente, molte tematiche che mi piacerebbe vedere riprese con lo spirito giusto: quella, ad esempio, dell’”umanesimo socialista”, degli “eretici” e dei libertari che nella prima metà del secolo scorso si ribellarono all’ortodossia culturale di osservanza sovietica (da Chiaromonte e Andrea Caffi su su fino ad Orwell e Camus); o quella del rapporto tra anarchia ed ebraismo (che ci porta a Gustav Landauer, a Scholem e a Benjamin).

Per “spirito giusto” intendo la consapevolezza che ci si occupa del passato non per cambiarlo, perché gli esiti della storia sono comunque quelli che viviamo e tali rimangono, ma per vedere se tra quello che è stato scartato, tra le innumerevoli possibilità che non sono state colte o non si sono realizzate, ce ne fosse qualcuna che ancora può fornirci qualche utile indicazione, o perché spiega meglio il presente o perché, al di là delle mutate contingenze, offre modelli di comportamento che definirei extra-storici. In questo senso, se cioè di fronte allo sconcerto totale odierno appaiono necessari modelli diversi da quelli che si sono affermati, è evidente che la storia degli sconfitti risulta molto più interessante di quella dei vincitori. Perché però questo interesse si traduca in un lievito culturale è necessario che dalla riscoperta parta un processo critico, che quei modelli non vengano cristallizzati in icone ma rimessi in circolo, “attualizzati” correttamente. Invece ciò non accade praticamente mai: le riesumazioni si esauriscono subito in una affrettata imbalsamazione e le figure riscoperte vanno semplicemente a completare l’album dei ricordi.

Questo è il mio timore, di fronte ad ogni nuovo studio biografico concernente le figure che mi interessano. E per dimostrare che non sono paturnie mi rifaccio alla sorte di un lavoro che giudico più che riuscito, e che in futuro sarà un riferimento obbligato, sempre che qualcuno voglia ancora approfondire seriamente l’argomento. Si tratta della corposa biografia di Chiaromonte scritta da Cesare Panizza (Nicola Chiaromonte. Una biografia, Donzelli 2017). Trecento pagine che sfidano finalmente una rimozione perdurante da decenni.

La fatica di Panizza non può essere riassunta e liquidata in una recensione. Non avrebbe senso. Questo è un libro che va letto, meditato e discusso. Avendo già fatto tutte e tre le cose mi sento autorizzato a non recensirlo secondo gli schemi tradizionali, ma a buttarmi direttamente sulle considerazioni a margine.

 

Dunque. Del lavoro di Panizza ho trovato recensioni sulla stampa quotidiana, giustamente molto favorevoli, ma per forza di cose piuttosto generiche: non mi pare invece che gli sia stata riservata la dovuta eco nei supplementi culturali di quegli stessi giornali, o in riviste storiche o culturali specializzate. Eppure l’opera si è aggiudicata anche il premio Acqui Storia (non che i premi letterari diano la misura della qualità di un lavoro, ma almeno testimoniano del fatto che non è passato del tutto inosservato, e qualche volta ci azzeccano anche). Pare che la pratica sia già stata archiviata. Ma la misura di questa rimozione l’ho avvertita pienamente in un’altra occasione.

Pochi giorni fa ho assistito alla presentazione del libro in Alessandria. Era l’ora, ad oltre un anno dalla sua uscita: l’autore è un alessandrino e il libro è stato concepito qui. L’incontro è avvenuto però in una saletta semideserta – ciò che in Alessandria si può dare per scontato sempre: ma in questo caso la scarsa partecipazione ha anche a che vedere col fatto che Chiaromonte ai più è sconosciuto, e per i pochi che lo conoscono è scomodo almeno quanto Berneri. Per l’occasione tuttavia, al tavolo dei relatori erano schierati, oltre l’autore, tre docenti universitari: una formazione che avrebbe dovuto garantire al dibattito un alto tasso di “qualità”, e compensare almeno in parte la tristezza della scarsa affluenza.

 

Invece non è stato così. Il primo dei relatori ha divagato, o quasi, per tre quarti d’ora. Gli altri, dopo aver dato atto della professionalità con la quale il saggio è stato costruito, sono passati direttamente al ruolo di avvocati del diavolo – ruolo peraltro previsto nelle presentazioni serie, perché non diventino delle pure celebrazioni o scambi di favore – e sono andati a rovistare nelle ambiguità, nelle chiusure, nelle incertezze imputabili al pensiero e all’ atteggiamento politico di Chiaromonte. L’autore ha avuto alla fine a disposizione solo una manciata di minuti, durante i quali ha provato a rispondere ai capi d’accusa (che riguardavano la figura del biografato, naturalmente, e non il lavoro suo), ma purtroppo con poca efficacia. Il fatto è che ad occhio e croce tra gli astanti gli unici a sapere di chi si stava parlando eravamo io e l’amico che mi aveva trascinato alla presentazione – in percentuale circa il venticinque per cento – e all’uscita il dato era rimasto invariato: perché di chi fosse Chiaromonte, di come la pensasse e perché, di cosa abbia scritto, non è stato detto praticamente nulla. E questo non aiuta a farlo conoscere, visto anche che le sue pochissime opere, alle quali non è stato peraltro fatto riferimento, sono difficilmente reperibili.

Ora, ammettiamo pure che gli studiosi al tavolo fossero convinti, in ragione dei numeri della platea, di trovarsi in presenza di una élite particolarmente informata, che avrebbe potuto annoiarsi o addirittura offendersi di fronte ad una semplice “narrazione” dei fatti, e abbiano ritenuto quindi opportuno dare Chiaromonte per scontato: cosa è poi venuto fuori dal dibattito? Solo una serie di appunti che danno a mio giudizio l’idea perfetta di ciò che non deve essere la riscoperta di questi personaggi.

Nell’ordine a Chiaromonte è stato rimproverato:

  1. di essere un anticomunista viscerale;
  2. di non avere capito il Sessantotto;
  3. di non avere colto l’importanza dei processi in corso negli anni cinquanta, soprattutto quello di costruzione dell’Europa;
  4. di aver preso soldi dalla CIA per pubblicare, assieme a Ignazio Silone, Tempo presente.

In pratica una frettolosa liquidazione, attuata senza lasciare spazio ad alcun contradditorio. Cosa che avrebbe invece fatto emergere un’immagine di Chiaromonte ben diversa.

 

Punto primo. Gli fosse stato lasciato il tempo di tratteggiare un po’ la figura dell’imputato, Panizza avrebbe potuto spiegare ciò che dal suo studio biografico risulta chiarissimo: e cioè che l’ anticomunismo “laico” degli anni trenta e quaranta non era un’epidemia infettiva come la spagnola, anche se gli spesso gli esiti per chi lo praticava erano altrettanto letali, ma un atteggiamento diffuso tra coloro che avevano conosciuto per esperienza diretta il volto del socialismo reale nella sua patria madre, o lo avevano visto all’opera attraverso i suoi emissari (i pluribiografati Togliatti, Longo e Vidali) durante la guerra di Spagna, sulla pelle dei loro amici e compagni (primo tra tutti proprio Berneri): e che non avevano potuto cogliere poi segni di un qualche ripensamento nel dopoguerra, neppure dopo i fatti di Ungheria e di Praga.

Questa gente non era determinata alla denuncia da un gene maligno, o dai dollari americani, ma dalla delusione nei confronti di un sogno nel quale per un certo periodo aveva creduto, o al quale aveva perlomeno guardato con interesse, e che si era rivelato in realtà un incubo. Erano coloro che non volevano cedere al ricatto della scelta del male minore, perché oltre un certo livello il male diventa assoluto, e mostra tutto un identico volto. Non solo: chi abbia letto qualcosa di Chiaromonte sa benissimo che anche nel pieno della guerra fredda, quando schierarsi da una parte o dall’altra sembrava diventato un obbligo ineludibile (al quale finirono per sottostare molti dei suoi amici americani riuniti attorno alla rivista “politics” ) l’intellettuale lucano non accettò mai questa logica, e continuò a denunciare tanto la politica degli americani nell’Europa del dopoguerra quanto il modello consumistico e spersonalizzante della democrazia d’oltreoceano.

Anche la mancata partecipazione attiva di Chiaromonte alla Resistenza armata va letta in questa chiave. Da un lato Chiaromonte sentiva che l’esperienza vissuta dai suoi compagni italiani, in patria o nell’esilio, o da amici come Camus e Malraux, e da lui condivisa solo in spirito (stava in America), aveva creato una frattura nei loro confronti (o meglio, nei suoi confronti): e la pativa. Dall’altro era convinto che quella esperienza non avesse comunque gettato le basi per una reale ricostruzione delle coscienze, e quindi per una vera rivoluzione. Chiaromonte non aveva bisogno di certificazioni di coraggio o impegno, era all’opposizione da sempre, aveva dovuto andarsene esule dall’Italia e la sua parte l’aveva già fatta accorrendo in Spagna subito dopo lo scoppio della guerra civile: ma anche di lì era venuto via dopo aver visto che piega stavano prendendo le cose sul fronte repubblicano, con la guerra intestina scatenata dagli stalinisti. Questa è coerenza integrale, non integralismo della coerenza.

 

Punto secondo. Pur appartenendo ad una generazione che il Sessantotto lo ha conosciuto solo per sentito dire (anche se, nel suo caso, probabilmente attraverso una documentazione storica qualificata), l’autore avrebbe potuto spiegare che, al contrario di quanto gli veniva imputato, Chiaromonte della vicenda aveva capito tutto l’essenziale: e cioè che si trattava in realtà di un fenomeno conservatore. Nel senso che i giovani sessantottini, ai quali peraltro in un primo momento aveva concesso un credito di solidarietà e con i quali aveva cercato un dialogo, stavano solo portando all’eccesso le premesse che erano già state radice della politica dei loro padri. Non mettevano affatto in discussione i presupposti fondamentali del modello produttivistico-consumistico, la creazione artificiale e l’estensione illimitata dei bisogni, l’ineluttabilità della “crescita” economica e tecnologica, il trasferimento del senso ad una dimensione futura. Chiedevano una redistribuzione, non una radicale rifondazione. E lo facevano in nome di mode effimere, maoismo, guevarismo, e della demagogia inconcludente del “vogliamo tutto”.

 

Punto terzo. Forte dell’esperienza di quanto sta accadendo oggi, avrebbe anche potuto opporre, a chi si stupiva della scarsa attenzione di Chiaromonte per i processi di politica sovranazionale in corso negli anni cinquanta, che l’intellettuale lucano non solo non chiudeva gli occhi, ma li teneva tanto aperti da rendersi conto come un processo del genere, messo in moto senza nessuna preventiva opera di sensibilizzazione e responsabilizzazione degli individui, non avrebbe potuto che risolversi in una ammucchiata funzionale soltanto ai grandi interessi economici. L’Europa si stava “unificando” non nel segno della coscienza di essere frutto di una matrice culturale comune, da identificare e magari da reindirizzare, ma solo in quello della contrapposizione ad una forza eguale e contraria che si era sviluppata ai suoi confini e anche dentro essi, e peraltro in una posizione gregaria e tutt’altro che autonoma.

 

Punto quarto. Per quanto attiene alla vicenda dei finanziamenti della CIA a Tempo presente, oltre a ribadire come ha fatto (sia pure timidamente, data l’aria di smobilitazione che dopo due ore era più che naturale) che Chiaromonte ne era all’oscuro, avrebbe potuto opporre che a cinquant’anni di distanza, dopo le rivelazioni sulle trasfusioni ininterrotte dall’URSS alle stampa e alla propaganda comunista nell’Europa occidentale, quelle accuse suonano quantomeno un po’ stantie. Soprattutto da parte di chi ha rivendicato la realpolitik a giustificazione della propria più o meno sofferta cecità di fronte a tutto ciò che trent’anni prima delle denunce di Kruscev era già ben noto e raccontato e testimoniato, quando potevano arrivare a farlo, dagli “eretici”.

 

Ma, soprattutto, Panizza avrebbe potuto chiarire (lo ha fatto egregiamente nel libro) le radici dell’apparente “estraneità” di Chiaromonte al dibattito “politico” che andava in scena in quegli anni, di un atteggiamento che i suoi detrattori leggevano come snobistico. Non è cosa facile da riassumere, ma provo a farlo io.

Prescindo naturalmente dalla vicenda biografica, che chiunque abbia fretta può trovare anche in rete (ma sarebbe molto meglio leggesse il libro di Panizza). Consiglio piuttosto a chi volesse approfondire la conoscenza, oltre che di Chiaromonte, dei più significativi libertari socialisti e anarchici del primo Novecento, di visitare il sito della Biblioteca Gino Bianco, un esempio straordinario di conservazione “vivificante” della memoria.

 

In sostanza. Chiaromonte dà una lettura del “tramonto dell’ Occidente” che si scosta totalmente da quella spengleriana in voga tra le due guerre e da quella heideggeriana invalsa dopo, fino ad oggi. Risalendo alle origini della cultura occidentale, contrappone la visione greca della vita a quella che definisce l’“egomania” moderna. Non lo fa alla maniera di Nietzsche e dei suoi nipotini, spingendo fino alla caduta nel ridicolo l’opposizione tra dionisiaco e apollineo, ma constata come il pensiero greco si mantenga sempre entro una linea di rispetto nei confronti del sacro, che semplicemente è ciò che va al di là della nostra capacità di comprensione. Sottolinea cioè come quel pensiero sia improntato al “senso del limite” e come la stessa scienza greca miri alla “sapienza”, alla saggezza, che ha una connotazione puramente contemplativa, piuttosto che alla “conoscenza”, che implica invece una ricaduta pratica e performativa. Per i greci gli uomini non godono di una libertà quale oggi noi la concepiamo. Parlano di anàncke e di tyche, destino e fortuna. C’è per loro un limite alla nostra possibilità di conoscere il mondo: cosa che non viene invece riconosciuta dall’”umanesimo assoluto” odierno, che interpreta e riduce tutto appunto a misura dell’uomo, anzi, dell’individuo, e propone una “conoscenza” di tipo baconiano, mirata al dominio sulle cose: e questo in realtà porta a una disumanizzazione.

A differenza di quanto fanno i critici del modello di civiltà occidentale da Nietzsche in poi, Chiaromonte non identifica il momento della svolta, della rottura, con Socrate (cioè con Platone) e con gli esordi del razionalismo. Lo coglie invece nell’avvento della pretesa cristiana di incarnare un Dio nella storia, che porta a leggere tutte le vicende umane all’interno di un significato unico e ultimo. La chiave di lettura è cioè quella provvidenziale. Chiaromonte parla specificamente di una concezione cristiana, non di quella giudaica, che pure le sta alle spalle e introduce il monoteismo, perché è quell’irruzione del divino – che nell’ebraismo tiene invece ancora testardamente le distanze – a tradurre tutto in “storia”. Il cristianesimo dà una spiegazione del mondo: introduce quindi un’ attitudine che quando non sarà più sorretta dalla fede nella rivelazione si trasferirà armi e bagagli alla fiducia nella razionalità.

Quella relativa all’identificazione del momento di rottura non è una differenza da poco. È anzi fondamentale, e spiega come mai Chiaromonte non sia stato inserito dai postmodernisti, da Vattimo ad esempio, tra i “padri nobili” della critica al razionalismo occidentale. Chiaromonte non critica in effetti la razionalità, ma l’ “empietà” umana, la presunzione cioè di poter disporre a piacimento del mondo, di poterne modificare l’ordine, tramite la sua “riduzione a ragione calcolante”: che non è l’esito necessario della ragione, ma un suo uso distorto.

Tutto ciò che viene dopo l’avvento del provvidenzialismo cristiano, la sua secolarizzazione nel mito illuministico del progresso, e poi in quello romantico del determinismo storicistico e in quello positivista della redenzione scientifica, è in realtà il tentativo di negare un confine alle nostre forze e alla nostra capacità di comprensione. Il che trasferisce la ricerca di senso, di “verità”, costantemente nel futuro. “L’oggi è il Domani – scrive Chiaromonte –il senso della vita di oggi sta nel Domani, un Domani storico di cui l’oggi non è che l’oscura cifra … la fede ottimistica nella Storia (cioè nell’armonia prestabilita fra le aspirazioni umane e il corso degli eventi) fa dell’esistenza il fantasma di se stessa, rinviandone il significato all’infinito, cioè annullandolo.

In realtà la credenza nel mito del progresso storico si è dissolta già di fronte all’orrore inutile e assurdo della prima guerra mondiale. Chiaromonte ritiene che dopo quel trauma la speranzosa fiducia nel progresso abbia lasciato il posto ad una mascherata rassegnazione, all’abbandono a una “crescita” solo tecnologica con ricadute puramente materiali. A farne le spese sono state soprattutto le idealità sociali, prima tra tutte il socialismo. Per poter reggere all’impietoso confronto con la realtà l’idealità egualitaria si è trasformata in dogma, e si è trincerata dietro uno scudo di ortodossia. Il marxismo riproduce tale e quale l’atteggiamento fideistico e il comportamento gesuitico propri del cristianesimo.

Da questa analisi sembrerebbe poter discendere solo un atteggiamento totalmente scettico e rinunciatario. In effetti Chiaromonte dice esplicitamente che tutti i sogni di palingenesi, nella versione messianica e provvidenziale del cristianesimo come in quella laica del progresso, hanno sia un fondamento che un esito di violenza. Sacrificano fin dall’origine il vero a quello che arbitrariamente ritengono essere il bene. Di qui le derive totalitarie.

Ora, propri0 alla menzogna di qualsiasi possibile paradiso in terra bisogna resistere: ma non lo si può fare tramite la violenza rivoluzionaria, che necessariamente ricade nello stesso ordine di ciò a cui vorrebbe opporsi. L’unica possibilità è quella di un atteggiamento di stoica (e molto aristocratica) resistenza a difesa della verità, in attesa che le aporie intrinseche al modello “storicista” di conoscenza e di vita lo facciano implodere, e costringano gli uomini a coltivare si le utopie, come nutrimento spirituale, ma senza pretendere di tradurle in comportamenti pratici.

 

Non è dunque un modello rassegnato e nichilista quello proposto da Chiaromonte, ma un’idea molto vicina a quella di Camus, di una “partecipazione appartata”, che consenta di salvaguardare i margini per una totale indipendenza di giudizio e libertà di scelta. Per salvaguardare la propria libertà “negativa” rispetto a qualsiasi coercizione ambientale e quella “positiva” rispetto a qualsiasi condizionamento interiore. E in questa resistenza il conforto può venire, più che dai risultati politici, dalla solidarietà con i pochi che la condividono.

Ecco cosa scrive agli studenti del movimento sessantottino:

“Il rimedio, in verità, se c’è è altrove, e a molto lunga scadenza. Consiste nella secessione risoluta da una società (o meglio, da uno stato di cose, giacché “società” implica comunanza e ragione, che sono precisamente quello che manca oggi nella vita collettiva) la quale non è neppure cattiva per natura, anzi, suscettibile di vari miglioramenti. Non è cattiva e non è buona: è indifferente, che è la peggior cosa di tutte, la più mortifera. Da questa società – da questo stato di cose – bisogna separarsi, compiere atto pieno di “eresia”. E separarsi tranquillamente, senza urla né tumulti, anzi in silenzio e in segreto: non da soli, ma in gruppi, in “società” autentiche le quali si creino una vita il più possibile indipendente e sensata, senza alcuna idea di falansterio o di colonia utopistica, nella quale ognuno apprenda innanzitutto a governare se stesso e a condursi giustamente verso gli altri, e ognuno eserciti il proprio mestiere secondo le norme del mestiere stesso, le quali costituiscono di per sé il più semplice e il più rigoroso dei principi morali, e sempre per natura escludono la frode, la prevaricazione, la ciarlataneria e la fame di dominio e di possesso. Ciò non significherebbe né assentarsi dalla vita dei propri simili, né dalla politica in senso serio. Sarebbe, comunque, una forma non retorica di “contestazione globale”.

Sta parlando di vite vissute “come se” già la società giusta fosse realizzata. Cosa non facile, ma possibile all’interno di un sistema ristretto di relazioni improntate all’amicizia. È utopistico voler imporre al mondo il nostro modello ideale, e ogni tentativo di dargli corso diventa immediatamente violento e criminale: ma è doveroso, e in fondo appagante, rispettare e applicare individualmente, in prima persona, quello stesso modello. Come si vede, Chiaromonte non propone in realtà qualcosa di particolarmente nuovo: si inserisce in una tradizione di pensiero che davvero risale ai suoi amati greci, e che ha quale caratteristica intrinseca e conseguente proprio il basso profilo, una quasi clandestinità. Di nuovo, o comunque di ragguardevole, ci sono la chiarezza e la lucidità con cui le idee vengono esposte e la coerenza con la quale sono state professate.

Queste cose nella biografia scritta da Panizza ci sono tutte, e c’è naturalmente molto di più. È completa, ed è definitiva nel senso giusto del termine: non lascia alibi al non riconoscere Chiaromonte (o peggio ancora, al non conoscerlo), al non ripensarlo, al non confrontarsi col suo pensiero, e prima ancora con la sua testimonianza vissuta. Dubito però che presentazioni come quella cui ho assistito spingano molti a leggersi il libro.

Non ho la presunzione di aver fatto meglio, non penso che da quello che ho scritto si riesca a capire granché di Chiaromonte: ma la cosa era almeno in parte voluta. Intendevo solo suscitare un po’ di curiosità, e forse quella di spargere degli accenni confusi è la tattica giusta. Se così fosse, la mia parte l’avrei fatta: non mi resta ora che affidare il messaggio alla solita bottiglia.

Di vetro, ovviamente.


Gli anarco-geografi

Élisée Reclus e Pëtr Alekseevič Kropotkin

a cura di Paolo Repetto, 30 ottobre 2018

 Gli anarco-geografiÉLISÉE RECLUS

Jacques Élisée Reclus (Sainte-Foy-la-Grande, 15 marzo 1830Torhout, 4 luglio 1905) è stato un geografo e anarchico francese.

Figura complessa e inquieta, fratello di Elia Reclus, fu esiliato dalla Francia, per motivi politici e per le sue idee anarchiche, la prima volta nel 1851.

Grazie all’intervento di altri colleghi scienziati, fra i quali presumibilmente Charles Darwin, la pena gli venne commutata in 10 anni di esilio, durante i quali cominciò a scrivere le sue opere geografiche in giro per il mondo.

Dall’Algeria agli Stati Uniti, dal Canada al Brasile, Uruguay, Argentina e Cile, maturò una grande esperienza nella descrizione dei luoghi e popoli che incontrava e le sue opere divennero punto di riferimento in patria per molti decenni.

Come amava dire, era un legumista convinto, un vegetariano e nelle occasioni in cui venne catturato, si autodefiniva Geografo, ma anarchico.

 “L’anarchismo è la forma più alta di ordine”

La gioventù

All’età di tredici anni, Élisée con il fratello e la sorella maggiori iniziò gli studi a Neuwied (Germania) in un istituto retto dai Fratelli Moravi, in quanto il padre, un pastore calvinista, aveva fiducia in questa confraternita religiosa. Élisée, invece, rimase disgustato dai religiosi a cui è stato affidato, secondo lui più avidi di soldi che di volontà educativa. Élisée pertanto ruppe i legami con la sua famiglia, imparò molto in fretta la lingua tedesca e rientrò a Sainte-Foy-la-Grande per proseguire negli studi superiori. Si diplomò nel 1848, dopo un anno passato nel seminario dei padri protestanti di Montauban; in quel lasso di tempo gli è rimasta comunque la convinzione di voler intraprendere la carriera del pastore. Ritorna dai Fratelli Moravi col ruolo di sorvegliante e non di studente a causa di mancanza di fondi per proseguire gli studi. In qualche modo riesce a seguire i corsi di insegnamento di geografia tenuti da Carl Ritter, geografo conosciutissimo e stimato in Germania. Nel frattempo il fratello Elia Reclus finisce i suoi studi di teologia a Strasburgo ed i due fratelli ritornano in Francia a piedi per mancanza di soldi.

L’impegno politico ed il girovagare come esule

Élisée ed Elia son convinti repubblicani e quando vi è il colpo di Stato portato avanti dal futuro imperatore Napoleone III si oppongono a tale avvenimento, non vengono esiliati ufficialmente ma debbono per sicurezza riparare in Inghilterra. Élisée si guadagna da vivere con lezioni e tiene contatti con esuli francesi, quelli fuggiti dopo il 1848, ma si rende conto che in Inghilterra gli esuli non son ben visti e ripara in Irlanda. Trova una sistemazione col ruolo di amministratore di un complesso agricolo, incomincia ad interessarsi della situazione irlandese resa estremamente difficile dalla carestia del 1847 e per nulla alleviata dalla presenza degli occupanti inglesi. Dall’Irlanda va in Louisiana e diventa precettore dei figli di un padrone di una piantagione di canna da zucchero, rimane a far tale lavoro per due anni che gli permettono di rendersi conto della iniquità della società sudista con la presenza di schiavi e rimane stupito dal fatto che il clero locale non solo ammette come normale tale situazione di “proprietari di uomini” ma sta sempre anche dalla parte dei padroni in caso di accenni a moti di protesta da parte degli schiavi, Élisée perde anche i suoi residui di pensiero credente e si rivolge verso l’ateismo. Nel 1855 Élisée va in Colombia in cui tenta l’avventura senza successo di piantatore di caffè; allora la Colombia portava nome Nuova Granata.

La Massoneria

I suoi insuccessi lo riportano in Francia nel 1857 e l’11 marzo 1858, Élisée Reclus è iniziato in massoneria nella loggia Les Émules d’Hiram del Grande Oriente di Francia a Parigi[1][2][3]. Suo fratello Élie già iniziato nella Loggia Renaissance è presente alla sua iniziazione.

Élisée non va oltre l’iniziazione[4]. Dopo un anno lascia la loggia, e non frequenterà più le logge prima del suo ultimo esilio a Bruxelles, quando vi darà numerose conferenze sull’anarchia[5]. Anche se non fu mai un massone molto attivo, la sua presenza a Bruxelles nel 1894 ha avuto un’importanza determinante per la massoneria belga, e particolarmente per la loggia Les Amis philanthropes[6].

Inizio della carriera di geografo

Durante i suoi viaggi ha preso annotazioni e scritto sui paesi visitati e per questo motivo inizia a pubblicare qualche articolo sui suoi scritti, che visto il periodo trattano di posti assai più esotici di quello che possono suonare adesso ai nostri orecchi e cominciano i contatti con scienziati dell’epoca. La casa editrice Hachette intende pubblicare il resoconto dei suoi viaggi e pensa di impiegare i lavori di Reclus per l’arricchimento delle guide Joanne e di altri lavori in campo geografico di cui si occupa la casa editrice stessa. Élisée diventa ufficialmente geografo per la Hachette e attraversa la Francia a piedi per la pubblicazione delle guide, e riesce tramite queste sue attività a diventare membro della Società di Geografia di Parigi che aveva a disposizione, per il tempo, una ricchissima biblioteca geografica dotata di un enorme numero di carte, sempre per quel tempo. Visita la Sicilia in occasione dell’eruzione dell’Etna del 1865, visitando anche Palermo, le Eolie, Messina, Catania, e Siracusa, pubblicandone un resoconto con forti connotazioni di critica sociale.

Il primo lavoro di gran peso di Reclus è La Terre (1869), testo che ottiene un gran successo.

Avvicinamento al pensiero libertario

Nonostante l’ormai oneroso lavoro di geografo Élisée, per quanto riguarda il campo sociale, riprende gli studi di gioventù che lo avevano attirato, Élisée si era occupato dello studio delle opere di Robert Owen, Charles Fourier, Pierre Leroux[7] ed al suo ritorno dall’America, al pari del fratello Elia Reclus, si avvicina agli ideali del’anarchia che gli sembrano i soli adatti ad affrancare l’umanità dalle sue miserie. La stessa iniziale educazione protestante può aver fornito i germi per un pensiero che porti alla realizzazione di eguaglianza e giustizia fra gli uomini. Il padre d’altro canto oltre che i dettami della sua religione aveva sempre seguito con perseveranza la sua coscienza al di sopra di tutto. Ovvero del protestantesimo che lo ha formato Élisée, come Elia, ha trattenuto come nucleo formatore la morale implicante la completa autonomia dell’individuo, diventando quindi, diffidente verso riti e credenze organizzate che altro non possono che servire a dividere gli uomini per poterne applicare un ferreo controllo sulle loro esigenze per cui l’unica strada che sembra possibile esser percorsa da Élisée è quella che lo porta verso gli ideali dell’anarchia. Reclus nel 1864 incontra Bakunin e con Elia diventa membro della società segreta “La Fratellanza Internazionale“, conosce durante i lavori dell’Internazionale i seguaci di Carlo Marx con i quali gli anarchici entrano presto in contrasto teorico. Élisée segue i dettami di Bakunin nelle attività dell’Internazionale dei lavoratori ed entra perciò in contrasto con i seguaci di Marx. In quel periodo i marxisti decidono che non sia da escludere a priori la via legale e prediligono il livello organizzativo nel lavoro mentre gli anarchici ritengono impensabile un progetto ed una organizzazione a priori di un’istanza rivoluzionaria. Sia Marx che Engels sono assai scettici, se non ironici, verso le teorizzazioni dei Reclus.

Partecipazione alle Comune di Parigi e il periodo del carcere

Elie Reclus, fratello di Élisée

Ma le idee di Élisée sembrano assumere forma pratica durante la Comune di Parigi, a cui Élisée stesso partecipa con i due fratelli Paolo ed Elia, i Reclus entrano in un battaglione di federati che si batte contro i prussiani, ma Élisée viene catturato nel 1871, quindi quasi subito, immediatamente è imprigionato a Brest: ormai scienziato famoso gli viene riservato un trattamento di “favore” e gli viene permesso di aver documentazioni atte a proseguire in carcere i suoi lavori. Durante il periodo carcerario incontra Templier responsabile per le edizioni Hachette e stipulano il contratto per la stesura Geografia universale. Nonostante i “privilegi” carcerari riservati all’ormai grande scienziato Élisée nel 1871 viene deportato in Nuova Caledonia. Gruppi di scienziati inglesi ed americani, saputo l’accadimento fanno pressioni presso il governo francese che è quasi obbligato a tramutare la condanna alla deportazione in 10 anni di esilio. Élisée lascia la Francia con i ferri ai polsi nel febbraio 1872, destinazione Svizzera, raggiungendo il fratello maggiore che era riuscito a riparare nel paese, a quei tempi, “amico” degli anarchici. Riprende immediatamente i contatti con Bakunin a Zurigo, ma comunque è preso quasi completamente dal suo lavoro di geografo.

 Nuova Geografia Universale

Avendo firmato il contratto per una Nouvelle Geographie Universelle (Nuova Geografia Universale) è impegnato a conservare il lavoro per aver mezzi di sussistenza. Iniziano i viaggi nei paesi su cui deve scrivere per aver notizie e dati aggiornati: in tali viaggi prende contatti con gli anarchici locali oltre che, ovviamente, con i geografi; alcuni di questi sono sia geografi che anarchici e quindi i legami che si instaurano sono doppi, e questo è proprio quanto capita con Kropotkin. Kropotkin aiuta moltissimo Reclus nel redigere il volume dedicato alla Russia. I due scienziati rivoluzionari si incontrano nel 1877 e resteranno legati da enorme amicizia. Nel contempo impostano nuove teorizzazioni per l’evoluzione del movimento anarchico, in particolare gettano le basi per l’anarco-comunismo, questione già in parte affrontata da Bakunin.

« “Il nostro comunismo non è né quello dei falansterii, né quello dei teorici autoritari tedeschi. È il comunismo anarchico, il comunismo senza governo, quello degli uomini liberi. È la sintesi dei due fini perseguiti dall’umanità nei secoli, la libertà economica e la libertà politica. (Kropotkin, La Conquista del Pane). »

[8]. Reclus è assai impegnato nel suo lavoro di geografo per cui il tempo da dedicare alla politica non è molto soprattutto per la stesura della Nuova Geografia Universale, enorme lavoro in 19 volumi, comunque continua a scrivere articoli per pubblicazioni anarchiche e finanzia il movimento; nel contempo insegna presso l’università di Neuchâtel e tiene relazioni e conferenze, soprattutto sul Mediterraneo. La camera nel 1879 vota una parziale amnistia per i fatti della Comune di Parigi, nella cui norma rientra il caso dei Reclus, ma Élisée rifiuta di rientrare in patria fino a che non solo parzialmente ma tutti i comunardi verranno amnistiati.

Iniziano le visite nei paesi stranieri ed esotici, per il tempo, quali l’Egitto per la stesura del suo enorme lavoro geografico. Soggiorna nel Maghreb mentre la famiglia con una delle figlie prende alloggio in Algeria, va in Portogallo e Spagna per consultare documentazione inerente all’America Latina. Nel 1889 ritorna in Luisiana ma si dedica alla ricerca su nuove regioni quale quella dei Grandi Laghi e consulta la ricca biblioteca di New York. Finalmente nel 1890 lascia l’ospitale Svizzera e torna a Parigi muovendosi per viaggi continui relazionati al suo lavoro di geografo. Pur non disponendo di titoli accademici la sua fama gli poteva permettere l’ingresso nel Collegio di Francia. Ciò non accade in quanto i suoi trascorsi politici e la sua impostazione riguardo ai problemi della società è invisa in Francia. Esce l’ultimo volume della Nuova Geografia Universale, e finalmente nel 1894 viene chiamato dall’Università Libera di Bruxelles. Il fatto che sia uno scienziato libertario provoca resistenze ed opposizioni da parte dei colleghi. Élisée ed Elia Reclus con un altro scienziato libertario fondano quindi la Nuova Università di Bruxelles che per oltre venti anni avrà contatti e collaborazioni con l’Università libera. I docenti non hanno sovvenzioni statali sia per stipendi sia per i lavori di ricerca; ma Reclus trova i fondi indispensabili tramite i suoi articoli che vengono favorevolmente pubblicati ed altri lavori nel campo della geografia applicata, in particolare si dedica alla cartografia. Nel contempo progetta e parte per la realizzazione di un grande globo in rilievo, in quanto uno dei punti di forza del lavoro di Élisée era riuscire ad avere una esatta riproduzione del globo terracqueo.

 

L’Uomo e la Terra

Reclus si dedica quindi all’ultimo e forse più importante dei suoi scritti: L’Uomo e la Terra, in sei tomi. L’opera è impostata come saggio di geografia sociale nel quale tratta i tre temi per lui indispensabili alla comprensione della geografia in senso reale e non astratto; cioè

« “La lotta tra le classi, la ricerca dell’equilibrio e il ruolo primario dell’individuo” »

[8]. È un vasto rifacimento critico che tratta della storia, dei progressi e delle lotte dell’umanità dalla preistoria al XX secolo collegato alle situazioni ambientali sociali legate a loro volta a condizioni geografiche della zona presa in considerazione e quindi l’impostazione resta di tipo geografico e non sociologico. Gli ultimi due tomi son più dedicati alla geografia umana generale. Élisée è malato e stremato da una vita vissuta gagliardamente e muore a Thourout, in Belgio il 4 luglio 1905: il nipote Paolo, figlio di Elia prende in consegna il lavoro dello zio e fa in modo che siano pubblicati gli ultimi 5 tomi dell’immane lavoro e, nel frattempo, prende la dirigenza della Nuova Università di Bruxelles, la cui vicenda avrà termine nel 1914.

Pubblicazioni in italiano

  • Alcune lettere di Élisée Reclus in Pensiero e volontà,[9] Anno 1 n. 24, p. 14-17 (15 dicembre 1924); n. 2 p. 42-46 (1. Febbraio 1925) CIRA, Lausanne
  • L’Anarchia. 7ª edizione. Pescara; Chieti, tipografia Di Sciullo (Bibl. del pensiero, n. 5). 1904. CIRA, Lausanne: Broch i 12405
  • Scritti in Labadie Collection[10] CIRA, Lausanne: Broch i 01591; New York Public Libraryfilm reprod.(1905)
  • “L’Anarchia e la chiesa”, in Pierre Kropotkin, L’organizzazione della vendetta… Ginevra; Bertoni, 1901. CIRA, Lausanne; New York Public Libraryfilm reprod.
  • Un Anarchico sull’anarchia. Bologna: Il Pensiero (Piccola biblioteca sociologica), 1911. 28
  • (stesso; Milano: Archivio proletario internazionale[11], s. d. 20 p. ill. 21 cm.
  • L’Avvenire dei nostri figli [e] I prodotti dell’industria, Padova: (Biblioteca di propaganda del circolo studi sociali di Padova); 1893. 16 p.
  • ” Le Colonie anarchiche “, in Pensiero e Volontà, anno 3, n. 11 ^/ 249-251 (1. Luglio 1926) CIRA, Lausanne
  • L’Evoluzione, la Rivoluzione e l’Ideale anarchico, Il Risveglio Comunista Anarchico/Le Réveil communiste anarchiste, Ginevra (Svizzera), (dal n. 423, del 20 genn. 1915, al n. 440 dem 22 lug. 1916). (CIRA, Lausanne; IISG, Amsterdam; Biblioteca Feltrinelli, Milano).
  • ” L’evoluzione, la rivoluzione e l’Ideale anarchico “, Pagine libertarie, Milano, dal 5 ag. 1921 (a. I, n. 4) all’8 apr. 1922 (a. II, n. 5).
  • “L’Evoluzione delle città, ” in Geografia_sociale p. 151-174.
  • L’Evoluzione legale e l’anarchia. Roma: Libreria Editrice sociologica e Libertaria, 1911
  • L’Homme: geografia sociale; a cura di Pier Luigi Errani. – Milano: F. Angeli (1983). Trad. de L’homme et la Terre. (Anthologia)
  • I Libri di anarchia. Buenos Aires, 1930 in-8º. 171 et 157 p.
  • La Lotta contro la Chiesa. Roma: “La Rivolta” (Il Pensiero anticlericale; 14) International Institute of Social History[12], Amsterdam (Holland); An 33/171).
  • ” A mio Fratello contadino “, Grido degli oppressi (1893) II,12 et III, 3.
  • Sorgiamo! Napoli, I (12 giu. 1910). con prefazione di Carlo Molaschi. (S. I.); Federazione comunista Libertaria Ligure, 1945 CIRA, Lausanne: Broch i 05520
  • Nuova Geografia universale, la terra e gli uomini. Trad. italiana con note ed appendici di A. Brunialti. Milano ecc. ; Vallardi ed altri editori (1884-1897). 18 vol. Con carte, indici e tabelle.
  • L’Europa centrale. Svizzera-Austria-Ungheria-Germania. Introd. generale di A. Brunialti. 1884. 4 vol, LXXII, 1135 p
  • L’Europa del Nord-Ovest. Belgio-Olanda-Isole Britanniche. 1888. 2 voli, 1110 p
  • La Francia. 1892. 961 p
  • L’Europa scandinava e russa. 1894. 1008 p
  • L’Asia russa. 1896. 1032 p
  • L’Asia orientale. Impero Cinese-Corea-Giappone. 1892. 992 p
  • L’India e l’Indo-Cina. 1888. 2 voli, 108 International Institute of Social History, Amsterdam
  • ” L’Opinione de E. Reclus sull’eventuale emigrazione cinese in Europa “, Bollettino della Società geografica italiana, 3ª ser., vol. 8 (Giugno 1895) n. 6, p. 174-175.
  • ” L’Origine animale dell’uomo “, Almanaco populare socialista, Torino, 1897. (Bibl. nat. de France)
  • Pagine di sociologia preistorica [per Élisée Reclus]. (Mantova: “L’Università popolare”,), 1903. In-8º, p. 596-599.
  • ” Il Pensiero di Élisée Reclus in fatto di elezionismo “, L’Azione Operaia, Fabriano,14lug. 1906
  • Perché siamo anarchici? Bologna, Libreria internazionale di avanguardia, s. d. 5 p. 16 cm.
  • CIRA, Lausanne, Broch i 12408) (1981) Trad. di Genuzio Bentini. I-Barrali (CA). 5 p. 17 cm.
  • ” Perché siamo Rivoluzionari “, La Voz del Destierro, São Paulo (Brasile), (6 genn. 1903).
  • di La Conquista del pane di Kropotkin. Paterson, N. J. ; 1899. In-16. (Bibl. nat. de France).
  • di Parole d’un Ribelle. di Kropotkin; Opera pubblicata con note e prefazione da Élisée Reclus. : 1ª Edizione integra italiana preceduta d’una nuova prefazione dell’autore.
  • Paterson, N.J. : Gruppi I Risorti e Verità; Ginevra; Il Risveglio socialista-anarchico; editore tipografia Tessin-Touriste-Lugano, 1904. II, XVI, 273 p. ; 8º. (BNS)
  • Max Nettlau, Michel Bakunin Uno Schizzo biografico. Con una prefazione di E. Reclus. Tradotto dal tedesco a cura dell’Avv. Libero Merlino, Messina; Biblioteca dell'” Avvenire sociale “, 1904.
  • di Michele Bakunin, Dio e lo Stato. Bologna; 1949 CIRA, Lausanne
  • ” I Prodotti della Terra “, L’Operaio, Reggio Calabria, 1888
  • Popolo!Popolo! Mantova, Piubega I (9 mar. 1902) n.4.
  • I prodotti della terra e dell’industria. Ginevra: L. Bertoni, 1901(Biblioteca Socialista-Anarchica; 9). 32 p. 17 cm. (Bibl. nat. de France): 8º R. 28437; BNS; CIRA, Lausanne Broch i 12409)
  • Propaganda socialista. Evoluzione e rivoluzione Torino; A. Mari, 1885. In-16, 16 p. (Bibl. nat. de France): 8º R. Pièce. 14378).
  • “La Ricchezza e la miseria “, Il Socialista, Buenos Aires, (1885) a partire dal n. 6. Riprodotto in modo anonimo. intr. di Charles Malato, Religione e patriottismo. Roma; Il pensiero, 1906. (BNS; CIRA, Lausanne)
  • Rapporti al Congresso di Parigi. Ginevra: L. Bertoni, [1901]. II, 32 p. ; 8º. Biblioteca Socialista-Anarchica; 5; [1]: L’Organizzazione della vendetta chiamata giustizia — [2]; L’Anarchia e la Chiesa — [3]: L’Evoluzione recente fra i Socialisti di Stato.
  • Scritti sociali. 2 vol.
  • I Impressioni e ricordi di Luigi Galleani; con due manoscritti, un designo, e tre ritratti fuori testo ” Buenos-Aires; I libri di anarchia, 1930 CIRA, Lausanne Bi 011-1; Università del Michigan, Labadie Coll. : microfilm
  • stesso Vol. II ” con delle note biografiche di Giacomo Mesnil; quattro fotografie fuori del testo” *Buenos Aires: i libri di Anarchia, 1930. 157 p. ill. 21 cm. CIRA, Lausanne Bi 011-2; U. of Michigan, Labadie Coll. : microfilm)
  • (1951) Scritti sociali, volume unico. Note biografiche di Giacomo Mesnil. Bologna Libreria internazionale di avanguardia. 162 p. CIRA, Lausanne.
  • La Sicilia e l’eruzione dell’Etna nel 1865 (ristampa anastatica) 1999 B&B editori Catania
  • Viaggiatori italiani e stranieri in Sicilia Giuseppe Pitrè, Aurelio Rigoli, 2000: Edizioni Documenta, Comiso.
  • La Sicilia: due viaggi di F. Bourquelot, E. Reclus. Catania, Dafni, 1987, Harvard Depository[13].
  • Storia di un ruscello. Trad. di Laura. Milano: Brigola, [1885]. IV, 275 p. International Institute of Social History, Amsterdam
  • “Sviluppo della libertà nel mondo”, in Scritti_sociali CIRA, Lausanne
  • “Sviluppo del progresso nel mondo “, Pensiero e Volontà, Anno 2 n. 12. P. 279-287. (1º ottobre 1925). CIRA, Lausanne
  • Teoria della rivoluzione. Roma, 1905, International Institute of Social History, Amsterdam
  • “Verra!” Cronaca Sovversiva (3 lugl. 1905), nat. de France
  • su Bakunin da Il pensiero, Roma (1903).

 

Note^ (FR) Léo Campion, Le drapeau noir, l’équerre et le compas : les Maillons libertaires de la Chaîne d’Union, testo integrale.

  1. ^ « Élisée Reclus sarebbe dunque stato iniziato nel 1858 ! 1858 o 1861 ? In ogni modo è stato iniziato dopo il suo ritorno dall’esilio che ha seguito il colpo di stato del 2 dicembre 1851, e prima del suo incontro con Bakunin nel 1864 », Revue belge de géographie, Volumes 110 à 112, 1986, page 10.
  2. ^ Jean-Paul Bord, Raffaele Cattedra, Ronald Creagh, Jean-Marie Miossec, Georges Roques, Elisée Reclus – Paul Vidal de la Blache : Le géographe, la cité et le monde, hier et aujourd’hui, L’Harmattan, 2009, page 13.
  3. ^ Revue belge de géographie, Volumes 110 à 112, 1986, page 10.
  4. ^ (FR) RECLUS, Élisée, L’Anarchie, Conférence prononcée le 18 juin 1894 aux franc-maçons de la loge “Les Amis Philanthropes” de Bruxelles, précédée d’une notice préliminaire, testo integrale.
  5. ^ Revue belge de géographie, Volumes 110 à 112, 1986, page 21.
  6. ^ il socialismo di Pierre Leroux
  7. ^ a b biografia Élisée Reclus
  8. ^ La rivista anarchica“pensiero e Volontà” nacque a cavallo fra il 1924 e 1925, la censura fascista alla fine del 1926 costrinse alla cessazione delle pubblicazioni “pensiero e Volontà”, su cui fra l’altro scrivevano Errico Malatesta e Camillo Berneri
  9. ^ Labadie Collection
  10. ^ sito attuale, Viale Monta 255 I – 20126 Milano Italia
  11. ^ sito di International Institute of Social History
  12. ^ Harvard Depository

Geografo, ma anarchico. Élisée Reclus, storia di un uomo libero.

Come già fatto in altre simili occasioni, propongo qui i materiali documentali utilizzati per la puntata di RADIO THULE del 17 novembre 2014 dedicata ad Élisée Reclus (QUI il podcast), geografo, scienziato, attivista politico, filantropo tanto misconosciuto quanto fondamentale per la nostra visione e concezione del mondo in cui viviamo – del quale peraltro disquisii anche QUI.
Della sua misconoscenza me ne sono reso conto anche durante la presentazione di un recente lavoro cartografico al quale ho contribuito (curando i testi delle schede di inquadramento geografico e storico-culturali relative), e nella qual presentazione il mio intervento si è basato anche sui dettami grazie ai quali Reclus seppe rivoluzionare la disciplina geografica, appunto. Non c’è alcuna colpa in chi non lo conosca, ovviamente, e pure io mi ci sono imbattuto abbastanza per caso: al solito molti personaggi fondamentali per l’ evoluzione della civiltà umana vengono dimenticati per far posto a tanti altri del tutto evanescenti, se non inutili e/o dannosi… Reclus, invece, fu veramente un rivoluzionario delle scienze geografiche, padre spirituale di una “geografia sociale” in grado di cambiare il punto di vista comune sul nostro pianeta, sulla sua storia e la sua raffigurazione, nonché anticipatore di molte delle discipline legate a quelle scienze geografiche, dalla gestione del suolo all’ ecologia, dall’antropologia culturale in chiave moderna all’ ambientalismo.
Da conoscere, insomma, senza dubbio alcuno, e spero qui di potervi offrire qualche spunto iniziale per “incontrare” Reclus e, magari, approfondire sempre più la sua conoscenza.

 

Un uomo libero
di Béatrice Giblin

“Ho girato il mondo da uomo libero…”. Così Élisée Reclus si presenta ai suoi lettori. Affermazione assolutamente legittima se si ha presente la sua vita. Che un geografo percorra il mondo è più che normale anche se nel XIX secolo sono ancora in pochi a farlo; ma che rivendichi a piena voce di averlo fatto da uomo libero, questa non è una cosa del tutto ordinaria, tant’è vero che i geografi avevano fama di conservatori, e i pochi che non lo erano, avrebbero trovato incoerente e fuori luogo proclamare le proprie convinzioni politiche al termine dell’introduzione di un libro di geografia fisica! E la stessa cosa vale per oggi.

Ma Élisée Reclus non è affatto un geografo come gli altri; ebbe la strana idea di essere un geografo libertario. E il prezzo di questa audacia fu, dopo la sua morte, il silenzio e l’oblio, malgrado la ampiezza della sua opera. Chi conosce oggi Élisée Reclus? Chi sa che fu un geografo estremamente celebre nel XIX secolo?

Se gli anarchici lo riconoscono come uno dei loro (fu amico di Bakunin e di Kropotkin), i geografi francesi l’ignorano altezzosamente, come se Reclus non fosse stato che un oscuro geografo di un’epoca “prescientifica”. E tuttavia la sua fama è dovuta ben più alla qualità dei suoi lavori geografici che alla portata teorica dei suoi scritti anarchici. Questo scienziato aveva acquisito una notorietà internazionale, gli scienziati dell’epoca lo ritenevano uno dei migliori, tutti lo consideravano un geografo di grande talento. E la gente non si fece ingannare: le sue opere vennero pubblicate in migliaia di copie, furono riedite più volte, tradotte in inglese, in russo, in spagnolo, in italiano. Perché allora questo silenzio, perché questo oblio? Chi era dunque Élisée Reclus, geografo tanto rinomato e tanto presto dimenticato? Da dove viene questo geografo libertario?

Originario del sud-ovest della Francia, Élisée Reclus nasce a Sainte-Foy-la-Grande, cittadina della estremità della Dordogna, il 15 marzo 1830. È il terzo figlio di Jacques Reclus, un pastore calvinista (un vero mistico) e di Zéline Trigant, proveniente da una famiglia borghese di Bordeaux, sicuramente poco preparata a una famiglia numerosa: undici figli. Ella dovette mettersi a fare l’istitutrice per supplire ai bisogni della famiglia, in quanto suo marito era più preoccupato dei suoi rapporti con Dio che dei problemi materiali.

Nel 1831, la famiglia Reclus si stabilisce a Orthez, vicino ai Pirenei. A tredici anni, Eliseo segue suo fratello e sua sorella maggiore a Neuwied, in Germania, in un collegio religioso diretto dai Fratelli Moravi, giacché il pastore Reclus aveva giudicato che solo questa congregazione religiosa fosse degna di fiducia. E in questo si sbagliò parecchio, perché Élisée Reclus rimase nauseato dall’ipocrisia di quei religiosi, più smaniosi di incassare soldi che di educare seriamente i loro allievi. Questo periodo trascorso in Germania non dura che un anno, ma rappresenta un taglio netto colla sua famiglia: scarsa corrispondenza, nessun ritorno in Francia. È costretto a imparare rapidamente il tedesco. Nel 1844, rientra a Sainte-Foy-la-grande per continuare gli studi superiori. Si diploma nel 1848, dopo aver passato un anno nel seminario protestante di Montauban, in quanto a quel tempo pensa ancora di voler fare il pastore, riparte per la Germania, a Neuwield presso i Fratelli Moravi, ma stavolta come sorvegliante; in realtà, i suoi genitori erano troppo poveri per finanziare più a lungo i suoi studi. Dopo sei mesi, è tanto stufo che decide di partire per Berlino e iscriversi all’Università; là segue più o meno fortuitamente i corsi di geografia di Carl Ritter, uno dei primi geografi universitari, famosissimo in Germania. Nel settembre del 1851, ritorna a piedi a Orthez, in compagnia di suo fratello Elia che aveva terminato i suoi studi di teologia a Strasburgo. Per economia ma anche per diletto, i due fratelli attraversano quindi la Francia a piedi, dormendo di notte sotto le stelle. Qualche tempo dopo, scoppia il colpo di stato del 2 dicembre. Repubblicani convinti, i fratelli Reclus si oppongono al colpo di mano del futuro imperatore e, senza essere ufficialmente esiliati, devono rifugiarsi in Inghilterra.

Per guadagnarsi da vivere, Eliseo dà qualche lezione, ha contatti con altri esuli francesi, quelli del 1848 e quelli del colpo di Stato, ma non sta bene in Inghilterra ed è deluso per l’accoglienza che gli inglesi riservano ai rifugiati politici. Alla prima occasione si stabilisce in Irlanda in qualità di amministratore di un’azienda agricola. S’interessa a questo paese di cui esamina la tragica situazione economica e sociale, quattro anni dopo la terribile carestia del 1847 e per tutta la vita manterrà il medesimo interesse per questo paese di cui prevede le difficoltà ineluttabili provocate dall’occupazione inglese. Quindi lascia l’Irlanda per la Louisiana dove si ritrova precettore dei figli di un coltivatore di canna da zucchero per due anni. Analizza con ogni agio la società sudista e, scandalizzato per il comportamento degli uomini di chiesa che difendono i piantatori contro gli schiavi, si volge definitivamente all’ateismo. Aveva già rinunciato ad essere pastore, ma era rimasto credente.

Nel 1855 Reclus parte per la Colombia, che a quel tempo si chiamava Nuova-Granata, dove tenta invano di sistemarsi come piantatore di caffè. Dopo numerosi fallimenti, malato, senza un quattrino, indebitato, rientra in Francia nel 1857. Ma ha dei quaderni di viaggio pieni di note e di osservazioni personali e al suo ritorno cerca di pubblicare qualche articolo basato su quegli scritti. L’interesse di Reclus per la geografia si viene confermando a poco a poco ed ha una gran voglia di descrivere i paesaggi tanto variati attraverso cui ha viaggiato e scrivere sul mondo gli pare un compito esaltante. Prende allora contatto con diversi scienziati famosi e redige qualche articolo. La casa editrice Hachette vuole pubblicare il resoconto dei suoi viaggi e gli propone, intanto, di lavorare alla raccolta delle guide Joanne che essa pubblica e ad altre pubblicazioni geografiche. Eliseo entra da Hachette come geografo nel dicembre del 1858 e comincia a girare, perlopiù a piedi, per la Francia e nei paesi vicini, per compilare le sue guide. La pubblicazione di alcuni articoli di geografia fisica gli permette anche di aderire alla Società di Geografia di Parigi, che era assai attiva a quel tempo e soprattutto possedeva la migliore biblioteca di opere geografiche ed un grandissimo numero di carte.

Nel 1869 esce la prima opera di Élisée Reclus: La Terre. È un vero e proprio trattato di geografia fisica che conosce un enorme successo.
Malgrado il poco tempo che gli lasciano le sue attività geografiche (viaggi, pubblicazioni, ecc.), Élisée Reclus dimostra d’essere un militante attivo nell’ambiente socialista prima e poi anarchico. S’era interessato fin dalla prima giovinezza alle idee socialiste; aveva letto Leroux, Owen, Fourier. Al suo ritorno dall’America, viene affascinato, come suo fratello maggiore Elia, dagli ideali anarchici che gli paiono gli unici ad accordare tanta importanza all’individuo. La sua educazione protestante è indubbiamente all’origine della costante preoccupazione per i diritti dell’individuo e ancor più il protestantesimo personale di suo padre che in ogni circostanza non seguì che la sua coscienza e rifiutò sempre di limitare la propria libertà, non volendo nulla e nessuno tra sé e Dio.

Il protestantesimo in seno al quale Élisée Reclus è stato educato è in realtà una linea di vita, una morale che si basa sull’autonomia totale dell’individuo, effettivamente responsabile di se stesso e che non deve render conto dei suoi atti che a Dio. Diffidenza dunque verso i riti e le organizzazioni che non son altro che barriere destinate a controllare gli uomini e le donne. Questi principi, è chiaro, non han potuto che favorire l’avvicinamento di Reclus all’anarchismo. Ardente difensore di tutti gli oppressi, avversario dichiarato dello Stato e di tutte le leggi che non siano naturali, egli milita cogli anarchici.

Nel 1864, Reclus conosce Bakunin e aderisce, col fratello, alla società segreta “La Fratellanza Internazionale”, lo segue nelle attività dell’Internazionale dei lavoratori, in cui incontra i sostenitori di Marx, coi quali gli anarchici entrano ben presto in contrasto. Marxisti ed anarchici divergono sul cammino da seguire per arrivare alla liberazione dei lavoratori. I primi ritengono che non si debba trascurare la via legale e attribuiscono un ruolo primario all’organizzazione, mentre gli anarchici son convinti che sia illusorio progettare la rivoluzione per tale cammino. Marx ed Engels del resto parlano dei fratelli Reclus in termini ironici e spregiativi.

Le idee anarchiche di Élisée Reclus si radicalizzeranno ancor più all’epoca della Comune di Parigi. Naturalmente, segue con partecipazione gli inizi del moto, coi suoi fratelli Elia e Paolo. Dinanzi all’atteggiamento rinunciatario dei versagliesi nei confronti dei prussiani, i fratelli Reclus entrano in un battaglione di federati. Ma per Élisée Reclus il combattimento è brevissimo, perché vien fatto prigioniero fin dai primi d’aprile del 1871 e imprigionato nella rada di Brest. La sua fama di scienziato gli permette di godere di condizioni detentive relativamente favorevoli. Può persino disporre di una parte della sua documentazione per proseguire il suo lavoro. È in prigione che negozia con Templier, delle edizioni Hachette, il suo contratto per la redazione di una Geografia universale.

Nel novembre del 1871, viene condannato alla deportazione in Nuova Caledonia.

Questa condanna non passa sotto silenzio e un gruppo di scienziati stranieri (inglesi ed americani) ottiene dal governo francese, nel febbraio del 1872, la commutazione della sua pena in dieci anni di esilio. Reclus ammanettato, lascia la Francia per la Svizzera, dove raggiunge suo fratello maggiore che vi si era già rifugiato.

Ben presto Reclus riprende i contatti con i suoi amici anarchici (Bakunin è a quel tempo a Zurigo), ma si dedica soprattutto al suo lavoro di geografo. Nell’estate del 1872 ha firmato un contratto con le edizioni Hachette per la redazione di una Nuova Geografia universale. Deve conservare questo lavoro e guadagnarsi da vivere. Per entrare in possesso di informazioni aggiornate, Reclus non esita ad andare nei paesi che deve descrivere. Quindi viaggia enormemente, s’informa presso i suoi amici geografi o anarchici. Quando costoro riuniscono ambedue le qualità, è l’ideale. È il caso di Kropotkin. I due si incontrano nel 1877 e resteranno amici fedelissimi. Kropotkin ha aiutato moltissimo Reclus nella redazione del volume della Geografia universale dedicato alla Russia. Insieme, collaborano pure a mettere in piedi un nuovo orientamento del movimento anarchico, l’anarchismo comunista, che condanna la proprietà privata: “Il nostro comunismo non è né quello dei falansterii, né quello dei teorici autoritari tedeschi. E il comunismo anarchico, il comunismo senza governo, quello degli uomini liberi. È la sintesi dei due fini perseguiti dall’umanità nei secoli, la libertà economica e la libertà politica. (Kropotkin, La Conquista del Pane).

Malgrado l’interesse che ha verso il movimento anarchico, Reclus non ha tempo da dedicargli. Tuttavia scrive qualche articolo e sostiene finanziariamente alcune pubblicazioni anarchiche. La massima parte del suo tempo va alla stesura della Nuova Geografia universale, opera colossale: 19 grossi volumi. Insegna anche all’università di Neuchâtel dove per parecchi anni tiene conferenze di geografia sul Mediterraneo. Nel 1879, la Camera dei deputati vota un’amnistia parziale che si applica ai fratelli Reclus, ma Eliseo rifiuta di rientrare in Francia finché tutti i comunardi non saranno amnistiati: bell’esempio di rettitudine politica.
Sempre per la redazione della sua Geografia universale visita l’Egitto, soggiorna varie volte nel Maghreb, (una delle sue figlie sta con la famiglia in Algeria); in Spagna, in Portogallo, dove consulta gli archivi della colonizzazione dell’America del Sud allo scopo di accrescere la sua documentazione. Nel 1889, parte per gli Stati Uniti. Ritorna in Louisiana, ma scopre soprattutto nuove regioni, i grandi Laghi, New York e lavora moltissimo anche in biblioteca.

Nell’estate del 1890, Reclus lascia la Svizzera e rientra a Parigi pur continuando a viaggiare moltissimo. Non rimane che quattro anni a Parigi, dove l’istituzione universitaria non gli offre alcun posto d’insegnamento. Naturalmente non ha titoli accademici ma la sua notorietà eccezionale gli poteva aprire le porte del Collegio di Francia. Non è così: si deve considerare che questo geografo di talento, ma libertario e abbastanza originale, non trova collocazione nell’istituzione. Dopo l’uscita dell’ultimo volume della Nuova Geografia universale, nel 1894, viene chiamato dall’Università libera di Bruxelles.
In realtà, l’arrivo di un geografo libertario viene contestato e in definitiva respinto da numerosi docenti. Così Eliseo, suo fratello Elia e qualche altro insegnante dalle stesse idee, fondano la Nuova Università di Bruxelles, che d’altronde coesiste pacificamente per vent’anni con l’Università libera. I professori non vengono pagati dallo Stato e questa università non riceve alcuna sovvenzione. Così Reclus deve darsi da fare per guadagnarci un po’ di denaro con le sue pubblicazioni e i suoi lavori di cartografo per assicurare delle entrate al corpo insegnante che lavora con lui. È anche assorbito moltissimo nella realizzazione di un gigantesco globo in rilievo, perché Élisée Reclus s’è sempre preoccupato dei problemi connessi ad un’esatta riproduzione della terra.
Ma soprattutto dedica le sue ultime forze a un’opera che egli considera come il coronamento delle sue fatiche. L’Uomo e la Terra, in 6 tomi. Reclus la definisce “Un’opera di geografia sociale” in cui tratta tre temi da lui considerati fondamentali: “La lotta tra le classi, la ricerca dell’equilibrio e il ruolo primario dell’individuo”. È un vasto affresco storico delle lotte e dei progressi dell’umanità dalla preistoria fino agli inizi del XX secolo. Ma è pure (i due ultimi tomi) un trattato di geografia umana generale.

Malato da qualche tempo, muore a Thourout, in Belgio, il 4 luglio 1905. Suo nipote Paul Reclus, figlio di Elia, si incaricherà di far uscire gli ultimi cinque volumi e gli succede alla testa dell’Istituto di geografia della Nuova Università di Bruxelles, che scompare nel 1914.

 

Alle origini della geografia sociale
di Yves Lacoste

Élisée Reclus è nato 150 anni fa ed è morto 75 anni fa, l’anno in cui portava a termine L’homme et la terre, che è il coronamento della sua opera enorme e, oggi, ancora misconosciuta.

Per ciò riteniamo utile che i geografi e, più in generale, coloro che si interessano, per diversi motivi, alla geografia, prendano coscienza di quale è stata, veramente, l’evoluzione della Scuola geografica francese dal momento della sua costituzione, dei suoi progressi ma anche dei suoi passi indietro.

Per lungo tempo, fino agli anni ’60, i geografi non si son neppure curati di conoscere la storia della loro disciplina, come se fosse una preoccupazione del tutto accademica, motivo per intrecciare corone e rendere omaggio a questo o quel maestro. Si faceva e si fa ancora geografia, senza troppo chiedersi che cosa sia: prima si descrive, ovvero si sceglie nella realtà estremamente complessa che ci circonda, ciò che è geografico. Ma che cosa è geografico e che cosa non lo è? Questo dilemma fondamentale i geografi universitari non l’hanno mai chiaramente risolto e, per la massima parte, essi non prendono in considerazione che quelle categorie di fenomeni che i loro maestri hanno loro insegnato ad esaminare. Ogni geografo è stato innanzitutto uno studente che ha subito l’influenza dei suoi professori e, una volta terminato il suo periodo di istruzione, continua a far riferimento, anche inconsciamente, ad opere che la corporazione considera come modelli di descrizione e di ragionamento geografici. Questo “saper vedere” e questo “poter vedere” dei geografi (come dice C. Raffestin), e in realtà molto selettivo: a ragione ma anche a torto, essi lasciano in disparte una grandissima parte della realtà; a ragione, per quanto riguarda fenomeni non proiettati in cartografia, a torto per quei fenomeni che svolgono un importante ruolo nell’organizzazione dello spazio terrestre e che sono, tra l’altro, già rappresentati in cartografia, proprio a motivo della loro importanza politica. In effetti, i geografi non prendono in considerazione che le categorie di fenomeni che essi hanno imparato a considerare come “interessanti”, ossia quelli che è utile tenere in conto da un punto di vista ritenuto scientifico, secondo le tradizioni della corporazione e secondo l’idea che i loro maestri si fanno della scienza.

Una delle caratteristiche principali della geografia universitaria, da quando esiste in Francia ossia da circa un secolo, è l’esclusione dei fenomeni politici dal campo dei suoi interessi. La corporazione considera, contro ogni evidenza, che essi non sono affatto geografici e ritiene che prenderli in considerazione sia la negazione di un comportamento scientifico. Il termine geopolitica ha connotazioni obbrobriose, in quanto ci si ostina a non vederci altro che le argomentazioni che giustificano l’espansionismo hitleriano.

Pertanto è della massima importanza, non solo per i geografi ma anche per tutti quelli che si interessano di scienze sociali, spiegare quali siano state la grandezza e la ricchezza dell’opera di Élisée Reclus. Essa è rimasta completamente ignorata dalla corporazione dei geografi universitari e questo è un passo indietro notevole nell’evoluzione della loro disciplina, poiché, sotto moltissimi punti di vista, il metodo di Reclus è ancor oggi un esempio da seguire. Élisée Reclus e Vidal de la Blanche sono quasi contemporanei (il primo è nato 15 anni prima e il secondo è morto 14 anni dopo). Tuttavia Reclus, che è davvero il più grande geografo francese, è completamente sconosciuto, mentre Vidal viene considerato non solo come il fondatore della Scuola geografica francese, ma anche come il modello cui ispirarsi persino oggi. È da notare che la corporazione non ha conservato che una parte dell’opera di Vidal e che ignora del tutto, tuttora, il suo libro principale (La France de l’Est) poiché egli vi tratta, da geografo, un grave problema geopolitico. L’esclusione del politico è proprio il problema epistemologico centrale della geografia universitaria.

Riguardo al modello “vidaliano”, quanto meno quale lo concepisce la corporazione per giustificare il suo rifiuto ad affrontare i problemi geopolitici, l’opera di Élisée Reclus costituisce un modello alternativo. I geografi d’oggi dovrebbero ispirarvisi per meglio comprendere il mondo ed il ruolo che essi potrebbero avere.

Reclus è un grandissimo filosofo e ciò che ha scritto, soprattutto L’homme et la terre, dovrebbe suscitare l’interesse anche di coloro che non si dedicano alla geografia.

Federico Ferretti

Riscoprire Reclus ovvero che cos’è la geografia

In un incontro preliminare del congresso di Lione, gli organizzatori hanno spiegato il senso di un loro appello, diffuso mesi prima, per fare il punto su “Élisée Reclus e le nostre geografie”.

Reclus è stato riscoperto in Francia negli anni 70 come geografo impegnato politicamente e socialmente, che aveva una concezione molto larga della geografia, che per lui si deve occupare di un largo spettro di questioni, dalla storia all’antropologia fino ai problemi politici, ambientali e sociali che pone lo sviluppo industriale. Lo si è contrapposto ai geografi accademici successivi, più attenti agli stili di vita rurali, e se ne è fatto in qualche modo un “padre spirituale”. Secondo i lionesi occorre però approfondire veramente quello che ha detto, contestualizzarlo e vedere di volta in volta cosa può essere utilizzato.

Paul Boino in questo senso ha rimarcato come Reclus si distingue dal metodo marxista perché partiva dai fenomeni empirici senza applicarvi schemi o sistemi dati: c’è un approccio complesso e molto problematizzato che oggi è acquisito in quasi tutte la discipline ma all’epoca assolutamente innovatore. In particolare nell’analisi dei fenomeni sociali Reclus non utilizza la chiave economica al di sopra di tutte le altre questioni: prende in considerazione una larga serie di ambiti e di strumenti, ha un approccio interdisciplinare, con l’idea di una interazione dinamica fra il genere umano e l’ambiente.
Jacques Défossé ha sottolineato la svolta che si è verificata negli ultimi decenni ad opera di molti geografi, che hanno scelto di occuparsi di pianificazione e progettazione territoriale, e di una serie di questioni come il rapporto fra la popolazione, l’ambiente e le risorse. La disciplina geografica si propone di nuovo, “reclusianamente”, come una scienza utile, che tenta di farsi carico dei problemi politici, ecologici e sociali dell’immediato futuro: in generale, dare delle risposte sul mondo. È stata anche inaugurata, nel dipartimento di geografia dell’università Jean Moulin, una esposizione con pannelli sulla vita e le opere di Reclus, e una mostra di lettere, oggetti appartenuti al geografo ed alcune edizioni di raro pregio delle sue opere, in collaborazione con la famiglia. Essendo impossibile rendere conto in questo spazio di tutti gruppi di studio e gli incontri plenari, citeremo qualche intervento fra i più significativi.

Reclus e l’ambiente

Nell’atelier “Fabbrica e ottica dell’oggetto geografico” è stata perfettamente tempista la relazione di Yves-François Le Lay sui fiumi. Riguardava gli scritti sul Mississippi e la zona di New Orleans, visitate da Reclus negli anni 50 del XIX secolo. C’è uno studio attento e dettagliato delle opere necessarie alla salvaguardia di un tale bacino idrografico, nonché dei problemi della stabilità idrogeologica di una città come New Orleans: uno dei tanti aspetti profetici che sono stati sottolineati (forse anche all’eccesso) nell’opera di Reclus.

La tensione fra la necessità da una parte della vita e della giustizia sociale e dall’altra la salvaguardia e gestione dell’ambiente è stata sottolineata nelle relazioni sul pensiero urbano di Reclus, presentate da Paul Claval e Ignacio Homobono. Lo studio della storia della città attuale, specchio delle contraddizioni di classe, serve qui a costruire la città del futuro, idea che ha avuto una forte influenza sul pensiero urbanistico del XX secolo.

Reclus, l’educazione, le mappe.

L’Universitè Nouvelle, poi, teneva stretti contatti con la Scuola Moderna di Ferrer y Guardia ispirando analoghi esperimenti, purtroppo non sempre abbastanza studiati, in diverse parti d’Europa.
Anche di questa esperienza si è parlato in un atelier, ricordando quanto Reclus considerasse importante agire sulla formazione e l’istruzione. Al punto che all’Institut des Hautes Études si affianca per qualche tempo una Ecole des Petites Études frequentata in primo luogo dai numerosi rampolli della famiglia Reclus, che a Bruxelles si era trasferita in massa (il fratello Elie insegnava come antropologo, il nipote Paul si può considerare l’unico vero allievo del geografo).

Fra le altre cose, Henri Nicolaï e Soizic Alavoine-Muller hanno studiato quella che è stata definita l’”utopia geografica” alla quale si lavorava nel laboratorio di cartografia: Reclus non credeva nella carta geografica, che è falsa perché riduce la realtà selezionandola secondo i criteri ideologici della ragion di Stato, non a caso tutti gli istituti cartografici nazionali sono stati fondati monopolizzati dai militari. Il sogno (solo progettato) era presentare all’esposizione universale di Parigi un enorme globo in rilievo, di 127,5 metri di diametro, con una rappresentazione reale del mondo in scala 1:100.000.

Il laboratorio produsse comunque globi, e atlanti con proiezioni sperimentali. Da notare che nonostante la critica della mappa, che già caratterizzava Ritter e che sarà poi uno dei “piatti forti” dalla geografia radicale negli anni ’70, le opere reclusiane sono ricche di carte tematiche (in alcuni casi “geopolitiche”) estremamente innovative.

Élisée Reclus, geografo e anarchico

 Per secoli, l’Occidente ha guardato al mondo come spazio da occupare e i geografi sono stati spesso a servizio di conquistatori e colonizzatori alla ricerca di risorse da sfruttare. Si poteva invece essere geografi anarchici e attivisti contro il potere del capitale. Il francese Élisée Reclus, nato a Sainte-Foy-la-Grande, nella regione della Gironda, il 15 marzo 1830 e morto a Torgout in Belgio il 4 luglio 1905, è stato geografo libertario, comunardo, militante e teorico anarchico. Fu anche insegnante e scrittore prolifico, ma soprattutto è stato cittadino del mondo ante litteram. Precursore cioè di un particolare tipo di globalizzazione, quella democratica, anti capitalista e fatta dagli uomini e non dalle grandi imprese. Fu anche anticipatore della geografia sociale, della geopolitica, della geostoria e finalmente dell’ecologia. Con oltre duecento articoli di geografia, quaranta su argomenti diversi e ottanta di politica su periodici anarchici, ha lasciato un corpo sterminato di opere, tra cui le maggiori sono La Terre (1867-1868) in due volumi, Nouvelle Géographie Universelle (1875-1893) in diciannove volumi e L’Homme et la Terre (1905-1908) in sei.

Figlio di un pastore protestante, il giovane Élisée crebbe in una famiglia molto numerosa, studiò teologia in un collegio di preti ma scoprì presto di essere ateo e contrario al precetto del matrimonio in accordo con le idee libertarie e paritarie tra generi. Studiò geografia per un semestre a Berlino nel 1851, allievo di Carl Ritter, fondatore con Alexander Von Humbolt della geografia moderna. Insieme al fratello Élie, a lui maggiore di tre anni ed etnografo, nell’estate di quello stesso anno rientrò a piedi da Strasburgo fino a Orthez nei Pirenei Atlantici. La traversata a piedi della Francia intera deve aver contribuito a fortificare il suo carattere di geografo attento alla libertà personale e alle comunità. Per lui, «l’anarchia è la più alta espressione dell’ordine», di un ordine però fondato sulla volontà e la responsabilità individuali e non sul potere imposto da uno Stato.

Vista la temperie del periodo, tuttavia, l’esilio per motivi ideali era incombente. Dopo il colpo di stato del 2 dicembre 1851 di Luigi Napoleone Bonaparte, Élisée e il fratello furono infatti costretti ad espatriare per aver manifestato a favore delle idee repubblicane. Prima a Londra poi a Nuova Orléans e quindi nell’attuale Colombia e in altri stati del Sudamerica, Reclus girò buona parte del mondo in cerca di fortuna come coltivatore. Non ne trovò mai molta.

Fu riammesso in Francia nel 1856 e nel 1857 è finalmente a Neuilly-sur-Seine, cioè a Parigi, sempre con il fratello Élie. Nel 1858, sposò civilmente Clarisse Brian per stabilire un ménage communautaire con il fratello andato in sposo alla cugina Noémi Reclus. Da quest’anno l’editrice Hachette lo recluta come redattore delle guide turistiche, le Guide Joanne, favorendo la sua attività di scrittore instancabile di geografia. Nel 1871 prese parte alle barricate per le strade di Parigi in supporto alla Comune. Catturato dai gendarmi fu condannato all’ergastolo da scontare in Nuova Caledonia, arcipelago sperduto nell’Oceano Pacifico nei pressi dell’Australia. La terribile sentenza fu tuttavia mutata nell’esilio dalla Francia per il sostegno di molti intellettuali inglesi. Trovò asilo in Svizzera dove frequentò i circoli anarchici e dove scrisse la sua monumentale Nouvelle Géographie pervasa da uno spirito di grande umanità e comprensione, libera da pregiudizi nazionalisti e razziali. Che cosa sono le frontiere e le identità etniche se non invenzioni umane?

Reclus riuscì ad indicare che cosa gli uomini hanno in comune e non che cosa li divide, prima ancora che l’antropologia si distinguesse dalla vecchia visione etnologica dei libri di testo dell’epoca. L’ideale che guida la sua analisi socio-geografica è fondato sulla completa libertà individuale e sull’azione volontaria di una comunità sociale. La soppressione del privilegio, dell’autorità arbitraria, della proprietà privata, può liberare l’azione spontanea, il mutuo rispetto e la cooperazione intelligente con le leggi naturali. L’uomo che diventa padrone di sé stesso pone fine all’apparente dualismo tra conservatorismo/moderazione e liberalismo/progresso. Anche l’idea di socialismo è troppo piccola: sono poche briciole invece dell’intera fetta di libertà. L’uomo padrone di se stesso non ha bisogno di prostrarsi davanti a Dio né ha bisogno dello Stato. Ma deve capire fino in fondo di far parte della natura.

Una delle immagini più famose tratte dai lavori di Reclus è posta sopra la prefazione de L’Homme et la Terre ed è quella di due mani che sostengono la terra abbinata al motto «L’umanità è la natura che prende coscienza di sé». Il destino della terra è nella mani dell’umanità, ma questa può solo assolvere la propria gravosa responsabilità solo se consapevole di essere parte integrante della natura, invece di coltivare l’illusione di essere un potere che la sovrasta. Le mani sono quelle della natura che agisce tramite l’umanità, ma lascia a noi eventuali lettori dare più enfasi all’umanità o alla natura.

Un’altra immagine dall’interpretazione meno ambigua orna la copertina del primo volume dell’opera. Qui è la natura stessa che contempla il mondo mentre lo tiene tra le mani. La lezione geografica ancora attuale è che contemplare e tenere in mano sono parti inseparabili di un medesimo processo. L’attitudine a tenere nelle braccia le cose care, i figli, è tipica dell’atteggiamento materno e la terra è madre perché si prende cura del mondo, dell’umanità, delle future generazioni. Il mondo va protetto, preservato e riparato.

La visione geografica di Reclus inquadra un’umanità che sviluppa l’autocoscienza di essere parte della terra e per questo in grado di comprendere come i costi del dominio economico, politico e tecnologico sul mondo esploderanno inevitabilmente come crisi ecologica. Il limiti dello sviluppo sono i limiti del pianeta, e l’attività umana potrà continuare solo all’interno di questi per evitare la catastrofe, il collasso globale. La coscienza di questo pensiero è oggi molto diffusa. Ma non è questo il problema, perché la coscienza non è automaticamente azione.

La cultura consumistica e produttivistica continua a colonizzare il pianeta e va di pari passo con la l’espandersi dei fondamentalismi identitari, nazionalistici e religiosi. Consumismo ed enfasi identitaria sono l’effetto dell’espansione del capitalismo e dei meccanismi di sorveglianza, controllo e annientamento sociale, incapaci di autoriformarsi. L’ideale anarchico di Reclus vede la sostituzione del dominio capitalistico sul mondo con la formazione di comunità socio-ecologiche multilaterali, coinvolte e compartecipi della solidarietà tra umanità e natura. La visione profetica di Élisée Reclus indica una meta che può essere lontana e utopica, ma lascia intuire molti singoli passi che ogni essere umano può compiere quotidianamente.

 

ELISEO RECLUS, UN GEOGRAFO PER L’ANARCHIA

Di Francesco Lamendola

A dispetto del fatto che l’Enciclopedia Italiana, alla voce “Anarchismo”,  reciti (anche nell’edizione del 1949), che tale ideologia politica aveva attirato “i cervelli più infiammabili e i cuori meno generosi”, la storia del movimento libertario nel XIX secolo vanta, accanto alla schiera dei lavoratori sfruttati, alcuni dei più bei nomi della scienza e dell’arte. Uomini dalla cultura così profonda e dalla sensibilità tanto acuta da avere compreso, prima e meglio di tanti loro colleghi accademici parrucconi, quanto urgente fosse una svolta sociale in senso libertario, quanto precario un ordine politico che continuava a basarsi, in piena era scientifica e industriale, su una visione burocratica e centralistica della vita sociale. Non è un caso che diversi di loro venissero dallo studio della geografia, la più “umanistica” delle scienze, anzi, il vero anello di congiunzione tra cultura scientifica e artistico-letteraria. La geogragfia che, nella prima metà del XIX secolo, sulla scorta dell’insegnamento di von Humboldt e Karl Ritter, si avviava a una visione complessiva, “organica”, del rapporto uomo-natura, a una concezione dinamica dell’interazione fra società e ambiente, fra Storia e Natura.

Elisée Réclus nasce a Sainte-Foy-la-Grande, nella Gironda, nel 1830, secondogenito di una nidiata di dodici fratelli. Il padre è un pastore protestante, il fratello maggiore, Michel-Elie (nato nel 1827) sarà anch’egli attratto dagli studi geografici, ma prevalentemente a indirizzo etnologico (sciveràLes primitifs, étude d’ethnologue comparée, 1885). Altri due fratelli diverranno celebri: Onésime, nato nel 1837, lui pure geografo di valore e viaggiatore (La Terre a vol d’oiseau, 1877); e Paul, nato nel 1847, che sarà famoso chirurgo e ricercatore nel campo dell’anestesia e nella cura di varie malattie.

Elisée viene mandato a studiare in Germania col fratello Elie. A quei tempi, di solito, accadeva il contrario: i giovani tedeschi, cioè, venivano mandati a studiare in Francia.  Ma il padre voleva metterli a studiare in un istituto protestante dei Fratelli Moravi. Dopo un breve ritorno in Francia, Elisée frequenta l’Università di Berlino, dove ha per maestro il famoso Ritter, che gli comunica un amore inestinguibile per la geografia.

Rientrato in Francia, frequenta i primi circoli socialisti-anarchici e vi aderisce pieno d’entusiasmo, superando l’originale, generico repubblicanesimo. Ma passata l’illusione rivoluzionaria del 1848, Luigi Napoleone Bonaparte realizza il colpo di Stato nel 1851, e Reclus è costretto all’esilio. Viaggia molto, in Europa e fuori; è, tra l’ altro, negli Stati Uniti e in Colombia, sinché nel 1857 un’ amnistia non gli riapre le frontiere della Francia. Si dedica allora a un’intensissima attività di scrittore, pubblicando libri di geografia divulgativa (Histoire d’un ruisseau, Storia di un ruscello, nel 1876; La terre, description des phénomènes de la vie du globe, nel 1867-68), studi scientifici relativi ai suoi viaggi in Sud America, articoli per numerose riviste. Il suo stile  scorrevole e piano, ricco d’immagini e riflessioni filosofiche, avvince ed entusiasma; esso ricorda ad un tempo la grande tradizione enciclopedistica dell’Illuminismo e l’ardente fantasia e generosità del Romaticismo, cui egli cronologicamente appartiene.

Intanto intensifica la sua militanza anarchica, pur senza mai abbandonare del tutto gli studi geografici e l’insegnamento. S’incontra con Bakunin in Svizzera, e nel settembre 1867 partecipa al Congresso democratico internazionale della pace. Parteggia ovviamente per Bakunin nel dissidio, sorto in seno alla Prima Internazionale, rispetto a Marx e ai suoi seguaci. Un valido aiuto gli viene, anche in campo politico, dai fratelli Elie, Onésime e Paul, anch’essi conquistati dalla bellezza dell’ideale anarchico.

La sua vita di militante è senza macchia,  addirittura puritana secondo Kropotkin che lo conobbe e l’ebbe amico e collaboratore- una derivazione sin troppo evidente dell’educazione paterna, improntata a una moralità rigorosa. Unico neo, a nostro avviso, quel suo accorrere volontario nel 1870 sotto le bandiere dell’esercito francese, l’esercito di quel Napoleone III che aveva riportato la Francia in pieno clima reazionario, che aveva moltiplicato le aggressioni coloniali – dal Messico all’Indocina -, e che lo aveva personalmente mandato in esilio. Come potè un internazionalista convinto, un uomo di così ampie vedute, aderire con entusiasmo a una guerra fra Stati, da cui nulla i lavoratori potevano aspettarsi? Certo, nel 1870 la Francia parve paese aggressore, mentre l’abile politica di Bismarck aveva fattoi di tutto per indurre Napoleone III a una dichiarazione di guerra. Ma se anche il vero aggressore era la Prussia, la difesa del suolo patrio non poteva costituire un valido argomento per un anarchico convinto. Il fatto è che Reclus, in questa occasione, si lascia trasportare dalle stesse motivazioni emotive che saranno di Kropotkin nel 1914: pensare che tra i vari imperialismi ve ne sia uno peggiore degli altri – il tedesco – e che occorra preservare l’Europa democratica dal tallone del militarismo e dell’assolutismo prussiano.

Comunque, quando la disfatta di Napoleone strappa il velo della falsa grandeur francese, Reclus è tra i primi ad accorrere sotto le bandiere rosse della Comune di Parigi. Imbraccia un fucile e va a combattere come uno qualsiasi (mentre il fratello Elie è nominato direttore della Biblioteca Nazionale). Durante uno scontro con le truppe del governo di Versailles, vien fatto prigioniero a Chatillon. Thiers, con l’aiuto dei veterani fatti prigionieri dai tedeschi e generosamente “restituiti” da Bismarck, “ristabilisce l’ordine” a Parigi con un memorabile bagno di sangue, e spedisce migliaia e migliaia di comunardi alla deportazione oltremare. Anche Reclus, in un primo tempo, subisce questa condanna, ma le molte voci di protesta levatesi dal mondo della cultura inducono Thiers a commutargliela nell’esilio (1872).

A quarant’anni, Elisée Reclus è di nuovo un esule. Si stabilisce in Svizzera, prima a Lugano e poi a Clarens, sul Lago di Ginevra, dove collabora con numerose testate anarchiche e si dedica contemporaneamente alla sua monumentale Nouvelle Géographie Universelle in 19 volumi (1875-94). Ancor oggi sembra quasi incredibile che un sol uomo abbia potuto compiere un’impresa così ciclopica. Se, com’è naturale, essa appare oggi largamente superata dal punto di vista scientifico, non cessa però di stupire per la bellezza dello stile, la vastità della concezione, l’unità profonda che la pervade, la ricchezza della cartografia e delle magnifiche incisioni che la illustrano. Fu tradotta in Italia, a cura di A. Brunialti, fra il 1883 e il 1904, e mai più ripubblicata. Poche biblioteche possono vantare la fortuna di possederla, e fra queste segnaliamo, per i lettori di Umanità Nova, quella Comunale di Conergliano, in provincia di Treviso.

Ancora più sorprendente della sua possente opera di studioso è il fatto che Reclus, in quegli stessi anni, trova il tempo di dedicarsi efficacemente alla propaganda anarchica, viaggiando fra la Svizzera, Londra e Bruxelles, dove si stabilisce nel 1894 come insegnante, e partecipando nel 1894 alla fondazione della “Alliance Internationale Ouvrière”; è pure in Italia e in altri paesi d’Europa. All’interno del movimento anarchico, egli – insieme a Kropotkin e a Paul Brousse – capeggia la fazione comunista-anarchica, la cui influenza giungerà presto anche in Italia, dove già opera in tal senso Errico Malatesta, e, prima di lui, aveva operato il povero Carlo Cafiero, poi internato in manicomio.

Lavoratore instancabile, terminata la Geografia Universale intraprende un’altra opera notevole, L’Homme et la Terre, che risente la lezione del Ritter circa la stretta e costante connessione fra uomo e ambiente, e che terminerà di scrivere pochissimi giorni prima della morte, avvenuta il 4 luglio 1905. Essa uscirà postuma in due volumi, nel 1905-06. Terminato l’esilio, aveva fatto qualche ricomparsa in Francia, ma ormai aveva designato il  Belgio quale  sua patria d’elezione,  e là chiude gli occhi, a Thourout presso Ostenda. Vale la pena di ricordare che sua è la bellissima espressione: “L’anarchismo è la forma più alta di ordine”, che ci dà al tempo stesso la misura del suo generoso idealismo.

Ma com’era l’ uomo Reclus, com’era lo studioso Reclus nella vita di ogni giorno? Così lo descrive, commosso, l’amico Kropotkin nelle sue celebri Memorie di un rivoluzionario (Londra, 1899; trad. it. Feltrinelli, 1976, pp. 288-89): “Uomo che animava gli altri, ma che non ha mai comandato nessuno, né mai lo farà. È l’anarchico la cui fede è l’essenza della sua conoscenza vasta e profonda della vita umana in tutte le sue manifestazioni, in tutti i paesi e a tutti i gradi di civiltà, i cui libri sono fra i migliori del secolo; il cui stile, di notevole bellezza, colpisce la mente e la coscienza; che quando entra nella redazione di un giornale anarchico dice al direttore – che di frontea lui è forse un ragazzo: “Ditemi che cosa devo fare”, e siede, come un collaboratore qualunque,  a scrivere poche righe per riempire una lacuna sul numero che si sta stampando. Durante la Comune di Parigi si armò di un fucile e prese il suo posto fra i combattenti. Se invita qualcuno a collaborare alla sua Geografia di fama mondiale, e il collaboratore chiede timidamente: “Che cosa devo fare?”, egli risponde: “Ecco i libri, ecco una tavola. Fate quel che volete.”

Una disponibilità, una fiducia, una modestia oggi veramente rare, anche nel campo anarchico, dove persiste il vecchio vizio borghese di pensare: “Io sono un intellettuale, che siano gli altri a sporcarsi le mani.”

BIBLIOGRAFIA.

– L. F. DE MAGISTRIS, Eliseo Reclus, Jesi, 1905;

– F. S. MERLINO, Eliseo Reclus, in Divenire sociale, 16/07/1905;

– J. GUILLAUME, L’Internationale. Documents et souvenirs (1864-78), Berlino, 1928;

– P. GHIO, En souvenir d’Elisée Reclus, in Etudes italiennes et Sociales, Parigi, 1929;

– L. GALLEANI, Eliseo reclus (1830-1905), in Figure e figuri, Newark, 1930;

– G. CARACI, Introduzione alla traduzione italiana della “Storia di un ruscello”, Firenze, 1933,

– L. FABBRI, L’anarchismo di Eliseo Reclus, in Volontà, nr. 6, 1949;

– E. RECLUS, Scritti sociali, trad. it. Con note biografiche di G. Mesnil, Bologna, 1951;

– J. MAITRON, Histoire du mouvement anarchiste en France (1890-1914), Parigi, 1951.

 

2 Jean-Didier Vincent, Élisée Reclus, géographe, anarchiste, écologiste, 2010, Paris : Flammarion, coll. Champs-Biographie, 522 pages,

La biographie de Jean-Didier. Vincent (Prix Femina Essai en 2010) retrace la vie de Reclus et de sa famille, des débuts à Ste Foy la Grande dont l’auteur, neurobiologiste, est également originaire, jusqu’à sa mort près de Bruxelles. L’ouvrage, écrit comme un hommage passionné à son concitoyen, est organisé en trois parties autour de la métaphore du cours d’eau (1. La source et le torrent, 2. A river runs through it, 3. Le fleuve). On y découvre surtout l’homme, jusque dans l’intimité de sa vie privée et de sa sexualité, à travers ses nombreux voyages en Allemagne, aux Iles Britanniques, en Amérique du Nord et du Sud, en Méditerranée, son emprisonnement à Brest, ses exils suisse et belge, son désamour de Paris, ses liens complexes avec un père déçu que ses deux fils aînés, Élie et Élisée, n’aient point embrassé sa carrière d’austère pasteur protestant pour au contraire adhérer à la pensée anarchiste, partagée par la majorité de la fratrie. On y côtoie un Reclus anarchiste libertaire et tolérant, nudiste et végétarien, « doux entêté de vertu », prisonnier et célèbre, enraciné dans sa Gironde natale et citoyen du monde, anticolonialiste mais exploitant agricole en Algérie après avoir échoué à monter une plantation en Colombie, de santé fragile et courageux, qui n’hésite pas à sacrifier le confort d’une carrière paisible et respectable pour suivre ses sulfureux idéaux, tant politiques que conjugaux. Les femmes jouent un rôle important dans sa vie, sa mère, ses sœurs, ses filles, mais aussi ses amours fugaces (Amérindiennes de Colombie), les deux mères de ses enfants mortes jeunes, dont une mulâtre d’origine sénégalo-américaine, et ses deux compagnes de l’âge mûr et de la vieillesse, de plus en plus élevées dans la hiérarchie sociale au fur et à mesure que le banni Reclus devient une célébrité. Reclus dénonçait le mariage bourgeois et prônait une union librement consentie, parfois proche de la polygamie, mais pour la paix de tous, avait accepté des cérémonies officieuses d’union civile pour lui-même et ses proches. L’ouvrage, rédigé par non-spécialiste, est plus discret sur le contenu et l’importance de son œuvre géographique, qui est au contraire au cœur du livre suivant.

 

3 Federico Ferretti, Élisée Reclus, pour une géographie nouvelle, 2014, Paris : Éditions du CTHS, 447 pages

La biographie écrite par Federico Ferretti, moins riche en détails personnels, replace plutôt l’œuvre de Reclus dans son contexte idéologique et montre avec force, dès le premier chapitre (« Un réseau intellectuel entre science et militantisme ») que Reclus, longtemps considéré comme un auteur isolé car « maudit », a en fait bénéficié d’un riche réseau de collaborateurs, y compris familiaux, dans la famille internationale des révolutionnaires et anarchistes, comme les Russes Kropotkine et Bakounine. Sans eux, la rédaction de la Géographie Universelle eut été impossible (chapitre 2 : « La fabrique de l’œuvre : comment on écrit une géographie universelle »). Les frères Reclus, qui travaillaient en équipe, ont aussi joui d’un appui de ses éditeurs, malgré l’ostracisme dont Reclus était victime dans certains cercles de la bonne société française du second XIXe siècle. En fait, si Reclus, emprisonné lors de la Commune de Paris, a échappé au bagne, c’est grâce à l’appui du monde de l’édition (Ernest Desjardins chez Hachette, Alfred Dumesnil, gendre de l’historien Jules Michelet et Pierre-Jules Hetzel, l’éditeur de Jules Verne) et de l’ambassadeur … des États-Unis, au nom de la dénonciation de l’esclavage par Reclus lors de son voyage nord-américain. Dans le troisième chapitre du livre, Frederico. Ferretti se penche sur la présentation de l’Orient et de l’Occident par Reclus dans la Géographie Universelle. Plus d’un siècle avant Ph. Pelletier et C. Grataloup, Reclus s’interroge sur la pertinence de ces notions, sur les « limites » géographiques, sur une coupure est-ouest de l’Europe et en fin de compte sur l’identité européenne et l’hégémonie coloniale.

 

4 Christophe Brun, Élisée Reclus, Les grands textes, 2014, Paris : Flammarion, coll. Champs-Classiques, 503 pages, 2014

Dans le troisième ouvrage, si une brève introduction et un tableau synoptique de la vie et de l’œuvre de Reclus en fin d’ouvrage (tableaux généalogiques de la complexe famille Reclus, lieux de vie et territoires visités par Élisée Reclus), font aussi figure de biographie complétant les livres de Jean-Didier. Vincent et Frederico. Ferretti, c’est davantage le travail de géographe de Reclus qui est en mis en valeur avec la sélection de textes opérée par Christophe Brun. En préambule, une série de citations donne déjà une idée de la complexité et de la personnalité de notre géographe, de « pas moyen d’éviter les reporters » à « ma dignité de géographe quoiqu’anarchiste, d’anarchiste quoique géographe », et de réflexions plus ou moins favorables sur Reclus. Quarante-deux textes sont présentés, regroupées en dix sections. Parmi eux, des textes de Reclus sur ses rapports au calvinisme de son père, sur ses voyages (« cette joie profonde qu’on éprouve à gravir les hauts sommets »), sur sa vision de géographe universel (« la brutalité avec laquelle s’accomplit cette prise de possession de la terre », « Asie orientale et Occident unis en un seul monde »), sur le professeur sans estrade (ses rares élèves ont été de petits Colombiens et les enfants de sa famille à qui il apprenait à lire et compter), sur ses choix légumiste, naturiste et féministe, sa réclusion en tant que Communard, son engagement comme anarchiste non-violent anti-bombiste, et enfin sur ses dernières années à Bruxelles.

5Une lecture des trois ouvrages présentés, réalisée dans l’ordre ci-dessus dont nous sommes fort satisfaits a posteriori, permet ainsi de mieux connaître un auteur que les auteurs rendent aisément sympathique. Les trois ouvrages analysés, de format commode en train ou en avion, sont tous de lecture aisée, dotés d’une bibliographie conséquente et présentent des visions complémentaires de la vie et de l’œuvre de Reclus. Ils nous invitent à aller plus loin dans la redécouverte de l’œuvre du géographe, y compris dans la dimension poétique et environnementaliste de « Histoire d’un ruisseau » et « Histoire d’une montagne », réédités en 1995 et 1998 chez Actes Sud.

“L’egemonia dell’Europa nella Nouvelle Géographie Universelle (1876-1894) di Elisée Reclus: una geografia anticoloniale?”

Federico Ferretti

University College Dublin

Abstract

Elisée Reclus, geografo eterodosso e anticonformista nella sua biografia e nel suo impegno politico, dedica però, nella sua poderosa Nouvelle Géographie Universelle, una posizione preponderante all’Europa, continente egemone alla sua epoca sulla quasi totalità del mondo per il potere dei suoi imperi coloniali. Si tratta di una geografia che si potrebbe tacciare di “eurocentrismo” se non di “colonialismo”, come hanno fatto alcuni critici? O presenta invece degli elementi di anticonformismo in coerenza con il pensiero anarchico del suo autore? Si cerca di rispondere analizzando in primo luogo la rappresentazione generale del continente e dei suoi confini nel testo dell’opera. Si affronta poi il problema dell’egemonia europea e del colonialismo confrontando questo testo ad altre fonti contemporanee, come articoli e corrispondenze di Reclus con i suoi collaboratori scientifici. Si scoprono, infine, in questa geografia, i germi di un pensiero critico precoce sul ruolo del continente alla sua epoca.

Rivista Geografica Italiana, 117 (2010), p. 65-92.    Page 1

FEDERICO FERRETTI – Bologna, Dipartimento di Discipline storiche, antropologiche e geografiche dell’Università; Paris, Université Paris 1 – Panthéon – Sorbonne UMR 8504 Géographie-Cités, Équipe E.H.GO – Épistémologie et histoire de la géographie

 

  1. PREMESSA. –  La Nouvelle  Géographie Universelle  (d’ora in  poi  NGU)  uscita  in 19 volumi fra il 1876 e il 1894, è stata senza dubbio l’opera geografica più importante prodotta in Europa  nella  seconda  metà  del  XIX  secolo.  Porta  la  firma  di  Elisée  Reclus  (1830-1905), celebre  geografo  anarchico  che intraprende  questo  lungo  lavoro  in  Svizzera,  dove  si  trova esiliato  in  seguito  alla  sua  partecipazione  alla  Comune  di  Parigi  del  1871,  affiancato  per buona parte  del  tempo da  una rete  di  collaboratori i  cui principali  componenti  condividono con  lui,  oltre  al  mestiere  di  geografi,  anche  la  fede  politica,  come  Charles  Perron,  Léon Metchnikoff e Pëtr Kropotkin, o il fratello Elie Reclus (Dunbar, 1978; Ferretti, 2007).

Paradossalmente quest’opera è stata anche la meno studiata del geografo, sia per le sue dimensioni, sia perché già nei primi decenni del Novecento gli esponenti della scuola francese della  géographie humaine  la  consideravano “superata”,  sia  perché alcuni  dei  fautori  della riscoperta  di  Reclus  negli anni  Settanta e  Ottanta  l’hanno  ritenuta un’opera  “censurata”, a causa dell’accordo stipulato dal geografo con l’editore Hachette di non parlarvi esplicitamente di politica. La vera opera di Reclus è stata dunque considerata L’Homme et la Terre, che però è uscita dopo la morte dell’autore, che vi ha lavorato solo gli ultimi anni di vita, mentre alla scrittura dell’opera maggiore aveva dedicato più di un ventennio, in collaborazione con alcuni fra  i  componenti di  spicco dell’anarchismo  internazionale.  Il  problema  di questo  articolo è capire, da una analisi critica del suo testo, se su una questione come la definizione dell’Europa  e dell’egemonia  planetaria  che  esercita  in  quel  periodo,  quest’opera  rimanga  su  un  piano convenzionale  rispetto alla  geografia  della sua  epoca,  o  contenga  elementi  di  una  visione anticonformista  del  suo  continente,  più  coerenti  con  le  idee  di  un  autore  politicamente eterodosso.

  1. I CONFINI DELL’EUROPA. – Per definire l’Europa serve innanzitutto delimitarla: essa è considerata fisicamente, nella  NGU, come  una  penisola  dell’Asia.  Per  buona parte  del  suo perimetro non si pongono particolari problemi: i confini sono in gran parte disegnati dal mare e l’unica difficoltà potrebbe essere l’attribuzione all’uno o all’altro continente di qualche isola dell’Egeo.

Il  problema  di  definire  un  confine  terrestre  coerente  fra Europa  e  Asia sembrerebbe banale se non ci accorgessimo che ancora in  tempi recenti presso gli storici e i geografi tale definizione  non  è  per nulla  scontata.  La  separazione  tradizionale  che  si  trova  tuttora  negli atlanti lungo il crinale degli Urali presenta una serie di problemi. Ancora Lucien Febvre, nelle sue  lezioni  del  1944  al  Collège  de  France,  parlava  di  questa  linea  come  di  un  «confine assurdo, e peraltro superato» (Febvre, 1999, p. 99). L’idea di Europa è per lo storico annaliste un concetto costruito storicamente e culturalmente che non è dato per natura, visto che il suo confine orientale non si percepisce. Anche quando nell’antichità l’Europa è tenuta in qualche modo a  battesimo,  con la  sua  separazione dall’Asia  proposta da Ecateo  (nei poemi omerici non  v’è  traccia  della  definizione  di  Europa,  che  compare  invece  nei  miti  esiodei)  e  poi utilizzata  da  Erodoto,  non  si  risolve il  problema  di  questo  confine  esterno,  perché  l’autore delle  Storie  presupponeva  l’ esistenza  di  un  mare  settentrionale  separante  le  due  masse continentali.

Sarà Strabone  a  proporne  una  prima  delimitazione  orientale  passante,  come  ricorda Reclus, «par  les palus  Méotides et le  cours du  Tanaïs» (NGU,  vol.  I, p.  10), cioè  gli attuali mare d’Azov e fiume Don. Oltre questi limiti c’erano terre sconosciute e quasi inaccessibili, che tra l’altro si riteneva non fossero percorribili per raggiungere altre parti del mondo perché terminavano  nel  mare  iperboreo.  Dunque  non  esisteva  nell’antichità  l’idea  di una  frontiera terrestre  dell’Europa;  oltre  alle testimonianze  degli  antichi ci  sono  prove  geologiche della presenza ancora in tempi storici di quell’unico mare che occupava il bacino aralo-caspico, la cui essiccazione è stata oggetto  di studio in una delle fonti principali dei volumi della  NGU dedicati  all’impero russo,  gli studi di Pëtr  Kropotkin. «In Western Central Asia we have in the lake  Aral and  the Caspian  sea only  small survivals  of the  immense marine  basin which once  occupied  the  place  now  taken  by  the  Turcoman  deserts.  The  evidence  of  the  ancient Greeks and the Arab geographers (…) leaves, in fact, no doubt» (Kropotkin, 1904, p. 723).

La  delimitazione  straboniana  avrà  una  straordinaria  persistenza  nella  storia  della geografia: nei mappamondi medioevali “T in O” la tripartizione del mondo fra Asia, Europa e Africa è affidata di solito alle strisce d’acqua del Nilo, del Mediterraneo e dello stesso Tanais. Essa è considerata valida ancora nel XVI secolo, come si può vedere nella carta di Johannes Bucius del 1537, poi inserita in alcune edizioni della Cosmografia di Sebastian Münster, che raffigura l’Europa come una regina il cui confine orientale sono i lembi della gonna, costituiti successivamente  dal  Bosforo,  dal  Pontus  eux.,  dal  Mar  d’Azov,  e  appunto  dal  Tanais  fl. Anche in altre opere dell’epoca, come il Theatrum Orbis  Terrarum di Abraham Ortelius del 1579, questo fiume sarà preso come punto di riferimento.

Poi,  sempre  nella  ricostruzione  di  Reclus,  «les  limites  tracées  par  les  géographes modernes  entre  l’Europe  et  l’Asie  ont  été  reportées  plus  à  l’est»  (NGU,  vol.  I,  p.  10).  Il riferimento è agli autori del XVIII secolo,  per primo Tatiščev,  geografo di Pietro il Grande, che  per  rafforzare  il  progetto  di  europeizzazione  di  quest’ultimo  aveva  fornito  la rappresentazione  di  un’Europa  estesa  fino  agli  Urali,  limite  dell’espansione  zarista  del momento,  che  viene  adottata  in  Europa  occidentale  dagli  Illuministi,  favorevoli  a comprendere l’area russa nella cultura europea. Si  tratta appunto  di una  costruzione storica, come  già  aveva  sostenuto  Ritter  nella  sua  lezione  sui  Grenzen  von  Europa,  in  cui  si suggerisce,  come  prima  indicazione  metodologica,  di  relativizzare  il  concetto  di  confine all’ambito  per  cui  lo  si  utilizza:  quello  storico-politico  o  quello  fisico-naturale.  «Die Ostgrenzen  Europas  sind  nur  relativer,  nicht  absoluter  Art,  je  nachdem  man  aus  Völker, Staaten, oder Naturgrenzen Rücksicht nehmen wollte» (Ritter, 1863, p. 54).

Ma bisogna  decidere almeno  un limite  convenzionale; per trovarlo  Reclus enuncia  un concetto  abbastanza  importante  nel  suo  metodo  di  regionalizzazione.  «D’ordinaire,  les cartographes  s’en tiennent  aux  limites administratives qu’il  plait  au gouvernement  russe de tracer  entre  ses  immenses  possessions  européennes  et  asiatiques :  c’est  dire  qu’ils  se conforment  à  des  caprices»  (NGU,  vol.  I,  p.  10).  Per  il  geografo  anarchico,  i  confini amministrativi sono dunque “capricci” e ad essi i cartografi si devono attenere quando piaccia al loro governo. Anche l’idea del  crinale montano come confine naturale è  qui relativizzata: citando i geografi, fra i quali Malte-Brun, che fanno passare la frontiera eurasiatica sulle linee degli  Urali  e  del  Caucaso,  si conclude  che  «cette  division,  qui semble  plus raisonnable au premier abord, n’en est pas moins absurde: les deux versants d’une  chaîne de montagnes ne sauraient être  désignés comme  appartenant à une  formation distincte  et,  le plus  souvent, ils sont habités par des populations de même origine» (ibidem).

E’ il caso di  dire, provocatoriamente, che  Reclus propone di ritornare, per  disegnare i confini  dell’Europa,  ai  geografi  greci  e  al  loro  mare  iperboreo.  «La  véritable  zone  de séparation entre l’Europe et l’Asie n’est point constituée par des systèmes de montagnes, mais au  contraire,  par  une  série  de  dépressions, jadis  remplies  en  entier par  le bras  de mer  qui rejoignait la Méditerranée à l’Océan Glacial» (ibidem).

La  carta  esemplificativa  riprodotta  mostra  appunto  la  zona  di  depressione  altimetrica corrispondente  per  Reclus all’estensione  del braccio  di  mare in  oggetto, con  evidenziata  al centro,  tramite  un  tratteggio  più  scuro,  la  parte  centrale  rimasta  sotto  il  livello  del Mediterraneo. Possiamo quindi notare che a sud questa striscia comincia proprio dal confine straboniano su Tanais e Palude Meotide, per attraversare la depressione caspica aggirando il Caucaso a nord e gli Urali a sud, dove fra il Caspio e l’Aral si ricongiunge al bacino del Tobol per scorrere parallelamente agli Urali, ma più a est, e arrivare appunto al mar glaciale artico.

Troviamo in questa  “banda” l’idea ritteriana di un confine come qualcosa  di mobile, che non può essere compreso appieno in una logica cartografica, alla quale rimane invisibile in quanto tale, perché formato dal punto di  vista morfologico dai resti di una situazione che non è più quella presente. Per  quanto infatti  si  tenti  di approssimare  una rappresentazione, Reclus ribadisce che  anche  per quanto riguarda  la  sua proposta  «maintenant la  limite entre l’Europe et l’Asie ne peut être qu’une ligne idéale ou purement conventionnelle» (NGU, vol. V, p. 280). L’idea del confine mobile,  e non semplicemente lineare, sarà espressa in seguito anche da un altro geografo seguace dall’insegnamento ritteriano, nonché attento lettore della NGU, Friedrich Ratzel. «Il confine è per sua essenza mutevole (…) tanto nella natura che nella vita dei popoli il confine trova una  sua ragione di essere solo in  taluni momentanei arresti e nella  miopia  del  nostro  intelletto  (…)  lo  spostamento  dei  confini  non  può  separarsi  dal movimento,  e  in  ciò  i  fenomeni  della  natura  inorganica  ed  organica  si  rassomigliano completamente» (Ratzel, 1914,  p. 260). A  questo si  aggiunge la  possibilità che  un confine possa non  essere necessariamente  una di quelle  linee astratte  e puramente cartografiche che sono le frontiere fra gli  Stati, ma  una fascia, come  ad esempio, sempre  secondo il  geografo tedesco, quelle aree miste che segnano i limiti della diffusione di una data lingua o di una data etnia.  «Per  rappresentare  tali  confini  non  è  mai  sufficiente  una  linea  unica,  ma  si  richiede almeno un paio di linee, le quali vengono così a racchiudere una striscia di confine» (ibid., p. 261). Ratzel teorizza anche l’assenza di confini fra i popoli senza Stato e in quelle estensioni che  non  sono state  ancora riempite  da  entità  politiche  territorialmente continue.  Anche per Reclus  questo concetto  ha  una  certa  importanza,  perché  ciò che  sta  fuori da  quello  che  i geografo greci chiamavano ecumene, ossia il mondo abitato, interessa il geografo molto meno dello studio di qualsiasi altra terra insediata dall’uomo. Nella NGU infatti non ci si preoccupa nemmeno  di delimitare i  confini  dell’Europa  sul  versante artico, ironizzando  sull’attitudine degli esploratori e  dei cartografi a  piantare la  propria bandiera e tracciare  il proprio confine nel  mezzo  di  distese  desolate.  «Sans  doute,  des  États  d’Europe  ont  pu  revendiquer  la possession du Spitzberg, y faire planter leurs drapeaux ; mais ces terres lointaines n’en restent pas moins des solitudes» (NGU, vol. V, p. 245).

Da  questa  fascia  rimane  fuori  anche  un  altro  confine  in  quel  periodo  abbastanza riconosciuto, quello  meridionale sul  Caucaso. Reclus  se ne  occupa all’inizio del  volume VI sull’Asia  russa:  si  chiarisce  qui  che  il  problema  non  è  quanto  siano  alte  o  impervie  le montagne, perché contrariamente agli Urali ci troviamo di fronte a una catena che comprende vette  più  considerevoli  anche di  quelle alpine.  In questo  caso  abbiamo  un “istmo”,  quello ponto-caspico, che un tempo  era un braccio  di mare di cui è  rimasta la depressione centrale che serve da confine. «Les deux bras principaux du Kalaous, auxquels on donne les noms de Manîtch  oriental  et de  Manîtch  occidental,  constituent  de  mer à  mer  un  canal  temporaire, remplaçant l’ancien  détroit de  jonction» (ibid.,  p. 671).  Reclus si  rifà del resto,  oltre che  al parere di  Strabone,  a quelli  di  Humbolt e  Ritter, che nei  rispettivi lavori  sull’Asia  Centrale propendono per l’asiaticità del Caucaso proprio in seguito alle ultime rilevazioni altimetriche che  hanno  fatto  conoscere  con  più  precisione  il  rilievo  della  contrada.  «Depuis  que  les voyages de Pallas et d’autres explorateurs ont révélé le véritable relief de la contrée, il n’est plus  permis  de  douter  que  le  Caucase  appartienne  à  l’Asie.  Il  reste  nettement  séparé  de l’Europe  par  la  profonde  dépression  dans laquelle  les  eaux  du Manîtch,  tantôt  séjournent, tantôt s’écoulent lentement» (NGU, vol. VI, p. 60).

  1. DIVISIONI INTERNE: LE DUE EUROPE. – La definizione dei “limiti” esterni dell’Europa per Reclus corrisponde anche a una prima suddivisione interna: nella fattispecie fra un  territorio ampio  e  omogeneo,  come  tutta  la  parte compresa all’epoca  nella  porzione “europea”  dell’Impero Russo,  e il  resto  dell’Europa,  ricca di  penisole e  articolazioni,  ossia «l’Europe proprement dite, que  Strabon qualifiait  déjà de bien  membrée» (NGU, vol. V, p. 278). Questa  bipartizione  dell’Europa  trova  un  limite  abbastanza  preciso:  anche  in  questo caso non si tratta di una frontiera lineare, ma di una fascia individuata da una “depressione” fisica che corrisponde  a uno di quelli  che Braudel avrebbe definito  gli “istmi” mediterranei. L’istmo a volte può essere un confine « in apparenza meno perentorio perché non corrisponde  a  nessun  visibile  limite  materiale »  (Farinelli,  2003,  p.  112)  ma  non  per  questo  meno significativo, come abbiamo visto nel caso dell’istmo ponto-caspico. Questa divisione interna all’Europa, per  Reclus,  è  marcata dalla  regione  « où  passe  la  voie historique  entre  la  mer Noire  et  la  Baltique  (…)  dépression  qui  divise  le  continent  en  deux  moitiés  et  où s’entremêlent les sources de la Vistule et de ses affluents avec celles du Dnestr et du Dnepr » (NGU, vol. V, pp. 308-309).

Come  vedremo,  se  l’articolazione  del  territorio  per  Reclus  corrisponde  alle  libertà politiche e  alle autonomie  municipali, l’uniformità del territorio favorisce  lo sviluppo  di un potere centralizzato. Per quanto riguarda la Russia, « l’uniformité de son relief, la pénétration réciproque de ses bassins fluviaux facilitaient les conquêtes et le mouvement de centralisation. es  vastes plaines  sarmates, il  tendait à s’approprier le  territoire  entier » (ibid.,  p.  303). Ricordiamo,  per  evitare che  questo  metodo venga interpretato  come l’applicazione di  un  determinismo meccanico,  che come  per Ritter nella storia cambiano gli orientamenti del cammino della civiltà, così per Reclus con la storia e lo sviluppo dei popoli cambiano gli effetti delle influenze ambientali. Come in età moderna e  contemporanea  l’uniformità  del  territorio  russo  aveva  favorito  la  crescita  di  un  impero centralizzato, così la stessa  pianura nel corso del  Medioevo, quando le comunicazioni erano più  difficili  e  la  popolazione  meno  densa, aveva  invece impedito  tutto ciò.  « Tant que  les communications étaient encore très difficiles dans les plaines de l’Europe orientale et que la population,  peu  considérable,  se  trouvait  arrêtée  de  tous  les  côtés  par  des  forêts  et  de marécages, la constitution d’une forte nationalité slave était impossible » (ibidem).

Una  ripartizione  successiva  riguarda  l’Europa  “propriamente  detta”,  cioè  quella occidentale, fra una parte meridionale e mediterranea e una parte settentrionale e atlantica, più aperta  verso  le  pianure  dell’est.  La  barriera  di  questa  separazione  è  lo  stesso  sistema orografico che  nella metafora anatomica  di Reclus fa  da “colonna  vertebrale” al continente, individuato da un  asse immaginario che parte a  est dal sistema  Carpazi-Alpi transilvaniche-Tatra, prosegue lungo il crinale alpino e termina con la catena pirenaica. Si tratta di una distinzione fondamentale, secondo Reclus, per comprendere lo sviluppo storico dell’intero  continente. Questo “bastione”  centrale ha  fatto sì  che  il popolamento  più antico della parte mediterranea fosse più semplice via mare, mentre le migrazioni dalle steppe asiatiche, trovando questa barriera, si orientassero verso le pianure germaniche, col risultato di creare un’altra Europa: quella oceanica. «L’épaisseur des Alpes et de tous ses avant-monts, du Pinde aux Carpates, séparait donc vraiment deux mondes distincts où la marche de l’histoire devait s’accomplir  différemment» (NGU,  vol.  I, p.  16). Siamo  qui  in linea  ancora una  volta con  l’ espressione  di  Ritter  per  il  quale  «das  Alpengebirge  teilt  Europa  in  seine  großen natürlichen Provinzen» (Ritter, 1863, p. 178).

Una  divisione  che per  Reclus non  è mai  assoluta  e  netta,  trattandosi  di  barriere  non sempre  invalicabili.  Una  parte  importante  della  storia  è  stata  quella  dei  movimenti commerciali e umani che passavano dai valichi di questo sistema, permettendo i primi scambi storici  fra  Nord  e  Sud,  sempre  in  crescita  dato  che  all’ epoca  della  scrittura  della  NGU  già vengono  costruiti  i  trafori  ferroviari  transalpini.  Questi  monti  costituiscono  nondimeno  un corpo dotato di una  sua unitarietà e organizzazione, grazie a fiumi come il  Po, il Rodano, il Reno, il  Danubio che  si dispongono a  ventaglio attorno  a questo  sistema dal  quale nascono per poi fertilizzare le terre dei loro bacini. Un organismo vivente che ci fa ritornare ad alcune immagini  già  viste,  che  per  Reclus  rappresentano  la  coerenza  dell’individuo  geografico Europa, dal drago di Strabone alla dama di Bucius. «Elle est organisée, pour ainsi dire, et l’on croirait  voir  en  elle  un  grand  corps  pourvu  de  membres. Strabon  comparait l’Europe  à un dragon. Les géographes de la Renaissance aimaient à la figurer comme une Vierge couronnée  dont l’Espagne était la tête et la France le cœur,  tandis que l’Angleterre et l’Italie étaient les mains tenant le sceptre et le globe» (NGU, vol. I, p. 20).

  1. ALLE ORIGINI DELL’EGEMONIA:  ARTICOLAZIONE  COSTIERA  E  LIBERTÀ CITTADINE. – La geografia della seconda metà del Novecento ha  a lungo criticato quella che era  la  prospettiva  eurocentrica  delle  rappresentazioni  del  mondo,  proprio  a  partire  da immagini come quella citata dell’Europa regina. Poi da quelle proiezioni cartografiche che da Mercatore in avanti ponevano  il continente europeo al centro dei planisferi, con  proporzioni che a causa della tecnica delle “latitudini crescenti” facevano apparire maggiore l’estensione delle terre più vicine ai poli, dunque in questo caso soprattutto quelle comprese nell’emisfero boreale,  e minore  quella  dei Paesi  compresi  attorno  alla  fascia  tropicale.  Per autori  come Brian Harley i geografi e i cartografi sono considerati da  quel momento come  dei soldati al seguito degli eserciti coloniali. «As much as gun and warship, maps have been the weapons of imperialism» (Harley, 2001, p. 57). Per  vedere  quale  sia  in  questo  ambito  l’originalità  di  Reclus  possiamo  proporre  un paragone con quanto sostenuto nella prima delle Géographies Universelles da Conrad Malte-Brun, che  tra l’altro scrive  nella  prima metà  dell’Ottocento,  quando la  potenza  dell’Europa  non é ancora al suo culmine, come invece lo sarà ai tempi della NGU. Questa piccola penisola dell’Asia ha saputo diventare  la  métropole  du  genre  humain  et  la législatrice  de  l’univers.  L’Europe  est  présente  dans  toutes  les parties du monde; un continent entier n’est peuplé que de nos colonies; la barbarie, les déserts, les feux du soleil ne soustrairont pas longtemps l’Afrique à nos actives entreprises ; l’Océanie semble appeler nos arts et nos lois; l’énorme  masse  de  l’Asie  est  presque  traversée  par  nos  conquêtes;  bientôt  l’Inde  britannique  et  la  Russie asiatique  se  toucheront, et  l’immense  mais faible  empire  de  la Chine ne  saurait résister  à  notre influence  s’il échappe à nos armées (Malte-Brun, 1845, p. 2).

Sono pochi gli scritti di Reclus dedicati al tema specifico dell’Europa, ma vi si trovano affermazioni  abbastanza  significative  già  dalla  Introduzione  alla  NGU,  dove  il  geografo giustifica la sua scelta di far cominciare l’opera da lì, prevenendo l’accusa di voler fare della propria terra il centro del mondo. Non essendo ancora in uso termini come “eurocentrismo” o “etnocentrismo”,  si fa  l’esempio  della  tendenza  a  ritenersi  superiori  che caratterizza  i più svariati gruppi umani. «La moindre tribu barbare, le moindre  groupe d’hommes encore dans l’état de nature pense occuper le véritable milieu de l’univers, s’imagine être le représentant le plus parfait de la race humaine» (NGU, vol. I, p. 5). Allo stesso modo si forniscono esempi dei termini  dispregiativi  con  cui  gran  parte  dei  popoli  designa  i  propri  vicini,  per  precisare pragmaticamente  che :  «Si  nous  donnons  la  première  place  à  l’Europe  civilisée  dans notre description  de  la  Terre,  ce  n’est  point  en  vertu  de  préjugés  semblables  (…)  le  continent européen est le  seul  dont toute  la surface ait  été  parcourue  et scientifiquement  explorée, le seul dont la carte soit à peu près complète» (NGU, vol. I, p. 6).

Il  principio  tramite  il  quale  si definisce  la  prima caratteristica  peculiare  dell’identità dell’Europa  è  quello  dell’articolazione  costiera  già  enunciato da  Ritter:  pur essendo  meno estesa dell’Asia e dell’Africa, possiede uno sviluppo costiero in proporzione molto maggiore sia sul versante mediterraneo sia su quello oceanico. Questo ha costituito un vantaggio per le comunicazioni e  i primi commerci  storici e  per la  varietà di  esperienze e di  scambi che  era consentita agli abitanti  di questa parte del  mondo. Mentre l’Asia, per  le sue dimensioni e  la ricchezza agricola di  aree  come la  Mezzaluna fertile, poteva  essere  la  culla dei  primi  passi della civiltà, l’Europa era destinata a trasmettere questa civiltà.

 L’Europe est le large prolongement de l’Asie centrale, mais plus elle s’avance vers l’ouest, plus elle se développe d’une manière indépendante ; elle dépasse relativement sa voisine d’Orient en richesse d’articulations et  de  chaînes  de  montagnes  qui n’empêchent  ni par  leur  hauteur,  ni  par  leur  étendue,  aucune  de  ces  parties différentes de communiquer entre elles. C’est ainsi que ce corps ouvert de tous les côtés (…) et que l’harmonie de  la  forme triomphant  des  forces  de la  matière a  donné à  la petite  Europe la  prépondérance sur  les grands continents (Ritter, 1859, pp. 259-260).

Un movimento che  dicevamo è  tanto storico quanto  geografico,  perché corrisponde  a uno  spostamento  del  baricentro della  “civiltà”,  dunque dei temporanei “centri  del  mondo”, lungo l’asse  che va  da sud-est  a nord-ovest,  dal Mediterraneo orientale  all’Italia, prima  con l’Impero romano e poi ancora in parte, nel Medioevo, con le repubbliche marinare italiane. Il testimone passerà alla penisola iberica fra XV e XVI secolo e successivamente alle moderne talassocrazie oceaniche olandese ed inglese. «La Grèce, la plus belle individualité de l’ancien monde, pouvait, à l’époque de sa grandeur, réclamer le titre de dominatrice d’une partie de la Méditerranée. Aujourd’hui le groupe des Iles Britanniques, le plus découpé et le plus riche en ports de l’Europe, s’est distingué entre toutes les nations» (ibid., p. 261).

Oltre  che da  penisole  e  promontori l’articolazione,  o  compenetrazione dell’elemento liquido e di quello solido, è data anche dai sistemi insulari. La prima distinzione che fa Ritter è  fra  isole vicine  e isole  lontane  alla  terraferma  di riferimento.  L’isola vicina  favorisce gli scambi  e  i  passaggi,  e  in  questo  senso  l’Europa  è  avvantaggiata  perché  è  fornita  di questi sistemi sia  nel  Mediterraneo sia  nell’Atlantico.  «Ses côtes  et  ses îles  entourent  le continent comme des satellites, et lui servent de stations, de prolongements océaniques» (ibidem).

Ma proprio per questo movimento, le cose cambiano: la geografia è qualcosa di mobile e  sarà  Reclus  stesso  a trovare  alcune  delle  metafore  geografiche  più  adeguate  a esprimere questo. Metafore prese dalla geometria o dall’anatomia, simili a quelle utilizzate spesso sia da Strabone  sia  da  Ritter, come  quella  delle  isole e  penisole  dell’Egeo  paragonate  ai circuiti cerebrali  con  i quali  l’umanità ha  cominciato  a  pensare  (NGU,  vol. I,  p. 47).  Metafora  che trova la sua continuazione in un articolo scritto da Reclus per « La Société  Nouvelle » negli anni in  cui termina  la NGU, intitolato  Hégemonie de  l’Europe, dove  si precisa  che se  lì era l’origine del pensiero, sempre da lì partivano le vie storiche sulle quali i saperi sono transitati ovunque.  « Les  voies  historiques,  sur  lesquelles  fluaient  et  refluaient  les  migrations  et  se propageaient les courants du commerce et de la pensée entre les peuples, eurent dans le grand organisme terrestre le  rôle que  prennent  les filets nerveux dans  le corps  humain » (Reclus, 1894, p. 437).

Dunque  anche  l’egemonia  può  spostarsi:  Ritter  osservava  che  con  l’ascesa dell’America,  disposta da  Nord a  Sud,  la  vecchia  linea est-ovest seguita per  millenni dalla storia  eurasiatica  si  era  rotta,  e  « nous pouvons  prévoir  la  prépondérance  future  du  double continent de l’Amérique, jeune encore, mais vraiment gigantesque dans  son épanouissement longitudinal » (Ritter, 1859, p.  266). Previsione che alcuni decenni dopo proprio nella NGU viene  ripresa  e  ulteriormente  “globalizzata”,  nonostante  l’ancora  forte  egemonia  europea. « L’égalité finira par prévaloir, non-seulement entre l’Amérique et l’Europe, mais aussi entre toutes les parties du monde » (NGU, vol. I, p. 8).

Bisogna qui  considerare, per capire  il pensiero  reclusiano, che a  questo concetto della “egemonia”  sono  inscindibilmente  associati  valori  universali  quali:  il  pensiero  “positivo”, transitato  dalla  filosofia  greca  all’Illuminismo  e  culminato  nella  Dichiarazione  dei  Diritti dell’Uomo e del Cittadino; il concetto di civiltà collegata all’idea ottimistica di un progresso tecnico e  scientifico che  diventa anche  progresso sociale;  infine l’importanza  della mobilità delle  popolazioni  nella  storia,  per arrivare  in  futuro  al mélange  dei  diversi  popoli sempre auspicato dal geografo.

Di  qui  l’idea  del  Mediterraneo  antico  come  culla  delle  idee  “progressive”:  gli insegnamenti degli antichi pensatori greci, secondo Reclus, erano caratterizzati da uno spirito laico  che faceva della  religione una  dimensione molto  personale, differente da  quella  delle grandi  religioni  monoteistiche  le  cui  divinità  incutono  terrore  e  i  cui  dogmi,  secondo  il geografo anarchico, inibiscono lo sviluppo della scienza e del libero pensiero. Seguono i primi passi  nelle  scienze  fisiche  e  naturali,  che  nella  visione  di  Reclus  saranno  proprio  la  luce destinata  a  scacciare  le  tenebre  dei  dogmi  e  delle  superstizioni.  Infine  una  certa  idea  di cosmopolitismo,  che  si  ricollega  direttamente  a  passaggi  storici  ancora  più  avanzati  della citata Dichiarazione.

 Jamais le  principe  de  la grande  fraternité humaine  ne  fut proclamé  avec plus  de netteté, d’énergie  et d’éloquence  que  par  des  penseurs  grecs:  après  avoir  donné  les  plus  beaux  exemples  de  l’étroite  solidarité civique, les  Hellènes affirmèrent le  plus  hautement le  principe  de ce  que deux  mille  ans après  eux on appela «L’internationale». Démocrite  était  « citoyen du monde »  et Socrate, d’après la  tradition, aurait déclaré  que  sa patrie était «toute la terre» (Reclus, 1902).

Per Reclus, che ora va oltre Ritter, l’articolazione del territorio è legata anche a un altro fenomeno,  le libertà politiche: l’Europa,  che riprendendo  un’immagine già  cara  a  Strabone  «brille entre  tous les  pays par  sa forme  étonnamment  vivante, si  bien comparée  à la  feuille découpée du platane» (Reclus, 1894, p. 435), era fornita sì di porti riparati e di buone stazioni sulle  vie  commerciali.  Ma  da  questa  conformazione  era  allo  stesso  tempo  protetta.  «A l’ époque où se développait la  vie nationale  de ses petites républiques, l’art  de la  navigation militaire n’était pas encore assez avancé pour que ces populations fussent mises en danger de conquête par  de  grandes flottes  de  guerre ; la  seule  tentative vraiment  redoutable,  celle des Perses, n’eut lieu qu’à l’époque où la civilisation grecque était déjà dans toute sa splendeur et sa force» (ibidem).

Tutta l’Europa mediterranea era poi riparata sul lato di terra da un sistema di montagne che per Reclus spiega sia i vantaggi territoriali di cui godeva Roma antica sia la possibilità di mantenere la libertà durante i periodi delle invasioni dall’est per le piccole comunità cittadine che sarebbero  poi diventate,  nel pieno Medioevo,  i Comuni  italiani.  Non è  un caso  che nel definire che  cosa sia  l’Europa anche studi successivi di  storici e  geografi,  da Henri Pirenne (Pirenne,  1939)  a  Lucien  Febvre  (Febvre,  1999),  si  siano  rifatti  ad  essa  come  concetto difensivo. Citiamo solo un geografo, Jacques Lévy, che si è ritrovato pochi anni fa alle prese con il problema di dire cos’è l’Europa e ha concluso che la principale caratteristica fondatrice dell’identità europea sia stata proprio la conformazione riparata di una serie di pianure e valli, che  hanno  permesso  nei  secoli  delle  migrazioni  da  est  a  differenti  comunità  agricole  di « resistere alle invasioni » (Lévy, 1997, p. 43). Comunità che sono state all’origine di tutto un movimento  di  esperienze  cittadine,  da  lì  fino  all’età  moderna,  caratterizzate  da  forme  di libertà repubblicana che Reclus connette alle successive rivoluzioni.

 Sienne et Florence, Gênes et Venise ! Les communes d’Espagne et des Baléares, celles de France et de Flandres, la Hanse germanique furent aussi pour un temps les grands centres de la vie sociale, réalisant déjà, sans le  savoir,  comme  une  aurore  de  la  société  future  des  communautés  libres  et  fédérées  (…)  Plus  tard,  les Provinces-Unies, presque imperceptibles  sur  la carte, n’en furent pas  moins,  pendant une ou deux générations, les représentants les plus glorieux du genre humain, et Paris, après avoir été la ville des encyclopédistes, devint celle de la révolution (Reclus, 1894, p. 440).

L’egemonia  politica  che  esercita in  quel momento  il continente  europeo  con  il  suo corollario  di  violenze  che  come  vedremo  sono  criticate  da  Reclus,  è  accompagnata  da un’egemonia  culturale  che  il  geografo  anarchico  vede  con  un  certo  favore,  ritenendola portatrice  del citato  pensiero  laico  e  federalista  che  nella  sua  idea  di  evoluzione  generale dovrà  portare  l’umanità  verso  forme  sempre più  alte  di  solidarietà,  fino  al socialismo.  Un concetto di egemonia, dunque, che assume un connotato chiaramente ambivalente a seconda che lo si applichi all’ambito politico o a quello culturale e sociale.

  1. FRA COLONIE E  CONQUISTE.  –  A  questo  proposito,  è  questione  abbastanza dibattuta come mai Reclus abbia visto con una certa simpatia l’installazione di coloni europei in terre come il Maghreb, al punto che si è aperto fra gli storici della geografia un dibattito in cui ci  si domandava  se Reclus fosse o  meno un  “colonialista” (Giblin,  1981; Liauzu, 1984; Nicolaï, 1986; Baudouin e Green, 2004; Deprest, 2005). Non entreremo qui nel merito della questione  di  definire  il  geografo  “colonialista” o  “anticolonialista”,  perché  ci pare  forte  il rischio  dell’anacronismo,  soprattutto  negli  anni  in  cui  viene  scritta  la  NGU,  quando  non esistono neppure termini come “anticolonialismo”. Non si tratta qui di “difendere” il geografo da questa  o quest’altra  accusa,  ma di  considerare che  non  possiamo aspettarci  da un  autore nessuna  idea  che  non  sia  in  relazione  al  contesto  storico  in  cui  la  sua  opera  nasce  e interagisce. Non possiamo considerare Reclus un precursore  o un profeta, ma  non possiamo neppure  leggerlo  con  le  lenti  dell’attualità  come  hanno  fatto  ad  esempio  i  geografi  di « Hérodote »,  quando  sulla  scia  della  radicalizzazione  della disciplina  avvenuta  negli anni Settanta  si  pretendeva  che  un  geografo  anarchico,  anche  se  vissuto  un  secolo  prima,  rispecchiasse  necessariamente  le  posizioni  dell’anticolonialismo  “terzomondista”  di  quel momento.  Possiamo  invece  tentare  di  capire  quanta  parte  possano  avere  avuto  le  opere geografiche di un autore politicamente eterodosso, ma  comunque calato nella sua epoca, nel nascente dibattito sugli effetti della colonizzazione europea.

Se nella sua opera si vuole vedere il rovescio della medaglia della citata egemonia, lo si deve  cominciare a  fare dalla  nazione  che  in quegli anni  la  rappresenta meglio, patria della rivoluzione industriale e detentrice dell’impero più grande e cosmopolita che sia mai nato da una nazione così piccola: l’Inghilterra. Paese che Reclus conosce bene, ammira come nuova Grecia proponendo nell’articolo  citato un ardito paragone  fra  la  moderna Londra  e  l’antica Atene,  ma della quale  non  nasconde  le  responsabilità.  «Nous savons  quel  a  été  et  quel est encore le sort de l’Irlande, ce que fut la conquête de l’Inde, ce que fut hier l’extermination des Australiens  et  des  Maori,  ce  qu’est  aujourd’hui  même  le  massacre  des  Matabélé;  ous connaissons les workhouses et les sentines de Whitechapel» (Reclus, 1894, p. 438). Ma il suo dominio è paradossalmente destinato a  portare in se stesso i germi della sua stessa fine, con l’insegnare ai popoli che qualcuno ancora considerava “inferiori” quelle tecniche e quei saperi con  i  quali  essi  si  emanciperanno  a  scapito  dei  loro  presenti  padroni:  «la  civilisation européenne en est arrivée à la négation de son point de départ. Elle visait à la domination, à la prépondérance, et par ses conquêtes mêmes elle constitue l’égalité» (ibidem).

Ci troviamo di fronte ad una posizione sicuramente troppo ottimista, ma certo originale rispetto  a  quella  della  stragrande  maggioranza  dei  geografi  contemporanei,  solitamente appiattiti sull’apologia dei rispettivi imperi coloniali. Tale visione è proposta anche nel testo della NGU,  dove si  parte da  una critica del  colonialismo britannico  dai toni  anche più  aspri qui,  in  un’opera  pubblicata  da  Hachette  e  secondo  alcuni  “censurata”,  che  sul  giornale anarchico citato sopra.

En  beaucoup  de  contrées  malheureusement,  les  Anglais  n’ont  su  que  détruire,  faire  le  vide.  En Tasmanie, ils ont exterminé  jusqu’au dernier indigène. Dans le continent australien, quelques tribus de naturels fuient encore  devant  eux comme des bandes de kangourous ; mais la première espèce de  gibier  est menacée de destruction  prochaine.  En  Océanie,  que  d’iles  ont  été  également  dépeuplées  par eux,  et  dans  leurs  colonies américaines, devenues maintenant les États-Unis, que de nations indiennes ils ont odieusement massacrées, sans parler de  celles  qu’ils ont fait  périr par  l’eau-de-vie et  les  vices  d’importation  européenne ! (NGU,  vol. IV,  p. 359).

Il contrasto  con le  piccole dimensioni  della madrepatria inglese è fatto risaltare anche tramite  l’utilizzo  di  carte che  oggi  si  direbbero  “tematiche” ed  è  un ulteriore  esempio del contrasto fra la scarsa estensione dell’Europa e il suo immenso potere. C’è poi un’attenzione alle  differenze  fra  settled  colonies  e  invaded  colonies:  il  geografo  anarchico  vede  una distinzione  anche  etica  fra  l’occupazione  contraddistinta  dalla  dominazione  militare  e  la migrazione di famiglie di coloni che vanno a popolare territori oltreoceano, ferma restando la condanna dei  citati stermini. E’  nel caso  britannico che  si evidenzia più  chiaramente questa differenza.  «Parmi  les  possessions  anglaises,  il  en  est,  telles  que  le  Canada,  les  diverses colonies  de  ’Australie,  la  Nouvelle-Zélande,  qui  ont  acquis  une  existence  réellement indépendante et qui se développent en liberté (…) Mais il n’en est pas ainsi de l’Inde. Là les Anglais  ne  sont  pas  chez  eux :  en  nombre  de  quelques  milliers,  ils  sont  établis  en dominateurs» (Reclus, 1894, p. 434).

Questo  ci  permette  di  chiarire  una  fondamentale  distinzione  terminologica.  Se  oggi passa  sotto  il  nome  di  “colonialismo”  tutta  o  quasi  l’espansione  europea  di  quel  periodo storico, per Reclus il termine “colonia” sta  propriamente a indicare un’altra cosa e lo spiega proprio nel volume  della NGU dedicato  all’India. Vista l’assoluta  inconsistenza demografica degli  europei  insediati  là,  che  sono  essenzialmente  militari  e  amministratori,  per  Reclus «souvent  on  parle  de  l’Inde  comme  d’une  “colonie”  britannique,  et  (…)  l’on  cite  l’Inde comme  un  éclatant  témoignage  du  “génie  colonisateur” des  “Anglo-Saxons”. C’est  du fait contraire que la péninsule Cisgangétique pourrait être donnée en exemple» (NGU, vol. VIII, p. 629). Ci sono più piantatori bianchi, prosegue il geografo, nell’isola di Guadalupa che in tutto l’Indostan.  Lì, proprio  per  il  motivo  prima  sottolineato,  gli  inglesi  vi  si  sentono  come  una casta a parte, e « verraient avec déplaisir des compatriotes compromettre par le travail manuel le prestige de leur autorité. L’Inde est un pays de conquête, non une colonie» (ibidem).

Una differenza sostanziale fra conquista e colonizzazione che bisogna tenere presente se si vuole poi capire Reclus, che utilizza, nella critica del fatto coloniale, una terminologia che non  è  quella  dell’anticolonialismo  della  seconda  metà  del  XX  secolo,  nonché  il  suo atteggiamento  nei  confronti  della  presenza  francese  in  Algeria.  L’idea  che  una  colonia  si possa fare anche senza una conquista militare, un apparato burocratico e uno Stato di supporto ci  sembra abbastanza  coerente con  le idee  anarchiche  di  Reclus.  Aggiungiamo che  in quel periodo  storico  molti  gruppi  anarchici  teorizzavano,  o  fondavano,  colonie  agricole sperimentali in aree tropicali, come ad esempio l’esperienza della “Cecilia” tentata in Brasile da un gruppo di anarchici italiani (Rossi, 1993). Lo stesso Reclus, nei  suoi anni giovanili di viaggio sulle tracce  di Humboldt, aveva progettato di  costruire sulla Sierra Nevada di Santa Marta, in Colombia, una simile sperimentazione agricola, che se fosse riuscita avrebbe dovuto coinvolgere  la  sua  famiglia  e  altri  esuli  repubblicani  (Reclus,  1861).  L’insediamento  di lavoratori  europei  in terre  oltreoceano, o  oltremare, non scandalizzava  del resto  un  fautore delle  migrazioni  e  del  mélange  di  tutti  i  popoli,  che  vedeva  dall’altra  parte  con  simpatia l’insediarsi in quegli anni sul suolo francese dei primi immigrati provenienti dalle colonie.

E’ anche il contatto fra popoli diversi che deve portare alla lunga, per Reclus, sviluppi progressivi;  l’esempio  qui  é  proprio quello  dell’incontro fra  la cultura  inglese  e  la cultura indù.  Queste  nazioni  sono  talmente  diverse  che  per  molto  tempo  non  si  potranno comprendere. Ma in  cinquant’anni  la presenza  di europei, la costruzione  di scuole  e vie  di comunicazione  e  lo  sconvolgimento  di  un  ordine  sociale  rigidamente  diviso  in  caste,  ha cambiato  nel  subcontinente  più  cose  di  quante non  se  ne  fossero  modificate  nel  corso  di secoli, portando anche un nuovo modo di pensare. Reclus conclude che se mai «les diverses populations  de  l’Inde  apprennent à  se  gouverner elles-mêmes, à  vivre libres  et en  paix  les unes avec les  autres dans leur  admirable péninsule, à  quelle nation, si ce n’est  aux Anglais, devront-elles l’impulsion qui leur aura permis de conquérir  l’indépendance nationale, depuis si longtemps perdue?» (NGU, vol. IV, p. 359).

Come hanno  fatto notare  di recente  alcuni  studi, nel caso  dell’India si  potrebbe citare Provincializing Europe di Dipesh Chakrabarty, è stato nel propagandare al resto del mondo i valori dell’Illuminismo  e della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo  che le potenze  coloniali europee li hanno contemporaneamente smentiti “sul campo” con le politiche applicate in loco, ma  insegnandone  la  teoria  a  popoli  che  in  molti  casi  poi  l’hanno  usata.  Recentemente, Vincenzo  Guarrasi  ha  proposto  una  lettura  dell’opera  di  Reclus  proprio  con  gli  strumenti dell’autore  bengalese,  che  ha  visto  come  uno  dei  pilastri  intellettuali  della  dominazione l’impostazione  storicistica  di  quella  cultura  europea  nella  quale  Reclus  era  pienamente inserito.  Il  geografo  siciliano  riconosce  a  Reclus  lo  sforzo  “titanico”  di  aver  tentato, svolgendosi tutta la sua carriera nella precisa fase storica di cui abbiamo parlato, di «non farsi stringere all’angolo  dalla storia. Condividere  una  tradizione intellettuale  e,  al tempo  stesso, contrastare la prassi politica che ad essa si ispira, è l’impresa titanica a cui dedica la sua vita» (Guarrasi, 2007, p. 94).

Per  quanto  riguarda  invece  la  Francia,  é  abbastanza  vivo  negli  anni  ’70  il  dibattito sull’utilità o meno  dell’espansione coloniale,  dopo la sconfitta  con la Prussia  e la perdita di gran parte dei possedimenti del Canada, della Louisiana e dell’Indostan. Il volume della NGU dedicato  alla  Francia  esce  nel  1877,  fase  di  relativa  compressione  dell’impero  coloniale francese, più di metà del quale, dal punto di vista dell’estensione, è rappresentata dall’Algeria.

Anche economicamente, molto  meno rilevante doveva essere  il possesso di colonie come la Cambogia, il Senegal e qualche isola dei Caraibi e dell’oceano Indiano. Reclus, nella NGU, si schiera chiaramente con il fronte degli scettici, che nei primi anni della Terza Repubblica non doveva  essere  marginale,  se  i  sostenitori  delle  colonie  dovettero  vincere  «l’indifférence  ou l’hostilité des Français envers la colonisation» (Berdoulay, 1981, p. 47).

Il geografo anarchico presenta infatti le colonie francesi come un fatto ormai residuale. Al momento, «par la population et le commerce l’ensemble de ce domaine étranger n’accroît que bien faiblement la force de la métropole» (NGU, vol. II, p. 913). Anzi, potrebbe essere la sua debolezza, visti i costi del mantenimento di questi possessi lontani e di popolazioni tenute in soggezione, dunque lasciate fuori, nella visione reclusiana,  dalla possibilità di partecipare con un  proprio contributo autonomo  al “movimento  della civiltà”.  «La plupart  des colonies sont  fort  coûteuses  pour  la  mère  patrie,  et  leurs  populations,  maintenues  dans  un  état  de grande  dépendance,  ne  contribuent  que pour  une part  insignifiante à  ’accroissement de  la puissance française. La force d’expansion de la France ne peut donc se mesurer par l’étendue de ces domaines éloignés où flotte son drapeau» (ibidem).

  1. ALGERIA E DINTORNI  –  E’  stato  soprattutto a  proposito  dell’Algeria  che  si  è concentrato il dibattito sul presunto colonialismo di Reclus. Secondo la gran parte degli storici della  geografia  francese  è  chiaro  che  «Reclus  était  opposé  à  l’expansion  coloniale.  Il  se démarquait ainsi de son frère Onésime qui était un ardent partisan de l’expansion française en Afrique»  (Berdoulay,  1981,  p.  70).  Secondo  altri  avrebbe  avuto  la  tendenza  a  essere  più “morbido” nei confronti del colonialismo francese che di quello ad esempio britannico, come nel caso dei quattro articoli citati di Giblin, Nicolaï, Liauzu e Baudoin. Questi lavori sono stati di  recente  criticati  dal  punto  di  vista  metodologico  in  occasione  di  un  convegno  per  il centenario del geografo anarchico.

Tout  d’abord,  en  faisant  le  choix  de  travailler  sur  un  ensemble  d’ouvrages  représentant  une masse considérable d’écrit, les quatre auteurs se condamnent le plus souvent à picoter les textes, fondant leurs analyses  sur des  « morceaux choisis » issus des chapitres  de généralités (…) Ensuite, les trois premiers articles souffrent de l’absence  d’analyse rigoureuse du  contexte idéologique,  politique  voire éditorial.  La position  de  Reclus est envisagée  quasiment  en  soi  ou  mise  en  perspective  avec  une  doxa  libertaire,  elle-même  a-historique  et nécessairement anticolonialiste (Deprest, 2005).

Affrontando il  corpus completo degli  scritti di  Reclus sull’Algeria (NGU,  vol. XI,  pp. 293-652;  Reclus,  1905),  in  effetti,  risulta  che  se  da  una  parte  egli  vede  con  simpatia  la colonizzazione  di popolamento  effettuata  in  quegli  anni da  proletari,  fra  i quali  sua  figlia Magali con il  genero  Paul Regnier, dall’altra  questo  fenomeno  è separato dall’occupazione spesso violenta effettuata dai quadri coloniali, dai militari e dai proprietari, sui quali la critica e il sarcasmo di Reclus restano sempre acuti anche nel caso algerino.

Per approfondire  la questione,  nello scritto  citato  di Florence  Deprest  si dimostra  che l’idea di  insediare  con colonizzazioni  di lavoro  e  unire con  i moderni  mezzi  di trasporto  le regioni meno popolate del  globo era in linea  con il pensiero “progressista” degli anni in cui veniva redatta la NGU, nei quali appunto non  esistevano concetti come “anticolonialismo” o “teoria  dell’imperialismo”.  Poi  che  l’idea  di  un  Maghreb  pronto  ad  ospitare  un  numero consistente  di  nuovi  abitanti  venuti  dall’Europa  è  coerente  con  l’idea  reclusiana  di  unità storica e  dinamica  del bacino  mediterraneo, teatro  di  scambi e  spostamenti dall’inizio della storia.  Infine,  che nel  testo della  NGU  sull’Algeria  ci  sono decine  di passaggi  in  cui  si  fa riferimento ad azioni violente e abusi di  vario genere da parte  dei conquistatori, che in  quel periodo vengono di solito passati sotto silenzio dalla stampa francese. Dal racconto di alcuni dei  massacri  della  guerra  di  conquista, come  lo sterminio  di  un’intera tribù  imprigionata e fatta morire di soffocamento dentro a una caverna data alle fiamme, in cui «d’après le récit de quelques survivants, il  y avait en tout  1150 personnes dans la caverne enfumée» (NGU,  vol. XI,  p.  502),  alla  constatazione  dei numerosi  arbitri: «nombreuses  injustices se  commettent encore et que les vainqueurs abusent toujours de leur force contre les faibles» (ibid., p. 630).

Fino  alla  denuncia  di  alcune  leggi  coloniali,  come  quella  che  considerava  collettivamente responsabili  tutti  i  componenti  delle  tribù  dichiarate  ribelli,  ai  quali  venivano automaticamente  requisiti  i  terreni,  «mesure  cruelle  (…)  barbare  (…)  en  même  temps qu’inutile» (ibid., p. 603). E soprattutto si parla degli indigeni come soggetti portatori di diritti e  di  una  propria  volontà,  negando  dunque  sia  l’idea  del  suddito  da  dominare  sia  quella paternalistica  del  popolo  arretrato da  educare,  perché  per Reclus  questi  popoli  avevano  le carte in regola per potersi conquistare l’emancipazione.

Affirmer  les  indigènes, berbères  et arabes,  capables  d’une  conscience politique,  exposer comment  le régime colonial évince leur(s) voix, c’est reconnaître qu’ils devraient avoir des droits politiques, non pas dans un futur hypothétique, mais maintenant, et voir qu’on les en prive. L’écrire, c’est ouvrir une brèche dans le principe de domination coloniale. Impossible à refermer, elle mine la séparation fondatrice sur laquelle reposent toutes les autres, et donc tout l’édifice colonial (Deprest, 2005).

A  confermare  la  validità  di  questo  modo  di  affrontare  il  problema  sembrano  venire alcune delle corrispondenze inedite di Reclus con Paul Pelet, che abbiamo trovato nel corso di questa ricerca. Il cartografo di Hachette, simpatizzante delle idee libertarie, convince Reclus ad aderire alla Société française pour la  protection des indigènes des colonies, fondata il 29 novembre  1881  da  Paul  Leroy-Beaulieu  e  Victor  Schoelcher.  Questi  personaggi  dalle  forti entrature politiche nella sinistra repubblicana sostenitrice ell’espansione coloniale, essendo il primo consigliere di Jules Ferry e il secondo senatore, da subito non convincono il geografo, che in una lettera scritta  fra dicembre  1881 e gennaio  1882 ne  parla all’amico con  un certo sarcasmo:  «Votre  société  de  protection  des  Indigènes  a  fait  quelque  chose?  Je  le  désire vivement, mais… ici  l’anarchiste montre le  bout de l’oreille, comment  faire  quelque  chose quand on  commence  par nommer des  présidents-réclame?» (lettera  di  E. Reclus  a  P. Pelet, s.d., BNF, DM, NAF, 16798 f. 19)

A  far prendere  a  Reclus  la  decisione di  allontanarsi  dalla  benemerita  associazione è proprio il suo primo soggiorno in Algeria effettuato per la redazione dell’undicesimo volume della NGU sui Paesi del Maghreb. L’osservazione della realtà algerina fa pensare a Reclus che non  sempre  i  buoni  propositi  corrispondono  alle  azioni,  come  scrive all’amico  da Algeri.

«Vous  savez  que  pour  diverses  raisons,  je  n’ai  jamais  fait  partie  que  à  contrecœur  de  la Société protection des Indigènes, mais je me disais qu’à priori il serait toujours honorable et bon de me mettre du côté des faibles. Mais ici je m’aperçois que la question est fort complexe et que en disant protection, on peut quelquefois seconder l’œuvre d’oppression» (lettera di E. Reclus a P. Pelet, 28 maggio 1884, BNF, DM, NAF, 16798, f. 74). 

Il  paternalismo non  gli sembra  potersi  applicare a  popoli che  ha  scoperto  in  questo viaggio e che gli sembrano composti già per loro cultura da cittadini piuttosto che da sudditi, o “primitivi” da educare. «Je suis tout émerveillé de la mystique kabyle ; je serai fort heureux de  pouvoir  y  retourner  et  d’y  étudier  sur  place  ces  admirables  citoyens »  (ibidem).  Reclus allega  una  copia  della  lettera  di  dimissioni  per  il  segretario  della  Società,  partendo  nella riflessione  proprio  dalla  riva  sud  del  Mediterraneo:  «étudiant  les  questions  algériennes  je constate que je ne les ai jamais connues et que je suis loin de les connaître encore. J’ai donc eu tort d’entrer dans la Société protectrice des Indigènes» (ibid., f. 75).

Continuando  nei  mesi  successivi  questa  corrispondenza,  Reclus  fornisce  nuove motivazioni alla scelta, torna sulla ripugnanza che gli crea il titolo di protettore e sulla scarsa stima  nei  confronti  degli  amministratori  dell’associazione.  Cita,  con  una  buona  dose  di autoironia,  conversazioni  avute  con  amici  in  Maghreb,  probabilmente  legati  all’entourage degli anarchici trasferitisi lì.

 Je me suis frappé de l’unanimité de leur jugement à l’adresse de la Société protectrice. Tous l’accusent de faire par ignorance le contraire  de  ce  qu’elle  veut ; tous y voient une mauvaise queue  de l’empire ;  tous lui reprochent de prendre pour agents indigènes les pires des oppresseurs, tous ont trois bêtes noires, le militaire, le jésuite et  le «protecteur».  «Peste !»  me  suis-je dit  «me  voilà en  bonne compagnie»  (lettera  di  E. Reclus  a  P. Pelet, 21 giugno 1884, BNF, DM, NAF,, 16798, f. 77).

Ed  è  qui  che  anticipa  molte  delle  critiche  al  colonialismo  che  saranno  espresse esplicitamente  negli  ambienti  rivoluzionari  solo  dagli  anni  successivi.  E’  significativo  che proprio la  presa  di contatto  con la  realtà  algerina gli  faccia  affermare questi  concetti, con i quali  chiude la  discussione  riguardo  alla  società  protettrice.  «Je  reviens  de  l’Algérie  avec l’horreur de la  conquête, plus  profonde que  je ne le  prouvais avant.  J’ai là souvent  entendu répéter par des bouches guerrières : “Il faut les tuer tous !” que je tiens absolument à éloigner mon nom de la liste de ceux qui admettent le principe de la conquête» (ibidem).

Reclus  è  assolutamente  rapito  dagli  usi  comunitari  dei  cabili,  che  gli  ricordano  la democrazia diretta che tanto aveva apprezzato nella storia delle città europee dalla polis greca al comune medioevale. L’istituzione comunitaria della djemâa, l’assemblea di villaggio delle popolazioni cabile e berbere, è vista come una sopravvivenza dell’antica tradizione di libertà, precedente all’invasione araba. E non si sa mai che siano proprio i disprezzati indigeni a fare come un tempo la Graecia capta con il fiero vincitore romano. «Je me rappelle avec bonheur les  deux  ou  trois  jours  passés  dans  la  Grande  Kabylie.  Il  me  faudra  d’y  retourner  pour m’instruire  auprès  des  braves  gens  (…) Puissent  les  Kabyles  civiliser  leurs  vainqueurs !» (ibidem). Le  discussioni con  Pelet sulla  questione dell’Algeria  proseguono fino al  dicembre del  1884,  quando  il  geografo  anarchico  afferma  che  approverebbe  gli  indigenisti  «si  les indigénistes concédaient aux indigènes tout le droit, y compris celui de nous mettre à la porte» (lettera di  E. Reclus a  P. Pelet,  7 dicembre  1884, BNF, DM, NAF, 16798,  f. 80).  Il pensiero dell’estensore della NGU riguardo all’occupazione francese dell’Algeria sembra dunque nella corrispondenza di questi mesi delinearsi con una certa chiarezza. Pochi anni  dopo, nel  1888, Reclus  spedisce a  un giornale  inglese un  articolo (di  cui non conosciamo  la sorte)  in cui accenna  alla fine  della Comune,  quando militari abituati  al massacro degli Arabi, tornati a Parigi «balayaient les faubourgs de leur artillerie, ainsi qu’ils avaient balayé  les pauvres  brodji des Arabes.  La France  paiera de  même pour  le Tonkin  et pour Formose. Le  reflux de  l’histoire  amènera  le châtiment  des  fautes commises» (Reclus, 1911,  p.  339).  Se  consideriamo  questo  vichiano  riflusso  della  storia  e  lo  paragoniamo  alle decine  di  affermazioni  in  cui  nella  NGU  si  sostiene  che  la  civiltà  universale  porterà all’ emancipazione  e  alla liberazione  dei  popoli  soggetti,  l’impressione  è  che si  esprima  lo stesso concetto in altra forma.

Si potrebbe ancora affermare che Reclus, che nelle lettere citate esprime un pensiero già  radicalizzato  sul  problema  coloniale,  si  premuri  di  ammorbidire  in  parte  le  sue affermazioni in funzione degli impegni presi con l’editore della NGU. Ma se vogliamo tentare di valutare l’entità di questo  ipotetico “compromesso”, dobbiamo  anche ricordare che esiste un aspetto, non a-storico ma almeno di lunga durata, della doxa libertaria citata in precedenza.

Ossia  che  il  problema coloniale  non  sarà  mai  neppure  nel  ventesimo  secolo  la priorità  dei movimenti  anarchici  europei, perché  nella  concezione  che  ha  elaborato  questo movimento l’urgenza  della  liberazione  nazionale  è  subordinata  a  quella  della  rivoluzione  sociale:  in sintesi, si ritiene che l’interesse di un proletario algerino sia ribellarsi al padrone che si tratti di  un francese o di un connazionale. Alla luce di queste considerazioni, il quadro ci sembra nel suo  insieme  più  coerente.  Aggiungiamo  che  nel  caso  dell’Algeria  Reclus  non  è  solo  un commentatore, è anche un protagonista del tentativo, assieme ai suoi parenti in loco,  di fare attecchire fra gli emigrati francesi un movimento libertario sulle cui prospettive il geografo si dimostra particolarmente ottimista nella sua corrispondenza con l’anarchico ginevrino Jacques Gross. «Quand j’ai quitté Alger l’année dernière nous étions bien deux  ou trois. Maintenant nous sommes  une bonne  cinquantaine et  dans  une  récente  conférence nous  étions bien,  du moins par  les mouvements  initiaux, quatre  ou cinq cent» (lettera di  E. Reclus a J. Gross,  7 aprile 1887, CIRA, papiers Jacques Gross).

Per il complesso della NGU dobbiamo poi  storicizzare ulteriormente il problema: negli anni  della  stesura  dell’opera  l’espansione  coloniale  non  è  ancora  arrivata  ovunque  al  suo culmine  e  i  suoi  effetti  sono  spesso  poco  conosciuti  e  poco  dibattuti  anche  negli  ambiti progressisti. Ad  esempio a  metà  degli anni ’80,  quando  vengono redatti  i  due volumi  della NGU sull’Africa subsahariana, la penetrazione europea,  compresa quella che darà ai francesi dei territori così vasti in Africa  occidentale, è ancora lontana dal suo  apice e spesso limitata agli  empori  costieri.  Per  quanto  riguarda  la  Costa  d’Avorio,  «les  comptoirs  français, appartenant presque tous à une maison de la Rochelle sont peu nombreux» (NGU, vol. XII, p. 416). Nella antica Costa degli Schiavi, benché quattro nazioni europee si stiano contendendo l’influenza della zona, « du côté du nord, dans l’intérieur, leur domaine est encore sans limites précises. Bien peu nombreux sont les voyageurs qui ont pénétré dans ces contrées » (ibid., p. 462). Anche in uno dei più antichi approdi marittimi degli europei, il Senegal, si constata che «les possessions françaises  de la Sénégambie  n’ont encore qu’une  ville digne de ce  nom, la capitale» (Ibid, p. 248).

In altre situazioni, come quella dell’Indocina francese, il testo che se ne occupa, redatto all’inizio del decennio, rivela un’evidente carenza di notizie e informazioni precise, al punto che le pagine dedicate alla  parte orientale della penisola sono  solo poche  decine (NGU, vol. VIII, pp. 839-908). E’ chiaro che non ci si può aspettare in questi casi una critica di ciò che l’autore probabilmente ancora non conosce.

E’ invece nel 1899,  oltre dieci anni dopo la  redazione dei volumi della  NGU dedicati all’Asia  e  all’Africa,  ma  comunque  in anticipo  rispetto ai  dibattiti del  primo decennio  del secolo successivo, che Reclus matura prese di posizione pubbliche molto radicali sull’insieme della question coloniale. Lo fa in una serie di recensioni per l’Humanité Nouvelle, trattando di recenti volumi  di letteratura  coloniale che  portano informazioni di cui  possiamo supporre il geografo  non  disponesse  nel  decennio  precedente,  in  particolare,  come  dicevamo,  riguardo l’Africa Occidentale e l’Indocina. Nelle  recensioni si demoliscono senza troppi complimenti testi  come  i  Jours  de  Guinée di  Pierre  d’Espagnat,  un libro  che  per  Reclus  si  termina  di leggere con un sospiro di sollievo per chi, invece che in colonia, abbia la fortuna di vivere in terre où  l’outrage  adressé  aux  nègres  ne  soit  pas  de  bon  ton.  Ces  pages  nous  en  disent  long  sur  la « Civilisation » que nos compatriotes apportent dans le continent africain. Elles nous décrivent les petits captifs de sept et de huit ans, dont les parents ont été égorgés, et que l’on amène au village des traitants, pour les vendre à quelque roitelet noir ou à quelque marchand européen qui continuera leur éducation à coups de trique (Reclus, 1899a).

Ironica è anche  una nota su La colonia  Eritrea dell’italiano Meldi,  nel cui resoconto dei tentativi coloniali  dell’Italia crispina, «il va  sans  dire que, d’après  l’auteur imbu  de foi patriotique,  les  Italiens  ont  toujours  eu  le droit  pour  eux dans  cette  campagne, aussi  bien contre les populations indigènes que contre leurs rivaux d’Europe» (Reclus, 1899b).

Il problema della tratta ritorna quando si parla dell’Indocina, sulla quale il geografo è rattristato dalla lettura di un  libro che enumera «les  industriels et spéculateurs assoiffés d’or qui se sont  établis  dans le pays pour  exploiter  à fond  les vingt millions  d’Annamites  et  de Tonkinois» (Reclus, 1899d). Questo dà  testimonianza del caos amministrativo della colonia, ma soprattutto del fatto che  anche «sous le gouvernement du républicain radical Doumer, la traite des Annamites est instituée au profit de quelques sacripants bien recommandés par les banquiers de  Paris. Pour  acheter un  homme, il suffit de lui  faire signer  un papier  rédigé en français» (ibidem). Ecco come viene esportata la civiltà: si viene ridotti in schiavitù firmando fogli  scritti  nella  lingua  della  Déclaration!  Ma  l’opera  che  fa  più  inferocire  il  geografo anarchico è la  Psychologie de la  colonisation française di  Léopold de Saussure,  nella quale «les fanatiques de l’empire colonial peuvent y trouver en abondance les exemples des bévues commises  dans  l’éducation  de  nos  frères  inférieurs»  (Reclus,  1899c).  Al  sarcasmo  segue l’invettiva  nei  confronti  di  tutti  quegli  europei,  francesi,  inglesi,  tedeschi  o  olandesi,  che sbarcano su terre straniere considerandosi infinitamente superiori alle popolazioni locali. Non stupiamoci, conclude Reclus, che  quel po’  di  istruzione europea  che  arriva  loro  acutizzi lo spirito  di  rivolta:  «Comment  pourrait-il  en  être  autrement?  Cette  haine  de  l’esclave  qui  se redresse contre nous est méritée, et nous prouve du moins que tout espoir de relèvement n’est pas perdu (…) C’est justice!» (ibidem).

  1. CONCLUSIONE. –  Abbiamo  visto  come  a  una  definizione  dei  limiti  e  delle  grandi suddivisioni dell’Europa  basata sul  recupero degli autori antichi e delle  idee di Humboldt e Ritter,  Reclus unisca  il  suo  anticonformistico  rifiuto  di limitare  il  découpage  regionale  ai confini politici e amministrativi.

Possiamo poi pensare  sul problema  dell’espansione oltremare che, anche alla luce  di questa  chiara  evoluzione  dell’autore  verso  una  denuncia  del  colonialismo,  la  NGU  abbia contribuito,  come  tappa  di  un  percorso  progressivo,  a  porre  le  basi  per  lo  sviluppo  del successivo pensiero anticoloniale. Nel ridimensionare l’Europa come una parte del globo che occupa poco  più  di  un  quarto  dell’ opera;  nel  presentare  le  popolazioni  di  tutto  il  pianeta secondo il  principio  dell’unità umana,  del  rispetto delle  differenti  culture, dell’amore  per il cosmopolitismo; nella ricerca costante del mélange storico che le ha perennemente spostate e rimescolate; nel presentare un globo sul quale la civiltà non ha più un centro e una periferia e sul quale si ripetono appelli alla “fraternità fra i popoli”; nell’ inserire dove è possibile, come abbiamo visto nel caso dell’India e dell’Algeria, richiami ed episodi che dimostrano la natura non così benevola della civiltà europea. Non risparmiando nel testo dell’ opera le invasioni più antiche, come quella dell’America dove, dai Norvegesi dell’XI secolo ai Conquistadores del XVI « le massacre commença  avec l’arrivé des  blancs » (NGU, vol. XV, p. 13), né gli Stati colonialisti più piccoli, come l’Olanda « parasite de Java  » (NGU, vol. IV, p. 336). E non in un pamphlet rivoluzionario, ma in un’edizione Hachette ad ampia diffusione.

 

 

FONTI MANOSCRITTE

Paris  –  Bibliothèque  Nationale  de  France,  Département  des  Manuscrits  Occidentaux, Nouvelles Acquisitions Françaises (BNF, DM, NAF):  Dossier  16798, Lettres  d’Elisée Reclus à Paul Pelet.

Lausanne – Centre International de Recherches sur l’Anarchisme (CIRA).

FONTI A STAMPA

KROPOTKIN P., “The Desiccation of Eur-Asia”, The Geographical Journal, 23, 1904, pp. 722-734.

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PËTR ALEKSEEVIČ KROPOTKIN

 

Pëtr Alekseevič Kropotkin, in russo: Пётр Алексеевич Кропоткин? (Mosca, 9 dicembre 1842Dmitrov, 8 febbraio 1921), è stato un filosofo, geografo, zoologo, militante e teorico dell’anarchia russo.

Libertario, fautore di un’analisi sociologica e di una proposta poggiata su basi scientifiche dell’evoluzione sociale nelle comunità umane, con una propaganda fondata sui fatti, è stato uno dei primi sostenitori dell’anarco-comunismo.

« Perché la rivoluzione possa essere più che una parola, perché la reazione non ci riporti domani alla situazione di ieri, la conquista di oggi deve comportare lo sforzo di esser difesa; il povero di ieri non può essere il povero di domani »

Indice

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 La Rivoluzione è più che la demolizione di un regime. È una rivoluzione negli animi, più ancora che nelle istituzioni.

 

 Biografia

Nato da famiglia aristocratica, nel 1857 entrò in qualità di nobile imparentato con la Corte nel Corpo dei paggi (collegio imperiale) dove terminò il suo corso nel 1861, dal quale uscì nel 1862 per entrare a far parte dei Cosacchi, prestando servizio da ufficiale in Siberia. In questo periodo abbracciò gli ideali anarchici, ed ebbe modo di compiere una serie di studi di geografia, geologia e zoologia che avrebbero avuto in seguito un’influenza fondamentale nello sviluppo della sua filosofia. Nel 1868 rientrò in Russia, a Pietroburgo, riprese gli studi universitari nella facoltà di scienze, e successivamente venne nominato segretario della sezione geofisica della Società russa di geografia.

Con gli anni maturò la decisione di impegnarsi nell’attività politica: nel 1872 abbandonò i suoi incarichi e si recò a Ginevra, dove aderì alla corrente di Michail Bakunin nella I Internazionale, impegnandosi per la partecipazione degli anarchici ai movimenti sindacali e rivoluzionari (partecipava alle conferenze operaie clandestine, in cui si faceva chiamare «Boradin», propagandando la rivoluzione sociale); entrò poi a far parte della Federazione del Jura. Al suo ritorno in Russia si unì al Circolo Čajkovskij, del quale ricevette l’incarico di scriverne il programma.

Nel 1874 venne arrestato ed imprigionato a San Pietroburgo (scoprire che dietro il rivoluzionario Boradin si nascondeva il principe Kropotkin suscitò la sorpresa e lo sdegno dello zar); riuscì ad evadere nel 1876, raggiungendo la Svizzera con lo pseudonimo di Levachov. Diventò segretario generale del IX Congresso generale dell’Internazionale dei lavoratori, prima di essere costretto alla fuga in Inghilterra dalle minacce d’arresto della polizia svizzera. Stabilitosi in Inghilterra iniziò una serie di viaggi attraverso l’Europa per tornare a Ginevra nel 1878, dove l’anno successivo fondò e diresse Le Révolte. Nel 1880 collaborò insieme a Élisée Reclus alla stesura della Geografia universale.

Nel 1881 fu espulso dalla Svizzera a seguito dell’assassinio dello zar Alessandro II da parte di alcuni anarchici; venne processato (durante il processo gli imputati, Emilio Gautier, Felix Tressaud, Martin, Fager, Sala, lessero una dichiarazione di principi che terminava con il celeberrimo «il pane per tutti, la scienza per tutti, il lavoro per tutti, e per tutti anche l’indipendenza e la giustizia») e incarcerato a Clairvaux nel 1883. Lo stesso anno Victor Hugo presentò al ministro della giustizia francese una petizione per la sua liberazione, firmata da numerosi intellettuali. Dal carcere, nel 1885, scrisse Parole di un ribelle.

Il 15 gennaio 1886 Kropotkin ottenne la grazia e si stabilì di nuovo in Inghilterra, dove fondò la rivista Freedom e, insieme ad altri amici, la casa editrice anarchica Freedom Press. Iniziò un lungo periodo di feconda produzione letteraria durante il quale scrisse alcune tra le sue opere più importanti, tra le quali La morale anarchica; Campi, fabbriche e officine; Il mutuo appoggio.

Nei primi anni del XX secolo i tentativi rivoluzionari in Russia risvegliarono l’interesse di Kropotkin per la situazione del suo paese d’origine; nel 1914 prese posizione in favore della guerra contro la Germania, innescando numerose polemiche all’interno del movimento anarchico e un’aspra lite con l’amico Errico Malatesta; il suo atteggiamento interventista trovò ancora riscontro nel 1916 con la sua firma al Manifesto dei Sedici. Anni dopo Kropotkin avrebbe ammesso di aver compiuto un errore.

Nel 1917 tornò in Russia dove prese immediatamente posizione contro la piega autoritaria che avvertiva nel movimento rivoluzionario, osteggiando in particolare i bolscevichi. Strinse amicizia con Aleksandr Kerenskij, dal quale rifiutò sia l’offerta di assumere un ministero, affermando di considerare «molto più utile e onesta la professione del lustrascarpe», che quella di percepire una pensione annua di diecimila rubli.[1]

Nel 1919 si trasferì definitivamente a Dmitrov, dove scrisse la Lettera ai lavoratori d’occidente; il documento più importante di questo periodo, o Lettera ai lavoratori di tutto il mondo (1920), in cui Kropotkin esortava tutti i progressisti occidentali a porre fine al blocco e alla guerra d’intervento, che avrebbe solo rafforzato la dittatura e reso più difficile il compito di coloro che stavano lavorando ad una genuina ricostruzione sociale. Illustrava poi la sua visione di una Russia anarchica organizzata in liberi comuni federali, e ammoniva gli uomini d’altri paesi a imparare dagli errori della Rivoluzione Russa. Di quest’ultima lodava i passi verso l’uguaglianza sociale e il ruolo dei Soviet, che avrebbero potuto portare all’emancipazione dei produttori nell’amministrazione della loro attività se solo non fossero caduti sotto il controllo della dittatura. Nella sua prima lettera a Lenin, datata 20 marzo 1920, scrisse infatti che: «Se la situazione attuale continuerà, la stessa parola “socialismo” diventerà una maledizione, come capitò in Francia alla parola “uguaglianza”, dopo quarant’anni di giacobinismo».[2]

Nonostante tutto Kropotkin era ancora ottimista ed invitava i lavoratori a creare una nuova Internazionale. Le sue parole però non influenzarono né gli eventi interni, né quelli esterni ed egli non poté far nulla neppure per gli anarchici che erano in prigione, in esilio o a combattere nell’esercito rivoluzionario ucraino di Nestor Makhno. La sua morte, avvenuta l’8 febbraio 1921, gli impedì di completare quella che considerava la sua opera più importante, L’etica. Il suo feretro attraversò le strade di Mosca scortato da nere bandiere incise del motto Dove c’è autorità non c’è libertà.

Il pensiero

Kropotkin, che sviluppa le proprie idee all’apogeo del clima positivista e scientista dell’Ottocento, fu fortemente influenzato dal suo essere contemporaneamente scienziato e anarchico, per questo si legò fortemente al razionalismo illuministico. In questo “clima” egli lancia la sua sfida intellettuale: dimostrare che l’anarchismo è in perfetta sintonia con lo sviluppo e i metodi della scienza, che esso ha basi scientifiche indiscutibili e, soprattutto, dimostrare che la vita umana ed animale è prevalentemente basata sulla cooperazione e la solidarietà, piuttosto che sulla lotta.

In questa maniera l’anarchico russo vuole criticare sia le teorie del socialismo scientifico, in particolare quelle del metodo dialettico e del determinismo economico, sia le teorie dei discepoli del “darwinismo sociale” che giustificano l’oppressione del forte sul debole. Gli elementi cardine del pensiero kropotkiniano sono: il determinismo scientifico, l’etica e l’anarco-comunismo.

Il determinismo scientifico

Per Kropotkin l’anarchia è un modo d’organizzazione sociale “imposto” dalla stessa natura ed è quindi una verità scientifica: “l’anarchia è una concezione dell’universo, basata sulla interpretazione meccanica dei fenomeni, che abbraccia tutta la natura, non esclusa la vita della società“. Il suo metodo è quello delle scienze naturali; secondo questo metodo ogni conclusione scientifica deve essere verificata. La tendenza kropotkiniana è di fondare una filosofia sintetica che si estenda a tutti i fatti della natura, compresa la vita delle società umane e i loro problemi economici, politici e morali”.

Per Kropotkin in natura non esistono leggi prestabilite bensì fenomeni non determinati e l’armonia non può non essere che la conseguenza di un lungo processo. Ugualmente la società umana, che si regge sull’armonia spontanea, non può che sfociare nell’Anarchia, poiché anche gli esseri umani tendono a respingere le forme cristallizzate.

La Conquista del pane, edizione francese

L’anarchia quindi si realizzerebbe come conseguenza deterministica, ovvero senza alcuna volontà possibile. Quest’ultima, che determina la condotta degli individui e della società, secondo il determinismo, non sarebbe altro che un’illusione. Passato, presente e futuro non sarebbero altro che una sequenza di cause ed effetti di natura meccanica, secondo cui la volontà non può incidere in alcun modo. Tuttavia per Kropotkin il pensiero meccanicista non è così “rigido”: egli ritiene che i fini possono essere raggiunti solo attraverso l’adeguamento dei mezzi alla natura dei fini. In pratica i fini non sono dati, ovvero è l’azione cosciente (prassi rivoluzionaria) dell’uomo che determina i fini.

L’etica

Secondo Kropotkin, tre sono gli stadi dell’etica umana:

  • il mutuo soccorso;
  • la giustizia;
  • la morale.

Il mutuo soccorso, tradotto anche come mutuo appoggio, è presente in tutti gli animali con pochissime eccezioni. Solo le tigri, alcuni uccelli e alcuni pesci, afferma Kropotkin, non hanno istinti sociali e vivono isolati. Tutti gli altri però vivono in branchi e si aiutano a vicenda, perché questa è l’arma migliore per sopravvivere; anzi, si tratta di una vera e propria legge della natura e di un fattore determinante dell’evoluzione. i più atti o adatti, pertanto, non sono i più forti fisicamente, né i più scaltri, ma coloro che imparano ad unirsi in modo da sostenersi reciprocamente, tanto i forti quanto i deboli, per la prosperità della comunità.

Kropotkin, rifacendosi soprattutto agli studi di Charles Darwin, nota che gli istinti sociali sono via via più presenti man mano che una specie è evoluta; così, le specie più evolute di ogni classe animale, possiedono istinti sociali fortissimi. Questi istinti sono indubbiamente presenti anche in ogni uomo.

La giustizia deve essere intesa come uguaglianza; non vi è alcuna giustizia senza equità. Questo è un passaggio successivo, che non deriva dagli istinti né dai sentimenti, ma dalla ragione. Anche la giustizia, afferma Kropotkin, è presente in molti animali, particolarmente quelli più evoluti. Parla ad esempio di uccelli che si dividono le scogliere, zona di caccia, in modo che nessuno abbia un territorio migliore o peggiore degli altri; quindi se il territorio di un uccello è particolarmente buono per la caccia, sarà meno esteso rispetto a quello di un uccello che ha un territorio peggiore. Nelle civiltà primitive, poi, la giustizia intesa come equità era la norma. Lo deduce da studi effettuati di persona e da altri studiosi, in cui sono state analizzate le culture considerate più “primitive”. Ciò non toglie che l’uomo ha sempre vissuto in società, come gli animali.

La morale è qualcosa che nasce successivamente. Essa va addirittura oltre la giustizia e va intesa come abnegazione o sacrificio di se stessi per gli altri. È ciò che avviene quando un individuo rinuncia alla propria vita per salvarne un altro (si tratta naturalmente di un caso estremo). La morale, però, non è che un “di più”, che non si può chiedere ad una persona.

Tale distinzione non è nuova. Era già presente in Pierre Joseph Proudhon e in Jean-Marie Guyau, ma Kropotkin l’ha approfondita. Avrebbe voluto chiarire, nel secondo volume de L’Etica, da quali processi psicologici nascano la giustizia e la morale nell’uomo, ma purtroppo di quel volume non abbiamo che poche bozze. Sappiamo però che intendeva fondare una nuova etica (la morale realistica, o morale anarchica) rifacendosi principalmente all’abbozzo di Guyau di una morale senza obbligazione né sanzione.

L’anarco-comunismo

Il comunismo anarchico o comunismo libertario è il “comunismo senza governo, quello degli uomini liberi, è la sintesi dei due scopi ai quali mira l’umanità attraverso i tempi: la libertà economica e la libertà politica” ed è anche il completamento dell’anarchia, ovvero l’uguaglianza che completa la libertà. È quindi inoltre l’opposto dell’individualismo esattamente come il mutuo appoggio è l’esatto contrario della lotta per l’esistenza.

Per Kropotkin il comunismo è l’unico sistema privo di contraddizioni sociali, poiché, secondo il principio “da ognuno secondo le sue forze, ad ognuno secondo i suoi bisogni“, abolisce la schiavitù del salario e la dipendenza dal bisogno, mediante la spontanea azione delle masse. Kropotkin, nella sua visione deterministica, è contrario alla rivoluzione, tuttavia la ritiene fondamentale in certe epoche, in quanto mezzo di accelerazione del processo evolutivo.

Il comunismo kropotkiniano vuole abolire non solo la differenza tra lavoro manuale e lavoro intellettuale (come Bakunin) ma anche quella tra città e campagna. Per il pensatore russo ogni individuo deve integrare il lavoro manuale con quello intellettuale (ciò per evitare pericolose specializzazioni che possano creare privilegi); anche l’integrazione geografico-sociale della città con la campagna sono due aspetti complementari perché mirano al superamento della divisione della società in una scala gerarchica. Questi due aspetti, così integrati tra loro, costituiscono la struttura federalistica ed armonica del piano kropotkiniano, che comporta la fine di ogni dominio: abolizione delle classi, abolizione dello Stato e di ogni altra forma gerarchica socio-economica, decentramento e federalismo dal basso verso l’alto, abolizione della duplice divisione del lavoro, pratica immediata di comunismo libero e di mutuo appoggio.

OpereRicerche sul periodo glaciale (1871);

  • Parole di un ribelle (1885);
  • La morale anarchica (1890) (ISBN 88-7226-477-4);
  • La conquista del pane (1892);
  • La filosofia e l’ideale dell’anarchia (1896);
  • Lo Stato e il suo ruolo storico (1897)
  • Campi, fabbriche e officine (1898);
  • Memorie di un rivoluzionario (1899);
  • Il mutuo appoggio (1902) (ISBN 88-7641-301-4);
  • L’orografia dell’Asia (1904);
  • La grande Rivoluzione (1911);
  • La scienza moderna e l’anarchia (1912) (ISBN 88-85861-79-2);
  • L’etica (incompiuta);
  • Pierre Kropotkine. Œuvres, présentation et choix de textes par Martin Zemliak (alias Frank Mintz), La Découverte, 2001 (1976) (ISBN 27-07135-27-5).

Note^ “Note biografiche di Pëtr Alekseevič Kropotkin

  1. ^ Préposiet Jean, Storia dell’anarchismo, Dedalo, Bari, 2006, p. 303; Pierre Kropotkine. Œuvres, présentation et choix de textes par Martin Zemliak (alias Frank Mintz), La Découverte, édition de 2001 (première édition 1976), nota n° 27, p. 339.

Bibliografia

 

PËTR ALEKSEJEVIC KROPOTKIN

A cura di Silvia Ferbri

 

 “È il fatto che ci darà la vera misura dell’idea”.

Introduzione

Pëtr Kropotkin è stato un rivoluzionario anarchico russo (possiamo considerarlo uno dei “padri fondatori” dell’anarchismo e dell’anarcocomunismo in particolare), ma anche uno scienziato e un filosofo. Il suo è però un pensiero poco conosciuto, pur essendo ricco e fecondo. La sua vita e la sua collocazione politica hanno probabilmente contribuito a metterlo in ombra, al punto che è praticamente ignorata anche la sua intensa opera geografica (a Kropotkin dobbiamo l’esatta conoscenza dell’orografia asiatica e delle varie fasi dell’era glaciale in Europa; compì infatti diverse esplorazioni nella prima parte della sua vita) così come il suo notevole contributo all’antropologia e all’etologia. Le sue ricerche e le sue riflessioni spaziano dall’analisi critica dell’evoluzionismo darwiniano (in occasione della quale emerge il concetto del “mutuo appoggio” come fondamentale fattore evolutivo) alle riflessioni sull’etica (proponendo un’etica solidale, dopo aver esaminato i vari stadi dello “sviluppo” etico); dall’anarchia e l’autogestione a un’approfondita e profetica analisi sociale ed economica; dalla ricerca di una filosofia anarchica della storia fino all’ipotesi di un fondamento scientifico vero e proprio per la teoria anarchica, da contrapporre al socialismo scientifico marxista; dalla sua particolare concezione antropologica a una sensibilità ecologica difficile da riscontrare ai suoi tempi.

Dal punto di vista filosofico rivestono un particolare interesse i suoi scritti sulla storia e la storiografia (quindi il suo concetto di rivoluzione e la sua teoria, sostenuta e messa in pratica con la sua stessa vita, dell’agire umano, che illustreremo più avanti), il concetto del “mutuo appoggio”, e senz’altro la sua opera incompiuta sull’Etica. Ugualmente notevoli, anche se riguardano altre discipline, sono la sua analisi e la sua concezione economica (un’opera come Campi, fabbriche e officine era estremamente all’avanguardia per l’epoca in cui è stata scritta) e, come abbiamo accennato, la sua attività di geografo. Le sue opere e i suoi studi spaziano quindi in svariati campi, a dimostrazione del suo amore per il conoscere e per il sapere, oltre a quello, altrettanto intenso, per la vita e per la lotta.

Kropotkin nei suoi lavori fa un costante riferimento alla scienza naturale, ponendo la scienza come base per le sue argomentazioni, approccio che venne spesso criticato da altri pensatori o attivisti anarchici. Se non può essere considerato quindi un “idealista”, come vedremo, neppure è corretto definirlo un “empirista” tout court. Potremmo qualificarlo come “naturalista”, ma se il suo naturalismo si basa sull’evoluzionismo, come vedremo meglio in seguito, neppure lo si può considerare del tutto un precursore dell’attuale epistemologia evoluzionistica di Campbell, Lorenz, Riedl e altri, in quanto l’evoluzionismo moderno, a differenza di Kropotkin, manifesta solo raramente un interesse sociale e politico. Interessante è poi la questione dell’individualismo e del rapporto individuo-società in Kropotkin, che analizzeremo tra breve, e che allo stesso modo il più delle volte non è stata valutata e compresa pienamente. Ma ciò che è più importante rilevare è che il suo pensiero e il suo punto di vista non hanno perduto oggi la loro attualità e meritano di essere tutt’ora conosciuti e ricordati. Il suo ottimismo e il suo entusiasmo, nonostante le mille difficoltà che ha dovuto affrontare nel corso della sua vita, affascinano e coinvolgono, in particolare la sua descrizione di un uomo davvero libero e capace di vivere sul serio la libertà, un uomo in grado di gestire totalmente l’intera organizzazione sociale ed economica, oltre alla sua vita privata, senza delegare alcunché a politici di mestiere o a veri o presunti esperti. Descrizione che non muove da una qualche teoria formulata astrattamente, ma dalla sua esperienza, diretta o indiretta, che egli costantemente pone non soltanto come concreto esempio da seguire ma anche come obiettivo da continuare a raggiungere. La sua ricerca di modelli di comunità autogestita, basata sulla conoscenza della natura sociale dell’uomo, può fornire importanti stimoli per la società intera, non soltanto per le varie reti o quei gruppi politicamente impegnati che provano al giorno d’oggi (di fronte alle attuali sfide poste dalla crescente emergenza ecologica e dall’espansione dell’imperialismo, da alcuni definito “globalizzazione”) a sperimentare al loro interno l’autogestione e il mutuo appoggio tentando di escludere qualsiasi rapporto di potere. E’ anche fondamentale, nell’attuale crisi della politica e a seguito dei cambiamenti dovuti alla cosiddetta “fine delle ideologie” e al crollo del comunismo sovietico, tentare finalmente (e non solo per la “sinistra” nelle sue varie componenti) di arrivare ad una fondata conoscenza dell’uomo, soprattutto riguardo la sua capacità di convivere pacificamente e in libertà, di cooperare e autoorganizzarsi in uguaglianza, senza costrizione esterna (capacità non riconosciuta da Marx e dai suoi discepoli, ma che andrebbe seriamente rivista, al fine di non ripetere i ben noti vecchi errori).

Non ultimo, il pensiero di Kropotkin può farci riflettere se sia ancora valido (come ritengono invece molti neokantiani e idealisti) continuare ad insistere sulla divisione tra naturale e sociale. Il materialismo di Kropotkin a questo proposito è ancora qualcosa d’altro e di più: egli non fu solo un seguace del principio antropologico di Cernysevskij, ma fu come abbiamo visto un geografo, esponente pertanto di una scienza che allora si definiva interdisciplinare, ovvero proprio una sintesi tra il sociale e il naturale. Le componenti del pensiero e dell’esperienza di Kropotkin sono quindi variegate e complesse, e la sintesi che ne deriva è particolarmente ricca e feconda, un patrimonio da non disperdere, ma da cui attingere  e non da un unico punto di vista.

La vita e le opere

Pëtr Aleksejevic Kropotkin nacque a Mosca il 9 dicembre 1842, da una famiglia dell’aristocrazia russa. Fin da piccolo sviluppò quindi un rapporto molto intenso con i servi-contadini della famiglia paterna e un’istintiva empatia per le loro drammatiche condizioni di vita. Frequentò una esclusiva scuola militare (il corpo dei Paggi di Alessandro II, avendo così un contatto diretto con la famiglia imperiale e il mondo dell’autocrazia russa), quindi, nel 1862, rinunciando temporaneamente per motivi di rapporti familiari agli studi universitari, entrò a far parte del corpo dei Cosacchi e si recò in Siberia, esperienza determinante sia per i suoi studi di geografia, geologia e zoologia (che avranno in seguito un’influenza fondamentale nello sviluppo del suo pensiero filosofico), sia per i suoi primi atteggiamenti critici verso la società zarista e le sue enormi ingiustizie, stimolati proprio dal soggiorno siberiano. Restò inoltre particolarmente impressionato dall’organizzazione semicomunista della popolazione autoctona. “Gli anni che passai in Siberia“, scrisse in Memorie di un rivoluzionario, “mi insegnarono molte cose che non avrei potuto imparare altrove. Mi convinsi ben presto dell’assoluta impossibilità di fare qualcosa di veramente utile per il popolo servendosi del meccanismo amministrativo. Mi liberai per sempre di quella illusione. Incominciai poi a capire non solo gli uomini e la natura umana, ma anche le intime origini della vita della società. Il lavoro costruttivo delle masse ignorate, di cui così poco si parla nei libri, e l’importanza di quel lavoro costruttivo nello sviluppo delle forme sociali, mi si delineò con chiarezza.“. Kropotkin qui si riferisce a una comunità che si era stabilita nella regione dell’Amur. “Vedere gli immensi vantaggi della loro organizzazione fraterna semicomunista e constatare i buoni risultati della loro colonizzazione in mezzo ai tanti falliti della colonizzazione di stato, fu una lezione che avrei cercato inutilmente nei libri. E poi, vivere con gli indigeni, osservare le forme complesse di organizzazione sociale che essi hanno elaborato lontano dall’influenza di qualsiasi società, era fare provvista di una luce che avrebbe poi rischiarato i miei studi futuri.“.  Dopo essere rientrato in Russia e aver intrapreso finalmente gli studi universitari nella facoltà di scienze (successivamente verrà nominato segretario della sezione geofisica della Società russa di geografia), nel 1872, dopo una spedizione in Finlandia, feconda e determinante soprattutto per la sua riflessione sulle scelte future, si recò in Svizzera, avendo nel frattempo maturato la decisione di impegnarsi nell’attività politica. La decisione di rinunciare all’offerta della Società geografica maturò in seguito al seguente quesito: “Ma quale diritto avevo io a queste gioie profonde, mentre intorno a me non vi era che miseria e lotta per un tozzo di pane ammuffito; quando tutto quello di cui io potevo aver bisogno per poter vivere in questo mondo di altissime emozioni doveva essere tolto dalla bocca di quelli che fanno crescere il grano e non hanno abbastanza pane per i loro bambini?” Vediamo così da subito qual’è il suo metodo di studio (partire sempre dalla realtà concreta, dalla vita vissuta, mai da teorie o principi astratti) e il suo atteggiamento di uomo, fortemente intriso fin dalla più giovane età di un profondo senso di giustizia. A Ginevra aderì alla corrente bakuniana della I Internazionale, ed entrò a far parte della Federazione del Jura. Abbracciò gli ideali di fratellanza socialisti e anarchici, e si impegnò per la partecipazione anarchica ai movimenti sindacali e rivoluzionari. Tornato nel suo paese, dove si unì al Circolo Cajkovskij, vivendo una delle sue esperienze più straordinarie in condivisione con tutti quei giovani, in gran parte ragazze, che rinunciarono a tutto, in molti casi alla loro stessa vita, per dedicarsi anima e corpo all’emancipazione del popolo, nel 1874 venne arrestato e rinchiuso (senza processo) nella fortezza di S. Pietro e Paolo a San Pietroburgo. Durante la prigionia continuò, nonostante le difficoltà, a scrivere i suoi lavori sulla glaciazione in Europa. Nel 1876 riuscì ad evadere con una fuga spettacolare e con l’aiuto dei suoi compagni di lotta, e raggiunse la Svizzera sotto pseudonimo, dopo un breve ma intenso soggiorno in Inghilterra. Diventò segretario generale del IX Congresso generale dell’Internazionale dei Lavoratori, prima di essere costretto a fuggire ancora in Inghilterra. Effettuò numerosi viaggi attraverso l’Europa, sostò a Parigi, dove conobbe Turgheniev, tornando poi a Ginevra nel 1878, dove l’anno successivo fondò e diresse «Le Révolté» (dal 1887 «La Révolte», poi dal 1895, «Les Temps Nouveaux»). La Federazione del Jura era stata ridotta al silenzio dalle persecuzioni, e Guillaume, che da otto anni teneva in vita il «Bollettino della Federazione», aveva dovuto abbandonare la Svizzera e rifugiarsi in Francia. Nel 1880 collaborò con Elisée Reclus, un grande geografo francese di idee anarchiche, anch’egli ingiustamente dimenticato, con il quale instaurò un rapporto di profonda amicizia, alla stesura della sua Geografia Universale.

Espulso nel 1881 dalla Svizzera (a seguito dell’uccisione dello zar Alessandro II), venne poi processato e condannato in Francia l’anno seguente per attività sovversiva. In carcere scrisse Paroles d’un révolté, (Parole di un ribelle). Victor Hugo presentò al ministro della giustizia francese una petizione per la sua liberazione, firmata da numerosi intellettuali. Nel 1886 Kropotkin ottenne la grazia e dopo un breve soggiorno a Parigi si trasferì in Inghilterra, dove fondò la rivista «Freedom». Seguì un periodo di intensa produzione letteraria, durante il quale scrisse alcune tra le sue opere più importanti, tra cui La conquête du pain, (La conquista del pane), La morale anarchiste in «La Révolte», (La morale anarchica), Fields, Factories and Workshops, (Campi, fabbriche e officine), Memoires of a Revolutionist, (Memorie d’un rivoluzionario), Mutual Aid. A Factor of Evolution, (Il mutuo appoggio), La grande révolution. 1789-1793, (La grande rivoluzione. 1789-1793).

I tentativi rivoluzionari in Russia nei primi anni del XX secolo risvegliarono l’interesse di Kropotkin per il suo paese d’origine; nel 1914 prese posizione in favore della guerra contro la Germania (nel 1916 aderì al Manifesto dei Sedici) suscitando numerose polemiche all’interno del movimento anarchico e una lite piuttosto aspra con l’amico Errico Malatesta. Nel 1917, allo scoppio della rivoluzione, Kropotkin tornò in Russia, dove prese immediatamente posizione contro la piega autoritaria che il movimento rivoluzionario stava assumendo, in particolare contro i bolscevichi; entrò in contatto con Alexander Kerenskij (dal quale rifiutò un ministero); e con Lenin, al quale scrisse denunciando il regime, quindi si stabilì a Dmitrov, dove scrisse la Lettera ai lavoratori d’occidente e dove visse i suoi ultimi anni in un isolamento che non poteva essergli proprio.

La sua morte, avvenuta l’8 febbraio 1921 a causa di una polmonite, gli impedì di completare L’etica (Etika, I), quella che lui stesso considerava la sua opera più importante.

 

La filosofia kropotkiniana della storia

Kropotkin, interrogandosi sul ruolo del popolo durante la Rivoluzione francese, si mise in contrasto con la maggior parte degli storici del tempo, sia per il suo approccio che per le conclusioni a cui giunse. Nel suo libro La grande rivoluzione riscopre ed esalta infatti il ruolo del popolo e della dimensione collettiva, svalutando invece la volontà rivoluzionaria della borghesia.

La borghesia per Kropotkin è controrivoluzionaria, ciò a cui mira è togliere il governo all’aristocrazia cortigiana ma non andare oltre; le sue aspirazioni non sono quelle del popolo; la borghesia ha le idee ben chiare ed è più forte: il popolo, senza il quale la rivoluzione non sarebbe avvenuta, viene utilizzato e sacrificato. L’unione della corrente delle idee con la corrente dell’azione è stata fondamentale, ma quest’ultima proveniva espressamente dalle masse popolari, dai contadini e dai proletari delle città. “E quando queste due correnti si incontrarono in un obiettivo inizialmente comune, quando praticarono per un certo periodo un appoggio mutuo, il risultato fu la rivoluzione.” Le idee dei filosofi del XVIII secolo, i principi di uguaglianza, libertà, sovranità della ragione da soli non potevano essere sufficienti: per provocare la rivoluzione, occorreva “dare inizio alla realizzazione dell’ideale.” E questo poteva avvenire soltanto, secondo l’analisi di Kropotkin, con l’azione rivoluzionaria proveniente dal popolo. Ma poi la rivoluzione autentica venne fermata, e la vera storia popolare della rivoluzione non venne mai scritta. Per Kropotkin, quest’ultima è la storia dei primi sintomi della corrente di pensiero e azione che nel secolo successivo prenderà il nome di anarchismo, è l’origine dei principi comunisti, socialisti, anarchici, la “nostra madre comune“; appartiene alla storia di tutti i libertari, che da sempre, secondo la visione di Kropotkin, è contrapposta a quella degli autoritari, i loro eterni nemici. Giacobini, quindi, contro antigiacobini (hebertisti, “arrabbiati”, anarchici..). E’ la storia delle istanze egualitarie del popolo, degli esperimenti di democrazia diretta e di vero socialismo dal basso e autogestionario. La storia che è sempre stata raccontata dagli storici, reazionari, liberali o marxisti, ritiene Kropotkin, è invece quella dell’involuzione rivoluzionaria compiuta dall’autoritarismo dietro la mistificazione della “necessità”.

L’anima della rivoluzione era nelle Comuni, realtà ben diverse dai corpi municipali realizzati in seguito, dove “i cittadini, dopo pochi giorni di eccitamento dovuto alle elezioni, ingenuamente affidano l’amministrazione di tutti i propri affari, senza occuparsi più di niente. La folle fiducia nel governo rappresentativo che caratterizza la nostra epoca non esisteva durante la Grande Rivoluzione. La Comune nata dai movimenti popolari non si separerà mai dal popolo.”

Kropotkin esaltava la meravigliosa attitudine del popolo per l’organizzazione rivoluzionaria, e la capacità delle masse di fare a meno dei corpi rappresentativi e di mettere in pratica l’autogoverno. L’unità dell’azione era cercata non sottomettendosi a un comitato centrale, ma all’interno di una confederazione. La Comune era una, composta dall’insieme di tutti i suoi distretti, ma il governo rappresentativo era ridotto al minimo indispensabile: era ai cittadini riuniti in assemblea che apparteneva il diritto ultimo di legiferare e amministrare nella Comune.

Kropotkin descriveva poi l’energia interiore che si era accumulata nei villaggi, a dispetto del lungo periodo di guerra seguito alla rivoluzione, e quindi la ricchezza e la produttività, dovute all’amore per la terra. “La rivoluzione ha portato un mutamento profondo, e il vecchio regime non verrà più restaurato.“.

Kropotkin illustrava il momento in cui ci si trova di fronte ad una svolta: riforma o rivoluzione. C’è sempre un momento, sosteneva, in cui la riforma è ancora possibile, ed è di quel momento che è necessario approfittare.

Una riforma è sempre un compromesso con il passato, mentre il progresso ottenuto tramite una rivoluzione è sempre una promessa di progresso futuro.”.

Evoluzione e rivoluzione, libertà e dominio

Secondo la teoria di Kropotkin, sia i cambiamenti nel cosmo e nella natura vivente, che quelli nella società umana, sono un susseguirsi complementare di evoluzione e rivoluzione. (Intendendo la rivoluzione come conseguenza di un percorso evolutivo, o, più precisamente, un periodo di evoluzione accelerata). Questo è stato il cammino della storia.

Ma non abbiamo a che fare con una teoria astratta: le conclusioni a cui Kropotkin giunge, in questo, come negli altri casi, sono dovute sia ad uno studio approfondito che, in primo luogo, alla sua esperienza personale (non solo e non tanto una verifica, quanto una frequente e reale scoperta). La meravigliosa attitudine del popolo per l’azione rivoluzionaria, ad esempio, cui fa spesso riferimento, deriva dai suoi contatti e dai suoi rapporti, prima con i rivoluzionari russi, poi con il movimento dei lavoratori in Occidente.

Lo schema evoluzione-rivoluzione non è dato per scontato, e nulla può assicurare che continui: se per tutto un insieme di circostanze e di scelte (o non-scelte) si va verso la regressione, l’involuzione o la stagnazione, ecco che una rivoluzione non seguirà.

Tutta la storia della nostra cultura è attraversata da due tradizioni, da due correnti opposte: la tradizione romana e quella popolare, l’imperiale e la confederativa, la tradizione autoritaria e quella libertaria.” Uno sviluppo, quindi, lungo la linea di conflitto tra libertà e dominio. Quella di Kropotkin è una concezione antagonistica della storia, che non si basa però esclusivamente sulla lotta di classe o sullo scontro delle varie élite per il potere: questo conflitto tra libertà e dominio attraversa e contiene anche gli elementi culturali e soprattutto quelli mentali e psichici.

Per Kropotkin, il cambiamento della società parte dagli individui: non vi sono “motori” esterni. L’agire umano è fondamentale: da esso dipendono le diverse condizioni sociali. Kropotkin si opponeva quindi alle concezioni deterministiche, pur essendo stato sovente accusato del contrario. E respingeva anche la «naturale necessità economica» chiamata costantemente in causa dagli storici e dagli economisti politici, sia borghesi che socialisti. Il «fattore umano» per lui era significativo e determinante, soprattutto nei movimenti rivoluzionari. (Lo «spirito della rivolta» descritto in Paroles d’un révolté).

L’andamento di una autentica rivoluzione, secondo la sua analisi, si svolge in tre fasi:

con l’immediata soddisfazione dei bisogni del popolo (e non attraverso una «dittatura del proletariato»), quindi con l’esproprio dei proprietari;

subito dopo, con una intensa produzione alla quale ciascuno contribuisce volontariamente secondo le proprie possibilità;

terza fase, nelle comunità così costituite (autonome, il più possibile autarchiche, in un equilibrio armonico tra città e campagna circostante) si sviluppano liberi accordi tra i membri che vi fanno parte. Liberi, senza costrizione alcuna.

Kropotkin non ipotizzava la costituzione di istituzioni di ordine “superiore”, che organizzino e controllino lo svolgimento delle diverse fasi rivoluzionarie, e questo a causa della sua fiducia nella maggiore età delle masse popolari. Fiducia nata e rafforzata durante la sua vita in comune con così tanti individui che lottarono e sacrificarono la propria vita per costruire una nuova società e una vera libertà, come egli ci racconta in Memorie di un rivoluzionario, che è molto di più di un romanzo autobiografico. Diversamente dallo scetticismo di altri pensatori anarchici, Kropotkin era assolutamente convinto della grande forza rivoluzionaria del popolo, e più precisamente del fatto che fosse lo spirito collettivo, il cuore del popolo intero, a far emergere le grandi idee nella storia, e non i concetti dei filosofi. “La ribellione proviene sempre dagli oppressi, dal popolo.”.

Chi è questo popolo, questa forza in grado di plasmare la storia? Per Kropotkin non si trattava di una astratta e confusa nozione generale, o di una specifica classe rivoluzionaria, ma di comunità costituite da uomini, da singoli individui concreti: quegli esseri umani che egli ha incontrato e con cui ha condiviso gioie e dolori, speranze e sconfitte, nel corso delle sue esplorazioni geografiche e nel corso delle vicende della sua vita. La sua antropologia è autentica, perché si basa su dati oggettivi. La sua è una conoscenza dell’uomo “scientificamente” fondata. Qualcosa che è in qualche modo mancato ai teorici del socialismo (per quanto definito “scientifico”) così come ad altri filosofi o pensatori che non sono mai usciti dalle aule universitarie. Kropotkin a volte è stato accusato di autoritarismo, in altri casi riduttivamente considerato un “positivista”. Il naturalismo di Kropotkin si basa sull’evoluzionismo, su un individuo, come abbiamo visto, formato via via dalla progressione delle sue conoscenze e da una crescita dovuta all’esperienza, quella propria e quella di chi l’ha preceduto, dotato pertanto sia di un certo numero di “a-priori” che di una serie pressoché illimitata di “a-posteriori”, questi ultimi suscettibili di variazioni che non possono essere previste o predeterminate. La libertà e la creatività umana sono quindi fondamentali. Nessun innatismo, nessun determinismo, né finalismi o teleologismi di alcun tipo.

Kropotkin ha vissuto un’esperienza molto vasta, che si potrebbe definire “completa”. Ha spaziato in quasi tutti i campi del sapere, è stato uno scienziato, un geografo, un geologo, un antropologo, un sociologo, un economista; ha avuto contatti strettissimi sia con l’aristocrazia che con i contadini, gli operai, gli studenti, gli esuli e gli emarginati; è stato un rivoluzionario in mezzo ad altri rivoluzionari; è stato probabilmente difficile valutare la sua opera per coloro che hanno provato a farlo partendo però da esperienze o visioni molto più circoscritte.

Egli ha esplorato la complessità e la molteplicità, ed è queste (non l’uniformità, come hanno voluto osservare alcuni critici) che ci descrive e su cui si basano i suoi lavori.

La ricerca di Kropotkin sulla natura dell’uomo, ricerca seria, ostinata, rigorosa, che ha impegnato tutta la sua vita, basata su esperienze concrete e su costanti verifiche, trova conferme nella psicologia del profondo e nell’antropologia culturale, così come le sue analisi e le sue previsioni economiche in primo luogo nei fatti.

Può essere difficile comprendere come possano coesistere la dimensione rivoluzionaria e quella evoluzionistica (vedi più avanti, ultimo capitolo), e si può ritenere, fraintendendo, che per Kropotkin l’etica e la libertà (che implicano coscienza e volontà) siano unicamente il risultato di un’evoluzione organica universale, che trascende quindi l’ambito della scelta e della conquista individuali, si può pensare che la società ipotizzata da Kropotkin sia un ulteriore esempio di oppressione del singolo individuo, che la socialità non possa essere una scelta ma soltanto una necessità della specie, ma leggendo le sue opere con piena attenzione si scopre che egli non intendeva affatto questo, che la sua visione è originale e svincolata dai consueti canali di pensiero e di interpretazione, così come dalle correnti filosofiche più accreditate. E non è mai una visione slegata dalla realtà: appartiene piuttosto a una realtà che è sempre molto rara, fragile, difficile da difendere e da estendere, perché continuamente ostacolata dal potere.

Individuo e società

Kropotkin non analizza il dualismo individuo/società come altri pensatori hanno fatto (possiamo citare Fourier, seguito da Freud, Marcuse, Foucault, quindi la problematica della repressione esercitata dalla società sulle passioni umane), partendo cioè dall’analisi di una società repressiva e gerarchica; egli ha un’altra visione del mondo e da questa sceglie di partire, pur non disconoscendo la realtà che lo circonda (che anzi critica e combatte) e non ritiene che la libera soddisfazione dei bisogni dell’uomo sia per forza incompatibile con qualsiasi tipo di società “civile”.

Qual’è il suo presupposto? Una società senza individui non può esistere: è chiaro perciò che sono gli individui stessi a formarla. La società è quindi il risultato, la somma, delle azioni e delle scelte degli individui che la compongono. Se la società si basa su rapporti gerarchici, di sfruttamento e dominazione, tutti coloro che sono dalla parte degli sfruttati, dei dominati, o in ogni caso sono esclusi dalle decisioni politiche, economiche e via di seguito, svilupperanno un sentimento di estraneità, di avversione, o di accettazione passiva. La società diviene un qualcosa di estraneo. Diviene un elemento a sé, il simbolo stesso della coercizione sull’individuo e della privazione della libertà (che in effetti è ciò che si realizza).

Più le decisioni, le scelte, le gestioni sono accentrate e autoritarie, e meno le singole persone sono in condizioni di parteciparvi, più si sviluppa questo sentimento nei confronti della società. Nello stato accentratore, con la sua legislazione, i suoi corpi militari, la sua burocrazia onnipervasiva, l’individuo, in quanto parte del corpo sociale, in realtà ne occupa un posto infinitamente piccolo, in qualche modo cessa quasi di esistere.

La convinzione che lo stato con le sue istituzioni sia assolutamente necessario per la gestione del vivere sociale, per evitare il caos, non essendo gli individui in grado di occuparsi delle questioni “pubbliche”, che pure li riguardano!, è un fatto ormai dato per scontato, pur rappresentando una vera e propria contraddizione in termini.

La società è vissuta come “aliena”, né si riesce ad ipotizzarla in altro modo, proprio per questa “separazione”, per questa frattura che è avvenuta nel corso della storia.

In una società di tipo gerarchico, l’individuo non ha occasione di sviluppare se stesso pienamente. Ma nessun essere umano può svilupparsi pienamente, come tale, in solitudine. Può farlo soltanto in unione con gli altri esseri umani. Lo sviluppo individuale e quello sociale sono complementari, dipendono uno dall’altro. Questo però non può avvenire attraverso alcun tipo di imposizione dall’alto. La coercizione, a qualsiasi livello e in qualsiasi grado venga subita, è del tutto opposta allo sviluppo e alla crescita. L’autodeterminazione, la capacità di assumere decisioni e responsabilità non hanno modo di realizzarsi in una società gerarchica e accentrata, tendono anzi ad esaurirsi e scomparire. (Cosa questa che avviene in misura analoga in una relazione più circoscritta, che siano rapporti familiari, di lavoro, personali; la gerarchia e la dominazione, essendo ormai parte di noi stessi, non si esercitano soltanto a livello politico o economico).

In una società non gerarchica, in una comunità libera, sviluppata in modo armonico, formata da uomini liberi, che hanno scelto da se stessi il proprio modo di vivere e di gestire la vita comune, questa frattura tra individuo e società non avrebbe ragione di esistere, non potrebbe probabilmente neppure venire pensata.

Kropotkin intendeva questo (come tanti altri prima e dopo di lui). Voleva ricostruire da cima a fondo la società (come ogni rivoluzionario e come ogni utopista; qualità che vanno necessariamente insieme), non abolirla del tutto.

Voleva una società libertaria, senza più contrapposizione tra dominanti e dominati.

Voleva che gli uomini riacquistassero la loro piena capacità di gestire ogni aspetto della vita sociale, e, prima ancora, la fiducia in questa capacità, che ritrovassero il loro istinto alla comunione e alla solidarietà, il loro antico se non innato rifiuto verso ogni forma di ingiustizia, di sopruso, di disuguaglianza. E’ importante sottolineare che questa visione non è astratta, idealizzata, “utopistica”, ma basata su alcune precise e circoscritte esperienze che Kropotkin stesso ha conosciuto e vissuto oltre che sui suoi studi. Esperienze circoscritte e limitate, abbiamo detto, ma non per questo meno vive e concrete, e da queste egli scelse di partire proprio per permettere di recuperare quello che era per lui l’autentico rapporto di ogni individuo con i suoi simili, onde evitare di dovervi rinunciare per sempre.

Kropotkin mirava ad una immediata realizzazione sociale (comprensiva di ogni attività umana) del comunismo anarchico, ma senza alcuna sottovalutazione dell’indipendenza individuale. La sua idea di “pianificazione” era del tutto opposta alla tradizione collettivistica autoritaria così come a quella comunista statale, in quanto non imposta dall’alto, ma delineandosi in risposta all’insorgenza dal basso, dal popolo.

La descrizione di Kropotkin nel Mutuo Appoggio e nell’Etica della capacità di vivere in società come di una tendenza naturale degli esseri viventi, quasi un qualcosa di innato, è stata talvolta fraintesa, ma la socievolezza a cui si riferiva Kropotkin non ha nulla a che vedere con la società deformata e gerarchica che conosciamo e a cui ormai siamo fin troppo abituati, è esattamente il suo contrario, ed è la negazione dell’esistenza di una malvagità intrinseca dell’uomo, pensiero centrale della filosofia politica dell’età moderna, dai giusnaturalisti, da Machiavelli e da Hobbes fino a Kant. Anche Kropotkin partiva dallo stato di natura (e dalle sue osservazioni dirette sul campo, come abbiamo visto), negando però la necessità di una forma di autorità al fine di controllare l'”asocialità” umana e garantire la convivenza “civile”. La libera convivenza è possibile per Kropotkin; anzi, l’irrinunciabile presupposto per lo sviluppo di ogni potenzialità dell’uomo e per la felicità di tutti è proprio l’abolizione di ogni forma di stato e di centralizzazione. L’uomo, in quanto prodotto di una natura in cui la cooperazione e il mutuo appoggio (e non la lotta e la crudeltà, come vedremo meglio più avanti), sono elementi determinanti al fine della conservazione e dell’evoluzione, è dotato di forti istinti sociali o meglio solidali, anche se questi possono venire meno per innumerevoli cause esterne. La natura quindi non è qualcosa di estraneo (da dominare e sfruttare; la lotta contro una natura avara e crudele è un altro mito da cui dobbiamo liberarci). E la storia non è un semplice prolungamento della natura, la storia dell’uomo aggiunge la creatività, la responsabilità, la razionalità, la scelta umana. L’uomo può ritrovare se stesso (riscoprendo il valore della solidarietà, della cooperazione e della complementarietà), e vivere pienamente la sua vita. Formando quindi una società piena, con la quale coesistere in armonia. Armonia che si compone del rispetto per la libertà e la diversità individuale, incoraggiata a svilupparsi nella sua ricchezza inestimabile, unito alla piena solidarietà, un’unione solo a prima vista impossibile a realizzarsi.

Una società libertaria, sviluppata in modo armonico, favorisce lo sviluppo dell’individualità, non lo inibisce. Si tratta però di un individualismo ben diverso da quello borghese, che è inevitabilmente egoistico, in quanto prodotto di una società e di una sensibilità gerarchiche e verticistiche.

Kropotkin non si arrogava il diritto e la capacità di stabilire aprioristicamente e una volta per tutte quali fossero i reali bisogni dell’uomo, la sua ricerca antropologica non era una astratta teoria che giungeva a una valutazione valida per tutti.. Kropotkin infatti non ha mai smesso di confrontarsi con altri uomini, vivi e reali, di imparare da loro e di condividere interamente le loro condizioni di vita e di lotta, i loro bisogni, le loro aspettative.

La storia, secondo l’analisi di Kropotkin, è colma di dimostrazioni della disponibilità e della capacità umana alla cooperazione, nonché dei continui tentativi di realizzare l’utopia anarchica comunista, lottando contro tutte quelle forme di potere che da sempre cercano di contrastarla. La linea di conflitto tra libertà e dominio di cui abbiamo già parlato.

Tutto questo non ha mai voluto dire però che la cooperazione implicasse l’annullamento della libertà individuale o la repressione delle differenze; ogni volta che si è cercato di seguire la via cooperativa, gli autori di questi tentativi erano proprio coloro che non si riconoscevano in alcun modo nell’autoritarismo, anzi lo combattevano e si sforzavano di realizzare il suo opposto.

Libertà non significa isolamento: significa essere liberi di partecipare a qualcosa di più grande del nostro ristretto spazio vitale; non subire, ma determinare in prima persona (e insieme ad altri) le modalità di vita, di lavoro, di studio della società di cui si è parte. E’ una libertà completa, quindi, ed è innanzitutto mentale e morale, per cui non esiste più la necessità di isolarsi o contrapporsi.

Kropotkin non riteneva di certo che tutte le persone fossero o dovessero essere uguali tra loro, ma desiderava che riuscissero ad unire in un tutto comune le loro molteplicità e le loro differenze, che avrebbero così arricchito la comunità tra di essi costituita. Comunità che non doveva necessariamente avere determinate caratteristiche al posto di altre. La sua convinzione che nessuna evoluzione può darsi nell’isolamento e nella solitudine, è anch’essa dovuta ai riscontri pratici e concreti delle sue numerose e variegate esperienze. La sua critica alla divisione del lavoro, alla condanna inflitta agli esseri umani a svolgere la stessa identica attività per tutta la vita, all’impedimento per alcune classi sociali a godere della bellezza dell’arte o della soddisfazione dello studio e della ricerca scientifica, il suo desiderio che ciascuno potesse avere l’occasione concreta di sviluppare al meglio le sue inclinazioni e le sue capacità, smentiscono in pieno simili affermazioni.

Solidarietà e fratellanza, inoltre, non significano affatto appiattimento e perdita della propria individualità, individualità che si perde molto più facilmente in una società basata sulla gerarchia e sul dominio, all’interno di uno stato accentratore, e sotto ogni tipo di oppressione.

Una libertà comune avrebbe favorito, e contenuto in sé, sotto qualsiasi aspetto, l’autentica libertà individuale. In altre parole, tante differenti libertà che si uniscono a formare una libertà più grande, una comunità libera e libertaria, realmente a “misura d’uomo”.

Kropotkin ha dimostrato con la sua stessa vita l’importanza e il valore che attribuiva all’autodeterminazione dell’individuo. L’individualismo di Nietzsche, ad esempio, più che non compreso da Kropotkin (come è stato affermato) diremmo piuttosto che non poteva essere condiviso, in quanto Kropotkin partiva dalla sua visione ideale di società (riscontrata per altro nell’ambito delle sue ricerche antropologiche; più reale, quindi, che ideale) e non dalla società contraddittoria e distorta da cui partivano Nietzsche ed altri. Se è esistita una critica dell’individualismo da parte di Kropotkin, per comprenderla occorre innanzitutto riuscire a distinguere tra individualismo borghese e individualismo anarchico. E poi tra un individualismo estremo e un individualismo inteso come libertà assoluta di spirito e di pensiero, ma non come isolamento e rinuncia, o distruzione, al posto di una qualsiasi progettualità.

L’individualismo borghese ed egoistico, l’individualismo degli “oppressori”, di chi vuole dominare i suoi simili, inoltre, è ben altro che “autodeterminazione”.

Kropotkin del resto si occupa ben poco di quell’individualismo che porta al nichilismo estremo (a proposito del nichilismo russo dei suoi tempi, così battezzato da Turgheniev in Padri e figli, secondo Kropotkin in Europa venne frainteso, non trattandosi di “terrorismo” ma di una guerra dichiarata a tutte le menzogne convenzionali e alle ipocrisie della civiltà; Kropotkin comunque non condannò mai totalmente la “propaganda del fatto” o le azioni terroristiche, comprendendo la lotta a cui dovette darsi la gioventù russa dopo averla rifiutata fintanto che ciò fu possibile, “quando il calice delle sue sofferenze fu troppo colmo.”), proprio per il suo personale approccio che è profondamente diverso da quello di un Nietzsche o anche di uno Stirner, così come si è interessato altrettanto poco della dialettica marxista. Egli non muove infatti dalla dialettica di tipo hegeliano, prodotto della cultura germanica e impregnata di metafisica, non essendosi svolta la sua formazione nel solco dell’idealismo tedesco: Kropotkin si basa sulle scienze naturali, sul metodo induttivo se vogliamo, sulla conoscenza diretta ed empirica; in lui troviamo poi tracce di quegli elementi così caratteristici del populismo e del romanticismo rivoluzionario russo, che si fondono e si intrecciano in modo quasi inscindibile e con particolare e feconda originalità allo scientismo evoluzionista occidentale. Il marxismo e poi il leninismo, inoltre, avrebbero ucciso la rivoluzione; questo fu un grande dolore per Kropotkin. Nelle Memorie scrisse: “La lotta fra bakunisti e marxisti (all’interno dell’Internazionale) non era una questione di uomini. Era la lotta inevitabile fra i principi del federalismo e quelli del centralismo, fra il Comune libero e l’autorità paternalistica dello stato, fra l’azione libera delle masse popolari e il miglioramento delle condizioni sociali attraverso la legislazione, una lotta fra lo spirito latino e quello tedesco.” La scelta di conquistare il potere negli stati attuali, spogliò i partiti socialisti del loro ideale originario e li condusse verso il socialismo o meglio capitalismo di stato e al tradimento delle masse lavoratrici. Il primato della società sull’individuo (tratto ricorrente nelle critiche rivolte dagli individualisti, anarchici e non, al pensiero di Kropotkin), è senz’altro riscontrabile nel comunismo autoritario, ma ha ben poco a che vedere con il comunismo anarchico e libertario propugnato da Kropotkin nel corso di tutta la sua vita.

L’etica di Kropotkin non è un’etica della ragione (in senso astratto): si basa sul risultato delle sue ricerche empiriche. Kropotkin in tutto il suo lavoro si è distaccato nettamente e coerentemente da ogni metafisica. Egli partiva dal fatto concreto e tangibile; ad esso seguiva la formulazione teorica.

Egli conobbe e studiò le caratteristiche del mutuo soccorso, della solidarietà, della fratellanza, dell’esperienza comunitaria e autogestionaria, e riscontrò che erano espressamente questi aspetti (piuttosto che i rapporti autoritari e burocratici) a poter mutare profondamente la società. Non giunse mai però ad affermare che queste caratteristiche sarebbero emerse in modo inevitabile e che il percorso della storia fosse segnato. Tutt’altro! E nessuno poteva saperlo meglio di lui.

Ma il “progresso” umano vero ed autentico, il “progresso” per tutti (lo sviluppo integrale di ogni singolo uomo) non poteva passare che di lì.

Se avesse creduto nel determinismo, non avrebbe compiuto tutta una serie di scelte e non avrebbe ritenuto necessario scrivere ciò che ha scritto. Le sue opere dovevano servire anche come stimolo alla riflessione sulle diverse possibilità di decisione. Egli sapeva bene che esistevano il rischio e una possibilità estremamente concreta di optare per altre vie, di non riuscire a contrastare la strada che la società stava prendendo. Per Kropotkin era decisivo l’agire umano, l’agire di ogni singolo individuo concreto, e non solo di coloro che condividevano le sue idee politiche. Egli scrisse per tutti, perché ogni coscienza si svegliasse. Per Kropotkin era anzi fondamentale che gli appartenenti alle classi privilegiate dalla storia (egli stesso era nato all’interno di una di quelle classi) arrivassero a condividere le istanze delle classi sfruttate e oppresse o addirittura si unissero a queste, mettendo a disposizione le loro forze migliori per intelligenza ed energia (così come aveva visto fare a molti giovani russi),  affinché la società potesse realmente trasformarsi.

Scienza, progresso, economia

La fiducia nella scienza e nel progresso era tipica dell’epoca in cui visse Kropotkin. Si era inclini a pensare a una scienza al servizio dell’uomo e della sua necessità di utilizzare al meglio le risorse dell’ambiente naturale, piuttosto che a una scienza al servizio del potere e del profitto. Oggi forse è difficile per molti pensare alla scienza (e alla comunità scientifica) in modo positivo e propositivo. Il progresso, in maniera analoga, può essere inteso sia come aumento dei profitti e dello sfruttamento del lavoro e dell’ambiente, che, come lo intendeva Kropotkin, come miglioramento delle possibilità di vita materiali, intellettuali e psichiche dell’uomo nella sua interezza e di tutti gli uomini. Un progresso che abbraccia l’intera vita umana, e che è ben altro rispetto al mito ingannevole in cui erano indotti a credere tanti suoi contemporanei.

Un progresso che non può avere un percorso lineare (nessuno spirito e nessuna ragione guidavano il mondo secondo Kropotkin); l’antagonismo e la lotta, come abbiamo visto, sono inevitabili: l’evoluzione positiva dell’uomo può arrestarsi, può regredire; la lotta contro le tendenze autoritarie non avrà mai fine fintanto che queste tendenze non saranno state sconfitte. Se vincere questa lotta è possibile, non vi è però alcuna garanzia che ciò avvenga.

Per Kropotkin, le aspirazioni fondamentali di ogni uomo sono la sicurezza e il benessere, e la libertà individuale. Libertà di pensare, di esprimersi, di associarsi, di gestire la propria vita e il proprio lavoro. Come è possibile ottenerle? Attraverso la socializzazione della produzione e del consumo (a ciascuno secondo i suoi bisogni); attraverso l’abolizione del sistema salariale e di ogni forma di sfruttamento e disuguaglianza, attraverso liberi accordi tra gli individui o tra gruppi di individui, attraverso la conoscenza scientifica messa a disposizione di chiunque e vissuta come un dono, che nessuno scienziato desidererebbe tenere soltanto per sé (qualcosa di ben più ampio rispetto alla “comunità scientifica”, concetto che emerge in seguito alla ”rivoluzione scientifica” del seicento, che rimane però pur sempre ristretta ed escludente). Kropotkin descriveva nel dettaglio una possibile umanizzazione del lavoro, insistendo sull’abolizione della divisione gerarchica tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, descriveva l’integrazione del lavoro, la decentralizzazione, i vantaggi della piccola produzione e della piccola industria, la socializzazione della produzione e del consumo, una nuova e più completa istruzione, che non scindesse mai la teoria dalla sua applicazione pratica, che accogliesse l’innato desiderio dei giovani di “fare”, tutti argomenti ancora oggi di estrema attualità. Studiò infatti a lungo un possibile nuovo ordine economico, una nuova economia sociale, l’importanza dell’unità tra sviluppo industriale e agricolo, occupandosi sempre dei bisogni reali e concreti dell’uomo, rifiutando con rigore e coerenza ogni idealismo e ogni costrizione dogmatica, ogni analisi che non partisse dall’osservazione diretta della realtà, senza rinunciare però alla indispensabile capacità di previsione e alla costante preoccupazione per le conseguenze dei nostri  atti e quindi alla responsabilità nei confronti del domani.

 

Il mutuo appoggio e l’etica

Come abbiamo già accennato, l’antropologia kropotkiniana nasce dalla discussione critica del darwinismo e dei suoi successivi sviluppi, o meglio delle sue successive falsificazioni. Si occupò del darwinismo in una serie di saggi per la rivista The Ninteenth Century, pubblicati nel 1902 nel volume Mutual Aid: a factor of evolution. Continuerà ad occuparsi di questi problemi fino ai capitoli introduttivi della sua Etica.

La teoria evoluzionistica di Darwin era stata accolta dalla comunità scientifica e anche dalla società in modo sorprendentemente rapido, ma molto spesso, anziché accoglierla nel suo complesso, se ne erano privilegiati solo alcuni aspetti parziali, in particolare il concetto di lotta per l’esistenza, un fatto che non può sorprendere più di tanto, considerate le condizioni socio-culturali del tempo. Il “darwinismo sociale” diventava una possibile risposta alle esigenze di emancipazione dei gruppi sociali sfruttati e forniva una “teoria” in grado di legittimare le pratiche imperialistiche degli europei nei territori d’oltremare. Non era facile, pena l’isolamento scientifico, contrapporsi al darwinismo sociale dell’epoca.  Kropotkin non fu il solo a contestare le concezioni proprie di tale teoria, ma fu l’unico a farlo nel modo più completo. Kropotkin non effettuò una critica ideologica: egli accettò la teoria evoluzionistica darwiniana quale fondamento “scientifico” dell’analisi della convivenza umana, ma ne modificò da un lato il concetto di “lotta per l’esistenza” e dall’altro aggiunse un secondo fattore, altrettanto importante, proprio dell’evoluzione: il mutuo appoggio. Tradusse quindi anch’egli il processo evoluzionistico (profondamente mutato) dalla storia naturale a quella umana. Kropotkin, partendo dall’analisi della lotta per l’esistenza come fattore evolutivo, arrivò a criticare l’accento posto sulla lotta tra individui della medesima specie (dimostrando che lo stesso Darwin si era distaccato in seguito da questa concezione) fino a concludere che la specie più adatta alla sopravvivenza non era quella caratterizzata dalla lotta interna tra gli individui della specie stessa, ma quella maggiormente capace di attuare al suo interno il mutuo soccorso e la cooperazione. Lo stesso Darwin aveva definito l’uomo un “animale sociale” e aveva affermato che il fondamento della socievolezza animale e umana è di tipo biologico, aggiungendo che l’istinto di reciproca simpatia negli animali sociali emerge più spesso del mero impulso egoistico all’autoconservazione. Queste concezioni darwiniane verranno ampliate da Kropotkin sino a una Teoria del mutuo appoggio quale fattore dell’evoluzione, valida non soltanto per la natura ma anche in ambito umano.

Con “mutuo appoggio” si intendono quindi due ambiti concreti: nell’evoluzione della specie, mutuo appoggio e reciproco sostegno costituiscono, accanto alla lotta per l’esistenza, un fattore di grande rilevanza per la sussistenza della vita e lo sviluppo della specie; nella storia dell’uomo, allo stesso modo, sono ugualmente rilevanti per lo sviluppo progressivo delle istituzioni sociali. Per Kropotkin il mutuo appoggio ha un’influenza predominante, e l’istinto sociale ha un peso maggiore rispetto all’impulso all’autoconservazione. Egli si impegnerà a dimostrarlo con un’accurata e dettagliata analisi del mutuo appoggio nella storia naturale e in quella umana, raccogliendo una grande quantità di materiale tra gli animali e tra diverse culture umane (aborigeni australiani, eschimesi) così come sulle comunità di villaggio e le città medievali, quest’ultime, secondo la sua analisi, la continuazione delle prime.

Proprio la teoria darwiniana dell’evoluzione costituirà per Kropotkin il presupposto per una nuova etica. Egli sentiva l’esigenza di un’etica scientificamente fondata, un’etica realistica, come lo stesso Kropotkin la definì. Quest’etica realistica si distingue da molti altri progetti etici per il fatto che Kropotkin non intendeva fondarla su un qualche criterio extranaturale o extraumano per la valutazione dell’agire umano buono e giusto, ma voleva ricavare tale criterio dalla natura stessa, partendo da ciò che è bene e male in natura. Il concetto del bene e del male ovviamente cambia, quindi ciò che Kropotkin si propone non è tanto di prescrivere, con l’aiuto di teoremi normativi, un agire qualificabile come buono, ma di osservare l’agire umano, di studiarlo, di valutarlo e di spiegarlo. Per questo l’etica è per Kropotkin anche scienza degli impulsi etici, scienza che esplora le fonti naturali del sentimento etico dell’uomo. L’etica diventa efficace quando all’uomo si dà un ideale: ma questo ideale, che guida quindi l’agire etico dell’uomo, appartiene comunque al mondo reale, deve cioè essere ottenuto per via empirica. Kropotkin non disdegna la ragione, anzi ad essa attribuisce un ruolo fondamentale, ma secondo il suo pensiero non è decisiva per il comportamento etico dell’uomo. L’etica di Kropotkin non è un’etica della ragione. Le motivazioni per l’agire etico, come abbiamo visto, sono infatti ulteriori sviluppi  degli impulsi e delle abitudini propri degli animali sociali: la motivazione per l’agire umano è in primo luogo condizionata dalla natura, essa è cioè emozionale e impulsiva.

Kropotkin ritiene che la motivazione che sta alla base dell’agire etico dell’uomo non consista né in un sentimento innato né in un qualche vantaggio personale o generale razionalmente compreso. L’etica è un percorso, un complicato sistema di sentimenti e nozioni che si è sviluppato nella storia dell’umanità. Egli individua tre stadi di questo sviluppo: 1)la socievolezza e il mutuo appoggio, 2)la giustizia nel senso dell’uguaglianza dei diritti, 3)la generosità, la benevolenza, la rinuncia a se stesso (l’etica nel senso più stretto).

Si tratta quindi di una scala graduale dello sviluppo etico, non una costruzione arbitraria, come abbiamo visto, ma il risultato di una storia che si è svolta nel tempo, e soprattutto di una necessità organica che ha trovato in se stessa la sua giustificazione. La natura ci ha insegnato quindi qualcosa di più della semplice socievolezza. Anche elementi del secondo stadio dello sviluppo etico, quello della giustizia, sono infatti osservabili in natura. Kropotkin conferma quindi l’ipotesi di Herbert Spencer di una “giustizia preumana”. Questa nozione di giustizia si sviluppa gradualmente nel tempo (e l’evoluzione dell’eticità avviene in dipendenza dai mutamenti della vita sociale) fino ad arrivare al punto in cui solo la nozione consapevolmente acquisita dell’uguaglianza dei diritti di tutti i membri di una comunità garantisce la loro sopravvivenza. La relazione tra dignità personale e dignità umana che si viene a costituire nel corso di questo sviluppo (come già in Proudhon, la cui nozione di giustizia è valutata da Kropotkin come la più progredita, anche se egli non condivise in toto le teorie proudhoniane) porta ad un’unione armonica degli interessi comunitari con quelli individuali. Il punto estremo di arrivo è la capacità di sacrificarsi per gli altri, che Kropotkin ha visto mettere in atto con i suoi occhi nel corso della sua vita. Tutto questo è espresso nella sua etica del rivoluzionario, strettamente legata al discorso della giustizia sociale, dove l’accento è posto sulle qualità emozionali, sulla capacità di comprendere i sentimenti altrui e di immedesimarsi in questi fino in fondo.

Pëtr Alekseevic Kropotkin

Pëtr Alekseevic Kropotkin nacque nel 1842, a Mosca. Di famiglia aristocratica, fu sin da subito in stretto contatto con la famiglia imperiale e con lo zar, e può sembrare paradossale ma è proprio da questo contesto che proviene uno dei padri dell’anarchismo e dell’anarco-comunismo, un rivoluzionario vicino all’Internazionale di Bakunin e al manifesto dei sedici […]

di Lorenzo Vitelli –

Pëtr Alekseevic Kropotkin nacque nel 1842, a Mosca. Di famiglia aristocratica, fu sin da subito in stretto contatto con la famiglia imperiale e con lo zar, e può sembrare paradossale ma è proprio da questo contesto che proviene uno dei padri dell’anarchismo e dell’anarco-comunismo, un rivoluzionario vicino all’Internazionale di Bakunin e al manifesto dei sedici della prima guerra mondiale.

Quanto sembrano stonate queste parole, anarchia, comunismo, ed ormai vengono superate sprezzantemente senza un’analisi concreta, perché il comunismo è un modello morto, e l’anarchia un’utopica illusione distaccata da qualsivoglia forma reale. Ma c’erano uomini che nell’Ottocento hanno dato la vita per questi ideali, e di certo non si può pensare che personalità come Tolstoj, Thoreau, Godwin, e lo stesso Kropotkin, volessero seminare il caos e la violenza in tutto il tessuto sociale, con dottrine distruttiviste e bombe a mano.

Il girondino Brissot, ai tempi della rivoluzione francese del 1789, diceva dell’anarchia: “Leggi non tradotte in effetto, autorità prive di forza disprezzate, il delitto impunito, la proprietà minacciata, la sicurezza dell’individuo violata, la moralità del popolo corrotta, nessuna costituzione, nessun governo, nessuna giustizia”

Ma gli anarchici, attivisti e teorici, non erano certo un branco di terroristi senza arte né parte, ma dei pensatori morali, ed invero l’anarchia, più che una dottrina meramente politica, è una filosofia effettivamente etico-politica. Kropotkin, ma anche Bakunin, Proudhon, e l’italiano Errico Malatesta, furono i primi studiosi di questo senso pratico dell’anarchia.

Il filosofo russo, frequentata la scuola militare, si arruolò nel corpo dei cosacchi, e nella vasta e fredda Siberia condusse quella vita arcaica e tradizionale, ancora impegnata di un forte ritualismo, che Tolstoj nei suoi romanzi descriveva così profondamente. Tra gli ampi spazi glaciali e le piccole popolazioni arroccate sulle montagne, il giovane aristocratico entrò in contatto con un tipo di vita che influenzerà molto il suo pensiero:  “Vedere gli immensi vantaggi della loro organizzazione fraterna semicomunista e constatare i buoni risultati della loro colonizzazione in mezzo ai tanti falliti della colonizzazione di stato, fu una lezione che avrei cercato inutilmente nei libri. E poi, vivere con gli indigeni, osservare le forme complesse di organizzazione sociale che essi hanno elaborato lontano dall’influenza di qualsiasi società, era fare provvista di una luce che avrebbe poi rischiarato i miei studi futuri.“

Cresciuto nella cultura razionalista e postivistica ottocentesca, a cui il filosofo francese Comte aprì le porte del secolo, Kropotkin studiava geografia, geologia, zoologia, e la sua vena anarchica, che segue tutta una tradizione storica di pensiero, si legò sempre di più alla scienza. Questa infatti, motore della filosofia positivista, era la vera, grande verità del tempo, e il giovane Kropotkin, dopo l’esperienza siberiana, criticò aspramente lo zarismo e le disuguaglianza sociali dei sistemi politici europei, per mostrare scientificamente come poi, anche lo stesso socialismo marxista, di matrice deterministico-engelsiana, debba sfociare per forza di cose nell’anarchia. L’armonia e l’equilibrio naturale, si danno infatti senza nessuna legge prestabilita e nessun tipo di predeterminazione e, allo stesso modo, anche la società umana reagisce male alle forme organizzative e sociali cristallizzate.

La libertà e l’uguaglianza, nella filosofia kropotkiana, sono giustificate sempre attraverso un’analisi naturalistica, fisico-naturale. Dalla pura illusione idealista che fu sempre la più aspra critica mossa alle tendenza anarchiche, ora anche esse, grazie agli studi di Kropotkin, non solo vennero scientificamente dimostrate, ma si identificarono in tutto e per tutto con la scienza: “l’anarchia è una concezione dell’universo, basata sulla interpretazione meccanica dei fenomeni, che abbraccia tutta la natura, non esclusa la vita della società. Il suo metodo è quello delle scienze naturali; e, secondo questo metodo, ogni conclusione scientifica deve essere verificata. La sua tendenza è di fondare una filosofia sintetica, che si estenda a tutti i fatti della natura, compresa la vita delle società umane e i loro problemi economici, politici e morali”.

Se in Marx evoluzione e rivoluzione sono processi dialettici predeterminati, in cui la volontà umana è del tutto assente, per Kropotkin l’anarchia deriva dall’evoluzione incessante della scienza, e la rivoluzione, come azione cosciente delle masse, è l’accelerazione del  processo evolutivo.

Questa concezione storica vicina ad una visione sociale basata sulla morale e sul mutuo appoggio, fecero si che Kropotkin si avvicinò sempre di più all’ideologia comunista, come modello politico economico e sociale senza contraddizioni, che dispone “da ognuno secondo le sue forze, ad ognuno secondo i suoi bisogni”, ma anche come riscontro organizzativo e pratico della weltanschauung anarchica: “comuni indipendenti per gli aggruppamenti territoriali, vaste federazioni di mestieri per gli aggruppamenti di funzioni sociali -gli uni allacciati agli altri per aiutarsi a vicenda nel soddisfare i bisogni della società- e aggruppamenti di affinità personali, varianti all’infinito, di una durata o effimeri, creati a seconda dei bisogni del momento per tutti gli scopi possibili. Queste tre specie di raggruppamenti formerebbero come una rete tra loro e giungerebbero a permettere la soddisfazione di tutti i bisogni: il consumo, la produzione, lo scambio; le comunicazioni, le misure sanitarie, l’educazione; la protezione reciproca contro le aggressioni, il mutuo appoggio, la difesa del territorio; la soddisfazione, infine, dei bisogni scientifici, artistici e letterari.”

Kropotkin fu condannato ed arrestato più volte per attività sovversive, sotto l’occhio dello zar sdegnato, e si avvicinò molto agli ambienti internazionalisti europei, fin quando dopo la rivoluzione bolscevica del 1917 si ritrovò emarginato per le sue critiche alla piega autoritaria che il regime stava prendendo

Ma il filosofo russo dette un contributo fondamentale all’evoluzione del pensiero anarchico, dissociandolo da una prima matrice marxista, puramente determinista, e in un’analisi scientifica, sociologica ed antropologica delle comunità umane e dell’uomo stesso, tornò ad incentrarsi sulla volontà e sulla scelta come momenti di vero progresso storico. La scientificità e la concretezza dello studio di Kropotkin influenzarono molto i successivi movimenti rivoluzionari novecenteschi ed aiutarono l’anarchismo, prima solo ragionamento astratto, a divenire una possibile dottrina etico-politica, scientificamente dimostrata.

Anarchismo e geografia

a cura di Paolo Repetto, 30 ottobre 2018Anarchismo e Geografia

Kant geografo della ragione

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Anarchismo!  quello che dovrebbe essere la geografia

Kant geografo della ragione *

Hansmichael Hohenegger

How absolute the knave is! we must speak by

the card, or equivocation will undo us.

(Hamlet, V, 1, 132)

Nel breve scritto in cui annuncia il corso di geografia fisica del semestre estivo del 1757, Kant dichiara che il suo insegnamento non mira alla precisione e alla completezza filosofica che sono richiesti dalla fisica e dalla descrizione della natura, ma segue piuttosto il filo conduttore della «curiosità razionale del viaggiatore».1 Certo, Kant è stato un viaggiatore davvero sui generis, non essendosi mai allontanato dalla sua città natale se non di poche miglia,2 ma la sua curiosità è fuori questione: basta pensare alle testimonianze dei suoi biografi e alle sue estesissime letture di manuali di geografia e di resoconti di viaggi.3 L’attenzione alla geografia dipende forse dal fatto che Kant ha insegnato per più di quarant’anni geografia fisica (dal 1755 al 1796), ma l’intensità e l’estrema articolazione di livelli della sua conoscenza fa supporre che alla base di tutto il suo  modo di pensare ci sia una dialettica più profonda tra un’istanza spaziale di ordine e una passione avventurosa per la scoperta e il viaggio. Pur giustificato dai dati biografici, il cliché del geografo da poltrona ha impedito di valutare proprio questo contrasto tra la sua Reiselust e la sua articolata e profonda idea della spazialità.4 A partire da questi due fattori si vuole fornire qualche nuovo elemento per ulteriori indagini riguardo alla genesi dell’architettonica filosofica di Kant.

Il primo passo potrebbe essere quello di notare come la stessa idea di viaggio (il contrario della nostalgia; Fernweh, diranno poi i romantici) sia alla base del suo impulso metafisico. In una nota manoscritta del decennio di preparazione alla Critica della ragione pura, Kant considera la stessa filosofia critica un viaggio:

“La critica della ragione pura è una misura di prevenzione contro una malattia della ragione, che ha il suo germe nella nostra natura. Essa è il contrario dell’inclinazione che ci incatena alla nostra patria (nostalgia, Heimweh). È il desiderio di perderci al di fuori delle nostre cerchie e di rivolgerci ad altri mondi.” 5

Già qualche anno prima, nella Dissertatio (1770), Kant aveva usato la metafora del viaggio quando aveva scritto di aver osato un passo oltre i confini della certezza apodittica (ultra terminos certitudinis apodicticae). Si era chiesto infatti quali fossero le «cause dell’intuizione sensibile». La sorprendente risposta di Kant non è lontana, per sua stessa ammissione, dal «nos omnia intueri in Deo» di Malebranche, ma già la domanda aveva i tratti dell’avventura in alto mare (in altum): nell’oceano delle «indagationes mysticae». Nel 1770 l’impulso metafisico è così manifesto perché è ancora alimentato dalla speranza di risultati positivi derivanti dall’uso reale dell’intelletto; la cautela critica è, però, ben presente: conscio dell’incerto mare delle conoscenze riguardanti le cause dei fenomeni, Kant dichiara infatti che è più raccomandabile (consultius) navigare lungo la costa (littus legere).6

Nel famoso passo dei Paralogismi della prima edizione della Critica della ragione pura, Kant sembra aver preso definitivamente partito per la «sobrietà di una severa, ma giusta critica» che sia in grado di tracciare «sicuri limiti in base a principi» e scriva con la massima sicurezza il nihil ulterius sulle colonne d’Ercole, che la natura stessa ha eretto, affinché il viaggio della nostra ragione continui solo fin dove si estendono le coste ininterrotte dell’esperienza.7

Il viaggio per l’oceano senza rive (uferloser Ocean) deve essere abbandonato perché, secondo questa radicalizzazione quasi empiristica, non rimangono speranze di espandere le conoscenze della ragione. Da allora, l’immagine del costeggiare, del prudente rimanere dentro i confini dell’esperienza, accompagna da sempre la filosofia trascendentale anch’essa come un cliché che, in quanto tale, è vero, ma solo parzialmente. Infatti, l’autentico simbolo (Sinnbild) della filosofia critica, come è espresso icasticamente nei Prolegomeni, non è il limite, ma la «conoscenza del limite»,8 la quale è possibile solo se si riesce a pensare il limite insieme all’impulso a fare un passo oltre di esso. In una delle più famose metafore geografiche di Kant, quella dell’isola della verità, la necessità della navigazione (sia pure di quella non errabonda, herumschwärmende 9) ha lo stesso peso dell’istanza, se si vuol dire così, agrimensoria:

“Noi abbiamo fin qui non solo percorso il paese dell’intelletto puro esaminandone con cura ogni parte; ma lo abbiamo anche misurato, e abbiamo in esso assegnato a ciascuna cosa il suo posto. Ma questo paese è un’isola, chiusa dalla stessa natura entro confini immutabili. È il paese della verità (nome seducente), circondata da un vasto oceano tempestoso, la vera e propria sede della parvenza, dove qualche banco di nebbia e qualche ghiacciaio, pronto a liquefarsi, fingono nuovi paesi, e, incessantemente ingannando con vane speranze il navigante errabondo (herumschwärmende) in cerca di nuove scoperte, lo traggono in avventure, alle quali egli non sa mai sottrarsi, e delle quali non può mai venire a capo. Ma, prima di arrischiarci in questo mare, per indagarlo in tutta la sua distesa, e assicurarci se mai qualche cosa vi sia da sperare, sarà utile che prima diamo ancora uno sguardo alla carta del paese, che vogliamo abbandonare, e chiederci anzi tutto se non possiamo in ogni caso star contenti con ciò che esso contiene; o, anche, se non dobbiamo accontentarcene per necessità, nel caso che altrove non ci fosse assolutamente un terreno, sul quale poterci fabbricare una casa; e in secondo luogo, a qual titolo noi possediamo questo stesso paese, e come possiamo assicurarlo contro ogni pretesa nemica.” 10

Questo passo si trova proprio all’inizio del capitolo «Sul fondamento della distinzione di tutti gli oggetti in genere in phaenomena e noumena», che funge da vera e propria cerniera tra l’analitica e la dialettica trascendentale. Kant vuole mettere sotto gli occhi, come su una carta nautica, la regione dove l’intelletto ha un suo dominio (ditio) e quindi dov’è possibile la conoscenza (territorium), rispetto a quella in cui i concetti della facoltà conoscitiva fanno solo riferimento alla facoltà stessa e quindi possono solo avere un campo (Feld 11). In questo capitolo, Kant ha bisogno di distinguere tra uso empirico e significato trascendentale delle categorie 12 per permettere la navigazione nell’oceano della parvenza dialettica, cioè per esplorare il campo dei concetti dell’intelletto oltre il loro uso empirico: per esempio la categoria di causa-effetto come causalità libera nella terza antinomia della ragione pura. Prima di aprire questa indagine sulla parvenza dialettica, in cui la ragione dovrà disegnare da sé i limiti del proprio dominio legittimo (sia esso dei concetti della natura sia esso di quello della libertà), Kant propone una ricognizione del dominio in cui l’intelletto con i suoi principi è legislativo.

Kant e Bacon

Un confronto tra Kant e Bacon può aiutare a chiarire la natura di questa metafora geografica. 13  Anche in Bacon si può trovare un’articolazione della filosofia in una parte in cui si critica la parvenza e gli errori e una parte positiva in cui vengono stabilite le verità. La bella immagine dell’isola della verità, d’altronde, Kant la prende proprio da Bacon. 14  Infatti la causa dell’errore è dovuta anche per lui al fatto che l’insula veritatis è «circondata da un oceano immenso cui si aggiungono anche straordinari danni e dispersioni prodotte dai venti degli idoli (Immensum enim pelagus veritatis insulam circumluit; et supersunt adhuc novae ventorum idolorum injuriae et disjectiones)». 15 Anche per Bacon inoltre la peragratio è dannosa se non è guidata da quella scienza che è «ex naturae lumine petenda, non ex antiquitatis obscuritate repetenda». 16 Le conoscenze degli antichi sono repertori di errori e tradizioni che avrebbero potuto essere ancora più vari e numerosi se le circostanze politiche e la provvidenza non avessero impedito tali peregrinationes ingeniorum. Inoltre, se per Kant alla logica della verità come analitica trascendentale corrisponde la logica della parvenza trascendentale insita nelle stesse idee della ragione o dialettica trascendentale, per Bacon alla scientia ex lumine naturae con il suo organon fa da pendant il falso sapere, frutto degli idola, in particolare degli idola theatri, o idola scenae, effetto dell’accettazione cieca delle opinioni incontrollate che ci vengono dalla tradizione filosofica.

Il Temporis partus masculus è, sì, un’opera appena abbozzata in età relativamente giovanile in cui, almeno nella presentazione retorica, prevale lo spirito polemico e distruttivo. Anche in questo contesto, però, Bacon dichiara che per distruggere la falsa scienza bisogna comunque proporre una nuova scienza.17

Nell’opera più matura De dignitate et augmentis scientiarum (1623), Bacon è molto più moderato e scrive che è utile studiare le varie opinioni dei filosofi, che sono «veluti diversas Naturae glossas», 18 ma non rapsodicamente, debbono essere presentate come un tutto compiuto e continuo: «Philosophia integra seipsam sustentat, atque dogmata ejus sibi mutuo lumen et robur adjiciunt». Quando si traggono citazioni a caso o si estrapola da un contesto che non si conosce più, le singole affermazioni «portenta quaedam videntur et plane incredibilia». 19 Se si confronta questo passo con la chiusura della prefazione della seconda edizione della Critica della ragione pura, in cui si dice che chi padroneggia l’Idee im Ganzen di un’opera non si lascia fuorviare da apparenti contraddizioni che sorgono quando da un discorso continuo sono stati tolti singoli passi dal loro contesto, si dovrà ammettere che le somiglianze non sono solo linguistiche. 20 Kant può aver apprezzato in Bacon proprio questo metodo inteso in senso architettonico. Sempre nel De augmentis, Bacon sembra di nuovo anticipare il Kant del capitolo sull’Architettonica della Critica della ragione pura. Bacon scrive: «Methodus vero veluti scientiarum Architectura est». 21

Un tema fondamentale della Dottrina del metodo nella Critica della ragione pura è infatti proprio quello  dell’unità sistematica delle conoscenze sotto un’idea, ovvero sotto il concetto razionale «della forma di un tutto nella misura in cui mediante esso determina a priori sia la sfera [Umfang] del molteplice sia la posizione reciproca della parti». 22

Sia la singola scienza sia le scienze tutte debbono fare riferimento a questa possibile unità sistematica che ne fa un totum delimitato e organico.

Un elemento essenziale del progetto baconiano è quello di disegnare i confini delle scienze: già nel Temporis partus masculus Bacon vuole spingere il dominio dell’uomo sull’universo ad datos fines. 23 Questa nozione di sistematicità e di delimitazione delle scienze, sembra però in contrasto con l’altrettanto potente spinta al progresso delle conoscenze. Il motto di Bacon è, infatti, il colombiano «plus ultra» come efficacemente rappresentato nel frontespizio dell’Instauratio magna che mostra una nave che passa le colonne d’Ercole.

Spingere le conoscenze oltre i limiti dettati dalla tradizione ha, tuttavia, proprio lo scopo di stabilire limiti certi della scienza. Come si è visto nell’allegoria del viaggio oltre l’isola della verità, anche in Kant da un lato c’è la pulsione al viaggio avventuroso, dall’altro l’esigenza di disegnare i limiti della scienza. Perfino in alcuni aspetti metodologici il progetto di Bacon e quello di Kant coincidono. Per Bacon sono necessari all’impresa scientifica nuovi strumenti (per la navigazione mediterranea bastavano le stelle, per quella oceanica sarà necessario usum acus nauticae 24) e la collaborazione di molti (il motto del frontespizio è multi pertransibunt et augebitur scientia).

Kant sottoscrive l’esigenza baconiana della dimensione pubblica e collaborativa nella costruzione della scienza, come risulta dall’exergo nella seconda edizione della Critica della ragione pura tratto dalla prefazione alla Instauratio magna: «Chiediamo poi che gli uomini secondo il loro stesso interesse […] – prendendo consiglio in comune (in commune consulant) – […] partecipino all’opera». 25 La dimensione pubblica e storica della divisione del sapere è un tema centrale per Kant: gli scienziati e il governo politico debbono cooperare per costituire un’enciclopedia delle scienze (orbis scientiarum) in modo tale da organizzarle non solo in un tutto secondo principi oggettivi, ma anche organizzarle soggettivamente riguardo a coloro che le indagano e insegnano. Questa dimensione soggettiva delle scienze rimanda all’esigenza di organizzare in un corpo comune i docenti: un compito della ragione che deve indagare l’«Idee von einer Universität überhaupt» sulla base della quale debbono essere misurati statuti e piani delle università esistenti. 26 La dimensione pubblica della ragione è intrinsecamente storica, ma ciò non impedisce che abbia anche, laddove l’universale ragione umana è come una repubblica in cui «ognuno ha il suo voto»,27 una valenza trascendentale. In entrambi i casi, la dimensione repubblicana è essenziale all’impresa, solamente è diversa la qualità del sapere a cui si fa riferimento.

Dove si tratta dell’enciclopedia del sapere l’orizzonte è quello del singolo individuo che può e deve allargarlo, riassumere le conoscenze apprese da altri e renderle a sua volta disponibili, mentre dove è in gioco l’architettonica si tratta di un’istanza oggettiva che appartiene all’orizzonte degli uomini in generale. Naturalmente, in quanto entrambe queste due istanze fanno riferimento a una possibile unificazione e sistematicità delle conoscenze, esse debbono essere pensate come convergenti.28

Per Kant l’esigenza di un sapere organizzato sistematicamente, i cui limiti siano stabiliti non arbitrariamente, è essenziale per lo sviluppo delle scienze, come si vede fin nell’Opus postumum,29 ma è innanzitutto un compito filosofico che precede ogni scienza in quanto sua condizione. Per Bacon, invece, la filosofia non è nettamente separata dalla scienza, il suo progetto è enciclopedico e mira a una descriptio globi intellectualis (così si intitola un suo libro scritto nel 1612 e pubblicato nel 1653 30), ma non prevede una scienza specifica che determini l’orizzonte della stessa ragione.

Kant è consapevole della novità della scienza che propone: nei Prolegomeni dice esplicitamente che nessuno aveva mai avuto l’idea di questa scienza, quel che è stato pensato prima di essa non poteva essere utilizzato per costruirla: unica eccezione è rappresentata dalla indicazione che poteva essere data dal dubbio di Hume; neanche lui ebbe il presentimento di una tale possibile scienza formale, anzi trasse sulla spiaggia (dello scetticismo) la sua nave per metterla al sicuro, dove poteva stare e marcire; mentre a me importa fornirgli un pilota che, seguendo i principi sicuri dell’arte nautica derivati dalla conoscenza del globo, munito di una carta nautica completa e di un compasso, possa portare con sicurezza la nave dove gli paia giusto. 31

 

Kant e Hume

Le somiglianze anche strutturali tra Kant e Bacon sono certo significative per quanto riguarda la rappresentazione spaziale della sistematicità e del progresso delle conoscenze, ma, se si vuole esaminare nella sua massima generalità il ruolo della spazialità nella concezione della filosofia trascendentale, è il ruolo che ha avuto Hume a essere essenziale, e non solo perché è Kant a attribuirglielo. 32 Non è qui, in ogni caso, questione della maggiore o minore importanza di un autore, ma è rilevante, al di là della questione della filiazione di metafore spaziali,33 il diverso valore che queste metafore hanno a livelli diversi dell’architettonica kantiana: l’organizzazione soggettiva delle conoscenze (la carta nautica usata, ma anche aggiornata, dai navigatori), l’organizzazione oggettiva delle scienze (la carta nautica per come deve essere approntata) e, infine,  quello che si potrebbe chiamare il livello trascendentale, la stessa possibilità della carta nautica, le sue condizioni di possibilità.

Cassirer aveva scritto che, già nel periodo precritico, Kant era passato dalla determinazione del cosmo spaziale alla determinazione del cosmo intellettuale, «da geografo empirico Kant diviene “geografo della ragione” in quanto intraprende a misurare tutta l’ampiezza della sua facoltà secondo principi determinati».34 In realtà Kant non ha mai detto di se stesso di essere un geografo della ragione, ma di Hume che era uno di questi geografi della ragione, che credeva aver fatto abbastanza per sbarazzarsi di tutti quei problemi con il relegarli al di fuori dell’orizzonte della ragione, orizzonte che però non poteva determinare.35

Potrebbe sembrare che Kant usi questa caratterizzazione per evidenziare la disposizione solo empirica di Hume a descrivere la ragione umana senza riferimento ad alcun principio, appunto secondo una scienza come la geografia che è eminentemente empirica. Il contesto sembra suggerirlo, si tratta infatti del capitolo Dell’impossibilità di un appagamento scettico di una ragione pura che sia in dissidio con se stessa, in cui Kant distingue due tipi di ignoranza, quella accidentale che riguarda le cose e quella «della determinazione e dei limiti della mia conoscenza». Nel primo caso si è autorizzati a indagare dogmaticamente, mentre nel secondo si deve indagare criticamente.36 Se l’ignoranza è assolutamente necessaria (schlechthin nothwendig) ci si può astenere dalla ricerca, ma, in effetti, è esclusa solo l’indagine empirica in quanto sarebbe insensata, mentre quella critica è possibile «mediante l’indagine delle ragioni (Ergründung) delle prime fonti della nostra conoscenza». In questo caso posso sperare, procedendo con argomenti a priori, di determinare i limiti (Grenzen) del conoscibile. Quando, invece, si tratta di limitazioni (Einschränkungen) poste alla nostra ragione, la conoscenza della ignoranza può essere determinata solo a posteriori perché se pure si riesce a sapere qualcosa, sappiamo che ci resta ancora dell’altro da sapere e quindi essa rimane complessivamente indeterminata. Dei limiti, quindi, si può dare scienza, delle limitazioni no, solo percezione (Wahrnehmung).37

Per chiarire questo punto Kant espone la distinzione, già spaziale, della differenza tra Grenzen e Schranken (Einschränkungen) con un’immagine spaziale.38

Chi trovandosi sulla superficie terrestre se la rappresenta, secondo una percezione dei sensi, come un piatto, non sa quanto essa si estenda; procedendo nell’esplorazione conoscerà sempre porzioni di questa superficie, saprà di non averle prima conosciute, conoscerà, quindi, le limitazioni (Schranken) della geografia (Erdkunde) di questa superficie, ma, appunto, non i limiti (Grenzen) di ogni possibile descrizione della terra. Se, invece, si è arrivati a sapere (wissen) che la terra è una sfera, si può conoscere in modo determinato e secondo principi, anche da una piccola sua porzione, per esempio quella di un grado, il suo diametro e così anche la compiuta delimitazione della terra, cioè la sua superficie. Potrò essere ignorante riguardo agli oggetti che si trovano su questa superficie, ma non riguardo all’estensione che li contiene, alle sue delimitazioni e alla sua grandezza.39 Se quindi Hume è un «geografo della ragione» per il fatto di essersi sbarazzato dei problemi filosofici relegandoli «al di fuori dell’orizzonte della ragione», è però, pur sempre, un geografo empirico che in quanto tale non può determinare questo stesso orizzonte e quindi nessuna fondata indagine critica sulle fonti della conoscenza.40

Questa considerazione contrasta, però, con il passo già citato dei Prolegomeni in cui Kant sostiene che Hume è l’unico ad aver dato almeno un’indicazione sulla possibilità della filosofia critica come nuova scienza formale: il suo contributo a questa nuova scienza non può consistere solo nella censura empiristica del dogmatismo. Descrivere Hume come semplice geografo empirico-percettivo non dà conto in modo accurato della sua filosofia.

Già il fatto che sia Hume stesso a caratterizzare la sua indagine come mental geography suggerisce che Kant non faccia un uso polemico dell’idea di una geografia empirica della ragione, soprattutto se si considera che Hume introduce questa espressione proprio per dimostrare la necessità della filosofia:

And if we can go no farther than this mental geography, or delineation of the distinct parts and powers of the mind, it is at least a satisfaction to go so far; and the more obvious this science may appear (and it is by no means obvious) the more contemptible still must the ignorance of it be esteemed, in all pretenders to learning and philosophy.41

In questo contesto Hume non sostiene una tesi scettica, il tono è semmai quello di un dogmatico in quanto nutre la speranza (there is no reasonto despair) che questo tipo di ricerche possa permettere anche di «discover, at least in some degree, the secret springs and principles, by which the human mind is actuated in its operations»; 42 Hume pensa, infatti, che si possa passare dalla descrizione delle facoltà alla loro spiegazione come mental powers and oeconomy. Poco dopo Hume si spinge a dire che, poiché un’operazione e un principio della mente sono dipendenti da un’altra operazione e un altro principio, questa «may be resolved into one more general and universal». Non è dunque il mancato riferimento ai principi quel che Kant critica a Hume, ma il fatto che Hume non sappia determinare esattamente fin dove possano arrivare queste indagini. Hume stesso lo dice: «how far these researches may possibly be carried, it will be difficult for us, before, or even after, a careful trial, exactly to determine». Hume ha dunque avuto l’idea di un careful trial che preceda o segua queste indagini e quindi stabilisca la filosofia come un sapere che si sappia autodelimitare, ma ne ha dichiarato l’inutilità. L’idea di completezza della filosofia che si può trovare in Hume è quella dell’unione di concretezza a rigore dei saperi filosofici: «Happy, if we can unite the boundaries of the different species of philosophy, by reconciling profound enquiry with clearness, and truth with novelty!».43 Intenzione e auspicio questo che non va oltre l’enunciazione, appartenente anche al razionalismo, del connubium rationis et experientiae, o, baconianamente, inter mentem et naturam, e si colloca semmai come ideale regolativo della ragione, non come descrizione della stessa ragione, come vuole Kant. Sia lo scettico sia il dogmatico concepiscono la ragione come un piano in cui l’indagine prosegue indeterminatamente in quanto considerano le cose come cose in sé e «l’insieme di tutti gli oggetti possibili della nostra conoscenza » come una «totalità incondizionata».44 La differenza sta nel fatto che lo scettico ritiene che, negando la necessità di un concetto a priori, che sia al di fuori dell’orizzonte di conoscibilità o che appartenga alla linea di confine (Grenzlinie), si possa escludere la possibilità di qualsiasi concetto di quel tipo, mentre il dogmatico conserva la fiducia, perfezionandosi la conoscenza, di poter possedere concetti a priori. Sia quella non completamente provata sfiducia, sia questa eccessiva fiducia si contrappongono in un conflitto inconcludente. L’unico modo di porvi termine è un esame preliminare che la ragione riesce a fare di se stessa, disegnando, nello stesso tempo, i limiti dell’esperienza possibile:

La nostra ragione non è, per così dire, un piano di estensione indeterminabile, le cui limitazioni siano in genere conosciute solo in questo modo, deve piuttosto essere paragonata a una sfera [Sphäre] il cui raggio può essere determinato dalla curvatura di un arco della sua superficie (dalla natura delle proposizioni sintetiche a priori), in modo tale però che sia possibile da ciò stabilire con sicurezza volume e delimitazione di questa sfera.45

Anche se Hume non è citato esplicitamente, è chiaro dall’ inciso riguardante le proposizioni sintetiche a priori che il contributo determinante di Hume in questa geografia della ragione è quello di aver sollevato un dubbio sulla necessità del legame causale. È questo dubbio che, oltre a rappresentare una censura difficilmente eludibile di ogni dogmatismo rispetto all’uso trascendente di concetti a priori, impone di indagare la stessa ragione. La censura humiana colpisce, sì, il dogmatico che è messo in difficoltà dal non riuscire a ribattere sia pure a un solo dubbio scettico, ma il merito principale di Hume rispetto a Kant è quello di aver posto la domanda su come siano possibili i giudizi sintetici a priori. Il suo contributo a questa scienza del tutto nuova della critica della ragione pura non va, però, oltre questo, perché il geografo della ragione Hume proponeva solo la cartografia di un’ignoranza locale. Per passare dal metodo scettico a quello critico è necessario descrivere con completezza l’orizzonte della ragione, e cioè, appunto, l’«ignoranza riguardo a tutte le questioni possibili di una data specie».46

Secondo Kant, Hume è destinato inevitabilmente a confusioni, proprio perché non si pone il problema di «abbracciare con lo sguardo a priori e sistematicamente tutti i tipi di sintesi dell’intelletto»,47 e non può quindi porre Grenzen alla conoscenza, ma unicamente Schranken, che, certo, sono d’impaccio per il dogmatico, ma solo provvisoriamente. Per far tacere il dogmatico nelle sue pretese smisurate, bisogna potergli mostrare «l’ignoranza per noi inevitabile» 48 nella sua intera estensione.

Hume non si è impegnato in una rassegna di tutte le antitetiche, di tutte le sintesi della ragione in quanto sistema delle idee e quindi non ha potuto porsi criticamente la domanda sulla possibilità dei giudizi sintetici a priori. Negando la validità dei giudizi sintetici a priori «non ha infatti posto la distinzione tra le fondate pretese dell’intelletto e le presunzioni dialettiche della ragione».49 Questa distinzione l’ha però fatta Kant a partire proprio da Hume, cosicché quando nei Prolegomeni afferma che è stato Hume – con le sue obiezioni alla necessità del legame causale – a svegliarlo dal sonno dogmatico, e in un’altra parte della stessa opera dice che a svegliarlo sono state le antinomie,50 tra le due affermazioni non c’è vera contraddizione. La causalità e le antinomie hanno infatti un elemento in comune: in entrambi i casi sono in gioco giudizi e inferenze sintetiche a priori che costituiscono rispettivamente due sistemi completi, quello delle categorie e quello delle idee, che sono strettamente interdipendenti e insieme costituiscono la sfera della ragione.51 La conoscenza del limite è proprio la capacità di tracciare questa distinzione, cioè di descrivere, per quanto ciò possa essere paradossale,52 dall’interno dell’esperienza i limiti di quest’ultima, e di conseguenza dar conto del sapere che permette di disegnare dall’interno i limiti della ragione. Questo sapere è il sapere architettonico nella sua forma più universale. In una Reflexion risalente all’epoca di preparazione della Critica della ragione pura dedicata all’architettonica, dopo aver dato la classica definizione della ragione architettonica in quanto «critica tutte le conoscenze e progetta un canone», Kant ne coglie anche l’istanza trascendentale: la ragione architettonica è «la facoltà di descrivere la sua propria sfera».53 Si può chiudere questa nota sull’importanza del pensiero della spazialità nella costruzione del sistema critico citando una Reflexion che deve essere stata scritta quando il pensiero della Critica della ragione pura era in statu nascendi, e che proprio per questo potrebbe farne apprezzare il valore euristico:

Della metafisica come di un paese sconosciuto, di cui intendevamo appropriarci, abbiamo indagato attentamente per prima cosa la posizione e le vie di accesso. (Giace nella [regione] semisfera della pura ragione); abbiamo tracciato perfino il contorno di dove quest’isola della conoscenza è connessa mediante ponti con il paese dell’esperienza o dove essa ne è separata da un mare profondo; ne abbiamo perfino disegnato il contorno e ne conosciamo per così dire la geografia (icnografia); non sappiamo ancora cosa si possa trovare in questo paese, che da alcuni è ritenuto non abitabile da uomini, da altri è considerato la loro vera sede. Dopo la geografia universale di questo paese della ragione, vogliamo prendere in considerazione la storia universale della ragione.54

In questa allegoria sembra che la metafisica sia ancora un’isola vera e propria, non solo una parvenza di isola («banchi di nebbia e ghiacciai pronti a liquefarsi»), che, insomma, all’epoca in cui Kant scriveva essa aveva una dimensione geograficamente più concreta, v’erano, infatti, ancora accessi, ponti, e essa non era circondata solo da un mare profondo. L’unica cosa che non si sapeva era se fosse abitabile. Non è chiaro cosa rappresenti l’emisfero della ragione pura: forse è il mundus intelligibilis che, in parte, è occupato da idee della ragione e in parte da concetti dell’intelletto. In questo caso, l’altro emisfero sarebbe ancora – se è plausibile la datazione della Reflexion intorno al 1772, pochi anni dopo la dissertazione De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis del 1770 – il mundus sensibilis che certo è antipodale alla metafisica. In questo caso Kant potrebbe voler dire che l’emisfero della ragione pura è ancora non illuminato, come se la sfera di cui è parte fosse divisa a metà dall’orizzonte in una parte illuminata e in una oscura, il mondo fenomenico e quello noumenico. In questo caso riprenderebbe in qualche modo l’idea lockiana di delimitazione della ragione come di un orizzonte che «sets the bounds between the enlightened and dark parts of things, between what is and what is not comprehensible by us».55

L’elemento di novità in questa nota manoscritta è che, oltre alla spazialità – qui al servizio di un’allegoria della sistematicità della ragione (la rappresentazione delle connessioni tra regioni che insieme costituiscono un tutto organizzato) –, si considera la possibilità di rappresentare temporalmente la ragione. Forse Kant aveva già in mente una storia della ragione come sarà sviluppata nell’ultimo capitolo della Critica della ragione pura, dal titolo, appunto, di «Storia della ragione».56 L’importanza sistematica di questo capitolo è stata spesso ignorata forse anche per via della sua estrema brevità, ma la brevità è inversamente proporzionale alla sua importanza: «sta qui solo per indicare un posto rimasto vuoto nel sistema, e che dovrà essere riempito in futuro».57 Kant enuncia appena le tappe del processo del divenire adulta della ragione come il sorgere del metodo critico dall’opposizione di metodo scettico e metodo dogmatico, ma, ancora più originariamente, a partire dalla dialettica tra metodo naturalistico e metodo scientifico, tra sapere naturale della ragione comune e sapere sistematico in base a principi della ragione pura. Quest’ultima opposizione permette di stabilire un utile parallelismo tra il modello spaziale e il modello temporale della ragione in quanto il suo tema centrale è l’ignoranza. Nel caso della spazialità si è visto che è l’«ignoranza per noi inevitabile» che permette di disegnare estensione e figura della sfera della ragione (anche grazie al dubbio di Hume), mentre nel secondo caso l’ignoranza in gioco è quella della misologia, che non è tanto disprezzo della scienza, quanto dubbio rispetto al valore pratico della ragione intesa esclusivamente come scienza (Wissenschaft). La misologia in senso positivo non è disprezzo di quel che non si sa, ma insoddisfazione di fronte alle scienze che si ritengono autosufficienti, è saggezza (Weisheit), ovvero un’istanza critica che valuta ogni sapere rispetto agli scopi ultimi dell’umanità che non possono appartenere se non alla ragione pratica.

La storia della ragione come teleologia humanae rationis è costituita essenzialmente da questa tensione ineliminabile tra scienza (Wissenschaft) e saggezza (Weisheit). Il risultato critico è che l’unità della ragione teoretica e pratica può essere pensata solo storicamente.58

Da un punto di vista più generale e architettonico, ci si potrebbe domandare, in conclusione, quali prospettive ermeneutiche possa aprire  l’esame sistematico dell’istanza humiana insieme a quella rousseauviana. Il dubbio humiano e la misologia rousseauviana hanno in comune di essere filosofie dell’ignoranza,59 e, come si è visto, sono momenti essenziali dell’indagine della ragione, la prima di quella spaziale e la seconda di quella temporale.

Queste due modalità di autocomprensione della ragione non possono essere, però, né tenute insieme né separate in modo assoluto. La conseguenza di ciò è che non è la storicità a tenere aperto un sistema della ragione (se lo fa è quaestio facti), ma de iure è la tensione ineliminabile tra la sistematicità e la processualità della stessa ragione a tenere aperto ogni sistema della ragione.60

* L e opere di I. Kant pubblicate in vita sono citate da Werke in zehn Bänden, a cura di W. Weischedel, Darmstadt, 1981 (19561), con  ’indicazione dove possibile della paginazione originale.

‘A’ indica la prima e ‘B’ la seconda edizione. Le opere non pubblicate in vita e le trascrizioni di lezioni sono citate da Kant’s gesammelte Schriften, a cura della Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften (e successori), Berlin, 1900- (d’ora in avanti KGS). In numeri romani si

indica il volume, in numeri arabi la pagina; delle Reflexionen si indica anche il numero progressivo e tra parentesi la datazione, in forma semplificata, proposta dal curatore E. Adickes. Le modifiche apportate alle traduzioni dei testi citati non sono segnalate.

 

NOTE

1 I. Kant, Entwurf und Ankündigung eines Collegii der physischen Geographie (1757), KGS II, p. 3; cit. in W. Stark, Einleitung a Vorlesungen über physische Geographie, Berlin, 2009, KGS XXVI, 1, p. vi. Kant esclude per esempio la geografia matematica e quella storica dalle sue lezioni (cfr. W. Stark, Einleitung cit., p. vi), mentre include considerazioni che oggi diremmo etnografiche, almeno fino a quando, nel 1772, non inizierà a tenere le lezioni di antropologia.

2 Per avere un quadro completo e preciso dei viaggi di Kant, cfr. W. Stark, http://web.unimarburg.de/kant//webseitn/bio_reis.htm#Wohnsdorf.

3 R iguardo a quest’ultimo punto vedi la bibliografia raccolta da Werner Stark alla fine del primo tomo dedicato alle Vorlesungen über physische Geographie cit., KGS XXVI, 1, pp. 321-363. Riguardo alle testimonianze biografiche, oltre ai vari aneddoti su conversazioni con stranieri nelle quali Kant dimostra una conoscenza di luoghi in cui non è mai stato superiore a quella di chi vi ha abitato per anni, si può ricordare quel che racconta Wasianski, dell’intenso desiderio di viaggiare che Kant ha avuto nell’ultimo anno della sua vita. In inverno, attendendo l’estate per poter realizzare questo suo desiderio, Kant pensava dapprima a «gite, poi a viaggi nel paese e infine a lunghi viaggi». E. A. Ch. Wasianski, Immanuel Kant in seinen letzten Lebensjahren, Königsberg, 1804, in Immanuel Kant. Sein Leben in Darstellungen von Zeitgenossen, a cura di F. Gross, Darmstadt, 1993, p. 238. Arrivata l’estate non smetteva di pensare a quei «lunghi viaggi progettati nel paese e all’estero», p. 242. Il suo medico e biografo Wasianski, per evitare strapazi al vecchio e malato Kant, propose allora una gita nella casa di campagna dove Kant era già stato in passato: «Bene, basta che il viaggio sia lungo», fu la risposta, p. 243. Naturalmente le condizioni di salute e l’assoluta mancanza di abitudine al viaggiare resero breve e faticoso il viaggio, ma, anche dopo l’esperienza penosa, Kant continuò a parlare «con entusiasmo rinnovato di viaggi, lunghi viaggi, viaggi all’estero», ibid.

4 Kant non si è interessato solo alla geografia fisica, che ha insegnato così a lungo, ma, naturalmente, anche alla geografia astronomica. Basta pensare ai due saggi sulle variazioni del moto rotatorio della terra e sull’invecchiamento della terra (entrambi del 1754), oppure alla sua Teoria del cielo (1755). Naturalmente, anche in questo caso, sono molte e importanti le metafore spaziali a partire dall’astronomia che sono disseminate nei suoi scritti. Solo a titolo d’esempio, Kant usa l’immagine dell’errore di parallasse (lo spostamento dell’oggetto rispetto allo sfondo se considerato da punti di vista diversi) per illustrare l’errore connaturato all’universale intelletto umano, in quanto, per essere esaminato, deve potersi valutare sia «dal punto di vista del mio intelletto » sia «dal punto di vista di una ragione estranea e esterna». Sogni di un visionario, A 74; trad. it. in Scritti precritici, a cura di P. Carabellese, successive aggiunte e correzioni di R. Assunto, R. Hohenemser e A. Pupi, Roma-Bari, 19823, pp. 380-381. Questa teoria dell’errore anche in KGS XVIII, pp. 79-80; Refl. 5073 (1777). È chiaro che la metafora più nota e studiata è quella per cui la filosofia critica opera una «rivoluzione copernicana», KrV B XVI; trad. it., p. 24. Ancora, ma in ambito di filosofia delle storia: per giudicare del progresso dell’umanità si deve tenere conto del fatto che la direzione dell’umanità può sembrare come il moto apparente dei pianeti, ovvero retrogrado (epiciclo), se non la si considera dal punto di vista del sole, ovvero, fuori dalla metafora, dal punto di vista della ragione. Cfr. Il conflitto delle facoltà, A 140; trad. it. in Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Roma-Bari, 1995, p. 227.

5 KGS XVIII, pp. 79-80; Refl. 5073 (1777).

6 De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis A 28; trad. it. in Scritti precritici cit., p. 450.

7 Cfr. Critica della ragione pura (d’ora in avanti KrV) A 395-396; trad. it. a cura di G. Colli, Milano, 1976 (Torino 19571), pp. 457-458.

8 Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, § 59, A 182; trad. it. di P. Carabellese, rev. e intr. di H. Hohenegger, Roma-Bari, 1996, p. 247.

9 Non si perda, nella scelta della parola, il riferimento allusivo allo sciamare disordinato (schwärmen) dei fanatici (Schwärmer). In questa parola risuona notoriamente il disordinato sciamare delle api, il vagabondaggio senza meta dei ragazzi o dei soldati senza patria, e, con coloritura religiosa, di chi abbandona rumorosamente l’ortodossia e segue una setta: «fanaticum esse, in globo errantium hominum esse, segreges coetus instituere». J. Grimm e W. Grimm, Deutsches Wörterbuch,33 voll., München, 1984, s.v. «Schwärmen». La citazione in latino è dal dizionario tedesco-latino: J. L. Frisch, Teutsch-lateinisches Wörter-Buch, Berlin, 1741, II, p. 243a.

10 KrV B 294-295/A 236-237; trad. it., p. 311.

11 Questa terminologia giuridico-geografica è tratta dalla Critica della facoltà di giudizio, § II,

B XVI-XVII, trad. it. di E. Garroni e H. Hohenegger, Torino, 1999, p. 10.

12 Cfr. KrV B 305/A 248; trad. it., p. 321.

13 L’utilità di un confronto tra Bacon e Kant era già stata sostenuta da Salomon Maimon, uno dei più acuti interpreti di Kant tra i suoi contemporanei. Proprio per il fatto che essi «sono per un verso assai simili e per l’altro così diversi, credo che il loro essere messi a confronto permetta di gettare su entrambi una nuova luce» (S. Maimon, Baco und Kant, in «Berlinisches Journal für Aufklärung» 1790 VII/2, http://www.ub.uni-bielefeld.de/diglib/aufkl/berlaufk/berlaufk.htm. Cfr. anche l’edizione in S. Maimon, Gesammelte Werke, a cura di V. Verra, vol. II, Hildesheim, 1965, pp. 499-522, p. 102). In comune hanno l’essersi proposti «una compiuta [völligen] riforma della filosofia (e di conseguenza di tutte le scienze nella misura in cui esse traggono i loro principi dalla filosofia)», ivi, p. 103. Mentre Kant, però, si sarebbe concentrato sul «provare la possibilità dell’applicazione delle forme logiche agli oggetti reali della natura, in quanto quelle sono date a priori e questi a posteriori», Bacon, non prendendo in considerazione questo problema, si sarebbe preoccupato di trovare «il vero metodo di questo uso [delle forme logiche applicate agli oggetti] in casi particolari», ivi, p. 104. È notevole che Maimon scelga di chiarire il punto prendendo come esempio il concetto di causa: Bacon, secondo lui, «non si preoccup di spiegare come siamo arrivati al concetto di causa, a priori o a posteriori (come vuole che sia D. Hume), né della spiegazione della possibilità dell’uso di questo concetto, che se è a priori lo è di oggetti a posteriori; a lui basta che il factum sia al di là del dubbio, che cioè noi lo usiamo», ivi, pp. 104-105. Anche se Bacon ha di mira un sistema delle scienze, secondo Maimon, se non si pone il problema critico del rapporto tra forme del pensiero a priori e oggetti a posteriori, non riuscirà con l’induzione ad attingere a un sistema come quello kantiano in cui «forme e principi possono essere completi (vollzählig)», ma potrà solo approssimarsi regolativamente ad esso come a un’idea (p. 119). Naturalmente Maimon dice anche dei vantaggi di questo empirismo baconiano, e del possibile superamento di questa opposizione in un leibnizismo perfezionato che è poi la proposta della sua filosofia.

14 Neanche Hans Vaihinger nota questa possibile fonte di Kant e, per la metafora dell’oceano, rimanda sì a Bacon, ma a un altro pur importantissimo passo del De dignitate et augmentis scientiarum, lib. IX, § 1 (Cfr. H. Vaihinger, Commentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft, 2 voll. [Stuttgart, 1881-1892 ed. orig.], a cura di R. Schmidt, Stuttgart, 1922, p. 40), nel quale Bacon, dopo aver detto che fino a quel punto si è trattato di navigare lungo la costa del vecchio e del nuovo mondo delle scienze (orbis scientiarum), si deve abbandonare la navicula rationis humanae per passare all’ecclesiae navis, cioè dalla scienza alla teologia, per affrontare i temi della re ligione. È anche interessante che questo libro si chiuda con la dichiarazione di aver per quanto possibile esaurito, completato con le parti mancanti, il piccolo continente (mondo) dell’orbe intellettuale (globum exiguum Orbis Intellectualis); resterà ai posteri il compito non solo di giudicare questo suo lavoro, ma anche di accrescerlo ulteriormente. F. Bacon, De dignitate et augmentis scientiarum, in The Works of Francis Bacon, 14 voll., a cura di J. Spedding, R. L. Ellis, D. D. Heath, London, 1857-1874, rist. anast., Stuttgart, 1989, vol. I, pp. 836-837; trad. it. in Opere, a cura di E. De Mas, 2 voll., Bari, 1965, vol. II, pp. 518-519. D’altronde non si trova un riferimento a questa plausibile fonte di Kant neanche nel recente libro, pur ambizioso e ricco di spunti, di Shi-Hyong Kim, Bacon und Kant. Ein erkenntnistheoretischer Vergleich zwischen dem ‘Novum Organum’ und der ‘Kritik der reinen Vernunft’, Kantstudien Ergänzungshefte, Berlin-New York, 2008. Certo, la metafora è davvero diffusa e quando se ne indaga la Quellengeschichte, la prova di una derivazione è sempre assai difficile, perché chi la usa, più essa è diffusa, più non sente il bisogno di citare la propria fonte. Come esempio si può considerare, un autore ben presente a Kant, Johann Nicolas Tetens, il quale cita da una poesia in cui un saggio in cerca della verità «lontano da concetti terreni / osa veleggiare sul vasto oceano della divinità» («von irdischen Begriffen / im weiten Ocean der Gottheit wagt zu schiffen»; A. von Haller, Gedanken über Vernunft, Aberglauben und Unglauben, 1729). Sulle fonti possibili di questo verso (famoso, tanto che Tetens non ne cita l’autore) già varrebbe la pena indagare (Comenius, Locke, Leibniz?). A partire da questa suggestione, Tetens stabilisce un’analogia tra come procede l’intelletto nella scienza e la navigazione, e anche in questo caso non cita alcun autore (è Bacon?). Come il navigante si tiene alla costa, così il filosofo si tiene all’esperienza, ma «la metafisica è un viaggio intorno al mondo, sull’oceano, dove solo di quando in  quando si incontrano isole e sponde in alcuni principi universali dell’esperienza, da cui si può apprendere quale sia la direzione che si è presa. Le passioni sono le tempeste, i pregiudizi gli scogli che respingono o fanno naufragare la ragione». J. N. Tetens, Über die allgemeine speculativistische Philosophie (Bützow e Wismar, 1775), stampato insieme al primo vol. dei Philosophische Versuche über die menschliche Natur und ihre Entwicklung (1777), a cura di W. Uebele, Berlin, 1913, vol. I, p. 15 (ed. orig. p. 20). La natura assai produttiva della metafora fa sì che non sia impossibile collegare la circolarità del sapere sia con la sfera sia con l’oceano. Bacon vede nella sapienza di Salomone (1Re 4:29-34), vasta come la sabbia che circonda universas orbis oras, la sapienza che abbraccia ogni sapere umano e divino. De dignitate et augmentis scientiarum cit., vol. I, p. 750; trad. it., vol. II, pp. 418-419.

15 F. Bacon, Temporis partus masculus, in The Works of Francis Bacon cit., vol. III, p. 536.

16 F. Bacon, Temporis partus masculus, cit, p. 535.

17 F. Bacon, Temporis partus masculus cit., vol. III, p. 539; trad. it. p. 52.

18 F. Bacon, De dignitate et augmentis scientiarum cit., III, 4; vol. I, p. 563; trad. it., vol. II, p. 175.

19 F. Bacon, De augmentis scientiarum cit., p. 564; trad. it., pp. 175-176.

20 Cfr. KrV B XLIV; trad. it., p. 43: «Auch scheinbare Widersprüche lassen sich, wenn man einzelne Stellen, aus ihrem Zusammenhange gerissen, gegen einander vergleicht, in jeder, vornehmlich als freie Rede fortgehenden, Schrift ausklauben, die in den Augen dessen, der sich auf fremde Beurteilung verlässt, ein nachteiliges Licht auf diese werfen, demjenigen aber, der sich der Idee im Ganzen bemächtigt hat, sehr leicht aufzulösen sind».

21 F. Bacon, De augmentis scientiarum cit., VI, 2, vol. I, p. 668; trad. it., vol. II, p. 305.

22 KrV B 860/A 832; trad. it., p. 806.

23 F. Bacon, Temporis partus masculus cit., vol. III, p. 528, p. 38.

24 Praefatio generalis, Instauratio magna, in The Works of Francis Bacon cit., vol. I, p. 130; trad. it., vol. I, p. 225.

25 KrV B II. F. Bacon, Instauratio magna cit. p. 132.

26 KGS XXIII, Vorarbeiten zum Streit der Fakultäten, p. 430. Per la questione della divisione del lavoro e quindi della dimensione pubblica e storica dell’architettonica delle scienze rimando alle citazioni che si trovano in H. Hohenegger, Kant, filosofo dell’architettonica. Saggio sulla «Critica della facoltà di giudizio», Macerata, 2004, pp. 37-64.

27 KrV B 780/A 752; trad. it., p. 745.

28 Sulla questione del rapporto tra enciclopedia e architettonica cfr. M. Capozzi, Kant e la logica, Napoli, 2002, pp. 413-418. In generale sulla nozione di orizzonte e in particolare sull’importanza di Georg F. Meier per l’elaborazione kantiana di questa nozione, cfr. R. Pozzo, Prejudices and Horizons: G. F. Meier’s Vernunftlehre and its Relation to Kant, «Journal of the History of Philosophy», 43, n. 2, 2005, pp. 185-202. Per un rapido elenco della pluralità degli orizzonti, dall’universale orizzonte dell’intelletto umano in genere, a quello, pratico, pragmatico, estetico, del sesso, del censo, dell’età, oppure riguardo alle regole per determinare il proprio orizzonte, cfr. Logik Busolt, KGS XXIV, pp. 623-625. La determinazione dell’orizzonte e la divisione del lavoro è chiaramente in rapporto alla «Encyclopaedia vniversalis. Vniversalcharte (g Mappemonde delle scienze)». KGS XVI, Refl. 1998 (1780-89), p. 189.

29 Riguardo alle scienze, la filosofia deve «fin dove è possibile, misurare, tenendosi all’interno dei limiti di ciò che è conoscibile a priori, il campo di questo conoscibile e rappresentarlo in un cerchio (orbis) che sia semplice e unito, cioè in un sistema non escogitato arbitrariamente, ma prescritto dalla ragione pura, la qual cosa non potrebbe accadere con la raccolta di elementi empirici della conoscenza, in quanto, messi insieme frammentariamente, non farebbero sperare in nessuna convinzione di completezza». KGS XXI, p. 524. Ricorre spesso nell’Opus postumum l’espressione orbis scientiae con funzione schematica, di mediazione tra sapere filosofic e empirico, ovvero l’esigenza di completezza, sempre rappresentata dalla tavola delle categorie.

30 F. Bacon, Descriptio globi intellectualis, in The Works of Francis Bacon cit., vol. IV, pp.

31 Prolegomeni A 17; trad. it. p. 17.

32 Al posto di una rassegna dei numerosi passi in cui Kant si richiama a Hume si può citare,  per la sua efficace brevità, l’affermazione che si trova nella trascrizione di una lezione di metafisica: c’è «in David Hume», afferma Kant, «qualcosa di simile alla Critica della ragione pura». Metaphysik Mrongovius (1782-1783), KGS XXIX, p. 781.

33 Un’indagine sulle metafore geografiche sarebbe assai desiderabile, e almeno per l’ambito della filosofia inglese, dovrebbe valutare anche l’importanza di Locke nel suo ruolo di mediazione tra Bacon e Hume. Un testo da prendere in considerazione sarebbe sicuramente quello, già citato da Vaihinger come possibile fonte kantiana (Commentar cit., p. 40), ovvero il capitolo introduttivo del Saggio sull’intelletto umano in cui Locke considera la necessità di un «survey of our own understandings», senza «let loose our thoughts into the vast ocean of being» o «letting their thoughts wander into those depths where they can find no sure footing». Il risultato di questo vagabondare non può essere che il perfect skepticism: «Whereas were the capacities of our understanding well considered, the extent of our knowledge once discovered, and the horizon found, which sets the boundary between the enlightened and the dark parts of things; between what is and what is not comprehensible by us, men would perhaps with less scruple acquiesce in the avow’d ignorance of the one; and employ their thoughts and discourse, with more advantage and satisfaction in the other». J. Locke, An Essay Concerning Human Understanding, I, 1, § 7; The Works of John Locke, 10 voll., London, 1823, I, pp. 5-6.

34 E. Cassirer, Kants Leben und Lehre, Berlin, 1921, p. 44; Vita e dottrina di Kant, trad. it. a cura di G. A. De Toni, Firenze, 1977, p. 52.

35 KrV B 788/A 760; trad. it., p. 750.

36 KrV B 786/A 758; trad. it., p. 749.

37 KrV B 787/A 759; trad. it., p. 750.

38 Coglie un’importante caratteristica della spazialità filosofica l’ osservazione di Giorgio Stabile riguardo al fatto che esiste una differenza tra le filosofie che possono essere rappresentate figuratamente come un puzzle, che si costruisce sempre a cominciare dai suoi limiti, cioè, anticipando la totalità, e il caso opposto, quello del meccano o del lego, in cui si procede come su un piano infinito in cui non c’è differenza tra porre i limiti e costruire. G. Stabile, La categoria dell’ubi e le sue implicazioni per il concetto di spazio nell’antichità, in Aa.Vv., Metafisica, Logica, Filosofia della natura. I termini delle categorie aristoteliche dal mondo antico all’età moderna, Atti del seminario dell’ILIESI, Roma gennaio-maggio 2003, a cura di E. Canone, La Spezia, 2004, pp. 1-11, pp. 4-5. Cfr. H. Hohenegger, Kant filosofo dell’architettonica cit., p. 92.

39 KrV B 788/A 760; trad. it., p. 750.

40 KrV B 788/A 760; trad. it., p. 750.

41 D. Hume, An Enquiry Concerning Human Understanding 1.13 (1748), in Essays Moral, Political, and Literary, a cura di T. H. Green e T. H. Grose, 2 voll., London, 1889, vol. II, p. 10; Ricerche sull’intelletto e sui principi della morale, trad. it. a cura di M. Dal Pra, Roma-Bari, 1978, p. 13.

42 D. Hume, An Enquiry cit., p. 11; trad. it., p. 15.

43 D. Hume, An Enquiry cit., pp. 12-13; trad. it., p. 18.

44 Cfr. KrV B 788/A 760; trad. it., p. 750.

45 KrV B 790/A 762; trad. it. 752.

46 KrV B 789/A 761; trad. it., p. 752, c.vo mio.

47 KrV B 795/A 767; trad. it. 756, c.vo mio.

48 KrV B 795/A 767; trad. it. 756.

49 KrV B 791/A 761; trad. it., p. 757.

50 Prolegomeni A 12; trad. it., p. 13 e § 50, A 142; trad. it., p. 193.

51 N el De dignitate et augmentis scientiarum Bacon fa un’interessante apologia di Platone: «in sua de Ideis doctrina Formas esse verum scientiae objectum», De augmentis, vol. I, p. 565; trad. it., p. 177. Il modello della conoscenza è la grammatica (Filebo 18 B-D) che impedisce la confusione dell’infinità della compositione et transpositione literarum. Per Bacon è necessario, come per Platone, cercare gli elementi che per essere non molti possono stare alla base delle «Essentias et Formas omnium substantiarum» ivi, p. 566; trad. it., p. 178. Questa esigenza di una collezione completa di elementi che forniscano le regole per l’unificazione intelligibile del sapere ricorda il kantiano Buchstabieren secondo il sistema completo delle categorie e poi sotto la funzione unificante delle idee. Si potrebbe pensare che questa istanza di completezza delle regole corrisponda all’esigenza di una sfera della ragione, ma può essere al servizio di metafisiche assai diverse, e in effetti potrebbe essere alla base anche della characteristica universalis di Leibniz.

52 «Se voglio capire qualcosa della natura, allora con la mia spiegazione non debbo uscire dalla natura. Se voglio capire la natura nel suo complesso allora debbo essere al di fuori dei suoi limiti [Grenzen]». KGS XVII, p. 375; Refl. 3980 (1769). Oppure, più in generale: «Cerco in un intelletto, che ha bisogno di regole, la conoscenza di queste stesse regole: questo è paradossale». KGS XVI, p. 28; Refl. 1592 (1764-1777).

53 KGS XV, p. 186; Refl. 451 (1772-1778).

54 KGS XVII, p. 559; R 4458 (1772). «Wir haben von der metaphysik als von einem unbekannten Lande, auf dessen Besitz wir bedacht sind, zuerst die (g Lage und) Zugänge fleißig Untersucht. (Es liegt in der (g Gegend) Halbkugel der reinen Vernunft😉 wir haben so gar den Umris davon gezogen, wo diese Insel der [Erkennt] von Erkenntnis [an das] mit dem Lande der Erfahrung durch Brücken zusammenhangt, oder wo sie durch ein tiefes Meer davon abgesondert ist; wir haben so gar den Umris davon gezeichnet und kennen gleichsam die geographie (g ichnographie) desselben, wissen aber noch nicht, was in diesem Lande, welches einige vor unbewohnbar vor menschen gehalten, andre als ihre wirkliche Niederlassung angesehen haben, angetroffen werden möge. Nach dieser allgemeinen Geographie dieses Vernunftlandes wollen wir die allgemeine Geschichte desselben in Erwegung ziehen».

55 Cfr. la citazione data per esteso supra nota n. 35. J. Locke, An Essay Concerning Human Understanding, I, 1, § 7; The Works cit., vol. I, p. 6.

56 KrV B 880-884/A 852-856; trad. it., pp. 821-824.

57 KrV B 880/A 853; trad. it., p. 821.

58 La famosa dichiarazione del debito di Kant verso Rousseau non serve solo a stabilire temporalmente quando Kant ha scoperto cosa voglia dire per lui essere filosofo, ma anche il valore del ruolo architettonico della ragione pratica, che ha la dimensione essenzialmente storica di una scoperta che l’umanità deve fare: «Io stesso sono per inclinazione un indagatore. Sento tutta la sete di conoscenza e l’avida inquietudine di progredire in essa, ma anche l’appagamento per ogni conquista. C’era un tempo in cui credevo che ciò potesse da solo costituire l’onore dell’umanità e disprezzavo il volgo che nulla sa. Rousseau mi ha messo a posto. Questo primato abbagliante scompare, imparo a onorare gli uomini e mi riterrei più inutile di un comune lavoratore se non credessi che questa considerazione possa dare a tutte le altre un valore, e realizzare i diritti dell’umanità». KGS XX, p. 44; trad it. in Bemerkungen. Note per un diario filosofico, a cura di K. Tenenbaum,Roma, 2001, p. 85. Per l’importanza architettonica della misologia roussoviana, pari solo a quella del dubbio humiano, cfr. H. Hohenegger, Kant filosofo dell’architettonica cit., p. 39 ss.

59 «La filosofia dell’ignoranza è molto utile, ma anche difficile perché deve andare fino alle fonti della conoscenza». KGS XVIII, p. 36; Refl. 4940 (1778).

60 Si comprenderà, a questo punto, che le metafore spaziali e temporali sono state qui prese in considerazione in quanto non sono pure metafore. Infatti, l’istanza sistematica (coerenza, compiutezza e interdipendenza delle parti) che è espressa sia dal mappamondo delle scienze sia dalla sfera della ragione sembra essere legata alla spazialità in modo non accidentale. Mentre l’istanza della progresso nelle conoscenze e la storicità della stessa ragione fanno riferimento alla processualità e contingenza temporale, di ciò che ha inizio e fine. Rimando alla nozione esplicitata nella voce Spazialità che Emilio Garroni ha scritto per l’Enciclopedia Einaudi (Enciclopedia, 14 voll.,Torino, 1977-1981, vol. XIII, Torino, 1981, pp. 244-272), ripresa poi nel saggio Comprendere e narrare, in E. Garroni, L’arte e l’altro dall’arte, Roma-Bari, 2003. In quest’ultimo saggio spazialità e temporalità sono opposte come condizioni formali del linguaggio, una del comprendere e l’altra del narrare. Questa distinzione non serve a classificare i testi in filosofici (o critici) e narrativi, ma a cogliere le condizioni formali sia della comprensione dell’unità di senso di un testo (e dell’esperienza correlata) sia della temporalità che, pur non essendo già contraddizione, contiene però la possibilità del non senso (non essere già da sempre, poter non essere); ovvero contiene il dover essere del senso che, in Kant, contraddistingue l’elemento noumenico, anche del sistema filosofico, come o orizzonte di senso o Aufgabe.

 

 

Lorenzo Scillitani

Spazio geografico e antropologia filosofico-sociale.
Riflessioni a partire da Kant

  1. La Geografia di Kant

Immanuel Kant è noto per essere stato un grande filosofo. È meno noto per essere stato uno studioso, e un docente, di geografia, all’ insegnamento della quale Kant dedicò un numero di corsi (49) maggiore di quelli dedicati all’etica (46), all’antropologia (28), alla fisica teorica (24), alla matematica (20), al diritto (16), e minore soltanto rispetto a quelli dedicati alla logica e alla metafisica (54). Dal 1756 al 1796 il pensatore di Königsberg «perse il suo tempo» (come si poté leggere nella pagina culturale di uno dei principali quotidiani italiani di qualche anno fa, che registrava con malcelato disappunto l’iniziativa editoriale di tradurre la Geografia fisica kantiana in francese)1 a insegnare una disciplina che, nelle sue dichiarate intenzioni, doveva costituire una propedeutica alla conoscenza del mondo2. Risale al 1811 l’unica traduzione italiana delle lezioni che furono raccolte dagli allievi di Kant in circa 40 anni. Oltre due secoli più tardi, è stata riproposta, in una nuova versione, sollecitata dall’edizione francese del 1999, e verificata sulla base del testo originale dell’edizione critica del 19683, l’Introduzione alla Geografia, redatta nel 1776, e autorizzata dallo stesso Kant nel 1802 (a cura di Rink)4. L’interesse a sottoporla nuovamente all’attenzione del lettore italiano è stato motivato non tanto da una mera curiosità storico-filologica quanto dall’attualità di una urgenza scientifico-culturale e insieme formativa, che merita di trovare appropriati canali e modalità di espressione. Si tratta infatti di riscoprire la portata innovativa della lettura kantiana della geografia, a livello sia speculativo sia didattico.

A livello conoscitivo, il contributo della geografia nell’istruire la ragione è dettato dalla sua capacità di attingere dall’esperienza gli elementi che formano le fonti della conoscenza del mondo, come Kant ha cura di rilevare proprio nella sua Introduzione, di carattere propedeutico piuttosto che enciclopedico. Questa attitudine, che la geografia condivide con l’antropologia5, impegnata a elaborare la conoscenza degli uomini, alimenta per Kant la vera filosofia, la quale «consiste nel seguire la diversità e la varietà di una cosa attraverso tutte le epoche» 6. Diversità e varietà sono le caratteristiche di prima evidenza, e di prima approssimazione, che la moderna antropologia culturale coglie nei fenomeni dei quali si occupa. Il Kant professore di geografia, e geo-filosofo7 ante litteram, ritiene di poter individuare nella geografia (intesa nella sua valenza descrittiva e rappresentativa di luoghi, terre e mari, e dei loro confini, proiettati in uno scritto) un fattore decisivo di identificazione di elementi conoscitivi che si mostrano già carichi di significati filosofici.

A livello pedagogico, Kant si fa consapevole promotore, oltre che originale interprete, di una disciplina destinata ad attivare negli allievi l’interesse a formarsi una idea di prima approssimazione di che cos’è e di come è fatto realmente il mondo nel quale vivono: a titolo fortemente esemplificativo, la lettura dei giornali implica, secondo Kant, una nozione estesa della superficie terrestre, alla quale soltanto la geografia può dare forma e rilievo specifici. La globalizzazione, prefigurata dal pensatore tedesco nei termini di un cosmopolitismo8 al quale l’umanità tenderebbe per il semplice fatto di abitare un pianeta di forma sferica che avvicina gli uomini tra di loro, è un fenomeno che presuppone l’acquisizione di dimensioni eminentemente geografiche dello spazio9, e come tale si connota intensamente per i suoi aspetti geo-politici e geo-economici. In tal senso, quando Kant riconosce che è la geografia a fondare la storia, «poiché gli avvenimenti debbono pure rapportarsi a qualcosa»10, evoca il potenziale esplicativo, e insieme educativo, di un primato – o comunque di una specificità – della geografia, in quanto scienza a un tempo fisica, matematica, morale (declinata in un linguaggio dell’epoca che recepiva l’istanza di una sorta di geografia dei costumi, oggi declinabile magari in antropologia geografica11, o in geografia culturale), politica, economica, letteraria, religiosa: ovvero scienza della natura e al contempo, in senso prettamente umanistico, scienza della cultura, della società, del diritto. Occidente, Oriente, Nord, Sud, Europa, prima di essere categorie politico-culturali storicamente determinate, corrispondono a espressioni specificamente geografiche, legate a coordinate e a conformazioni ambientali che in quanto tali vanno studiate e pensate, nel presupposto che lo stesso pensiero, filosofico e scientifico, è portatore di una esigenza di orientamento che lo stesso Kant ha avuto cura di evidenziare12.

Orientarsi nell’estensione, e nella profondità, geospaziale del paesaggio umano è il compito che l’Introduzione alla geografia di Kant si è assunto, e che vale la pena riprendere, nella prospettiva di una più articolata rivitalizzazione, come di una più efficace ricollocazione, di una disciplina ingiustamente negletta, che oggi più che mai si impone come necessaria e imprescindibile, e quindi in tutti i sensi utile, per un sapere umanistico e scientifico integrato nei suoi molteplici aspetti epistemologici e metodologici. 224

  1. Fattori geografici e dimensioni storiche di una antropologia giuridico-politica filosoficamente orientata

Dalla ripresa del Kant speculativamente (a torto) considerato “minore”, ma a pieno titolo (almeno pedagogicamente) “maggiore”, delle lezioni sulla geografia si può essere autorizzati a trarre alcune deduzioni, relativamente all’elaborazione delle linee di una antropologia sociale filosoficamente impostata, e orientata in senso giuridico e politico.

Ogni pensiero filosofico, in quanto storicamente e culturalmente determinato, è anzitutto geograficamente collocato: geo- linguisticamente localizzato, dimensionato e condizionato. Il pensiero greco, ad esempio, veicolato dalla lingua greca, corrisponde a una latitudine prossima al pensiero degli statisti e giuristi romani (per riprendere una sintetica definizione di Jaspers), veicolato dalla lingua latina, ma ne resta, in via più o meno accentuata, distinto. Esso resta greco anche quando, a tratti, riappaia in pensatori che greci in senso anagrafico non sono, come per esempio Heidegger. Analoga impronta non sembra, a livello filosofico, essere ravvisabile in autori cronogeograficamente riconducibili all’ epoca in cui Roma ha dettato la sua legge al mondo euro-mediterraneo. Di nessun pensatore si dice che sia espressione di un modo filosoficamente latino di pensare13. Il pensiero canonizzato come occidentale è, a sua volta, per definizione ambientato in un contesto  che lo qualifica in base ad una determinazione geografica, quali sono i punti cardinali. Ma altrettale discorso può farsi per il pensiero europeo in generale 14?

L’incertezza nell’individuare fonti geografiche del filosofare, come nel caso della Magna Graecia, geograficamente situata nell’Italia meridionale costiera, potrebbe peraltro far propendere – come in effetti è troppo spesso accaduto – per un sottodimensionamento dell’elemento geografico, anticamera di una sua sottovalutazione. Ma la problematicità legata all’enucleazione delle coordinate geografiche del formarsi di una civiltà, anche in senso filosofico, lungi dall’essere di ostacolo all’approfondimento del tema in discussione, potrebbe rivelarsi una insospettata risorsa. Si è dovuto aspettare che non un filosofo dichiarato ma un antropologo, come Claude Lévi-Strauss, distribuisse i libri della sua biblioteca personale sulla base dell’ appartenenza dei loro autori, o dei temi trattativi, alle varie zone geografiche della Terra, perché ci si rendesse conto della portata decisiva che il punto di riferimento spazialmente individuato sviluppa accanto ai consueti punti di riferimento storico-evolutivi, largamente prevalenti nell’organizzazione delle enciclopedie piuttosto che nelle  trattazioni sistematiche di carattere umanistico o scientifico. Il tentativo di riprodurre in un microcosmo domestico il macrocosmo terrestre delle culture umane riflette la struttura stessa dell’universo delle civiltà, dei popoli, delle lingue, che si dà come un universo geografico.

Certo, la geografia non è solo cartografia. Per estensione, non abusiva, dei significati connessi al termine qui in esame, tutto ciò che è mappatura (si pensi alla mappatura del genoma) procede da un modo di immaginare, percepire, pensare la realtà su di una superficie abitata da significati rappresentabili secondo dimensioni di estensione, e di profondità, e di relative angolature, che non si risolvono in determinanti storico-temporali. La chiave di lettura geografica dei fenomeni culturali consente di attivare la percezione delle loro costanti, trans-storiche e trans-culturali, che un’ottica puntata sulla Storia tende fatalmente a eludere. Ciò sembrerebbe possibile in virtù della peculiare attitudine della geografia, che è scienza dell’uomo e al tempo stesso della natura, a fornire una descrizione di fenomeni naturali suscettibili di essere letti alla luce di leggi fisiche, matematiche. La sovradeterminazione (para) storicistica dei fenomeni culturali ha oscurato le caratteristiche e le risorse di questa attitudine, che mette in condizione di legare la particolarità di un fenomeno a leggi generali.

L’esperienza giuridica, a questo riguardo, offre un interessante piano di riscontro: nei limiti in cui registra e realizza un accesso al mondo degli oggetti – per esempio i beni, oggetto di possesso o di proprietà – che corrispondono a dati di fatto in una certa misura incontrovertibili (quel suolo, come pure quella cosa mobile), essa condivide con la geografia il rispetto dell’elemento naturale nella sua particolarità, generalizzata sotto forma di legge. La stessa esperienza politica, nei termini in cui comporta una qualche sia pur approssimativa corrispondenza tra grandezze di ordine fisico (isole, penisole, spazi delimitati da corsi d’acqua o da barriere naturali), è indice di elementi non interamente storicizzabili: una nazione procede da un atto di nascita certificabile in riferimento a una localizzabilità più o meno precisa, spesso di ascendenza ancestrale. I popoli nomadi, semi-nomadi o stanziali sono qualificati come tali sulla base di un riferimento, meno o più definito, allo spazio geografico nel quale si muovono, o viceversa si radicano. Un’entità etnica non può inventarsi per un atto arbitrario, perché non può prescindere dalle pianure, dalle foreste, dai monti nei quali si è forgiato il suo primo prender forma. Non si sottrae a questa valenza in qualche maniera nomo-grafica della geografia neppure l’esperienza economica, a misura che procede dalla raccolta e dalla selezione di materiali relativi a risorse del suolo, o del sottosuolo, che costituiscono la materia della gestione e dello sviluppo stesso dell’economia.

Qualcosa come una statica sociale15, risultando intrinseca al complesso dell’esperienza sociale umana in generale, almeno nelle sue declinazioni giuridica, politica, economica (per tacere della sacrale-religiosa), si mostra quindi caratterizzata dall’incidere essenziale di fattori non riducibili alla storicità dei fenomeni culturali. Nella prospettiva di una statica sociale ampiamente documentata dalle ricerche antropologico-culturali, può articolarsi una fenomenologia di tutti quegli aspetti della socialità umana che non si risolvono in sequenze di eventi o di epoche. Tutto ciò che è rito, costume, uso, tradizione introduce una dimensione ciclico-ripetitiva nel flusso temporale, determinando una scansione degli avvenimenti che rispecchia il succedersi delle stagioni. Lì dove la Storia concentra, fino al dettaglio, bruciando le possibilità che non si dischiusero nell’episodicità di un evento, la geografia dilata, perché custodisce la necessità sulla base della quale nuovi mondi e nuove forme di vita possono emergere: sulla superficie terrestre può costruirsi una civiltà, che poi decade fino a ridursi in macerie, ma il fondo tellurico che l’ha vista sorgere, crescere e infine declinare resta. E le radici di quell’albero penetrano in inesplorate profondità, che forse solo una geografia dell’inconscio potrebbe sondare.

In quanto stratigrafia, la geografia sta lì a ricordare, a significare, che il volere e il potere umani incontrano un limite: in questo senso, la geografia dà una costante lezione di realismo. Il viaggio che essa apre è un percorso attraverso luoghi, della natura e dello spirito, che, nella loro costitutiva dimensione di realtà, impediscono all’esistenza umana storica – quale viaggio nel tempo – di percepirsi come un fluttuare abbandonato al caso. In quest’ottica, la geografia ridà senso e significato a un Paese che sia anche, o meglio in primo luogo, una patria rispetto alla quale anche il senza patria trovi posto, ovvero ritrovi la sua dignità, e le sue prerogative, di cittadino. Un non-luogo16, in tal senso, restando una pura ipotesi, si annuncia come il prodotto di una pretesa storicistica assoluta di prescindere dal dato di fatto geografico, nella supposizione, tutta da verificare, che l’uomo sia in ultima analisi cultura, e non anche natura. Invero, nella misura in cui la geografia umana reca le tracce, talora monumentali, di passaggi al limite, non solo tra natura e cultura, ma anche tra queste e la sopranatura, non si dà genuina geografia fisica che non si atteggi, in qualche modo, a geografia metafisica, ipotizzabile ove si consideri che l’anima di certi luoghi fa da punto di orientamento di culti, scelte, decisioni, talora di forte valenza politica (si pensi alle “terre sante”, o promesse, per le quali, talvolta metro dopo metro, ancor oggi si lotta senza tregua).

L’abitare stesso (in senso heideggeriano), del resto, è sempre stato – come dimorare – un fenomeno strettamente legato ad aspetti sia materiali sia immateriali, o spirituali in senso lato: la sacralità di una sorgente, o di una montagna, rende l’idea di una geo-metafisica nella quale il pensiero umano si trova impegnato fin dai primordi. I riti di sepoltura simboleggiano, in particolare, la riassunzione nel grembo materno ctonio di un essere che pure se ne è staccato per vincere, quando non per tentare di annullare le stesse distanze spaziali (come nell’esperienza della ipertelecomunicazione odierna). A questa postura metafisica della geografia non è estranea la stessa categoria estetica di bellezza, che ritrae proprio dal naturale (bellezza naturale) la fecondità di canoni consacrati nella grande arte, in particolare quella figurativa.

Una antropologia filosofica non può pertanto evitare di considerare l’uomo come ente che descrive la terra, che scrive sulla terra, e con la terra, ma con ec-centramento dalla terra che lo rende ultimamente sovraterrestre nelle sue conclamate manifestazioni di ordine spirituale. Non sarebbe attestazione dell’umano una geografia che non fosse capace di ricomprendere nel suo ambito la posizione singolarmente eccezionale dell’uomo: anzi, che si dia qualcosa come una geografia sta ad indicare che vi è all’opera un soggetto di pensieri e di atti che ha bisogno, per ri-trovarsi, proprio del dimensionamento e della strutturazione geografici, quali ad esempio si evidenziano nella matrice geo-mitica dell’identità dei popoli senza scrittura17.

L’integrazione dell’antropologia con la geografia rende possibile la formulazione di un sapere che metta a tema le componenti naturali (biologiche e geografiche) dell’umano, rinviandole a un livello nel quale si produce una pre-comprensione di strutture portanti dei processi culturali e sociali, ivi compresi quelli attinenti all’etica, al diritto, alla politica, all’economia, alla religione. Se è vero che l’uomo è un ente storico, nel senso che la sua esistenza si concepisce come eminentemente storico-culturale, in divenire, è altrettanto vero che è inseparabile dall’autorappresentazione individuale e collettiva dell’uomo la dimensione geo-naturale, che attesta il suo essere-nel-mondo come essere in un mondo, sotto quel cielo.

Una antropologia filosofico-sociale (nel senso, comprensivo, di filosofico-giuridica e filosofico-politica) è tanto più avvertita di questa necessaria integrazione quanto più assume a tema delle sue analisi e delle sue interpretazioni l’insieme del fenomeno sociale umano: sia come storia sia come geografia del sociale. Le conoscenze che l’antropologia culturale, con la paleontologia, ha acquisito ci mettono in condizione di confrontarci con una durata della specie umana rispetto alla quale la fase assunta come storica corrisponde a un lasso di tempo minimo, estremamente significativo per i contemporanei, ma trascurabile se rapportato all’intero arco temporale dell’esistenza del genere umano sulla faccia della terra. Il complesso della vicenda umana richiede un approccio geo-sociale di portata esplicativa almeno pari a quella tradizionalmente sviluppata dall’approccio storico-sociale. Ne va della possibilità stessa di intendere umanisticamente il fenomeno umano, superando l’equivoco di scambiare la Storia per una scienza. Se proprio di scienza umana deve trattarsi, questa deve farsi carico di tutti gli elementi fondamentali che richiedono di essere conosciuti, e valutati. La temporalizzazione dell’elemento umano non può fare a meno di reagire sul piano nel quale, prima di qualsiasi “progetto” o di qualsiasi “costruzione”, l’uomo si dà a conoscere: come un essere-nello-spazio18.

La rappresentazione della socialità umana di base come una rete di relazioni che si inscrivono in filiazioni (livello giuridico-familiare) e in alleanze (livello politico) richiede, per essere elaborata filosoficamente, una lettura antropologico-sociale che filtra una vera e propria geografia sociale, non metaforica ma reale come possono essere reali i simboli che la esprimono, su di un piano mitico-fondativo che l’antropologia strutturale di Lévi-Strauss ha tradotto in formule di precisione geometrica. La rappresentazione del sociale, presso l’umanità di tutte le latitudini geoculturali, ha preso inizialmente la forma di una planimetria, ovvero di un disegno dello spazio relazionale (tra individui e tra gruppi) che ha preceduto qualsiasi progetto di edificazione puntato su traguardi storici. In questo senso – nella ricostruzione di un percorso, e con un filo logico, che da Kant giunge a Lévi-Strauss – la geografia ha preceduto e fondato la Storia, costituendo la pre-condizione di qualsiasi formazione storico-umana. Se dunque di un primato si tratta, questo primato è documentabile antropologicamente, prima di potere, e di dovere, essere filosoficamente argomentabile.

Una prima implicazione del primato quanto meno fenomenologico (se non proprio ipotizzabile come onto-fenomenologico) dell’elemento geo-umano sta nell’ipotizzare la preesistenza della geo-strutturazione delle forme associative umane rispetto all’articolazione dialettica che mette in moto i processi registrabili come storici. Una seconda implicazione sta nel congetturare che la geostrutturazione del tessuto socio-umano di base precorre, prefigura e preforma il cristallizzarsi di determinati processi in istituzioni, le quali si danno già come stabilizzazione, più o meno duratura, di una dinamica sociale19. La stessa tendenza inerziale delle istituzioni umane a durare nel tempo, malgrado contraddizioni e contestazioni di vario genere, riflette un ancoraggio meta-storico, che ritrae dalla geografia, lato sensu intesa, cioè terrestre, ctonia, cosmica, le immagini che veicolano i significati di saldezza, sicurezza, perennità. È vero che l’orografia e la stessa topografia sono soggette a mutamenti, ma generalmente nel lungo, anzi lunghissimo periodo: la persistenza dei caratteri salienti della conformazione di un territorio, della dolcezza o della durezza delle sue condizioni climatiche, offrono la prima modalità di espressione di un’invarianza categoriale, la quale si traduce in strutture fondamentali che, resistendo al mutamento, rendono al tempo stesso possibile la tensione dialettica da cui si sprigionano le forze che portano a superare, in parte o in tutto, le forme istituzionali consolidate. Il conflitto, da interpretare, in questa prospettiva, quale espressione più intensa del dinamismo sociale, generatore di Storia, deve il suo sorgere alla solida resistenza che gli oppone la spessa coltre del suolo che esige di essere curato, conservato e perpetuato, prima di essere magari sfruttato.

Il substrato geo-socio-grafico della statica sociale, che si annuncia quale fattore di comunicazione e di coordinazione tra individui, maschili e femminili, e tra gruppi di individui, corrisponde alla spazializzazione di questi rapporti, traducendosi in geografia giuridica delle parentele e delle filiazioni, e in geografia politica delle alleanze. La pre-incidenza dell’elemento geografico così declinato, sul piano giuridico-e-politico, relativizza il dato storico a punti di riferimento, a veri e propri assi cardinali non suscettibili di ulteriore dialettizzazione: i rilievi possono essere spianati, i passi possono essere attraversati, le rive dei fiumi possono essere collegate da ponti, uomini e donne possono simbolizzare in molteplici maniere le loro differenze, fin quasi a sovvertirle, ma il cambiamento di una situazione geografica, o di una geo-istituzionale, sarà sempre relativo a una permanenza, comunque percepita o elaborata, o anche semplicemente sottintesa. La dis-continuità del mondo umano storico rispetto a quello naturale non è assoluta proprio perché quel mondo resta mondo, cioè uno spazio che dipende da un orizzonte non ulteriormente superabile, anche quando venga proiettato nella dimensione ultra-mondana della sopranatura.

Le nominazioni di parentela, inquadrate nei sei sistemi di parentela a tutt’oggi noti20, formano l’atlante geografico dei sistemi sociali di base, che a loro volta costituiscono l’ordito attorno al quale vengono a strutturarsi gli insiemi sociali degli altri aggregati umani rilevanti sui piani geografico (dal villaggio ai nuclei abitativi più complessi), geo-sociologico (dalla famiglia al clan alla tribù), geo-antropologico (gruppi umani etnicamente o linguisticamente identificabili). Al pari di un atlante storico, che ripercorre le diverse fasi di sviluppo delle civiltà umane, la carta geografica delle nomenclature di parentela offre un quadro sufficientemente illustrativo di che cosa significa una statica sociale, tema di una scienza antropologica piuttosto che di una storia sociale, impegnata con la storia della famiglia, e delle unità sociali più estese, con specifico riguardo ai rapporti di sovraordinazione/subordinazione che innescano la dinamica sociale dei rapporti di forza e di potere.

Il punto è che, finora, la fenomenologia filosofica dei principi di messa in forma dell’archeo-socialità umana è stata pressoché interamente assorbita dalla rappresentazione storico-dialettica delle dinamiche, evitando di sostare nel riconoscimento che i principi di organizzazione della socialità umana dipendono da assi geo-antropologicamente pre-ordinati: sistemi elementari socio-familiari-parentali strutturati già attorno a categorie giuridiche. Una presa d’atto, e di coscienza, di segno filosofico dovrebbe partire dall’acquisizione che, se il politico vanta sicuramente un primato a livello storico-storiografico, il giuridico può vantare un primato a livello antropo-geografico. Una geografia filosofica, anche nelle sue declinazioni filosofico-giuridica e filosofico-politica, capace di restituire allo spazio tutto lo spessore ermeneutico che il primato attribuito al tempo storico gli ha sottratto, potrebbe in tal senso offrire un utile contributo introduttivo all’elaborazione di una complessiva antropologia filosofica della socialità umana.

Con la globalizzazione21, inaugurata da tesi sulla fine della Storia che, attualizzando la lezione hegeliana22, sembravano aver “fermato” il tempo, lo spazio annunciava di essersi ripreso le sue prerogative: la controtendenza storico-politologica alla focalizzazione degli scontri di civiltà23, pur rimettendo in gioco una filosofia della cultura imperniata su categorie temporali ben definite, ha peraltro mostrato che, al di là di geo-localismi più o meno accentuati, mai come oggi la politica dipende dalla geografia, della terra ma, forse oggi più che mai, anche del mare24. Perché, in una certa misura, è la stessa Storia a dipendere dalla geografia, sia questa intesa in senso strettamente scientifico, sia questa reinterpretata come geografia filosofico-sociale, indice di un significativo nesso di dipendenza della stessa geopolitica da un geo-diritto25 tutto da indagare, e da interrogare e approfondire nelle sue possibili valenze teoretiche.

 

Note

1 I. KANT, Géographie, trad. fr. a cura di M. Cohen-Halimi, M. Marcuzzi e V. Seroussi, Aubier, Paris 1999. Per una prima presa di contatto con questa edizione francese si rinvia alla lettura di I. LABOULAIS-LESAGE, La Géographie de Kant, in “Revue d’Histoire des Sciences Humaines”, 2 (1/2000), pp. 147-153.

2 A Kant (il quale dimostrava in tal modo quanto prendesse sul serio l’ampliamento del proprio modo di pensare; cfr. H. ARENDT, Teoria del giudizio politico, trad. it. P.P. Portinaro, il Melangolo, Genova 2005, p. 70) si deve di essere stato il primo filosofo a impartire corsi universitari di geografia, ancor prima dell’assegnazione della prima cattedra di geografia a Carl Ritter (Berlino, 1820; cfr. M. MARCUZZI, Introduction a I. KANT, Géographie, ed. cit., p. 11). Sulla geografia kantianamente intesa quale propedeutica alla scienza e alla vita si rinvia in particolare a A.-L. SANGUIN, Redécouvrir la pensée géographique de Kant, in “Annales de Géographie”, 576 (1994), p. 144. 222

3 Il Corso di Physische Geographie è stato pubblicato nel 1902 dall’Accademia prussiana delle Scienze, ed editato nel tomo IX, pp. 151-436, dei Kants Werke. Logik, Physische Geographie, Pädagogik (de Gruyter, Berlin 1968).

4 La versione italiana della Einleitung kantiana della quale trattasi, curata da L. Scillitani con la collaborazione di S. Nienhaus, è stata pubblicata, col titolo Geografia fisica, in A. LANDOLFI (a cura di), Geografia: dalla ricerca alla didattica. Due autori a confronto, Università degli Studi del Molise, Campobasso 2013, pp. 21-30.

5 Cfr. I. KANT, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, F. Nicolovius, Königsberg 1798; trad. it. G. Vidari e A. Guerra, Antropologia pragmatica, Laterza, Roma-Bari 1985. Se la conoscenza del mondo «ha lo stesso significato di antropologia pragmatica (conoscenza degli uomini)» (M. HEIDEGGER, Vom Wesen des Grundes, Klostermann, Frankfurt a.M. 1955, p. 31; trad. it. P. Chiodi, L’essenza del fondamento, in ID., Essere e tempo – L’essenza del fondamento, Utet, Torino 1978, p. 655), proprio dalla conoscenza del mondo che si esprime nella geografia fisica «sorgeranno quegli interrogativi che spingeranno Kant ad impostare un autonomo corso di antropologia, dopo aver preparato un testo (Urtext) nel 1759 di geografia ed aver ampliato il campo di indagine della geografia stessa, che dev’essere anche morale e politica oltre che fisica» (I.F. BALDO, Kant e la ricerca antropologica, in AA.VV., Il problema dell’antropologia, Editrice Gregoriana, Padova 1980, p. 75).

6 I. KANT, Geografia fisica, ed. cit., p. 27.

7 La geofilosofia alla Deleuze o alla Cacciari non ha tuttavia a che vedere con l’orizzonte al quale l’approccio kantiano rinvia. Piuttosto valgono, in questa sede, le riflessioni di O. DEKENS, D’un point de vue géographique sur la philosophie kantienne, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, 2 (1998), pp. 269-272. In ogni caso, per un ampliamento geofilosofico della tematica qui trattata si rinvia, oltre che ai testi consultabili nel sito http://www.geofilosofia.it, a L. BONESIO-C. RESTA, Intervista sulla Geofilosofia, a cura di R. Gardenal, Diabasis, Reggio Emilia 2010; L. BONESIO, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano 20012; ID., Oltre il paesaggio. I luoghi tra estetica e geofilosofia, Arianna, Casalecchio 2002; ID., Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, Diabasis, Reggio Emilia 2007; A. BERQUE, Médiance de milieux en paysages, Belin, Paris 1990; ID., Être humains sur la Terre, Gallimard, Paris 1996; I., Ecoumène: introduction à l’étude des milieux humains, Belin, Paris 2009; F. FARINELLI, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, Torino 2003; ID., La crisi della ragione cartografica, Einaudi, Torino 2009; ID., L’invenzione della Terra, Sellerio, Palermo 2007.

8 Attirano l’attenzione sul nesso essenziale tra geografia e cosmopolitismo in Kant le considerazioni di J.-M. BESSE, La philosophie et la géographie, in Encyclopédie Philosophique Universelle, diretta da J.-F. Mattéi, PUF, Paris 1998, p. 2553.

9 Su di una prima configurazione del tema dello spazio in Kant si veda, di questo, Von dem ersten Grunde des Unterschiedes der Gegenden im Raume, in “Königsberger Trag- und Anzeigungsnachrichten”, 6-8 (1768); trad. it. R. Assunto, R. Hohenemser e A. Pupi, Sul primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio, in ID., Scritti precritici, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 409-418.

10 I. KANT, Geografia fisica, ed. cit., p. 27.

11 Sulla natura pragmatica della geografia kantiana attira l’attenzione M. TANCA, Geografia e filosofia, Franco Angeli, Milano 2012, p. 40.

12 Cfr. I. KANT, Was heisst sich im Denken orienieren?, in ID., Gesammelte Schriften, de Gruyter, Berlin-Leipzig 1902; trad. it. P. Dal Santo, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1996.

13 Per una diversa lettura del tema cfr. però S. MASO, Filosofia a Roma. Dalla riflessione sui principi all’arte della vita, Carocci, Roma 2012.

14 Cfr. R.B. ONIANS, Le origini del pensiero europeo, trad. it. P. Zaninoni, a cura di L. Perilli, Adelphi, Milano 1998.

15 Per quanto desueta nell’omologo significato di “sociologia statica” (cfr. L. GALLINO, Statica sociale, in Dizionario di sociologia, Istituto Geografico De Agostini, Novara 2006, vol. 2, pp. 476-478), questa espressione meriterebbe di essere rivisitata, al di là di riduzionismi sociologici, in sede specificamente antropologico-filosofica. 226

16 Cfr. M. AUGÉ, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, trad. it. D. Rolland e C. Milani, Elèuthera, Milano 2009.

17 Circa gli itinerari del sogno presso gli Aborigeni australiani studiati da Freud, sulla base delle ricerche di James Frazer, cfr. B. GLOWCZEWSKI, Du rêve à la loi chez les Aborigènes, PUF, Paris 1991.

18 A una meditazione complessiva, in chiave fenomenologica, sulle componenti simboliche di questo dimensionamento antropo-geografico rimanda la lettura di E. DARDEL, L’uomo e la terra. Natura della realtà geografica, trad. it. C. Copeta, Unicopli, Milano 1986, sul quale vedasi C. COPETA, Il mio incontro con Dardel (ovvero perché sono geografa!), in E. DARDEL, L’uomo e la terra, ed. cit., pp. 201-223. Più in generale, sul tema della spazialità, si rinvia alla omonima voce dell’Enciclopedia Einaudi (Torino 1981, vol. 13, pp. 244-272), redatta da E. GARRONI.

19 Per la dinamica sociale, o sociologia dinamica, vale quanto detto supra, nella n. 14, a proposito della statica sociale (cfr. L. GALLINO, Dinamica sociale, in Dizionario di sociologia, ed. cit., vol. 1, pp. 414-417).

20 L’elenco formato dagli etnologi annovera i seguenti sei sistemi: eschimese, hawaiiano, irochese, crow, omaha, sudanese. Su questo impianto le società umane strutturano il loro assetto in quanto reti di parentele.

21 Sulla difficoltà di definire i processi di globalizzazione nella prospettiva della de-territorializzazione, cfr. in particolare S. SASSEN, Né globale, né nazionale; la terza dimensione dello spazio nel mondo contemporaneo, in “il Mulino”, 6 (2008), pp. 969-979.

22 Cfr. F. FUKUYAMA, La fine della storia e l’ultimo uomo, trad. it. D. Ceni, Rizzoli, Milano 1992. Più in generale sui rapporti fra geografia e Storia in Hegel si rinvia a P. ROSSI, Storia universale e geografia in Hegel, Sansoni, Firenze 1975. Peraltro, nella misura in cui i Fukuyama o gli Huntington continuano, insieme con molti altri, a porsi il problema della definizione del ruolo dello spazio e dei fattori geografici nella Storia mondiale nei termini delle forme di vita politica che coincidono con Stati, si è portati, almeno in questo senso, ad essere ancora hegeliani (cfr. M. TANCA, Geografia e filosofia, ed. cit., pp. 74-75).

23 Cfr. S.P. HUNTINGTON, Lo scontro di civiltà?, trad. it. S. Pighini, in ID., Ordine politico e scontro di civiltà, a cura di G. Pasquino, il Mulino, Bologna 2013, pp. 273-301.

24 F. ROSENZWEIG, Globus. Studien zur weltgeschichtlichen Raumlehre, in ID., Der Mensch und sein Werk. Gesammelte Schriften, vol. III: Zweistromland. Kleinere Schriften zu Glauben und Denken, Martinus Nijhoff, Dordrecht-Boston-Lancaster 1984, p. 348; trad. it. S. Carretti, Globus. Per una teoria storico-universale dello spazio, a cura di F.P. Ciglia, Marietti 1820, Genova-Milano 2007, p. 83. Sulle “vendette” che la geografia, ogni tanto, si prende sulla politica – da Napoleone a Hitler, fino ai nostri giorni –, può essere illuminante la lettura di R. KAPLAN, The Revenge of Geography, in “Foreign Policy”, maggio/giugno 2009.

25 Sui significati e sull’uso di questo neologismo si rinvia agli esordi sull’argomento in N. IRTI, Geo-diritto, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, 1 (2005), pp. 21-37.

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Kant grande geografo

La traduzione della Geografia fisica di Kant impegnò August Eckerlin a lungo: i sei volumi vennero pubblicati in successione tra il 1807 e il 1811.

Come apparve subito chiaro, si trattava di un lavoro importante, ma privo di uno sforzo di sistematizzazione che avrebbe potuto e dovuto facilitarne la lettura e la consultazione. Questo è poi il motivo principale per il quale all’edizione Vollmer (su cui si basò Eckerlin per la traduzione italiana) si è sempre poi preferita in seguito quella, più snella, curata da Theodor Rink. Per tutte le questioni annesse alla vicenda editoriale si può ora vedere il vol. 26.1 delle Kant’s gesammelte Schriften che contiene le lezioni sulla geografia fisica curate da Werner Stark in collaborazione con Reinhard Brandt (Berlin-New York, de Gruyter, 2009).

Nel 1816 Lorenzo Nesi, abate toscano all’epoca impegnato a Milano in attività di insegnamento, pubblica una Storia fisica della terra espressamente compilata «sulle tracce della Geografia fisica di Kant», con l’intento dichiarato di procedere a una riorganizzazione delle sparse osservazioni ricavate dagli appunti degli studenti proposte nell’edizione Vollmer.

Il più conosciuto fra i moderni, che siasi esclusivamente occupato di questa scienza importante, è stato il Sig. Kant, Professore celeberrimo dell’Università di Koënisberga, che tanto onore ha procurato al Secolo XVIII, alla repubblica letteraria, ed alla dotta sua patria. Se in quest’opera fosse egli stato meno ambizioso d’originalità, e più ordinato nella distribuzione delle materie, potrebbe questa a ragione riguardarsi come l’unica classica in questo genere, poichè nè i Malthebrun, nè i Pinkerton, nè i Guthrie hanno avuto campo di dare nelle loro Geografie Universali un competente sviluppo a questa parte, che di tutte è forse la più interessante, come la più dilettevole (vol. I, p. 6).

Lo scopo di Nesi è quello di liberare l’opera di Kant delle cose superflue, delle ipotesi azzardate, di accorciarla e armonizzarne le parti.

L’opera di Nesi venne pubblicata in due volumi: il primo nel 1816 presso l’editore Baret di Milano, il secondo nel 1817 presso l’editore Buccinelli, sempre di Milano.

Di questo curioso tentativo di rimaneggiamento della traduzione della Geografia fisica non v’è traccia in nessuna delle discussioni sul tema che da noi conosciute, né ci sembra sia mai citato (anche soltanto come curiosità) nelle bibliografie specialistiche.

Pertanto, se non andiamo errati, questa è la prima volta che si fa menzione di questo testo, la cui articolazione ricorda certamente la Geografia fisica di Kant, in rapporto alla storia della fortuna testuale di Kant in Italia.

Geografia e antropologia

Nel 1843, cioè trentasei anni dopo l’uscita del primo volume della Geografia fisica, l’editore milanese Giovanni Silvestri dà alle stampe un ausilio all’opera di Kant che Augusto Eckerlin aveva tradotto e pubblicato per lui tra il 1807 e il 1881 in sei volumi.

Si tratta di un dizionario che ordina alfabeticamente una serie di voci tratte dall’opera maggiore di Kant e che sostituisce l’indice analitico che Eckerlin non aveva accompagnato alla sua edizione e che molti avevano lamentato come mancanza grave. In effetti, la mole della Geografia fisica e, soprattutto, la vastità delle materie esposte richiedevano uno strumento di guida che consentisse di orientarsi in quella selva di dati e di notizie.

La geografia per Kant non si limitava alla fisica in quanto tale, benché tutte le cognizioni note sulla formazione della terra, dei mari, dei ghiacci e via dicendo fossero presentate in maniera più o meno sistematica. La geografia è, per Kant, principalmente una forma di conoscenza del mondo umano, un criterio di ordinamento delle caratteristiche antropologiche che devono poter essere descritte per ottenere un’immagine effettivamente cosmopolitica dell’uomo e del suo ambiente.

Questa prospettiva pragmatica era stata anche considerata negativamente da qualche recensore italiano, che riteneva del tutto improprio parlare delle situazioni concrete dei commerci, degli assetti politici e via dicendo all’interno di un trattato di geografia. Ma è invece proprio questa la caratteristica essenziale e, in qualche modo, innovativa dell’opera di Kant. La quale, in ogni caso, venendo diffusa in Italia in un’epoca fortemente segnata da trasformazioni politiche, poteva soccorrere la necessaria spinta propulsiva in avanti delle cognizioni tecniche. Non è un caso che, già a partire dalla stagione delle riforme settecentesche, in campo editoriale si facessero diversi sforzi per proporre un ampliamento della conoscenza della geografia, sforzi che vennero poi crescendo in età napoleonica e poi nella prima metà dell’Ottocento. La letteratura e la manualistica di settore in quest’epoca cresce in modo progressivo e porta alla traduzioni in italiano di altri manuali tedeschi di questo genere.

Quello kantiano è caratteristico e risulta ancora oggi un apax nell’attività dei filosofi, che caso mai tra fine Settecento e inizio Ottocento preferiscono indugiare sulla storia, attraverso prospettive universalistiche o sistematiche (da Herder a Hegel, per intendersi).

Il Manuale di geografia fisica è un altro esempio della particolare direzione che assume in Italia l’irradiazione di Kant, la cui attività antropologica è vista con molto interesse e talvolta con quel favore che non si poteva concedere al suo criticismo. Basti pensare che la cosiddetta macrobiotica di Kant, vale a dire le regole per il controllo spirituale degli stati patologici del corpo (il terzo saggio che compone il Conflitto delle facoltà) venne tradotto in italiano sia nella prima parte dell’Ottocento, sia nel clima positivistico di fine secolo.

Tra storia naturale e etnografia. La geografia kantiana

Kant tenne lezioni sulla Geografia fisica fino al Sommerse-mester del 1796: aveva cominciato quarant’anni prima, nel 1756. Il corso non era basato su un manuale, come richiesto poi dai regolamenti universitari, ma elaborato personalmente. E questo, come opportunamente fa notare Werner Stark nella prefazione al primo volume delle Vorlesungen über Physische Geographie apparso nel 2009 nell’ambito dell’edizione dell’ Accademia, vuol dire che il programma delle lezioni preparate da Kant, può essere considerato, entro certi limiti, opera autonoma. I limiti, peraltro, sono costituiti dal fatto che le lezioni così come ci sono rimaste, entrano nel patrimonio di studio di studenti e uditori, a volte eccellenti (come dimostra il caso di Herder).

La caratteristica essenziale  delle tre parti in cui si divideva l’insegnamento della Geografia fisica, è che la prima è dedicata alla descrizione fisica, la seconda alla storia naturale e la terza all’etnografia.  Kant raccoglie una grande quantità di materiali tratti da diari di viaggio, riviste, manuali che organizza poi in modo autonomo.  L’esposizione in aula non può certo entrare nei particolari, dice Kant presentando il corso del 1757, ma cercare ciò che desta meraviglia dappertutto e la bellezza con la curiosità razionale di un viaggiatore.

Su manoscritti di uditori di Kant si fonda l’edizione Vollmer (1801-1805), sebbene non si sappia nulla di questa fonte diretta. Come giustamente nota Stark, l’edizione Vollmer si presenta come un progetto editoriale autonomi rispetto alle lezioni kantiane. Infatti, vi si trovano assemblate informazioni che risalgono anche a periodo successivi il ritiro di Kant dall’Università e rimontano fino ai primi anni dell’Ottocento, quando ormai Kant (che muore nel 1804) non ha certo modo e tempo di dedicarsi ad aggiornamenti simili.

Vollmer ebbe a che fare con Theodor Rink a proposito di questa voluminosa edizione (in quattro volumi e sette tomi), ritenuta da Rink una contraffazione e oggetto di una disputa in tribunale che trascinò anche il vecchio Kant, il quale dettò una sua dichiarazione contro Vollmer e a favore di Rink, al quale aveva affidato il materiale per la pubblicazione delle lezioni di geografia fisica.

La polemica si protrasse per un certo tempo, ma lasciò il segno: nella seconda edizione, infatti, Vollmer presenta l’opera come propria trattazione ricavata dalle idee di Kant («nach kantischen Ideen») e, soprattutto, il curatore esce dall’anonimato e si fa riconoscere come Johann Jakob Wilhelm Vollmer «direttore, primo professore e bibliotecario del ginnasio dell’Accademia, ispettore delle scuole cittadine, predicatore della cattedrale di Thorn» (l’attuale Torun in Polonia). Per lo stesso curatore, quindi, l’opera non è di Kant, ma risulta una compilazione di materiali di varia natura, molti dei quali tratti da importanti manuali dell’epoca, comela Erdbeschreibung  di Anton Friedrich Büsching.

Non abbiamo una conoscenza precisa di Vollmer: Il Gelehrte Teutschland di HambergerMeusel (vol. VI, p. 113) ne riporta poche notizie, senza nemmeno indicare la data e il luogo di nascita, ma sappiamo che nacque a Thorn, ricordando che è stato l’editore della geografia kantiana e l’autore di un Kritisches Handbuch der Geschichte für die Jugend, eine Revision alles dessen, was wir mit Sicherheit in der Geschichte wissen (Hamburg 1805) – Manuale critico di storia per la gioventù, una revisione di tutto ciò che della storia sappiano con certezza.

Un altro cenno a Vollmer, non elogiativo, si trova in una storia della  città di Thorn del 1842: Jiulius Emil WernickeGeschichte Thorns aus Urkunden, Dokumente und Handschriften, Thorn 1842, vol. I, p. 580, in cui si dice che Vollmer, nominato nel 1803 direttore del Ginnasio, ne disperse lo splendore cui l’aveva portato il suo predecessore.

La Geografia fisica proposta da Rink si presenta come corrispondente a quella Vollmer soltanto per la parte introduttiva (le prenozioni matematiche), mentre per il resto i due volumi che compongono l’opera differiscono per l’ampiezza di sguardo, più che per i temi. L’ultima sezione, la sommaria considerazione delle più notevoli meraviglie naturale  di tutti i paesi in ordine geografico, risulta un anello di congiunzione con l’antropologia pragmatica, in particolare con la caratteristica, ossia l’osservazione del mondo esterno per comprendere il lato interno dell’uomo.

La Geografia fisica tradotta in italiano non presenta questo elemento etnografico, poiché il «cittadino Vollmer» (così si firma Johann Jakob Wilhelm Vollmer, da non confondere con l’editore dell’opera che si chiamava Gottfried Vollmer) l’aveva escluso dalla sua edizione, che è alla base della traduzione italiana di August Eckerlin. La conseguenza della scelta di quest’ultimo, che non riteneva opportuno tradurre la Geografia fisica di Rink – senza peraltro darne una motivazione –, è stata che del Kant antropologo e cosmopolita in Italia non si è saputo per un periodo piuttosto lungo. Qualche acuta osservazione di Bertrando Spaventa a metà secolo ha poi consentito di avere, effettiva, sebbene fugace, visione del pensiero antropologico kantiano.

La nascita della geografia moderna
attraverso il pensiero di Alexander von Humboldt e Carl Ritter

 

Wolfgang Francesco Pili

L’interesse per lo studio geografico sin dai tempi antichi non è mai mancato. Anzi, questo si è dimostrato un elemento unificante fra tutte le varie nazioni europee e mondiali che rivaleggiavano fra di loro per accaparrarsi il maggior numero di scoperte, ma che cercavano sempre di unire il sapere affinché tutti potessero usufruirne e poterne sfruttare al massimo i risultati. Fra il settecento e l’ottocento nuovi studi più approfonditi e dotati di una loro metodologia scientifica vengono intrapresi ed è così che emergono due importanti figure: Alexander von Humboldt e Carl Ritter.

Alexander von Humboldt è stato un uomo poliedrico e dagli interessi multiformi che dedicò la sua vita per intero allo studio e alla conoscenza geografica. Nato nel 1769 egli fu prima di tutto un naturalista, specializzato in botanica e in mineralogia, e alacre viaggiatore: infatti è proprio nei suoi numerosi viaggi che von Humboldt, attraverso le sue osservazioni e rilevamenti, si presenta come un grande geografo, tanto da essere considerato il fondatore vero e proprio della geografia moderna. Laureatosi nel 1790 in biologia all’università di Gottinga, nel biennio successivo studiò nell’accademia mineraria di Freiberg. Non è un caso che poco dopo fu nominato direttore dell’area mineraria della Franconia. Effettuò diversi viaggi nella sua giovinezza, specialmente in Europa e, in particolare, in Italia: dopo la morte della madre eredita una grande somma, poté organizzare una grande spedizione verso i tropici nelle colonie spagnole americane fra il 1799 e il 1804 con l’ausilio del botanico Aimè Bonpland (La Rochelle, 1773 – Restauraciòn, 1858). In questo viaggio ebbe modo di approntare molte ricerche sulla botanica: provò la scalata del Chimoborazo (un monte ecuadoregno) senza raggiungerne la vetta e scoprì un collegamento fra i bacini dell’Orinoco e del Rio delle Amazzoni, attraverso il fiume Casiquiare. Esplorò inoltre l’isola di Cuba, il Messico e il Perù facendo a volte anche studi di tipo etnologico e linguistico. Stabilitosi nuovamente in Europa, a Parigi per i successivi vent’anni, ebbe modo di scrivere la monumentale opera intitolata Voyage auc règions èquinoxiales du Nouveau Continent: questo fu il primo trattato di geografia socioeconomica del vicereame della Nuova Spagna, esteso dall’America istmica alla California e al Texas. Fondata a Berlino la Società Geografica tedesca nel 1828, nel 1829 invitato dallo zar Nicola I, effettuò un viaggio scientifico nella Russia orientale e in Asia centrale. Questo viaggio gli permetterà di dedicarsi alla sua opera magistrale intitolata Kosmos, redatta da cinque volumi, in cui von Humboldt tratta dei diversi aspetti geografici, con particolare riguardo alla fisica, all’astronomia e alle scienze naturali. Ad Alexander von Humboldt si deve l’inserimento negli studi geografici delle isoterme, ovvero la correlazione fra la diminuzione della temperatura e il crescere dell’altezza; inoltre fu proprio il geografo tedesco a valorizzare l’uso del barometro per misurare l’altitudine. Scoprì ancora le variazioni d’intensità del campo magnetico terrestre con la latitudine e viene considerato, fra gli altri, anche il fondatore della geografia botanica. La grande differenza fra Humboldt e i precedenti geografi consiste nel fatto che fu in grado di correlare i diversi fenomeni e argomenti geografici ad altre discipline come la fisica o la sociologia e questo è un aspetto tutt’ora fondamentale per un buono studio accademico geografico. Alexander von Humboldt morì a Berlino nel 1859 all’età di 89, proprio mentre si apprestava a scrivere l’ultimo tomo del Kosmos, che verrà completato e redatto grazie alle sue accurate note bibliografiche. Humboldt fu anche un insigne linguista.

Carl Ritter è stato uno studioso di geografia totalmente diverso dal suo contemporaneo Humboldt: infatti pur avendo anch’egli effettuato numerosi viaggi specialmente in Italia e sulle Alpi, fu un geografo che si dedicò più alla teoria che alla pratica. È’ per questo che la produzione libraria enciclopedica di Ritter è stata molto più prolifica rispetto a quella del suo collega Humboldt. Egli diede alla propria ricerca uno stampo fortemente umanistico. Fu il primo studioso geografo a diventare professore di un corso di Geografia all’università di Berlino nel 1820 e dal 1821 fu direttore della Società geografica berlinese di cui era cofondatore. Le sue opere principali sono due: Die Erdkunde im Verhaltniss zur Natur und zur Geschichte des Menschen e la Erkunde (geografia). Quest’ultima opera fu quella che determinò un profondo mutamento a livello enciclopedico anche se la sua opera rimase incompiuta: era infatti un’opera monumentale (19 volumi con 21 tomi e più di 30.000 pagine) pubblicata a Berlino dal 1822 fino al 1859 dove descrisse minuziosamente l’Asia e l’Africa. Quest’opera ritteriana è tutt’oggi molto poco conosciuta al di fuori delle ristrette cerchie tedesche in quanto è stata tradotta in poche lingue e con poche edizioni (mai in italiano) e appare di difficile lettura e spesso oscura; senz’altro Ritter fu influenzato dal pensiero storicista di Herder, dalla pedagogia di Johann H. Pestalozzi e dai principi generali del luteranesimo. Quest’ultimo punto porterà Ritter a parlare della teleologia o principio di finalità, che Ritter intravedeva nella predestinazione dei popoli e dei paesi. Ritter nell’opera intitolata Vorlesungen über allgemeine Erdkunde (1852), afferma che la teleologia cerca di rispondere all’esigenza di studiare la saggezza del creatore nelle opere della natura e di comprendere lo scopo finale della creazione: lo studio della Terra in ciò è importante perché non è solo il luogo in cui la divina natura si manifesta, ma anche perché è il luogo dove dimora il genere umano. Carl Ritter si definisce uno dei fondatori della geografia scientifica vista intesa come lo studio teorico e filosofico fra natura e uomo: infatti, afferma nell’introduzione alla Erdkunde, che l’influenza della natura sui popoli è maggiore di quella degli singoli uomini, perché si tratta di una massa che agisce su un’altra massa. Tuttavia la natura, al contrario del popolo, agisce in maniera progressiva e la sua influenza in genere è più profonda di quanto sembri. È dunque Ritter un geografo filosofo e storico? Potremmo rispondere affermativamente a questa domanda. Egli studia come detto in modo analitico e teorico tutte le cause della natura e di come essa agisce sull’uomo. Affermerà Ritter che l’influenza della natura sullo sviluppo dei popoli diminuisce di pari passo con l’evoluzione della civiltà, per cui i rapporti di stampo deterministico (vedi bibliografia essenziale) non rimangono uguali nel tempo. Ritter fu un geografo dunque che a differenza di Humboldt riuscì a sottolineare in maniera più compiuta l’eterogeneità dei fenomeni di cui si interessa la geografia e, tuttavia, come ci dice la critica successiva, la sua descrizione dell’Asia e dell’Africa appare arida e noiosa. D’altronde Ritter nei due continenti non ebbe modo (o probabilmente interesse) di andarci: questo rende la sua opera principale, l’Erdkunde, non così importante come potrebbe sembrare, e fornisce anche una ragione anche perché non sia stata tradotta nei vari stati europei.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Bartaletti F., Geografia Teoria e prassi, Bollati Beringhieri, Torino, 2006

http://it.wikipedia.org/wiki/Aim%C3%A9_Bonpland

http://www.openfisica.com/fisica_ipertesto/openfisica4/principio_isoterme.php

http://geography.about.com/od/historyofgeography/a/vonhumboldt.htm

http://www.treccani.it/enciclopedia/carl-ritter/

http://geography.about.com/od/historyofgeography/a/carlritter.htm

http://www.vialattea.net/esperti/php/risposta.php?num=13271 riguardo la teleologia

http://www.sapere.it/enciclopedia/determinismo.html per quanto concerne il determinismo geografico

 

 

Lezione (hegeliana) di geografia

Quando mi misi a pensare all’argomento per la tesi di laurea – prima di focalizzare la mia attenzione su Rousseau, i selvaggi e l’antropologia – sottoposi a un docente germanofilo della cattedra di Storia della filosofia moderna e contemporanea dell’Università Statale di Milano, l’idea di vederci chiaro sul rapporto tra geografia e storia nella filosofia hegeliana. Un argomento non semplice, poco studiato in Italia, e che dunque avrebbe richiesto una buona conoscenza della lingua tedesca, ostacolo per me all’epoca insormontabile. Tra l’altro avrei dovuto leggermi alcuni saggi di geografi e storici tedeschi a cavallo tra ‘700 e ‘800 (tra cui quelli di un certo Ritter, geografo spesso citato da Hegel), che se andava bene erano stati tradotti in francese. Mi sarebbe poi piaciuto tirar dentro Johann Gottfried Herder, che aveva scritto due opere splendide dedicate alla filosofia della storia. Ma poiché ero già abbondantemente fuori corso, finii per lasciar perdere. (Forse giocava anche un riflesso condizionato della mia passione di bambino per tutto ciò che aveva a che fare con la geografia e, soprattutto, con le carte geografiche; senza ancora sospettare che la cartografia – e la crisi della ragione cartografica di cui parla ad esempio il geografo Franco Farinelli –  è cosa serissima, tanto più in epoca globale).

Hegel, nella sua filosofia della storia, aveva costruito una vera e propria cartografia e mappa dello sviluppo spirituale, generalmente semplificato nell’arco che da Oriente va ad Occidente – l’alba e il tramonto-compimento dello spirito, in chiave chiaramente eurocentrica. Anche se poi tale spirito finiva per sostare un po’ troppo nelle terre germaniche e prussiane, prima di (forse e comunque con poco entusiasmo da parte del filosofo tedesco) intraprendere la traversata dell’oceano e migrare in terra americana. Pur trincerandosi dietro la frase che “il filosofo non s’intende di profezie”, Hegel deve comunque ammettere a denti stretti che l’America sarà il paese dell’avvenire. Non so che cosa avrebbe obiettato se gli si fosse fatto presente che, proprio perché la filosofia non produce profezie, non si poteva escludere che la circolarità dello spirito avrebbe finito per doppiare lo stretto di Bering e ripartire così dal suo luminoso inizio – e che dopo il secolo americano ci sarebbe stato il secolo cinese, ad onta del fatto che per i cinesi “il mare è solo il cessare della terra”.

Ad ogni modo lo spirito – la cultura umana – ha sempre una precisa collocazione geografica: Hegel la definisce nelle sue Lezioni “situazione di natura, ossia la base geografica della storia del mondo”. I popoli, per esser tali, devono avere una loro “configurazione naturale […] da cui si sprigiona lo spirito”. Questo, dunque, si impasta con il clima e si innesta sul materico-naturale, anche se suo compito essenziale è di elevarsi da questa sua naturalità e fisicità, per riconoscersi in qualità di libero spirito.

Ciò non toglie nulla alla sua valenza fortemente geografica (e dunque storica): Hegel riconosce ad esempio, sulla scorta degli studi settecenteschi, in particolare di Montesquieu, che il clima è un elemento determinante. In particolare, solo la zona temperata può essere a suo giudizio il vero teatro della storia del mondo; mentre il mare ricopre una funzione essenziale in termini di superamento del limite, pericolosità, coraggio, scoperta, astuzia: “nel mare è implicita quella specialissima tendenza verso l’esterno, che manca alla vita asiatica: il procedere della vita oltre sé medesima”. Insomma, non c’è in Hegel una filosofia della storia che non sia contemporaneamente una filosofia della geografia, una geofilosofia o una geopolitica.(Oggi, a distanza di ben due secoli, si tratta di una branca nuova ed interessante della filosofia: per averne un’idea basta consultare il Sito italiano di Geofilosofia o dare un’occhiata alle 10 tesi di Geofilosofia di Caterina Resta)..

Questa lunga (e forse poco interessante) premessa, per dire che la lezione di geografia è essenziale, e che forse bisognerebbe tornare a studiarla con più attenzione, a prescindere dalla facilità con cui wikipedia o google map ci fiondano sul globo in un batter di clic.

La geografia è cosa serissima; i numeri della demografia sono pesantissimi; lo spazio, anche se apparentemente annullato dai media e dalla rete, è un’estensione imprescindibile; i colori delle mappe geografiche, gli istogrammi e i dati statistici nascondono sotto la loro patina brillante guerre e conflitti, corpi e macerie, lavoro e fatica, vita e speranze insieme ad un bel po’ di promesse tradite.

Faccio solo tre esempi, cercando di applicare quanto ho detto finora a quel che va accadendo in questi mesi in giro per il pianeta:
a) sui numeri, mi pare che la prussiana (e forse un po’ hegeliana) Angela Merkel abbia detto una cosa geofilosofica ovvia, su cui però non molti stanno ragionando: l’Unione europea incide in termini demografici solo per il 7% della popolazione mondiale (il 10% se allarghiamo all’intera Europa), mentre l’Italia non arriva nemmeno all’1%. Quando si usa la categoria di potenza mondiale non possiamo non ragionare anche su questi dati;
b) che cosa vuol dire oggi essere europei od occidentali? perché mai dovrei sentirmi più europeo di quanto non mi senta mediterraneo o ugrofinnico o micronesiano? E poi: insulare  – continentale – fluviale – lacustre – marino – montano – campagnolo – metropolitano – centrale – periferico – nomade – migrante… potrei continuare a lungo con questa cartografia geoantropologica che nasconde e svela ad un tempo il destino di miriadi di esseri umani, insieme alle loro collocazioni biografiche ed esistenziali, difficilmente rappresentabili e riducibili a quelle mappe e a quei numeri;
c) ma la lezione più drammatica ed istantanea di geografia, di geofilosofia e di geopolitica, ce la dà – tanto per fare un esempio paradigmatico – la Siria di quest’ultimo anno: gli abitanti di quella nazione, con quei confini, quella densità, quella superficie, quella conformazione orografica ed idrografica, quel clima e quel fuso orario, quelle religioni e lingue ed etnie – e con quelle risorse (o non risorse) – ebbene loro sì che stanno scrivendo la lezione di geografia con il proprio sangue.

  1. Ogni cultura umana è legata alla terra, alla natura in cui si sviluppa, sembra essere vero, se pensiamo anche soltanto all’influenza sulla costituzione culturale non solo del clima, ma anche del cibo autoctono e delle abitudini, degli usi e costumi ad esso connesse. Anche se ormai mangiamo cibi esotici, e persino il grano proviene in gran parte da paesi d’oltremare. E senza contare l’oggetto di fede che è ormai diventata la fede universale, il danaro e i flussi del capitale finanziario, quanto mai liquido, per il quale non si danno confini.

In“Terra e il Mare” Carl Schmitt, sosteneva che la supremazia europea era sulla via del tramonto, e con essa il diritto e lo statalismo europeo. la storia del mondo è la storia delle potenze marittime contro le potenze terrestri, e viceversa.

Per Schmitt: “Il Mare è innanzitutto la negazione della differenza, conosce solo l’uniformità, mentre nella Terra si dà sempre la variazione, la difformità. Il Mare non ha confini se non le masse continentali ai suoi estremi. La Terra è sempre solcata dai confini tracciati dall’uomo, oltre alle barriere naturali. Il Mare è mobilità permanente, flusso privo di un centro stabile. È caos e dissoluzione. La Terra è costanza, stabilità, gravità. È gerarchia e ordine. Il Mare è il Capitale, la Terra è il Lavoro. Eccetera.

Allo stesso modo la fluida uniformità marittima genera il dio-denaro, ciò tramite cui ogni merce può essere scambiata ma che non è a sua volta una merce. L’era moderna in effetti è l’era dei flussi: flussi di informazioni, flussi di capitali, flussi di merci, flussi di individui. Il monoteismo del mercato (capitalistico e finanziario) nasce dal Mare.

Concretamente e storicamente, il Mare sarebbe incarnato dalle talassocrazie anglosassoni, la Terra dalla tellurocrazia continentale eurasiatica.
E l’America sarebbe in tutto e per tutto l’erede geopolitico e geofilosofico dell’Inghilterra. In essa lo spirito mercantile, l’istinto predatorio e l’individualismo borghese raggiungono livelli deliranti. Il titanismo predatore, piratesco, mercantile tipico delle talassocrazie è animato da una brama di dominio inestinguibile che non può essere limitata da alcuna regola.

L’istinto di predone dei mari che caratterizza il popolo insulare (Inghilterra e America) intende in modo tutto diverso la vita economica. Qui si tratta di lotta e di bottino, anziché di politica, come sulla terra.Nell’isola, quindi, il capitalista sostituisce il politico ed il corsaro prende il posto del soldato; solo sulla Terra l’esistenza dell’uomo è immediatamente politica.”

Comunque ormai anche la Cina ha “attraversato la grande acqua”, ed è un oceano, a confronto del piccolo stagno che è l’Europa.

 

Geografia e filosofia. Materiali di lavoro

 

di Marcello Tanca         Franco Angeli, 2013

Nei nostri ricordi scolastici geografia e filosofia rappresentano mondi separati e lontani, che poco o nulla hanno a che fare l’uno con l’altro. Questa spartizione ha dietro di sé una lunga storia – che se non è lunghissima, è ancora viva e presente nella cultura contemporanea. Nonostante lo “spatial turn” registratosi nelle scienze sociali negli ultimi anni, la storia dei prestiti e delle contaminazioni tra discorso filosofico e discorso geografico attende ancora, in larga parte, di essere scritta. Questo lavoro parte da una precisa ipotesi interpretativa: l’esplorazione conoscitiva e materiale della Terra, il tratto che più di ogni altro caratterizza l’epoca moderna e senza il quale non si darebbe globalizzazione, sarebbe stata impensabile senza le molteplici connessioni, interferenze e sovrapposizioni tra geografia e filosofia. Si tratta allora di ripensare il rapporto tra quelli che sono a tutti gli effetti dei dispositivi di produzione di immagini del mondo e di riportare alla luce alcune delle tappe più significative di un percorso comune così poco conosciuto: da Kant a Foucault, passando per Hegel, Marx e Heidegger.

Recensione (di Dino Gavinelli):

Geografia e Filosofia, due discipline ben delineate nell’immaginario collettivo come distanti e ben separate tra loro e che invece Marcello Tanca riavvicina per evidenziarne codici, discorsi, linguaggi, saperi, percorsi e evoluzioni di volta in volta vicini, mescolati, complementari. La sua analisi si inserisce dunque sul solco dei non numerosi lavori che hanno indagato sugli incontri, gli scontri, le mediazioni, le sovrapposizioni e le interferenze tra geografia e filosofia. Nel lavoro monografico si spazia da quell’Illuminismo settecentesco, tutto teso a trasporre l’ordine razionale della scienza sul piano della storia e della geografia, alla filosofia novecentesca di Foucault che, con la sua microfisica del potere e le sue frequenti preoccupazioni per la dimensione spaziale, non lascia certamente indifferenti i geografi contemporanei. Tra questi estremi temporali Marcello Tanca si muove agevolmente per raccogliere, ordinare e presentarci i suoi “materiali di lavoro”: Kant e la “geografia fisica” (capitolo 1); Hegel e la “geografia dello spirito” (capitolo 2); Marx e la geografia (capitolo 3); il paesaggio come categoria logica della descrizione geografica e della riflessione filosofica (capitolo 4); abitare il mondo: Heidegger, Dardel, Le Lannou (capitolo 5); Foucault: per una geografia del potere (capitolo 6). Tra questi materiali ritroviamo anche testi che, in alcuni casi, sono tradotti per la prima volta in italiano per recuperare, come ben dice l’autore nella sua Introduzione, la dimensione storica del sapere geografico e risalire, con metodo filologico, alle origini di modelli ontologici e di precise figure teoriche e geografiche (il paesaggio, l’abitare).

Nel primo capitolo, dedicato a Kant e alla sua geografia fisica, l’autore ci porta al centro delle riflessioni del filosofo di Königsberg sulla storia umana, sull’operatività dei gruppi sociali sulla scena del mondo con il fine di creare un ordinamento cosmopolitico, tipicamente settecentesco. In tale contesto la geografia fisica e quella umana acquisiscono una loro grande utilità perché svolgono un’importante funzione pratica, popolare e di orientamento. Attraverso la geografia gli individui sono in grado di avere non solo uno sguardo regionale ma anche uno d’insieme sul pianeta per poter così indagare e conoscere i suoi molteplici paesaggi.

Nel secondo capitolo domina la figura di Hegel che, nel suo sistema filosofico tutto teso a riconoscere il presente (quello tra la fine del Settecento egli inizi dell’Ottocento) nella sua positività e a contrastare il moralismo di chi contrappone l’ideale astratto al reale, lascia un certo spazio alla geografia. La filosofia della storia di Hegel ci presenta infatti il grande scenario della vita degli stati,  espressione dello spirito di quei popoli che, nelle diverse epoche, hanno non solo rappresentato un momento significativo del progresso complessivo dello spirito umano ma disegnato anche luoghi specifici. La dimensione evolutiva è dunque selettiva non solo nel tempo ma anche nello spazio, come il nostro autore ben evidenzia in diversi punti della sua lettura geografica dell’opera hegeliana.

Nel terzo capitolo viene proposta una rilettura del pensiero di Karl Marx in chiave geografica. Questa rilettura consente di richiamare succintamente le tappe principale del rapporto tra il filosofo tedesco e la geografia. All’interno del suo complesso impianto speculativo e espositivo, conosciuto ai più per i suoi aspetti filosofici, politici ed economici perché incentrato sull’unità del processo di produzione e di circolazione del capitale, Marx ha inserito infatti ampie parti documentarie, storiche, ecologiche e geografiche. La sua teoria critica della globalizzazione, che Tanca interpreta giustamente come evidente superamento dell’influsso hegeliano, è molto utile al geografo alla ricerca di “preziosi strumenti di lettura dei meccanismi di esclusione sociospaziale e delle contraddizioni ecologiche e territoriali del sistema-globo”. L’attualità del pensiero di Marx rispetto alla presente globalizzazione capitalistica che plasma ambienti, culture, economie, società, territori e paesaggi è sorprendente.

Nel quarto capitolo è il paesaggio, come categoria logica della descrizione geografica e della riflessione filosofica, a imporsi all’attenzione del lettore. Il concetto polisemico di paesaggio, elemento paradigmatico della complessità attuale del mondo, con i suoi molti valori estetici, romantici, patrimoniali, scientifici, soggettivi, per citarne solo alcuni, consente di richiamare termini quali “mimesis”, “graphikos”, “pictura”, di ricordare Humboldt e i suoi schemi progettuali di acuto geografo, di inquadrare i termini di un Vidal de la Blache ermeneuta e di riflettere su ricchi e variegati percorsi geofilosofici ottocenteschi e novecenteschi. Con queste analisi il paesaggio si dimostra in tutta la sua “plasticità” e offre numerosi spunti all’autore che, a ragione, avversa l’idea dell’immutabilità dei caratteri naturali, culturali e paesaggistici. Proprio i paesaggi della contemporaneità, trattati nell’ultimo paragrafo del capitolo, ci ricordano che il discorso rimane aperto e in divenire.

Nel quinto capitolo è il popolamento del pianeta e le modalità dell’abitare ad essere trattato da tre punti di vista filosofici e geografici di spessore: Heidegger, Dardel e Le Lannou. Il percorso speculativo di Heidegger, che nel problema dell’essere ha posto la sua maggiore attenzione, non si limita agli aspetti metafisici ma implica anche una dimensione spaziale polisemica nella quale i luoghi e gli ambienti sono intimamente legati alle grandi questioni filosofiche e si prestano agli  approfondimenti delle successive correnti fenomenologiche, umanistiche e esistenziali presenti in filosofia e in geografia. Anche Dardel indaga discretamente sulla natura della realtà geografica, e in particolare dell’abitare, nel suo ormai celebre “L’uomo e la terra” così ricco di richiami a Heidegger e, più in generale, alla filosofia. Negli stessi anni anche Le Lannou si interessa alla geografia come scienza dell’uomo-abitante e anticipa la sua riflessione critica sulla pianificazione territoriale che troverà ampio spazio nel dibattito culturale francese  degli ultimi decenni del XX secolo. I tre punti di vista, pur tra loro diversi, mettono in campo metodi e strumenti della filosofia e della geografia per sottolineare che l’azione dell’abitare è sempre complessa, si presta a tante letture ed è una questione che riguarda tutti noi.

Nel sesto capitolo l’analisi dell’opera del filosofo e saggista francese Foucault consente al nostro autore di rimettere in questione la centralità del soggetto, della storia e dello spazio intesi come esito positivo della progettualità umana secondo un tragitto lineare e continuo. Al contrario, il divenire storico e geografico passano attraverso brusche fratture, tra loro spesso contraddittorie o eterotopiche, che possono essere descritte e registrate ma non spiegate. In questo senso Foucault fornisce un contributo notevole alla geografia postmoderna pur non avendo elaborato un’organica teoria generale dello spazio. Ma è soprattutto nell’analisi dei rapporti di potere che egli influenza il pensiero geografico sul presente e alimenta decise opposizioni al suo punto di vista critico. Il potere è infatti inteso non come istanza centralizzante e gerarchizzante ma piuttosto come insieme plurimo, reticolare e circolare di relazioni. Verso di esso possono strutturarsi forme di resistenza che rimettono in causa le pratiche discorsive e le strategie dominanti e alimentano gli studi di geopolitica.

Il testo, denso nei contenuti e foriero di stimoli, è arricchito da una Prefazione di Franco Farinelli. In essa si ricorda il lungo cammino compiuto dalla geografia e si sottolinea come questa disciplina abbia preso ampio spunto dapprima dalla filosofia greca delle origini. Le successive analisi filosofiche hanno poi consentito, più o meno direttamente, alla geografia di rendersi maggiormente articolata, variegata e complessa a riprova dei proficui contatti tra le due discipline.

L’esplorazione conoscitiva e materiale della Terra, il tratto che più caratterizza l’epoca moderna e senza il quale non si darebbe globalizzazione, sarebbe stata impensabile senza le molteplici connessioni, interferenze e sovrapposizioni tra geografia e filosofia. Il testo vuole ripercorrere alcune delle tappe più significative di un percorso comune così poco conosciuto e di cui si è minimizzata l’importanza: da Kant a Foucault, da Hegel a Marx e Heidegger.

 

Bollettino della Società Geografica Italiana Riflessioni sul postmodernismo (di M.Marconi)…

Nei nostri ricordi scolastici geografia e filosofia rappresentano mondi separati e lontani, che poco o nulla hanno a che fare l’uno con l’altro. La geografia ci riporta alle carte appese alle pareti delle aule e ad elenchi interminabili come quello degli affluenti di destra del Po. La filosofia al proprio tempo appreso col pensiero, al Cogito e agli imperativi categorici. Questa spartizione ha dietro di sé una lunga storia – che se non è lunghissima, è ancora viva e presente nella cultura contemporanea.

Nonostante lo spatial turn registratosi nelle scienze sociali negli ultimi anni, la storia dei prestiti e delle contaminazioni tra discorso geografico e discorso filosofico attende ancora, in larga parte, di essere scritta. La responsabilità va ripartita in parti uguali tra geografi e filosofi. I primi hanno teorizzato poco o nulla e guardato come pericolose deviazione quei tentativi di elaborare un’immagine della Terra che non fosse semplicemente il mero calco della rappresentazione cartografica (sono emblematici, da questo punto di vista, i casi di Reclus e Dardel). I secondi si sono generalmente disinteressati ad una disciplina che sembrava offrire pochi appigli alla riflessione critica a causa del suo statuto epistemologico ambiguo e incerto, a metà strada tra il fisico e l’umano, dunque di difficile collocazione in un quadro teorico dominato da dicotomie come quella tra “natura” e “spirito”.

Questo lavoro parte da una precisa ipotesi interpretativa: l’esplorazione conoscitiva e materiale della Terra, l’impresa che ha cambiato per sempre la faccia del pianeta ma alla quale né i geografi né i filosofi hanno preso parte direttamente, non sarebbe stata possibile senza l’apporto di quegli straordinari codici di scrittura del mondo che sono geografia e filosofia. Si tratta allora di riportare alla luce, attraverso uno scavo archeologico, alcune delle tappe più significative di un percorso comune così poco conosciuto e di cui oggi è più che mai urgente scrivere la storia: da Kant a Foucault, passando per Hegel, Marx e Heidegger.

 

Spazio e geografia in Hegel:
la dialettica terra-mare

Nella filosofia hegeliana troviamo sempre la natura definita inizialmente, per la coscienza ordinaria, come l’elemento immediato, esteriore, molteplice ed estrinseco, un Proteo che ci troviamo di fronte senza averlo prodotto17, caratterizzato da rapporti di giustapposizione spaziale e successione temporale18. Questa accezione di natura è contrapposta allo spirito umano inteso da Hegel sempre in termini di razionalità come risultato, ritorno in se stessi, farsi per mezzo della propria attività, in modo autonomo e libero, autodeterminato.

Quale significato ha allora la sensibilità dell’uomo, il suo aspetto biologico, rispetto alla sua natura razionale e alla natura esterna? Sicuramente, per Hegel, l’uomo si dice sensibile in quanto non lo si dice libero, ma il nesso che lega alla natura esterna il carattere dell’uomo (termine con cui Hegel indica forme specifiche di indole, tendenza ed attitudine interiori) non è un rapporto di meccanica dipendenza causale, come se la determinatezza naturale del suolo o del clima avesse come effetto la formazione del carattere di un popolo, riempiendo di contenuto attitudini di per sé vuote ed astratte. Hegel è fortemente critico rispetto a supposti effetti determinanti e specifici del clima, per lui un clima aspro e duro non avrebbe alcuna relazione causale o analogica significativa con destini di eroi e/o suicidi:

Si parla spessissimo del mite cielo ionico, che avrebbe prodotto Omero. Certo esso ha molto contribuito alla grazia della poesia omerica. Ma la costa  dell’Asia Minore è stata sempre la stessa, e lo è ancora: eppure dal popolo ionico non è sorto che un Omero19.

L’influenza del clima è per Hegel più generale, e (specialmente negli estremi del torrido e del gelo) riguarda la sua potenza e la sua forza di oppressione sulla liberazione delle forze spirituali umane. Tale liberazione per Hegel non può che iniziare a livello della sensibilità stessa dell’uomo, nel suo nesso con la natura esterna, con l’evidente richiamo alla tesi aristotelica secondo cui l’uomo si rivolge all’universale solo quando non è depresso e ottuso dai bisogni, ma è in grado di distaccarsi e ritrarsi dalla propria immersione nel mondo esterno. Da questa prima serie di considerazioni, che senza dubbio privilegiano le terre temperate come terre di sviluppo della libertà 20, emerge che è il rapporto con la natura con ciò che è fuori di noi, non l’introspezione, il rapporto con noi stessi, la prima posizione a partire dalla quale l’uomo è in grado di riflettere in sé e acquistare libertà, e che è nel rapporto con la differenza da sé, e non nelle profondità della individualità, che l’uomo trova per Hegel il suo originario punto di partenza per muovere verso il sapere di sé. Inoltre, va notato che emerge anche come la separazione dalla natura, il distacco da un rapporto semplicemente immediato con essa, sia la prima condizione per separare da sé bisogni e pulsioni, l’irretimento nei rapporti primari di possesso e dipendenza: con le cose, con la terra, con i legami famigliari (“la voce del sangue”), e per sviluppare una cultura spirituale21.

Si vede allora come, per Hegel, la maniera naturale di essere dell’uomo sia tanto il suo essere sensibile e non libero, immerso nell’esteriorità, sia il suo stesso ritrarsi dalla immediatezza di tale immersione, se la natura esterna non glielo impedisce:

Il gelo che serra i Lapponi o il calore torrido dell’Africa sono forze troppo potenti a petto dell’uomo perché lo spirito possa acquistare fra esse libero movimento e giungere a quella sua ricchezza, che è necessaria perché una civiltà assuma forma reale. In quelle zone il bisogno non può esser mai allontanato: l’uomo è perpetuamente obbligato a rivolgere la sua attenzione alla natura.22

In altre parole, il clima è determinante solo nella misura in cui la sua potenza impedisce all’uomo di ritornare a sé stesso e in sé stesso. Circoscrivere alla  zona temperata il fiorire della civiltà, si badi bene, non è stato affatto determinato da Hegel dallo stanziamento di certe popolazioni geneticamente superiori a scapito di altre, non è basato su argomenti che oggi definiremo “razzisti”. Il primato, sotto l’aspetto spirituale, dell’Europeo e della razza caucasica (su criteri osteologici e non sul colore della pelle come in Kant)23 che troviamo ad esempio nella sua Filosofia dello spirito soggettivo è affermato solo nei mutabili termini della storia e della antropologia culturale, non su immutabili fondamenti biologici ed ereditari: «la differenza delle razze umane è ancora una differenza naturale, cioè una differenza che riguarda anzitutto l’anima naturale. Come tale, essa è legata alle differenze geografiche del suolo sul quale gli uomini si riuniscono in grandi masse 24».

Da qui l’importanza, inedita nel pensiero filosofico, delle basi geografiche della storia del mondo, e in particolare del Mediterraneo come espressione del rapporto tra mare e terra, vista come l’opposizione più universale della determinazione naturale e di maggiore significato storico. Hegel considera infatti quanto il movimento concettuale, oggetto e compito della considerazione filosofica, si ritrovi nelle considerazioni delle diversità fra i continenti, per sottrarre tali differenze dalla casualità e poterne fare discorso razionale.

Ricordo brevemente come Hegel codifica i momenti necessari della attività logico-reale del pensiero25. Il pensiero come attività formale si muove a partire dalla intuizione immediata della sensazione, dalla apprensione della individualità concreta. La nega intellettivamente nella unità di una universalità indifferenziata e compatta, che sussume quella singolarità insieme al molteplice che gli è omogeneo. Ma il pensiero non si ferma a questa attività di isolamento e separazione di un universale astratto, come un che di ideale saldamente contrapposto al reale singolare della sensazione. L’antitesi prodotta dal momento intellettuale non fissa che apparentemente degli estremi indipendenti e autosussistenti, la loro verità speculativa o razionale si riconosce quando ogni determinazione isolata, ogni essere finito, si mostra, dialetticamente, in relazione con ciò che esclude, si rovescia nel suo opposto. In altre parole, ogni determinata identità con sé, in quanto non è mai un termine fisso e ultimo ma è soggetta a mutamento e divenire, contiene anche la propria negazione, contraddicendo così la propria autosufficienza, che si rivela dunque una mera apparenza. I due opposti estremi della universalità e della singolarità, ognuno passato nell’altro, risultano così relativi l’uno all’altro e compenetrati sillogisticamente nel medio della loro unità: una unità non iniziale, ma riflessa in sé, prodotta dal pensiero.

Il modo di pensare dialettico mostra dunque in generale la finitezza delle determinazioni unilaterali dell’intelletto, esponendole per quello che sono, tali che si rovesciano in quel loro opposto da cui avevano astratto per circoscrivere e fissare la propria identità esclusiva, e così si superano. Da qui la dialettica come «immanente oltrepassare», come finito che non viene limitato dal di fuori ma che si contraddice in se stesso, passa nel suo contrario mediante se stesso. Solo per questo aspetto di anima motrice la dialettica è per Hegel il principio mediante cui il contenuto della scienza acquista un nesso immanente o una necessità, e il suo è un risultato positivo, una unità mediata di determinazioni distinte 26.

Hegel ha così gli strumenti filosofici per pensare il “nesso immanente” tra le grandi suddivisioni continentali, come porzioni limitate e finite, del nostro pianeta, mostrando come sia possibile razionalmente (dialetticamente) “dedurre” l’Africa come unità indifferenziata, universale massa continentale compatta, l’Asia come suo opposto, per gli altipiani e le grandi valli irrigate da ampi fiumi che spezzano tale uniformità, e infine l’Europa, dove montagna e pianura non sono giustapposte, ma si compenetrano costantemente.

L’Europa, in questa considerazione filosofica, per Hegel «rivela l’unità di quella unità indifferenziata dell’Africa e dell’opposizione non mediata dell’Asia. Questi tre continenti sono, non separati, ma uniti dal Mediterraneo,  attorno al quale si stendono» 27. Analogamente, le differenze fondamentali dello spazio naturale vengono pensate secondo la scansione della compattezza indifferente e chiusa, informe dell’altopiano con le sue grandi steppe e pianure, della massa montana rotta da corsi di acqua che si scavano il passaggio verso il mare nella transizione della pianura fluviale, mentre il terzo elemento è la zona costiera, la terra che è a contatto con il mare.

Nella comprensione concettuale (necessaria) delle tre differenze fondamentali dal punto di vista della terra, i corsi di acqua giocano un ruolo fondamentale. Nella terra abitata, lo spazio, la nostra prima intuizione dell’esteriorità che corrisponde alla categoria della quantità 28, non vale più unicamente come giustapposizione indifferente ed estrinseca, ma è ambiente, la mera esteriorità quantitativa viene subordinata a rapporti vitali più complessi: «il sussistere in modo reciprocamente estrinseco della spazialità non ha alcuna verità per  l’anima» 29. La fertilità del terreno porta allo sviluppo dell’agricoltura e quindi alla regolamentazione del ciclo di soddisfacimento dei bisogni primari su ciclici tempi stagionali, la sedentarietà e il possesso prolungato causano il sorgere dei diritti sociali (proprietà, diritto, classi), rapporti collettivi che unificano esistenze che prima erano nomadi o meramente singole. In questo schema geopolitico dell’avanzare della cultura e della civiltà dall’altipiano interno al mare, l’acqua, per Hegel, ha dunque sempre il valore di ciò che unisce, mai di ciò che separa:

in tempi recenti, in cui si è voluto sostenere che gli stati debbono essere necessariamente divisi da elementi naturali, ci si è abituati a considerare l’acqua come il principio separatore. Contro questa opinione è invece di importanza essenziale il dire che nulla riunisce quanto l’acqua, chè i paesi di cultura non sono altro che bacini fluviali. L’acqua è infatti ciò che congiunge; sono i monti che separano. Quando i paesi sono separati da monti, lo sono maggiormente che quando son divisi da un fiume o persino dal mare 30.

Hegel si riferisce probabilmente al ruolo del Reno e dell’Elba durante le campagne napoleoniche in Germania nel primo decennio dell’800: un «falso principio » dei Francesi far valere che i fiumi siano confini naturali, come nel caso della Confederazione del Reno (Rheinbund) seguita all’abolizione del Sacro Romano Impero (1806), da cui erano escluse Prussia ed Austria. Ma mi piace pensare che per una filosofia hegeliana degli spazi naturali e umani  egli fosse portato a sottolineare la comunicazione di popoli, costumi e caratteri attraverso le vie di acqua anche perché attento a registrare un nuovo fenomeno del suo tempo: il flusso turistico che venne a svilupparsi sul Reno dopo la sconfitta di Napoleone del 1815, in quella Confederazione germanica (Deutscher Bund) di cui facevano di nuovo parte Regno di Prussia e Impero austriaco, con l’introduzione della navigazione a vapore nel 1817 (da Bonn fino a Coblenza) e nel 1827 (fino a Magonza) grazie alla Compagnia prussiano-renana di battelli a vapore. 31

Può essere interessante notare come anche oggi, pur in un panorama storico profondamente mutato, l’approccio di Hegel conservi il suo valore: basti pensare a come un sociologo come Franco Cassano guarda all’Adriatico, quando, tra tracce passate di guerre recenti e proiezioni di future integrazioni comunitarie, scrive che attraversarlo:

significa avvicinare popoli dello stesso continente, completare l’Europa, ma anche cambiarla mutando l’equilibrio delle sue voci […] l’Adriatico è un invito a fare un salto, un salto possibile e non metafisico, un invito a guardare lontano, ma non troppo. L’Adriatico non chiede di essere angeli, ma solo gabbiani 32.

Nell’ottica di Hegel, dunque, non tanto la corrispondenza tra terra aspra e composita, stretta tra mare e altipiano, e i popoli e le lingue diverse, sarebbero oggetto di discorso filosofico, quanto il contatto tra terra e mare, l’aspetto della comunicazione con il mare e i modi in cui la costa sviluppa le sue relazioni con esso, attraverso i commerci e la navigazione, come poi riprenderà Carl Schmitt nel suo Land und Meer, sempre in termini di reinterpretazione della storia universale, attraverso però il conflitto intrinseco, nella rivoluzione spaziale globale scaturita dalla scoperta del nuovo mondo, tra potenze di terra e di mare 33. La zona costiera sembra invece unificare per Hegel la saldezza dell’aspetto continentale, del legame con la terra che fissa l’uomo al suolo, restringendone la libertà nel complesso dei rapporti di proprietà, lavoro, bisogno, e l’aspetto del superamento del limite.

Scrive Hegel che il ‘senso’ del mare come di qualcosa che porti oltre la limitatezza della terra manca all’Asia, nonostante che la Cina confini con il mare, per tali popoli «il mare è solo il cessare della terra». Il condizionamento della natura sulla vita dei popoli che si affacciano sul Mediterraneo risveglia invece il coraggio e il rischio, la cui anticipazione e decisione di correrlo svincolano l’uomo dalla catena di rapporti con la cose, creando uno scarto interiore che dà all’individuo la autocoscienza di una maggiore libertà. Chi cerca il guadagno, chi lavora per soddisfare i bisogni usando come mezzo il mare e non la terra si mette esistenzialmente in gioco, in modo radicale, accettando di mettere a rischio vita e ricchezze, e come tale conquista un maggiore senso di autonomia e indipendenza del volere.

Il coraggio poi in questo caso sarebbe unito con l’astuzia. In una bella pagina, che riscrive filosoficamente la tipologia poetica di ogni Odìsseo e del suo navigare, come istanza di compenetrazione fra la solidità del suolo e la cedevolezza del fluido, Hegel così si esprime:

Il coraggio di fronte al mare deve quindi essere insieme astuzia, perché ha a che fare con ciò che è astuto, con l’elemento più malsicuro e mendace. Questo infinito piano è assolutamente morbido, non resiste affatto ad alcuna pressione, neanche al soffio: ha l’aria infinitamente innocente, remissiva, amabile, carezzevole, ed è appunto questa cedevolezza che cambia il mare nel più pericoloso e formidabile elemento. A tale insidia e violenza l’uomo […] contrappone solo un semplice pezzo di legno, in cui sale, affidandosi soltanto al suo coraggio e alla sua presenza di spirito; e così passa da ciò che è saldo a qualcosa che non offre punto d’appoggio, conducendo con sé il proprio suolo artificiale. La nave, questo cigno del mare, che con agili e rotondi movimenti solca il piano delle onde o vi traccia cerchi, è uno strumento la cui invenzione fa il più grande onore tanto all’arditezza quanto all’intelligenza dell’uomo 34.

In conclusione, perché il mito di Trieste, come si auspica, continui a vivere non solo di luce riflessa, forse non ci si dovrebbe attardare sul pluralismo culturale asburgico, che è storia remota, ma individuare l’aspetto essenziale, e non transeunte o accidentale, di ciò che ha avuto in quel periodo la possibilità di svilupparsi ed esprimersi, quello che Hegel chiamerebbe l’in sé, la dynamis o potenzialità “costiera” della vita di Trieste. Forse, dopo tutto, basterebbere leggere con altre categorie il nesso tra conformazione geografica e fisionomia culturale, e invece di scrivere di equilibrismi fra altipiano e mare, di strettoie fra frontiere naturali e artificiali, di etnie e lingue giustapposte, pensare in termini di innovazione, arditezza e intelligenza, di comunicazione, cultura e commercio, al mare non come al cessare della terra, ma come al superamento del limite: spazio di unione, contatto, scambio. L’opposizione dialettica tra fissità al suolo, saldezza continentale, e mobilità delle acque, imprevedibilità e accidentalità del rischio, tra agricoltura e navigazione, nella filosofia degli  spazi naturali e umani di Hegel, può offrirci le condizioni di intelligibilità di una Trieste (in teoria) come città potenzialmente capace di integrare, in una medesima esperienza più avanzata, le differenze delle culture di terra e di mare e in questo sta, a mio parere, la sua possibile identità, la sua riducibile differenza “insulare”.

17 Cfr. HEGEL, Enciclopedia, II, cit., p. 80; si veda anche §246,Agg, p. 86.

18 Cfr. HEGEL, Enciclopedia, II, cit., §247, p. 90.

19 HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, I, trad. it. G. Calogero e C. Fatta, Firenze, La Nuova Italia, 1978, p. 209.

20 Cfr. R. M. dAINOTTO, Europe (in Theory), Durham and London, Duke Universty Press, 2007, p. 168, che, senza darne le ragioni, ricostruisce «la trama tracciata dalla vera storia» per Hegel come quella di un «avanzamento climatologico dello spirito da un ‘torrido’ sud ad un nord ‘temperato’».

21 Il passaggio da un rapporto di desiderio (e distruzione egoistica, consumo) con l’oggetto ad un rapporto formativo, il superamento della propria soggettività e dell’oggetto esterno come elevazione, l’esperienza dell’essere-altro come altro Io, che porta al riconoscimento di un essenza comune di tutti gli uomini, sono i temi della fenomenologia dell’autocoscienza (cfr. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, III, Filosofia dello spirito, trad. it. A. Bosi, UTET, Torino, 2005, §§428-430, pp. 270-272).

22 HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., pp. 210-11.

23 Cfr. I. KANT, “Determinazione del concetto di razza umana” [1785], in: Id., Scritti di storia, politica e diritto, [a cura di F. Gonnelli],  Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 87-102.

24 Hegel, Enciclopedia, III, cit., § 393, Aggiunta, p. 124.

25 Quanto segue riassume il contenuto dei §§ 79-82 di HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, I, La Scienza della logica, trad. it. V. Verra, UTET, Torino, 1981, pp. 246-256.

26 HEGEL, Enciclopedia, I, cit., § 81, p. 250.

27 Ci pare interessante notare come le più recenti considerazioni geopolitiche sull’Adriatico, che lo ricollocano nel quadro della fine delle ideologie e dei blocchi contrapposti e alla luce della tesi che la politica mondiale si stia ristrutturando su assi culturali, con la convergenza di paesi affini per civiltà, osservino che esso è l’unico mare del Mediterraneo «dove non semplicemente due, come altrove accade, ma ben tre delle nove civiltà individuate da Huntigton entrano in contatto: l’occidentale, dalla parte italiana e dalla parte opposta sino all’altezza delle bocche di Cattaro;  ’ortodossa, lungo la costa montenegrina; l’islamica, in Albania. A soltanto un altro mare al mondo, il Mar del Giappone, che separa quest’ultimo dalla Corea e dai territori dell’ex Unione Sovietica, si interpone tra altri tre diversi insiemi culturali,  ’ortodosso, il sinnico e il giapponese. Ma nemmeno là il diaframma liquido è così uniforme e sottile come in Adriatico» (F. FARINELLI, L’eccezione adriatica, in “Lettera internazionale”, cit., p. 5).

28 Cfr. HEGEL, Enciclopedia, II, cit., §254, Aggiunta, p. 106.

29 HEGEL, II, cit., § 350, Aggiunta, p. 448.

30 HEGEL, Lezioni di filosofia della storia, cit., pp. 216-7.

31 Nel 1881, nella sua prefazione a una guida turistica del Danubio, per una filosofia hegeliana degli spazi naturali e umani da Passau a Linz, Ferdinand Zoehrer celebra il fiume del futuro, via commerciale più importante fra Oriente e Occidente le cui onde «trasportano continuamente la cultura verso est» (Cfr. Signori, si parte! Come viaggiavamo nella Mitteleuropa 1815-1915, a cura di M. bRESSAN, Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna, 2011, p. 161). A Trieste, le linee di navigazione  vapore del LLoyd Austriaco verso l’Oriente, sin dalla prima metà dell’800, verso Istria e Dalmazia (1845), e poi verso le Americhe, sono tutti esempi per cui Hegel fornisce un quadro teorico di riferimento quando sottolinea che fra America ed Europa il contatto è più facile di quanto sia nell’interno dell’Asia o dell’America. 32 Cfr. F. ¢ASSANO, Come I gabbiani. L’Adriatico per completare l’Europa, in: “Lettera internazionale”,cit., p. 11.

33 Cfr. C. sCHMITT, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo [1942], trad. it. G. Gurisatti. Con un saggio di F. Volpi, Adelphi, 2002.

34 HEGEL, Lezioni di filosofia della storia, cit., pp. 219-20.

BIBLIOGRAFIA

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HEGEL G.fi.F., Vorlesungen über die Logik, Berlin 1831. Nachgeschrieben

von Karl Hegel (a cura di U. rAMEIL),

 

 

Geografia

 

La geografia (dal latino geographia, a sua volta dal greco antico: γῆ, “terra” e γραφία, “descrizione, scrittura”) è la scienza che ha per oggetto lo studio, la descrizione e la rappresentazione della Terra nella configurazione della sua superficie e nella estensione e distribuzione dei fenomeni fisici, biologici, umani che la interessano e che, interagendo tra loro, ne modificano continuamente l’aspetto.

La geografia è molto più che la cartografia, cioè lo studio delle mappe, o la topografia. Rispetto ad esse, infatti, la geografia aggiunge l’indagine della dinamica e delle cause della posizione della Terra nello spazio, dei fenomeni che avvengono su di essa e delle sue caratteristiche.

Tra i popoli dell’area circum-mediterranea, i primi ad elaborare un vero concetto di geografia sono stati i Greci, dai quali deriva appunto il nome in uso in Occidente. Eratostene (al quale si deve anche l’introduzione del nome) introdusse l’uso delle coordinate sferiche (latitudine e longitudine) per individuare le località geografiche. Importanti progressi furono poi compiuti da Ipparco di Nicea, che in particolare introdusse l’uso di metodi astronomici per il calcolo delle longitudini.

Il primo geografo romano di cui abbiamo notizie fu Pomponio Mela che scrisse il breve trattato Chorogràphia; poi il greco Strabone (vissuto fra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C.), compose un’imponente Storia (pervenutaci solo in pochi frammenti) ed una non meno importante e completa Geografia, che invece ci è giunta in buone condizioni. L’opera di Strabone è tuttavia qualitativa e non usa le tecniche di geografia matematica che erano state introdotte da Eratostene e Ipparco.

Lo studio della geografia matematica fu ripreso nel II secolo d.C. da Marino di Tiro e, soprattutto, da Claudio Tolomeo, la cui Geografia non solo riporta le coordinate sferiche di 8000 diverse località, ma espone anche i metodi di proiezione usati nella cartografia.

Il Medioevo, come con altre scienze, dovette prima difendere (nelle biblioteche monastiche) quanto avevano prodotto gli antichi dalle distruzioni operate dai barbari, poi ricominciare a produrre opere nuove, che hanno per noi oggi l’aspetto di cataloghi, o carte molto approssimate e addirittura spesso inventate. Spiccano però le mappe della cartografia nautica, per la loro precisione ed accuratezza (spesso corredate da testi contenuti in un libro portolano), soprattutto quelle realizzate nell’Europa meridionale. Anche i geografi Arabi crearono opere di estrema qualità, come per esempio il “Libro del Re Ruggiero”, di Idrisi (del XII secolo), e altri autori ancora come Ibn Battuta e Ibn Khaldun.

Con le grandi esplorazioni terrestri dirette in Asia (Il Milione di Marco Polo, nel XIII secolo, ne è un esempio affascinante) e quelle marittime, o ancora verso l’Asia o verso le Americhe, l’uomo “riscoprì” la passione per la geografia, e il bisogno di uno studio più accurato. Nella seconda metà del XV secolo la riscoperta in Europa dell’opera geografica di Tolomeo fu essenziale per la rinascita della cartografia. Sono infatti di quell’epoca i primi atlanti europei ottenuti con l’uso dei metodi della cartografia matematica. Al XVII secolo risalgono i tentativi di Varenio di sistemare la scienza geografica.

Nel Settecento si cominciò a intendere come scopo principale della geografia la raccolta di dati sulle caratteristiche fisiche, sociali, economiche, storiche di ogni paese.

Nell’Ottocento nacque la cosiddetta geografia moderna, per merito (soprattutto) dei tedeschi Alexander von Humboldt (che ne fondò l’indirizzo naturalistico) e Carl Ritter (che ne fondò l’indirizzo antropico-storico): con il passare del tempo questi due indirizzi si fusero poi in uno solo. Presto divenne una disciplina universitaria, a cominciare da Parigi e Berlino.

Negli ultimi due secoli, la quantità di conoscenze e il numero di strumenti disponibili sono aumentati molto. Ci sono forti legami tra la geografia e le scienze di geologia e botanica, come anche economia, sociologia e demografia. Nel XX secolo, in occidente, la disciplina geografica venne esaminata in quattro diverse fasi: determinismo geografico, geografia regionale, rivoluzione quantitativa e geografia critica.

La “rivoluzione quantitativa” della geografia si diffonde a partire dagli anni Sessanta, grazie anche allo sviluppo delle tecniche statistiche e matematiche. Questa “rivoluzione” porta a un rinnovamento della geografia, infatti si inserisce il termine di “nuova geografia” poiché si spera di racchiudere ogni fatto e avvenimento geografico entro una misurazione espressa quantitativamente e perciò la possibilità di capire (attraverso algoritmi matematici e strumentazioni computerizzate), le relazioni tra fenomeni molto diversi che l’osservazione di una singola persona o studioso non avrebbe potuto indicare con perfetta precisione. Questa nuova concezione della geografia, nella seconda metà degli anni Settanta viene quasi rigettata perché si sostiene che i dati raccolti non sono sempre affidabili e questo può portare a conclusioni contrastanti.

 

Il pensiero anarchico

A cura di Silvia Ferbri

 “Vuoi rendere impossibile per chiunque opprimere un suo simile? Allora, assicurati che nessuno possa possedere il potere” (M. Bakunin)

È possibile accostare il pensiero anarchico alla filosofia? Se “filosofia” significa amore per il “sapere”, ricerca mai conclusa del “sapere”, del “conoscere”, del “comprendere”, forse non sono molte le correnti filosofiche dall’età moderna in poi, pur così nominate, a poter rivendicare per sé questa qualifica in senso pieno. La maggior parte di esse si limita infatti ad offrire una specifica visione del mondo o dell’uomo, spesso dettagliata e argomentata, il più delle volte considerata un punto di arrivo. Non è anche l’anarchia una particolare dottrina politica, legata a un determinato momento storico? Se approfondiamo un poco la conoscenza di questo pensiero, ci renderemo conto che una definizione più corretta può essere invece “dottrina etico-politica” (molti pensatori anarchici si sono occupati di problemi etici, basti l’esempio di Kropotkin), e se andiamo ancora avanti nella nostra esplorazione, alla fine arriveremo a concludere che può essere ancora più opportuno riconoscerla come “filosofia etico-politica”, e attribuirle quindi lo spazio a cui ha pieno diritto all’interno del pensiero filosofico in senso lato. Potremmo anche dire, rifacendoci ad Aristotele, che si tratta di una “filosofia pratica”, in quanto caratterizzata dall’azione, sia come scopo che come oggetto.

Ma per rispondere con maggiore certezza a simili domande e affrontare con la massima apertura e disponibilità questa ricerca, occorre innanzitutto abbandonare i vari pregiudizi, chiarirci il più possibile le idee, e cioè partire dall’inizio. Il termine “anarchia” è infatti ancora un po’ troppo avvolto nella confusione. Muoviamo allora dalle origini, dal significato della parola “anarchia”.

Il termine “an-archia” deriva dal greco “αναρχία”, parola composta dalla radice α-(a-), senza, e dalla radice αρχ- (arch), governo, dominio, e viene solitamente tradotto con le espressioni “senza-comando”, “senza-potere”, “senza-autorità”. “Archi” (archi), primo termine di numerosi composti, deriva dal verbo “archein”, archein, comandare. Così “archia”, archia, da “archos”, archos, “arca”, nelle parole composte dotte significa “governo”, “dominio” (mon-archia, olig-archia) e “an-archos”, an-archos, può essere pertanto tradotto “senza un superiore”. Ma si considera anche, come secondo termine, “arch ”, arché, che unito alla radice α- diviene “an-arch”, an-arché.  “Arché” però, prima ancora di “comando”, “potere”, “autorità”, significa “principio”, “origine e fine di tutte le cose”, perciò “anarchia” può anche voler dire “senza principio”, “senza divinità”, “senza dogmi”.

Una delle definizioni del pensiero anarchico (in forma sintetica) è infatti “né Dio né padrone”. Sébastien Faure disse: “Chiunque neghi l’autorità e combatta contro di essa è un anarchico”. Definizione molto semplice, e per questo incompleta e alla fine fuorviante. Il pensiero anarchico è in realtà un pensiero complesso, policromo, talvolta contraddittorio. Semplificarlo non aiuta a conoscerlo e a liberarsi dalla confusione cui accennavamo prima. E’ un pensiero che ha una sua storia peculiare e un proprio originale nucleo teorico-concettuale, che lo distingue da altre dottrine politiche, come il socialismo o il liberalismo, e che lo rende in un certo senso più ampio di queste, in quanto tende ad occuparsi dell’intera vita umana e non soltanto della gestione politica o di quella economica. Ma ciò che soprattutto lo distingue dalle altre dottrine politiche, è che per l’anarchismo non esiste una “umanità astratta” (di cui invece trattano tanto il liberalismo quanto il socialismo di stato e il comunismo autoritario), ma singoli uomini concreti. Il pensiero anarchico pertanto, diversamente dalle altre dottrine politiche, non ritiene di aver compreso per via filosofica la “natura” dell’uomo, e non si considera legittimato a prescrivere un codice morale e un’etica di comportamento che implichino diritti e doveri uguali per tutti gli uomini. Nell’anarchia è di fondamentale importanza l’autodeterminazione dell’individuo, di ogni singolo individuo, che è unico e diverso da tutti gli altri, e il suo totale e pieno diritto di scelta, di consenso o di rifiuto. Potremmo provare a definirla quindi una filosofia della libertà. Ma anche così otteniamo una definizione in un certo senso riduttiva e vaga al tempo stesso. Quello anarchico non è un pensiero che rimane tale: è un pensiero legato strettamente all’azione, dando immediata origine all’”anarchismo”. Precisando meglio, l’anarchismo non deriva da riflessioni astratte di qualche intellettuale o filosofo, ma dalla lotta diretta dei lavoratori contro il capitalismo, dalla ribellione degli oppressi contro i loro oppressori, dai bisogni e dalle necessità di questi uomini e dalle loro aspirazioni di libertà ed eguaglianza. I pensatori anarchici, quindi, come Bakunin o Kropotkin, non inventarono l’idea dell’anarchismo, semplicemente la scoprirono nelle masse oppresse e sfruttate e la rafforzarono, la chiarirono e la divulgarono. E’ l’azione pertanto che dà origine al pensiero. Il fine ultimo dell’anarchismo è infatti quello di un cambiamento sociale. L’anarchia critica la società esistente, di conseguenza non respinge il potere terreno in base a considerazioni prettamente filosofiche o religiose (come i mistici o gli stoici, ad esempio).

Per inciso, si può, senza eccedere in fantasia, tanto per quanto riguarda il pensiero anarchico come per altri pensieri “moderni”, fare accostamenti in alcuni punti con correnti filosofiche più antiche, e in questo caso quindi rilevare alcune somiglianze tra il pensiero anarchico e lo stesso stoicismo, ad esempio, per la sua visione cosmopolita,  o ancora meglio lo scetticismo, per il suo rifiuto di ogni dogma, o l’epicureismo, per la sua concezione materialistica e atomistica, per il suo contatto con la realtà concreta, per la scelta della situazione, delle persone e dei fatti che meglio si armonizzano con la costituzione intellettuale dell’individuo, per l’esclusione delle sterili dispute sulle questioni “supreme”, per la pluralità delle ipotesi, per la vita piacevole accompagnata però dalla rinuncia “al più”, quindi la semplicità e non lo spreco, per il suo rifiuto dell’attività politica fine a se stessa, o, ancora, si può accostare il pensiero e il sentire anarchico ad alcuni aspetti del libertinismo, per il suo richiamo alla dignità e all’autonomia della ragione dell’uomo, per il suo volersi emancipare da ogni forma di servitù intellettuale e per la sua ribellione morale alla legge e alla tradizione invecchiata, a tutto ciò che non permette all’uomo di liberare la sua creatività, quindi per quel suo spirito innovativo, scanzonato e ribelle. Portiamo dentro di noi in vari modi l’intera storia del pensiero che ci ha preceduti, che spesso riemerge in forme nuove.

Riprendendo il filo del discorso, l’anarchia, come abbiamo osservato, non sogna un mondo ultraterreno. Si occupa di questo, dove ora ci troviamo a vivere. Non si esaurisce in desideri o fughe individuali. Né si è mai considerata un pensiero elitario. E’ un pensiero concreto e radicato nel mondo che lo circonda, aperto a tutti quanti gli uomini. Esistono infatti sia il pensiero anarchico che il movimento anarchico, nelle sue varie fasi, forme ed espressioni. E sono qualcosa di inscindibile. Uno non può esistere senza l’altro. L’anarchia in senso astratto non ha senso per gli anarchici, ciò che essi desiderano è realizzarla concretamente, qui e ora. Le idee da sole non significano nulla: vanno messe in pratica nella vita di tutti i giorni, in quella pubblica come in quella privata (per gli anarchici non esiste questa distinzione, così come non esiste distinzione tra i mezzi e il fine che si vuole raggiungere; non si può voler ottenere la libertà, ad esempio, restringendola o negandola), tentando di realizzare in ogni gesto, singolarmente e in comunione con gli altri, quel mondo più umano, più libero, più giusto, che è al centro dell’ideale anarchico. A questo punto è necessario osservare come invece nell’immaginario della maggioranza degli individui il termine “anarchia” venga associato al caos, al disordine, alla violenza. O all’individualismo e all’egoismo. Oppure, anche riconoscendola come dottrina socio-politica, si tende ad accostarla al “nichilismo” o al “terrorismo”. Tutto questo avviene perché tanto la storia del pensiero anarchico quanto quella del suo movimento sono ben poco conosciute e sono sempre state tenute in ombra. Non è facile così riuscire a capire che anarchia non significa affatto disordine: caso mai il suo contrario, nel senso che gli anarchici tentano di ritrovare, di ricostituire quello che per loro è l’”ordine naturale” delle cose e della vita, deformato e stravolto nel tempo dalle varie forme di sopraffazione, di dominio, di sfruttamento e di potere. Come pensare che uomini come Tolstoj e Godwin, Thoreau e Kropotkin, le cui teorie sociali sono state definite anarchiche, volessero portare nient’altro che il caos, il disordine, la violenza nella società? Altrettanto difficile è in genere comprendere come il rispetto per la libertà dell’individuo, del singolo, visto spesso, in modo errato, unicamente come esaltazione del singolo, come puro egoismo, possa unirsi alla solidarietà nei confronti degli altri, in particolare nei confronti degli ultimi, degli emarginati, degli oppressi.

L’immagine distorta dell’idea anarchica ha diverse cause. Una può forse essere imputata agli stessi anarchici o a una parte di loro, e cioè a quella propaganda che poneva principalmente l’accento sugli aspetti distruttivi della dottrina. Ma non è mancata in realtà neppure la propaganda contraria, quella propositiva e costruttiva, sostenuta costantemente, tra l’altro, da concreti esempi di vita. La ragione principale, invece, parrebbe essere la versione spesso faziosa, in ogni caso superficiale, fornita da sempre dalla storiografia, tanto di destra quanto di sinistra (con grosse responsabilità da parte dei marxisti, a cominciare da Marx in persona, che qualificò l’anarchismo come una ideologia piccolo borghese, espressione immatura, disorganica e unicamente individualistica di ceti sociali in crisi per la disgregazione del mondo contadino e artigiano, e non ancora inseriti nel processo di produzione capitalistico, senza considerare lo scontro di potere all’interno della Prima Internazionale dei Lavoratori). Non di certo ultima, un’altra ragione è il fatto in sé evidente che il pensiero anarchico non piace a chi è al potere (o a chi il potere lo ama o lo condivide): anarchia e potere sono nemici da sempre. (Così come anarchia e gerarchia, anarchia e autoritarismo, anarchia e verticismo). Gli anarchici non vogliono conquistare il potere (neppure in “nome del popolo”), vogliono eliminarlo. In altre parole si può dire che vogliono frantumarlo  e ridistribuirlo in migliaia e migliaia di piccole unità, tante quanti sono gli esseri umani. I governi perciò, di qualsiasi colore, hanno sempre dato la caccia agli anarchici, hanno cercato di metterli a tacere, hanno sempre tentato di accusarli di ogni atto di terrorismo o violenza e di ogni azione nei confronti della ricchezza e della proprietà privata, così come nei confronti del capitalismo di stato e della sua burocrazia tirannica, tutte cose che gli anarchici desiderano abolire e che i governi e le loro polizie intendono invece difendere ad ogni costo. L’ineguale distribuzione della ricchezza e la proprietà privata, così come il potere di pochi sulla vita dei molti, sono alla base stessa dell’esistenza dei governi e della polizia, secondo l’analisi anarchica ma non solo. Nei nostri tribunali si dovrebbe amministrare la giustizia. Ma come si può considerare giusto, equo, il mondo in cui viviamo? Questo è quanto gli anarchici si chiedono e mettono da sempre in discussione.

Quali sono dunque i caratteri fondamentali del pensiero anarchico? Quali i suoi valori di riferimento? Prima di tutto: quando hanno cominciato ad essere effettivamente utilizzate le parole “anarchia”, “anarchismo”, “anarchico”?

Durante la Rivoluzione francese il girondino Brissot definiva anarchici il movimento degli Enragés, e nel 1793 dava questa definizione dell’”anarchia”: “Leggi non tradotte in effetto, autorità prive di forza e disprezzate, il delitto impunito, la proprietà minacciata, la sicurezza dell’individuo violata, la moralità del popolo corrotta, nessuna costituzione, nessun governo, nessuna giustizia: queste  le caratteristiche dell’anarchia.” Definizione quindi del tutto negativa, rafforzata in seguito dal Direttorio, che sarebbe sceso addirittura alle ingiurie: “Per «anarchici» il Direttorio intende quegli uomini carichi di delitti, macchiati di sangue, impinguati dalle ruberie, nemici di tutte le leggi che non sono state fatte da loro, di tutti i governi in cui loro non governano...”

Possiamo invece attribuire una prima riconoscibile e coerente formulazione del pensiero anarchico all’illuminista inglese William Godwin (1756-1836), quando venne data alle stampe nel 1793 la sua opera Enquiry Concerning Political Justice (che si basa su di un assunto di matrice liberal-libertaria, già sviluppato tra gli altri da Thomas Paine, John Locke e Thomas Jefferson, e cioè la contrapposizione tra la società, considerata naturale e buona, e il governo, lo stato, ritenuto artificioso e malvagio, nato in un’epoca di immaturità della ragione e che si basa unicamente sulla forza, al di là delle varie giustificazioni mitiche sulle quali pretende di reggersi) mentre il primo ad adottare orgogliosamente per sé il termine “anarchico” fu il pensatore francese socialista Pierre Joseph Proudhon, nel suo Che cos’è la proprietà? che uscì nel 1840. “Quale dev’essere la forma del governo nel futuro? Sento alcuni dei miei lettori rispondere: «Ma via, come puoi fare una domanda simile? Tu sei un repubblicano.» Un repubblicano! Si, ma questa parola non dice ancora nulla di preciso. Res publica significa la cosa pubblica; chiunque si interessi alla condotta della cosa pubblica, sotto qualsiasi forma di governo, può dunque chiamarsi repubblicano. Persino i re sono repubblicani. «Ma tu sei un democratico.» Neanche per sogno….«Che cosa sei allora?» Sono un anarchico!”. Proudhon, convinto che nella società operi una legge naturale d’equilibrio, ritenne l’autorità nemica  e non amica dell’ordine, e ribaltò così le accuse rivolte agli anarchici, rivolgendole a sua volta ai fautori del principio autoritario.

Possiamo citare come valori di riferimento quelli emersi dalla Rivoluzione francese: libertà, eguaglianza, solidarietà. (Valori che non hanno poi trovato, a seguito di quella lunga e sanguinosa vicenda, la loro vera e piena applicazione e realizzazione, essendo si in questo caso espressione dell’emergente borghesia, o almeno essa se ne impadronì e li adoperò per i propri interessi).

Anche il liberalismo e il socialismo fecero propri questi valori, ma l’interpretazione anarchica è profondamente diversa: se per il socialismo il valore principale di riferimento è l’uguaglianza e per il liberalismo la libertà, per l’anarchismo tali valori sono del tutto inscindibili e non possono che darsi contemporaneamente. Non vi può essere libertà senza uguaglianza né uguaglianza senza libertà. E la solidarietà verso gli oppressi è sempre presente. L’anarchismo quindi fa riferimento a questi valori, ma in un modo ben preciso, rigoroso e totale. Ciò che è importante rilevare è che l’affermazione anarchica della libertà, individuale e sociale, è radicale e completa, e si unisce all’altrettanto radicale critica nei confronti del principio di autorità, nei confronti del potere e del dominio in quanto tale.

L’anarchismo ne ha combattuto perciò ogni manifestazione storica, in particolare la forma politica assunta dal dominio nella società moderna: lo stato. La critica anarchica non nasce isolata: pensiamo alle svariate espressioni di lotta al potere, tanto religioso che politico, tanto culturale che economico- sociale che percorrono l’era moderna, fino a giungere alla decapitazione di un re sulla piazza della Rivoluzione a Parigi. Ma la critica anarchica appare l’approdo ultimo e quello più radicale e completo, che non accetterà mai compromessi e continuerà a negare ogni tipo di società scissa in governanti e governati. Continuerà a criticare e combattere l’autoritarismo in ogni sua forma, le gerarchie, le istituzioni oppressive nemiche dell’autodeterminazione e della libertà, le disuguaglianze e le ingiustizie sociali, quindi la proprietà privata, l’appropriazione della ricchezza, lo sfruttamento del lavoro altrui, e in tempi più recenti lo sfruttamento delle risorse naturali e ambientali, lo sfruttamento animale, l’inquinamento e lo spreco. Gli anarchici allora, ci si può chiedere, sono contro o a favore del progresso? La risposta è semplice: l’anarchico non concepisce il progresso come continuo e sfrenato aumento della ricchezza materiale e del consumo, dello sfruttamento tanto del lavoro quanto delle risorse, come distruzione dell’ambiente, come incremento della complessità della vita, ma piuttosto come moralizzazione della società attraverso l’abolizione dell’autorità, dell’ineguaglianza, dello sfruttamento economico e ambientale, e, insieme, come offerta ad ogni singolo essere umano, e a tutti quanti gli uomini, delle stesse possibilità di sviluppo individuale in termini di benessere, cultura, qualità della vita, senza privilegi o discriminazioni di sorta (economiche, etniche, razziali, di genere…). L’anarchismo critica inoltre le barriere nazionali e le disuguaglianze tra i popoli, e il concetto di patria, in nome della quale troppi uomini hanno perduto inutilmente la vita. Non le guerre tra i popoli, tra gli oppressi, quindi, ma un’unica guerra agli oppressori, ai potenti, che per i loro interessi hanno sempre sacrificato la vita dei giovani, dei lavoratori, dei proletari.

A fianco della critica e della lotta, il sogno e il progetto di una società di liberi ed uguali. Una società armonica, che ritrovi il suo proprio equilibrio e quello con la natura intorno a sé.

Come deve essere composta, organizzata la società secondo il pensiero anarchico?

Innanzitutto, nessuna divisione tra governanti e governati, come abbiamo visto.

L’amministrazione degli affari sociali ed economici sarà affidata a piccoli gruppi locali, libere associazioni tra individui, senza regie dall’alto, senza padroni o capi di alcun genere. Quindi federazioni di comuni e di lavoratori, coordinate tra loro in modo circolare e orizzontale, fondate sull’autogestione e la cooperazione, una rete organica di interessi che si equilibrano a vicenda, basata sulla naturale tendenza degli uomini ad aiutarsi reciprocamente, senza necessità alcuna di schemi artificiali di coercizione (mutualismo ed associazionismo, ad esempio, fanno parte della storia del movimento anarchico). La produzione sarà il più possibile locale e differenziata a seconda del terreno, l’industrializzazione non sarà sfrenata e massiccia, avrà grande importanza l’artigianato, il lavoro concreto, bello, creativo, gli oggetti fatti per durare e non “usa e getta” come è nella logica del consumismo. L’impatto ambientale dovrà essere il più basso possibile. L’anarchia non è una forma estrema di democrazia: se nella democrazia sovrano è (teoricamente) il popolo, per gli anarchici “sovrano” deve essere l’individuo, che non ha alcun bisogno di delegare ad altri la gestione dei suoi interessi né di essere “rappresentato”, e che ha pieno diritto di scelta. Inoltre, il pensiero anarchico nega il diritto di qualsiasi maggioranza di imporre la sua volontà a una minoranza. Nega quindi valore in sé alle leggi degli uomini. “Qualsiasi legge deve comparire prima di tutto davanti al tribunale della nostra coscienza.” disse Elisée Reclus, geografo anarchico francese protagonista della Comune di Parigi. “V’è un solo potere”, scrisse Godwin, “al quale posso prestare un’obbedienza convinta: la decisione della mia intelligenza, il comando della mia coscienza.”. L’anarchismo rifiuta poi, oltre a qualsiasi forma di monopolio dei mezzi di produzione e dei prodotti, così come del sapere, la divisione gerarchica del lavoro (intellettuale e manuale) e qualsiasi dicotomia e antagonismo tra città e campagna, tra mente e corpo. Né può l’anarchismo essere qualificato come “ideologia”, perché sempre aperto, mai dogmatico, contrario da sempre a qualsiasi astratta norma morale e a qualsiasi servitù del pensiero.

Questo sogno e questo progetto sono stati descritti e rincorsi in modi diversi: l’anarchismo non possiede una sola anima, al suo interno hanno sempre convissuto approcci differenti, tra cui quello rivoluzionario tout court, che considera legittimo il ricorso alla violenza per distruggere gli istituti del dominio, quello gradualista, basato principalmente sulla costruzione graduale e pacifica, quello educazionista o “pedagogico”, che mette al primo posto l’educazione del popolo, la diffusione di una cultura libertaria e il risveglio delle coscienze, anche se queste distinzioni sono in qualche modo arbitrarie e discutibili, un po’ perché i confini non sono così netti e poi perché l’anima più profonda è in realtà una sola, ed è l’amore per la libertà nella sua espressione più alta. Solo una autentica libertà in questa vita e in questo mondo può rendere felici gli uomini e in grado di sviluppare al meglio le loro qualità di esseri umani. A questo ideale di libertà (tutt’altro che egoistico) molti anarchici hanno dedicato o sacrificato la propria vita. Tutti questi modi, o correnti, rappresentano in ogni caso un progetto che in sé è sempre rivoluzionario. L’utopia anarchica, lungi dal rifugiarsi in un mondo fantastico, perduto in un remoto passato o in un ipotetico e improbabile futuro, è essenzialmente concreta, perché si fonda e muove da una approfondita critica dell’esistente, ed è l’esistente a dover essere capovolto e trasformato.

La rivoluzione, per gli anarchici, è da intendersi prima di tutto rivoluzione sociale, non meramente politica. E’ la rivoluzione del popolo. Ed è proprio per questo che ad ogni rivoluzione del popolo (che ne fosse promotore o partecipe con altre classi sociali) è sempre stato impedito di andare avanti oltre un certo punto, è per questo che ogni rivoluzione che voleva essere rivoluzione sociale oltre che politica è stata soffocata e tradita. Il potere e i privilegi (contro cui il popolo lottava) non dovevano scomparire, infatti, ma solo passare di mano. E la lotta del popolo è servita a questo, è stata strumentalizzata a questo scopo da chi di volta in volta ha assunto la regia della rivoluzione. La rabbia e la volontà di lotta e di cambiamento sociale espresse dal popolo sono state usate finché potevano essere utili, poi messe da parte, tradite o punite duramente quando non ve ne era più bisogno. Questa vicenda si è ripetuta più di una volta nella storia, con le varie differenze dovute al contesto, al luogo e al periodo, che si tratti della rivoluzione inglese, francese, messicana, russa, spagnola. E’ una storia poco conosciuta e compresa, e che solo gli anarchici hanno raccontato fino in fondo.

Per quanto riguarda l’uso della violenza, bisogna innanzitutto osservare che anarchia significa non-violenza, dal momento che significa non-imposizione dell’uomo sull’uomo, come sottolineava l’anarchico Errico Malatesta (1853-1932). La società alla quale tende l’anarchismo è infatti una società pacifica. Le differenze sono emerse nel momento di scegliere (a seconda anche delle circostanze e del momento storico contingente, ad esempio sotto una dittatura, o appunto nel corso di una rivoluzione) quali mezzi adoperare per raggiungere o avvicinarsi alla società desiderata, quindi ci sono stati coloro che hanno adottato l’uso individuale della violenza, altri invece un suo uso di massa, ma sempre come unica scelta possibile all’interno della realtà concreta e determinata in cui si sono trovati a dover agire. E la violenza da usare è sempre soltanto quella necessaria, niente di peggio o di più.

Per quanto riguarda invece l’educazione libertaria, si tratta di un approccio che mette al primo posto un rapporto paritario e non gerarchico tra l’adulto e il bambino e tra ogni educatore e i suoi allievi, e la possibilità offerta al bambino e ad ogni essere umano di realizzare completamente se stesso, di svilupparsi liberamente, senza imposizioni, costrizioni, premi, castighi. Quindi rifiuto dell’autorità, rispetto della libertà e delle propensioni individuali, progettualità autogestionaria, libertà di pensiero e di giudizio, “educazione integrale”, inserendo così l’educazione libertaria in una più ampia visione politica. Uno dei primi sostenitori dell’autonomia e dell’indipendenza del bambino fu proprio William Godwin, respingendo ogni tipo di coercizione nel processo educativo ed evidenziando la necessità di svincolare l’istruzione dal controllo dello stato, affinché l’istruzione non sia uno strumento del controllo sociale e un mezzo per rafforzare la visione e l’impostazione gerarchica e anti-libertaria della società. Temi analoghi li ritroviamo in Charles Fourier (1772-1837), secondo il quale nell’azione educativa occorre ridurre al minimo l’esercizio dell’autorità e permettere lo sviluppo di tutte le potenzialità della persona e in Max Stirner (1806-1865). Il concetto fourieriano di “educazione integrale” (un’educazione che comprenda in egual misura attività manuali ed intellettuali) verrà ripreso da molti pensatori anarchici, tra cui Pëtr Kropotkin (1842-1921) Altri anarchici che si sono interessati all’importanza dell’educazione libertaria sono stati gli italiani Errico Malatesta (1853-1932) e Camillo Berneri (1897-1937), vittima quest’ultimo come tanti altri della persecuzione da parte dello stalinismo nei confronti degli anarchici, in questo caso durante la rivoluzione spagnola del 1936. Gli esempi di scuole libertarie e antiautoritarie sono stati numerosi. La prima esperienza del genere è da attribuirsi a Lev Tolstoj (1828-1910), a Jasnaja Poljana tra il 1859 e il 1862, anno in cui la sua scuola verrà chiusa dalle autorità. Poi l’orfanotrofio francese di Cempuis diretto tra il 1880 e il 1894 da Paul Robin, esempio seguito da Sébastian Faure (1857-1942) con la sua scuola libertaria La Ruche (L’alveare), istituita fuori Parigi nel 1904, attiva fino al 1914, e poi ancora l’esperienza del libertario spagnolo Francisco Ferrer y Guardia (1859-1909) che fondò nel 1901 la sua Escuela Moderna a Barcellona, scuola laica e mista, con lo scopo di permettere ai ragazzi di diventare persone indipendenti, capaci di creare e vivere in una società libertaria (Ferrer verrà fatto fucilare dal governo spagnolo nel 1909), l’Université Nouvelle di Bruxelles fondata nel 1894 insieme ad altri dal geografo anarchico francese Elisée Reclus (1830-1905), che si terrà  a lungo in contatto con Ferrer, con il quale collaborerà per i suoi programmi educativi in particolare riguardo l’insegnamento della geografia (nel 1896 uscì un Manifesto europeo anarchico per la fondazione di scuole libertarie, tra i primi firmatari troviamo Reclus e Kropotkin), la scuola libera di Summerhill fondata nel 1921 da Alexander S.Neill (1883-1973) nel Suffolk, fino ad arrivare al movimento delle Free Schools negli anni successivi al 1960 negli Stati Uniti e in Europa, che si richiamavano ai principi di Tolstoj, Neill e Paul Goodman (basate su principi libertari quali la cooperazione, l’autogestione del progetto da parte di tutti i soggetti coinvolti, il rifiuto di un’organizzazione burocratica e gerarchica, l’assenza di un’autorità formale), poi alle Freie Schulen in Germania a partire dagli anni Settanta, e ai vari esperimenti di licei autogestiti in particolare in Francia fino al caso più recente di Bonaventure, sorta sempre in Francia nel 1993 nell’Ile d’Oleron, scuola per bambini dai tre ai dieci anni.

Per quanto riguarda l’”individualismo anarchico”, occorre dire che rispetto all’anarchismo che si è espresso in Europa nell’età contemporanea è una acquisizione abbastanza recente. Se fino agli anni Ottanta dell’Ottocento il termine “individualista” era adoperato in chiave polemica nei confronti di ideologie di derivazione liberale, in seguito tale significato si modifica, in particolare a causa delle trasformazioni della società, che diviene poco a poco una società di massa. All’uniformità che si va imponendo, si contrappone per contrasto l’individualità, che non intende sottomettersi alle norme e alle convenzioni “borghesi”, termine, quest’ultimo, che non aveva all’epoca un vero e proprio significato classista. Certe forme di individualismo infatti si ricollegavano a una lunga tradizione di ribellismo letterario, piuttosto che appartenere all’associazionismo operaio o essere in continuità con l’Internazionale anarchica. Si tratta inoltre di un fenomeno tutt’altro che unitario, presentando tendenze ed espressioni alquanto disomogenee. All’interno del movimento anarchico comincia così a manifestarsi la propensione all’atto isolato o ad opera di piccoli gruppi, frutto di una scelta individuale o espressione orgogliosa di una totale autonomia, rispetto anche all’organizzazione anarchica, intorno alla quale si dibatteva significativamente in quegli anni, anche se il passaggio dall’individualismo antiorganizzatore tradizionale a quello che venne definito individualismo d’azione non è così automatico. Quest’ultimo infatti costituiva una tendenza minoritaria all’interno del movimento anarchico, tendenza che ebbe il suo culmine in tutta una serie di azioni dimostrative fino ai tragici attentati della fine dell’Ottocento. Veniva intanto precisata una teorizzazione dell’individualismo d’azione, tramite la parola d’ordine “propaganda mediante il fatto”. In seguito questi filoni anarcoindividualisti andarono perdendo vitalità. Alla vigilia della prima guerra mondiale ci fu tra di essi chi scelse l’interventismo, chi invece si oppose (come il movimento anarchico nel suo complesso) alla costrizione alla violenza da parte degli stati.

Esistono altre anime o sfumature dell’anarchismo. Tra queste ricordiamo l’anarcosindacalismo, i cui maggiori ispiratori furono Émile Pouget (1860-1931), Fernand Pelloutier (1867-1901), Paul Delasalle (1870-1848) e il danese Cristian Cornelissen (1864-1943). Molti anarchici italiani militarono nell’Unione Sindacale Italiana, U.S.I., sindacato di ispirazione anarco sindacalista il cui segretario fu Armando Borghi (1882-1968) nel corso del primo ventennio del Novecento e furono protagonisti di importanti lotte operaie. Stessa cosa avvenne in altri paesi europei e non solo. Molti anarchici e libertari militano tutt’oggi in diverse organizzazioni sindacali, tra cui la stessa USI, ricostituita alcuni anni dopo la seconda guerra mondiale, e altre organizzazioni all’estero, alla ricerca di un sindacalismo realmente autogestionario, un sindacato dei lavoratori, non compromesso politicamente, che sia anche in appoggio ad ogni altra categoria di persone in difficoltà, lavoratori precari, disoccupati, extracomunitari, senza tetto, non ponendo al primo posto quindi la difesa di interessi di tipo corporativo, ma lavorando sempre nell’ambito di una più ampia visione di trasformazione sociale. Ricordiamo ancora l’anticlericalismo, l’antimilitarismo, il femminismo, l’antipsichiatria, l’utopia, l’ecologia sociale, la lotta contro l’istituzione carceraria e contro il razzismo (attualmente contro i centri di permanenza per gli extracomunitari ad esempio, e in generale contro tutte le gravi discriminazioni e persecuzioni a cui sono soggetti gli uomini che nascono nelle zone meno fortunate del mondo), la lotta contro le discriminazioni sessuali (la difesa della piena libertà di scelta, tra cui la scelta omosessuale), gli esperimenti di comuni autogestite, laboratori dove mettere in pratica l’utopia e la libertà (esempio tipico la Colonia Cecilia, fondata da Giovanni Rossi con un gruppo di circa centocinquanta lavoratori italiani in Brasile, nel Paranà, nel 1890, ma tanti altri esperimenti hanno continuato ad avere luogo e tutt’ora continuano).

 

I principali pensatori anarchici

Non è facile un’esposizione dei pensatori anarchici o una scelta tra di essi. Occorre anche tenere presente che la maggior parte di loro non visse soltanto di pensiero ma soprattutto di azione, inserendosi a vari livelli nel movimento anarchico e nelle lotte sociali, le cui opere scritte vanno quindi in qualche modo a completare una testimonianza offerta innanzitutto con la propria vita. Quello che segue qui non è che un elenco del tutto ridotto e incompleto, che esclude forzatamente alcune grandi figure che si sono distinte in numerosi e drammatici eventi rivoluzionari, tra cui l’Ucraina machnovista (da Nestor Machno, leader del movimento ucraino) nel contesto della rivoluzione russa,  la rivoluzione messicana (un nome dobbiamo farlo, ed è quello di Ricardo Flores Magón), la Catalogna libertaria durante la guerra civile spagnola, senza contare la partecipazione del movimento anarchico alla lotta contro il fascismo e alla Resistenza.

Dopo William Godwin (1756-1836) e Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865), cui abbiamo già accennato, e Max Stirner (pseudonimo di Johann Caspar Schmidt, 1806-1865), l’autore di Der Einzige und sein Eigentum (L’Unico e la sua proprietà) che uscì nel 1843, ricordiamo Michail Bakunin (1814-1876), grande rivoluzionario e pensatore russo, promotore dell’Internazionale Antiautoritaria dopo la rottura con Marx, autore di numerose opere tra cui Stato e Anarchia (1873), Pëtr Kropotkin (1842-1921), di cui sono da menzionare in particolare Il Mutuo Appoggio e L’Etica, (Kropotkin in maniera approfondita si è occupato tra il resto di problemi etici, muovendo da una rivisitazione critica del darwinismo ed elaborando il suo concetto del mutuo appoggio come fondamentale fattore evolutivo per tutte le specie viventi compreso l’uomo), quindi i francesi Elisée Reclus (1830-1905) e Jean Grave (1854-1939), vicini a Kropotkin insieme all’italiano Riccardo Mella (1861-1925). E ancora, per l’anarchismo italiano: Carlo Cafiero (1846-1892), Andrea Costa (1851-1910), Errico Malatesta (1853-1932), fondatore del quotidiano anarchico Umanità Nova e promotore dell’Unione Anarchica Italiana, Francesco Saverio Merlino (1856-1930), Pietro Gori (1865-1911), Luigi Fabbri (1877-1935), Camillo Berneri (1897-1937), uomini che insieme a tanti altri hanno dedicato la propria vita, in anni estremamente difficili, alla causa dell’emancipazione e della libertà, nel nostro paese e nel mondo intero. (E non ne abbiamo citato che alcuni). Purtroppo ancora oggi non sono in molti a sapere che cosa furono davvero quegli anni, a conoscere la portata del contributo anarchico e ad attribuire agli anarchici il posto che spetta loro nella storia politica e sociale della società italiana, per i motivi che abbiamo esposto in precedenza. Occorre quindi ricordare che la Prima Internazionale italiana fu principalmente anarchica, così come il primo socialismo italiano, e che solo in seguito esso diventò un socialismo riformista e parlamentarista. La storia del movimento anarchico italiano si sviluppa dalla nascita della Prima Internazionale allo scontro con i mazziniani prima (il nemico non appare più lo straniero, il nemico ora è il nemico di classe) e con i seguaci di Marx poi (contro l’autoritarismo e la gestione centralista), attraverso l’emergere delle correnti individualiste, nell’ambito dell’associazionismo operaio e del nascente sindacalismo di classe fino all’opposizione alla prima guerra mondiale, un movimento di grande ricchezza culturale e politica, che ha sempre lottato per la libertà e l’uguaglianza, per un grande ideale che doveva essere il “sol dell’avvenire” per l’intera società, soggetto pertanto costantemente alle persecuzioni più dure. Dopo le drammatiche vicende del periodo fascista, la seconda guerra mondiale e la partecipazione alla Resistenza, il movimento anarchico si ricostituisce in forme sempre nuove, dovute alle trasformazioni che si susseguono incessanti nel corso degli anni e al panorama sociale, politico ed economico che muta enormemente, continuando a portare avanti la sua ricerca della libertà e a tenere in vita il suo ideale di un mondo che sia davvero a misura d’uomo.

Storie in parte diverse hanno avuto gli anarchici negli altri paesi europei ed extraeuropei. Ricordiamo ad esempio il maggio francese del 1968, ma ovunque si lotti per la libertà, contro le oppressioni e le ingiustizie, contro le guerre e le occupazioni militari dei territori, gli anarchici non possono fare a meno di essere presenti. L’anarchismo continua a vivere oggi, sempre nel mirino della repressione, in una situazione e in un contesto che mutano e si trasformano ma soltanto in apparenza, perché il nodo centrale del dominio non è ancora stato sciolto. Il mondo odierno è gestito dalla pubblicità e dalla menzogna, dalle multinazionali, dal potere finanziario e militare, è un mondo molto più difficile da decifrare e comprendere rispetto a quello di un tempo, dotato di un controllo totale e onnipervasivo nei confronti degli esseri umani come mai prima, un mondo solo apparentemente democratico e libero, che propaganda in ogni modo la sua missione di difendere la “sicurezza” dei “cittadini”, ma che è invece ormai del tutto privo di libertà.

Molti intellettuali e artisti che si sono espressi in campi diversi da quello della riflessione politico-sociale in senso stretto possono essere compresi a buon diritto in questo sommario elenco, avendo mostrato una sensibilità affine in vari modi a quella anarchica. Nel campo della letteratura ricordiamo i poeti inglesi Samuel Coleridge (1772-1834), William Blake (1757-1827), Percey Bysshe Shelley, discepoli di Godwin, William Morris (1834-1896), autore del romanzo utopico News from Nowhere (Notizie da nessun luogo, 1891), Oscar Wilde (1854-1900), autore tra le altre sue opere di un breve saggio dove è evidente l’influenza di Kropotkin, L’anima dell’uomo sotto il socialismo, Lev Tolstoj (1828-1910), già ricordato, lo scrittore statunitense David Thoreau, autore di un trattato sulla disobbedienza civile, Franz Kafka, che espresse con forza un odio assoluto per il potere e la burocrazia, Henri Miller (1891-1980), libertino e libertario, in contatto con Emma Goldman (1869-1940), grande figura di donna anarchica e rivoluzionaria, le opere di George Orwell (1903-1950), Ignazio Silone (1900-1978), Albert Camus (1913-1960), e trascureremo qui gli autori della controcultura degli anni Sessanta, in particolare la beat generation e il Living Theatre. Anche nelle arti figurative c’è stato un fecondo incontro con l’anarchismo: Camille Pissarro, Carlo Carrà, André Breton, Enrico Baj ne sono un esempio. Nel cinema due nomi soprattutto sono significativi: Jean Vigo e Luis Buñuel. E ancora (dopo la pedagogia, già trattata): Lewis Mumford, Carlo Doglio, Giancarlo De Carlo per l’urbanistica, Pierre Clastres e Marc Augé per l’antropologia, Paul Feyerabend per la filosofia della scienza, Henri Laborit per la biologia, Thomas Szasz e Giorgio Antonucci per l’antipsichiatria.

Infine, in ordine sparso: Rudolf Rocker (1873-1958), intellettuale anarchico, i chansonniers francesi Brassens e Ferré, Paul Goodman (1911-1972) e Noam Chomsky (1928), Michel Foucault (1926-1984), Murray Bookchin (1921-2006), grande teorico dell’ecologia sociale, così definita in quanto afferma e dimostra che una vera trasformazione ecologica non può che basarsi su profonde trasformazioni sociali.

Ci si può davvero perdere nel tentativo di riconoscere temi e sentimenti anarchici: l’anarchia è infatti un modo di sentire e di essere, e alcuni suoi tratti o aspetti potrebbero essere scoperti un po’ ovunque e teoricamente in chiunque.

Ma torniamo all’ambito più strettamente filosofico, rispetto al quale, a questo punto, un interrogativo forse un po’ azzardato sembra presentarsi da sé e portarci a concludere questa breve esposizione.

Proviamo a considerare le principali caratteristiche della filosofia contemporanea. Come prima cosa rileviamo il carattere antimetafisico di gran parte di essa, essendo ormai venuto meno l’atteggiamento della tradizione filosofica che intendeva la conoscenza della “verità” come guida dell’azione umana e innanzitutto dell’azione morale e politica. Oggi si nega che l’esistenza dell’uomo possa avere un qualsiasi “fine” stabilito necessariamente dal posto assegnatogli “di diritto” nell’ordine dell’universo, e si riconosce invece che i fini dell’uomo sono soltanto quelli che egli sceglie liberamente: non ci troviamo più di fronte alla richiesta della contemplazione della verità del mondo, ma alla necessità della sua trasformazione pratica in base a progetti liberamente scelti e costruiti dall’uomo, nonché alla necessità di un’etica, ovvero di una responsabilità che occorre assumersi in questo mondo lacerato dai dolori e dalle ingiustizie. Se consideriamo poi che la filosofia ha un’altra fondamentale caratteristica, e cioè quella di mettere ogni cosa in dubbio e non prendere mai niente “per buono” (secondo Aristotele, come “scienza fine a se stessa” e non asservita ad altro, è l’unica a poter essere davvero libera), e che l’autentico filosofo è colui che è sempre alla ricerca, che pensa liberamente e autonomamente, che non si sottomette ad alcuna autorità di pensiero, non si arresta, non si accontenta e non si piega a una sola verità, che continua a porre in discussione qualsiasi presunta certezza, non ci viene spontaneo allora dedurne che non si può essere davvero filosofi, senza essere al tempo stesso anche un po’ anarchici?

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Simon Springer

Anarchismo!
quello che dovrebbe essere la geografia

 

«Noi, “terribili anarchici” come siamo, conosciamo un solo modo per stabilire pace e benessere tra donne e uomini: la soppressione del privilegio e il riconoscimento dei diritti. Non ci piace vivere se le gioie della vita sono solo per noi; noi protestiamo contro la nostra buona fortuna se non possiamo dividerla con gli altri; è più dolce per noi frequentare gli emarginati che sedere, coronati di rose, al banchetto del ricco. Siamo stanchi di quelle ineguaglianze che ci fanno nemici l’un l’altro; noi vogliamo porre fi ne alla furia che  spinge i popoli a scontri ostili e a tutto ciò che incatena il debole al forte sotto la forma di schiavitù, servaggio e dipendenza» (Elisèe Reclus 1884, p.641).

«Se voi volete, come noi, che sia rispettata la completa libertà

dell’individuo e, conseguentemente, la sua vita, necessariamente siete portati a ripudiare il governo dell’uomo sull’uomo, qualunque forma esso assuma; voi siete forzati ad accettare i principi della anarchia che voi avete disdegnato così a lungo. Voi dovete allora cercare con noi le forme della società che possano meglio realizzare questo ideale e mettere fine a tutta la violenza che suscita la vostra indignazione» (Piotr Kropotkin 2005 [1898]) p.144).

L’anarchismo è una filosofia politica calunniata; su questo non ci possono essere dubbi.

Comunemente l’anarchismo è descritto come una caotica espressione di violenza perpetrata contro il supposto pacifico «ordine» dello stato. Questa rappresentazione mistifica il cuore del pensiero anarchico, che è propriamente compreso come il rifiuto di tutte le forme di dominazione, sfruttamento, e «archia» (sistema di regole, governo), da cui la parola «an-archia» (contro il sistema di regole, non governo). L’anarchismo è una teoria e una pratica che cerca di produrre una società in cui gli individui possano cooperare liberamente come uguali in ogni aspetto, non in base alla legge o a una garanzia sovrana (che introduce nuove forme di autorità, impone criteri di appartenenza e rigidi legami territoriali), ma a partire da sé stessi in solidarietà e mutuo rispetto. Conseguentemente l’anarchismo si oppone a tutti i sistemi di regole o forme di archia (cioè gerarchia, patriarchia, monarchia, oligarchia, antropoarchia, eccetera) ed è invece fondata su forme cooperative ed egualitarie di organizzazione sociale, politica ed economica, dove possono fiorire spazialità autonome e in continua evoluzione. Sebbene sia stato spesso detto che ci sono tanti anarchismi quanti sono gli anarchici, il mio assunto è che l’anarchismo debba abbracciare un’etica della non violenza precisamente perché la violenza si riconosce sia come un atto che come un processo di dominazione.

La violenza è stata la base di molti movimenti storici anarchici e sarebbe semplicistico definire questo elemento come qualcosa di «non anarchico». In effetti prima che anarchici come Paul Brousse, Johann Most, Enrico Malatesta e Alexander Berkman sostenessero la violenza rivoluzionaria e la propaganda del fatto, i primi anarchici o «protoanarchici» come William Godwin, Pierre-Joseph Proudhon, Henry David Thoreau e Leo Tolstoi, rifiutarono la violenza come mezzo giustificabile per abbattere la tirannia dello stato. In accordo con queste posizioni l’anarchismo simpatizzava con la nonviolenza come si poteva vedere nel The Peaceful Re24 La pratica della libertà e i suoi limiti volutionist, un settimanale edito da Josiah Warren nel 1833 e primo periodico anarchico mai stampato. Che  l’ anarchismo sia diventato da allora un diretto sinonimo di violenza (piuttosto che riconoscerla come politico-economiche alternative e della limitata immaginazione geopolitica o l’i ndottrinamento ideologico di coloro che non possono o semplicemente rifiutano di concepire un mondo senza stati. Infatti la critica originaria dello anarchismo è che lo stato è la quintessenza della violenza o come Godwin (1976 [1793], p. 380) puntualizza: «Soprattutto noi non dobbiamo dimenticare che il governo è un male, un’ usurpazione del giudizio personale e della coscienza individuale dell’umanità». Dato l’approccio postcoloniale che la geografia umana contemporanea oggi sposa, i geografi radicali dovrebbero considerare più criticamente su come l’accettazione dello stato in effetti reintegri la violenza di pensiero e la pratica del colonialismo. Nel rinvigorire il potenziale delle geografie anarchiche e mettendo in pratica la prassi critica che l’ anarchismo richiede, il mio pensiero è che la non violenza dovrebbe essere compresa come un ideale in cui vivere per gli anarchici. Questa è la storia dell’anarco-femminista Emma Goldman (1996 [1923], p. 253) che nei suoi anni giovanili aveva flirtato con la violenza ma, alla fine, l’aveva rifiutata:

una cosa di cui mi sono convinta come mai nella mia vita, è che le armi non decidono assolutamente niente. Anche se raggiungono quello che si prefiggono, cosa che raramente avviene, producono così tante conseguenze negative da inficiare gli obiettivi originali.

Per questo, se l’anarchismo si pone contro lo stato e in particolare contro il monopolio, l’istituzionalizzazione e la codificazione della violenza che questa organizzazione spaziale rappresenta, allora ne consegue che l’anarchismo propone un’immaginazione geografica alternativa che rifiuta mezzi violenti. Inizio esplorando come i geografi hanno considerato il pensiero anarchico. Sostengo che sebbene l’anarchismo abbia contribuito fortemente alla radicalizzazione della geografia umana negli anni Settanta questa prima prospettiva è stata velocemente eclissata dal marxismo che da allora (insieme al femminismo) è diventato la pietra angolare della geografia radicale contemporanea. La sezione seguente problematizza l’utilitarismo del pensiero marxiano che, si sostiene, reitera i principi coloniali che il marxismo esplicitamente cerca di distruggere. L’anarchismo è presentato come un’alternativa preferibile per il fatto che si contrappone al nazionalismo e riconosce che non c’è una fondamentale differenza tra la colonizzazione e la formazione di uno stato se non per la scala secondo cui questi progetti paralleli operano, significando in tal modo che qualsiasi posizione «post coloniale» deve essere anche «post statale» o anarchica. In seguito cerco di dare una parziale risposta alla questione delle alternative allo stato e come nuove forme di organizzazioni umane volontarie possano esseremesse in condizione di fiorire. Piuttosto che proporre un imperativo rivoluzionario sostengo il valore dell’immediato, del qui e ora come la più emancipatoria dimensione spazio-temporale, precisamente perché è il luogo e il momento in cui noi effettivamente viviamo le nostre vite.

Considero a questo punto l’illusione neoliberista della dissoluzione dello stato un accessorio e ricordo che un «governo leggero» è sempre un governo per cui, mentre i disegni, le strategie, le tecnologie e le tecniche del governo neoliberista sono nuove, la logica disciplinare dello stato rimane la stessa. Nelle conclusioni propongo qualche pensiero sul futuro della geografia radicale e in particolare dove  penso che le geografie anarchiche possano costituire un quadro concettuale più libero che potenzialmente rompa sia la struttura discorsiva del neoliberismo sia i limiti del marxismo in relazione alle contemporanee lotte di opposizione.

Quindi questo articolo può essere letto come un manifesto delle geografi e anarchiche che sono concepite come spazialità caleidoscopiche che consentono connessioni multiple, non gerarchiche e propulsive tra entità autonome dove solidarietà, legami, e affinità  sono unite volontariamente in opposizione alla violenza sovrana, di norme predeterminate e categorie di appartenenza assegnate. Nel suo rifiuto di questi multiformi apparati di dominazione questo articolo è un richiamo all’uso di armi non violente per quei geografi e non geografi che cercano di porre fine all’apparente infinita serie di tragedie, sfortune e catastrofi che caratterizzano l’attuale maleodorante momento neoliberista. Ma questa non è semplicemente una richiesta che finisca il neoliberismo e il suo rimpiazzo con una più moderata e umana versione del capitalismo, né che si voglia una più egualitaria versione dello stato. È piuttosto una condanna del capitalismo e dello stato in qualsiasi forma si presentino; una condanna di tutti i modi di sfruttamento, manipolazione e dominazione dell’ umanità; un’opposizione alla deprivazione della maggioranza e ai privilegi della minoranza che fino a oggi e per comune accettazione sono state chiamate «ordine»; e il recupero di un progetto della geografia che risale ai primi giorni della disciplina. Questo non è niente di più e niente di meno che una rinnovata chiamata all’anarchismo.

 

Per geografi e anarchiche

Alla luce dei contributi fondamentali alla disciplina geografi ca di Kropotkin e di Reclus e dell’importante ruolo dell’anarchismo nella crescita di una prassi geografica più radicale, è sorprendente che questa vibrante tradizione intellettuale sia stata, fino a tempi recenti, largamente ignorata dai geografi dai tardi anni Settanta. Scrivendo nel periodo della maggiore infatuazione della geografi a per il colonialismo durante la fi ne dell’Ottocento e i primi del Novecento, e in forte contrasto con i contemporanei come David Livingstone, Halford Mckinder e Friederich Ratzel, che spesero i loro giorni sostenendo una visione imperialista della disciplina, sia Kropotkin sia Reclus avevano una risoluta immaginazione antiautoritaria. La teoria di Kropotkin del volontario reciproco scambio di risorse per il bene comune, o «mutuo appoggio», era una diretta sfi da al darwinismo sociale presente negli scritti di Mckinder, Ratzel e in particolare nel saggio del biologo Thomas Henry Huxley, La lotta per l’ esistenza, (1888). «Loro arrivarono a concepire il mondo animale come un mondo di lotta perpetua tra malnutriti individui assetati del sangue degli altri», scrive Kropotkin nella sua grande opera Il mutuo appoggio: Loro hanno fatto risuonare la moderna letteratura con il grido di guerra e la sofferenza del vinto, come se fosse una parola definitiva nella moderna biologia. Hanno innalzato la battaglia “senza pietà” per vantaggi personali alle altezze di un principio biologico cui pure gli umani devono sottomettersi sotto la minaccia di soccombere in un mondo fondato sul mutuo sterminio.

Sostenendo che la realtà del mutuo appoggio tra animali non umani minava gli argomenti naturalistici in favore di capitalismo, guerra e imperialismo che dominavano il pensiero geografi co del tempo, come pure i darwinisti sociali, precisamente in modo opposto Kropotkin voleva trovare in natura quanto voleva legittimare nella società. La geografi a di conseguenza doveva essere concepita non come un programma di prepotenza imperiale, ma come mezzo per dissolvere pregiudizi e realizzare la cooperazione tra le comunità (Kropotkin 1978 [1880]).

Come per il suo amico e compagno Kropotkin la visione anarchica di Reclus era similmente radicata nella geografi a. Reclus ha proposto un approccio integrale verso ogni fenomeno inclusa l’umanità che era concepita come inseparabile dalle altre forme di vita e dalle caratteristiche geografiche della terra stessa. La terra, di conseguenza, era concepita come un tutt’uno in cui ogni coerente elemento del mondo richiedeva un simultaneo riconoscimento di tutti i multipli fattori di interconnessione. Per Reclus (1905-1908, p.114- 115) «È solo attraverso un atto di pura astrazione che uno possa pensare di presentare un particolare aspetto dell’ambiente come se avesse un’ esistenza distinta e cerchi di isolarlo da tutti gli altri per studiare la sua influenza essenziale». Sebbene il focus fosse il sistema «naturale» il lavoro olistico di Reclus in effetti richiedeva che i fenomeni sociali fossero considerati come intrecciati e costitutivi della naturale «geografia universale» che aveva in mente (vedi Reclus 1876-1894). Per Reclus la sopracitata affermazione sulla natura aveva la stessa rilevanza delle idee prevalenti sull’ organizzazione umana, fossero quella marxiana o quella neoclassica, e questo riporta ai limiti di quelle due teorie economiche. Così mentre le idee reclusiane di integralità hanno ispirato l’ecologia sociale di Murray Bookchin e altre  parti del movimento ambientalista radicale, le implicazioni politiche del suo lavoro rispetto all’organizzazione umana sono state sostanzialmente ignorate dai geografi per più di un secolo.

Il suo permanente significato politico deriva in larga parte dalla sua visione egualitaria di una «globalizzazione dal basso» basata sulla integralità che lui ha descritto e promosso, e che offre un’alternativa teorica alla dominante versione della globalizzazione aziendale e statale. In contrasto con la situazione corrente di un mondo diviso tra chi ha e chi non ha dove la geografia dell’accesso al capitale aderisce largamente agli alti e bassi del sistema vestfaliano, Reclus (1876-1894, citato in Clark e Martin, 2004) preconizzava un mondo libero e senza stati con «il suo centro ovunque, la sua periferia in nessun posto».

Mentre la geografia umana contemporanea è opportunamente andata oltre all’affermazione della scienza come sinonimo di «verità», il medesimo scetticismo di Reclus e Kropotkin e le sfide alle ideologie dominanti di allora hanno molto da offrire agli studi geografi ci contemporanei e alla loro irriflessiva accettazione del «discorso» di civiltà, legalità capitalista che converge nello stato. La perpetuazione dell’idea che la spazialità umana necessiti della formazione degli stati è piuttosto ampia in una disciplina che da un lato ha deriso la «trappola territoriale» (vedi Agnew, 1994), ma dall’altro ha rifiutato di portare la critica dello statocentrismo verso la dissoluzione dello stato. I geografi contemporanei di conseguenza hanno evitato di co  nfrontarsi con il potenziale emancipatorio della prassi anarchica, sottostimando largamente i contributi di Hakim Bey, Bookchin e Pierre Clastres sull’importanza di alternative configurazioni rispetto allo stato, favorendo invece discussioni su alternative configurazioni dello stato, in particolare da parte della teoria marxiana. Nella forma odierna l’attenzione si concentra sulla spiegazione di come il  processo neoliberista faciliti la trasformazione dello stato e la sua permanenza facendo da contraltare alle diffuse teorie che la globalizzazione stia erodendo lo stato e producendo un mondo senza confini, il che significa la fine sia della storia sia della geografia. In altre parole mentre le idee neoclassiche e neoliberiste sono state vigorosamente dibattute e screditate dai geografi che si muovono in una ampia prospettiva marxiana, la geografia contemporanea non ha visto le critiche anarchiche al marxismo svilupparsi con la stessa forza empirica e teorica del suo rivale radicale; un impresa assolutamente da fare.

Sebbene molto sottorappresentati nella letteratura geografica recenti contributi offrono graditi interventi che prestano attenzione alle promettenti idee anarchiche sia teoriche sia pratiche.

Graditi come sono offrono grandi spunti in un terreno teorico ancora molto da esplorare dai geografi . In particolare penso ai profondi contributi di studiosi non geografi quali Lewis Call, Todd May, Saul Newman e di Douane Rousselle e Süreyyya Evren sulle possibilità e il potenziale del post-anarchismo. Mentre il post- strutturalismo è cosa comune nella disciplina, i geografi umani hanno mancato di esplorare il potenziale del pensiero post-anarchico con poche eccezioni. Altri hanno esplorato largamente spazialità «anarchiche» attraverso lenti poststrutturaliste, ma senza inserire questa attenzione nella emergente letteratura che esplici tamente sviluppa una teoria post-anarchica. Il post-anarchismo non è un movimento oltre l’ anarchismo, ma un rinnovamento di idee anarchiche attraverso «l’ infusione» con la teoria post-strutturalista, consentendoci così di mantenere uno spirito emancipatorio, nel mentre si abbandona il richiamo alla scienza e le essenzialiste epistemologie e ontologie che caratterizzano il pensiero anarchico classico. È doveroso per i geografi radicali cominciare a esaminare l’importanza contemporanea

dell’azione anarchica e delle teorie post-anarchiche nel resistere al capitalismo piuttosto che semplicemente ripetere quegli statocentrici e senza via d’uscita argomenti che puntano a una più equa distribuzione del potere all’interno dello stato. Lo stato dopotutto, nella classica critica anarchica, è un’istituzione gerarchica che presume il rispetto dell’autorità. Come hanno riconosciuto chiaramente pensatori «non anarchici» quali Giorgio Agamben e Walter Benjamin è precisamente a causa del carattere giuridico sovrano dello stato che non può mai essere effettivamente egualitario. E così i geografi dovrebbero domandarsi: dove possono portarci supposti argomenti liberatori che continuano ad accettare lo stato se non a strutture di gerarchia e dominazioni fermamente stabili?

Nonostante non sia l’unica preoccupazione degli anarchici, lo stato è il primario argomento del pensiero anarchico. Sebbene i marxisti abbiano sempre più criticato la logica del potere statale, va oltre lo scopo di questo articolo sviluppare una tassonomia che indichi con precisione la posizione verso lo stato delle multiple varianti del pensiero marxiano. A rischio di semplificare eccessivamente la complessità delle intersezioni tra le due principali alternative del pensiero socialista, ciò nonostante è facile dire che la questione dello stato è la differenziazione originaria tra marxismo e anarchismo. Infatti la principale divisione tra anarchismo e marxismo si riferisce alle differenti opinioni sul grado di autonomia concesso ai lavoratori in un contesto post-rivoluzionario e la strettamente legata questione del monopolio della violenza. Gli anarchici rifiutano decisamente tale monopolio sulla base che la violenza è soprattutto la primaria dimensione del potere dello stato e di ogni stato; sia controllato dalla borghesia o conquistato dai lavoratori inevitabilmente funzionerà come strumento della dominazione di classe. Al contrario i marxisti credevano che poiché una classe minoritaria governa la maggior parte delle società, prima del socialismo il raggiungimento di una società senza classi richiede che, preventivamente, la classe più svantaggiata conquisti lo stato e acquisisca il monopolio della violenza. Dunque il desiderio di superare lo stato e creare un sistema socialista liberato attraverso un potere dispotico è una contraddizione che gli anarchici negano. La correlata nozione marxiana dell’estinzione dello stato era similmente vista come una contraddizione. E Bakunin ha osservato (1953 [1873], p. 288): Se il loro Stato è un genuino Stato popolare, perché dovrebbe dissolversi? …(i marxisti) dicono che questo giogo statale (la dittatura) è un necessario mezzo temporaneo per raggiungere l’emancipazione del popolo: l’anarchismo o la libertà è lo scopo, lo Stato o la dittatura è il mezzo.

Quindi per liberare le masse lavoratrici per prima cosa è necessario schiavizzarle. Questa notevole contraddizione inorridiva gli anarchici e durante la Prima Internazionale questa differenza divenne la fondamentale divisione tra i socialisti. Mentre il marxismo tradizionalmente rappresenta il confine statista dello spettro politico socialista, o in ultima analisi, l’accettazione dello stato in termini utilitaristici come mezzo verso una finalità attraverso una provvisoria dittatura del proletariato, l’anarchismo è sempre stato il campo del socialismo libertario rifiutando l’idea che uno stato, sia pur modificato, possa mai scomparire e condurre a una condizione di emancipazione.

Il colonialismo è morto, lunga vita al colonialismo?

Non condivido l’entusiasmo di Marx per il capitalismo. Marx e gli economisti politici classici vedono il capitalismo attraverso simili lenti celebratorie; solo che Marx mitigava la sua visione suggerendo che era una necessaria fase da passare sulla via del comunismo e non una gloriosa fase finale come nel progetto liberale di Adam Smith. Scrivendo un secolo dopo Bill Warren, uno dei più controversi scrittori della tradizione marxista, lo ha colto come essenza del lavoro di Marx. Warren (1980, p. 136) sosteneva che:  l’ imperialismo era il mezzo attraverso cui tecnica, cultura e istituzioni che si erano sviluppate in Europa lungo molti secoli (la cultura del Rinascimento, la Riforma, l’Illuminismo e la Rivoluzione Industriale) hanno sparso i loro semi rivoluzionari nel resto del mondo».

Warren ha interpretato correttamente la relazione integrale tra capitalismo e imperialismo, ma ha dipinto l’imperialismo come un «male necessario» sulla strada verso un bene più grande. La banalità della descrizione di Warren dell’imperialismo ha stimolato molti detrattori, ma egli in effetti ha rivisitato il marxismo espresso nel Manifesto comunista dove, sebbene Marx condanni la violenza dell’accumulazione primitiva, ciò nonostante ritiene «questa violenta espropriazione come necessaria per lo sviluppo delle possibilità umane» (Glassman 2006, p. 610). Malgrado trovi il capitalismo moralmente ripugnante se comparato con il modo di produzione feudale che lo ha preceduto, Marx attribuisce al capitalismo molte virtù, riconoscendolo come straordinariamente produttivo, suscitatore di creatività umana, produttore di grandi cambiamenti tecnologici e iniziatore di potenziali forme democratiche di governo. In linea con questa ottimistica visione di Marx, Warren sostiene che nella sua fase iniziale l’esplorazione capitalista di nuovi territori è stata condotta in forma di colonialismo e imperialismo e mentre questa forma di capitalismo è stata un arretramento per quei territori occupati ci  sono stati però anche importanti benefici. I livelli di istruzione sono cresciuti, le aspettative di vita anche e le forme di controllo politico sono da considerarsi più democratiche di quelle preesistenti il colonialismo.

Se tutto questo suona familiare è perché è la stessa struttura «discorsiva» che orienta il neoliberismo oggi; correttamente David Harvey (2003) lo ha definito «nuovo imperialismo ». Il ritornello è che la gente potrebbe fare meglio e sebbene imperfetta nella sua esecuzione (largamente attribuita alla continua «interferenza» dello stato nei mercati) alla fine «l’effetto gocciolamento» produrrà i suoi frutti e la promessa utopia si materializzerà.

Invece di aspettare che il mercato produca i suoi effetti secondo i suoi tempi Marx intendeva accelerarne il passo per raggiungere un contratto sociale egualitario attraverso la rivoluzione. Per essere chiari non sto sostenendo che ci sia una ideologica consonanza tra il marxismo e il neoliberismo, piuttosto cerco di chiarire che ambedue condividono la nozione che lo stato può essere usato per raggiungere un fi ne «liberato». Per contrasto la posizione anarchica rifiuta la violenza dello stato, dell’imperialismo e del capitalismo e non si fa convincere dall’utilitarismo di Marx. I mezzi del capitalismo e le sue violenze non giustificano un non-stato finale comunista né questo fi ne giustifica tali mezzi. Questo particolare aspetto del pensiero marxista richiama il neoliberismo: sebbene l’utopico non stato finale sia concettualizzato in modo differente, i mezzi «penultimi» per raggiungere il «prodotto finale» sono virtualmente gli stessi. Mentre i post-marxisti opportunamente sostengono che genere, sesso, etnicità, razza, e altre evidenti categorie «non capitaliste» siano ugualmente importanti linee di differenziazione che segnano gerarchie, disuguaglianze e violenze nel nostro mondo neoliberista l’ anarchismo va oltre rifiutando la sostanziale violenza che è intrinseca e implicitamente accettata dall’approccio lineare alla storia fondato sugli «stadi di sviluppo». Non coerente con l’utilitarismo e l’ essenzialismo del pensiero di Marx può allo stesso modo essere vista la genesi del post-strutturalismo, che invece si focalizza sulla complessità ed eterogeneità della condizione attuale e rifiuta teorie totalizzanti nel rigettare le «verità» assolute.

Sebbene la critica post strutturalista sia diventata velocemente una delle più vibranti varianti filosofiche nella disciplina geografica e Michel Foucault, Gilles Deleuze e Jacques Lacan abbiano tutti elaborato critiche all’interno del fertile terreno del pensiero antistatale la geografia contemporanea è stata lenta nel confrontarsi con le idee che auspicano la fine del Leviatano. Posso solo formulare ipotesi sulle ragioni di questa lacuna, ma sembra che il predominio delle idee marxiste abbia avuto un ruolo. Il marxismo tradizionale con la sua compagna ideologia statalista è largamente presente nella letteratura geografica dove l’influenza di Harvey domina. Sebbene occasionalmente qualche geografo politico abbia criticato la limitata visione geopolitica dello stato-centrismo, ciononostante la forma di organizzazione statale è un dato di fatto scontato nella disciplina. Lo stato è o implicitamente accettato o non sottoposto a un tipo di esame che ne analizzi i suoi principi fondamentali, anche se i/le geografi /e femministi/e hanno contribuito a ridefinire i parametri sui quali lo stato è correntemente concepito. Nonostante questo una parte significativa della geografia umana ha sollevato la questione dello stato solo per cercare di determinare quanto il neoliberismo abbia riconfigurato le sue funzioni, con i geografi marxisti che auspicano una rinnovata e reimmaginata versione del welfare sociale, e i post-strutturalisti che argomentano che la governabilità rende lo stato quasi invisibile grazie a soggetti capaci di autoregolarsi e di autocorreggersi. È scarsamente evidenziata la potenzialità di quest’ ultimo approccio nello svelare la perdurante forza della logica statuale e della violenza che la pervade tramite alterate razionalità disciplinari e le mutate tecniche di controllo biopolitico; per non parlare delle coincidenze del post-strutturalismo con il pensiero anarchico (vedi Newman 2010).

Che la geografia radicale mantenga l’orientamento statuale forse testimonia delle origini coloniali della disciplina stessa e una esitazione nel rompere con vecchie abitudini. Così il contemporaneo stato-nazione va visto come una replica in scala minore dello stato coloniale.

Sebbene differenziati per diffusione e distribuzione nello spazio sia il potere dello stato nazionale sia quello coloniale mostrano gli stessi violenti principi del privilegio di pochi sopra i molti e l’imposizione di un’identità unica prevalente su antecedenti modi di concepire l’appartenenza. Marx ne era consapevole, ma ancora una volta ha sostenuto la sua idea utilitarista. Nel momento in cui il capitalismo si diffonde nel mondo ha suscitato forti movimenti di resistenza da parte di lavoratori e contadini oppressi (guidati da avanguardie) che, secondo Marx, avrebbero incubato alla fine il superamento del capitalismo.

In casi particolari Marx aveva sostenuto lotte nazionaliste vedendo in questo una «fase di sviluppo» verso il futuro internazionalismo dei lavoratori. Dal punto di vista anarchico è difficile vedere il fine emancipatorio quando si usano mezzi violenti. Quello che la «liberazione nazionale» rappresenta in effetti è il cambio di una élite con un’altra e quindi di una forma di colonialismo con un’altra. Mentre l’espressione territoriale è stata dismessa, la sottostante logica rimane la stessa. Esattamente come lo stato coloniale suscitava e spesso imponeva il monopolio della violenza la lotta per creare uno stato-nazione è allo stesso modo una lotta per il monopolio della violenza. Quello che si crea in ambedue i casi (uno stato coloniale o nazionale) è esso stesso uno strumento di violenza. Nel riconoscere questa corrispondenza, e a dispetto del cosiddetto «precipuo quadro di comprensione postcoloniale» di Gillian Hart (Hart 2008, p.680), essere «postcoloniali» in ogni senso è essere anche «poststatali» o anarchici come pure sono da rifiutare totalmente gerarchie, ordine, autorità e violenza su cui quei progetti paralleli sono stati costruiti. Inoltre l’internazionalismo, per definizione, non può andare oltre lo stato; al contrario continua a presupporre e assumere l’esistenza delle nazioni. Nell’auspicare la cooperazione tra le nazioni a prescindere dalla geografia, l’internazionalismo di Marx non va oltre la nozione dello stato-nazione quale unità di base dell’appartenenza.

Perché allora la geografia radicale contemporanea non ha sviluppato una «immaginazione anti coloniale» che giunga fino alla sfida post statuale come Anderson (2005) ritiene che in effetti sia necessario? Reclus e Kropotkin hanno dimostrato da molto tempo che la geografia si presta essa stessa a idee emancipatorie e «non è stato per caso che due dei più importanti anarchici della fi ne del   secolo fossero geografi » (Ward 2010, p.209). C’è un latente straordinario potenziale per la geografia radicale contemporanea di diventare ancora più radicale nella sua critica e quindi maggiormente libertaria nei suoi interessi aderendo all’ethos anarchico. L’anarchismo è in grado di comprendere capitalismo, imperialismo, colonialismo, neoliberismo, militarismo, nazionalismo, classismo, razzismo, etnocentrismo, orientalismo, sessismo e genere, omofobia e transfobia, età, abilità, specie, vegetarianismo, sovranità e lo stato come sistemi intrecciati di dominazione. Il mutuo rinforzo della  composizione di queste varie dimensioni di «archia» significa, conseguentemente, che escluderne acriticamente una dall’analisi perpetua quella conglomerazione nel suo insieme. A differenza delle compartimentazioni della geografi a marxiana la promessa delle geografi e anarchiche consta precisamente nella loro capacità di pensare in modo integrato e quindi di rifiutare di dare priorità a uno qualsiasi dei molteplici apparati di dominazione, in quanto tutti irriducibili uno all’altro. Questo significa che nessuna lotta può venire dopo una qualsiasi altra. È tutto o niente e il privilegio aprioristico dei lavoratori, delle avanguardie, o di qualsiasi altra classe sopra le altre devono essere rifiutati sulla base della loro insita gerarchia.

 

 

 

Immaginare alternative

In effetti non ci sono peggiori controrivoluzionari dei rivoluzionari; perché non ci sono peggiori cittadini degli invidiosi (Anselme Bellegarrigue 1848) Non ci sono sogni per un lontano futuro e neppure tappe da raggiungere dopo altre, ma nostri processi di vita ovunque nei quali noi possiamo sia avanzare sia arretrare (Roger Baldwin 2005, p.114)

La questione delle alternative allo stato è comunque nella mente degli scettici dell’anarchismo. In questo senso Harvey (2009, p.200) domanda: «Come funzionerà concretamente la reificazione di questo ideale anarchico nello spazio e nel tempo assoluti?».

Sebbene gli anarchici abbiano teorizzato molteplici possibilità da quella collettivista a quella individualista, dalla sindacalista alla mutualista, dalla volontaristica alla comunista, io rivendico un non dottrinario, post-anarchico approccio e conseguentemente la mia risposta è cominciare a rifiutare di dare visioni prescrittive sulle forme di organizzazione sociale che io penso debbano essere sviluppate. La risposta a questa domanda non può dipendere da un singolo individuo, ma piuttosto collettivamente attraverso il dialogo e una permanente flessibile innovazione. In questo senso la critica di Harvey all’anarchismo è problematica da due punti di vista. Primo, quando mai spazio e tempo sono stati «assoluti » se non attraverso le lenti riduzioniste del positivismo? Questa affermazione nega

lo stesso riconoscimento di Harvey sulla reciproca influenza dialettica di spazio e tempo, espressa da lui come «spazio-tempo». Secondo, cerca di applicare i principi del pensiero marxiano e della «teoria delle fasi» a una posizione filosofica che escluda questa linearità predeterminata. Harvey concettualizza la costruzione del luogo come una politica di fine stato, cosa che posiziona non correttamente l’anarchismo come un progetto chiaramente definito (idea condivisa da marxismo e neo-liberismo) piuttosto che riconoscerlo come un processo vivente, flessibile e sempre dinamico (Springer 2011). Qualcuno potrebbe giudicare la mia posizione come un tentativo di svicolare, ma desidero ricordare al lettore che qualsiasi tentativo di preconizzare un modello fisso isolato dal più ampio corpo sociale riassume sia il progetto neoliberista sia una disposizione autoritaria visto che ciascuno di essi sostiene un unico modo di fare le cose. Questo rinforza l’arroganza/ignoranza dei cosiddetti «esperti» che presumono di sapere che cosa è meglio senza riconoscere i propri limiti. Persino Sara Haraway, quale brillante pensatrice che è, una volta manifestò i propri limiti rivelando: «io ho quasi perso la capacità di immaginare come potrebbe essere un mondo non capitalista. E questo mi spaventa» (Harvey e Haraway 1995, p.519). La stessa incipiente paura dovrebbe essere ugualmente evocata quando si riflette criticamente sullo stato e sulla sua apparente totalizzante pervasività. Noi trattiamo questa particolare forma gerarchica di organizzazione e di dominio territoriale come imprescindibile e facendo questo noi concretamente dimentichiamo che la gran parte del tempo che gli umani hanno passato sul pianeta Terra è stato caratterizzato da una organizzazione non statale. Lo stato quindi non è né inevitabile né necessario. Il neoliberismo è particolarmente virulento nella misura in cui inserisce un nuovo elemento nella nostra collettiva dimenticanza riconfigurando lo stato in modo tale che impedisce di notare i suoi continui effetti deleteri. Il discorso dietro questa illusione di dissoluzione cerca di convincerci che il neoliberismo rappresenti la nostra liberazione come individui, emancipandoci dalle catene che chiama «il grande governo». Ma lo stato continua a essere rilevante nelle dinamiche neoliberiste.

Allo stesso modo il monopolio della violenza che lo stato reclama per sé rimane ugualmente potente e oppressivo sotto la logica disciplinare di uno stato neoliberista come lo fa sotto ogni altra configurazione di stato; malgrado «i bei momenti» della apparente democrazia (leggi «autoritarismo elettorale») (Springer 2011). Quello che è effettivamente perso nel supposto stato neoliberista in streaming sono ovviamente i benefici sociali forniti ai cittadini. Questa retromarcia è il risultato del collasso della fiducia sociale, che attivamente anticipa il mito hobbesiano- darwiniano di tutti contro tutti dove solo il più forte sopravvive. La gente è incoraggiata non a rivolgersi agli altri per risolvere i problemi di tutti i giorni o anche solo quando ci sono problemi, ma semplicemente deve smettere di essere «pigra» e mettersi al lavoro. Il discorso neoliberista pone il sistema stesso al di sopra di qualsiasi rimprovero così che ogni «anomalia», come l’impoverimento o la disoccupazione, sono derubricate quali fallimenti individuali. Quelli che non hanno «successo» in questo gioco perverso sono facilmente estromessi dal punitivo stato neoliberista grazie alla loro criminalizzazione. Il carcere è visto come la più valida soluzione che affronta il crescere delle ineguaglianze e della povertà della maggioranza. Questo strumento disciplinare è particolarmente debilitante perché per la realizzazione del potere popolare le condizioni per la cooperazione sociale devono essere presenti per il semplice motivo che la gente deve avere fiducia negli altri.

Il neoliberismo in particolare e il capitalismo più generalmente lavorano per distruggere la fiducia facendoci competere l’un l’altro e approfittare della reciproca vulnerabilità.

Allo stesso modo lo stato distrugge la fiducia avvertendoci che homo homini lupus diventerebbe la legge in assenza di un potere sovrano. Per ristabilire la fiducia sembrerebbe che sconfiggere il capitalismo non sia sufficiente. Nell’allestire una realtà post-neoliberista, cioè la realizzazione di un contesto che rompa con il corrente Zeitgeist (spirito del tempo), la sovranità e lo stato stesso devono essere smantellati. Facendo questo, a prima vista, sembra apparire il problema del muoverci dal qui al e dall’ora al poi. Nonostante collochi l’idea della rivoluzione come sparita dalla vista Neil Smith 2010) esemplifica la permanente infatuazione della sinistra suggerendo che la recente crisi finanziaria potrebbe essere la base sulla quale «l’ imperativo rivoluzionario» può essere rinnovato. Ma desiderando che una rivoluzione globale emerga dalla recente crisi economica attribuisce un ruolo strumentale a un singolo sistema economico che stranamente recupera l’argomento del neoliberismo come monolitismo. Questo tipo di critica riporta all’implicita accettazione di Smith del ruolo utilitaristico che Marx attribuisce al capitalismo /colonialismo, una posizione che gli anarchici trovano discutibile. Mentre compiange le vittime del colonialismo Marx si consola con il pensiero che i suoi continui abusi non faranno che avvicinare il giorno in cui l’intero mondo verrebbe consumato da un’unica crisi e quindi inaugurando la rivolta rivoluzionaria così desiderata. Questo è un approccio ultra passivo perché se la rivoluzione deve risultare da una crisi capitalista allora questo implica una politica di attesa per il giorno in cui «tutto si dissolve».

La questione della perdita di fiducia diventa particolarmente acuta al momento del «dissolvimento» perché, come Proudhon (2005 [1864], p.108) avvertiva, c’è un «pericolo nell’aspettare fi no ai momenti di crisi, quando le passioni diventano incandescenti dalla diffusa sofferenza». Nel tempo che è passato dall’inizio della crisi nel tardo 2008 è tristemente diventato ovvio di come sia possibile, in assenza di fiducia, per la gente, accettare alternative razziste, nazionaliste e fondamentaliste. Invece che occupare il tempo nell’attesa della rottura i geografi dovrebbero invece aderire anarchicamente al «qui e ora» come spazio-tempo in cui le nostre vite sono effettivamente vissute. Riconoscendo che la potenzialità di questa immediatezza sia emancipatoria di per sé in quanto ci fa rendere conto della possibilità che noi possiamo immediatamente rifiutare di partecipare al consumismo, di praticare il nazionalismo e di non agire gerarchicamente per evitare di legittimare l’ordine esistente, ci porta ad aderire alla cultura del «do it yourself» centrata sull’azione diretta, il non consumismo e il mutuo aiuto. Aderendo all’idea della coppia di autrici che si firma J-K Gibson-Grahan (2008) che «altri mondi» sono possibili e all’impegno di Sara Koopman (2011) per una battaglia contro egemonica non violenta di quello che lei chiama «altra-geopolitica», il potere del «qui e ora» ci offre la libertà  ’immaginare e di cominciare a costruire le libere alternative istituzioni e le volontarie associazioni che faciliteranno la transizione verso un vero futuro post-coloniale/post-neoliberista. Così il significato di immaginare alternative all’ordine corrente non è quello di fissare un programma per ogni tempo, ma invece di fornire un esempio di alterità o di esternalità come un mezzo per sfidare i limiti di questo ordine. È solo nel preciso spazio e momento del rifiuto, che è il «qui e ora», che gli individui si prendono il potere di scegliere la propria via, liberi dalla guida coercitiva di un’autorità sovrana o dalla persuasiva influenza di un patrocinio accademico. L’ambito dove i geografi sono effettivamente in buona posizione per essere efficaci, come i/le pensatori/rici femministi/e hanno dimostrato, è nei riguardi della questione del costruire fiducia, abbattendo pregiudizi e agendo con nuove energie creative radicate nella continua capacità delle emozioni e della vita quotidiana come effettivo terreno dell’interazione umana. Nell’accettare la «svolta affettiva» (Thien 2005) che vede la connettività emozionale e la politica dell’affinità come basi fondamentali su cui qualsiasi durevole trasformazione può avvenire, è precisamente a questa intimità e immediatezza che possono dedicarsi produttivamente le geografi e anarchiche. Piuttosto che dare priorità al particolarismo di classe, come nell’imperativo marxiano, o arrenderci alla politica del razzismo, come vorrebbe il neoliberismo, l’anarchismo chiede che qualsiasi processo di emancipazione sia pervaso da relazioni non universali, non gerarchiche e non coercitive, fondate sul mutuo appoggio e sull’impegno eticamente condiviso.

Infine, quello che l’anarchismo ha da offrire è esattamente l’opposto del neoliberismo. Differenziandosi dall’insito elitismo e autoritarismo dello stato, l’anarchismo punta alla produzione di beni comuni tramite la cooperazione umana in accordo ai bisogni, un processo che non richiede una struttura amministrativa, ma invece perni su cui si fonda un’etica di reciprocità. Una prospettiva anarchica riconosce inoltre che le nuove latenti forme di organizzazione, che potrebbero svilupparsi oltre la logica territoriale dello stato, possono esistere in un continuo processo di riflessione e revisione da parte di coloro che le praticano, così come impedire la formazione di qualsiasi potenziale gerarchia prima che le si possa permettere di crescere. Le geografi e anarchiche di cooperazione devono nascere all’esterno dell’ordine esistente, nei luoghi che lo stato ha mancato di includere e nelle infinite possibilità che la logica statale ignora, rifiuta, saccheggia e nega. Come Kropotkin (1887 p.153) ha eloquentemente chiarito: mentre tutti concordano che l’armonia è sempre desiderabile non c’è una corrispondente unanimità a proposito dell’ ordine che si immagina che regni nelle nostre società moderne; così che noi non abbiamo nessun tipo di obiezione all’uso della parola “anarchia” come negazione di quello che è stato spesso descritto come ordine.

Le geografie anarchiche sono quelle forze potenziali che continuamente infastidiscono lo stato sostenendo che sia semplicemente una delle possibilità socio-spaziali in un numero illimitato di altre. Così le alternative allo stato non nascono dall’ordine che esse rifiutano,in quanto contraddittorio e oppressivo, ma dall’anarchica profusione di forze che sono aliene a questo ordine e da quelle reali possibilità che questo ordine cerca di dominare e distorcere. I geografi radicali di conseguenza avrebbero molto da imparare dall’ intensificare le connessioni con quei popoli (come le tribù indigene di  Zomia) che non hanno mai avuto lo stato e praticato quello che James Scott (2009) chiama «l’arte di non essere governati». La questione qui non è la fine dello stato o la realizzazione di una politica che porti alla fine dello stato, ma piuttosto una «infinita richiesta», una lotta fatta di continua evasione, contestazione e solidarietà (Critchley 2007). Non siamo obbligati a vedere lo stato come l’esclusivo luogo dal cambiamento sociopolitico o l’unico riferimento di un paradigma rivoluzionario, come troppo spesso è avvenuto. Nello spirito delle citazioni che aprono questo articolo noi possiamo invece orientare la nostra rabbia e tristezza dentro di noi, dove la sostenuta indignazione per la nostra buona fortuna può portare a un riallineamento delle nostra bussola etica, forzandoci a fermarci e rifiutare, stando dalla parte di altri meno fortunati. L’empatia è la morte dell’apatia e comincia non quando lo stato è fluidificato, indebolito o smembrato, ma «qui e ora».

Conclusioni

 

La libertà come mezzo produce più libertà. Per coloro che condannano ciò come sterilità politica e posizione da «torre d’avorio» si risponda che il «realismo» e il loro «circostanzialismo » invariabilmente portano al disastro. Noi crediamo che sia più realistico influenzare le menti con la discussione piuttosto che plasmarle con la coercizione (Vernon Richards 1995, p.214).

L’etimologia di «radicale» viene dal latino radix e significa radice. I geografi radicali contemporanei farebbero meglio a esplorare questa originaria dimensione (ri)confrontandosi con i contributi di Kropotkin e Reclus, che senza timore criticavano la dominazione coloniale in un tempo in cui il «grosso» della geografi a marciava mano nella mano con il progetto imperialista. Ma la geografia radicale oggi non ha bisogno di rileggere il passato, bensì necessita di un futuro, di una iniezione di nuove idee che abbracci i progressi intellettuali fatti dal pensiero post-strutturalista e femminista per andare oltre quello che è già «conosciuto». All’interno degli studi anarchici il confine critico di questo tentativo è il post-anarchismo, che non cerca di muovere il «vecchio» anarchismo, ma rifiuta le basi epistemologiche delle teorie anarchiche «classiche» e il loro attaccamento all’essenzialismo del metodo scientifico. Il pensiero post-anarchico di conseguenza cerca di rinvigorire la critica anarchica espandendo il suo concetto di dominazione oltre lo stato e il capitalismo per comprendere le reti tortuose e molteplici che caratterizzano il potere contemporaneo; e rimuovendo i suoi quadri concettuali normativi e «naturali» per aderire a conoscenze specifiche ed empatiche. Applicare questa critica filosofica alla geografia radicale oggi richiede che si faccia una scelta consapevole etica e emozionale, scegliere se «essere alleati con la stabilità dei vincitori e dei governanti, oppure, cosa più difficile, considerare tale stabilità come uno stato di emergenza che minaccia i meno fortunati con il pericolo della completa estinzione» (Said 1993, p. 26). La seconda scelta richiede un deciso sforzo per rompere il fascino del «senso comune» della governabilità neoliberista, in quanto il governo non è solo la struttura politica o le procedure gestionali dello stato, ma l’indirizzo della condotta dei singoli e dei gruppi, significa «strutturare il possibile campo di azione degli altri», la loro direzione e la loro posizione (Foucault 1982, p.790).

Questo è un processo che molti geografi hanno già iniziato prestando attenzione all’intrico del potere, facendo ricerche sulle azioni partecipative e attraverso la teoria non rappresentativa (Thrift 2007), ma senza riferirla esplicitamente alla critica anarchica. Così se i mutevoli orizzonti dello spazio-tempo assicurano che le nostre esperienze vissute sono continui comportamenti che sfidano la divisione teorica di identità predeterminate e di soggettività codificate, allora che cosa è più «realistico» se non riconoscere la perpetua fioritura dei significati dell’anarchismo? Le geografi e anarchiche allora cercherebbero di mettere in dubbio la spazialità su cui il «governo» è fondato, per sostenere un non strutturato «campo di azione» dove gli individui volontariamente e/o collettivamente possano decidere la loro direzione, liberi dalla presenza e dalle pressioni di qualsiasi alta o ultima autorità. Il luogo di questa liberazione da tutte le varianti del potere sovrano non è radicato nell’idea di fissità, come è nella «trappola territoriale» dello stato, ma nella inesorabile affermazione di libertà attraverso dinamiche associazioni per affinità che possano essere interamente transitorie o solo poco permanenti. Il pensiero potenziale chiave è quello che ogni affiliazione è libera di rafforzarsi o dissolversi grazie alla condizione di una libera e individuale scelta, dove nessun soggetto, come il monopolio della forza o il controllo dei mezzi di produzione, faccia rispettare la sottomissione o la continuità condivisa.

Le geografie politiche delle frontiere e dei confini diventerebbero infinitamente intricate, sovrapponibili e variabili fi no al punto che cercare di fissarle in un rigido ordine o una griglia, come è nella epistemologia sottostante la moderna cartografi a, diventerebbe un esercizio di futilità. Questa mappatura, sia letteralmente come nella attuali carte sia attraverso tecniche come i dati censuari, è costitutiva della logica dello stato da cui cominciare ad agire e la proposizione delle geografi e anarchiche dovrebbe essere quella di dissolvere qualsiasi schema di categorizzazione e classificazione che promuova permanenze spaziotemporali.

Questo non significa che l’anarchismo sia un caos, ma che ogni organizzazione geografica debba procedere come un’etica di empatia invece che una politica di differenze, visto che queste ultime sono sempre forgiate dall’oppressione. L’anarchismo, spazialmente organizzato in questi termini, ci permetterebbe di comprendere l’ insieme delle persone piuttosto che considerarli soggetti o cittadini conformi a particolari spazi e a parziali obiettivi politici. Kropotkin ha descritto una simile visione quando scrisse: in questo tempo di guerre, di auto-centrature nazionali, di gelosie nazionali e odii abilmente alimentati da gente che persegue i propri egoistici interessi o di classe, la geografi a deve essere … un mezzo per dissipare i pregiudizi e creare altri sentimenti più nobili per l’umanità.

Le geografie anarchiche possono di conseguenza essere produttivamente caratterizzate dalla loro integralità, dove tutti i tentativi di creare false dicotomie di separazione sono rifiutate e al contrario l’umanità è riconosciuta come intimamente interconnessa con tutti i processi e flussi dell’intero pianeta (Massey 2005). Questa radicale riconcettualizzazione della disciplina la renderebbe simile, realizzando la visione di Reclus, sia alla Rete dei Gioielli di Indra della filosofia buddista sia all’ipotesi di Gaia, dato che i tentativi di separare ogni tipo di variante da quella politica a quella economica, da quella sociale a quella culturale e così via, sarebbe vista come una costruzione che tenti di addomesticare, costringere, dividere e contenere l’irriducibile intero.

Nuove forme di affinità stanno già emergendo in forma di «etiche relazionali di lotta» (Routledge 2009) dove non è più il lavoratore che è concepito come il soggetto del cambiamento storico, ma gli oppositori anticapitalisti che comprendono gruppi eterogenei che sfuggono alla soggettivazione universale dell’identità proletaria. Riconoscere questo potrebbe essere il punto di partenza per scalzare la posizione che il marxismo detiene oggi nella geografi a radicale. Questa emergente forma di lotta è chiaramente non interessata a formulare strategie che replichino tradizionali strutture rappresentative, volendo significare uno spostamento paradigmatico dal cambiare lo stato modificandone i caratteri, prestando invece attenzione a movimenti autonomi in opposizione allo stato. In questo contesto Newman (2010, p.182) identifica una serie di nuove questioni e sfide politiche: «libertà oltre la sicurezza, democrazia oltre lo stato, politica oltre i partiti, organizzazione economica oltre il capitalismo, globalizzazione oltre i confini, [e] vita oltre la biopolitica».

E ancora, queste non sono solo questioni politiche, ma ciascuna è anche profondamente geografica. Mentre i geografi stanno già esaminando queste concrete questioni c’è stata un’attenzione molto ridotta ai modi in cui l’anarchismo può favorire una più rigorosa analisi di queste emergenti geografie. Di conseguenza concettualizzare un «andare avanti», oltre le dominanti strutture del neoliberismo e le perduranti animosità del colonialismo, significa un più profondo rapporto con le filosofie anarchiche. Impegnare la geografia radicale in un programma anarchico vorrebbe dire la negazione della falsa dicotomia che la disciplina mantiene tra l’accademia come luogo della produzione della conoscenza da una parte e dall’altra la più ampia società come campo della lotta sociale. Perciò reti di solidarietà con coloro che svolgono azione diretta nelle strade potrebbe ben essere il futuro della geografi a radicale. Da qui possono fiorire idee che permettano nuove immaginazioni geografi che e materializzazioni che vadano oltre politiche stato-centriche; possono fiorire forme di organizzazione non istituzionali, «glocalizzate», temporanee e volontarie, e la teoria kropotkiniana del mutuo appoggio come pure il contributo di Reclus agli ideali della libertà umana possono avere lo stesso tipo di attenzione che finora Marx ha avuto dalla geografia radicale. L’anarchismo, come Kropotkin (1978 [1885]) ha riconosciuto più di un secolo fa, è «quello che la geografi a dovrebbe essere».

traduzione di Fabrizio Eva

 

 

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Un’estate da cinque lune

di Paolo Repetto, 9 ottobre 2018

Un'estate da cinque luneSi, un’estate davvero particolare. A maggio il mare era già un brodino e neppure ora (siamo ai primi di ottobre) il bel tempo pare intenzionato ad arrendersi. Una sorta di “alto continuo” che rischia persino di venire un po’ a noia. La cosa non dovrebbe stupire – semmai deve allarmare – perché l’anomalia di stagioni calde precoci e prolungate sta diventando una regola, e c’entrano senz’altro il surriscaldamento del pianeta e la sciagurata presunzione degli umani: ma anche perché in realtà il fenomeno non è del tutto nuovo. Accadeva la stessa cosa mezzo secolo fa, negli anni sessanta. O forse allora si trattava solo di una mia percezione, dettata dal fatto che le scuole iniziavano a ottobre e dall’intensità con la quale vivevo ogni singolo giorno. L’effetto comunque era identico: mi aggrappavo ad ogni nuova mattinata di sole come fosse l’ultima.

A dilatare ulteriormente questa stagione eccessiva è ancora una volta il mio status anagrafico. Non più la condizione adolescenziale, purtroppo, bensì quella di pensionato. So di scoprire l’acqua calda, ma fino a quando non ci sei dentro certe cose le puoi solo immaginare, senza capirle davvero: l’assenza di un confine preciso tra il tempo istituzionalmente consacrato al lavoro e quello “libero”, la condizione di feria perpetua, scombina i ritmi sia biologici che psicologici, per quanto uno resista alle sirene del burraco e si crei gli impegni più disparati. Con la pensione si entra in una sorta di limbo, senza la speranza in un’amnistia o in un condono. Tutto ciò che fai lo fai guardando indietro, anziché avanti.

Forse per questo mi è parsa un’estate strana. Intanto mi ha riportato indietro non solo nei ricordi ma anche nel recupero di sensazioni. Ho ritrovato ad esempio la totale confidenza con l’acqua, in particolare con quella del fiume, vincendo i timori (e gli avvertimenti espliciti) di complicazioni reumatiche che da qualche anno mi stavano frenando. Non siamo ai livelli di quando rimanevo in ammollo tre o quattro ore al giorno, o inseguivo i record del primo e dell’ultimo bagno stagionale, ma per tre mesi ho nuotato quasi quotidianamente, di buon mattino, spesso in perfetta solitudine, nel lago superiore della Lavagnina. E da domani si replica, al mare.

Sono anche tornato a lavori manuali di un certo impegno senza pagare dazi allo sciatico. Ho finalmente imparato a tenere ritmi bassi ma continui, a muovermi come gli astronauti sulla luna, col risultato che i lavori arrivano comunque in porto, sia pure in tempi doppi. Per gli altri sarà una notizia di nessun rilievo, come del resto tutto ciò di cui ho parlato sinora, ma c’è il fatto che imbarcarsi in attività di manutenzione o addirittura di nuova edificazione sembra smentire quanto ho detto sopra, supporre uno sguardo in avanti: mentre in realtà lo sguardo mira talmente avanti da andare persino “oltre”, da non riguardare cioè il mio futuro. Idealmente ho lavorato per i posteri (senza chiedermi però che ne faranno di muretti, pergolati e tettoie o degli alberi da frutta che ho messo a dimora), in verità l’ho fatto per sentirmi in qualche modo ancora agganciato al mio passato.

Rimane la soddisfazione di non aver perso una sola ora. Che non è l’atteggiamento più indicato in vista del prossimo inverno e del domani in genere, ma al momento è confortante. Diverso è invece il bilancio della scrittura. Cresce la sindrome da saturazione e da insignificanza, e mentre sulle prime la cosa un po’ mi preoccupava, ora sto iniziando a trovarla normale. Come giustamente dice un amico: “Se non scrivi è perché non hai niente da scrivere”. In effetti è così, o forse mi sono soltanto stufato di parlare di me stesso a me stesso (ma non so concepire diversamente questa attività). Cambia poco: il risultato è che dagli inizi di giugno non ho buttato giù una riga. La cronaca ufficiale non mi ha aiutato (è dominata da Di Maio e Salvini), quella personale l’ho già esaurita, perché – fortunatamente – non ho eventi da raccontare. Quale che sia la loro lunghezza, le stagioni alla Stand by me, quelle dell’avventura, reale o fantasticata, delle scoperte e degli incontri che danno un’altra direzione alla tua vita, quelle non tornano.

Ora, pochi mesi di stipsi improduttiva non costituiscono poi un gran problema, anche se per i ritmi cui ero abituato e per il valore terapeutico che attribuivo alla scrittura a me paiono già un’eternità. E sarebbero comunque anche questi un po’ fatti miei, non fosse che di nuovo, proprio con lo scrivere queste pagine, mi sto contraddicendo.

La verità è che del tutto improduttivi questi mesi non sono stati. Nel tempo liberato dalla non scrittura ho ripreso a leggere con continuità e ho trovato cose che possono forse risultare interessanti anche per altri. Per questo scendo dall’Aventino: se non ho nulla di significativo da dire c’è almeno qualcosa che vorrei ricordare, e di cui sarà bene lasciare una traccia scritta, prima di perderlo. La diaspora neuronale galoppa.

Quello che segue sarà pertanto un resoconto delle letture estive, delle scoperte e delle conferme che mi hanno regalato: un personalissimo memorandum, affidato anche al sito nella remota e un po’ balzana ipotesi di lettori che non abbiano di meglio da fare (di qualcosa bisogna pur nutrirlo questo benedetto sito, se vogliamo tenerlo in vita). Lo considero un ennesimo aggiornamento di Elisa nella stanza delle meraviglie: ormai ne conta più della Treccani.

Purtroppo devo ricostruire a memoria, perché ho smesso da tempo di tenere una qualsiasi forma di diario. È un peccato. Una volta avrei potuto citare date e persino luoghi di acquisto di ogni singolo libro, nonché l’ordine giornaliero delle letture. Per trenta e passa anni ho annotato, sera dopo sera, eventi, incontri, stranezze, qualche volta anche sensazioni ed emozioni, sia pure in maniera telegrafica: e la parte più interessante, a posteriori, rimane proprio quella relativa alle acquisizioni librarie e alle letture. Può sembrare una cosa stupida, un’inutile registrazione contabile, invece è importantissima. Quando scorro le agende di quarant’anni fa colgo proprio nella successione dei titoli un percorso, si illuminano le scelte, vanno al loro posto i tasselli del caotico mosaico della mia formazione. Senza parlare di quando le letture sono commentate, o collegate ad altre precedenti, oppure rinviano a libri o ad autori non ancora conosciuti (Urgente! Vedere subito!). La nostalgia o i rimpianti qui non c’entrano: per capire chi siamo – sempre che della cosa ci importi – è fondamentale avere chiaro da dove arriviamo (le letture) e come ci siamo arrivati (l’ordine delle letture). Mi sono anche proposto più volte di riprendere questa abitudine, non arrivando però poi mai oltre la metà di gennaio. Immagino voglia dire qualcosa. Non seguirò dunque l’ordine cronologico, che non sono in grado di ricostruire, ma procederò con un criterio, diciamo così, emozionale.

Accennavo sopra a scoperte e a conferme. Le scoperte riguardano alcuni saggisti italiani della generazione di mezzo (quella che comprende i nati tra la prima metà degli anni sessanta e quella degli anni ottanta), e sono un po’ tardive, dal momento che costoro sono sulla breccia da un pezzo. Non li conoscevo perché evidentemente non fanno opinione, meno che mai in tivù e comunque non nei salotti di prima serata (di questo però non garantisco: non seguo i talk e potrebbero quindi benissimo essermi sfuggiti): ma frequentano con parsimonia anche i supplementi culturali dei quotidiani, affidandosi piuttosto alle “riviste” on-line, e lì sono io a bazzicare poco, per una insuperabile idiosincrasia alla lettura in modalità digitale. Ammetto inoltre di essere stato a lungo fuorviato dal preconcetto che tutta la generazione cresciuta all’ombra di Vattimo e del “pensiero debole”, e oggi scaldata dal sole di Grillo, fosse perduta per ogni causa.

Per fortuna non è così. Lo dimostrano i casi di Claudio Giunta e Daniele Giglioli. Al primo sono arrivato per vie traverse, leggendo in primavera un suo reportage sull’Islanda (Tutta la solitudine che meritate). Non volevo anticipazioni su quel paese prima di averlo visitato, già viaggiavo con un bagaglio sin troppo pieno di suggestioni letterarie. Ma questo libro mi era stato suggerito da un amico di cui mi fido, e in effetti valeva la pena. Così al ritorno dal viaggio ho immediatamente cercato altre cose dell’autore, e ho trovato “L’assedio del presente. Sulla rivoluzione culturale in corso”, uscito nel 2008, “Una sterminata domenica”, del 2013 e infine, più recente, “E se non fosse la buona battaglia?”, edito lo scorso anno. Letture sufficienti a darmi un po’ di ristoro, in mezzo alla congerie di idiozie che, più ancora dell’afa, hanno reso pesante l’aria di questi mesi.

Il conforto non arriva certamente dagli scenari che dipingono, ma dalla constatazione che altri vedono le stesse cose che vedo io, col mio stesso stato d’animo. Giunta in effetti dice nulla di nuovo: almeno, nulla che già non conoscessi, o non pensassi, o di cui addirittura non avessi già scritto. Ma lo dice benissimo. Mette cioè in fila fenomeni, atteggiamenti, segnali che io ho continuato per anni a cogliere in ordine sparso, anche se sapevo fare capo a una matrice unica. Non vedevo nell’assieme quella che lui definisce una “rivoluzione culturale”, forse perché continuo ad attribuire inconsciamente un significato positivo, costruttivo, al termine rivoluzione. Ma anche perché sono portato a pensare che quando una deriva demenziale coinvolge molta gente – nel nostro caso la quasi maggioranza – non siano necessariamente da ipotizzare cause recondite e complesse: la si può tranquillamente spiegare con la stupidità, ovvero con l’esasperazione maligna e autodistruttiva di un naturale egoismo, che è un fattore troppo trascurato a dispetto della sua evidenza e diffusione e persistenza, o con quel tipo di ignoranza “rivendicata” che della stupidità è sia madre che figlia. In genere concorrono entrambe le cose. Il mio limite è che scorgo attorno il puro sfascio, un degrado inarrestabile che si autoalimenta e si diffonde con accelerazione crescente: e lo sfascio non si lascia raccontare in un discorso articolato.

Giunta non si accontenta di questa spiegazione “fenomenologica” (nel senso che basti guardarsi attorno per constatare quanto idiota può essere la famigerata “gente”). Ha uno sguardo “sociologico”, va in profondità e iscrive tutti gli indizi nel quadro storico e sociale della “condizione postmoderna”, qualunque cosa poi questa stia a significare.

Non è nemmeno il primo a farlo. Riprende in fondo un argomento già trattato, ad esempio, da Alessandro Baricco (ne I Barbari. Saggio sulla mutazione (2006). Ma Baricco lo affrontava in questi termini: ‟Dovendo riassumere, direi questo: tutti a sentire, nell’aria, un’incomprensibile apocalisse imminente; e, ovunque, questa voce che corre: stanno arrivando i barbari. Vedi menti raffinate scrutare l’arrivo dell’invasione con gli occhi fissi nell’orizzonte della televisione. Professori capaci, dalle loro cattedre, misurano nei silenzi dei loro allievi le rovine che si è lasciato dietro il passaggio di un’orda che, in effetti, nessuno però è riuscito a vedere. E intorno a quel che si scrive o si immagina aleggia lo sguardo smarrito di esegeti che, sgomenti, raccontano una terra saccheggiata da predatori senza cultura. I barbari, eccoli qua.

Ora: nel mio mondo scarseggia l’onestà intellettuale, ma non l’intelligenza. Non sono tutti ammattiti. Vedono qualcosa che c’è. Ma quel che c’è, io non riesco a guardarlo con quegli occhi lì. Qualcosa non mi torna.”

Ognuno di noi sta dove stanno tutti, nell’unico luogo che c’è, dentro la corrente della mutazione, dove ciò che ci è noto lo chiamiamo civiltà, e quel che ancora non ha nome, barbarie. A differenza di altri penso che sia un luogo magnifico.”

Beato lui. Che ha senz’altro delle buone ragioni per ritenerlo tale, visto che alle sue conferenze (ricordo una lettura con commento de “L’infinito” da far avere le convulsioni alle ossa di Leopardi) incontra folle adoranti, alle quali di capire o anche semplicemente ascoltare qualcosa di Leopardi non importa nulla, andrebbe benissimo anche l’esegesi del linguaggio di Jerry Calà, ma che delibano l’ambrosia culturale vaporizzata dall’incantatore e si portano via il suo ultimo libro, possibilmente autografato. Quanto all’onestà intellettuale, forse questa avrebbe richiesto all’autore una riflessione a posteriori sulla differente eco che i media hanno riservata alla sua posizione rispetto a quella di Giunta o di altri “apocalittici” sgomenti, non certo in virtù di un superiore livello dell’analisi. E un’altra dovrebbe dettargliene oggi, a dieci anni di distanza, sulla presenza o meno di “orde di predatori senza cultura”.

Tra l’altro, nemmeno Baricco è originale: riprende a sua volta quanto predicato da Michel Maffesoli ne “Il tempo delle tribù (2004)” e nelle “Note sulla postmodernità” del 2005, (che su un sito immodestamente titolato “La rivista culturale” erano recensiti così: “Un esempio felice e virtuoso nel documentare la nostra contemporaneità che lui chiama il tempo delle tribù, del lusso, di dionisio, del nomadismo, del comunitario, dell’immaginario e del ritorno del tragico e del “sacrale”. Non commento, perché di Maffesoli ho parlato già sin troppo altrove). E comunque, potrei proseguire il gioco andando a ritroso per almeno un altro mezzo secolo a caccia di precursori.

Ecco, queste interpretazioni sono per me già esempi perfetti di legittimazione di ciò che in pubblico definisco “uno sfascio etico e culturale” e in privato “il trionfo dei cretini”. Ne L’assedio del presente Giunta lo tratta invece come una “rivoluzione”, e ne vede tutte le possibili declinazioni e derive, partendo dal sovvertimento delle norme sociali, dalla crisi delle agenzie educative tradizionali e dalla frantumazione dell’autorità per arrivare all’eclissi del senso storico e alla perdita di validità dell’esempio, e leggendo tutto questo attraverso le trasformazioni del linguaggio televisivo, del ruolo della scuola e dell’università e dei concetti di cultura e di arte. Sugli esiti di questa “rivoluzione” culturale, o sulla deriva insensata delle politiche educative, non si scosta poi di molto da quel che penso io: ma interpreta giustamente i vari problemi secondo criteri di causa ed effetto, e ne coglie il concatenamento. Uno per tutti: l’ingresso della logica di mercato nell’Università e la banalizzazione della cultura indotta dal moltiplicarsi – ma anche già solo dall’esserci – degli “eventi” (il proliferare di festival della mente, della scienza, della lettura, della storia, della filosofia, le mostre “monstre” sui Grandi Artisti, sempre gli stessi, con Van Gogh e Caravaggio superstar, le passerelle “artistiche” sui laghi o i concerti in alta quota, e tutta la paccottiglia che viene spacciata col bollino culturale doc da una schiera superpagata di addetti ai lavori, reclutata per l’appunto negli atenei). Il libro risale a dieci anni fa, quando il fenomeno non aveva ancora raggiunto i livelli attuali di squallore, ma li lascia ampiamente presagire.

Con i pezzi raccolti in Una domenica sterminata Giunta fornisce poi le esemplificazioni concrete e puntuali di questo sfascio, o rivoluzione che dir si voglia. Sono istantanee che colgono situazioni apparentemente marginali, personaggi di secondo piano, furberie di bassa lega, da poveracci, e che proprio per questo radiografano perfettamente, molto più della produzione seriale di libelli sulle caste, sui grandi evasori e sui conflitti di interesse, la malafede e la tabe di fondo della società italiana. Perché ci ricordano che esiste una complicità diffusa, una partecipazione di massa al trionfo dell’illegalità e dell’imbecillità, che si trincera ipocritamente dietro l’indignazione per gli scandali clamorosi (Onestà! Onestà!). Il bello, ma anche il rischio connesso a questi pezzi, è che riescono addirittura amaramente divertenti, e lo sono per sé, per gli argomenti trattati, senza che Giunta faccia alcuno sforzo per ingraziarsi il lettore. Il paragone potrebbe essere col Diario minimo di Umberto Eco, con la differenza che là Eco metteva in campo la tecnica già postmoderna dello spiazzamento interpretativo, facendo ricorso all’ironia e anche ad una certa gigioneria (vedi L’elogio di Franti), mentre Giunta si limita a fotografare la realtà.

Daniele Giglioli prende le mosse dalla stessa realtà impietosamente raccontata da Giunta, ma poi va oltre. L’incontro con Giglioli è recentissimo. Naturalmente non ricordo già più come l’ho scovato (a proposito di memoria!), forse è arrivato di sponda da qualche altra lettura: ma ciò che importa è che mi sono immediatamente riconosciuto.

Ho scoperto che un suo saggio critico, All’ordine del giorno è il terrore, aveva movimentato la superfice dello stagno culturale italiano già nel 2008 (è stato riedito quest’anno, con una lunga postfazione). In verità, movimentato è una parola grossa: diciamo che l’aveva leggermente increspata. Come docente di letterature comparate Giglioli andava a rintracciare nella letteratura del passato la continuità dell’uso politico del terrorismo, in tutte le sue manifestazioni, quelle ufficialmente riconosciute e rivendicate (anarchico, rivoluzionario, islamico, ecc…) e quelle mascherate (guerre umanitarie, ecc. …). Ciò che veramente gli premeva era però arrivare al nocciolo, al fatto cioè che l’immagine del terrorista risponde a un bisogno radicato in profondità nelle nostre coscienze: il bisogno di attribuire ad altri, percepiti come assolutamente diversi, le debolezze e il senso di impotenza che rifiutiamo di riconoscere in noi. In sostanza: di fronte alla crescente insignificanza dei singoli decretata dalla modernità, allo smarrimento e alla fragilità inerme dei quali sono in continua balia, cresce negli individui un rancore sordo, un desiderio represso di riscatto violento.

Quello che Giglioli trova nella letteratura, viaggiando da De Sade a DeLillo, via Schiller, Dickens, Dostoevskij, Conrad, Ballard e decine d’altri, compreso l’insospettabile Manzoni, noi possiamo molto più banalmente coglierlo nel tema dominante nel cinema attuale (ma prevalente da sempre, ad esempio, nel filone western): la vendetta. Alla faccia dell’esecrazione e della messa al bando ufficiale della giustizia fai da te, il grande schermo è popolato oggi come non mai di vicende in cui le vittime, gli umiliati e i perseguitati, rifiutano il ruolo passivo nel quale sarebbero obbligati e scavalcano leggi, ordinamenti e organismi che non garantiscono più, se mai l’hanno fatto, la loro difesa. A partire dai classici, cose tipo Il giustiziere della notte e Un borghese piccolo piccolo, le varianti della storia sono poi infinite. Pochi giorni fa sono passati in tivù nella stessa serata Harry Brown e Il buio dell’anima, dove a ribellarsi alla pavida passività sono un vecchio e una donna, che vendicano rispettivamente un amico e il proprio fidanzato. Nei colpi di pistola esplosi da due rappresentanti delle categorie più indifese si sublima il desiderio di milioni di individui che si sentono abbandonati, schiacciati nella loro solitudine tra l’indifferenza del potere e l’impunità dei carnefici. E anche se francamente non penso di soffrire di quella sindrome, confesso di aver atteso anch’io con un senso di esaltata liberazione il compimento della vendetta, di essermi identificato con le vittime, di aver non solo giustificato, ma invocato la loro reazione, e premuto il grilletto assieme a loro.

La differenza rispetto a quel che accadeva nei western della mia infanzia sta nel fatto che Shane, il cavaliere della Valle Solitaria, agiva in un contesto quasi mitologico, in una dimensione che anche un bambino percepiva come totalmente altra, ed era un pistolero, dal quale non ci si poteva attendere altro che coraggio, precisione e velocità nell’estrarre, mentre Harry Brown è un pensionato con l’asma, e vive (e muore) in un mondo che avverto sempre più prossimo, nel tempo e nello spazio. Asma a parte, potrei benissimo essere io, e Jodie Foster potrebbe essere qualsiasi donna. Shane era la mano armata di un ideale di giustizia, rozza e sbrigativa quanto si vuole, ma superiore, impersonale: era legittimato da una speciale integrità etica, che gli imponeva di mettere la sua abilità al servizio dei deboli, e sparava, quando tirato per i capelli, per sgombrare la strada al futuro, assicurando a ciascuno pari opportunità. E uscendo poi di scena, una volta ristabiliti gli equilibri violati. Gli eroi di oggi reagiscono e uccidono proprio perché in quell’ideale non credono più, per rispondere a personalissime offese e chiudere i conti con le cicatrici del passato. E sulla scena tendono a restarci.

Dopo aver letto il libro di Giglioli sono andato a cercare sul web traccia delle recensioni che gli erano state dedicate. Non si può dire che i critici si siano sprecati (e questo almeno in parte spiega perché non l’abbia conosciuto prima), ma soprattutto non hanno affatto compreso qual era il vero assunto dell’autore. Anche quando gli tributano lodi per l’intelligenza e per il coraggio, gli rimproverano poi di non aver fatto i dovuti distinguo tra un terrorismo in qualche modo giustificato e uno insensato: che significa riportare un discorso che ha una dimensione “antropologica” al livello più superficiale della contingenza storica. A Giglioli non interessava affatto indagare o denunciare le diverse facce del fenomeno, ma rintracciarne la radice, che è unica, nella risposta a una condizione esistenziale.

Se questa volontà non fosse stata già chiara, Giglioli l’ha ribadita ed esplicitata in maniera inequivocabile qualche anno dopo in Critica della vittima (2014), un saggio più breve, quasi un pamphlet, col quale affonda il coltello nella piaga senza usare anestetici. L’ho letto ripetendomi ad ogni pagina: Eccolo lì, vedi che allora non sono un menagramo lagnoso e inacidito.

Faccio prima, anziché raccontarlo, a far parlare Giglioli stesso. “La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. … nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa … la vittima è irresponsabile, non risponde di nulla, non ha bisogno di giustificarsi.” E di conseguenza: “… chi sta con la vittima non sbaglia mai.” Che parrebbe lapalissiano, ma non lo è. Perché: “La mitologia della vittima trova la sua ragion d’essere nel venir meno di una credibile, positiva idea di bene”. Ergo, con l’idea di una trionfante iniquità che “eleva a martire chi è stato colpito, o lo desidererebbe, o lo pretende per legittimare il suo stato. Col corredo di affetti inevitabili: risentimento, invidia, paura.” Il tutto riassumibile in una citazione da Christopher Lasch: “È proprio questa la ferita più profonda inferta dalla vittimizzazione: si finisce per affrontare la vita non come soggetti etici attivi, ma solo come vittime passive, e la protesta politica degenera in un piagnucolio di autocommiserazione” (da L’Io minimo, del 1984, ma uscito in Italia solo nel 2004: giusto in tempo comunque per fotografare la situazione attuale).

Giglioli analizza puntualmente tutti i sintomi del fenomeno. Parte dalla sovrapposizione della memoria alla storia, anzi, dalla rimozione in blocco di quest’ultima a favore della prima. “La memoria configura un rapporto con il passato di tipo inevitabilmente proprietario: il mio, il nostro passato. Isola gli eventi dalla catena del loro accadere, li ipostatizza in valori invece di spiegarli come fatti.” Denuncia le ambiguità di fondo del credo umanitario, che “è una una tecnica, un insieme di dispositivi che disciplinano il trattamento delle parole, delle immagini, delle reazioni emotive ingiunte agli spettatori: estetizzazione kitsch, sensazionalismo riduttivo, naturalizzazione vittimaria di intere popolazioni.” E che riserva al clemente, al misericordioso il ruolo di “testimone legittimo”, accreditato a parlare in nome delle vittime. Le quali “sono private di ogni soggettività, di ogni diritto che non sia quello al soccorso”.

Procede quindi, in una concatenazione perfettamente logica, dalla colpevolizzazione della modernità, del novecento, della cultura occidentale in genere e della prassi politica che ha espresso, per approdare alla paura che come un gas nervino viene diffusa nell’immaginario sociale e paradossalmente si autoalimenta, in quanto assunta come arma difensiva, come strumento immunitario. Una paura che crea risentimento e appunto identificazione, e partorisce da un lato la necessità di “individuare un ostacolo, un estraneo da espellere, un nemico di cui dichiararsi vittime”, dall’altro l’emergere di leader che di questo atteggiamento si fanno interpreti, riassumono in sé la condizione di vittime, e la usano per legittimare una loro assoluta insindacabilità. Sono i meccanismi di fondo del populismo. Il quale viaggia e prospera soprattutto nell’universo del web, che è “il paradiso immaginario della soggettività irrelata, incontrollata, senza filtri apparenti”, mentre in realtà rimane sotto il ferreo controllo dei grandi gestori. Un paradiso nel quale allo spirito critico genuino è negato in realtà ogni accesso, dove impera la rissosità e dove ogni contradditorio è subito virato in persecuzione. Non penso sia difficile riconoscere trame e interpreti del melodramma tragico cui stiamo assistendo.

E mi fermo qui, alla primissima parte del saggio: ma credo che basti. Non voglio guastare il piacere (insomma) di scoprire il resto ad eventuali lettori. Direi che comunque è sufficiente a spiegare perché del libro non avevo sentito parlare prima.

Non ho invece ancora letto “Stato di minorità”. Dalle poche righe della presentazione arguisco che si