Della mia onestà vado superbo

Francesco Natta, storia di un anarchico sansalvatorese

di Giancarlo Torra, 4 dicembre 2020

Chi è Francesco Natta?
Vita di Francesco Natta
Vita (e sventure) di Agenore Natta
Della mia onestà vado superbo

 Chi è Francesco Natta?

L’anno scorso un amico, Paolo Repetto (professore di storia, storico e molto e molto altro ancora…), mi telefonò per chiedermi se avessi mai sentito parlare di un certo Francesco Natta, nato a San Salvatore nella prima metà dell’ottocento. Paolo si era imbattuto il quel nome nel corso di una sua ricerca riguardante alcuni eventi insurrezionali avvenuti nella seconda metà dell’800 nell’Italia Meridionale, e riferiti ad un gruppo di anarchici passati poi alla storia come “la Banda del Matese”. Il nome non mi disse nulla e non trovai nulla neppure nei vari libri storici su San Salvatore.

Facendo, pieno di perplessità, una ricerca in rete, scoprii invece, sorprendentemente, moltissime pagine che parlavano di Francesco Natta. Anche la Treccani gli aveva dedicato un importante spazio, riportando numerosi eventi storici e politici di cui era stato protagonista.

Francesco Natta era un anarchico, e approfondendo la sua figura sono giunto alla conclusione che nei suoi confronti il paese abbia attuato una sorta di damnatio memoriae. Essere anarchici, a quel tempo, in un paesino come era allora il nostro, doveva per forza essere considerato una vergogna.

Senza arrivare agli estremi di Salvia Lucana (il paese di Giovanni Passanante, attentatore mancato di Umberto I, che per una sorta di desiderio di riconciliazione col re e per un sentimento di vergogna per quanto capitato a causa del proprio compaesano mutò il proprio nome in Savoia Lucana)1 è probabile che a San Salvatore sapere che due suoi cittadini (Francesco aveva un fratello, Agenore, anche lui anarchico) avevano abbracciato quegli ideali ed erano stati più volte arrestati e ricercati dalle forze dell’ordine (e uno di questi – Agenore – anche condannato per un sanguinoso attentato) passasse per qualcosa di enorme e fosse trattato, secondo lo stile degli abitanti delle nostre colline, con discrezione e silenzio, per evitare il riaprirsi di una ferita.

Oltre a Francesco, figura di spicco dell’anarchismo, vi era infatti anche il fratello minore, che ebbe a pagare con oltre vent’anni di carcere la sua adesione al movimento, condannato per un reato che come vedremo in seguito non aveva commesso.

Non è comunque possibile che la storia dei fratelli Natta abbia potuto passare sconosciuta o inosservata in una realtà piccola come la nostra (tra l’altro nel 1875 Natta, nel corso di un processo, affermava di aver ancora una casa a San Salvatore, dove forse ebbe a ritornare per qualche tempo). È molto più probabile che le condanne riportate dai fratelli Natta e la loro posizione all’interno del movimento anarchico fossero per il nostro tranquillo paese un qualche cosa che doveva andare rimosso. In fondo, sansalvatoresi nati in epoche più risalenti e con vite ben meno intensamente vissute di quelle di Francesco e (sia pur in misura minore) di Agenore, hanno trovato spazio nel nostro ricordo.

Mi sembra pertanto un obbligo cercare di far conoscere la figura di questo nostro concittadino (e, sia pur sommi capi, del fratello minore), che si trovò nella seconda metà dell’Ottocento ad essere uno dei personaggi più nobili e di maggior spicco del movimento operaio ed anarchico di quegli anni e la cui vita, ricca di eventi e a tratti anche avventurosa, ebbe ad intrecciarsi con quella dei personaggi più importanti dell’epoca.

La sua difesa appassionata (Della mia onestà vado superbo) nel processo del 1875 avanti la Corte d’Assise di Firenze è celeberrima ed è pubblicata e letta ancor oggi; la sua figura di coraggioso compagno di Bakunin è descritta ampiamente ne “Il diavolo a Pontelungo” di Riccardo Bacchelli; quella di infaticabile motore dell’organizzazione del movimento anarchico a Firenze e nel centro Italia è narrata ne “Un sogno d’amore” di Angelo Toninelli e la sua figura di operaio militante compare anche, sia pur per pochi istanti, nello sceneggiato Rai “Anna Kuliscioff” del 1981, per la regia di Roberto Guicciardini2.

Vediamo la sua storia.

 Vita di Francesco Natta

(San Salvatore Monferrato, 7 settembre 1844 – La Plata, Argentina, 7 marzo 1914)

Tipo romano antico, statura e corporatura regolare, capelli folti, corti e per niente separati d’alcuna divisa.

Due baffettini colle punte rivolte in sù, accrescono favore ad un volto simpatico, di colore naturale, Gli occhi cerulei e il labbro sorridente, sono l’espressione della impassibilità e dell’accortezza.

I suoi modi ed il suo parlare rivelano un carattere dolce per educazione, prudenza e bontà. Meccanico distinto, mostra grandissimo amore e fede per l’avvenire del proletariato, alla cui causa si è consacrato propugnando il principio di associazione fra gli operai in mezzo ai quali si distingue come uno di più intelligenti. Nel 1869 lavorava in politica sotto la immediata direzione di Mazzini, e soffrì carcere preventivo per imputazione di cospirazione contro lo stato.

Presentemente è schierato nelle file della Internazionale che egli solo ha proclamata difesa a viso aperto.

La sua franca professione di principi, la massima indifferenza che mostra sulla sorte che potrebbe incontrare in questo processo, gli hanno acquistato la simpatia universale e conciliato la stima di tutti, nessuno dubitando dell’onestà delle sue intenzione e della convinzione profonda che egli mostra di giovare alla causa dei diseredati.

Fede di apostolo, abnegazione di martire si leggono scolpite su quel volto imperturbabilmente sereno in mezzo alle più terribili burrasche.

Interrogato sulle sue generalità risponde chiamarsi Francesco Natta di Giuseppe di anni 30, nato a San Salvatore provincia di Alessandria, residente a Firenze, meccanico sa leggere e scrivere; è stato processato una volta per disturbo alla quiete pubblica e condannato nelle spese.3

Francesco Natta, nasce a S. Salvatore (AL) il 7 settembre 1844 da Giuseppe e Teresa Milanese. È il primo di tre figli.

Il padre, nato nel 1805 e proveniente da Castelletto, come apprendiamo dall’atto di matrimonio, era fabbro ferraio, mentre la madre, di vent’anni più giovane, di San Salvatore, era cucitrice.

Con ogni probabilità Francesco, che nel registro della popolazione del 1858 è già registrato come fabbro, lavora col padre fino a quando non si trasferisce a Firenze, continuando poi ad esercitare il mestiere di fabbro, meccanico e riparatore specialista di macchine da cucire per tutta la vita. Nella sua attività è estremamente quotato, tanto da far dichiarare al Procuratore generale del Re, nel corso del processo di Firenze del 1879, che è “un abile meccanico, capace di guadagnare 15 lire al giorno – cinque lire più di me4.

La firma del padre in calce all’atto di battesimo è una bella firma, sicura e armonica, segno che il padre di Francesco è persona da ritenersi istruita, almeno per quei tempi. D’altra parte, chiamare il secondogenito Agenore denota una ricercatezza inconsueta nella scelta del nome di un figlio.

Agenore è un nome che poco si concilia con un paese del Monferrato, a maggior ragione alla metà dell’Ottocento: ed in più è un nome adespota, che probabilmente non venne neppure visto di buon occhio dal parroco battezzante, viste le disposizioni di diritto canonico che imponevano di assegnare al battezzato il nome di un santo (ed infatti accanto al nome Agenore, con cui veniva comunemente chiamato, gli fu imposto il nome Pietro).

È ipotizzabile quindi che il germe dell’anarchia sia stato trasmesso ai figli dal padre.

Nel 1840 Pierre – Joseph Proudhon pubblica il suo saggio “Che cos’è la proprietà?”. Da quella data la dottrina anarchica inizia a farsi strada in Europa. È quindi probabile che sei anni dopo (Agenore è nato il 7 gennaio 1846) il padre chiami con un nome così poco diffuso il secondogenito per una sorta di adesione all’ateismo che rientrava tra gli ideali anarchici. Ed è altresì probabile che tanto Francesco quanto Agenore abbiano maturato le loro idee attingendo a quelle paterne.

Con altrettanta probabilità Francesco riceve un’educazione scolastica superiore per quei tempi, tanto da essere in seguito considerato unanimemente come una persona oltremodo istruita e un brillante oratore.

Infatti, così come nel profilo sopra tracciato dall’ Avv. Bottero, anche Angelo Toninelli nel suo romanzo “Un sogno d’amore”, in cui il Nostro è un co-protagonista, così descrive il Natta: “un meccanico armaiolo, […] veniva da Alessandria, si era trasferito a Firenze da pochi anni e oltre che di armi si occupava di macchine da cucire, che aggiustava e vendeva. Era sposato e aveva due figli.

Ma era soprattutto un uomo istruito. Nella sua bottega entravano ed uscivano diversi giornali, il Gazzettino rosa, la Plebe, il Lavoratore, pareva un chiosco in certi momenti, entrava uno, prendeva un giornale, spariva senza pagare, e qualche giorno dopo lo riportava, E via di seguito5.

È giocoforza ritenere che già quando abitava a San Salvatore la sua maturazione politica e culturale fosse in gran parte formata. E infatti risulta che Francesco fosse attirato fin da giovanissimo dalle idee di Mazzini, con il quale, come già riportato dal Bottero, risultò essere in diretto contatto; tanto da essere da questi considerato, “uno dei personaggi più affidabili” e ritenuto inoltre “personaggio assai vivace politicamente6.

Non mi è stato possibile stabilire con esattezza quando i Natta (sono con lui il fratello e forse anche il padre, la madre essendo nel frattempo morta) si siano trasferiti a Firenze. Probabilmente ciò è avvenuto attorno alla seconda metà degli anni sessanta, senz’altro prima della fine del decennio. Nella capitale provvisoria del regno Francesco si sposa, va ad abitare in via Lorenzo il Magnifico e apre una bottega da fabbro, armaiolo e riparatore di macchine da cucire, nella centralissima via della Vigna Nuova. E quasi subito, con Gaetano Grassi (sarto) e Oreste Lovari (calzolaio), partecipa all’esperienza dell’Unione democratica sociale, dove sono confluiti mazziniani, garibaldini, liberi pensatori. Nel 1869 arriva il primo arresto: è accusato di cospirazione contro lo Stato per aver propagandato il principio di associazione tra gli operai.

In breve tempo si rivela un importante referente politico per coloro che simpatizzano per il movimento dei lavoratori; e se un giovane meccanico, giunto da un piccolo paese del Piemonte, è in grado di diventare in pochi anni il perno attorno al quale ruota il fermento politico di una città e l’elemento catalizzatore dei movimenti internazionalisti che spuntano numerosi, è perché evidentemente ha dimostrato di possedere l’intelligenza, le capacità e il carisma per poter assumere la guida e ed essere il riferimento dell’anarchia locale.

Abbandonati alla fine del 1870 gli ideali mazziniani, deluso come tanti altri giovani dal fatto che il Mazzini avesse sconfessato l’esperienza della Comune di Parigi, aderisce nei primi mesi del 1872 alla fondazione del Fascio Operaio (che in pochi mesi arriva a superare i 3.000 iscritti) e della sezione fiorentina dell’Associazione italiana lavoratori (AIL).

Ha da subito forti legami con la Fratellanza Artigiana d’Italia, all’epoca la più importante associazione mutualistica di orientamento repubblicano di tutta Italia. Con ogni probabilità aderisce anche alla Società Democratica Internazionale.

La polizia, che lo mette immediatamente sotto controllo, lo descrive come “di carattere vivace, fermo di propositi, assai educato e di molta intelligenza, abile nel suo lavoro7.

Natta emerge quindi ben presto, come già detto, come una figura centrale dell’internazionalismo. Il 10 gennaio 1872 sottoscrive con il Lovari un manifesto che recita:

Ecco chi siamo e cosa vogliamo.

Chi ci vuol bene sinceramente e chi vuole esserci utile ci segua; chi è ambizioso si allontani da noi, perché il cammino che dovremo percorrere sarà molto aspro e difficile e non offrirà campo a speculazione di sorta.

Operai della città, lavoratori delle campagne!

La nostra causa è la vostra. Siamo fratelli di sventura e dobbiamo pur anche esser fratelli nella lotta per la comune emancipazione.

Unitevi dunque a noi, confidate unicamente nelle vostre forze, abbiate fede nell’avvenire, marciamo avanti, insieme compatti, tenendo alta la nostra bandiera, nella quale sta scritto: verità-giustizia-morale.

Salute e solidarietà

Firenze, lì 10 gennaio 1872

Nel 1873 Natta fa parte della Commissione di corrispondenza della Federazione Italiana dell’AIL, nonché del Comitato per la Rivoluzione sociale, l’organismo clandestino creato da Carlo Cafiero, Andrea Costa ed Errico Malatesta (massimi esponenti dell’anarchismo italiano di quegli anni) e facente riferimento alla Alliance internationale de la democratie socialiste di Bakunin. Nel frattempo organizza in segreto, con i già ricordati Lovari e Grassi, il Comitato rivoluzionario fiorentino.

La Federazione punta infatti ad una vasta insurrezione per l’estate dell’anno successivo. Natta viene nominato il responsabile per la Toscana e rimane in diretto e costante contatto anche con Bakunin. Anzi, nell’estate del 1873 si reca a Locarno, da Bakunin, presso la famosa villa “la Baronata”, centrale dell’anarchia europea, messa a disposizione da Carlo Cafiero.

Il fatto che il Natta si rechi in Svizzera è estremamente significativo dell’importanza del suo ruolo all’interno dell’organizzazione anarchica internazionale. Raggiunto Bakunin alla Baronata, Natta, insieme ad altri compagni, getta le basi dell’insurrezione che si intende organizzare per l’anno successivo.

L’incontro di Natta con Bakunin è narrato da Riccardo Bacchelli ne “Il diavolo a Pontelungo”. Nell’episodio del romanzo, Natta, definito dallo scrittore come “piemontese di nascita ma fiorentinizzato dal lungo soggiorno”, recita uno dei passaggi più toccanti dell’intero libro.

Bakunin gli chiede: «Tu Natta, hai mai avuto paura della miseria?

E come no? Sentimi, sor Michele. Un giorno, io vidi ripescare in Arno sotto il Ponte alla Carraia un disgraziato. Sul morto trovarono una busta dentro il portafogli. Sulla busta c’era l’indirizzo: “a chi mi ripescherà”. E dentro, una parola sola: “Miseria”.

Rivedo sempre il morto in acqua, pareva un fagotto di cenci, un gatto affogato, un oggetto da nulla.

Poi mentre lo issavano colle funi, saliva, saliva, e spaziava sempre più grande. Lo stesero come Cristo in Croce sul ponte, col volto al cielo, sor Michele mio; era una giornata di sole fiorentino. Lo frugarono, lessero forte quella parola sola.

E che t’ho da dire? Il Ponte alla Carraia e mezzo Lungarno stipati di gente se la ridissero a mezza voce. Non si vide e non si udì più altro.

Un morto con quella parola, che non ne aveva altra da dire al mondo: “Miseria”, e faceva paura a tutti»8.

Il racconto ha tutta l’aria di riportare qualcosa che è stato raccolto, ascoltato ed assimilato dal Bacchelli, se non altro perché il commento di Natta a quel fatto di cronaca pare così personale e intimo da poter essere trasmesso in una confidenza sussurrata agli amici.

Che non si tratti di un’invenzione letteraria di Bacchelli ma di un fatto realmente accaduto, di cui il Natta è stato spettatore, lo si può anche desumere da due circostanze. La prima, la più rilevante, è che Natta, allorché si trasferì in Argentina, fece parte della redazione di un giornale che si chiamava appunto “La Miseria”; la seconda riguarda invece la conoscenza che dei fatti anarchici fiorentini Bacchelli aveva avuto di prima mano. Bacchelli era infatti amico di numerosi personaggi che gravitavano o erano simpatizzanti dell’anarchia, dall’Avv. Barbanti Brodano a Giosuè Carducci e al nonno Ermanno Bumiller, e che avevano vissuto in prima persona o avevano avuto notizie di prima mano dei fatti poi narrati nel libro.

Ritornato a Firenze, Natta, viene designato appunto dal rivoluzionario russo come organizzatore dell’insurrezione che dovrebbe infiammare Bologna nell’agosto del 1874, per estendersi poi alle regioni vicine.

La data dell’insurrezione è fissata al congresso straordinario di Bruxelles per il 12 agosto 1874. L’ottimistica previsione dei rivoluzionari indica in 30.000 uomini, 4.000 fucili e 1.000 bombe le forze da mettere in campo. Le armi, infinitamente meno di quanto avevano ipotizzato gli insorti, sono state acquistate con gli ultimi residui del patrimonio di Carlo Cafiero e raccolte dal Costa, da Malatesta e da Natta alla Baronata.

In realtà la mobilitazione finisce per interessare poche centinaia di uomini (è una costante nei moti rivoluzionari italiani di quegli anni…). Nella notte fra il 7 e l’8 agosto, anniversario della cacciata degli Austriaci nel 1848, gli anarchici internazionalisti tentano una prima insurrezione a Bologna, con la speranza di estenderla dapprima alla Romagna e in seguito alle Marche e alla Toscana.

Il piano prevede: la concentrazione di tre colonne di congiurati provenienti da paesi vicini presso le campagne di Caprara, vicino a Bologna, dove sono state nascoste le armi; l’entrata in città all’alba e l’occupazione del palazzo comunale; l’assalto e il saccheggio dell’arsenale militare e la liberazione dal carcere dei prigionieri politici.

Vengono raccolti in vari punti della città materiali per erigere barricate. Un centinaio di uomini armati sono pronti all’azione, ma la Prefettura, informata da spie infiltrate, sventa la rivoluzione sul nascere. Una colonna partita da Imola si impadronisce della stazione di Castel San Pietro, sabotando la linea telegrafica e portando via armi, lucerne e bandiere rosse per le segnalazioni. Viene però poi fermata presso Bologna da un contingente di militari e di carabinieri. Quarantasette uomini sono arrestati sul posto, mentre gli altri, fuggiti in montagna, vengono catturati il giorno seguente.

Bakunin, presente a Bologna, è ricercato dalla polizia, e i suoi compagni di insurrezione organizzano immediatamente la sua fuga.

Si imponeva quindi per gli internazionalisti rimasti liberi o latitanti, la necessità di trovar prontamente un compagno scaltro, serio, fidato ed energico, capace di condurre il Bakunin, oltre il confine italiano. E quest’uomo fu subito trovato nella persona di Francesco Natta, il quale seppe condurre la difficilissima impresa con una veramente rocambolesca accortezza, pari ad un raro coraggio.9

Bakunin, travestito da prete, viene infatti accompagnato in Svizzera, in treno, proprio da Natta. Quest’ultimo, sempre secondo il romanzo del Toninelli, che come già detto attinge alle cronache del tempo, non fa poi ritorno a Firenze, preferendo tornare a San Salvatore dove può ancora contare su amicizie e coperture. Viene però arrestato alla fine di ottobre, alla stazione di Firenze, dove ha fatto ritorno o per ricongiungersi alla famiglia o, forse, perché vuole condividere con i compagni il carcere e affrontare con loro il processo. Fatto sta che appena giunto in città è riconosciuto e arrestato. Ecco il resoconto della cattura comparso su La Nazione del 3 novembre 1874.

L’altro ieri veniva eseguito nella nostra città l’arresto di un tale Francesco Natta, a proposito del quale ci vengono comunicate le seguenti notizie. Da Ginevra ove è uno dei triumviri della Internazionale, il Natta veniva a Firenze per rassettare le file sparse e, più numerosi e dalle fruttuose perquisizioni di documenti, armi e materie incendiarie, in gran copia fatti dalla nostra Questura. Giunto in Firenze, la brava nostra polizia fu informata. Sembra che egli spiegasse la sua venuta colla necessità di vigilare ad una fabbrica di macchine da cucire in via Niccolini. È un giovane d’aspetto distinto, di carattere ardito ed energico. È nativo di Alessandria (Piemonte). Insospettitosi che la polizia si fosse accorta della sua presenza in Firenze, non pose tempo in mezzo e se ne andò alla stazione per fuggire, ma trovò là agenti e delegato, i quali gli intimarono l’arresto.

Sulle prime nascose il suo nome, ma vistosi scoperto, non seppe poi tacere, e confessò con animo affranto che era il Natta, uno dei capi degli internazionali.

Né qui si limitava l’operato della Questura. Si sapeva che quest’individuo, oltre rivestire alte funzioni nella setta, era come si direbbe il conservatore generale di tutte le carte, documenti e corrispondenze dell’Internazionale in Italia. Ora egli doveva averle presso di sé, ma come trovarle?

Tante e tali furono le indagini che si riuscì a scuoprirle.

Dietro una latrina in uno stambugio a guisa di forno, ove bisognava entrare con le mani e coi piedi, si trovò tutto l’archivio dell’Internazionale. Il Natta, prima di andar via da Firenze, certo di tornarvi fra molto tempo, aveva dato la disdetta della bottega, l’aveva sgombrata e aveva pensato in quello stambugio di murare tutto quell’ammasso di carta che potevano compromettere tanti e rivelare appieno i propositi di quella setta.

E murò infatti tutto quell’archivio; ma la polizia, rovistando con l’aiuto di due muratori il luogo e demolendo qua e là, al cadere di vari mattoni scuoprì dietro ad essi un vero arsenale di carta e corrispondenza che somministreranno piena luce in questo gran processo, ove figurano finora 61 accusati, e che si agiterà a Firenze. Le carte reperite saranno anche di non poco lume ai giudici d’istruzione nei processi di simil genere che si stanno adesso istruendo nelle altre parti d’Italia. Il Natta fu, com’è naturale, tradotto alle Murate a disposizione dell’autorità giudiziaria.

Le singolari circostanze che accompagnarono questo arresto e la scoperta delle carte fanno molto onore alla nostra Questura.

L’arresto ha una grande risonanza, tanto da far scrivere a Gregorio, su Bulletin del 15 novembre 1874: “La polizia è finalmente riuscita a mettere la mano sul “capo” dell’Internazionale a Firenze, Francesco Natta, che è stato arrestato a Firenze la sera del 1 novembre e deferito all’autorità giudiziaria sotto l’accusa di cospirazione contro lo Stato!

La determinazione delle forze dell’ordine non deve stupire. Nel quadro politico, in vista delle elezioni dell’autunno 1874, la questione dell’internazionalismo è divenuta molto importante e passibile di strumentazione.

Proprio in quei giorni viene emanata la “circolare Cantelli”, un documento del ministro dell’Interno ai prefetti sulle elezioni, col quale, di fatto, li invita ad intervenire attivamente nella lotta elettorale. Il presidente del Consiglio Marco Minghetti, nel timore di nuove rivolte, ha indicato come priorità il contrastare le “straordinarie e criminose malattie sociali di alcune province”. Vengono quindi diramati ordini perché tutto i capi dell’internazionalismo siano arrestati.

Il processo contro i 72 arrestati con l’accusa di cospirazione si apre il 9 marzo 1875 avanti la Corte d’Assise del Tribunale di Firenze.

All’apertura, la Corte ritiene valida l’accusa solo per 34 imputati, rei di “essersi costituiti in numerosa associazione preordinata allo scopo di eccitare e promuovere una rivoluzione sociale, onde distruggere lo Stato in tutte le sue manifestazioni giuridiche, economiche e politiche, abbattere l’Autorità sotto qualunque forma o rappresentanza, rovesciare il governo, sostituirvi l’anarchia e giungere al comunismo e alla liquidazione sociale mediante ogni sorta di violenza verso le persone e i beni dei cittadini; per avere fra il luglio e l’agosto 1874, con l’intendimento di raggiungere lo scopo su enunciato, stabilito e risoluto un progetto di insurrezione consistente nell’armare delle bande in Firenze e nelle terre circostanti, suscitare incendi e commettere stragi, per distrarre e deviare le forze della truppa quivi stanziata, assaltare gli uffici, uccidere i funzionari della Pubblica Autorità, liberare i detenuti dalle prigioni per unirli alle loro fila e, divenuti quindi padroni del paese, scorrazzare le campagne ed attendere che le altre provincie del Regno seguissero l’esempio, nel modo che si era appunto tentato nelle Romagne; e per avere a tal fine fatti preparativi di esecuzione, dividendosi in varie sezioni di operazione, distribuendosi le parti, apparecchiando armi e munizioni e facendo tutto quello che era necessario per dare immediato incominciamento all’insurrezione”.

Natta, unico fra tutti gli imputati, conferma tutti gli incarichi assunti nell’Associazione, la sua partecipazione ai congressi, la sua assenza da Firenze all’epoca dei fatti di agosto, (sia pur giustificandola con un viaggio di lavoro a Roma…) e afferma di condividere i principi dell’Internazionale Italiana: ateismo, collettivismo, anarchia.

Spiega quindi le finalità dell’Internazionale: “Scopo materiale pratico è l’assistenza dei suoi aggregati, sostenendoli nelle dissensioni che possono insorgere fra gli operai e i capitalisti. L’Internazionale poi ha un complesso di dottrine che costituiscono i suoi principi scientifici, che io accetto; i principii cioé dell’ateismo, del collettivismo e dell’anarchia. Alla parte materiale mi sono dedicato con tutta attività; alla parte scientifica non ho né la forza, né la scienza di cooperare.

Tra teoria e pratica Natta, che pure deve tener conto di un contesto in cui parla da imputato, accetta di illustrare la sua visione politica, e quando gli viene chiesto se condivide quanto definito dalla passata Conferenza di Rimini (conferenza nella quale era stata data piena adesione al programma rivoluzionario di Bakunin) risponde: “sì, come principio dell’avvenire; se mi si dicesse di tradurre immediatamente in atto tutte le dottrine proclamate in quella conferenza mi vi opporrei […]. Nella nostra associazione, l’anarchia è già bell’in attività. Una Federazione spontanea di sezioni […]. Il vocabolo anarchia per se stesso significa non autorità; ciò però per me non significa confusione. E tanto è vero che l’Associazione Internazionale dei Lavoratori cammina benissimo”.

E, alla domanda del Presidente se l’anarchia gli insorti la vorrebbero nella Società loro o in tutta la Società Umana, aggiunge: “per intanto, l’anarchia è nella società internazionale; naturalmente io la voglio estesa al genere umano, se fosse possibile; ma per ora io non ne ho né i mezzi né la volontà; se la volessero imporre con la violenza, io mi opporrei, perché come vi sono entrato io con la persuasione, così spero che c’entreranno tutti”.

Natta quindi riesce a trasformare il processo in un clamoroso fatto di propaganda socialista. Pone ai giurati inquietanti quesiti non sulla propria innocenza o colpevolezza ma sulle condizioni degli operai italiani disoccupati, sfruttati, privi di assistenza, di mezzi di vita e dei più elementari diritti. E tali parole giungono diritte alla sensibilità dei giurati. (Si riporta al termine di queste pagine l’integrale, appassionata e nobilissima autodifesa del Natta, che diverrà nel tempo un opuscolo classico della propaganda anarchica).

La difesa di Natta e la sua strategia processuale sono, a mio avviso, perfette.

Questi, molto intelligentemente, dimostrandosi anche in questo frangente un vero leader, riconosce la propria appartenenza all’Internazionale, confermando tutto quanto è già comunque stato accertato dagli inquirenti e quindi inutilmente negabile; convince gli altri imputati a respingere ogni loro coinvolgimento, confidando nel fatto che la fretta e l’approssimazione delle indagini farà il resto; risponde in modo pacato e preciso (non a caso i compagni, proprio per questo suo atteggiamento, lo chiamano Pacificone o anche Giuggiolone…) ad ogni domanda postagli dalla pubblica accusa e procede egli stesso ad interrogare alcuni testi che lo accusano, facendo emergere alcune contraddizioni.

L’opinione pubblica è apertamente schierata a favore degli imputati ed in particolare parteggia per il Natta, peraltro estremamente conosciuto a Firenze, tanto da fagli dire al processo: “per la mia professione di meccanico tutta Firenze mi conosce, dall’alta aristocrazia al ciabattino”.

In realtà tutta Firenze conosce il Natta non tanto o non solo come meccanico, quanto proprio per il suo carisma e la sua instancabile attività a favore degli ideali anarchici. Emblematico, a questo proposito, è il fatto narrato da “Il Monferrato” nell’edizione del 10 maggio 1878.

L’episodio è successivo di quattro anni ai fatti qui trattati, quando la notorietà di Natta era al culmine; ma è senz’altro vero che già allora il Natta fosse conosciutissimo: “Non voglio chiudere questa mia senza rilevarvi una spiccata pubblicità cui diede luogo la nostra infelice polizia la settimana scorsa. La nostra infelicissima questura, infelicemente inspirata ebbe l’infelice pensiero di far sorvegliare da due questurini: il noto internazionalista Francesco Natta da Alessandria della Paglia […]. Una guardia di P.S. veglia costantemente all’uscio del laboratorio meccanico del giovane comunista […]. Pazienza se le guardie vestissero alla borghese, ma il male si è che vestono in divisa e per di più hanno l’incarico di seguirlo dovunque esso vada…

Ora avvenne che il Natta essendo uscito seguito alla lontana dall’ombra […] del questurino […] incontrò alcuni amici che lo chiamarono per nome e cognome… il nome di Natta fu allora ripetuto da questi lo udirono e per festeggiare il felice incontro entrarono in un caffè.

Quando uscirono videro con loro sorpresa una moltitudine di gente fuori ferma […] Se ne meravigliarono, ma la loro sorpresa avani tosto allorchè si accorsero che la pubblicità e la riunione di quel popolo era causata dalla presenza degli agenti della Questura che facevano la guardia d’onore al caffè che aveva accolto il Natta.

Stizziti il Natta e i suoi amici del contegno poco prudente e punto dignitoso degli agenti di questura invece di dividersi, come era forse loro intento, pensarono di fare una passeggiata in S. Frediano […] e la eseguirono.

Ma fu una passeggiata seguita da un cinquecento curiosi, desiderosi di vedere il volto simpaticissimo e l’aspetto il più ingenuo e modesto che si possa immaginare, del capo degli internazionalisti di Firenze.

Figuratevi che figura han dovuto fare le guardie di P.S. incaricate di tener dietro a quella massa di popolo…

I camaldoli di San Frediano erano tutti fuori a vederli passare. Sul volto degli internazionalisti brillava la soddisfazione, sulle labbra del popolino quello della curiosità […] e sul muso degli agenti il dispetto di un solenne fiasco patito per opera dei poco previdenti loro superiori”.

La lettura della notizia, se vogliamo poco più che un aneddoto (a dimostrazione comunque di una indubbia notorietà del Natta) è però interessante anche per almeno due altri motivi.

Innanzi tutto è un poco mortificante il confronto con i nostri quotidiani attuali, osservando come in quegli anni (o per posta o con il telegrafo) venissero riportate notizie anche lontane, come poteva essere lontana Firenze dal Monferrato allora (pensiamo ai nostri cronisti attuali che pescano e traducono alla meno peggio le notizie trovate in rete); in secondo luogo ci dice che, malgrado una certa retorica che vorrebbe un ferreo controllo della censura applicata un po’ ovunque, all’epoca venivano invece riportate sui giornali notizie nelle quali il Potere non faceva certo una gran bella figura.

A chi scrive, leggere dei due ingenui agenti che in divisa seguono il Natta e, ingenuamente, non adottano nessuna cautela per dissimulare il pedinamento, ha fatto venire in mente le vignette di Alfredo Chiappori con i due agenti con trench e berretto, onnipresenti in ogni episodio della politica degli anni ‘70…

Tornando comunque al processo, il clima favorevole nei confronti degli imputati e le indubbie lacune dell’attività investigativa fecero il resto.

In effetti il pubblico ministero lo ammette: la polizia non è riuscita a forzare la catena di aiuti e di complicità che si sono venute a creare a Firenze. Con grande onestà intellettuale la pubblica accusa riconosce che non per tutti coloro che sono stati rinviati a giudizio si sono raggiunte prove sufficienti di colpevolezza.

Le cronache dell’epoca riportano che il Pubblico Ministero ha aggiunto serenamente come i vuoti dell’indagine vadano considerati come “i limiti della giustizia umana ai quali con serenità bisognava non arrendersi, ma porre rimedio”.

Un riconoscimento però sente di doverlo esprimere all’onestà della polizia, che ha indagato al limite del possibile e non ha corrotto nessuno, né con danaro né con altri mezzi illegali.

Per quattordici imputati il pubblico ministero ritira quindi l’accusa di cospirazione, chiedendo per gli altri pene ridotte.

La parola passa ai difensori, i quali sono confortati, oltre che dall’alleggerimento delle accuse, anche dal fatto che il 4 agosto precedente la corte di Assise delle Puglie in Trani ha assolto dall’accusa di complotto contro lo stato Enrico Malatesta e 24 imputati. È un precedente che fa ben sperare.

Ed infatti, nel giugno dell’anno successivo la giuria popolare, facendosi interprete dell’opinione pubblica, assolve tutti gli imputati, ad eccezione di due internazionalisti, condannati a pochi mesi di carcere.

Pochi giorni dopo l’assoluzione (e precisamente il 23 luglio 1876), Natta organizza il congresso regionale toscano dell’Internazionale. Rinsaldate le fila toscane, in agosto, a nome della Commissione di Corrispondenza dell’AIL Natta convoca a Firenze il Terzo congresso federale.

Il governo però decide di impedire ad ogni costo il congresso. Così il 19 ottobre, due giorni prima dell’inizio dei lavori, Natta viene puntualmente arrestato, così come Costa, Grassi e decine di altri delegati. La città è completamente presidiata e gli scampati agli arresti si riuniscono in modo fortunoso nei boschi della vicina ma isolata località di Tosi10.

Quando in novembre la nuova Commissione si sposta a Napoli, in previsione dell’azione nel Matese (un tentativo di insurrezione organizzato, tra gli altri da Cafiero, Costa, Pezzi e Grassi), Natta, che nel frattempo è stato rilasciato, rimane a Firenze e qui promuove il Primo Congresso operaio toscano (novembre 1876).

Le ventisei associazioni partecipanti danno luogo in questa occasione alla Federazione Operaia toscana, che esprime il proprio sostegno all’Associazione Italiana lavoratori e ne adotta lo statuto.

In seguito all’azione nel Matese (primavera 1877) le autorità si determinano a sciogliere le Federazioni e le associazioni internazionaliste: con quasi tutti gli esponenti di primo piano in carcere o riparati all’estero, ancora una volta è Natta a tenere le fila dell’organizzazione.

A fine gennaio 1878, grazie all’amnistia per l’insediamento del nuovo re, che favorisce l’assoluzione di tutti i partecipanti ai moti del matese, i vari attivisti arrestati possono far ritorno presso le loro abitazioni, e anche a Firenze riprende l’attività dei movimenti anarchici. Natta, infaticabile, insieme ai coniugi Pezzi e a Grassi organizza in continuazione comizi fuori porta e massicce manifestazioni nel centro stesso della città.

L’8 febbraio esplode una bomba agli Uffizi. Natta, con Grassi e Vannini, nega ogni responsabilità degli internazionalisti, affermando che quel tipo di attentati non sono nelle corde del movimento, e che ci si attende invece il verificarsi “di ben altri avvenimenti”. Da un lato il clima politico interno è infatti molto agitato, dall’altro la crisi internazionale sembra dover sfociare in una guerra europea.

In questo quadro gli anarchici pensano di poter agire nuovamente. In tale direzione vanno quindi i lavori del IV Congresso della Federazione italiana, che si tiene clandestinamente a Pisa nell’aprile, e quelli del convegno altrettanto clandestino dei vertici internazionalisti il 1° ottobre a Firenze.

Il 3 ottobre, in una riunione degli internazionalisti fiorentini a casa di Francesco Natta, si discute sull’organizzazione di un nuovo moto rivoluzionario. A questo punto però la polizia, percepito il fermento in atto, reagisce arrestando tutti gli intervenuti e i maggiori esponenti fiorentini. Natta è arrestato il 3 ottobre, e con lui Luisa Minguzzi e Anna Kuliscioff, appena giunta dalla Russia ed ospite a casa sua. Rimarrà in carcere in attesa di giudizio, con gli altri arrestati, per oltre un anno. La circostanza dell’arresto proprio a casa di Natta dei vari militanti provenienti da diverse parti d’Italia è un’ulteriore prova di come questi sia il riferimento per tutti i rivoluzionari di passaggio da Firenze. La sua casa è definita a tal proposito “il Vaticano”.

Nel resoconto del processo apparso su “La Gazzetta Piemontese” del 27 dicembre 1879 il giornalista scrive appunto che il fatto che la Kuliscioff sia andata a casa del Natta è naturale, “perché non conosceva altra persona in quella città”. Se Firenze è quindi una delle più importanti sedi della riorganizzazione dell’anarchismo, la casa di Natta è il centro dell’anarchismo italiano.

Il processo che ne segue ha un grandissimo impatto sull’opinione pubblica11. Natta viene unanimemente riconosciuto dagli inquirenti e dalla stampa come l’elemento di maggior spicco del movimento. Il cronista de “La Gazzetta piemontese”, riportando l’inizio della requisitoria del P.M., così lo descrive: “Incomincia dal Natta. Nota che il Natta non va semplicemente guardato come un segretario, un socio qualunque dell’Internazionale. Egli era uno dei capi più influenti dell’Associazione ed era per certo l’anima della Federazione fiorentina. Egli formulava i quesiti da discutersi faceva circolari, dava le direzioni opportune, insomma era uno dei capi più autorevoli dell’Associazione” (resoconto dell’udienza del 24 dicembre (?!)

E così anche il cronista de “Il Monferrato” annota: “Francesco Natta, come al solito, comparisce come capo”.

Natta, difeso da Francesco Saverio Merlino, che in seguito assumerà l’incarico di difensore di Gaetano Bresci (anche da tale difesa, di così alto livello, si deduce il ruolo importantissimo svolto dal nostro nell’ambito dell’organizzazione), viene assolto e liberato, come tutti gli altri, il 6 gennaio 1880.

Nel frattempo però viene arrestato il fratello Agenore, pittore decoratore, per la bomba esplosa a via Nazionale il 18 novembre 1878, (il giorno successivo all’attentato avvenuto a Napoli al Re Umberto I, ad opera di Giovanni Passanante) nella quale sono rimaste uccise quattro persone. Ma del suo processo, della sua dura condanna e delle vicende successive tratteremo poi brevemente in seguito.

La repressione attuata dal governo mette in grave difficoltà il movimento internazionalista, che vede tra l’altro in quel momento la svolta legalitaria di Andrea Costa e il rifiuto dei metodi violenti di lotta.

Ancora una volta tocca a Natta tirare le fila dell’organizzazione e mediare tra le posizioni più intransigenti del movimento e quelle più istituzionali di Costa. Il piemontese dà subito vita ad un comitato rivoluzionario segreto che ristabilisce i contatti con gli anarchici rifugiati in Svizzera, cercando quindi di rilanciare l’organizzazione.

A questo proposito, ciò che balza agli occhi seguendo l’instancabile attività di Natta nel tessere le file dell’organizzazione anarchica è la sua abilità a lavorare sottotraccia. Praticamente ogni iniziativa di quegli anni passa per il tramite della sua persona ed egli, malgrado abbia gli occhi della polizia puntati su di sé e a dispetto della notorietà, riesce quasi sempre ad evitare gli arresti; quando invece ciò accade, riesce a non riportare condanne.

Dopo essere stato presentato come candidato di protesta, insieme a Cafiero, alle elezioni politiche del 1882, ed aver ricevuto in verità pochi voti, l’anno successivo Natta è tra i fondatori della Federazione socialista fiorentina, che si riconosce nel programma comunista anarchico.

Sempre nel 1883 firma la circolare che annuncia l’uscita de “La Questione Sociale”, il periodico diretto da Malatesta che diverrà il portavoce degli anarchici allineati su posizioni antiparlamentari e rivoluzionarie.

Nello stesso anno si verifica la rottura di Costa con il movimento anarchico. La sua candidatura e la successiva elezione in Parlamento (primo deputato socialista nella storia d’Italia) determina fortissimi (e in alcuni casi anche violentissimi) contrasti in seno al movimento.

Anche in questo caso Natta dà prova di una concretezza e pacatezza che a mio avviso è il criterio guida della sua vita politica. Infatti, a differenza della maggior parte degli altri anarchici, ritiene che si debba evitare la frattura con Costa.

A tal riguardo polemizza con Errico Malatesta, il quale in una lunga lettera al giornale ha censurato piuttosto aspramente l’opera del neo deputato. Pur marcando la distanza dalla posizione di Costa, Natta ritiene che il contrasto e le polemiche intolleranti e offensive nuocerebbero a tutto il movimento. Riconosce la buona fede sia del compagno non più rivoluzionario, sia dei socialisti romagnoli, i quali ritengono che l’emancipazione del proletariato possa venire dal parlamentarismo. Secondo questi ultimi la differenza fra socialisti intransigenti e legalitari sta nel fatto che i primi si affidano ai metodi violenti, mentre i secondi ritengono che la strada da percorrere debba invece avere i requisiti di un cambiamento che prediliga l’organizzazione e la preparazione della rivoluzione sociale. In sostanza, la discussione verte non sui principi, ma sul metodo di lotta.

Natta, e con lui Pezzi, difendono perciò vivacemente Costa, ritenendolo onesto e sincero e ribellandosi, come “anarchici rivoluzionari intransigenti, a qualunque imposizione che dovesse limitare la libertà di condotta nella propaganda, nella iniziativa, nell’azione12.

Nel 1884, quando Malatesta e Merlino vengono condannati dal Tribunale di Roma come “malfattori” (così all’epoca era definita “l’associazione per delinquere”), Natta è tra i firmatari di un manifesto di protesta che gli costa l’ennesima incriminazione e la condanna in contumacia (il 19 settembre 1884) a 30 mesi di carcere e 3900 lire di multa, per i reati di “offesa al rispetto delle leggi fondamentali dello Stato, apologia di fatti qualificati delitti, offesa contro il diritto di inviolabilità della proprietà e di manifestazione di voto di distruzione dell’ordine monarchico costituzionale per mezzo della stampa”.

Resosi latitante, alla fine del 1884 riesce a fuggire dall’Italia, insieme proprio a Malatesta e ai coniugi Pezzi, e ripara, via Marsiglia e imbarcandosi sul piroscafo Savoie, a Buenos Aires (città che già dà asilo a diversi anarchici), dove sbarca l’ultimo giorno dell’anno13. In questa occasione Malatesta viaggia nascosto in una cassa di macchine da cucire (e la spedizione è probabilmente riconducibile, sia pure sotto falso nome, proprio a Natta, che utilizza il nome della moglie, Elisa Innocenti, da cui è separato) spedite in Argentina per l’intrapresa dell’attività che va ad impiantare a Buenos Aires. E nelle sue memorie racconta in proposito un particolare degno di un film di De Funes: un poliziotto che procedeva alle ispezioni ha aiutato a spostare la cassa nella quale l’anarchico era nascosto14.

Nel marzo 1885 la polizia italiana sa che Francesco Natta, unitamente a Malatesta, ha aperto un laboratorio a Buenos Aires, nella centrale via Corrientes 384, sotto il nome di “Malatesta e Natta”. Ciò grazie all’aiuto di un sarto di cognome Lombardi, fratello di un anarchico rifugiato a Londra ed amico del Malatesta. In realtà il nome della ditta è “Malatesta, Natta, Pezzi e Cia” ed è da ritenere che l’unico a svolgere l’attività sia proprio Natta, mentre per gli altri soci è solo una copertura. Il Ministero dell’Interno italiano ritiene peraltro che l’intrapresa di attività produttive indipendenti da parte di anarchici e socialisti sia soltanto uno strumento per accumulare mezzi finanziari, attesa la facilità di credito reperibile in Argentina in quel periodo, per poi tornare in Italia “alla testa di una spedizione”. La realtà è però ben diversa. Il ministro d’Italia in Argentina fa presente che gli anarchici cercano soltanto di “sostentarsi, divertirsi e anche di fare alcuni risparmii, ma non vistosi per ora, né tali probabilmente neppure pel seguito, che nelle loro immaginazioni”.

Una volta stabilitisi a Buenos Aires, Natta e compagni s’integrano subito nel Circolo Comunista Anarchico fondato l’anno precedente da Ettore Mattei, e successivamente danno vita al Circolo di Studi Sociali (chiamato anche Circolo Socialista) che si riunisce nel café Grütli, dove si svolgono le prime conferenze comuniste anarchiche. In seguito tali conferenze si terranno presso la sede del giornale “La Questione Sociale”, creato dal gruppo e rifacentesi all’omonimo foglio pubblicato a Firenze. Questo giornale è il primo periodico anarchico in lingua italiana pubblicato in Sud America, e ad esso collabora attivamente il Natta, che ne è anche generoso finanziatore. Il giornale incontra però scarso successo, e dopo quattordici numeri si decide di sostituirlo con la pubblicazione di opuscoli, ritenuti più efficaci per la propaganda.

Nel novembre del 1885 Natta fa giungere a Buenos Aires il figlio Temistocle, di 19 anni, con la nave La France, partita da Marsiglia, mentre l’altro figlio, Ezio, diciottenne, arriva l’anno dopo, nel mese di febbraio, sul piroscafo Roma, partito da Genova. È possibile che una volta giunti a Buenos Aires i figli subentrino nel condurre l’attività, mentre il padre, assieme a Malatesta e ad altri tre compagni, parte per l’estremo sud argentino (Cabo de las Islas Virgenes, Patagonia), per un’incredibile corsa all’oro. In realtà la partecipazione del Natta all’avventura è riportata soltanto da due o tre fonti (o forse anche da una sola e riproposta dalle altre), ma ne riferisco ugualmente perché mi è sembrata una storia fantastica15. Un sansalvatorese che, affrontando un viaggio incredibile, giunge fino nell’estremo sud della Patagonia per una corsa all’oro e per giunta per finanziare i propri ideali, era una storia che andava comunque narrata. A prescindere. Non fosse altro per sottolineare come poco più di un secolo fa vi fossero personaggi (Malatesta e il Pezzi partecipano alla spedizione sicuramente) che per un’Idea erano pronti a sopportare una vita di stenti, di pericoli e di avventure in terre sconosciute ed anche ostili.

L’idea è quella di andare in Patagonia a cercare fortuna per finanziare l’opera di propaganda anarchica. Sette mesi dopo, però, nel mezzo del terribile inverno patagonico, i compagni di spedizione decidono di abbandonare l’impresa. Muoiono quasi di fame e devono essere messi in salvo su una nave come naufraghi, per poi essere sbarcati in un porto in prossimità di Buenos Aires.

Tornato a Buenos Aires, Natta riprende la propria attività nel negozio, che nell’annuario generale del 1895 risulta essere stato trasferito a La Plata, la nuova ed elegante città sorta pochi anni prima. Ed il fatto che quell’attività risulti nell’annuario generale lascia intendere che, idea anarchica o meno, gli affari non gli vanno affatto male.

Nel frattempo l’attività a sostegno del movimento anarchico continua incessantemente, trasformandosi sempre più in un’opera di proselitismo e di divulgazione dell’idea anarchica per mezzo di giornali e volantini diffusi capillarmente.

Il primo numero de “La Questione Sociale” esce nella capitale argentina il 22 agosto 1885, mentre l’ultimo di cui abbiamo notizia, il decimo, compare il 29 novembre dello stesso anno. È poi la volta de “El Perseguido”, che è il primo giornale anarchico sudamericano. Il periodico raccoglie fondi non solo a Buenos Aires, ma anche a Rosario, La Plata, Córdoba, Mar del Plata, Luján e in innumerevoli altri paesi dell’Argentina, mentre arrivano anche contributi da alcuni compagni dell’Uruguay, del Brasile, del Cile, del Paraguay, del Nordamerica, della Spagna, di Londra, e persino dal periodico parigino “La Révolte”. Nelle sottoscrizioni raccolte dal giornale compaiono un gran numero d’italiani residenti in Argentina, tra i quali appunto Francesco Natta, il quale, raggiunta una certa tranquillità economica, interviene, oltre che come organizzatore e cofondatore, sempre più come finanziatore. Ed in effetti, l’anarchico Cappellini fa sapere in una lettera al Costa che Natta, ancora a La Plata, si dedica completamente agli affari.

In realtà l’attività di Natta quale promotore di iniziative sul territorio non è affatto venuta meno. Assieme ai figli ventenni, secondo i rapporti della polizia, partecipa spesso alle riunioni dei socialisti di La Plata e di Buenos Aires, essendo “uno degli oratori più considerati ed applauditi in tali riunioni”.

Pochi mesi dopo l’apparizione de “El Perseguido”, il 16 novembre 1890, esce a Buenos Aires “La Miseria”, giornale scritto in lingua italiana che ospita alcuni articoli in spagnolo e qualche piccola rubrica in francese. “La Miseria”, che si dichiara un organo comunista anarchico fin dall’inizio, ha una vita piuttosto breve e cessa le pubblicazioni dopo soli quattro numeri – l’ultimo è del 1° gennaio 1891. Dai tre numeri disponibili sappiamo che il gruppo redazionale è in contatto con anarchici di diverse località argentine, tra cui Mar del Plata, e quindi probabilmente con Francesco Natta e con il figlio di questi, Temistocle.

Attento anche alla situazione delle lavoratrici, il Natta risulta essere finanziatore de la “Propaganda anarquista entre las mujeres”, che pubblica all’interno della rivista “La Questione Sociale” almeno quattro opuscoli, a partire dal marzo 1895. Dal canto suo “La Questione Sociale”, scomparsa verso la fine del 1896, trova continuità in una nuova rivista, questa volta interamente redatta in spagnolo dallo stesso gruppo redazionale. Nell’aprile 1897 nasce infatti “Ciencia Social”, rivista mensile che vivrà fino al febbraio 1900. Prima della cessazione di “La Questione Sociale”, però, il gruppo del giornale pubblica nel 1895 il numero unico “XX settembre”, a proposito della commemorazione della festa patriottica italiana: e nella sottoscrizione per il foglio, pubblicata dalla rivista, appare anche in questo caso, tra i finanziatori, il nostro. Lo stesso vale per “La Anarquía” de La Plata; anche in questo caso tra gli autori delle sottoscrizioni raccolte compaiono i nomi di Francesco Natta e dei figli.

Natta risulta poi tra i finanziatori de “La Voz de la Mujer” di Buenos Aires, primo periodico libertario in America – e forse, al mondo – redatto esclusivamente da donne. Di tendenza comunista anarchica, il giornale era schiettamente femminista. Ad esso Natta dà il proprio contributo attraverso il canale de “La Questione Sociale”.

Negli anni che seguire Natta continua a dividersi tra gli affari16 e la propaganda anarchica che, come abbiamo visto, lo vede sempre in prima fila allorché si tratti di finanziare nuove iniziative a sostegno dell’Idea17. L’ultima notizia che si ha di lui riguarda un’informativa della Polizia Italiana della fine del 1903.

Il governo argentino scatena in quel periodo una violenta repressione antianarchica nella capitale, e Natta si prodiga per i molti che si rifugiano a la Plata. La scheda trasmessa a Roma annota: “nonostante la sua età, egli è sempre l’antico settario convinto e propagandista di un tempo”. Da allora non si hanno più notizie circa le attività del nostro concittadino. Sappiamo solo che muore a La Plata nel marzo del 1914.

In Italia la notizia è riportata da “Il Lavoro” di Prato, il 4 aprile.

 Vita (e sventure) di Agenore Natta

Agenore nasce a San Salvatore il 1 gennaio 1847. Si trasferisce a Firenze con il fratello, svolgendo l’attività di pittore decoratore. Di lui non si conosce quasi nulla, se non il fatto che, come il fratello Francesco, è un internazionalista convinto.

Questo fino al 18 novembre 1878, quando a Firenze esplode in via Nazionale una bomba lanciata contro un corteo monarchico, che provoca diverse vittime (almeno 4) L’attentato segue quello avvenuto a Napoli nei confronti del re Umberto I il giorno prima, compiuto dall’anarchico Giovanni Passanante: e scatta probabilmente la volontà da parte delle istituzioni di trovare in tempi rapidi dei colpevoli e la necessità di comminare ad essi una pena esemplare. Questo determina l’arresto di Agenore Natta con altri sette internazionalisti.

Nel processo che segue Agenore è riconosciuto come uno dei principali responsabili e condannato a vent’anni di lavori forzati. Una pena più grave (l’ergastolo) è comminata soltanto a Cesare Batacchi, uno degli elementi più in vista dell’anarchismo più intransigente fiorentino. Ciò a dispetto del fatto che tutti i condannati protestino vigorosamente la loro innocenza ed estraneità al sanguinoso attentato.

In realtà fin da subito appare all’opinione pubblica come gli otto arrestati siano dei capri espiatori per cercare di bloccare sul nascere le reazioni anti monarchiche e mostrare la forza e l’efficienza delle istituzioni. È sufficiente leggere le cronache del processo per comprendere come l’atmosfera garantista che nel Tribunale di Firenze si è respirata fino a qualche mese prima sia ormai svanita18. La responsabilità di Agenore Natta è determinata sulla base di due semplici affermazioni di presunti testimoni, peraltro prive di altri riscontri, e malgrado l’imputato protestati vibratamente la propria innocenza. Tre anni dopo i due accusatori, riparati all’estero, dichiareranno di loro spontanea volontà, davanti a pubblici ufficiali, di aver inventato le loro accuse su istigazione della polizia, e sosterranno l’innocenza dei condannati19.

In diverse parti d’Italia si promuovono iniziative in favore dei condannati, ma anche a causa del progressivo indebolimento del movimento anarchico fiorentino (i cui principali esponenti, tra cui Francesco Natta sono esuli all’estero) la campagna di stampa non riesce a far luce sull’attentato né ad ottenere la revisione del processo.

Anni dopo (ma saranno ormai trascorsi vent’anni dalla condanna) per iniziativa del giornale socialista “La difesa” si costituirà un comitato, in favore principalmente del Batacchi, a cui parteciperanno rappresentati di tutti i partiti. Tutto ciò porterà alla candidatura del Batacchi, tra le fila dei socialisti.

Agenore Natta, finito di scontare da poco la sua condanna a Pianosa, torna a Firenze tra i compagni il 23 dicembre 1898, in tempo per partecipare alla campagna pro Batacchi, ma rimane sempre strettamente vigilato. Batacchi venne eletto e il suo caso è discusso in parlamento il 10 marzo 1900. Quattro giorni dopo viene graziato. Agenore rimane a Firenze fino al 1922 quando, crollate le speranze del primo dopoguerra e preso atto dell’avanzare del fascismo, espatria in America Latina dove fa perdere completamente le sue tracce. Nel 1929 la polizia lo radia dal Casellario Politico Centrale, servizio in cui venivano schedati i sovversivi. Non se ne saprà più nulla.

 Della mia onestà vado superbo20

Signori Giurati, Voi avete sentito gli argomenti dell’accusa, e quelli dell’egregio avvocato Lupi mio difensore, come ché mi corre l’obbligo di pubblicamente e sinceramente ringraziarlo per avere con tanto zelo perorata la mia causa; con pari affetto ringrazio tutti quegli avvocati che con qualche argomento hanno tentato di attenuare la mia responsabilità. Voi, o signori Giurati, vi trovate di fronte un onesto operaio accusato di cospirazione contro lo Stato, per il sol fatto di appartenere all’Internazionale.

Qualunque possa essere il programma di detta Società, io non prenderò a svolgerlo perché superiore assai alle mie forze. Solo mi limiterò a parlarvi di quella parte materiale del programma che più da vicino mi riguarda come operaio, e per il quale ho preso una parte attiva.

Le ingiustizie e le sofferenze di cui l’operaio è continuamente vittima del capitalista e del monopolio, senza trovar altro che vane promesse, o noncuranza ai suoi giusti reclami, giustificano pienamente l’esistenza di quest’Associazione la quale ha per scopo immediato la organizzazione del Lavoro. Molti sarebbero i quesiti che io vi potrei proporre su questo argomento, senza dubitare minimamente di essere smentito; il primo che io intendo presentarvi, o signori Giurati, è questo: l’operaio d’Italia è esso assicurato da un lavoro quotidiano senza interruzione che lo ponga in circostanze di non dovere per mantenere la famiglia diventare disonesto? Son pienamente sicuro che siete convinti della verità di questo quesito, e quindi ammetterete con me la mancanza del lavoro causa principale in Italia, che appoggia il mio assunto.

Secondo quesito: Questi pochi operai che hanno la fortuna di essere al lavoro, sono essi retribuiti secondo l’opera loro, e ai bisogni necessari della vita? A questo quesito, o signori Giurati, non so se mi potrete rispondere coscienziosamente, perché è ben difficile a chi non operaio il considerare e il vederne i bisogni.

Ma basta che io vi metta davanti un quadro statistico di una classe delle più lucrose fra gli operai in genere per convincervi che purtroppo questa seconda causa è una terribile verità; vi parlerò degli operai meccanici. lo vi mostrerò, Signori, che le officine governative sono le prime a dare il cattivo esempio a quelle particolari nel retribuire l’operaio.

La media del salario nelle officine Galileo, Pia Casa di Lavoro, Ferrovie Romane, l’Arsenale d’Artiglieria di Fortezza, la Fonderia del Pignone, e tante altre che non ricordo il nome, è di L. 2,50 al giorno. Le ore del lavoro giornaliero sono 11 con dei regolamenti insoffribili i quali non si trovano alla casa di forza; notate che in queste Officine non vi entrano che operai onestissimi dietro certificato della questura e molte raccomandazioni; la maggioranza di questi operai onesti e specchiati si trovano con moglie e in media tre figli da mantenere e istruire.

Ora, o signori Giurati, vi lascio considerare se quest’operaio dopo avergli richiesto tutti i requisiti d’onestà e d’intelligenza, è retribuito equamente secondo le esigenze che i doveri che la Società moderna gli ha imposto verso la famiglia.

No, o signori, son sicuro che nella vostra coscienza non potrete ammettere che con due o tre franchi al giorno cinque individui possano onestamente menar la vita in una città, tenuto conto del caro dei viveri e le pigioni di casa; senza considerare le malattie che purtroppo nelle famiglie degli operai sono assai frequenti, e che molte volte lo portano alla dura necessità di vendere anche il letto.

E ben per esso se in mezzo a tutte queste calamità che le circondano riesce a mantenersi onesto, perché se questo bravo operaio onesto e laborioso, per causa di malattie o per qualunque altra causa, disgraziatamente arrivasse a macchiarsi il suo nome, sapete, o signori, cosa gli segue? Tutte queste officine si chiudono per lui, e allora è costretto a menare una vita vagabonda da una bottega ad un’altra mendicando lavoro, senza speranza di sfamare la sua famiglia il domani; di qui, o signori, la fonte di ogni vizio, dalla prostituzione al delitto.

Ma vi è una classe di operai più infelice di quelli che vi ho parlato e che pur nonostante le incombe i medesimi doveri e questi sono i cosiddetti braccianti agricoltori. E quando vi avrò detto quale è la media dei suoi guadagni son sicuro che vi sorprenderà il trovare in essi una virtù così grande per mantenersi onesti.

Questi operai infelici, o signori, guadagnano un franco al giorno in media; ora tolto le feste e il cattivo tempo non si arriva a contare 280 giorni lavorativi nel corso dell’anno. Così avremo in circa la media di 70 centesimi al giorno, coi quali, questo povero disgraziato, deve provvedersi gli arnesi di lavoro, mangiare e vestire con la sua famiglia, e pagare la pigione di casa, ed io gli ho visti questi infelici, nel cuore dell’inverno per la miseria, fare un tragitto di quasi due chilometri a prendervi acqua salata alle sorgenti per farsi la polenta.

Ma non più di questo, o signori.

Se la Società presente che si chiama civile adottasse quell’assioma: non vi è causa l’effetto, e che per avere delle conseguenze buone è necessario avere delle cause migliori; in altri termini se invece di perseguitare le conseguenze, cercassero le cause e queste si condannassero, o signori, voi vedreste su questo banco non noi che siamo le conseguenze, ma ben altri che rappresentano le cause!

Sapete voi, signori giurati, a quali conseguenze portino la mancanza di lavoro, la miseria e l’abbandono di un operaio isolato dalla società?

Domandatelo all’onorevole P.M. che a migliaia passano dalle sue mani i passaporti di questi disgraziati, conseguenza di un sistema, a popolare le case di forza, e io stesso, o signori giurati, benché della mia onestà ne vada superbo, non esito a dirvi che il giorno in cui per mancanza di lavoro fossi costretto ad onta della mia buona volontà nel procacciarmene, ad essere spettatore impassibile del digiuno dei miei figli, cosa orribile a pensarlo solamente, non esiterei, lo ripeto, di fronte a un delitto per sfamare i miei cari.

E allora, o signori, non avrete più davanti a voi un cospiratore, ma un assassino o un ladro, e come tale il P.M. sarà ben lieto di poter strappare da voi un verdetto di colpabilità, crescendo così il numero di coloro che già mi avrebbero preceduto alle galere per le medesime conseguenze.

Un terzo quesito, o signori, sottopongo alla vostra coscienza: Di fronte a questi bisogni, a queste necessità sociali, quali provvedimenti hanno preso gli uomini cui incombe questo dovere? Nessuno. Eppure, se non erro, uno dei provvedimenti è stato preso, capace di tutelare la società da questi affamati e vagabondi, almeno lo credono in buona fede.

Sì, o signori, non contenti dei domicili coatti, inflitti a una quantità di operai creduti rei di vagabondaggio, ci hanno regalata la legge eccezionale di P.S. e quanto questa sia giusta ed opportuna l’onorevole Taiani vel dica per me.

PRESIDENTE: Natta, dovete sapere che non è permesso censurare una legge dello stato, dite tutto quello che volete a vostra difesa ma rispettate le leggi esistenti.

NATTA: Non credo di aver mancato di rispetto alle leggi; ho detto soltanto: “Quanto la legge eccezionale sia giusta ed opportuna vel dica per me l’onorevole Taiani”

PRESIDENTE: Queste parole sono una censura.

NATTA (proseguendo): Ma ecco, o signori, che la logica dei fatti porta naturalmente ad una considerazione, e nello stesso tempo ad una domanda.

Come mai al grido degli operai italiani, parlo di quelli onesti che chiedono continuamente lavoro, si risponde con le ammonizioni e deportazioni per vagabondaggio? lo lascio a voi la risposta, e non mi allungherò di più su per questo terreno pieno di angosce. Solo mi limiterò a dirvi che la innumerevole emigrazione di operai italiani, mentre le arti e la terra poltriscono, mi dà pienamente ragione.

Su un ultimo argomento, o signori, vi domando con preghiera la vostra attenzione.

L’onorevole P.M. nella sua requisitoria vi ha parlato dell’Associazione Internazionale inglese confrontandola con quella Italiana, ed ha conchiuso che le operazioni fatte dall’Internazionale inglese sono pienamente nei suoi diritti, e legalmente approvate Britannico, perché se da un lato la Internazionale alle esigenze dei capitalisti [si] oppone spiegando le sue forze con uno sciopero imponente, dall’altro lato, sempre legalmente, e senza l’intervento della polizia, i capitalisti coalizzati alla loro volta oppongono la chiusura delle loro fabbriche finché un accordo non sia venuto, il quale fin qui fu favorevole agli operai.

Ma, o signori, in Italia è ben diversa la situazione economica e sociale degli operai.

Mentre in Inghilterra l’operaio non deve rivendicare dai capitalisti che il frutto intero del proprio lavoro, in Italia invece si presenta per l’operaio la necessità di rivendicare in prima linea il diritto di lavorare, cosicché mentre in Inghilterra il lavoro è un dovere, in Italia invece costituisce un diritto che ancora l’operaio non ha dal governo potuto ottenere. E sapete a questo grido di diritto al lavoro innalzato da- gli operai italiani come si usa rispondere? Vi citerò un fatto, o signori Giurati, che risponderà pienamente a questa mia domanda.

Nel 1872 verso la metà dell’inverno, la sezione dei muratori del Fascio operaio fiorentino contava da 300 di operai, quasi tutti con famiglia, privi di lavoro.

Il Fascio operaio in una sua adunanza per provvedere affinché non avvenissero disordini nella città, e nello stesso tempo dare la sussistenza a queste 300 famiglie, deliberò di fare istanza al municipio di Firenze, affinché volesse patrocinare presso gli accollatari di lavori in arte muraria, di spettanza del municipio questi stesso, a riaprire il corso delle costruzioni, state malignamente e egoisticamente troncate da questi accollatari, per il solo motivo che essendo le giornate d’inverno assai più corre non trovavano il loro tornaconto. Facendoli in ultimo osservare che i lavori decretati dai municipî, devono aver di mira principalmente non l’ingrassare accollatari, ma bensì deve alla sussistenza di tanti operai che fatalmente spesse volte li manca.

Fu nominata un’apposita commissione incaricata di presentare al municipio in nome del Fascio operaio la suddetta istanza.

Il rappresentante del municipio rispose che avrebbe sottoposto la nostra istanza al Consiglio comunale, e che fra qualche giorno si avrebbe saputo il risultato.

Sapete quale fu il risultato? E non si fece molto attendere; il giorno dopo con decreto dell’illustrissimo signor prefetto si scioglieva l’Associazione del Fascio operaio e non si è mai saputo quali fossero i motivi, solo vi posso dire che il Fascio operaio fu sciolto e i lavori municipali non furono aperti.

Dunque o signori Giurati dietro a questi eloquenti fatti, in Italia si deve conchiudere che l’operaio legalmente non può che piangere le sue miserie in seno alla famiglia, soffocando però quei gemiti, affinché non vengano sentiti in pubblico, correndo il pericolo di essere cambiati come voci sediziose, e come tali condannati.

Conchiudo adunque col dire che l’Internazionale in Italia, si presenta sotto un aspetto assai diverso a considerarsi da quello del Pubblico Ministero.

La Internazionale come associazione dei lavoratori in Italia, rappresenta la voce straziante di migliaia di operai onesti che mancanti di lavoro, o mal retribuiti, sorgono a protestare contro chi ne è la causa.

La Internazionale, o signori, non ha mai cospirato contro lo stato e sarebbe un assurdo il crederlo.

Composta come è di operai, la questione principale e immediata per essi è assicurarsi il pane e il lavoro per sé e loro famiglie, lasciando lo svolgimento dei suoi programmi al tempo e alla scienza. Voi non dovete considerare la Internazionale dai suoi congressi o da qualche lettera o documento privato che nulla vi provano, ma che invece letti spassionatamente e spogliandoli di qualche frase che inconsideratamente oppure in un momento di dolore avrà potuto l’autore dei medesimi lasciarsi sfuggire alla penna, vi troverete a ogni passo invece i gemiti dell’angoscia, della miseria, e della disperazione.

Voi vi rammenterete, o signori Giurati, la situazione d’Italia nel luglio e agosto 1874, vi ricorderete le sommosse di piazza per il caro dei viveri, e per la mancanza generale di lavori, e son più che persuaso che nella vostra coscienza sarete convinti, che questa mancanza di lavoro non fosse una scusa, perché allora non si potrebbe conciliare l’assalto alle botteghe dei fornai delle madri, nella città di Pisa in mezzo alla florida Toscana, e in diversi comuni delle Romagne, strappandosi il pane di mano l’una coll’altra, per correre a sfamare i loro cari.

Ebbene, o signori, dietro questi strazianti fatti furono fatti degli arresti, condannati come incitatori a commettere il saccheggio diversi individui, più fu incolpata la Internazionale come causa principale di detti disordini e vollero in questa anche la cospirazione.

Ora, o signori Giurati, se considerando questi fatti e come liberi cittadini, e di una classe agiata della società, di fronte a una moltitudine affamata di operai privi di lavoro, con dei vecchi impotenti, e dei pargoli macilenti fra le braccia delle loro madri squallide e smunte dalla miseria, che sorgono spinti non dai raggirı di un partito, ma da una causa assai chi potendo non prende rimedio, e che invece di provvedervi, e lavoro, potente, cioè la miseria; sorgono dico, a tumultuare contro immaginano una cospirazione impossibile; se credete che questi infelici ma onesti operai, che chiedono siano degni di casa di forza, allora non mi rimane altro che subire con calma la mia sorte, convinto che non ho nulla a rimproverarmi.

Ma se invece, nella vostra coscienza ho potuto penetrare quel grido straziante, che con le mie deboli forze ho cercato richiamarvi alla mente, oh allora non dubito di trovare in voi un atto di giustizia, e per me sarà un giorno di gioia abbracciando i miei figli poter dire: non tutti i borghesi sono insensibili!

NOTE

1 La storia di Giovanni Passanante meriterebbe un doveroso approfondimento; per alcune note al riguardo, cfr., in rete, Treccani Dizionario Biografico degli Italiani.

2 L’episodio dell’arresto di Anna Kuliscioff a casa di Francesco Natta, è visibile al seguente indirizzo: https://youtu.be/o8knfXNRCY a partire da 1h, 08’ 32”

3 Così l’Avv. Alessandro Bottero ne “Dibattimenti nel processo per cospirazione e internazionalismo innanzi alle Assise di Firenze” 1875, descrive Francesco Natta, con una presentazione che lo fa entrare nel processo (e nella nostra storia) da protagonista, riservandogli una descrizione pressoché unica rispetto a tutti gli altri coimputati.

4 Pier Carlo Masini, Storia degli anarchici italiani da Bakunin a Malatesta, Rizzoli, 1969, pag. 189

5 Angelo Toninelli, “Un sogno d’amore”, Edizioni ETS, pag. 99

6 Giuseppe Dolfi, Il “capopopolo” del 1859, fra sovranità nazionale, democrazia, diritti sociali, A cura di Armando Nicolai, Ed. dell’Assemblea, pag. 54

7 Bibilioteca Serantini, Collezioni digitali

8 Riccardo Bacchelli, Il Diavolo al Pontelungo, Mondadori 1957

9 Giuseppe Scarlatti, “L’Internazionale dei lavoratori e l’agitatore Carlo Cafiero, 1909, pag. 69

10 La vicenda del congresso di Firenze ha dei risvolti addirittura rocamboleschi. Dopo gli arresti degli esponenti più in vista i delegati decisero di spostare l’incontro nella vicina Scandicci: ma anche lì furono intercettati dalle forze dell’ordine, che decimarono ulteriormente il gruppo. Altro spostamento, questa volta in una locanda nei pressi dell’abbazia di Vallombrosa, ma ancora una volta la polizia fece irruzione. I superstiti finirono per riunirsi all’aperto, nei boschi, in due giornate (22-23 novembre) particolarmente fredde e piovose. Quel che non avevano fatto le forze di polizia venne completato probabilmente dalla polmonite.

11 Il processo ebbe grandissima risonanza e l’aula era sempre affollatissima. La stampa del banco degli imputati, posta nella prima pagina di questo lavoro, fu realizzata dal famoso Eduardo Ximenes per “L’Illustrazione Italiana” che così descrive, la Kuliscioff: “Il personaggio più interessante era una donna, Anna Kouliscioff, di 22 anni, nata a Mosca, maestra di lingue, intima amica di Andrea Costa, espulsa dalla Russia e dalla Francia. E una donnina piccola, svelta, simpatica, vestita con eleganza, un cappellino tondo e due trecce bionde le scendevano dalle spalle. Ha parlato con gran fuoco, con ardire, contro la società moderna che è tutta da cambiare”. Anche la rivista il Monferrato nell’edizione del 12 dicembre 1879 – evidentemente riprendente le cronache locali – così descrive la giovane russa: Essa è una vezzosissima donnina gentile di modi e di persona esilissima, pallida in volto, ma di lineamenti con una magnifica capigliatura biondissima. La sua fisionomia è tutto quanto si possa desiderare di delicato e simpatico. Tiene un contegno riservato, ma sciolto, senza impacci. È istruitissima e parla cinque lingue compresa l’italiana che imparò nel tempo della sua carcerazione”. Anche Carlo Lorenzini (Collodi) assistette alle udienze e rimase folgorato dalla giovane rivoluzionaria russa ed in seguito affermò d’aver modellato il personaggio della Fata Turchina sulla sua persona dichiarando appunto che per il personaggio della fatina dai capelli turchini “si era ispirato alla forza magnetica emanata da Anna Kuliscioff nell’aula di tribunale”. “La Repubblica”, 4 maggio 2007, Giuseppe Barbalace, Alle radici del femminismo, Mondoperaio 8-9/2016, p. 107

12 Fondazione Modigliani, Bibliografia del socialismo e del movimento operaio

13 Politica, Istituzioni, Storia. Le valigie dell’anarchia, di JA Canales Urriola, 2016, pag. 200. Nella lista degli sbarcati del Savoie, proveniente da Marsiglia, compare il nome di Francesco Natta, (40 anni, sposato, agricoltore, analfabeta (Vd listado de pasajeros 1882 a 1920 in S. Lamperti e M Risani – Website “Barcos de Agnelli). Il fatto che il Natta si dichiari agricoltore e analfabeta, denota chiaramente l’intento di nascondere la sua reale identità, ndr.

14 Brigate volontarie d’altri tempi, Malamente, 18 giugno 2020

15 Anarchisme en Argentine, Wikipedia; Calabresi sovversivi nel mondo, a cura di Amelia Paparazzo, Rubettino Ed. 2004

16 Gli affari dovettero andare piuttosto bene al Natta posto che la ditta, ormai Natta e hijos, con sede a La Plata è è inserita nell’annuario generale del 1895 sia sotto la voce “armaioli” sia sotto la voce “macchine da cucire”.

17 Tutte le notizie riguardanti i fogli e le pubblicazioni di propaganda cui il Natta partecipò alla stesura e finanziò sono tratte dal già citato Politica, Istituzioni, Storia, Le valigie dell’anarchia di JA Canales Urriola, 2016.

18 Archivio Storico “La Stampa”, maggio 1879

19 Cfr. la voce Batacchi Cesare, in Dizionario Biografico degli Italiani, di Luciano Trentin

20 Tratto da Dibattimenti nel processo per cospirazione e internazionalismo innanzi all’Assise di Firenze raccolti dall’Avv. Alessandro Bottero, Roma, pp. 503-506

Gustav Laundauer, anarchico controcorrente

Gustav Laundauer, anarchico controcorrentea cura di Paolo Repetto, 12 marzo 2020

“Tentare è un nostro dovere”

Introduzione a  «Per una storia della parola “anarchia”»

Per una storia della parola«anarchia»

“Tentare è un nostro dovere”

di Gianfranco Ragona

L’ostinata speranza di Gustav Landauer, anarchico controcorrente, una delle figure più stimolanti e attuali, e al contempo meno note, dell’anarchismo internazionale dello scorso secolo.

Questo saggio è la premessa al volume appena edito da Elèuthera.

Un romantico tedesco.

Gli studi sulla figura e il pensiero di Gustav Landauer (1870-1919), pur limitati nel numero e talvolta parziali nel contenuto, sono riusciti nel complesso a valorizzare il suo contributo alla teoria anarchica e alla vicenda dell’anarchismo tedesco tra Otto e Novecento, (1) e questo a dispetto della mancanza di un’edizione critica dei suoi scritti.

In alcuni casi, sulla base di un procedimento accettabile soprattutto in ambito accademico, cioè lo studio della formazione intellettuale e la ricerca delle fonti d’ispirazione, è stato sottolineato (forse con enfasi eccessiva ma correttamente) come il romanticismo, o meglio il neoromanticismo che attraversò la cultura tedesca a cavallo tra i due secoli, abbia costituito il brodo di coltura delle sue idee politiche. A questo proposito, è significativo il passaggio di uno dei saggi qui tradotti, in cui Landauer, riferendosi alla musica di Beethoven, in particolare alla Sinfonia n. 9, che segna l’ingresso del sommo compositore nel pieno romanticismo, interpreta lo schilleriano Inno alla Gioia come un elogio della fratellanza:

E non dobbiamo neppure dimenticare le parole del poema di Schiller, messe in musica da Beethoven: «Tutti gli uomini diventano fratelli, là dove il tuo dolce soffio si posa». Non è vero quello che vogliono farci credere in questi tempi fiacchi e privi di sentimento a causa della loro debolezza, che a cagione della decadenza si vergognano dell’amore e della dedizione, e cioè che per noi la fratellanza sia diventata una parola vuota. Noi uomini dovremmo di nuovo imparare a proclamare con forza e decisione, prima e dopo la rivoluzione, che tutti gli uomini sono fratelli. (2)

Il romanticismo rappresenta effettivamente uno degli elementi costitutivi del pensiero landaueriano, benché non sia certo l’unico o quello preponderante. Esso si manifesta tanto nel richiamo alla mistica, almeno per quanto essa serva a mettere in rapporto l’individuo con il tutto, quanto nel riferimento alla cultura völkisch, nazional-popolare, che però in Landauer, invece di indulgere alla rivalutazione dei miti degli antichi germani, come accadde in vasti settori dell’intelligencija tedesca coeva, inclinava al recupero di un’idea dell’uomo quale essere comunitario, impensabile cioè nei termini dell’isolata singolarità e sempre frutto delle sue relazioni con gli altri.

Il peso del romanticismo sulle concezioni landaueriane si nota, infine, nell’impiego reiterato del termine Geist, che solo approssimativamente può essere reso nella nostra lingua come “spirito”. Landauer lo usava per lo più nel senso di una sintesi di sapere, sentire e volontà orientata a uno scopo, staccandosi, come altri intellettuali del tempo, da ogni forma di scientismo positivista applicato alla politica: rivalutava in tal modo il ruolo della soggettività nel processo storico, senza scivolare nell’adorazione liberale, ma poco libertaria, dell’individualismo esasperato.

L’insistente riferimento allo spirito ha causato alcuni problemi postumi all’anarchico, soprattutto in epoche traumatizzate dagli esiti nefasti dei fascismi europei, considerati sul piano ideologico e culturale figli dell’irrazionalismo. È pure comprensibile che il discorrere di spirito abbia ancora di che disturbare la nostra cultura politica, permeata di più, non certo meno, dal culto della tecnica e sottomessa all’autorità dei suoi sacerdoti, legittimati dall’alto e perciò irresponsabili, appunto i tecnici: della politica, dell’economia, della cultura ecc.

Dev’essere sottolineato, però, come nel discorso landaueriano il linguaggio che fa perno sullo spirito coincida con quello adoperato da Max Weber per descrivere lo Spirito del capitalismo, a sua volta risalente al dibattito sulle Geisteswissenschaften, cioè le scienze della cultura, impostato da Dilthey alla fine del secolo XIX. Landauer rielabora questa concezione dello spirito nei termini di ragione umana, che si dispiega in tutte le sue potenzialità, soprattutto quelle legate alla passione e allo slancio entusiastico verso un fine. Insomma, la parola, negli scritti di Landauer, non ha nulla a che fare con il mistero religioso o con un alcunché di sovrumano.

Egli sferzava anarchici e socialisti e talvolta, anche adottando un lessico ricercato e provocatorio, si prendeva gioco di loro, perché si dimostravano senza coraggio quando, per esempio, pensavano alla rivoluzione come un risultato dello sviluppo delle forze produttive o dell’evoluzione della specie, o del progresso della Storia con la maiuscola. Il che ai suoi occhi rischiava di condurre (come di fatto almeno in parte accadde) interi settori del movimento rivoluzionario, socialista e socialdemocratico, persino molti anarchici, (3) alla passività o peggio all’integrazione nel sistema. Per contro, il ricorso allo «spirito» evocava la necessità di ricercare e mettere a punto un insieme condiviso di ragioni di vita, di obiettivi assai concreti, di desideri e utopie; esprimeva, insomma, il bisogno di un nuovo clima culturale, che non avrebbe generato nulla da sé, ma senza il quale l’azione collettiva per la trasformazione sociale, ossia l’attività politica, nel senso più nobile d’impegno nella creazione di exempla di vita buona, non avrebbe potuto produrre nulla di stabile e duraturo. Si trattava di un approccio eminentemente dialettico, coerente con lo spirito del tempo.

 

 

Il suo grande amico Martin Buber

Il destino di un eretico. La presente raccolta di scritti politici intende contribuire a colmare una lacuna nel panorama editoriale italiano. Infatti, l’unica opera di Landauer ad oggi tradotta è La rivoluzione, cui si accompagna qualche saggio ospitato sulle pagine di riviste lungimiranti. (4) La disattenzione per una delle figure più brillanti del pensiero politico tedesco a cavallo tra Otto e Novecento non riguarda soltanto l’Italia, e non è certo il prodotto di alcuna congiura del silenzio. Solo in epoca recente sono apparse traduzioni francesi e inglesi di alcuni dei suoi contributi più originali e interessanti e anche in patria egli ha dovuto attendere la fine del primo decennio del XXI secolo affinché vedesse la luce un’ampia raccolta di Scritti scelti, organizzata in diversi volumi. (5)

Per spiegare l’oblìo o il disconoscimento calati per molto tempo su Landauer, si sarebbe tentati di ricorrere a una spiegazione, per così dire, linguistica, giacché il suo tedesco è ricco, ricercato e spesso ostico, quindi difficile da tradurre; tuttavia, la contestuale difficoltà a trovare e leggere le sue sparpagliate opere perfino nella lingua madre suggerisce di ampliare il raggio di ricerca. (6)

Dopo la sua uccisione per mano di un plotone di guardie bianche durante la repressione della Repubblica dei consigli di Baviera, di cui era stato uno dei principali protagonisti ricoprendo per un breve momento anche l’incarico di Ministro della Cultura, si pose il problema di curare la sua memoria e di valorizzare il suo contributo teorico. Le basi per una riflessione e un lavoro in tal senso furono gettate dal suo grande amico Martin Buber, celebre studioso del chassidismo e filosofo del dialogo, che negli anni Venti radunò in volume le conferenze, gli articoli letterari, quelli sull’anarchismo e sul socialismo, e mise a disposizione una gran parte della corrispondenza. (7)

Dopo la sua morte avvenuta nel 1965, le nuove pubblicazioni, quando non riproducevano pedissequamente le edizioni buberiane, si rivelarono nel complesso insoddisfacenti, (8) soprattutto sotto il profilo scientifico, se si eccettua la pregevole raccolta di documenti del periodo rivoluzionario approntata da Ulrich Linse. (9) Gli studi e l’impegno filologico vennero ripresi un decennio più tardi, con la stampa di alcuni scritti giovanili predisposta da Ruth Link-Salinger: sebbene anche in questo caso mancasse una solida interpretazione storica, il lavoro era pionieristico e illuminava un momento fino ad allora trascurato del percorso di Landauer.

Misconosciuto? Era un pensatore anarchico

Sulla stessa traccia si mosse Siegbert Wolf in un’antologia del 1989 consacrata agli scritti sull’anarchismo, in cui accluse alcuni dei principali articoli giovanili. (10) Tali contributi favorirono la ripresa della discussione: anche grazie alla nuova documentazione, infatti, furono organizzati simposi internazionali che stimolarono l’ulteriore avanzamento degli studi. (11) Nel 1997, Rolf Kauffeldt e Michael Matzigkeit, nel rispetto di solidi criteri di scientificità, diedero alle stampe un gruppo omogeneo di opere dedicate alla critica culturale e letteraria, (12) e nello stesso anno apparve il primo volume delle Opere complete, incentrato sugli scritti e i discorsi sulla letteratura, la filosofia e l’ebraismo: il progetto non è stato portato a termine e i volumi annunciati per il 2000 sono restati sulla carta. (13) In compenso, in tempi recenti, ancora Wolf ha dato alle stampe i primi volumi degli Scritti scelti, qui già menzionati.

È trascorso quasi del tutto un intero secolo dalla sua scomparsa, eppure la storia della ricezione delle opere e del pensiero di Landauer si riassume in poche decine di righe. Alcune considerazioni possono aiutare a spiegarne le ragioni.

In primo luogo, Landauer era un anarchico, e nel Novecento l’idea di un ordine sociale senza Stato e senza autorità ha perduto presto ogni dignità d’esistenza, tacciato senza esitazione di utopismo, nel senso deteriore di ciò che non sarà mai in vece di ciò che ancora non è. In secondo luogo, egli era un rivoluzionario, e la storia novecentesca del pensiero politico europeo, dopo l’Ottobre russo e il Biennio rosso europeo, è la storia del progressivo tramonto dell’idea stessa di rivoluzione, un declino interrotto solo episodicamente e momentaneamente nel secondo Novecento e per lo più in contesti extraeuropei, fino a giungere addirittura ad associare ogni tentativo di dare un ordine radicalmente nuovo alla vita in società al pericolo, pressoché ineluttabile, del totalitarismo. Infine, Landauer era un ebreo, certo laico, ma che della cultura d’origine portò con sé un afflato messianico, valutato con scetticismo e sospetto da quei contemporanei colti o compagni impegnati, che si erano formati in un’epoca ancora contrassegnata dal culto assolutizzante delle scienze.

Tutte le dimensioni dell’identità politica ed esistenziale di Landauer non si presentarono mai allo stato puro, ma confluirono in una forma articolata dell’eresia: egli fu eretico in quanto rivoluzionario, persuaso che la rivoluzione non fosse certo «quel che pensano i rivoluzionari»; lo fu in quanto anarchico, non stancandosi mai di biasimare compagni e sodali per la loro incapacità di affrontare i problemi “politici” generali o, per esempio, per il loro disprezzo plebeo nei confronti dell’azione culturale, non riconoscendo che in quest’ambito non era possibile alcuna democrazia; e fu eretico in quanto ebreo, collocandosi in quella corrente dell’ intellettualità ebraico-tedesca che coniugava il messianesimo escatologico con la dimensione utopico-libertaria della trasformazione sociale, come ha puntualmente messo in luce Michael Löwy, accostando la figura di Landauer a quelle di Benjamin, Bloch, Scholem, Mühsam e Buber. (14) Tutto ciò può contribuire a spiegare il “caso Landauer”, portatore di un pensiero che aveva tutti le caratteristiche dell’eterodossia.

 

 

Quale rapporto tra libertà e uguaglianza

Il pensiero politico. Gli elementi “eretici” che caratterizzano la figura intellettuale e politica di Landauer s’innestano sul suo pensiero politico. (15) La riflessione risulta condensata in tre scritti principali, sviluppandosi intorno ad alcuni temi portanti (il cooperativismo, la rivoluzione, il rapporto tra anarchismo e socialismo), e procede parallelamente alla militanza attiva.

Le prime riflessioni sul complesso rapporto tra l’anarchismo e il socialismo (16) maturarono all’interno delle discussioni che agitavano il mondo del socialismo internazionalista, nel quale Landauer conquistò presto una posizione di rilievo, partecipando ai congressi della Seconda Internazionale di Zurigo (1893) e di Londra (1896). Benché proprio nella capitale britannica si fosse consumata un’insanabile rottura tra l’anarchismo e le correnti politiche del socialismo, egli continuò sempre a definirsi un «anarco-socialista», persuaso che il concetto di anarchismo (inteso nei termini di assenza di dominio e di Stato e, contestualmente, di riconoscimento e protezione del singolo dalle interferenze di ogni altra forma di potere) potesse integrarsi perfettamente con il concetto di socialismo, quale comunanza tra gli uomini dei beni necessari alla vita.

Si tratta naturalmente del problema, vecchio ma non invecchiato, del rapporto tra libertà e uguaglianza, questione che sottende l’intera trattazione del cooperativismo, il primo pilastro del suo pensiero. Nel suo principale contributo al tema, uno scritto pubblicato in forma anonima a Berlino nel 1895 con il titolo Una strada per la liberazione dei lavoratori, (17) Landauer avanzava una visione propositiva dell’anarchismo, in anni in cui era ancora vitale la «propaganda del fatto», una strategia che nei decenni finali dell’Ottocento aveva affascinato alcune correnti del movimento, inclini a giustificare omicidi politici, attentati a capi di Stato e di governo e a funzionari di polizia, o più in generale disposte a praticare una vera e propria “politica delle bombe” per seminare terrore nei luoghi di ritrovo delle classi privilegiate.

Il volumetto esprimeva senza incertezze l’opzione antiparlamentarista del giovane anarchico e parallelamente riconosceva un primato all’azione economica quale strada per la liberazione del lavoro attraverso l’edificazione di associazioni di produttori, autonome dal capitalismo ma situate entro i confini della società esistente. Si trattava di una visione che, da un lato, era debitrice della lezione di Pierre-Joseph Proudhon – il pensatore francese aveva strenuamente difeso l’ipotesi di creare nel presente «banche del popolo» dispensatrici di «credito gratuito» –, ma che, da un altro lato, per gli accenti economicisti che manifestava, anticipava gli sviluppi futuri del sindacalismo rivoluzionario, che in Germania, in effetti, si sarebbe affacciato solo alcuni lustri più tardi.

Landauer delineava la sua prospettiva in modo assai chiaro, respingendo ogni velleità legata alla conquista del potere politico, un atto che tutt’al più avrebbe rimpiazzato una classe dominante con i «cosiddetti rivoluzionari, che in modo dilettantesco, con decreti dittatoriali, tentano di far emergere la società socialista dal nulla». (18) I lavoratori, per contro, avrebbero dovuto conquistare passo dopo passo un potere sociale, organizzandosi in comunità di produzione, di consumo e culturali. Dapprima sarebbe stato necessario dar vita a cooperative di consumo, poi, sulla base dei risparmi realizzati aggirando i diversi livelli d’intermediazione del commercio, sarebbero sorte anche cooperative di produzione, il che avrebbe consentito ai lavoratori di affrancarsi dallo sfruttamento, dando prova concreta della possibilità di regolare la produzione e la distribuzione dei beni in armonia con i princìpi del mutuo appoggio, della solidarietà e dell’uguaglianza. Egli non intendeva fomentare l’illusione che questa strategia fosse in grado da sola di abbattere il sistema generando d’incanto una società perfetta, ma riteneva che una proposta seria di “transizione” non potesse limitarsi a evocare quasi magicamente l’alba di un giorno nuovo, capace di illuminare le macerie lasciate da un atto rivoluzionario improvviso e violento: il futuro doveva essere preparato nelle condizioni del presente creando “colonie” a base cooperativa nel seno di ogni Stato. L’immagine della società che ne scaturiva non era immobile, fuori dal tempo e dallo spazio, perché si trattava di organizzare comunità articolate sulla base della divisione sociale del lavoro e dei compiti, nel rispetto delle diverse competenze di ciascuno e delle esigenze collettive. Landauer respingeva così sia l’apologia della rivolta distruttrice di massa esaltata in passato da Bakunin, sia il carattere determinista e scientista del socialismo socialdemocratico, contrapponendo una concezione etica del mutamento che non attendeva nulla dallo “sviluppo”, ma richiamava l’intervento attivo degli uomini nella storia.

Su queste fondamenta gettate in età giovanile, Landauer costruì nel tempo il secondo pilastro del suo pensiero, una teoria della rivoluzione dai tratti decisamente originali. Il saggio in cui sintetizzava le sue concezioni, La Rivoluzione, fu redatto tra il 1906 e il 1907, nel pieno di una fase politica in cui la maggioranza delle forze socialiste organizzate d’Europa aveva ripudiato l’idea stessa che la rivoluzione fosse non solo possibile ma persino auspicabile. A cavallo tra Otto e Novecento, il Partito socialdemocratico tedesco aveva riposto in un cassetto ogni progetto del sovvertimento radicale degli assetti sociali dominanti: il dilaniante dibattito sul revisionismo della dottrina di Marx, con la critica della teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto (il capitalismo per Eduard Bernstein e seguaci non era affatto destinato a crollare) e dell’ipotesi dell’immiserimento crescente dei lavoratori (che anzi nei decenni avevano visto migliorare le proprie condizioni materiali di vita), aveva aperto la strada a politiche d’integrazione del movimento operaio in un sistema che, se democratizzato, sarebbe evoluto nel socialismo. Non per caso in quel periodo i socialdemocratici, che esercitavano un ruolo egemonico anche nella Seconda Internazionale, leggevano e facevano leggere – forzandone l’interpretazione – il celebre testamento politico di Friedrich Engels, l’Introduzione del 1895 alle Lotte di classe in Francia di Karl Marx, nel quale l’autorevole “co-fondatore” del materialismo storico giudicava che l’accesso al potere da parte del proletariato sarebbe potuto avvenire pacificamente e nel rispetto della democrazia formale, grazie alla mediazione di un potente partito di massa. Si trattava di opinioni che mal celavano una smisurata fiducia nella storia e nel progresso, di cui si scorgeva una direzione, il fatale esaurimento della spinta propulsiva del capitalismo accompagnata dalla necessità di socializzare i mezzi di produzione, almeno nelle compagini nazionali più sviluppate.

La rivoluzione come processo

Nella socialdemocrazia tedesca e nel socialismo internazionale le posizioni erano certo più articolate, ma sia gli scritti di Rosa Luxemburg – in particolare quello celebre del 1906, Sciopero generale, partito e sindacati, concentrato sulla rivoluzione russa dell’anno precedente, che per un momento aveva dato l’impressione di poter riaprire quel ciclo lungo della trasformazione socialista del mondo arrestatosi nel sangue della Comune parigina del 1871 –, sia i pronunciamenti di Landauer, che nella Rivoluzione impiegava e sviluppava un lessico comune alle opposizioni di sinistra del tempo, rappresentavano l’espressione teorica di esigue minoranze.

La rivoluzione non era un atto, ma un processo, che conteneva una dimensione spirituale orientata a una vasta riforma intellettuale e morale. (19) Landauer valorizzava gli uomini quali soggetti attivi della storia, non meri strumenti nelle mani della provvidenza, quand’anche essa si presentasse sotto le vesti delle Spirito assoluto, chiamato di volta in volta, Ragione, Libertà, Progresso. Ma, soprattutto, il saggio era fonte di scandalo per l’inedita lettura della modernità che prospettava: la rivoluzione, contrariamente a quanto avevano sempre creduto i rivoluzionari, non era un fatto bensì un’epoca, una lunga transizione inaugurata col tramonto del medioevo e la riforma protestante, ma non ancora compiuta. In questa visione, il singolo evento rivoluzionario, sempre ricorrente nella modernità, veniva ridotto a un «miracolo d’eroismo», in cui si manifestavano provvisoriamente le possibilità dell’avvenire sino a quel momento latenti, in attesa dell’autentico «spirito della rigenerazione». Tale spirito, ossia la comunanza di ideali, di ragioni di vita, di obiettivi alti, sarebbe apparso solo quando si fosse incominciato, anche in piccolo, a edificare nella realtà ostile non tanto oasi felici nascoste allo sguardo del potere e del mercato, ma tasselli di un grande mosaico ideale, il socialismo. Landauer manifestava in questo modo la sua etica di emancipazione: la prefigurazione razionale della città futura, espressa in termini di desiderio e di possibilità, doveva consentire di derivare coerentemente i mezzi dell’azione collettiva. Lo spirito si sarebbe concretato perciò in istituzioni comunitarie, capaci di produrre in forma cooperativa e armonica valori d’uso necessari alla vita di ciascuno. Sulla scorta delle intuizioni di Buber, egli non immaginava tali comunità come presociali, anzi il contrario: si trattava d’inedite forme di convivenza contrapposte alla società borghese e capitalistica, in cui la maggioranza era abbassata a mero ingranaggio di un meccanismo totale di sfruttamento e oppressione da parte di minoranze organizzate. Landauer intendeva riportare a galla l’essenza comunitaria del singolo, non considerato mai una potenza autonoma in lotta con potenze uguali e contrarie, senza inclinare, per altro, verso un’idea di comunità come una sorta di “superindividuo”: la comunità costituiva una relazione sociale basata sull’eguaglianza, la solidarietà e la vita in comune, in un contesto in grado di valorizzare le specificità di ciascuno. Un decennio più tardi, avrebbe creduto di scorgere nei consigli degli operai, dei contadini e dei soldati, nati nel vortice della rivoluzione tedesca, una manifestazione tangibile di questo archetipo:

Io vedo in quel che è iniziato (e si chiama con termini rivoluzionari: Consigli degli operai, dei soldati, dei contadini, come in tutte le rivoluzioni), vedo l’articolazione di tutto il popolo in corporazioni organiche, vedo in tutto questo il rinnovamento di un parlamentarismo decaduto, deprecabile e indegno, che è scomparso, morto e sepolto, sconfitto dalla rivoluzione e che non riapparirà sotto nessuna forma […]. (20)

Infine, nel 1911, Landauer diede alle stampe l’Appello al socialismo. (21) Lo scritto, per molti versi, tradiva il proprio carattere originario: un’appassionata conferenza pronunciata nel 1908 da un oratore d’indiscusso talento, ma disorganica e frammentaria; d’altro canto, però, riassumeva assai bene e approfondiva le antiche idee sul carattere coessenziale dell’anarchismo e del socialismo, costruendo così, sulle basi gettate negli anni precedenti, il terzo pilastro del suo pensiero politico.

Il volume proponeva prima di tutto un ragionamento articolato sulle principali cause della servitù nella società capitalista, tra esse la proprietà privata della terra, che strappava ai più la possibilità di accedere a uno dei presupposti essenziali della produzione, costringendoli a un legame di dipendenza economica dai proprietari. Landauer non si fermava a tale constatazione, ma esaminava anche il meccanismo della circolazione delle merci: in un’economia caratterizzata dallo scambio capitalistico, l’accesso ai beni, sia per il consumo diretto sia per la produzione, era limitato dal possesso di denaro, una merce del tutto particolare perché poteva aumentare di valore nel tempo, sicché i ricchi godevano del privilegio di limitarne e controllarne la circolazione, riproducendo il sistema sempre uguale a se stesso. Ispirandosi all’economista völkisch Silvio Gesell, proponeva quindi l’introduzione di una moneta che si deprezzasse col tempo, in modo tale da favorire un più rapido impiego della ricchezza prodotta socialmente. Non trascurava, infine, di esaminare il plusvalore, termine con il quale, però, egli definiva lo scarto tra il prezzo di vendita di una merce e il suo valore effettivo, prendendo le distanze dalla concezione marxiana, secondo cui esso si realizzava nel processo di produzione di merci a causa delle condizioni determinate dai rapporti di classe, non certo nel processo di circolazione.

Landauer interpretava la società del capitale come totalità, che permeava sia le condizioni sociali della vita sia la politica. Lo Stato svolgeva un compito essenziale nel garantire le condizioni dello sfruttamento, stabilendo le norme dello scambio e dell’accesso alla proprietà della terra e agli strumenti di lavoro. Ma cosa intendeva egli con il termine capitale? A suo giudizio, si trattava di «spirito comune» (Gemeingeist), ossia un’accumulazione di sapere e saper fare finalizzata all’appagamento tanto dei bisogni primari quanto di quelli intellettuali, tramandati nel tempo e patrimonio della comunità; pertanto non respingeva tout court l’utilità del capitale, in quanto si trattava di una relazione tra gli uomini, ossia di uno «spirito che unisce, nella sua realtà economica». In questo senso, il socialismo lo avrebbe conservato, istituendo un sistema nel quale ciascuno avrebbe lavorato per sé, ma senza sfruttare il lavoro altrui, ricevendo integralmente il frutto del proprio sforzo e godendo liberamente dei prodotti derivanti dalla divisione del lavoro e dallo scambio. Per mettere in scacco il sistema vigente, tuttavia, i lavoratori avrebbero dovuto innanzitutto sottrarsi alla presa del potere economico e politico incominciando a costruire una sorta di “controsocietà”: un elemento questo che raccordava l’Appello non solo allo scritto sulla Rivoluzione, ma anche al vecchio opuscolo sul cooperativismo.

In questo contesto, invece di designare un soggetto sociale specifico capace di farsi carico di questa grande trasformazione, Landauer riteneva che tutti gli individui decisi a «incominciare» e i gruppi capaci di unirsi nelle cooperative di consumo e di produzione avrebbero costituito le prime cellule di un «popolo nuovo», portatore dello spirito comunitario e della rigenerazione.

Si trattava d’inaugurare un complesso «percorso» di fuoriuscita dalla società esistente e di recupero di un rapporto con la terra e la natura, che – ipotizzava – avrebbe ricostruito il legame sociale su basi solidaristiche e comunitarie. Una strada che non poteva certo incrociarsi con il marxismo dominante all’epoca, che presentava il socialismo quale prodotto dello sviluppo «dialetticamente» necessario del capitalismo, e neppure con il debole anarchismo tedesco d’inizio secolo. Per questo dal 1909 al 1915 s’impegnò in prima persona nella costruzione di un’autonoma organizzazione, l’Alleanza socialista (Sozialistischer Bund), che all’apice della sua attività raccolse alcune centinaia di militanti e simpatizzanti in tutta la Germania, con l’obiettivo di creare comunità: nascoste allo sguardo del potere, funzionando in forma cooperativa e articolandosi secondo una struttura federalista, esse sarebbero state capaci di presentare un modello del tutto alternativo del vivere insieme.

Il recupero del concetto di “patria”

Sul limitare del baratro. La frenetica attività pubblicistica, la mole di discorsi, la messe di lettere inviate e ricevute negli anni in cui animò il «Sozialist», giornale che costituiva l’organo ufficiale dell’Alleanza Socialista, rimandano a un tema classico della retorica rivoluzionaria, quello del rischio d’implosione della civiltà fondata sul Capitale e sullo Stato, che Landauer raccolse in un passaggio cruciale dell’Appello per il socialismo: «Forse nessuna epoca come la nostra ha avuto dinanzi agli occhi quello che si suol chiamare il tramonto del mondo». (22)

Il tema, che la storiografia del e sul socialismo ascrive per ragioni classificatorie alla declinazione soggettivista del socialismo internazionale, era comparso nitidamente nel celebre Manifesto marx-engelsiano del ‘48, in cui veniva presentata una visione drammatica della storia quale storia di conflitti fra classi, che potevano concludersi con «la comune rovina» delle forze in lotta. Su questa visione faceva perno l’esigenza dell’impegno politico del proletariato, incitato a organizzarsi nella forma del partito, perché in sé e per sé lo sviluppo delle forze produttive non garantiva affatto la nascita del socialismo, anzi il contrario. Detto altrimenti, e sfruttando la celebre variazione sul tema proposta da Rosa Luxemburg con la fortunata formula d’inizio secolo, «Socialismo o barbarie», il socialismo non era destinato a realizzarsi per la forza delle cose: lo sviluppo contraddittorio del capitalismo conduceva a un accrescimento inaudito delle risorse a disposizione dell’umanità e nel contempo, a causa della proprietà privata dei mezzi di produzione, anche alla concorrenza spietata sui mercati, all’impiego irrazionale delle risorse e a una polarizzazione rovinosa delle ricchezze. Quindi, di fronte a un dilemma obiettivo – o una svolta di civiltà sotto le insegne del socialismo, o il suo tramonto, tramite crisi e guerre fratricide – s’imponeva una scelta di natura etica, o per usare il lessico di Landauer, una svolta di natura spirituale:

Siamo come uomini primitivi di fronte all’indescritto e indescrivibile, non abbiamo niente davanti a noi, ma tutto solo dentro di noi: dentro di noi la realtà ovvero la forza non dell’umanità a venire, bensì dell’umanità già esistita e per questo in noi vivente e consistente, in noi l’operare, in noi il dovere che non ci travia, che ci conduce sul nostro sentiero, in noi l’idea di ciò che deve diventare realtà compiuta, in noi la necessità di uscire da sofferenza e umiliazione, in noi la giustizia che non lascia nel dubbio o nell’incertezza, in noi la dignità che esige reciprocità, in noi la razionalità che riconosce l’interesse altrui. In coloro che provano questi sentimenti nasce dalla più grande sofferenza la più grande temerarietà; coloro che vogliono tentare, malgrado tutto, un’opera di rinnovamento, orbene, si devono unire. (23)

La fine della civiltà sembrava una possibilità concreta e veniva espressa in un linguaggio che si rannodava al clima intellettuale complessivo del tempo: il tramonto della civiltà o dell’Occidente, come avrebbe detto Spengler pochi anni più tardi. (24) Quest’eventualità avrebbe poi assunto forme reazionarie nella cosiddetta «rivoluzione conservatrice» e nel nazismo, ma non certo per necessità naturale: anzi, essa avrebbe potuto approdare nell’opposta consapevolezza del compito emancipatore e liberatorio di un «popolo nuovo», dando origine a un’inedita configurazione egualitaria dei rapporti sociali.

Il popolo, dal punto di vista strettamente sociologico, non fu mai pensato da Landauer come un tutto indifferenziato, bensì articolato in gruppi e strati sociali molteplici e conflittuali. Il fatto che egli non fosse un classista, almeno nel senso del marxismo politico, non significa affatto che non riconoscesse l’esistenza delle classi, ma attesta solo il rifiuto di attribuire a una classe specifica l’onere e il privilegio di una fantomatica transizione per mezzo dello Stato: solo «quando si saranno individuate le pietre angolari più adatte alla costruzione, potremo individuare anche gli architetti» (25).

Come l’idea di popolo, anche l’idea di patria e quella di nazione, concetti appropriati dalla destra conservatrice, in Landauer furono recuperati con un segno del tutto opposto: la patria era quella ideale, socialista e libertaria, e la nazione era quella in cui ciascuno poteva riconoscersi in forza di una condivisione della lingua, della cultura, del folclore, della mentalità, trascendendo naturalmente i confini statali.

L’anomalia anarchica di Landauer

Stato e libertà. L’Appello costituiva anche il compendio di un metodo di lavoro: la voce, il discorso, la riflessione, l’agitazione che lo attraversavano, rappresentano l’espressione paradigmatica di un modo d’essere insieme politico e impolitico. Impolitico, per un verso, perché era sulle relazioni tra gli uomini in tutti gli aspetti della vita che Landauer puntava per inaugurare un’epoca del tutto nuova: una vera e propria mutazione antropologica. Etico-politico, per un altro verso, perché egli continuava a credere in forme forti di azione collettiva, collocate al di fuori della sfera d’influenza dello Stato ma orientate a un fine dai contenuti spiccatamente universalisti: l’uguaglianza, la pace e, in esse e grazie a esse, la libertà.

Lo Stato costituisce una realtà per chiunque nella modernità s’interessi della vita civile, della polis, e perciò Landauer non accettava di chiudere gli occhi davanti ai parlamenti e ai governi, magari limitandosi a sfuggire le divise e i doganieri cullandosi nell’illusione che bastasse rifiutare l’obbedienza perché il re apparisse in tutta la sua nudità. Benché apprezzasse la denuncia morale di Étienne de la Boétie – un’invettiva rivolta contro i sudditi che cedono a quel vizio mostruoso rappresentato dall’abitudine a servire –, quest’anomalo anarco-socialista tedesco non arretrò di fronte all’esigenza di fornire un’interpretazione originale dello Stato, considerato un surrogato dell’antico spirito comunitario, ormai spento. Non quindi un oggetto che dall’esterno coartava individui e gruppi, ma un rapporto sociale corrispondente a una fase dello sviluppo della modernità, in cui gli uomini non erano ancora in grado di dare soddisfacimento ai loro bisogni in maniera autonoma. Lo Stato, però, si perpetuava invadendo i campi dell’autogoverno comunitario ogni qualvolta pretendeva di occupare spazi che le comunità erano in grado di gestire autonomamente nell’interesse collettivo. In questo senso, sul crinale che separava lo Stato legittimo dallo Stato in eccesso (sono espressioni buberiane) (26) si collocavano i «precursori» che, resistendo alle pressioni contrarie, tentavano di spingere sempre più avanti la linea di confine tra il socialismo effettivo e quello possibile, operando nella realtà per rendere lo Stato superfluo, non per distruggerlo. Solo riconoscendone l’effettività, e in un certo modo la legittimità, sarebbe stato possibile sottrarre allo Stato il terreno sotto i piedi.

L’anomalia anarchica di Landauer risalta anche nel modo in cui affrontò il tema della libertà: «Mi chiedo – scriveva sempre nell’Appello – se siamo sicuri di essere in grado di sopportare tutto quello che adesso comincia a imperversare al posto dello spirito mancante, fra istituzioni coercitive che lo sostituiscono, se saremo capaci di sopportare la libertà senza lo spirito, la libertà dei sensi, la libertà del piacere scevro da responsabilità». (27) La libertà poteva ridursi pericolosamente a una vuota frase, a una vana parola blandita dallo stesso potere autoritario. Egli era ben conscio di essere un provocatore quando attaccava le «scatenate e sradicate femminelle», (28) ma non gli riusciva di vedere alcun atto di libertà nell’individualistica liberazione dei costumi, paventando che una mal intesa libertà non comunitaria potesse approfondire le crepe del corpo sociale, con la perdita di legami autentici, in un mondo che, pur trovandosi al limitare del baratro, sopravviveva così com’era proprio a causa del progressivo allentamento di ogni vincolo tra gli uomini. Un popolo delle libertà sans phrases non poteva che essere portatore del peggiore di tutti i mali: l’individualismo atomistico, dove il singolo era più facilmente alla mercé del pensiero dominante e dello Stato. Nello stesso tempo, Landauer richiamava un’idea alternativa di libertà, che da sola non era nulla, ma poteva assurgere a supremo principio, se accompagnata dall’uguaglianza, dal rispetto dell’altro, dalla condivisione. In tal senso, si potrebbe dire, l’individuo è comunità – perché la porta in sé dalla nascita, la sviluppa nell’apprendimento e nella crescita, nel lavoro e nella riproduzione –, e l’appartenenza comunitaria garantisce a tutti la tanto anelata libertà.

Incominciare. Durante la Prima guerra mondiale Landauer fu tra i pochi intellettuali tedeschi che tentarono di attivare un movimento pacifista in Germania. (29) Per anni aveva denunciato i pericoli della guerra dalle colonne del «Sozialist», e continuò in questo senso finché gli riuscì di tenerlo in vita. (30) Poi, fu attivo nell’effimera esperienza del Forte-Kreis (Circolo di Forte) al quale per un breve momento si accostò anche Romain Rolland; militò nel Bund Neues Vaterland (Lega della nuova patria), associazione pacifista di maggiore respiro, di cui fecero parte tra gli altri Albert Einstein e Kurt Eisner, il futuro leader della Repubblica dei consigli di Baviera; infine aderì al Zentralstelle Völkerrecht (Ufficio centrale per il diritto delle genti), guidato dal democratico Ludwig Quidde, Premio Nobel nel 1927, che predicava una pace senza annessioni.

Un altro mondo è possibile. Qui e ora

Negli anni del conflitto Landauer non si stancò di pronunciarsi sui fondamenti della sua etica, denunciando la stridente contraddizione tra l’immagine chiara e serena di una possibile umanità unita in pace e le condizioni reali del presente. Solo così, richiamandosi ai «fondamenti», gli apostoli di un’epoca nuova avrebbero potuto ritrovarsi e creare un’alleanza non compromessa con i partiti o il movimento di classe. In un discorso pronunciato durante il congresso del Forte Kreis, disse in maniera eloquente:

Profeti, mistici, filosofi, poeti, artisti, uomini di buon cuore di tutti gli strati sociali del popolo e, inoltre, singoli eruditi, in sempre maggior numero, concordano pienamente sul fatto che la condotta reciproca dell’umanità e le corrispondenti istituzioni devono e possono essere rese armoniche grazie alla giustizia, alla bontà, alla dignità e alla convinzione che albergano in noi. (31)

A chi altri appellarsi, del resto? Il movimento anarchico tedesco era silente o su posizioni ambigue, tanto che lo stesso Landauer espresse tutto il suo disappunto di fronte alle posizioni di Kropotkin, schieratosi precocemente in appoggio delle forze dell’Intesa, persuaso che una vittoria della Francia avrebbe riaperto un ciclo di progresso e rivoluzione per tutti i popoli d’Europa: «Egli ha assolutamente torto […]. Non è mai successo che la guerra, la guerra vittoriosa, abbia condotto alla libertà». (32) E la sinistra socialdemocratica, ugualmente, non lo convinceva, tanto che, quando l’amico Erich Mühsam lo sollecitò a prendere contatti con quella parte dell’opposizione, che all’epoca comprendeva anche il vecchio Bernstein, e a spendere il suo nome in difesa di Karl Liebknecht, arrestato il 1° maggio 1916, oppose un diniego, tormentato ma onesto:

Ciò che per molti anni la socialdemocrazia ha trascurato e rovinato e sotterrato, non si può far resuscitare durante una guerra. Nutro la più profonda stima per il coraggio personale di Liebknecht e ho sincera compassione per il suo destino. Ma pensando alla bancarotta della socialdemocrazia è molto significativo che tutto il materiale rivoluzionario infiammabile si vanifichi nelle sterili esplosioni di un singolo uomo […]. (33)

Malgrado il rispetto per Liebknecht, insomma, i riformatori sociali autentici dovevano esigere chiarezza e “distinguo” sui punti decisivi della rivoluzione e del socialismo del futuro. Peraltro, la sinistra socialdemocratica invocava la rivoluzione quale atto di rottura politico, il che strideva con gli intenti libertari di Landauer e le sue priorità: l’urgenza del momento era la pace, non la conquista del potere.

Ciononostante, nello stesso 1915 egli scrisse un articolo destinato al movimento e ai singoli socialisti, che presentava un appello all’unione e all’azione nel solco dell’antica prospettiva ideale:

Il socialismo è una rappresentazione da veggenti che scorgono chiara innanzi la possibilità di trasformare il tutto. Esso comincia però come gesto degli uomini d’azione che si separano dal tutto, così com’è oggi, per salvare la propria anima, per servire il proprio Dio. L’affermazione: «Noi siamo socialisti» rappresenta la nostra convinzione che il mondo, gli spiriti, gli animi devono trasformarsi completamente, se si trasformano le basi sociali […]. La scoperta di essere costretto in condizioni indegne costituisce il primo passo per la liberazione da queste stesse condizioni. (34)

Prevedendo le difficoltà del dopoguerra e intravvedendo in anticipo i bisogni di cambiamento che sarebbero sorti, avvertiva l’esigenza di chiarire i compiti e gli obiettivi finali dei socialisti:

Il socialismo è innanzitutto opera dei socialisti, opera che sarà tanto più difficile, quanto più esiguo sarà il numero di coloro che osano tentarla […]. Socialista, assolvi adesso, una volta per tutte, ai tuoi compiti! Per le masse, per i popoli, per l’unità, per la trasformazione della storia, per la giustizia nei rapporti economici, nella vita in comune, fra le generazioni e nell’educazione, tu non hai bisogno immediatamente delle vaste masse, bensì in primo luogo di precursori. Solo così è possibile incominciare. (35)

In questo periodo, pertanto, i timori, il senso della crisi di civiltà, l’impotenza di fronte alla terribile carneficina bellica, non generarono in Landauer alcuna interruzione dell’impegno, e neppure si attenuò in lui il desiderio e la volontà di contribuire a costruire un mondo migliore, nell’antica consapevolezza che uno spirito di edificazione sarebbe nato e avrebbe mosso gli uomini, quando questi si fossero posti all’opera.

E proprio nella parola cominciamento alberga il lascito più autentico di Landauer, l’anarco-socialista, l’ebreo, il romantico tedesco: immune dai sacri brividi patriottici che giustificavano o esaltavano l’«orrendo massacro», egli riuscì ad associare alla cupa consapevolezza che un altro mondo fosse necessario, l’ostinata speranza ch’esso fosse anche possibile, qui e ora. Il che, nel dopoguerra, fece di lui una delle menti più appassionate della Rivoluzione tedesca.

Note

  1. Segnalo in particolare: Wolf Kalz, Gustav Landauer. Kultursozialist und Anarchist, Meisenheim am Glan, Verlag Anton Hain, 1967; Charles B Maurer, Call to Revolution. The Mystical Anarchism of Gustav Landauer, Detroit, Wayne University Press, 1971; Eugen Lunn, Prophet of Community. The Romantic Socialism of Gustav Landauer, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1973; Siegbert Wolf, Gustav Landauer zur Einführung, Hamburg, Junius, 1988. In italiano rimando a G. Ragona, Gustav Landauer. Anarchico, ebreo, tedesco, Roma, Editori Riuniti UP, 2010.
  2. La nascita della società, p. 126.
  3. Alcuni dei primi compagni anarchici che con Landauer animarono all’inizio degli anni Novanta lo stanco movimento tedesco, rientrarono più tardi tra i ranghi della socialdemocrazia o nei sindacati che alla SPD erano legati: tra essi, ad esempio, Eugen Ernst (1864-1954) che, una volta recuperato, fu dirigente del Partito per moltissimi anni, prima di aderire alla Partito comunista alla fine dell’esperienza nazista; Paul Kampffmeyer (1864-1945) e Hans Müller (1867-1950), esponenti dell’Unione dei Socialisti Indipendenti, formazione libertaria nata nel 1891 dalla convergenza tra esponenti dell’anarchismo berlinese e fuoriusciti dal Partito socialdemocratico.
  4. Landauer, Die Revolution, Frankfurt a.M., Rütter & Loening, 1907, tr. it. a cura di Ferruccio Andolfi, Reggio Emilia, Diabasis, 2009 (una prima versione italiana apparve all’inizio degli anni Settanta a cura di Anna Maria Pozzan, Assisi, Carucci, 1970). Si veda inoltre: G. Landauer, Attraverso la separazione verso la comunità, «La Società degli Individui. Quadrimestrale di teoria sociale e storia delle idee», X, n. 30, 2007/3, pp. 123-140, traduzione del saggio landaueriano Durch Absonderung zur Gemeinschaft, apparso originariamente in Heinrich und Julius Hart et al., Die neue Gemeinschaft, ein Orden vom wahren Leben, Leipzig 1901, pp. 45-68. Esiste poi un’antica versione italiana, imprecisa e lacunosa, dello scritto Von Zürich bis London, Pankow bei Berlin, Verlag von Gustav Landauer, 1896: Da Zurigo a Londra, «Biblioteca di Studi Sociali» (Forlì), n. 1, 16 pp.
  5. G. Landauer, La Communauté par le retrait et autres essais, traduits et présentés par Charles Daget, Paris Éditions du Sandre, 2008 e Id. Un Appel aux poètes et autres essais, traduits et présentés par Charles Daget, Paris Éditions du Sandre, 2009; in inglese si veda G. Landauer, Revolution and other Writings. A Political Reader, Edited and translated by Gabriel Kuhn, Oakland, CA, PM Press, 2010; in tedesco, dal 2008, sono in corso di pubblicazione le Ausgewählte Schriften, a cura di S. Wolf, Lich/Hessen, Verlag Edition AV: sono attualmente stati pubblicati i volumi: Anarchismus (2008), Internationalismus (2009), Antipolitik (in due tomi, 2010), Nation, Krieg und Revolution (2011); Skepsis und Mystik (2011).
  6. Questo osservava alcuni anni or sono Rudolf De Jong, Gustav Landauer und die internationale anarchistische Bewegung, in Gustav Landauer im Gespräch. Symposium zum 125. Geburtstag, a cura di Hanna Delf e Gert Mattenklott, Tübingen, Niemeyer Verlag, 1997, p. 221. Sul linguaggio di Landauer, cfr. l’intervento di Nino Muzzi, infra, pp. 31-38.
  7. G. Landauer, Shakespeare. Dargestellt in Vorträge, a cura di Martin Buber, 2 voll., Frankfurt a.M., Verlag Rütten & Loening, 1920; Id., Der werdende Mensch. Aufsätze über Leben und Schrifttum, a cura di M. Buber, Potsdam, Gustav Kiepenheuer Verlag, 1921 (nuova edizione con il titolo Der werdende Mensch. Aufsätze über Literatur, con un saggio di Arnold Zweig, Leipzig/Weimar, Gustav Kiepenheuer Verlag, 1980); Id., Beginnen. Aufsätze über Sozialismus, a cura di M. Buber, Köln, Marcan-Block-Verlag, 1924 (ristampa anastatica Wetzlar, Verlag Büchse der Pandora, 1977); Gustav Landauer. Sein Lebensgang in Briefen, a cura di M. Buber, 2 voll., Frankfurt a.M., Rütten & Loening, 1929.
  8. G. Landauer, Zwang und Befreiung. Eine Auswahl aus seinem Werk, a cura di Heinz-Joachim Heydorn, Köln, Verlag Jakob Hegner, 1968; Entstaatlichung. Für eine herrschaftslose Gesellschaft, a cura di Hans-Jürgen Valeske, Telgte-Westbevern, Büchse der Pandora, 1976; Erkenntnis und Befreiung. Ausgewählte Reden und Aufsätze, a cura di Ruth Link-Salinger (Hyman), Frankfurt a.M., Suhrkamp Verlag, 1976.
  9. Gustav Landauer und die Revolutionszeit 1918/19. Die politische Reden, Schriften, Erlasse und Briefe Landauers aus der November-Revolution 1918/19, a cura di Ulrich Linse, Berlin, Karin Kramer, 1974.
  10. Signatur: g.l. – Gustav Landauer im “Sozialist”. Aufsätze über Kultur, Politik und Utopie (1892-1899), a cura di Ruth Link-Salinger, Frankfurt a.M., Suhrkamp Verlag, 1986; G. Landauer, Auch die Vergangenheit ist Zukunft. Essays zum Anarchismus, a cura di S. Wolf, Frankfurt a. M., Luchterhand Literaturverlag, 1989.
  11. Oltre al volume Gustav Landauer im Gespräch, segnalo: Gustav Landauer (1870-1919). Eine Bestandsaufnahme zur Rezeption seines Werkes, a cura di Leonhard M. Fiedler et al., Frankfurt a.M., Campus Judaica, 1995; “Die beste Sensation ist das Ewige”. Gustav Landauer: Leben, Werk und Wirkung, a cura di Michael Matzigkeit, Düsseldorf, Theatermuseum, 1995.
  12. Landauer, Zeit und Geist. Kulturkritische Schriften, 1890-1919, a cura di Rolf Kauffeldt e M. Matzigkeit, München, Boer, 1997.
  13. Gustav Landauer, Werkausgabe, Vol. III, Dichter, Ketzer, Außenseiter. Essays und Reden zu Literatur, Philosophie, Judentum, a cura di Hanna Delf, Berlin, Akademie Verlag, 1997.
  14. Si veda: M. Löwy, Redenzione e utopia. Figure della cultura ebraica mitteleuropea (1988), Torino, Bollati Boringhieri, 1992; L’anarchico e l’ebreo. Storia di un incontro, a cura di Amedeo Bertolo, Milano, Elèuthera, 2001. Landauer influenzò, in misura diversa, tutti i personaggi menzionati, ma esercitò un influsso particolare su Erich Mühsam, che gli fu accanto nella rivoluzione baverese: cfr. E. Mühsam, Dal cabaret alle barricate, a cura di Alessandro Fambrini e Nino Muzzi, Milano, Elèuthera, 1999.
  15. La questione della morale, che rappresentò per Landauer una porta di accesso ai temi tipici dell’anarchismo, non viene affrontato direttamente in questo profilo introduttivo: rimandiamo però ai due articoli, invero assai chiari, tradotti nel presente volume: Qualcosa sulla morale (1893), L’immorale ordine del mondo (1895). Essi sviluppavano un discorso unitario e omogeneo, benché scritti a distanza di tempo, a causa di un periodo di detenzione che Landauer dovette scontare dal 1° novembre 1893 al settembre 1894, vittima di una severa campagna antianarchica messa in atto dal governo.
  16. Nella presente raccolta si riferiscono a questo tema – che pure ritorna in molti altri – gli scritti: Anarco-socialismo (1895); Da Zurigo a Londra (1896); Anarchismo e socialismo (1896).
  17. [G. Landauer], Ein Weg zur Befreiung der Arbeiterklasse, Berlin, Verlag von Adolf Marreck, 1895, pp. 30; dichiarò di essere l’autore dell’opuscolo in Arbeiter aller Länder, vereinigt euch!, «Der Sozialist», V, n. 7, 28 settembre 1895, p. 39. Il testo costituiva anche l’inquadramento teorico della cooperativa di consumo berlinese «Befreiung» (Liberazione), nata a Berlino il 1° ottobre 1895.
  18. [G. Landauer], Ein Weg zur Befreiung der Arbeiterklasse, p. 8.
  19. Il saggio che proponiamo in questo volume col titolo Trenta tesi socialiste costituisce la premessa logica ed etica del volume sulla Rivoluzione, così come quello intitolato La nascita della società rappresenta un estratto, lievemente rielaborato, dell’opera principale.
  20. Si veda il discorso La Germania, la guerra e la rivoluzione tedesca, p. 168.
  21. Landauer, Aufruf zum Sozialismus, Berlin, Verlag des Sozialistischen Bundes, 1911. In questo volume ne proponiamo un estratto, che ci sembra significativo per la valorizzazione della soggettività che emerge, ma anche per l’idea che accompagna l’intero saggio, ossia l’esigenza «di edificare in grande iniziando dal piccolo». Cfr. infra, p. 128.
  22. Appello per il socialismo, infra, p. 133.
  23. Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale (1923), Milano, Longanesi, 1957 (e successive ristampe).
  24. La nascita della società, infra, p. 122.
  25. M. Buber, Pfade in Utopia, Heidelberg, L. Schneider, 1950; prima ed. in inglese: Paths in Utopia, New York, Macmillan, 1950. Nuova edizione tedesca, a cura di Abraham Schapira, Heidelberg, Verlag Lambert Schneider, 1985. Traduzione italiana di Amerigo Guadagnin, Sentieri in utopia, Milano, Edizioni di Comunità, 1967; nuova traduzione a cura di Donatella Di Cesare: Sentieri in utopia. Sulla comunità, Genova, Marietti 1820, 2009.
  26. infra, p. 132.
  27. Parallelamente tentò di mettere le basi per un intervento attivo dei lavoratori, con lo sciopero contro la guerra, una mobilitazione che immaginava dovesse essere preparata dal basso, senza l’intermediazione di partiti e sindacati. In quest’ottica pubblicò in opuscolo il dialogo L’abolizione della guerra, redatto in forma intellegibile a beneficio dei lavoratori, e che venne immediatamente confiscato dalle autorità. Cfr. infra.
  28. Il giornale cessò le pubblicazioni nel marzo 1915. Per una lista dei numerosi interventi pubblicati nel periodo rimando a Gustav Landauer. A Bibliography (1889-2009), Edited with an Introduction by G. Ragona, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011.
  29. L’intervento è conservato in AAFL, fascicolo 24; ora pubblicato in C. Holste, Der Forte-Kreis, pp. 278-280, e in Sieben Thesen Gustav Landauers für einen Bund der Aufbruchsbereitens, vortragen am 10. Juni 1914 auf der Gründungstagung des Forte-Kreis, in “Die beste Sensation ist das Ewige” cit., pp. 251-253.
  30. Landauer a Hugo Warnstedt, 4 novembre 1914, in Gustav Landauer. Sein Lebensgang in Briefen , vol. II, p. 11.
  31. Landauer a Mühsam, 16 giugno 1916, in ivi, pp. 142-146: la citazione è a p. 145. Mühsam annotò nel suo diario i termini generali della discussione con Landauer e il suo disappunto: cfr. E. Mühsam, Tagebücher, 1910-1924 München, Deutscher Taschenbuch Verlag, 1994, p. 178. La vicenda è riportata anche da E. Lunn, Prophet of Community , pp. 247-248.
  32. Rialzati socialista!, infra, p. 154-155.
  33. Ivi, p. 156.

Introduzione a
«Per una storia della parola “anarchia”»

di Devis Colombo

Anarchico tedesco di origine ebraica, Gustav Landauer (1870-1919) morì a Monaco durante il tentativo insurrezionale della Repubblica dei Consigli, ucciso da milizie d’estrema destra che appoggiavano il governo centrale socialdemocratico. Di tendenze collettiviste e socialiste anarchiche, Landauer pubblicò nel 1909sulla rivista « Der Sozialist » uno studio etimologico col quale si propose d’approfondire la enealogia della parola «anarchia», da lui definita una «equivoca parola prismatica». Qui ripubblichiamo questo contributo secondo la sua originaria divisione in due parti: la prima (I) comparve sul numero del 15.05, la seconda (II) il 01.06.

L’analisi di Landauer (che tanto richiama alla mente la sentenza gnomica «indaga le parole a partire dalle parole, e non le cose a partire dalle parole») inizia dalla Rivoluzione francese, passa per i maestri del diritto statale del XXVIII secolo, Carlo Martini e August Schlözer, e da altri autori poco esplorati, come lo scrittore Ludwig Börne, per giungere a Proudhon attraverso i pensatori classici dell’anarchismo (Michail Bakunin, Edgar Bauer, Max Stirner).

Nell’intento di chiarire lo sfondo culturale e il percorso intellettuale seguito da Proudhon per propagandare per la prima volta l’anarchia secondo un’accezione positiva della parola, Landauer ci suggerisce una visione mutevole dell’anarchismo, in cui la capacità di aderire alle condizioni sociali presenti supera qualsiasi irrigidimento terminologico. Ci offre così il prezioso consiglio di «non legarci mai strettamente ad alcuna parola precisa», e di far sempre trasparire attraverso tutte le possibili erudite denominazioni – socialista, anarchismo, socialismo – ciò che non bisognerebbe in alcun modo perdere di vista: «la comunità naturale, la comunità del popolo e non per ultimo la sua voce». Come dimostra anche questo testo, Gustav Landauer fu tra i primi a vedere nella figura del giovane hegeliano Edgar Bauer il fondatore dell’anarchismo in Germania, considerazione che verrà ripresa più tardi da Max Nettlau1. Landauer individua due significati fondamentali della parola «anarchia»: il più vecchio vede nell’anarchico un sobillatore, un criminale e un partigiano della violenza che attraverso il disordine sociale e la distruzione di tutti i legami coercitivi –  «un’anarchia di transizione» – vuole giungere a «un’anarchia dell’ordine», una libera società di eguali. Secondo il significato più recente invece, affermatosi in particolare con Benjamin Tucker e John Mackay, l’anarchico è «il più grande non-violento», esclusivamente un costruttore e un edificatore del nuovo ordine. Ma al di là della scelta etica di rifuggire o ricorrere alla violenza, che Landauer (traduttore del mistico Maestro Eckart e sostenitore di un anarchismo che si fonda innanzitutto sulla rigenerazione individuale) lascia alla libera riflessione di ciascuno di noi, gli sviluppi del significato della parola «anarchia» sono accomunati dall’avversione per il potere statale e da un’idea della società e dell’uomo che si basa sul «vincolo volontario»: un’idea che proviene direttamente dalle teorie contrattualistiche del giusnaturalismo. Si tratta difatti del vincolo che il singolo – a seconda della personale propensione per un anarchismo che privilegia la rivoluzione sociale o la liberazione interiore – concorda spontaneamente coi propri simili per favorire lo sviluppo armonico della collettività, o di un vincolo che egli impone a se stesso per costruire e indirizzare la propria individualità. Da notare infine come le considerazioni qui espresse da Landauer sulla possibilità che l’anarchia trovi il suo spazio «anche all’interno della vita statale», e la distinzione che emerge nelle sue riflessioni fra un potere coercitivo dominante e un potere spontaneo emancipatore, rafforzino l’interpretazione di un Landauer precursore del post-anarchismo.

 

 

Per una storia della parola«anarchia»

di Gustav Landauer

 

  1. I. Non tratterò qui di una storia delle idee dell’anarchismo, ma della storia della parola «anarchia». Di questa, infatti, per quanto ne sappia io, non ci si è ancora occupati abbastanza; in ogni caso sono consapevole d’offrire soltanto un contributo assai incompleto, nella speranza che altri, più preparati di me nella metodologia di ricerca della storia dei concetti o nella conoscenza della letteratura anarchica, si lascino stimolare per ulteriori interventi. Accanto alle parole «regnare» e «governare» si sono contemporaneamente formati, a partire dai corrispettivi verbi greci, i termini autocrazia, aristocrazia, democrazia da una parte, e monarchia, oligarchia, poliarchia dall’altra. In tutte queste forme di regime – che nel complesso, che riguardino la Chiesa o lo Stato, noi definiamo gerarchiche – può accadere che in seguito a una guerra, a una ribellione interna o a conflitti in cui ognuno crede di lottare per il legittimo sovrano, si verifichino momentanee condizioni di smarrimento, di disordine, e di totale insicurezza: si ha allora bisogno di una parola per indicare questi episodi in cui tutto pare superare ogni limite e ogni confine: ecco «l’anarchia». Questa parola dunque non ebbe origine in nessuna teoria, ma in una realtà di fatto che nessuno avrebbe mai potuto raggiungere con la sola volontà: tutti aspiravano a un qualche regime, ma non tutti volevano lo stesso, e il tempo non conferiva alcuna direzione precisa al governo affermatosi – lasciando che s’instaurasse un ordine duro e arbitrario -, e tutti parevano insoddisfatti e tutto divergeva minacciando di cadere a pezzi: una simile situazione di disordine dovuta a un’insufficiente autorità veniva chiamata «anarchia». Presto però si notò, o si pensò d’aver  notato, che il disordine d’ogni situazione transitoria giovava a un gruppo di uomini che si sforzavano di prolungarlo, provavano soddisfazione in questo tentativo, o addirittura aspiravano a provocarlo di nuovo, una volta calmatesi le acque. Così la parola «anarchia» si forma per designare un agitatore, un contestatore, un  partigiano dell’assenza di leggi e dell’insubordinazione. Non so quando si sia formata; e non so neppure dove e quando sia apparsa inizialmente, ma non dubito ch’essa sia considerevolmente antica. E dove troviamo una situazione sgradita  – sgradita soprattutto a una casta privilegiata  – senza che si abbia cercato gli autori, gli istigatori, e si sia sentita la necessità di creare un termine infamante per definirli? Kropotkin nel libro Die französische Revolution2scrive in modo dettagliato e documentato di come durante la rivoluzione francese i girondini  –  e specialmente Brissot – , nei loro volantini e addirittura nei loro canti, definivano «anarchici» i radicali Montagnardi 4e gli Enragés5che volevano indirizzare la rivoluzione in una direzione sociale e, si può tranquillamente dire, socialista. Dunque questi combattenti rivoluzionari, che sono indubbiamente gli antenati di tutte le correnti socialiste successive fino ai giorni nostri, venivano chiamati «anarchici» in un senso ingiurioso dai loro avversari, gli antenati degli odierni sostenitori della costituzione e dei liberali. Sarebbe interessante constatare se gli uni o gli altri abbiano in qualche misura accettato quest’ignominioso appellativo. Non conosco nulla in merito; in ogni caso non è stato affatto studiato il collegamento fra questi «anarchici» e gli uomini del tempo che noi abbiamo considerato i precursori dell’anarchismo, i quali tuttavia non facevano ricorso ad alcuna parola particolare – per esempio William Godwin. Di tutti questi precursori non so dire nulla; non conosco nessuno che abbia utilizzato la malfamata parola «anarchia» o «anarchista» nelle proprie teorie o nelle proprie riflessioni, anche soltanto per un’intenzionale paradossalità. Mail nome non finì dimenticato. Edgar Bauer 6, per esempio, nel 1843 parla abbastanza frequentemente degli «anarchici del 1793» e respinge in quanto «pura rivoluzione politica» e «anarchia all’interno dello Stato» il loro modo di lottare, assieme a quello dei circoli giacobini. E la sua critica è fondata: come rivoluzionari si appellavano frequentemente all’azione diretta e locale del popolo o della municipalità, ma la loro non si rivelò mai una teoria anticentralista, sostenendo al contrario  –  per lo più in accordo coi giacobini – , una sola e indivisibile repubblica, in contrapposizione ai presunti sforzi federalisti dei girondini. Dopotutto è per un curioso scherzo della storia che Brissot, l’uomo che definiva «anarchici» i suoi avversari più rivoluzionari, avesse un tempo pronunciato il motto «la proprietà è un furto»: Proudhon, il quale riprese più tardi le medesime parole, è lo stesso che portò prestigio alla parola “anarchia», trasformandola per descrivere una teoria e una tendenza. E Proudhon è stato effettivamente il primo, per quanto ne sappia io, ad aver propagandato l’anarchia. Ma per spiegare in che senso egli abbia scelto l’espressione, e per scoprire la via da lui percorsa, devo soffermarmi ancora un poco sui suoi precursori. Il vero antesignano intellettuale di Proudhon, del socialismo e soprattutto dell’anarchismo, è l’uomo che fra tutti i padri spirituali ha esercitato una forte influenza sulla Rivoluzione francese, Jean-Jacques Rousseau.

Se paragoniamo quest’ultimo ai precedenti sostenitori della natura o del diritto naturale– Montesquieu, Locke, Grozio, fino a più o meno ai precursori del diritto del popolo contro il potere dei prìncipi, il potere monarchico – egli non porta assolutamente nulla di nuovo all’infuori della sua veemenza e della sua personale forza della natura che concretizzano il dotto diritto naturale in potere popolare rivoluzionario. Rousseau dunque, e con lui tutti i sostenitori del diritto naturale, chiedono la nascita dello Stato: non in prima istanza – come spesso si è frainteso – la nascita dello Stato da una condizione naturale senza Stato, ma un’incessante nascita socio-psicologica dello Stato dalla natura umana secondo giustizia, e secondo uno scopo stabilito dalla volontà degli uomini. Lo Stato, così come viene reclamato, non è niente di naturale e d’inviolabile, bensì qualcosa che nasce incessantemente dalla comune volontà e da un libero contratto. La peculiarità di questo contratto è però che tutto ciò che ha origine in lui non permane in modo definitivo, ma sorge continuamente da una tacita e reiterata approvazione: può essere infatti sciolto in ogni momento, anche attraverso il recesso di una parte sola. Lo Stato in questo modo viene reso problematico; e coloro che ne sono coinvolti e assumono una posizione nei suoi confronti non sono individui isolati: quella società o quel popolo in cui viene stretto il contratto si trova già di fronte a una totalità, a un organismo unico, che non è lo Stato. Rousseau, i teorici del diritto statale e gli economisti politici dai quali egli proviene, fondano una concezione contraddittoria dello Stato poggiandola su un’idea che racchiude in sé collettività e libertà, socialismo e anarchismo: la società. A ciò si ricollega direttamente Proudhon. Il diritto naturale, il cui più grande interprete del tempo fu Rousseau, non porta in sé soltanto il diritto del popolo alla rivoluzione, ma anche, e malgrado Rousseau, il germe del socialismo anarchico.

Entrambi questi elementi furono portati presto alle estreme conseguenze, soprattutto da Fichte, che nel suo Beitrag zur Berichtigung der Urteile des Publikums über die französische Revolution7(1793) sostiene il diritto alla revoca del contratto sociale, e con altrettanta energia è convinto che lo Stato abbia il compito di rendersi superfluo da sé. L’idea della società è in Fichte già totalmente separata dallo Stato; ovunque, nei ragionamenti e nell’atmosfera che si respira attorno alle sue affermazioni, viene alla luce una forte avversione verso lo Stato in quanto tale; egli annuncia «il diritto a non riconoscere legge alcuna, se non quella che ci si dà per sé». E nelle stesse pagine egli dice espressamente che l’umanità si avvicina sempre piùal traguardo dell’assenza di Stato, e che «davanti ai nostri occhi» l’umanità ha iniziato nella Rivoluzione francese la sua affermazione in questo senso. – Fichte sostiene idee simili anche più tardi, in scritti successivi.

E proseguendo in questa direzione della rinascita del diritto naturale sotto l’influsso di Rousseau e della rivoluzione francese, mi sono imbattuto in un altro sviluppo della parola «anarchia», senza poter sul momento seguire le più vicine correlazioni.

Nella terza parte dell’Enciclopedia universale8 di Ersch e Gruber (curata nell’anno 1819), alla voce «anarchia» redatta da Rotteck 9, si trova infatti il seguente passaggio: «Diversi vecchi scrittori (dei qualituttavia alcuni non ricorrono alla parola anarchia, benché contribuiscano a fondarne il concetto), fra i più recenti – specialmente Martini10e lo stesso Schlözer 11, hanno inteso l’anarchia come una condizione intermedia fra l’essere al di fuori e all’interno della società civile. Essa è per loro un rapporto sociale fra uomini che hanno concordato un civile contratto associativo, che non essendo tuttavia un contratto di asservimento può ancora garantire la piena libertà, l’uguaglianza degli individui e, al posto di un vero potere della società, la forza delle decisioni unanimi. Soltanto nella concezione di un vero contratto sociale vige contemporaneamente anche l’asservimento dell’individuo al potere naturale della società. E soltanto nell’astrazione, non nella realtà, i contratti di associazione e di asservimento potrebbero essere separati l’uno dall’altro; da ciò si rischiara l’idea che se l’anarchia deve significare una società senza tutto il potere, è allora qualcosa di contraddittorio in se stesso o un assurdo». Dal contributo di Rotteck, e dalla critica cui è legato, deriva che Martini, Schlözer e altri precedenti maestri del diritto pubblico si siano riferiti con il termine «anarchia» alla condizione di una società senza potere pubblico [öffentliche Gewalt ] in cui l’ordine, la quiete e la sicurezza sono ciononostante garantiti. Cercherò di approfondire la ricerca circa questi maestri del diritto statale, i cui manuali appartengono a un tempo abbastanza remoto – Martini (1783), Schlözer (1793)– e spero, all’occasione, di potervi comunicare qualcosa. Nonostante Rotteck definisca inizialmente l’anarchia – o la società senza potere – una pura assurdità, inseguito ammorbidisce questa critica. Riconosce che la condizione anarchica «in minima parte, in rapporti molto semplici e in costumi irreprensibili – qualcosa che si è cristallizzato attraverso le tradizioni e chec omunque non rafforza lo Stato – potrebbe trovare posto nelle vive società»; dice poi che i tedeschi al tempodi Cesare e Tacito avrebbero realizzato una simile società anarchica nei suoi tratti caratteristici, e aggiunge:

«Nondimeno quei tedeschi vivevano sotto la protezione dei buoni costumi e di un prezioso spirito comune– che l’organo artificiale della volontà generale renderebbe trascurabili – e godevano di una maggiore sicurezza, tranquillità, e felicità civile di quanto sovente s’affermi sotto una costituzione artificiale e un potere regolare». Ed egli dibatte poco lontano l’interessante idea che una simile anarchia possa in parte farsi spazio anche all’interno della vita statale, nel momento in cui alcuni settori della vita si ritirano dall’intromissione dello Stato, e si affidano alla libertà. Ma questo mutamento semantico subito dalla parola «anarchia» per effetto dei maestri del diritto statale, non era ancora penetrato nella lingua parlata – perlomeno degli spiriti più produttivi – come sembra dimostrare un brano molto curioso di Ludwig Börne12, al quale io feci riferimento già alcuni anni fa (nel vecchio «Sozialist 13»). Fu scritto attorno al 1825 o 1826.Si tratta di un lungo saggio in forma di recensione circa un libro francese– a quanto pare insignificante – dal titolo Nouvelles lettres provinciales (Parigi 1825). Dal seguente passaggio emerge il ragionamento di Börne: «Non è spesso auspicabile trovarsi alla mercé di un tiranno, il quale, in quanto uomo, può tuttavia essere ammansito, piuttosto che cadere sotto il potere di leggi spietate? […] Che tutto il popolo prenda il governo, uomo per uomo, anima per anima: la libertà non verrebbe certo assicurata. Il popolo può diventare tiranno di se stesso, ed è spesso accaduto […]. Quando Luigi XIV disse: “Lo Stato sono io”, la sua più grande e pericolosa illusione non fu quella d’impersonare lo Stato, ma di ritenere lo Stato la cosa più elevata. Il re però condivideva questa illusione coi suoi sudditi, il suo tempo la condivideva con un lungo passato e con il secolo a venire, e la maggior parte dei suoi contemporanei la condividevano ancora. Lo Stato è il letto di Procuste in cui l’uomo viene stirato a forza, o amputato finché alla fine non vi entri perfettamente. Lo Stato, la culla dell’umanità, è diventato la sua bara. Lo Stato è al tempo stesso Dio e prete, e in onore di Dio vengono mietute ipocritamente molte vittime, se solo i preti ne hanno una gran voglia. Le leggi devono essere capaci di rendersi superflue, o lo sono sempre state e lo rimarranno sempre. Ma come possono diventare superflue, se si deve in ogni momento limitare la libertà? Ciò diventa possibile perché le leggi educano il cittadino alla legalità; perché lui si sente libero di modellarsi secondo leggi che soltanto poco prima gli erano state imposte; perché le leggi gli insegnano a ubbidire alla sua stessa voce, così come prima ubbidiva a una voce estranea, e a limitare la sua volontà, così come prima limitava soltanto la sua azione.

L’uomo dovrebbe imparare ad adoperare la sua forza, non dovrebbe temere il pericolo della libertà. La difesa della legge ci ha tolto tutte le forze e tutta l’audacia […]. Anche il popolo inglese ha solo le libertà ma non la libertà. Perciò si sente ovunque parlare del potere delle libertà, e si vede evitare il più possibile la parola “libertà”. Si parla di libere istituzioni: la libertà viene definita un’istituzione, ma soltanto l’autorità [Herrschaft ] lo è!14».Con esitazione e incertezza in queste righe Börne sostiene la voce dei maestri che noi oggi definiamo anarchici, derivando da Fichte – come io credo – la parola «legalità» per riferirsi alla voce interiore, mentre il legame volontario del singolo allo spirito comune non può sconfessare la provenienza dalla scuola di Kant ed alla sua «morale dei costumi». Börne conosceva anche la parola «anarchia»? Lo si potrebbe quasi credere, e io stesso un tempo l’ho pensato. Egli prosegue infatti: «Non importa se il potere si trova in questa o in quella mano: dobbiamo attenuare il potere in sé, quale che sia la mano in cui si trova. Finora però nessun sovrano ha acconsentito che il potere nelle sue mani fosse indebolito, anche se lo utilizzava tanto nobilmente.

L’autorità [ Herrschaft ] si può limitare soltanto quando è senza padrone –  la libertà nasce solo dall’anarchia.

Di fronte a questa necessità della rivoluzione non possiamo girare il viso dall’altra parte, soltanto perché l’urgenzadel suo avvento è così triste. Noi, in quanto uomini, dobbiamo guardare il pericolo negli occhi, non possiamo tremare davanti al coltello del medico che ci cura le ferite.

 La libertà nasce solo dall’anarchia –  questa è la nostra idea, così noi abbiamo inteso gli insegnamenti della storia». Il corsivo è dello stesso Börne. Si legga attentamente, le parole sono tanto inequivocabili: Börne intende per anarchia il solo disordine rivoluzionario. Possiamo limitare l’autorità soltanto nei momenti in cui è incerta, nella rivolta e nei periodi di transizione, soltanto allora possiamo limitare l’autorità e assicurarci la più grande libertà. Börne dunque non ha ancora nessun nome per la società con la maggiore limitazione possibile del potere statale; l’anarchia per lui non è l’obiettivo, ma il cammino: il disordine della rivoluzione. E non è escluso che gli sia passata per la testa quest’espressione, dal momento che era già stata utilizzata per indicare l’auspicata condizione a venire negli scritti di alcuni maestri del diritto statale secondo la nuova trasformazione del significato – mentre in Börne il vecchio significato resta immutato.

  1. II. Contemporaneamente e in modo indipendente fra il 1842 e il 1843 si sviluppa l’anarchismo in Germania e in Francia, ma mentre in Germania gioca soltanto un ruolo passeggero, come uno straniero in viaggio, in Francia conquista alla propria causa uomini liberi provenienti da tutte le nazioni e gran parte del popolo. Si potrebbe addirittura prendere alla lettera l’espressione dello «straniero in viaggio», dato che il primo che in Germania si scagliò contro la religione e contro lo Stato, rifacendosi ai giovani hegeliani, Feuerbach e Bruno Bauer, assumendo toni tipicamente anarchici, fu il russo Michail Bakunin nel suo saggio Die Reaktionin Deutschland 15, che comparve in Germania nel 1842 all’interno di un annuario, pubblicato con lo pseudonimo Jules Elysard. Questo scritto giovanile è già animato da un particolare tono di ardore, di trascinamento, d’impeto, di sotterraneo rancore, di carattere demoniaco, che distingue Bakunin da tutti gli altri spiriti del tempo. A differenza dell’intelletto e dello spirito critico prevalente in altri autori, negli scritti di Bakunin – che scrisse così a lungo – vive un’elementare forza barbarica. E così questo scritto è anarchico nel senso più originario della parola; tutto è espresso in una chiave istintiva ed emotiva, nonostante l’astratto linguaggio hegeliano. Dopo questa vivace ouverture dialettica, fu un altro uomo dall’intelletto chiaro e pungente a fondare veramente l’anarchismo in Germania: Edgar Bauer, che appartiene a pieno titolo alla «scuola critica», uno degli spiriti più audaci e brillanti che la Germania abbia mai avuto, anch’egli tanto dimenticato ai giorni nostri. Il suo libro Der Streit (proprio così!) der Kritik mit Kirche und Staat 16, che uscì nel 1843 e che a lui fruttò quattro anni di prigione in una fortezza, è un’opera fondamentale per l’anarchismo. Il suo rapporto con la parola «anarchia» è molto interessante. Abbiamo già visto che cosa disse Bauer degli «anarchici del1793»; mentre delle lotte rivoluzionarie di quel tempo scrive: «L’anarchia, quale inizio di tutte le buone cose, là era presente: si arrivò a una demolizione piena di speranza: la religione fu soppressa. Quell’anarchia però era un’anarchia all’interno dello Stato […].Ed è stato un errore, l’unico errore degli uomini rivoluzionari, i quali credettero che la vera libertà si lasciasse realizzare nello Stato». E’ dunque un anarchico consapevole, e perciò nuovo– ma nel vecchio significato della parola: per ostilità nei confronti dello Stato e della Chiesa, e per amore dell’emancipazione egli vuole soltanto distruggere, distruggere, distruggere. Questo era il compito di chi Bauer definiva «critico». E all’obiezione che si pone da sé: «Tu ci apri una

 

prospettiva diversa da quella dell’anarchia, dell’assassinio e del furto?», egli reagisce espressamente: «Subito risposi, molto semplicemente, che non è nostro incarico costruire». «Il nostro pronunciamento […] è negativo, la storia scriverà la risposta affermativa». Dallo stesso spirito uscirono le parole che Bakunin aveva scritto un anno prima: «Il desiderio della distruzione è al tempo stesso un desiderio creatore». Nello stesso anno 1843, giunse però in Francia il più grande e positivo edificatore, Proudhon, il cui motto era «destruam et aedificabo17», «Io demolirò e costruirò». Egli, che peraltro seguendo una propria elaborazione autonoma sotto l’influsso di Kant e di ciò che rimaneva nell’aria di Hegel era giunto agli stessi risultati di Feuerbach, pose le fondamenta per un’anarchia positiva. Per Proudhon l’anarchia era soltanto la descrizione negativa di qualcosa che doveva essere ancora costruito: la società nel momento dell’estinzione dello Stato. La pubblicazione18è datata 1843, ma i brani erano già stati scritti nel 1842. Sempre nel 1843Moses Hess19, all’interno del volume Einundzwanzig Bogen aus der Schweiz20curato da Herwegh21, informa gli liberi spiriti tedeschi di queste nuove formulazioni: «In Germania fu Fichte il primo a manifestare qualcosa di veramente crudo e ancora selvaggio, l’autonomia dello spirito. E in Francia vediamo emergere in Babeuf la prima – e perciò altrettanto cruda– forma di vita sociale unitaria [einheitlichen Soziallebens]. O più chiaramente: si tratta dell’ateismo inaugurato in Germania da Fichte, del comunismo di Babeuf in Francia, o, come adesso Proudhon formula più precisamente, dell’anarchia, vale a dire la negazione di ogni autorità politica, la negazione del concetto di Stato o di politica». Poi Hess, nello stesso volume Einundzwanzig  Bogen, e in particolare nel suo saggio Philosophie der Tat , dibatte di questa nuova anarchia in modo ampio e dettagliato – e piuttosto insopportabile –tradendo il lascivo pensiero di un uomo che con forza e veemenza sta conducendo solo giochi civettuoli e superficiali; ben presto Hess diventò anche sufficiente mente marxista. Questo dunque accadde prima della fine del 1844, quando comparve il libro di Marx Stirner  Der Einzigeund sein Eigentum22.

L’opera si muove sotto l’influsso estremamente forte della «critica» dei fratelli Bauer, ma Stirner in questo libro – il cui tema principale non è tanto la realtà o la concretizzazione, bensì la possibilità – la supera senza alcuna difficoltà: egli innanzitutto non ha riguardi per nessuno scopo, per nessun fondamento di una società libera, per nessun dover-essere, per nessuna valutazione, se non per il totale affrancamento dai legami ed emancipazione dell’Unico in tutte le sue manifestazioni di vita, che devono essere lasciate libere di svilupparsi indipendentemente fra loro. Che l’Unico, una volta liberatosi da tutti i fantasmi, decida in seguito di vincolarsi e di limitarsi ancora – naturalmente secondo la sua stessa volontà– emerge tuttavia come secondo tema; è proprio questo il senso da attribuire alla stirneriana «associazione» di egoisti, con la quale egli, a quanto credo, dimostra di trovarsi sotto l’influsso di Proudhon. A ciò si ricollega anche il buon consiglio che Stirner suggerisce agli oppressi: non fate richieste, non lamentatevi della malvagità, della violenza, della brutalità dei padroni, ma siate voi stessi duri, brutali, spadroneggiatori. Usa la parola «anarchia», ma non ancora nel senso di Proudhon, poiché resta completamente fedele al significato di Edgar Bauer, al quale Stirner è veramente molto vicino. Per esempio contro il liberalismo dice: «Il suo scopo è un ordinamento ragionevole, non l’anarchia, l’assenza di leggi, l’unicità». Anche qui, come in altri passaggi del suo scritto, Stirner supera il criticismo e l’umanismo respingendo la rivoluzione – che ha ancora uno scopo positivo – , per predicare al contrario l’insurrezione dell’Unico.

«Esistere senza costituzione è quanto ha di mira chi insorge». Tuttavia ci si rende sempre conto che il nichilista, con le sue parole e i suoi gesti provocatori, vuole innanzitutto dimostrare d’esser libero.

Dentro di lui si nasconde un uomo che, se avesse parlato con noi più a lungo, ci avrebbe rispiegato ancora più chiaramente quel che già aveva detto in precedenza: se volete cambiare le condizioni presenti, non dovete cambiare le condizioni stesse, dovete fare invece ciò che «ha come inevitabile conseguenza la trasformazione delle condizioni presenti»: mutate voi stessi, elevate voi stessi, giungete completamente a voi stessi. Bakunin, Edgar Bauer e Stirner accettano dunque il vecchio significato della parola «anarchia», vale adire ribelle, senza legge, e perfino criminale: dev’essere provocato anzitutto il caos, l’estinzione di tutto il sacro, l’abbattimento di tutti i vincoli. E come già lasciavano intendere i ragionamenti di Börne, che erano simili seppur espressi ancora troppo timidamente, è proprio parallelamente a quest’anarchia e attraverso quest’anarchia– la società senza padroni, per il momento ancora senza nome – ,che dev’essere creato il nuovo ordine. Così anche presso questi tre pensatori l’anarchia di transizione [ Anarchie des Übergangs] e l’anarchia dell’ordine – non ancora nominata – sono indubbiamente in relazione l’una con l’altra, in una relazione che è rimasta fino ai giorni nostri, divenendo un tratto caratteristico della maggior parte degli anarchici. E qui tuttavia già vediamo una divisione: alcuni, attraverso quest’anarchia del disordine sociale [äußere Anarchie der Unordnung], vogliono giungere alla rivoluzione e pervenire a un libero ordine senza padroni; altri invece sottolineano, chi con enfasi maggiore, chi in modo esclusivo, l’importanza dell’anarchia interiore [die innere Anarchie] – la liberazione interiore dell’individuo – quale via verso il miglioramento della società. Al momento dobbiamo ancora vedere come Edgar Bauer, che ispirò in modo tanto determinante il pensiero di Stirner, ne sia stato successivamente influenzato, proseguendo per una strada sulla quale il solo Stirner si era già avventurato. Seguiamo dunque Egdar Bauer, questo spirito tanto mutevole, ancora per un poco. «Costoro osservano» – così scrive nell’anno 1848 (primo impeto della rivoluzione) sulla rivista «Die Epigonen – «costoro osservano come io in quel periodo (durante la stesura del suo libro) fui un sincero sostenitore del popolo, notando quale onore fosse per me il poter vivacchiare nell’atmosfera della massa popolare, il riempirmi i polmoni di quest’aria ed esercitare il mio petto al grido “ popolo, popolo!”

A tal riguardo non avevo all’epoca la forza di parlare in mio nome, o di pronunciare la mia volontà, sentivo piuttosto il bisogno delle masse popolari e dei loro interessi come base e vigore per le mie teorie; a tal riguardo è da parecchio oramai che mi sono liberato di tutte le responsabilità dei principii liberali, i cui proclami mi avevano reso sufficientemente dipendente dal tempo e dall’opinione pubblica». Questo è un cambiamento verso un brusco individualismo cui Bauer fu sempre propenso, come mostra il suo saggio del1844Über Sentimentalität 23, pubblicato nel « Berliner Monatsschrift » di Buhl24: il suo linguaggio, nonché il suo modo di esprimersi – qui e in altri passaggi del Reise auf öffentliche Kosten25dal quale provengono le parole poc’anzi citate –, mostrano come Bauer si stia allontanando dall’umanismo, in accordo con Stirner. Non si sofferma però a lungo su questo tema, sul motto «faccio ciò che voglio»; Bauer prosegue il cammino fino al punto in cui già a sua volta si era trovato Börne, domandandosi: cosa deve accadere affinché il potere sociale [äußerer Gewalt ] e il legame coercitivo artificiale vengano sostituiti dalla completa libertà sociale[äußerer Freiheit ]? E trova la stessa risposta. Börne aveva detto: la legalità interiore deve prendere il posto della legge. E così Bauer, che alla fine di questo scritto abbandona all’improvviso il suo magnifico spirito arguto al limite della sfacciataggine, per concludere in profonda serietà: «Quanti alberi della libertà, le cui cime mostrarono l’agognata terra agli animi arditi che le scalarono, sono già stati abbattuti! Eppure le loro radici sono rimaste. Trapiantiamole nel nostro cuore, prendiamocene cura, forse crescerà il giusto albero». Ed è talmente pronto che non vorrà sapere più nulla della parola «anarchia», specialmente dopo che altre mani insidiose, repellenti e sudice l’ebbero afferrata.

In effetti qualcuno, dal comunismo di Weitling26, dalle tendenze anarchiche di Bauer, Stirner, Proudhon, da tutto il tumulto e quella frenesia senza pari di rinnovare il pensiero del tempo, ricavò una brodaglia terribile: Wihlelm Marr 27, un uomo che a quanto pare fu un compagno disgustoso. I suoi libri, sotto tutti gli aspetti indiscreti– indiscreti quasi fino alla delazione –, sono d’interesse proprio per le singolari circostanze storiche del tempo. E Bauer si ricollega criticamente a uno di questi libri, uscito nel 1848,Der Mensch und die Ehe vor dem Richterstuhl der Sittlichkeit 28, per mostrare la sua ripugnanza per ciò qui Marr intende per «anarchia», e per inorridire del suo autore. In questo commento Bauer non parla più d’anarchia, ma di dominio [Herrschaft]: vuole difatti depurare questa nobile parola dallo Stato, dalla costrizione sociale, dall’insulsaggine, e trasformarla nella santificazione interiore dell’uomo, con cui l’individuo potrebbe diventare un libero fra i liberi, un eguale fra gli eguali. Sentiamolo: «Cosa vuol dire anarchia? Cosa vuol dire dominare? Ogni dominio presuppone un vincolo interiore, fra dominatori e dominati. Il sole domina i pianeti, ma la legge di gravità – intrinseca in ambedue le parti – , è ciò che li unisce. Io domino la mia interiorità se scelgo le leggi delle mie azioni, e con la responsabilità che impongo a me stesso resto sovrano del mio animo. E amia volta sarò dominato da qualcun altro, soltanto se la riverenza e il riconoscimento reciproco dei nostri interessi ci legherà.

 E temo d’avere una sola risposta per ambedue le domande, perché è così che io stesso intendo vivere nell’anarchia. Sul popolo grava il peso d’un potere brutale, al quale egli resta legato per via delle catene sociali: è così che il popolo vive nell’anarchia. A Roma, al tempo del potere imperiale, regnava una simile anarchia: sotto un sovrano assoluto c’era una massa disordinata tenuta assieme dalla paura. E non ci stiamo certo sbagliando: all’anarchia della massa – al suo sordo e confuso affannarsi qua e là– corrisponderà sempre un potere cieco e altrettanto dispotico, un potere che sfrutta la massa, la schernisce e, avvalendosi dell’aiuto della massa stessa, vorrà punire quei pochi spiriti assennati, quei pochi spiriti sinceri, ai quali il naturale amor proprio e l’aspirazione alla più compiuta bellezza aveva impedito di mescolarsi col generale putridume. Si veda nuovamente Roma sotto i Cesari.

 Noi stessi viviamo in un’epoca di anarchia. Anarchia nella scienza, falsità dello spirito, arroganza dell’Unico, dispotismo dei luoghi comuni: anarchia nell’industria e tirannia del capitale; anarchia nella politica e sopra le teste piatte, la generale macchina di appiattimento della polizia.

E’ il dominio che dev’essere proclamato dunque, e non l’anarchia, è il dominio ciò che dobbiamo ancora conquistare, sono le sue leggi ciò che dobbiamo fondare. E la responsabilità quel che dobbiamo ancoracreare29».Qui Edgar Bauer è ancora un individualista; ma non pone più la sua questione sul nulla, sulla vuota possibilità, sul «faccio ciò che voglio»: vedere i sostenitori di questa dottrina gli è divenuto insopportabile; ora si domanda, proprio come Fichte interpellava il proprio «io»: «Cosa voglio? Cosa dovrei volere?» Bauer è perciò uno stirneriano che tuttavia s’allontana da Stirner quando nel prendere posizione contro «il rinunciare a se stessi» e «la fiducia nella società che si rende felice da sola», aggiunge: «Come sarebbe se per una volta si rovesciasse la questione, se si lasciasse completamente da parte la società indirizzando tutte le forze su se stessi e per se stessi? E cosa accadrebbe se poi questa siffatta Società, i cui membri non si lasciano sacrificare in suo nome e non ostentano continuamente il loro ossequio congiungendo le mani in sua preghiera, e non si curano troppo di lei – ma sono tuttavia dei bravi diavoli – , fosse considerata molto piùonorabile?30».

La trasformazione che Bauer suggerisce per la parola «dominio» – padronanza di sé e mutua alleanza, responsabilità – , non si è affermata. Ma anche questo significato è ad ogni modo penetrato all’interno della parola «anarchia», sicché non dobbiamo più meravigliarci se tutti gli elementi eterogenei che questa equivoca parola prismatica riassume faticosamente in sé vengono considerati elementi anarchici. Proudhon avrebbe completamente approvato questa fase del pensiero di Bauer, anche se non smise mai di utilizzare la parola «anarchia»: egli non fu mai un «anarchico» al pari di Wilhelm Marr e dei suoi successori, e non intese mai l’anarchia come lo scioglimento di tutti i legami, o la selvatichezza di un sensismo isterico.

Proudhon difatti, utilizzando questa parola, vuole esprimere una posizione teorica e di lotta che si proclama contraria all’anarchia della società (disordine) e favorevole all’anarchia politica (un ordine stabilito non attraverso il potere del governo, ma attraverso il contratto sociale). Dettagliate esposizioni di quest’idea di anarchia si trovano nelle Confessions d’un révolutionnaire31e nell’ Idée générale de la Révolution32. In quest’ultima opera Proudhon sottolinea espressamente come la sua idea di socialismo e di anarchia sia soltanto una prosecuzione delle idee del contratto sociale, citando come uno dei primi e più importanti rappresentanti delle teorie contrattualistiche un agguerrito protestante del XVII secolo, Pierre Jurieu33, sulle cui sgradevoli controversie con Bayle e sulla sua magnifica lotta contro Luigi XIV è stato facile raccogliere informazioni. Al contrario, sul suo ruolo nella teoria e nella filosofia sociale non sono finora riuscito a trovare nulla. Nello stesso passaggio34però Proudhon si scaglia veemente contro l’innovatore delle idee del contratto sociale – Rousseau appunto – , al quale rimprovera, e a ragione, d’averle incanalate nell’alveo del governo popolare, dunque del giacobinismo. Se il padre fraintendeva se stesso e la rilevanza delle idee che non dimeno aveva rinnovato, se le distorceva e le rovinava, è giusto che il figlio l’abbia contestato.

E Proudhon, accanto a Jurieu e ai maestri del contratto sociale, cita – poco prima di Rousseau  –, un altro autore, che da un punto di vista differente – non quello dell’astrazione bensì delle condizioni storiche che vanno esaurendosi – giunse agli stessi risultati: Saint-Simon, per il quale un sistema amministrativo-industriale avrebbe presto preso il posto del governo e del sistema feudale. Proudhon prosegue con altri autori simili, le cui opere e azioni fondarono le basi della negazione del governo, come Morelly35(1760, proprio così!), giungendo fino agli Enragès, agli Ebertisti e Babeuf, sebbene costoro non si considerassero tali. Lui stesso li definisce anarchici assolutamente inconsueti. E avendo bisogno di un aggettivo qualificativo per esprimere il concetto di anarchia, Proudhon non dice «anarchistico» ma, come è più opportuno, più naturale e più forte che sia, anarchico (anarchiqu). Per il resto, non è mai rimasto aggrappato ad alcuna specifica parola, è sempre stato così fermamente convinto della sua opinione, ha sempre così aspramente combattuto i suoi avversari, si è sempre sentito parte d’un grande movimento di cambiamento radicale e non ha mai fondato qualcosa come una setta o un partito. I titoli dei suoi libri non fanno mai riferimento a un qualsivoglia–ismo, ma solo alla questione di cui trattano, così come indicano i nomi dei suoi giornali: «Il popolo», «La voce del popolo», eccetera. Noi finora, in questo e in molti altri aspetti, non abbiamo compiuto grandi progressi, dato che non possiamo più fare a meno di ricorrere – per chiarezza e amor di brevità – a denominazioni settariamente tintinnanti, quali socialista, socialismo, anarchismo; vogliamo tuttavia riprometterci di non legarci mai strettamente ad alcuna parola precisa, e di far sempre nuovamente trasparire, attraverso tutte queste erudite assuefazioni, la comunità naturale, la comunità del popolo e non per ultimo la sua voce. Già nel 1850 però comparve, curato da Bellegarriggue, anche se per due numeri soltanto, il foglio «L’Anarchie, journal de l’ordre36», dove ben si nota la caparbia trasformazione del significato della parola «anarchia», perché ciò che finora era stato chiamato disordine – l’assenza di dominio – , ora diventa al contrario il vero e giusto ordine: la sostituzione del potere del governo con lo spirito, la libera volontà e la cooperazione nel lavoro.

D’ora in poi la parola non andrà più perduta. Nel 1858 Joseph Déjaque37pubblicò nel suo giornale « Le Libertaire», «l’utopia anarchica», che egli chiama «Humanisphère38». Ma essa viene utilizzata ancora troppo< raramente, e anche dopo il ritorno di Bakunin dalle prigioni e dalla Siberia (1863) e con lotta dell’Internazionale contro l’istituzione statale, la parola «anarchia» si diffonde con difficoltà, e non si trova molto frequentemente.   Tutto cambiò soltanto quando nelle federazioni d’Italia e del Giura dell’Internazionale, attorno agli anni1876-1880, e in particolare grazie alla collaborazione fra Cafiero, Malatesta, Kropotkin ed Élisée Reclus, fu elaborato – come sostengo io sotto l’influsso del marxismo –, il sistema del comunismo anarchico. Più tardi il significato della parola subì un ultimo inasprimento. Infatti la borghesia, gli statalisti e perfino gli stessi anarchici, avevano da sempre identificato l’anarchico che voleva un nuovo ordine senza governo con la figura del ribelle, del sobillatore, dell’indisciplinato, sicché con gli attentati terroristici degli anni ottanta e novanta soprattutto, si arrivò all’equiparazione dell’anarchismo con la «propaganda del fatto», dell’anarchico col bombarolo. Non soltanto i loro avversari, ma anche parecchi fra gli stessi anarchici contribuirono a questo mutamento semantico, finendo per accettarlo; vi furono poi alcuni che considerarono anarchici soltanto i criminali e i sostenitori della violenza.

Dall’altro canto gli «individualisti anarchici», i cui portavoce sono Benjamin Tucker e John Henry Mackay, si basarono su Proudhon e Stirner per fondare un sistema di anarchismo secondo il quale l’anarchia non esclude soltanto il potere statale, ma anche qualsiasi atto di violenza individuale. Per loro la via per l’anarchia è essa stessa una via anarchica, intendendo con ciò dev’essere non-violenta. Pur partendo da strade totalmente diverse, anche il Rousseau del nostro tempo, Tolstoj – come Rousseau un curioso miscuglio di razionalismo e di fervido sentimentalismo, giunse alla stessa conclusione: contro ogni potere! Tolstoj nella sua teoria non fece mai ricorso alla parola anarchismo, ma ha ripetutamente affermato di accettare d’essere definito anarchico. Come accaduto a molte altre, anche questa parola ha dunque subìto un capovolgimento dello sviluppo naturale del suo significato originario, conservando però al proprio interno il vecchio significato: l’anarchico il più grande criminale – l’anarchico il più grande non violento. Ciò che unisce le diverse versioni del nuovo sviluppo, è qualcosa che ha poco o nulla a che fare con le scelte dei valori etici da seguire: l’idea della società e del libero contratto al posto del potere del governo statale. Sia nel caso particolare in cui il singolo decidesse di comportarsi violentemente, sia nel caso in cui rinunciasse all’esercizio del potere, questa sarebbe una decisione seria da non confondere assolutamente conciò che accomuna i diversi sviluppi della parola e del concetto di anarchia. E di fronte a una simile scelta il singolo, dopo che gli sia stato mostrato quante sfumature ruotino attorno a quest’unificante concetto della società, dei vincoli e dei legami economici, dovrà vedersela da solo, dovrà raccogliersi per una profonda riflessione su quale sia per lui il senso da attribuire alla liberazione interiore e alla concretizzazione della libertà sociale: vale a dire, al vincolo volontario [ freiwilligen Gebundenheit ].Questa decisione però dipende anche da quanto sia auspicata l’organizzazione di una società senza Stato e da quanto la sua venuta e il suo sviluppo siano effettivamente ritenuti possibili.

 

 

 

Note

1Cfr. Max Nettlau, Geschichte der Anarchie[Storia dell’anarchia], vol. I, Detlev Auvermann KG, Glashütten im Taunus 1972, p. 178. Si tratta della ristampa anastaticadell’opera: Id., Der Vorfrühling der Anarchie [La giovane  primavera dell’anarchia], Der Syndikalist, Berlin 1925

2  Petr Alekseevič Kropotkin,The great French revolution, Heinemann, London 1909. Si veda l’edizione italiana: Id., La grande rivoluzione, introduzione di Alfredo M. Bonanno, Edizioni Anarchismo, Catania 1987.

3  Jacques Pierre Brissot (1754-1793) fu un giornalista e politico francese, leader carismatico dei girondini ghigliottinatodurante il Terrore.

4  Appartenenti al gruppo politico radicale chiamato «Montagna», perché durante la Rivoluzione francese sedevano nei  banchi posti più in alto all’interno della Convenzione nazionale (1792-1795), nella quale erano avversari dei girondini.Fra i montagnardi non c’erano soltanto giacobini, ma anche vari esponenti del radicalismo rivoluzionario quali Georges Jacques Danton e Jean-Paul Marat.

5  Il gruppo degli  Enragés, (degli «Arrabbiati» secondo la traduzione italiana) fu uno dei più attivi durante la Rivoluzione francese. Contestando ogni tipo di autorità, proponevano una forma di democrazia diretta popolare da contrapporre alla Convenzione nazionale, la tassazione dei ricchi, la pena capitale per gli incettatori, la requisizione e laredistribuzione del grano. Uno dei leader più carismatici degli Arrabbiati fu il prete Jacques Roux.

6  Edgar Bauer (1820-1886), filosofo e pubblicista in stretto contatto con l’opera e il pensiero del più celebre fratelloBruno, anch’egli esponente della sinistra hegeliana. Nel 1843 scrisse l’opera  Der Streit der Kritik mit Kirche und Staat [Il conflitto della critica contro la Chiesa e lo Stato], considerata dalle autorità prussiane una giustificazione teorica del terrorismo. Fu subito censurata, tutte le copie vennero sequestrate dalla polizia mentre Bauer fu condannato alla prigione, finché nel 1848 tornò in libertà grazie ad un amnistia concessa ai prigionieri politici. Max Nettlau considera  Der Streit un testo anarchico, definendo l’autore come il «primo prigioniero anarchico tedesco», (Cfr.Geschichte der  Anarchie, vol. I, op. cit., p. 178). In seguito Bauer si distanzierà dal movimento rivoluzionario avvicinandosi a un conservatorismo religioso. Nel 1870 fonda i Kirchlichen Blätter. Eine Zeitschrift für christliche Freiheit und christliches Recht  [Fogli ecllesiali. Rivista per la libertà cristiana e il diritto cristiano].

7 Opera pubblicata anonima a Danzica nel 1793. Si veda l’edizione italiana: Johann Gottlieb Fichte,Contributo per rettificare i giudizi del pubblico sulla rivoluzione francese,contenuto in: Id.,Sulla rivoluzione francese, a cura di V. E.Alfieri, Laterza, Bari 1974.

8 Si tratta della  Allgemeine Enzyklopädie der Wissenschaften und Künste[Enciclopedia universale delle scienze e dellearti] fondata nel 1818 da Johann Samuel Ersch e Johann Gottfried Gruber.

9 Karl Wenzeslaus von Rotteck (1775-1840), professore di storia universale, diritto e scienze politiche all’Università di Friburgo. Animato da un profondo sentimento liberale condusse una battaglia politica per l’abolizione delle corvée.

10 Carlo Antonio Martini (1726- 1800), giurista italiano, rivestì prestigiosi incarichi amministrativi per l’ambasciata e la corte austriaca. Nel 1792 ottiene la presidenza del «Tribunale supremo di giustizia», il massimo grado di magistratura altempo degli Asburgo. Le sue opere costituirono per molto tempo nelle università austriache una base indispensabile per lo studio del diritto pubblico.

11 August Ludwig von Schlözer (1735-1809), esperto di diritto pubblico, fu professore di filosofia, storia europea e statistica all’Università di Gottinga dal 1769. Espose la sua visione della politica e della dottrina dello Stato sulla rivistada lui curata «Stats-Anzeigen [Annunci cittadini]», dove nel 1781 comparve per la prima volta in lingua tedesca la«Dichiarazione dei diritti dell’uomo».

12 Ludwig Börne (1786-1837), scrittore e pubblicista tedesco, considerò la letteratura uno strumento di agitazione politica per promuovere l’emancipazione individuale contro l’oppressione della Restaurazione. Fondò numerose riviste radicali, e la sua opera  Briefe aus Paris[Lettere da Parigi, 1834] è considerata uno dei manifesti del movimento politico-cultuale  Junges Deutschland  [Giovane Germania] che, ispirato dal socialismo sansimonista e dal liberalismo della Rivoluzione francese, propagandava la libertà sessuale, l’emancipazione della donna, l’antiassolutismo el’anticlericalismo.

13 La rivista « Der Sozialist », fu fondata nel 1891 come «organo dei socialisti indipendenti», ma sotto la direzione diLandauer, dal 1893 al 1899, assunse tendenze socialiste anarchiche, come indicano anche le denominazioni della rivista,«Organo di tutti i rivoluzionari» (dal 1893), «Organo per il socialismo anarchico» (dal 1895), e «Mensile anarchico»(dal 1899). Landauer successivamente riportò in vita la rivista, che uscì di nuovo fra il 1909 e il 1915 in stretto legamecon le iniziative della «Lega Socialista» da lui fondata.

14 Ludwig Börne, Nouvelles lettres provincials[Nuove lettere provinciali], saggio contenuto nel terzo volume dellaraccolta: Id.,Gesammelte Schriften, Brodhag, Stuggart 1840, pp. 28-45.

15 Michail Bakunin, Die Reaktion in Deutschland , pubblicato nella rivista « Deutschen Jahrbüchern», n. 247-251, OttoWigand, Leipzig 1842, pp. 985-1002. Si veda l’edizione italiana: Id., La reazione in Germania, Edizioni Anarchismo,Trieste 2009.

16 Edgar Bauer, Der Streit der Kritik mit Kirche und Staat [Il conflitto della critica contro la Chiesa e lo Stato], EgbertBauer, Charlottenburg 1843. Si veda la recente edizione: Id., Der Streit der Kritik mit Kirche und Staat , Topos-Verlag,Vaduz/Liechtenstein 1978.

17Citazione biblica (Deuteronomio, 32) che appare anche in epigrafe dell’opera: Pierre-Joseph Proudhon, Système  Des contradictions économiques, ou philosophie de la misère[Sistema delle contraddizioni economiche, o filosofia dellamiseria], Chez Guillaumin et cie, Paris, 1846.Si veda l’edizione italiana: Id.,Sistema delle contraddizioni economiche. Filosofia della miseria , Edizioni Anarchismo, Catania 1975.

18 Qui Landauer si riferisce molto probabilmente all’opera: Pierre-Joseph Proudhon, De la création de l’ordre dansl’humanité , ou principes d’organisation politique[Sulla creazione dell’ordine nell’umanità, o principidell’organizzazione politica], Bintôt-Prevôt, Besançon- Paris 1843. Si veda oppure l’edizione contenuta nella raccolta: Id.,Oeuvres complètes, vol V, Rivière, Paris 1925.

19 Moses Hess (1812-1875), politico e pubblicista tedesco di origine ebraica. Nel 1842 fu tra i fondatori della  Rheinische Zeitung  [Gazzetta renana] la cui direzione fu affidata a Karl Marx, mentre nel 1848 iniziò a pubblicare assieme a Friedrich Engels il giornale Gesellscaftsspiegel  [Specchio della società]. Distanziatosi dai due per aderire a unsocialismo moraleggiante, profetico e umanista elaborato in  Die heilige Geschichte der Menschheit [La sacra storiadell’umanità, 1837], Hess fu preso di mira nel  Manifesto del partito comunista. Per l’opera  Rom und Jerusalem [Romae Gerusalemme, 1862] è considerato fra i fondatori del sionismo.

20 Georg Herwegh,  Einundzwanzig Bogen aus der Schweiz [Ventuno fogli dalla Svizzera], Verlag des LiterarischenComptoirs, Zürich/Winterthur 1843 .Landauer fa qui riferimento al saggio di Moses Hess,  Philosophie der Tat  [Filosofia dell’azione], ivi contenuto, pp. 309-331. Si veda la recente edizione tedesca: Georg Herwegh,  Einundzwanzig  Bogen aus der Schweizm, Reclam, Leipzig 1989.

21 Georg Herwegh (1817-1875), poeta tedesco vicino al movimento Junges Deutschland , le sue liriche ispirarono alungo gli animi della gioventù rivoluzionaria. Per motivazioni politiche si rifugiò dapprima in Svizzera, dove diede allestampe la sua opera più nota Gedichte eines Lebendige[Poesie di un vivente, 1841], e successivamente a Parigi. Ritornò in Germania nel 1848 per partecipare all’insurrezione del Baden, dove a capo di una colonna di insorti fu respinto dalle truppe regolari.

22 Max Stirner,  Der Einzige und sein Eigentum, Leipzig, Otto Wigand 1845.L’opera uscì alla fine del 1844 con data del1845 e fu subito sequestrata con la seguente motivazione: «Poiché non solo in singoli passi di tale scritto Dio, Cristo, laChiesa e la religione in genere vengono trattati con la più irriguardosa blasfemia, ma anche tutto l’assetto sociale, lo Stato e il governo vengono definiti come qualcosa che non dovrebbe più esistere, mentre la menzogna, lo spergiuro, l’assassinio e il suicidio vengono giustificati e il diritto di proprietà viene negato». Dopo alcuni giorni l’opera venne tuttavia rimessa in circolazione. Si veda l’edizione italiana: Id., L’unico e la sua proprietà , tr. it. di L. Amoroso, con unsaggio introduttivo di R. Calasso, Adelphi, Milano 1999.

23 Edgar Bauer, Über Sentimentalität [Sulla sentimentalità], saggio contenuto nella rivista « Berliner Monatsschrift [Rivista mensile berlinese]», n. 1, Ludwig Buhl, Mannheim 1844.

24Ludwig Buhl (1813-1882), membro della cerchia dei «Liberi» , un gruppo d’intellettuali provenienti dalla sinistra hegeliana animato a Berlino da Bruno Bauer nel 1842, e composto prevalentemente dal fratello Edgar Bauer, MaxStirner, Arnold Ruge, Karl Köppen. Alle riunioni dei «Liberi» parteciparono occasionalmente anche Friedrich Engels eKarl Marx. Buhl fondò rivista la « Berliner Monatsschrift », che uscì nel 1844 per un solo numero, a causa della censuradel regime prussiano.

25 Edgar Bauer,  Reise auf öffentliche Kosten [Viaggio nei conti pubblici], saggio pubblicato sulla rivista « Die Epigonen [Gli Epigoni]», n. 5, Leipzig, Otto Wigand 1848, pp. 9-113. Si tratta di un resoconto tragicomico della sua detenzione.

26 Wilhelm Weitling (1808-1871), ideologo tedesco del socialismo utopistico, emigrò dapprima in Francia, dove pubblicò  Die Menschheit wie sie ist und wie sie sein sollte [L’umanità com’è e come dovrebbe essere, 1838], e successivamente in Svizzera dove partecipò alla Lega dei Giusti. In altre sue opere, Garantien der Harmonie und  Freiheit  [Le garanzie dell’armonia e della libertà, 1842] ed Evangelium eines armen Sünders [Vangelo di un povero peccatore, 1846] le sue aspirazioni al comunismo egualitario si fondono con una visione evangelica radicale.

27 Wilhelm Marr (1819-1904) fu un giornalista politico tedesco. Dopo aver conosciuto a Zurigo Georg Herwegh siavvicinò a posizioni rivoluzionarie divenendo uno dei teorici di spicco della  Junges Deutschland . Contribuì a fondare in Svizzera alcune associazioni di lavoratori e nel 1844 la rivista di orientamento ateistico, giovane-hegeliano Blätter der Gegenwart für sociales Leben [Fogli sulla vita sociale contemporanea], considerata la prima rivista elvetica di tendenza anarchica in lingua tedesca. In seguito al fallimento della rivoluzione tedesca del 1848, le sue posizioni antiliberali si radicalizzarono in un sentimento antisemita, che egli espone nell’opera  Der Sieg des Judenthums über dasGermanenthum von nicht confessionellen Standpunkt [La vittoria dell’ebraismo sul germanesimo da un punto di vistanon confessionale, 1879]. Qui conia il termine  Antisemitismus  dandone una connotazione puramente razziale, preferendolo al termine già esistente  Judenhass [odio ebraico] che egli considerava troppo influenzato da connotazioni religiose.

28 Wilhelm Marr, Der Mensch und die Ehe vor dem Richterstuhl der Sittlichkeit [L’uomo e le nozze davanti alla Legge della moralità], Jurany, Leipzig 1848.

 29Edgar Bauer,  Der Mensch und die Ehe vor dem Richterstuhle der Sittlichkeit. Von W. Marr,  pubblicato in: « Die Epigonen», n. 5, Liepzig, Otto Wigand 1848, p. 343.

30 Ivi, p. 343.

31 Pierre-Joseph Proudhon,  Les confessions d’un révolutionnaire [Confessioni di un rivoluzionario], Paris, La voix duPeuple 1849. Si veda oppure la recente edizione: Id., Les confessions d’un révolutionnaire , Dijon, Le presses du reel 2002.

32 Pierre-Joseph Proudhon,  Idée générale de la Révolution , Garnier frères, Paris 1851. Si veda l’edizione italiana: Id. L’idea generale di rivoluzione nel diciannovesimo secolo, a cura di F. Proietti, Centro editoriale toscano 2001.

33 Pierre Jurieu (1637-1713), fu un teologo calvinista e un polemista ardente dai toni apocalittici. In conflitto col clero francese e col sovrano Luigi XIV sostenne il diritto del popolo di deporre i re che si opponevano a determinate direttive religiose o che opprimevano la vita religiosa dei sudditi. Si oppose all’affermazione nel protestantesimo dell’elemento razionalistico a discapito di quello mistico, conducendo in questa sua battaglia una decisa critica nei confronti di Pierre Bayle, degli arminiani e dei sociniani.

34 Cfr.  Idée générale de la Révolution , op. cit., capitolo IV, I.

35 Morelly, fu un pensatore francese del XVII secolo, le cui scarse informazioni biografiche non consentono di fare chiarezza sul suo nome. Di lui si sa per certo soltanto che fu un abate, e che la sua opera politica Code de la natur [Codice della natura], in cui auspica una società senza proprietà privata e la totale uguaglianza degli individui, influenzò Rousseau, Babeuf e le correnti egualitarie della Rivoluzione francese. Uscì nel 1755, e benché Landauer indichi unadata diversa, è molto probabile che egli intenda riferirsi proprio a questo testo.

36 Anselme Bellegarriggue, fu un anarchico individualista francese nato a Tolosa fra il 1820 e il 1825, e morto alla finedel XIX secolo, probabilmente in America Centrale. Dopo aver partecipato ai moti rivoluzionari francesi del 1848, nel1850 pubblica a Parigi « L’Anarchie, journal de l’ordre [L’anarchia, giornale dell’ordine]» che uscirà per soli due numeri (aprile e maggio 1850). Il manifesto programmatico della rivista, contenuto nel primo numero e redatto dallostesso Bellegariggue, si conclude col motto: «l’anarchia è ordine, il governo è guerra civile».

37 Joseph Déjaque (1822-1864), scrittore e militante anarchico francese, visse a lungo negli Stati Uniti. Nel suo pamphlet De l’Être-Humain mâle et femelle – Lettre à P. J. Proudhon [Sull’essere umano maschio e femmina  – Lettera a P. J. Proudhon] pubblicato a New Orleans nel 1857, critica la posizione proudhoniana sulle donne («volete riedificare l’alta baronia del maschio sulla donna vassalla»), coniando il neologismo libertario che contrappone al presunto liberalismo di Proudhon. Dal 1858 al 1861 diresse a New York la rivista « Le libertaire. Journal du mouvement social [Il libertario. Giornale del movimento sociale]».

38 Landauer si riferisce alla rubrica « L’ Humanisphère. Utopie anarchique[L’Umanisfero. Utopia anarchica]» curata da Déjaque su « Le libertaire» dal 9 giugno 1858 al 18 giugno 1859. Qui Déjaque, prendendo spunto dal Falansterio fourierista, s’immagina lo sviluppo dell’anarchismo nell’anno 2858.

Anarchismo e politica La revisione critica di Camillo Berneri (di Stefano D’Errico)

Anarchismo e politica La revisione critica di Camillo Berneria cura di Paolo Repetto, 3 marzo 2020

Berneri oggi (Premessa)

Berneri in pillole: alcuni cenni biografici

Una grande curiosità intellettuale

Esilio

Lo scontro con il fascismo e la critica del massimalismo e della demagogia “di sinistra”

La politica delle alleanze e la lezione storica dello scontro con i due totalitarismi

Morte di Berneri  (cinque uomini, un unico destino)

La differenza fra gradualismo e riformismo. il “sovietismo” di Berneri

L’anarchismo fra politica ed antipolitica (nessun sogno romantico)

La questione del programma

Contro “l’anarchismo dagli occhiali rosa”

La scelta anarcosindacalista

Contro l’individualismo

Per l’organizzazione politica degli anarchici

Berneri ed Arcinov

Nessuna paura della revisione: giudizi di fatto e giudizi di valore

Contro la religione della scienza

Per la tolleranza

Umanesimo e anarchismo

Il revisionismo marxista

Dovere del lavoro e diritto all’ozio

Contro l’operaiolatria

Il valore della cultura

Per un programma economico aperto

Astensionismo ed anarchismo

Ubi societas, ibi jus: la differenza fra autorevolezza ed autoritarismo

Berneri e Malatesta

Note

Berneri oggi (Premessa)

 

Contro l’autonomia della politica

Berneri è appena conosciuto come “martire” della guerra civile spagnola, assassinato perché si opponeva ai diktat di Mosca che intendeva soffocare il “cattivo esempio” della rivoluzione libertaria (ufficialmente per accontentare la Società delle Nazioni restaurando la “repubblica di tutte le classi”: in realtà Stalin usava la Spagna come pedina di scambio per concludere il patto di non aggressione con la Germania nazista). Scomoda per tutti (fascisti, comunisti, cattolici e “liberali”), la sua opera – pubblicata parzialmente e con gran ritardo – è passata in secondo piano.

Anche una certa “ortodossia anarchica”, anziché lo sperimentalismo antidogmatico di Berneri, ha valorizzato soprattutto le sue critiche ai ministri dell’anarcosindacalista CNT – maggiore sindacato iberico – nel governo repubblicano del ‘36-’39. In realtà, c’è molto di più: un lascito teorico impressionante ancora di grande attualità.

Di fronte alla “crisi della politica” ed alla débacle della sinistra marxista, anche l’area del “socialismo irregolare” – “prossima”, ma non coincidente con l’anarchismo – stenta a trovare risposte adeguate. In Italia, come segretario dell’Unicobas sono indotto da fatti e comportamenti ad affrontare queste tematiche. Da una parte vedo riproporre la prassi “gruppettara” delle conventio ad escludendum, dei servizi d’ordine che impongono alle piazze sempre più anacronistici “leaders” – l’un contro l’altro armato – che fanno e disfano “cartelli” per la lottizzazione e l’egemonia sulle lotte e sui cortei (spesso mere rappresentazioni): coazione a ripetere le tare della vechia-nuova sinistra che, sotto forma di farsa, rigenerano la malattia del leninismo. Dall’altra, i settori più sinceri paiono succubi di un anti-ideologismo di maniera che rigetta e “parifica” tutte le esperienze storiche, compresa la grande tradizione del socialismo libertario. Il rifiuto di un’indagine senza preconcetti sugli errori del passato non porta risposte per il futuro.

La militanza “antagonista”, eco-sociale e libertaria, si trova così divisa verticalmente fra una maggioranza di gruppi e “cani sciolti” che opera sul territorio ed una (ben divisa e strutturata) minoranza d’apparato che si limita a “capitalizzare” – a proprio uso e consumo – il lavoro di base, trasformandolo in elemento di mera “rappresentanza” per una schiera autoreferenziale di “portavoce” mediatici fermi agli anni ‘70. Ma tutto ciò ha origini ben precise e la ricerca della “pietra filosofale” non ha senso: non calerà dal cielo un nuovo Bakunin, tantomeno un nuovo Marx.

Basterebbe invece esaminare la storia per capire che occorre fare quel che non s’è mai fatto: operare una riconversione etica della politica. Il fine non giustifica i mezzi, sono bensì questi ultimi a determinare automaticamente i risultati. Anche se la cosa emerge con fatica, è sempre più netto ed istintivo il rifiuto della autonomia della politica. E’ un concetto che gli anarchici hanno continuamente ripetuto, e non si tratta di una “religione” dell’etica. Semplicemente, una sinistra piegata al conformismo dell’ipse dixit ed alla delega non può sviluppare i germi  dell’autogestione. Eppure, il resto della sinistra – proprio perché condizionata dal lascito di Marx, il “Machiavelli del socialismo” – ha sempre fatto orecchie da mercante.

Ancora scorgiamo il Sisifo del socialismo autoritario ripercorrere pedissequamente le stesse strade, nonostante la storia dimostri senza appello come la dittatura di partito riproduca matematicamente la servitù economica e morale.

Di più, quella “sinistra” è giunta sino alla mutazione genetica: abbiamo visto i postcomunisti attraversare il guado dal bolscevismo al neo-darwinismo sociale in stile liberista. Nulla di strano: lo strumento-guida di questa transizione è la ragion di stato. Scrisse Berneri: “La formula leninista ‘i marxisti vogliono preparare il proletariato alla rivoluzione mettendo a profitto lo Stato moderno’ è alla base del giacobinismo leninista come del parlamentarismo e del ministerialismo social-riformista”.

Ma non è tutto. Pur esistendo nel mondo una – più o meno consapevole – “domandadi anarchismo, a questa non corrisponde “offerta” adeguata. Quel che resta del movimento libertario non riesce da tempo ad esser presente a se stesso a causa della marginalizzazione indotta da un dottrinarismo ossificato. In poche parole, non si può combattere l’autonomia  del politico con lo scetticismo elevato a sistema e con l’indifferentismo rispetto alla politica. In primis, occorre un programma, perché per vincere bisogna saper convincere. Inoltre, se la politica deve venir subordinata all’etica, è un richiamo etico pur quello relativo alla responsabilità che chi fa politica deve prendere immancabilmente su di sé. Una responsabilità rispetto alle conseguenze del suo agire sugli altri e sul mondo e non solo riguardo alla propria coscienza. Ergo, il parametro etico di riferimento dovrà veramente essere messo alla prova, riattualizzato, con una rielaborazione il più plurale possibile, oltre gli steccati ed ogni fondamentalismo. Se l’anarchismo è uno strumento di emancipazione, per dimostrare di essere valido non può arroccarsi nei suoi valori in una sorta di autocompiacimento nullista e narcisista. Tutt’altro: non solo deve dimostrare di aver ragione in modo concreto hic et nunc, ma essere anche capace di lavorare per creare le condizioni di una vittoria nello scontro sociale. Non bastano quindi la “buona volontà”, la determinazione del singolo o di piccoli gruppi più o meno “coordinati”. Nello specifico anarchico occorrerebbe un vero soggetto organizzativo di livello internazionale, con un forte senso d’appartenenza però aperto ed orizzontale: un sistema complesso votato a studio, discussione e sperimentazione pratica, che sviluppi relazioni con l’eterogeneo mondo dell’associazionismo e valorizzi le differenze, per creare una vera prospettiva generale. Sarebbe l’ora di una nuova, inclusiva, costituente libertaria.

Riassumendo: la politica è l’arte del possibile e se per i libertari il fine non giustifica i mezzi, essi hanno comunque il dovere di sapersi destreggiare in politica, cosa da non delegare a (presunti) “specialisti”. Ed è qui che interviene Berneri: “Essere col popolo è facile se si tratta di gridare: Viva! Abbasso! Avanti! Viva la rivoluzione! – o se si tratta semplicemente di battersi. Ma arriva il momento in cui tutti domandano: Cosa facciamo? Bisogna avere una risposta. Non per far da capi, ma perché la folla non se li crei”. Ecco perché il movimento d’emancipazione ha un grande bisogno della riflessione berneriana. Essa avversa quel comunismo da caserma trasformatosi poi in capitalismo di stato e quindi di nuovo in liberismo, ma non fa sconti a nessuno, neppure all’ortodossia anarcoide. Berneri rincorre, “stana” e svela le fobie di quel “ritualismo” che ha reso quasi impotente un movimento altrimenti portatore dei più adeguati “anticorpi” prodotti dall’umanità per contrastare il dominio in tutte le sue forme.

L’anarchia non è semplicemente il “non-stato”

Per Berneri, l’anarchia: “non è semplicemente il non-Stato, bensì un sistema politico a-statale, ossia un insieme di autonomie federate”. Egli precisa: “Un organismo qual è lo Stato odierno può essere demolito, ma alla sua ossatura fa riscontro tutto quel sistema di fasci muscolari e nervosi, che sono i servizi pubblici. (…) Le società primitive, le città dell’epoca dei Comuni, il villaggio contadino, la cittadina di provincia della Spagna, possono realizzare delle forme più o meno integrali di quell’anarchismo solidarista, extra-giuridico a-statale caro al Kropotkin, ma la metropoli odierna, ma la nazione che ha un ritmo di vita economica internazionale debbono affrettarsi a saldare le fratture prodotte dalla fase insurrezionale, perché la vita non si arresti; come il chirurgo deve affrettarsi a passare dal bisturi all’ago, quando si accorge che il cuore del paziente rallenta il proprio ritmo”. E già nel 1926, afferma: “i nostri migliori, da Malatesta a Fabbri, non riescono a risolvere i quesiti che ci poniamo, offrendo soluzioni che siano politiche. La politica è calcolo e creazione di forze realizzanti un approssimarsi della realtà al sistema ideale, mediante formule di agitazione, di polarizzazione e di sistemazione, atte ad essere agitanti, polarizzanti e sistematizzanti in un dato momento sociale e politico. Un anarchismo attualista, consapevole delle proprie forze di combattività e di costruzione e delle forze avverse, romantico col cuore e realista col cervello, pieno di entusiasmo e capace di temporeggiare, generoso e abile nel condizionare il proprio appoggio, capace, insomma, di un’economia delle proprie forze: ecco il mio sogno. E spero di non essere solo”.

Ha scritto Pier Carlo Masini che Berneri: “(…) trasferiva la tematica federalista all’interno del movimento operaio, fino ad allora egemonizzato dal centralismo di marca germanicosocialdemocratica e di marca russo-bolscevica”. Il lodigiano scrisse: “io sono semplicemente autonomista-federalista (Cattaneo completato da Salvemini e dal Sovietismo)”. Quello di Berneri, era un sovietismo sociale, molto critico rispetto all’anarchismo “dagli occhiali rosa” di kropotkiniana memoria. I corporativismi locali e la “giustizia popolare” sono rischi che non si possono correre. La libertà non è quindi mai assoluta, perché deve contemperare il rispetto di precisi doveri verso gli altri. A tal fine la collettività esprime una sua autorevolezza che è altra cosa rispetto all’autoritarismo: “All’autorità formale del grado e del titolo anteponiamo l’autorità reale del valore e della preparazione individuali. Questo senza cadere in una dialettica fusione, o confusione, dei contrari. La libertà non è nulla, se non finalizzata, e non è possibile una eguaglianza generale fra gli esseri umani raggiunta per diktat ideologico. Occorre ripartire dall’impegno su valori condivisi e dall’impiego degli stessi come metro comune. Berneri ribadisce: “Qualunque società non può soddisfare interamente i bisogni di libertà dei singoli. La volontà delle maggioranze non è sempre conciliabile con quella delle minoranze. Qualunque forma politica presuppone la subordinazione delle minoranze. Quindi autorità. Sfuggire l’autorità vale fuggire la società. Nella botte di Diogene può stare il singolo, un popolo ha bisogno della città”.

Berneri non crede alla giustizia sommaria delle masse, né alla società “trasparente” impaludata su se stessa senza istituzioni. La società libertaria si deve creare intorno alla responsabilità e quindi anche con l’accettazione di regole, condivise ma cogenti: “(…) un minimo di diritto penale è necessario come un minimo di autorità (…) credo che l’idea di giustizia sia nel

popolo, ma non credo alla giustizia popolare, intesa come giustizia di folle”. La massa non è composta né da libertari nati, né da cherubini. Chi lo afferma è un illuso ed un semplicista: “La negazione a priori dell’autorità si risolve in un angelicarsi degli uomini ed in uno sviluppo irrompente di un genio collettivo, quasi immanente alla rivoluzione, che si chiama iniziativa popolare”.

Il lodigiano non si fermò certo a vaghi proclami “millenaristi” relativi ad automatiche “palingenesi sociali”: indagò sulla diversità strutturale che intercorre fra le istituzioni proprie della società civile e le categorie imposte dallo stato, ipotizzando la leva del contrasto fra le prime e le seconde al fine di una strategia di liberazione e di ricostruzione rivoluzionaria. Questa è una lezione anche per i nostri giorni. Origina una riflessione sulle istituzioni delle quali la società civile dovrà dotarsi, le regole che verranno, la struttura economica che si darà e principalmente i meccanismi decisionali atti a definire il tutto. Ciò comporta necessariamente il riconoscimento di una differenza radicale fra istituzioni e stato, nell’ambito della realizzazione dell’autonomia della società civile federalista rispetto ad ogni entità centralistica. In poche parole, per essere credibile, la lotta contro lo stato deve essere animata da una prospettiva di organizzazione futura capace già di mettere in crisi l’entità statuale oggi per abolirla domani. La scuola, ad esempio, è una istituzione che va diretta e gestita dalla società civile, come “sfera pubblica non statale”, in alternativa al privato, ma anche alla “ragion di stato” (si pensi, ad esempio, alla redazione dei programmi di storia in ordine a libertà d’insegnamento e d’apprendimento). Così le mille altre realtà, secondo un sistema che si organizza dal semplice al complesso, esistendo altresì una naturale differenza, sia di livello che organizzativa e giuridica, fra istituzioni e servizi.

Elemento centrale è il decentramento amministrativo, che ha nei comuni i principali punti di riferimento, così come, tramite l’anarcosindacalismo, lo sono i comitati di gestione della produzione e dei servizi espressi dal mondo del lavoro. In ordine a tali questioni eminentemente pratiche, aventi a che fare con la vita di tutti giorni e con la rifondazione di un senso e di una codifica del diritto atti a gestire la convivenza, gli scambi e la produzione, occorre per Berneri disperdere definitivamente l’ombra dello stato. Ma non sarà impugnando le armi spuntate fornite dalle astrazioni ideologiche  che si abbatterà la centralizzazione, si porrà fine allo sfruttamento e si scongiurerà il capitalismo, “tradizionale” o di stato.

Per la definizione di un progetto politico libertario

Per tutti questi motivi Berneri rifiuta e combatte il diktat ideologico che vieta agli anarchici l’elaborazione di un progetto ed impedisce loro di agire anche sul piano tattico: “Mezzo: l’agitazione su basi realistiche, con l’enunciazione di programmi minimi”. Inoltre, la storia costringe a dare risposte e l’assenza di programma condanna l’anarchismo ad agire di rimessa rispetto alle condizioni determinate dagli avvenimenti e soprattutto “in coda” alle altre entità politiche: senza un progetto, anziché indipendenza, si mostra sudditanza.

L’antipatia per il programma non dovrebbe contraddistinguere i rivoluzionari, è invece tipica di chi non vuole realmente cambiare lo stato delle cose: “Il gradualismo del socialismo legalitario e statolatra è parallelo all’antipatia, evidentissima nel Kautsky, per qualsiasi piano di ricostruzione economica in senso socialista. Che l’ingranaggio sociale sia così complicato che nessun pensatore possa indagarne tutti i mali e prevederne tutte le possibilità, è evidente; ma (…) ciò non toglie che sia necessario al socialista poggiare su di un programma pratico, sì come allo scienziato è necessaria la luce di un’ipotesi”. Non si tratta quindi di mero “progettismo”: “Ma occorre distinguere: vi sono programmi che sembrano voler dare la sintesi del domani storico come deterministico calcolo di quel che sarà quel domani e questi sono i programmi detti realistici mentre non sono che deterministici; mentre vi sono programmi che pur calcolando grosso modo il gioco delle forze statiche e di quelle dinamiche non dimenticano che la probabilità di certe risultanti è tanto più alta quanto più la volontà di rinnovamento ha forzato i limiti progressivi”.

La prima cosa che Berneri fa capire è che non bisogna confondere giudizi di fatto e giudizi di valore. Per questo “osa” mettere in discussione anche la pratica astensionista. Pure Bakunin ammoniva di non confondere tattica e strategia, perciò: “Il non distinguere la prima dalla seconda conduce al cretinismo astensionista non meno infantile del cretinismo parlamentarista”. E ancora: “Il cretinismo astensionista è quella superstizione politica che considera l’atto di votare come una menomazione della dignità umana  o che valuta una situazione politico-sociale dal numero degli astenuti delle elezioni, quando non abbina l’uno e l’altro infantilismo”.

La strada da seguire è quella del comunalismo: “Ecco, invece, un tema di studio: lo Stato nel suo funzionamento amministrativo. Ecco un tema di propaganda: la critica sistematica allo Stato come organo amministrativo accentrato, quindi incompetente ed irresponsabile. (…) Una sistematica campagna di questo genere potrebbe attirare su di noi l’attenzione di molti che non si scomporrebbero affatto leggendo Dio e lo Stato (di Bakunin)”. Con ciò, il lodigiano mostra la “freschezza” della propria interpretazione della realtà, ancora adeguata rispetto al mondo odierno.

E’ oggi evidente l’assoluta lontananza dei cittadini dagli istituti dello stato, ma ciò non trova adeguata capacità di contrasto nella critica “rivoluzionaria”, di sovente ferma alla propaganda ideologica e poco attenta alle contraddizioni del quotidiano, largamente sperimentate dalla “gente comune”. In differenti occasioni Berneri afferma che una prassi radicata ab origine nel rifiuto della truffa di una democrazia rappresentativa senza controllo e mandato – un palliativo concesso come diritto solo per una piccola parte della popolazione da monarchi che conservavano nomina e gestione del parlamento, – nasce come risposta, non come principio e non può rimanere sempre e comunque inamovibile dettame dottrinario incurante delle situazioni particolari da affrontare nel corso della storia. La propaganda astensionista è “reazione contro la rappresentanza generica”.

l pensiero del lodigiano diviene chiarissimo laddove coniuga la questione del voto con quello che per lui dovrebbe essere il progetto libertario in divenire: “Vi sono, secondo me, quattro sistemi politici possibili: l’amministrazione diretta, la rappresentanza generica o autoritaria, la democrazia propriamente detta e l’anarchia. L’amministrazione diretta è un sistema politico nel quale il popolo in massa delibera volta a volta sulle varie questioni d’interesse generale, e provvede all’esecuzione delle proprie deliberazioni. La rappresentanza generica o autoritaria è un sistema nel quale il popolo delega la propria sovranità ad un certo numero di persone da lui scelte e lascia a quelle il potere deliberativo ed esecutivo. L’astensionismo politico è una reazione contro la rappresentanza generica, reazione salutare, ma non ha più ragione di permanere di fronte alla democrazia propriamente detta, sistema nel quale il popolo delega le varie faccende di interesse generale a dei tecnici, riservandosi di approvarne gli atti, controllando il loro operato, riservandosi di destituirli e destituendoli quando ciò occorra. Gli anarchici hanno ragione di continuare in seno alla democrazia la loro opposizione correttiva e la loro propaganda educativa al fine di permettere il passaggio dalla democrazia all’anarchia, sistema nel quale l’amministrazione diretta e la democrazia si integrano, sopprimendo qualunque residuo della rappresentanza autoritaria”.

La presenza al voto diviene quindi persino uno strumento di “medio termine”, pienamente utilizzabile, se le condizioni del progresso sociale sulla strada della realizzazione pratica della società libertaria sono abbastanza avanzate ed adeguate.

Anarchismo & Anarchia

La polemica contro l’astensionismo, il nostro la affronta peraltro dopo la vittoria elettorale del Fronte Popolare in Spagna nel 1936, alla quale concorsero in modo determinante gli anarcosindacalisti della CNT, che per la prima volta non si abbandonarono ad una posizione intransigente, venendo per questo fatti oggetto di un fuoco di fila di critiche impietose piovute dal di fuori della penisola iberica. Ma senza quella vittoria, sostenne il lodigiano, non vi sarebbero state neanche le successive conquiste rivoluzionarie che la CNT stessa seppe mettere in atto dal basso. La sconfitta avrebbe significato una condizione pratica (ed anche psicologica) ben diversa per il movimento dei lavoratori e per questo sarebbe stata assurda in quella situazione una campagna astensionista: le tattiche della politica vanno giudicate mirando ai risultati e non in modo ideologico-aprioristico.

Così pose la questione Berneri: “Il problema, insomma, è questo: l’astensionismo è un dogma tattico che esclude qualsiasi eccezione strategica?

Per Berneri, il voto è uno strumento utile anche all’interno del mondo libertario e, come già visto, il lodigiano definisce più volte, senza pietà, “cretinismo astensionista” la demonizzazione senza deroghe di tale meccanismo decisionale, a maggior ragione se questo rifiuto è esteso persino

all’interno dell’organizzazione specifica. Un rifiuto invalso spesso nelle strutture anarchiche non perché il voto fosse incongruo alla tradizione, bensì per una sorta di “moda” che ha sclerotizzato la militanza. Berneri discrimina poi chiaramente fra voto e voto. Nel caso di liste locali, ed ancor più di plebisciti e referendum, non vede per gli anarchici alcun motivo di possibile avversione: “Se domani si presentasse il caso di un plebiscito (disarmo o difesa nazionale armata, autonomia degli allogeni, abbandono o conservazione delle colonie, ecc.) si troverebbero ancora degli anarchici fossilizzati che crederebbero doveroso astenersi”.

Berneri, a proposito della dimensione politica dell’anarchismo, la nobilita senza remore e preferisce certo chi si batte per il successo dell’impostazione libertaria nella storia a quanti, astraendosi dalla politica, riducono il libertarismo ad una mera, sofistica, professione di fede. Il

purismo” mostra tutta la sua inutilità, ed è anzi sinonimo di disimpegno ed autoreferenziale narcisismo: “Chi crede alla possibilità dell’anarchia come sistema politico è anarchico, qualunque siano le sue vedute strategiche, qualunque siano le sue riserve sulle realizzazioni massime della

società futura. Ed è anarchico anche se scomunicato dai dottrinari sofistici, ed è anarchico anche se gli si oppone con il termine generico di principi le vedute di questa o di quella scuola, le opinioni di questo o di quel maestro, le abilità polemiche di questo o di quel giornalista autorevole nonché le scandalizzate proteste dei pensanti con la testa altrui”.

Ma come si fa se gli anarchici per primi, immobilizzati dal fondamentalismo, non credono nell’anarchismo politico? La mancanza di sperimentazione è infatti sinonimo di sfiducia nei propri mezzi ed ancor più nelle possibilità interne alla prospettiva libertaria: “La storia è opposizione e sintesi. L’anarchismo, se vuole agire nella storia e diventare un grande fattore di storia, deve aver fede nell’anarchia, come una possibilità sociale che si realizza nelle sue approssimazioni progressive. L’anarchia come sistema religioso (ogni sistema etico è di sua natura religioso) è una ‘verità’ di fede, quindi per propria natura, evidente soltanto a chi la può vedere. L’anarchismo è più vivo, più vasto, più dinamico. Egli è un compromesso tra l’Idea e il fatto, tra il domani e l’oggi.

L’anarchismo procede in modo polimorfo, perché è nella vita. E le sue deviazioni stesse sono la ricerca di una rotta migliore”. Berneri è quindi “un anarchico che crede all’anarchia e, ancor più, all’anarchismo”. Berneri è un gradualista rivoluzionario perché è ben conscio della futilità del tutto e subito o del “tanto peggio-tanto meglio”, così come dell’irraggiungibilità della perfezione, e tiene distinti l’anarchia (“religione”) e l’anarchismo (l’anarchia nella storia): “l’anarchico comprende che nella storia si agisce sapendo essere popolo per quel tanto che permette di essere compresi e di agire, additando mete immediate, interpretando reali e generali bisogni, rispondendo a sentimenti vivi e comuni”. Berneri non fu mai un massimalista: “A mio parere, il non esercitare un diritto perché è concesso dallo Stato, non creare una situazione migliore dell’attuale perché se ne vorrebbe una migliore di quella conseguibile, vale fossilizzare la nostra azione politica”. Ancora oggi la sinistra “radicale” non sa distinguere fra riformismo e gradualismo.

Nel corso della rivoluzione spagnola, pur essendo intransigentemente schierato per la difesa e lo sviluppo delle conquiste popolari, delle collettivizzazioni agrarie e della socializzazione delle industrie, il lodigiano seppe comprendere i tentativi della dirigenza cenetista di destreggiarsi nella situazione. Naturalmente questa posizione Berneri la tenne solo fino a quando la CNT dell’epoca seppe conservare la propria autonomia e rimase all’offensiva. Alle prime avvisaglie del precipitare della situazione, egli divenne un critico feroce rispetto ai cedimenti determinati  dall’incapacità di fronte alle esigenze della politica.

Berneri era un fautore non già della mediazione, bensì della sperimentazione pragmatica, e ben sapeva che i limiti maggiori dell’anarchismo non stavano in presunte mancanze di serietà o d’onestà dei “leaders”, quanto invece nell’impreparazione assoluta di tutto un corpo militante abituato a pensarsi unico padrone del campo di fronte alla rivoluzione: viceversa, in un panorama necessariamente plurale, il progetto comunista libertario va difeso anche con le armi della politica.

Così com’era convinto che per il tramite dell’organizzazione anarcosindacalista, proprio ovviando a quest’impreparazione (obiettivo per il quale aveva lavorato tutta la vita), si sarebbe invece potuta restituire a chi di dovere quella famosa, proudhoniana, capacità politica delle classi operaie, sviluppare la quale è la prima ragione della tradizione libertaria.

Fu anche contro il sindacato unico, indicando agli anarchici l’intervento e la creazione di strutture anarcosindacaliste come elemento prioritario, diversamente rispetto a Malatesta e Fabbri, che propugnavano un’indifferenziata presenza nelle strutture di massa “unitarie”, alla fine sempre guidate da segreterie nazionali socialriformiste o comuniste.

 

 

La questione sindacale

L’anarcosindacalismo deve avere una propria ben definita autonomia, anche dal movimento specifico. L’anarchismo ha contato di più ove ha assunto una fisionomia anarcosindacalista. L’anarcosindacalismo è una struttura organizzata, prima di tutto composta da lavoratori e ad essi rispondente, con i loro tempi e bisogni. Altrimenti si rischia di rimanere vittime degli stessi mali del movimento, che è il “partito” degli anarchici. Parallelamente, la realtà sindacale libertaria è più “politica” di un movimento che, in assenza di un proprio riferimento di massa, tende fatalmente ad estraniarsi dal mondo reale ed a divenire marginale e rivolto su se stesso. L’anarcosindacalismo, leale interprete dello spirito della Prima Internazionale, deve riportare il sindacato alle sue origini: una struttura indipendente da qualsiasi partito (anche dal movimento libertario in quanto tale), ma non estranea alla politica, dove l’agire politico è fissato nell’alterità della prassi democratica ed orizzontale. In sintesi, il tutto s’incardina nella capacità dei lavoratori in quanto tali, senza “mediazioni” e direttive provenienti da “élites” e guide esterne. Altrimenti non si sarebbe superato il limite naturale del sindacalismo burocratico e “dipendente”: quello della soggezione a forze politiche sedimentate in campo esterno. Il sindacato di partito viene costretto all’inazione e posto a guardia della pace sociale quando la sua forza parlamentare di riferimento ha conquistato il potere e “scatenato” nella “lotta” solo quando questa è all’opposizione. Di contro, la “esternità” delle leve della politica al mondo del lavoro, rappresenta, peraltro, una concezione inaccettabile in campo libertario: l’esistenza di un “limbo” separato ove si maturano le idee-guida, una sorta di piano astratto dove il mondo del lavoro non è vivo e pulsante, ma solo “rappresentato” sul palcoscenico del teatrino della politica (prevalentemente – ma non unicamente – parlamentare). Una deviazione tipica della Seconda Internazionale socialdemocratica e della Terza Internazionale bolscevica, che destina alla forza politica – partito, poi identificato con lo stato – il piano del progetto, lasciando al sindacato al massimo la mera “vertenza” e facendolo succube di strategie maturate esternamente ad esso, così espropriando il mondo del lavoro della propria titolarità politica soprattutto in termini progettuali.

Il primato dell’etica, diviene quindi preminenza della democrazia di base (prassi organizzativa).

Il  mito della mera “emergenza del sociale”

Va sfatata la leggenda che alla politica si possa sostituire la mera emergenza del sociale, il cui inseguimento ha comunque ricadute politiche (anche se ci si muove in nome e per conto del “ribellismo” e della cosiddetta “antipolitica”). Negli ultimi anni ‘70, ad inquinare oltremodo il panorama della militanza libertaria, ha contribuito il mito della cosiddetta “autonomia proletaria”, di provenienza italiana ma invalsa per molti anni in tutta Europa. L’ennesimo “succedaneo” venne, ancora una volta (e contro-natura), ben accolto dagli anarchici massimalisti, con tutti i suoi cascami di estremismo, avventurismo e violentismo. La spessa coltre dell’intransigenza “rivoluzionaria” mascherava l’operazione mimetica. Contrabbandando se stessa come “radicale” (solo perché votata ad uno scontro di piazza autoreferenziale) e “libertaria”, l’area dell’ autonomia, ha invece introdotto un’impostazione del tutto autoritaria. L’apparente assemblearismo nascondeva gruppi di “professionisti”, determinati a decidere sempre e comunque il corso degli avvenimenti senza cura per le dinamiche espresse dai movimenti, la foglia di fico dietro la quale celare la fruizione di una delega in bianco. Fu il trionfo di una prassi del lavoro politico volta a denunciare strumentalmente l’inutilità delle organizzazioni specifiche, al fine di realizzare strutture “unitarie” legate a doppio filo a sovrastrutture più o meno nascoste impegnate ad impostarne la linea. Secondo la prassi più dozzinale, la critica dello ideologismo fuorviante e totalizzante si fece critica delle idee e strozzatura della discussione collettiva. Venne riportata in auge la condanna delle diversità a favore dell’uniformità e dell’appiattimento, perseguendo metodi dettati dall’insofferenza verso ogni particolarità. Nel nome di una malintesa “coscienza proletaria”, pretesa come avulsa dal dibattito sulle metodologie e sull’etica della libertà, s’impose l’ennesima riproposizione della autonomia della politica. L’antitesi autoritarismo-libertarismo veniva quindi ancora una volta derubricata. Un vero e proprio ricatto ideologico in omaggio agli stilemi del controllo e della presa del potere nel micro-sistema “antagonista”, della preminenza dell’economico e del “militare”, nonché di una presunta “linea di condotta comunista”, sul gradualismo, sulla rivendicazione e sul bisogno. Da questo, l’attivismo totalizzante, per lo più finalizzato ad un impegno acritico eterodiretto spinto sino ad estreme conseguenze, estraneo ad ogni forma non velleitaria di ripensamento suscettibile di mettere in forse un dominio da esercitarsi in ogni caso sul sociale per mezzo delle continue forzature operate da un gruppo omogeneo selezionato, dirigente di fatto.

L’ultima nota di colore riguarda, al momento, le frange dell’estremismo anarchico fondamentalista, convinte di cogliere l’occasione della storia nel cercare di prendere il posto dell’autonomia in divisa da black-block, come se la mistica dello scontro rituale di piazza non fosse colto, oggi come ieri, soltanto come un’utile pretesto per rinverdire le politiche repressive degli stati al fine di una criminalizzazione tout court di qualcosa che è molto più complesso, articolato ed assai meno povero di contenuti: l’intero progetto e la prassi del socialismo libertario.

Berneri invece indicava la necessità di un movimento con un’identità precisa, capace anche di battaglie d’opinione, adatto a lasciare il segno nella storia, in una complessità poliedrica che lo veda strumento primario per la riconquista insieme della soggettività politica delle masse sfruttate e dell’umanesimo il più avanzato. Tale è il senso del “sovietismo” di Berneri: non un’arronzata “scopiazzatura” consigliarista di derivazione pannekoekiana o luxemburghiana, bensì la ricollocazione dell’anarchismo in quanto tale nella sua propria dimensione. Preminente è perciò il protagonismo del movimento anarchico con la sua identità, in “prima persona”, senza remore e paure; in totale autonomia e come forza politica: “Se il movimento anarchico non acquisterà il coraggio di considerarsi isolato, spiritualmente, non imparerà ad agire da iniziatore e da propulsore. Se non acquisterà l’intelligenza politica, che nasce da un razionale e sereno pessimismo (ché è, di fatto, senso della realtà) e dall’attento e chiaro esame dei problemi, non saprà moltiplicare le sue forze, trovando consensi e cooperazione nelle masse” .

 

L’identità dell’anarchismo, unica alternativa ai totalitarismi

Però l’identità non ha nulla a che fare con la ricerca autistica di uno “splendido isolamento”. Ancora da Fallimento o crisi?, leggiamo: “Chiuso nell’intransigenza assoluta di fronte alla vita politica, l’anarchismo puro è fuori del tempo e dello spazio, ideologia categorica, religione e setta. Fuori dalla vita parlamentare, fuori da quella delle amministrazioni comunali e provinciali, non ha saputo e voluto condurre delle battaglie di dettaglio, suscitanti, volta a volta, consensi; non ha saputo agitare problemi interessanti grande parte dei cittadini. (…) Da un’infinità di battaglie il movimento anarchico si è avulso, sempre allucinato dalla visione della Città del Sole, sempre perso nella ripetizione dei suoi dogmi, sempre chiuso nella sua propaganda strettamente ideologica”.

Da qui la sua critica all’impostazione “frontista” (a senso unico) che ha reso il movimento libertario succube del bolscevismo. Berneri indicherà all’anarchismo il rifiuto dell’omologazione “frontista” come una delle medicine necessarie a ridare autonomia al movimento: “Fra queste esperienze, vi è quella delle insufficienze tattiche del movimento anarchico, troppo fiducioso nei fronti unici, troppo poco autonomo (…)”.

Tantomeno fu fautore in politica della demagogia del “più uno”: “Per la smania di essere più a sinistra di tutti non dobbiamo assecondare il Partito Comunista nei suoi errori estremisti, oltre che per il nostro principio di non volere imporre il comunismo, anche perché mentre il Partito Comunista farebbe macchina indietro sul terreno economico, si gioverebbe della nostra collaborazione insurrezionale ed espropriatrice per costruire e rinsaldare la propria dittatura

Senza però indulgere mai nell’integralismo e rifuggendo il settarismo. Sarà anzi l’anarchico italiano che più cercherà di favorire e porre in essere un’adeguata politica delle alleanze, rivalutando, a suo tempo, repubblicani di sinistra e liberal-socialisti come Gobetti e gli antifascisti federalisti-autonomisti (anti-sovietici) di Giustizia e Libertà: Salvemini e i fratelli Rosselli.

La scelta di un’alleanza “strategica” con i fautori di un “socialismo federalista liberale” era legata alla contingenza ed alla politica, non rappresentava una deroga rispetto all’opzione del socialismo libertario. In altre parole, l’obiettivo rimaneva lo stesso. Anzi, si affinava, ma veniva delineata da Berneri soprattutto una tattica per la presenza ed il protagonismo dell’anarchismo.

Cionondimeno Berneri riteneva che l’anarchismo avrebbe dovuto stringere patti d’unità d’azione unicamente con entità federaliste ed equitarie, ma per definizione contrarie ad ogni totalitarismo.

 

L’Anarchismo e i “movimenti”

Berneri insegna ad accettare da subito (e veramente) la necessità di una sinistra (e di una società) aperta, come elemento non mediabile e non rinunciabile di arricchimento e revisione rispetto ad un passato (anche recentissimo) di macerie. Viceversa, le realtà “antagoniste” (costruite ancora “contro” più che “per”) non sanno fissare davvero per il futuro, programmaticamente, l’ineliminabilità del pluralismo e del pensiero divergente. Tale elemento, centrale per una vera rivoluzione, è affatto scontato. Porsi questo problema è difficile per quanti identificano nella rivoluzione solo il superamento dell’esistente e rimandano fideisticamente al “dopo” la discussione sui nuovi parametri della democrazia. Del resto, sbaglierebbe i suoi conti chi pensasse che è solo la radicalità degli slogan e dei comportamenti esteriori (nella quale sconfitti ed orfani cercano l’ultima spiaggia dell’identità) il veicolo della ripresa di protagonismo: all’alba del Terzo Millennio contano finalmente molto di più la genuina radicalità delle idee e del progetto. Soprattutto nei paesi del “primo mondo”, la politica dello scontro per lo scontro è una deviazione involutiva e del tutto simbolica dell’immaginario e della (molto più complessa) realtà del conflitto sociale.

Essere rivoluzionari è elemento d’identità, ma soprattutto nella proposta. Per due motivi. In primis perché per affermare la necessità del cambiamento bisogna saper dimostrare di poter e saper ottenere dei risultati. Secondariamente perché c’è bisogno di un’inversione della prassi.

L’antipolitica non è una novità: negare l’autonomia della politica lo è, ovvero dimostrare di saper davvero subordinare la politica all’etica. La qual cosa prevede anche delle capacità di studio ed osservazione che non stanno certo nella semplice negazione del ragionamento politico. Occorre la

capacità di mettere in atto il gradualismo rivoluzionario, proporre sistemi di riorganizzazione ed aggregazione, di autogestione e prima liberazione (anche culturale), immediatamente praticabili dalla (e nella) società civile. L’anarchismo deve imparare ad “uscire dal guscio” per capire che

l’egemonia delle idee non è egemonia politica nel senso negativo del termine – ovvero l’imposizione di eterodirezioni che sono solo una variabile del potere – ed occorre saperla praticare.

Allo stesso modo, non è l’egemonia dei fatti da criticare, vanno bensì esclusi quegli atti che tendono solo a stabilire l’egemonia di un qualche gruppo dirigente in quanto tale (prassi leninista).

La radicalità non è dunque elemento meramente formale, bensì questione di sostanza e non può prescindere dalla volontà (chiaramente espressa e comprensibile) di farsi intendere e capire, nell’auspicato (e finalmente salutare) sacrificio dell’autocompiacimento (autoreferenziale ed elitario) del ghetto ideologico e/o impolitico. E’ il coraggio di proporre elementi nuovi e sperimentali, elementi non graditi dagli schemi di qualunque ortodossia. E’ necessario unire protesta e proposta, promuovere un agire condiviso e plurale, capace di conquistare spazi, dosare e calibrare l’azione perché sia condivisa e condivisibile: non per “adattamento”, ma per preparare elementi più forti e decisivi di cambiamento. La radicalità non è nella rottura estemporanea, nella marginalità, nell’autocompiacimento dell’appartenenza ad una specie “altra” serrata in un recinto, ma nella determinazione (e quindi nella preparazione) di un cambiamento qualitativamente alto (etico): radicale, appunto.

Viceversa, nei “movimenti”, spesso l’assenza di un evidente progetto libertario si sposa con l’incapacità di coniugare strutturalmente la libertà con la democrazia economica, e questo spiana la strada al liberismo arrembante, i cui fautori hanno buon gioco nel “parificare” ogni movimento solidarista ed egualitario ai rottami del comunismo dittatoriale statolatra. Il cortocircuito è dato sempre dallo stesso elemento: un progetto sociale chiuso, autoritario ed economicista, che ancora contempla l’uso a tempo indeterminato dello stato (per di più totalitario) e contiene quindi in nuce i germi del fallimento e del recupero in una (già ben sperimentata) spirale dalla quale il determinismo del “programma comunista” impedisce l’uscita, trascinando con sé nel baratro l’intero movimento d’emancipazione.

Natura e funzione dello stato: il marxismo come ideologia dell’intellighènzia tecnoburocratica

La questione dello stato resta centrale. Elementi ormai acclarati, come il fatto che fu lo stato a dare origine alle classi (e non viceversa, come pretendeva Marx), non sono ancora per nulla patrimonio della sinistra. Il sociologo Luciano Gallino accredita oggi le tesi di Gumplowicz (1905), Oppenheimer (1928), Darlington (1969), secondo le quali le classi sociali hanno origine alla “conquista violenta di un paese da parte di un popolo straniero, o alla costituzione forzata di un’organizzazione statale. (…) In molti paesi all’origine della divisione in classi sociali v’è un’espansione di tipo coloniale, da parte non soltanto della razza bianca ma anche dei cinesi, degli indiani, dei malesi, degli arabi e di varie stirpi africane, a spese di locali popoli primitivi”. Berneri, confortato dalla posizione anarchica, era della stessa idea: “Gli anarchici si differenziano dai  marxisti nel considerare lo Stato non come un organo interclassista bensì come un organo di classe. Secondo Marx-Engels, lo Stato sarebbe sorto quando già si erano formate le classi. Questa  concezione, che costituisce un ritorno alla filosofia del diritto naturale di Hobbes, è respinta dagli anarchici, che considerano il potere politico come il generatore principale delle classi, e da questa concezione storica inducono che la distruzione dello Stato è la conditio sine qua non dell’estinzione del capitalismo”. Il lodigiano segnalava – citandolo – che persino secondo il socialista Labriola, lo studio scientifico della genesi del capitalismo: “conferisce un carattere di realismo veramente insospettato alle tesi anarchistiche sull’abolizione dello Stato. Sembra infatti assai più probabile l’estinzione del capitalismo per effetto dell’estinzione dello Stato, che non l’estinzione dello Stato per effetto dell’estinzione del capitalismo”.

Berneri non contesta tanto l’analisi economica di Marx, quanto quella politica, denunciandone l’astrattezza idealistica che fa da brodo di coltura per la creazione di nuove forme di dominio, perché lo stato, come già affermava Bakunin, è un apparato che non può smentire se stesso. La vera “utopia” negativa sta quindi nella convinzione che la statualità possa essere utilizzata per poi praticamente “estinguersi motu proprio” ed il vero “revisionismo” (presente in nuce nel marxismo) sta nell’affermare tale possibilità. La sinistra tardo-comunista guarda invece ancora attonita il capitalismo di stato cinese e – dopo analoga fine per tutto il restante socialismo “surreale” – non sa far altro che balbettare giaculatorie sul presunto “tradimento” degli ideali di Mao (quindi non muove una paglia per il Tibet ed il Darfur: eppure già la crisi del sistema sovietico avrebbe dovuto insegnare che lo statalismo è parente strettissimo dell’imperialismo e dell’etnocentrismo).

Berneri anticipa la denuncia di un vero e proprio collettivismo burocratico, sul tipo di quello analizzato a cominciare dal 1937 da Bruno Rizzi, quando le dinamiche del sistema bolscevico erano già ben evidenti. L’ancora ignoto Rizzi – transfuga della IV Internazionale in polemica diretta con Trotskij che non gli perdonava la definizione di capitalismo di stato per il regime sovietico – è l’unico in campo marxista ad aver identificato la vera natura dell’URSS. Si parla di quella tecnoburocrazia poi chiaramente identificata in campo anarchico con lo studio degli anni ‘70 sui nuovi padroni (intellighènzia dell’apparato statale e di partito ed aristocrazia operaia).

Nessuna scuola che si richiami al marxismo – neanche quelle più critiche verso il “socialismo reale” – ha mai riconosciuto l’esistenza del capitalismo di stato: una bestemmia per i seguaci dell’autore de Il capitale. Ma questa chiusura ideologica impedisce, ad esempio, di capire le dinamiche delle grandi privatizzazioni. Ad Ovest, la guerra fredda aveva favorito il welfare e riforme di struttura che hanno consentito lo sviluppo del potere dei boiardi di stato, ceto moltiplicato peraltro dallo statalismo fascista e delle socialdemocrazie. Caduto il muro e scongiurato il “pericolo comunista”, la marcia è stata invertita facendo rotta sul liberismo totale e la cosa pubblica è diventata business, con un occhio di riguardo per i burocrati che la gestivano.

Esattamente come ad Est, ove le strutture economiche e di servizio di quelli che furono “stati socialisti” sono oggi proprietà dei “camaleonti” che già le dirigevano e le sfruttavano “in nome e per conto di tutti”.

 

L’etnocentrismo marxista

Marx credette che il raggiungimento di un’organizzazione statuale fosse sinonimo di sviluppo e relegò – nella fase dell’etnocentrismo occidentale cresciuta all’ombra dell’industrialismo – le cosiddette realtà “tribali” ad un ruolo secondario ed arcaico, intanto perché solo con lo stato si produrrebbe oltre la quota determinata dai bisogni primari. Ma, discutibilità del dato a parte – le popolazioni “primitive” producono anche beni per soddisfare le pulsioni ludiche e lo scambio – è nella diversa cultura e qualità della vita che va ricercato il loro “topos” sociale: nel collettivismo, nella gestione comunitaria e nella riduzione del potere dei “capi” al solo momento della difesa. L’etnologia libertaria è di tutto rispetto, ma quanti conoscono La società contro lo stato (Feltrinelli, 1977) di Pierre Clastres? Eppure la concezione etnocentrica deriva da quella antropocentrica. Oggi denunciamo, con Bookchin, il presunto diritto al dominio totale dell’essere umano sulla natura come retaggio della concezione aristotelica e della Bibbia (o, se si preferisce, della sua “vulgata”). Tale autorità assoluta è affatto scontata nella filosofia dell’uomo in natura e certamente prelude al dominio di gruppi umani su propri pari, giustificandone la reificazione, per analogia, al ruolo dell’animale, considerato, più ancora che subordinato, quale “cosa” senza spirito senziente.

In sostanza, la subordinazione assoluta della natura incardina un precedente, dal quale, gradualmente, si passa con facilità all’etnocentrismo, allo schiavismo, al razzismo. A tali conclusioni era già giunto, peraltro, e nell’800, Elisée Reclus: “C’è tanta differenza fra il cadavere di un bue e quello di un uomo? L’abbattimento del primo facilita la distruzione del secondo”. Oggi possiamo affermare a ragion veduta, con Adorno, che: “Dire: «Tanto è solo un cane»“, non è che il primo passo per dire: “«Tanto è solo un ebreo»“. D’altronde, Reclus può ben dirsi un precursore del pensiero ecologico, avendo affermato per primo che: “L’uomo è la natura che prende coscienza di se stessa”.

Non può sfuggire come lo sfruttamento smisurato delle materie prime e delle risorse (rinnovabili e non), nonché il quasi totale disinteresse per le leggi di natura – una congiuntura che sta portando il pianeta al collasso – abbiano molto a che fare con tale arroganza antropocentrica. La ricerca di Marx, indirizzata prevalentemente verso la “struttura” economica produttiva, intesa quale volano di sviluppo del proletariato (la futura “classe egemone”), ha lasciato in ombra elementi fondamentali e di cultura, a torto ritenuti “sovrastrutturali”, facendo del marxismo un’ideologia collaterale e del tutto compatibile con lo sviluppo (ed il sottosviluppo) capitalistico e industrialista.

La deviazione ha poi raggiunto il suo apice nell’operaiolatria (ben denunciata da Berneri) e nel culto del produttivismo (stakanovismo). La sinistra ha così accumulato anni luce di ritardo in un campo strategico dell’analisi sociale. Un ritardo da recuperare in fretta, se si vuole che i movimenti di liberazione espressi dal Terzo Mondo – laddove non siano segnati da tendenze retrive e passatiste come l’integralismo islamico – vengano valorizzati per il contenuto di “novità” ecologica ed ecosociale che rappresentano, anziché spinti a terminare il loro percorso ancora una volta nell’imbuto del neo-stalinismo marxista leninista dal quale sono sempre corteggiati ed infiltrati. Anche rispetto alla questione degli immigrati, non esiste solo l’arrogante pretesa a matrice liberista di un’assoluta “integrazione” delle culture altre, bensì pure il rischio di una semplicistica omologazione agli

stereotipi marxiani.

Contro il dogmatismo positivista

Poi sopravvive un dogmatismo positivista. Berneri insegna a diffidare del conformismo di sinistra e della politica del ghetto: occorre invece una concezione etica del pensiero. La coerenza con la propria coscienza è tutt’uno con il dovere di sperimentare in pratica la giustezza e l’applicabilità dei postulati di principio. Quello che conta non è l’omologazione al “branco”

(foss’anche quello dell’ “élite” del politically correct), bensì l’attitudine all’indipendenza ed alla libertà: “Non è dunque la cosa che si pensa che costituisce la libertà, ma il modo con il quale la si pensa”. Tutti gli integralismi sono un pericolo, e così anche le “religioni” della ratio e della scienza.

Perciò Berneri, prima di Feyerabend, lavorò ad una nuova epistemologia anarchica, affermando: “Essere irrazionalista (…) non vuol dire essere un sostenitore dell’irrazionale bensì essere un diffidente nei riguardi delle verità di ragione”. La stessa posizione la ebbe rispetto al rapporto fra politica, scienza e religione: “L’anticlericalismo assume troppo spesso il carattere di Inquisizione… razionalista. Un anticlericalismo illiberale, qualunque sia la colorazione avanguardista, è fascista. (…) Il sovversivismo e il razionalismo demomassonico furono in Italia clericalmente anticlericali”.

Quanto alla liceità dei culti, per l’appunto autodefinendosi agnostico, si espresse chiaramente a favore della totale libertà religiosa, come diritto da garantire e non da sopportare.

Contro lo scetticismo

Berneri escluse dall’anarchismo lo scetticismo e l’indifferentismo: “Credere di possedere la verità o considerarla come inaccessibile è un bivio che non può esistere per l’anarchico irrazionalista. (…) Lo scettico non è che la caricatura o il cadavere vivente dell’irrazionalista. (…) Ogni volta che lo scettico vuole illustrare lo scetticismo diventa un razionalista sentenzioso, sillogistico, aprioristico”. E giunse all’aperta denuncia dell’estremismo esibizionista e massimalista: “I fascisti che bruciano i giornali di opposizione sono, per lo più, quegli stessi sovversivi che non leggevano che i giornali del proprio partito e ci giuravano sopra. I fascisti che fanno a pezzi le bandiere rosse sono, per lo più, quelli che non volevano che i preti sonassero le campane, che disturbavano le processioni, che offendevano gli ufficiali, ecc. Là dove l’ineducazione sovversiva era maggiore il fascismo s’è sviluppato prima e più largamente. Perché l’intolleranza della violenza spicciola è il portato della miseria e della grettezza intellettuale e di una scarsa e deviata sensibilità morale. (…) Anche riguardo alla tolleranza il giusto morale e l’utile politico concordano. (…) L’anarchia è la filosofia della tolleranza”. Con una precisazione: “La tolleranza, del resto, non implica scettica valutazione della vita; dubbio sui fini e sui metodi. E non giustifica il ritrarsi egoistico dall’opera comune. Né implica tolstoiana rinuncia alla violenza”.

L’ignoranza di una certa sinistra

E’ sempre l’ignoranza il male peggiore. Ma ciò non vale solo quando ci s’accorge che per questo le destre (Berlusconi docet!) divengono maggioritarie: ci si dovrebbe preoccupare anche di una sinistra divenuta orfana di se stessa a forza di usare stereotipi oltremodo sconfitti dalla storia. Il fatto che Berneri per la stragrande maggioranza della sinistra sia quasi sconosciuto nonostante abbia lo stesso spessore di Gramsci, spiega molto in proposito. Stesso dicasi per la rivoluzione iberica, il fenomeno d’autogestione di massa più interessante del ‘900, già poco studiato in Spagna e quasi per nulla all’estero.

Oggi si parla tanto di Zapatero ma, come al solito, nessuno indaga sul pregresso. Nel ‘36 i veri “riformisti” erano i rivoluzionari. Nonostante tutto, i libertari hanno segnato la storia senza mai venir meno al pluralismo politico ed alla democrazia sostanziale, ancorché nel mezzo di una guerra civile e di un forte scontro interno. Con ben quattro dicasteri ricoperti dagli anarchici furono possibili: la prima donna al mondo divenuta ministro (Federica Montseny); la prima legge in assoluto sull’aborto, da lei promulgata dal ministero della Sanità e Assistenza Sociale vent’anni dopo la rivoluzione d’Ottobre; la completa parità fra i generi proprio con un decreto  dell’anarchico García Oliver, ministro di Grazia e Giustizia (quando nella stragrande maggioranza delle rinomate “democrazie compiute”, le suffragette non avevano ancora ottenuto neppure il diritto di voto); il riconoscimento legale della socializzazione di fabbriche e campagne. E poi una piena riforma sanitaria, la parificazione/integrazione fra lavoro manuale ed intellettuale, la speciale attenzione all’educazione integrale, laica e non direttiva.

Il socialismo riprenderà forza e valore solo quando saprà tornare alle proprie radici che, soprattutto nei paesi latini, sono umanitarie e libertarie. Il pozzo non cala e non cresce e lo schema è sempre lo stesso.

L’eguaglianza senza la libertà non è possibile: verrà automaticamente negata anche (e soprattutto) fosse “ottenuta” tramite la dittatura. La strutturazione autoritaria porta alla creazione di una nuova classe di sfruttatori che possiede gli strumenti culturali – affatto “sovrastrutturali” e la cui “nazionalizzazione” non è possibile – atti a gestire ad usum delphini il “bene comune”, e quelli coercitivi forniti dalla dittatura del partito unico (indiscutibile casta dominante). All’equità non si potrà mai pervenire se non con un processo unitario, complesso e paritetico fra diritti civili e diritti sociali.

La libertà senza l’eguaglianza non esiste, perché le condizioni economiche fra gli uomini sono dispari. Non può esistere libertà nella miseria: le condizioni – di partenza e permanenti – avvantaggiano l’uno e condannano l’altro. Non si può giocare una partita di libertà con i dadi truccati del liberismo economico, delle sole leggi di mercato deificate e deregolamentate.

L’anarchismo è per l’eguaglianza nella libertà, senza sconti, veramente senza se e senza ma o inutili e controproducenti machiavellismi. La sua alterità – si sarebbe tentati di dire, in burla del marxismo, già “scientificamente provata” alla luce degli esiti catastrofici che il potere bolscevico aveva immediatamente prodotto ancora nel 1921 – è soprattutto etica. Però, perché l’etica domini la politica, occorre realizzare ciò che Berneri tentò senza riuscirvi: un vero rinnovamento (plurale ed inclusivo) del movimento libertario, ovvero la (ri)nascita di un anarchismo politico. Per dirla precisamente con lui: “L’anarchismo deve essere vasto nelle sue concezioni, audace, incontentabile. Se vuol vivere, adempiendo la sua missione d’avanguardia, deve differenziarsi e conservare alta la sua bandiera anche se questo può isolarlo nella ristretta cerchia dei suoi”.

 

Berneri in pillole: alcuni cenni biografici

 

Berneri è uno degli elementi principali del nuovo socialismo italiano dei primi del ‘900 (nasce nell’897). Fa quindi parte della medesima generazione di Gobetti, dei fratelli Rosselli, di E. Rossi, di A. Gramsci (maggiore di circa 6 anni) e di tutti questi fu stimato interlocutore. La sua produzione intellettuale non ha certo nulla da invidiare agli altri. Solo Gramsci sviluppa la propria produzione su di un orizzonte che, se è altrettanto vasto, ha – soprattutto a causa della lunga prigionia – occasione di ordinare con maggiore sistematicità. Berneri interloquisce inoltre con giovani (come Tasca, Pertini, Bordiga) e “vecchi” del socialismo, quali Malatesta, Salvemini, Turati, Fabbri.

Eppure è quasi sconosciuto ai più, complice il mondo accademico ed in primis la storiografia di sinistra. Non ha neppure una strada che lo ricordi. Con un’emblematica eccezione. Si legga Gianni Furlotti (1) (ogni commento è superfluo): “Appena fuori Reggio, sulla via Emilia che porta a Parma, il Rio Modolena è poco più di un fosso. La sua riva sinistra che parte dalla grande strada è un argine in terra battuta dai bordi erbosi che s’inoltra sinuoso nella campagna. E’ un sentiero che porta in nessun posto, e il Comune di Reggio una ventina d’anni or sono, l’ ha intitolato a Camillo Berneri. Due cose furono sùbito chiare: quell’argine non sarebbe mai assunto

a dignità di strada, e che sarebbe stata l’ultima tappa dell’esilio di Camillo. L’antifascista anarchico più estradato d’Europa”.

Berneri nasce a Lodi, ma sviluppa l’adolescenza fra Reggio Emilia, Arezzo e Firenze. Gira molto l’Italia sia per la sua professione d’insegnante di scuola superiore, che per l’impegno sociale che lo attrae sin da giovanissimo.

Viene alla politica quindicenne, aderendo al socialismo umanitario di Camillo Prampolini. E’ l’unico studente di Reggio Emilia nel socialismo ed uno dei pochissimi nel Paese. Collabora immediatamente a molte testate del partito: da “L’Avanguardia”, di Roma, organo della Federazione Giovanile Socialista Italiana, all’emiliana “La Giustizia” (domenicale), diretta dallo stesso leader reggiano, a “L’Università Popolare” di Luigi Molinari e “La Folla” di Milano, al foglio razionalista “La Luce” di Novara. Diviene segretario provinciale e membro del Comitato Centrale della Federazione Giovanile Socialista Italiana. Svolge soprattutto propaganda antiinterventista e subisce le prime aggressioni. Conosce un’altra grande figura, Torquato Gobbi (2), e – giudicando inadeguata di fronte alla guerra la politica del “non aderire e non sabotare” – passa nel 1916 all’anarchismo.

Berneri segna la svolta con una toccante lettera aperta (3) rivolta ai giovani socialisti. A testimonianza di un clima di grande correttezza che, a dispetto di tutto, pur dopo la rottura assicurò rispetto e stima reciproci – nonché dell’alto senso democratico che pervadeva la Federazione Socialista di Reggio Emilia – sarà utile riportare le seguenti considerazioni di Berneri: “Poiché vi era la consuetudine di leggere all’assemblea le lettere di dimissioni pensai di farne una che servisse alla propaganda. La spedii un venerdì, e la sera di poi mentre passeggiavo sotto i portici della Via Emilia i socialisti del circolo mi richiamarono che era l’ora della riunione (ci riunivamo ogni sabato). Io dissi fra me e me: Non hanno ricevuto le mie dimissioni. E risposi loro, non senza un po’ di batticuore: ‘Ma non avete avuta la mia lettera?’. ‘Si, mi risposero, l’abbiamo avuta, ma vieni lo stesso’. Allora andai. Ed ebbi una delle più vive emozioni della mia vita: quella di essere chiamato a presiedere l’ultima riunione alla quale partecipavo. Fu un gesto di simpatia del quale soltanto più tardi vidi l’enorme valore di educazione politica” (4).

Anche l’atteggiamento di Prampolini fu correttissimo: “ ‘Dunque, ci lasci’ egli disse al dimissionario, con tristezza; e dopo una pausa, soggiunse: ‘Ma resta sempre nel socialismo’ “ (5).

Ma Berneri non vede nell’anarchismo solo il veicolo per una lotta più determinata, bensì un movimento che in potenza può fornire risposte politiche maggiormente appropriate per un cambiamento del mondo qui ed ora.

E’ così, dopo esser stato cacciato per “idee sovversive” ed insofferenza verso il militarismo dall’Accademia allievi ufficiali di Modena e spedito al fronte nel 1918 sotto scorta dei carabinieri, che Berneri inizia la sua “dissacrante” riflessione libertaria.

Nel frattempo, viene deferito due volte al Tribunale di guerra, anche perché arrestato alla Casa del Popolo di Sestri Ponente durante lo stato d’assedio proclamato per i moti di Torino. Nel 1919, ancora sotto le armi, è inviato al confino a Pianosa in occasione dello sciopero generale del mese di luglio. Liberato, però ancora coscritto, continua il lavoro. Racconta Luce Fabbri: “Nel 1920, erano le dieci di sera, e parecchi compagni erano riuniti da me, quando sentimmo bussare alla porta ed una voce che mi chiamava che era affatto sconosciuta. Era lui. (…) Berneri passava la giornata alla caserma e la notte a lavorare con la penna, studiando e scrivendo per ‘Umanità Nova’” (6). Partecipa direttamente all’occupazione delle fabbriche, ai moti antifascisti e s’impegna nella preparazione armata delle squadre operaie, quale membro di una speciale commissione.

Berneri è presente da subito nei momenti topici del Movimento, dal Congresso di fondazione della Unione Anarchica Italiana (Ancona, aprile 1919), alla creazione del suo organo più importante, il quotidiano “Umanità Nova” (1920). S’impegna sin dal primo numero (Roma, 1.1.1924), con Errico Malatesta (7), Luigi Fabbri (8), Carlo Molaschi e Carlo Frigerio, nella principale rivista teorica libertaria: “Pensiero e Volontà”. Cionondimeno allarga sempre i propri orizzonti, continuando a partecipare al dibattito pubblico sui giornali socialisti e spaziando ovunque. Berneri presta la sua penna anche a “Conscientia” (9), rivista protestante, nonché ad altri periodicidichiaratamente non anarchici come “Pagine Libere” di Pistoia, “Humanitas” di Bari, “I nostri quaderni”, di Lanciano, l’ “Avanti!” di Milano e “La Critica Politica” di Roma. Studente universitario a Firenze, frequenta i più significativi gruppi intellettuali della città.

E’ influenzato da “La Voce”-”Lacerba” di Prezzolini-Papini (10). Per i rapporti con il primo, rimane il ricordo (molto postumo) dedicato a Berneri all’interno di Prezzolini alla finestra: “(…) appariva nella conversazione di una cultura non comune, come poi mi son accorto dalle sue citazioni negli scritti che ho letto di lui” (11).

Però Berneri è attratto soprattutto da “L’Unità” (Firenze-Roma 1911-20), settimanale creato da Salvemini (uno dei “padri nobili” del liberalsocialismo italiano, nel 1929 fondatore con i fratelli Rosselli, Lussu, Nitti ed altri, della formazione politica Giustizia e Libertà). Con questi stabilirà, come vedremo, una relazione stretta e duratura (sarà il docente più apprezzato e più vicino negli studi accademici). E’ proprio Salvemini a testimoniare che: “Quando Carlo e Nello Rosselli ed Ernesto Rossi fondarono un gruppo di studi sociali, Berneri fu uno degli assidui” (12).

Berneri collaborerà quindi al “forum” antifascista raccolto intorno ad uno dei primissimi fogli clandestini italiani, il “Non mollare” (1925). Parallela all’impegno culturale, la sua attività militante non subisce mai pause, è anzi sempre più febbrile. Come scrive lui stesso: “In quel tempo ero membro del Consiglio Nazionale dell’Unione Anarchica Italiana e della Federazione Giovanile Rivoluzionaria. Ebbi qualche influenza, pur non essendo nei quadri, nel campo degli Arditi del Popolo, ed entrai nell’ ‘Italia Libera’ (sezione fiorentina) partecipando alla sua attività clandestina. Dal 1924 al 1926 lavorai illegalmente (diffusione stampa antifascista, ecc.), partecipando nell’inverno ‘26 al convegno anarchico delle Marche, del quale fui delegato al convegno nazionale dell’Unione Anarchica Italiana” (13).

Una grande curiosità intellettuale

La curiosità intellettuale del lodigiano non ha praticamente confine. Per questo, di lui si potrà dire: “Contenuta nell’arco temporale di un ventennio, la vicenda politica e intellettuale di Camillo Berneri si rivela, in misura in cui viene recuperata negli archivi, prodigiosa di opere. E’ impressionante la mole e la varietà degli scritti; vasto il solco aperto nella problematica ideale e politica di quel periodo; unica e pressoché isolata figura nel grande affresco che raffigura la battaglia libertaria nell’Europa dell’interguerra” (14).

Persino in campo psicanalitico, singolarmente, produsse almeno due opere molto significative per l’epoca: “A Firenze, oltre che con Salvemini, Berneri aveva lavorato con Enzo Bonaventura, autore di un manuale divulgativo sul pensiero freudiano. Ebreo (…), Bonaventura tenne a Firenze, nel primo dopoguerra, un corso sulla psicanalisi che vide Berneri tra i più (…) attenti ascoltatori. E’ mescolando il ricordo delle conversazioni con Bonaventura, insieme alla lettura folgorante dell’edizione francese, curata da Marie Bonaparte, del Ricordo d’infanzia di Leonardo Da Vinci, che l’anarchico inizia a riflettere sull’opera freudiana, sulla libido e sul réfoulement. (…) Ai ricordi d’infanzia di Leonardo è dedicato un apposito studio. Per tutte queste ragioni Le Juif antisémite (15) va inserito nel dossier di Michel David, su La psicoanalisi nella cultura italiana: la figura di Berneri costituisce un capitolo importante nella storia della prima, travagliata penetrazione di  Freud in Italia”. Così Roberto Cavaglion, autore di studi molto felici su Berneri ed il mondo ebraico (16). Per lui: “…Berneri (va) considerato oggi un intellettuale del nostro Novecento tra i più attenti al problema ebraico, ipersensibile dinnanzi ai segni premonitori di una campagna razziale imminente, ma da nessuno, escluso appunto lui, avvertita come tale. (…) Ma è comunque un dato ancora sconosciuto ai più. Nessun minimo cenno a Berneri, e al suo libro uscito in edizione francese presso una casa editrice assai nota nel mondo del fuoruscitismo (17), ritroviamo in alcuna opera dedicata alla storia degli ebrei; né è mai stata fatta, in sede di ricerca storiografica, una indagine a tappeto sulla stampa periodica anarchica italiana, da sempre sensibile alla questione. Né infine Le Juif antisémite è ricordato se non di sfuggita nella memorialistica dell’antifascismo in Francia. Qualche significativo cenno a Berneri come figura dell’anarchismo troviamo adesso nel volume collettivo AAVV, P. Gobetti e la Francia, a cura del Centro Studi Piero Gobetti di Torino, Milano, F. Angeli, 1985, pp. 43 e 53. Sulle ragioni del silenzio che avvolge (…) questo libro (…) meriterebbe fare un discorso a parte” (18). Cavaglion cita la (tuttora) validissima ultima esortazione contenuta ne L’ebreo antisemita: “A noi rimane il piacere di poter rileggere di tanto in tanto il suo appello finale, rimeditando sul suo estremo ‘Ascolta, Israele!’ di sapore bebeliano (l’antisemitismo come socialismo degli imbecilli) (…)” (19).

Stesso silenzio sulla berneriana, brillantissima “psicologia di un dittatore” (20), intitolata Mussolini grande attore (21). Va segnalato, in proposito, quanto ha scoperto Pier Carlo Masini: “(…) fu sulla base dell’indirizzo  iennese di S. Freud, trovato da un informatore nella sua agenda, che la polizia fascista condusse l’inchiesta sulla Scuola psico-analitica e sulle sue propaggini in Italia. Quando saranno aperti gli archivi di Freud, probabilmente ne uscirà fuori anche la lettera con cui Berneri accompagnava l’invio dell’opuscolo Le Juif antisémite al fondatore della psico-analisi (…)” (22).

Berneri, con questo libro, ci ha regalato un testo politico redatto con un tempismo storico che non ha pari. Solo un ebreo tedesco, Theodor Lessing, aveva appena scritto un pamphlet (23) simile, cosa che pagò con la vita, nel 1933, raggiunto dai sicari dei servizi segreti nazisti fino a Marienbad, a dimostrazione della particolare sensibilità di Hitler sull’argomento (si ricordi il contenzioso aperto sulle voci relative ad una possibile ascendenza “non ariana” del “fuhrer”).

Già dalle prime battute ci si accorge che Berneri non è un personaggio “qualunque”. Eppure è rimasto particolarmente sconosciuto al “grande pubblico”. La verità è che a Berneri è stata destinata la sorte da sempre riservata all’anarchismo, contro il quale la congiura del silenzio ha operato ad ogni “latitudine politica” o “longitudine storica”. Una vergogna che, già prima dell’esperienza spagnola (peraltro senza citare neppure Messico, Italia, Francia, Portogallo, Argentina, Brasile, Svezia, Cina, Giappone, Corea…), denunciò chiaramente anche il lodigiano stesso: “Il ruolo degli anarchici nella rivoluzione russa, in quella germanica e in quella ungherese è materia, quando lo è, di paragrafo, mentre lo sarebbe per più di un capitolo: superficialità e tendenziosità che si rivelano in tutta la storiografia contemporanea più in voga (…)” (24).

Gaetano Salvemini testimoniò il seguente ricordo di Berneri (che con lui si laureò): “Aveva il gusto dei fatti precisi. In lui l’immaginazione, disciolta da ogni legame col presente, in fatto di possibilità sociali, si associava a una cura meticolosa per i particolari immediati nello studio e nella pratica di ogni giorno. Si interessava di tutto con avidità insaziabile. Mentre molti anarchici sono come le case le cui finestre sulla strada sono tutte murate (a dire il vero non sono i soli!) lui teneva aperte tutte le finestre” (25).

Berneri si laureò in filosofia il 27 novembre 1922, con tesi ad indirizzo pedagogico (sulle riforme scolastiche in Piemonte intorno al 1848) (26).

Negatagli per veto prefettizio nell’autunno 1925, avendo rifiutato di giurare fedeltà al regime (27), la cattedra di Liceo cui – dopo aver abitato ad Arezzo (città nella quale nel ‘18 nacque la primogenita Maria Luisa) ed ancora a Firenze (ove l’anno dopo vide la luce l’altra figlia, Giliana); dopo aver insegnato anche a Montepulciano, Cortona, Bellagio, Milano e Macerata – aveva diritto, ottenne infine solo un incarico meno remunerato presso l’Istituto Tecnico di Camerino. Ormai era chiaro che non lo avrebbero lasciato più vivere.

Esilio

Sempre segnalato e seguito dalla polizia, aggredito dai picchiatori in orbace, Berneri e famiglia (28) ripararono in Francia nell’aprile 1926. Qui il nostro attraversò periodi di vera e propria indigenza e non esitò a guadagnarsi da vivere esercitando qualsiasi lavoro, anche quello dell’edile.

Comincia così, dopo un breve periodo di clandestinità, il suo “esilio senza requie” (29), durante il quale gli affibbiano il (ben meritato) titolo di “italiano più espulso d’Europa” (30). Partecipa in prima persona  all’antifascismo d’oltralpe e si fa promotore di iniziative ove mette a rischio la propria vita ed è fra gli “osservati speciali” dell’OVRA. La tentacolare polizia segreta del regime, che imbastisce a suo danno più d’una montatura, facendolo sbattere in galera ed espellere anche oltralpe. E’ quindi al centro di una grande campagna per la riammissione dal Belgio e dal Lussemburgo in Francia. Viene braccato anche in Svizzera, Olanda e Germania, sempre

combattendo, con la critica e con i fatti, il tiepidume dell’ “ufficialità” del “fuoruscitismo” antifascista, il presenzialismo, l’attendismo ed il compromesso. Intanto colleziona condanne contumaci e nuove denunce ed istruttorie in Italia.

Berneri spazia, è presente e considerato in tutti i dibattiti, anche se questo nel mondo anarchico è poco recepito ed ancor meno compreso: “Per conto mio, ho collaborato alla stampa socialista, a quella repubblicana, a quella protestante così come ho sempre accettato di parlare per invito di partiti avversari, a condizione di esser del tutto libero di scrivere o di parlare. Questo mio modo di vedere ha creato leggende, delle quali non mi sono mai curato” (31).

All’interno del movimento libertario, articoli e saggi del lodigiano sono conosciuti in Europa e nelle due Americhe già dal 1926 al 1932, ben prima del suo arrivo in Spagna. Collabora a “Il Monito”, “La Lotta Umana” e “La Revue Anarchiste” di Parigi, a “L’en dehors” di Orleans, a “Le Reveil” di Ginevra e “Vogliamo” di Lugano, a “Guerra di Classe” di Bruxelles, a “La Revista Blanca” di Barcellona e ad “Estudios” di Valencia, ad “Arbetaren” di Stoccolma, a “Der Syndikalist” di Berlino, così come a “Studi Sociali” di Montevideo; “L’Adunata dei Refrattari”, New York; “Germinal”, Chicago (Illinois); “Il Pensiero”, “Antorcha”, “Niervo”, “La Protesta” e relativo supplemento, di Buenos Aires.

Lo scontro con il fascismo e la critica del massimalismo e della demagogia “di sinistra”

L’amicizia con Carlo Rosselli è stata determinante per Berneri. Come detto, i due s’erano legati dal tempo della condivisa esperienza di studio all’Università di Firenze presso la cattedra di Gaetano Salvemini, nel corso della quale avevano maturato un’intransigente avversione per ogni totalitarismo ed uno smisurato amore per la giustizia sociale.

Entrambi combatterono il fascismo con tutte le loro forze, ma parimenti non furono certo teneri nel giudizio sulla follia di massa che aveva sconvolto l’Italia, segnalando le responsabilità del Paese reale.

Rosselli nel 1930 ebbe modo di scrivere: “In una certa misura il fascismo è stato l’autobiografia di una nazione che rinuncia alla lotta politica, che ha il culto della unanimità, che fugge l’eresia, che sogna il trionfo del facile, della fiducia, dell’entusiasmo. Lottare contro il fascismo non significa dunque lottare solo contro una reazione di classe feroce e cieca, ma anche contro una certa mentalità, una sensibilità, contro delle tradizioni che sono patrimonio, purtroppo inconsapevole, di larghe correnti popolari” (32).

Berneri, intorno alla metà dello stesso decennio, aggiunse: “Quando un avventuriero come Mussolini può giungere al potere, vuol dire che il paese non è né sano né maturo. Bisogna che gli italiani si sbarazzino di Mussolini, ma bisogna anche che si sbarazzino dei difetti che hanno permesso la vittoria del fascismo” (33). Oppure: “Bisogna abbattere il regime fascista, ma bisogna sanare l’Italia della mistica fascista, che non è che una manifestazione patogena della sifilide politica degli italiani: il facilonismo retorico” (34). Ma già nel 1929 aveva formulato un vero e proprio “vaticinio” sul rapporto fra i connazionali ed il regime, preconizzando le condizioni della

caduta dello stesso, cosa che avverrà solo a causa dei rovesci della guerra nel 1943: “Il popolo italiano non è ancora un branco di schiavi, non è materia morta. Ma non è neppure un popolo uso a libertà e di libertà geloso. Non è l’asino paziente, ma non è il leone incatenato. La rivolta non sarà morale. Sarà lo scoppio di un generale malcontento egoistico, di  una esasperazione di ventri vuoti” (35).

Il lodigiano non ha mai amato la demagogia: “Una bella rivelazione fu per me una conferenza di Angelo Tasca, che illustrò la questione della guerra di Libia con il manuale di statistica del Colajanni alla mano. Parlare in un comizio con tanto di manuale statistico alla mano era trasferire alla piazza la serietà della scuola” (36). Per questo non lesinò critiche anche alla sinistra: “Oggi è costume ridere della retorica fascista. Ma siamo delle scimmie che ridono davanti ad uno specchio” (37).

La politica delle alleanze e la lezione storica dello scontro con i due totalitarismi

Ha scritto Pier Carlo Masini che Berneri: “(…) si sentiva vicino ai repubblicani di Critica politica, (…) trasferiva la tematica federalista all’interno del movimento operaio, fino ad allora egemonizzato dal centralismo di marca germanico-socialdemocratica e di marca russo-bolscevica

Il liberalismo di Gobetti era considerato compatibile per un’alleanza con l’anarchismo, perché “richiama a Pareto, a Einaudi, ecc. ben più che ai liberali inglesi” (40).

Carlo Rosselli, autore durante il confino nell’isola di Lipari e prima di riparare in Francia, dell’opera Socialismo liberale, fu il principale animatore di un’organizzazione politica sincretista, federalista e liberal-socialista che, soprattutto attraverso Berneri, dialogò molto con gli anarchici.

Questo portò alla realizzazione – tra alterne vicende – di una colonna mista che, inquadrata fra le forze della CNT, ebbe in Rosselli il comandante (41) ed in Berneri il commissario politico e che raggruppò, oltre ai volontari di Giustizia e Libertà, parte significativa dei duemila anarchici italiani accorsi in Spagna per combattere a fianco della Repubblica nella guerra rivoluzionaria che seguì il colpo di stato fascista del 17 luglio 1936. Va segnalato che questa milizia precorse di molto le (oggi) più famose “Brigate Internazionali” di matrice comunista. Intellettuali militanti, Berneri e Rosselli combatterono in prima linea sul fronte di Huesca. Il lodigiano venne ferito nella battaglia per la conquista di Monte Pelato (42).

Morte di Berneri
(cinque uomini, un unico destino)

L’esistenza di Berneri, Gobetti e Rosselli venne segnata da un feroce destino comune, dettato proprio dall’impatto con l’intolleranza espressa dagli assolutismi ideologici del “secolo breve”. Non uno di loro ebbe vita facile: oltre che con gli avversari, dovettero scontrarsi anche con molti “compagni di strada”. Come Berneri, pure Rosselli non era molto amato da una certa “sinistra”. Il lodigiano ne prese le difese: “ (…) sono curiosamente e cordialmente attento all’attività dei giellisti che conosco: quelli di Parigi. Io mi rifiuto di considerare «diciannovisti ritardatari» dei giovani intelligenti, colti e di animo generoso nei quali non riesco a scorgere una forma mentis mussoliniana ma nei quali vedo, invece, una ferma volontà di formazione politica, il disgusto per l’improvvisazione programmatica e per la demagogia, un’appassionata ricerca di colmare le proprie lacune di cultura e di esperienza nello studio e nel contatto con elementi dei vari partiti e movimenti dell’emigrazione antifascista” (43). A nessuno di loro – con Antonio Gramsci (che ne condivise la sorte), i maggiori intellettuali  dello antifascismo italiano di nuova generazione – venne consentito di invecchiare.

Il primo segnale fu la prematura scomparsa di Gobetti, non ancora venticinquenne, avvenuta il 15 febbraio 1926 a Parigi, dove era riparato da soli nove giorni onde ricoverarsi in clinica per i postumi del brutale pestaggio (che gli fu fatale) subito in Italia dai fascisti due anni prima (44). Rosselli (con il fratello Nello) (45) venne poi eliminato in Francia dai sicari di Mussolini il 9 giugno 1937. Con poco anticipo, nello stesso anno, Berneri – come Rosselli non ancora quarantenne – venne prelevato da casa ed assassinato a sangue freddo, nel corso delle giornate di maggio a Barcellona, da agenti staliniani sguinzagliatigli contro da Palmiro Togliatti. Com’è noto, questi era segretario in esilio del Partito Comunista d’Italia e plenipotenziario nella penisola iberica di quel Komintern del quale, con coraggio, il lodigiano aveva resi pubblici nel 1933 i vergognosi compromessi e cedimenti verso il nazismo ingiunti al Partito Comunista tedesco, indotto a tempestare “col calcio del fucile il sistema di Weimar” (46).

Erano i prodromi della campagna contro il “socialfascismo”, orchestrata da Stalin a scapito di tutti i gruppi di sinistra che non fossero direttamente controllati da Mosca. Berneri aveva denunciato che la Spagna era “posta tra due fuochi: Burgos e Mosca” (47), accomunando i totalitarismi rappresentati dalla capitale-fantoccio di Franco e da quella dell’URSS. Aveva infine “osato” difendere il POUM, piccolo ma combattivo partito comunista dissidente (spesso oggi impropriamente definito come “trotskista”), vergognosamente denigrato dagli stalinisti, alleato politico del movimento libertario.

L’altro grande giovane intellettuale italiano dell’epoca, la vera mente del comunismo marxista in questo Paese – peraltro affatto gradito a Stalin – era deceduto appena nove giorni prima a Roma solo quarantaseienne, dopo undici anni di carcere fascista e confino in Sardegna nel corso dei quali non aveva praticamente ricevuto alcuna cura. Nonostante fosse ammalato di tubercolosi e “soggetto a svenimenti prolungati e febbri altissime”, come scrisse lo stesso lodigiano nel Discorso in morte di Antonio Gramsci (48), l’ultimo che Berneri pronunciò dalla radio CNT-FAI di Catalogna, la sera del 3 maggio, solo quarantotto ore prima di venire rapito.

Fra Berneri e Gramsci esisteva un rapporto di comune, reciproco, rispetto. Il lodigiano aveva scritto interventi anche per “L’Ordine Nuovo, diretto dall’intellettuale comunista, foglio che ammirava e che teneva come esempio, unitamente a “L’Unitàdi Salvemini, per un suo progetto di rivista che non riuscì mai a realizzare.

Con Gramsci polemizzò, si scontrò sul bolscevismo e sulla concezione del primato operaio: “In Italia, la mistica industrialista di quelli dell’Ordine Nuovo mi appariva (…) come un fenomeno di reazione analogo a quello del futurismo” (49). Ma ne ebbe sempre quella grande considerazione che testimoniano i contenuti dell’elogio funebre per il “sardo tenace” (letto appunto a Radio Barcellona il giorno prima della morte): “Gramsci era un intellettuale nel senso intero della parola, troppo sovente usata abusivamente per indicare chiunque abbia fatto gli studi” (50).

Per ironia della sorte, quando venne sequestrato per essere ucciso, sul suo tavolo stava l’appello all’unità contro il franchismo che il nostro stava scrivendo onde scongiurare la guerra civile nella guerra civile, nei giorni dell’assalto dei comunisti alla centrale telefonica della capitale catalana. Centrale che dal 19 luglio ‘36 era controllata dalle milizie anarcosindacaliste, cioè da quando esse avevano inchiodato nelle caserme e costretto alla resa i militari golpisti nei due terzi della Spagna.

L’assassinio brutale ed a sangue freddo suscitò grande indignazione. Peraltro aveva fatto molto felici le spie dell’OVRA che euforicamente comunicarono a Roma che la “Ceka del partito comunista” s’era sbarazzata del più pericoloso avversario in Spagna fra le fila repubblicane.

Nenni, nel discorso d’apertura del 3° congresso del Partito Socialista in esilio denunciò con forza le responsabilità dei  comunisti staliniani: “Berneri è stato assassinato e noi dobbiamo dirlo” (Parigi, resoconto del 28 giugno 1937). Lo stesso aveva già fatto Angelica Balabanoff (51) dalle colonne del “Nuovo Avanti” del 6 giugno 1937: “E’ caduto assassinato vilmente, freddamente dalla Ceka controrivoluzionaria. Il PSI saluta il nuovo martire della rivoluzione spagnola, ripetendo più forte che mai le sue ultime parole: ‘La rivoluzione deve vincere su due fronti e vincerà’”. Altrettanto determinate furono ovviamente le denunce di Carlo Rosselli, Ernesto Rossi e tantissimi altri. Sul “Grido del Popolo” del 20 maggio 1937, organo del Fronte Unico controllato dai comunisti italiani, Togliatti, senza scomporsi e dopo aver attaccato giellini e socialisti deplorando cinicamente “le tradizioni di un passato prefascista, quando gli avversari politici potevano essere

nello stesso tempo amici personali”, rivendicò invece direttamente l’eliminazione di Camillo Berneri, “giustiziato dalla Rivoluzione democratica, a cui nessun antifascista può negare il diritto di legittima difesa”.

Ma fu una mossa molto avventata. Nel volgere di poco, sommerso dall’ondata di sdegno, cambiò tesi, negando ogni responsabilità e addebitando alla malasorte ed alle pallottole vaganti la morte del lodigiano. Sino a giungere persino, in una polemica aperta da Gaetano Salvemini, a tessere le lodi di Berneri, questa volta qualificato come elemento serio  dell’anarchismo, “che si stava avvicinando ai socialisti unificati” (cioè ai comunisti), addirittura nemico degli ‘anarchici cattivi’, definiti “incontrollati” (“Rinascita”, marzo 1950).

Su tutto ciò non v’è davvero bisogno di commento.

La differenza fra gradualismo e riformismo. il “sovietismo” di Berneri

 

Berneri additò compiutamente la differenza, non solo tattica, fra gradualismo intransigente e riformismo concertativo: “Vi è un possibilismo ingenuo come vi è un estremismo ingenuo. Tutto sta non nell’essere possibilisti od estremisti bensì nell’essere rivoluzionari intelligenti” (52). A sinistra,

l’errore sta nello statalismo marxista, vera e propria forma di revisionismo negativo, incline al compromesso nella socialdemocrazia e nel leninismo alla riedificazione autoritaria (e per questo socialmente e moralmente iniquo): “L’ibrido connubio del rivoluzionarismo apocalittico e del gradualismo determinista che era in Marx si perpetuò nella socialdemocrazia. Dal primo derivò la trascuratezza verso i problemi dell’economia di transizione, dal secondo il riformismo” (53).

Berneri tenne in Spagna una posizione pragmatica. Non criticò i leaders della CNT dell’epoca perché “ministri”. Li criticò quando non seppero decidersi a fare quello che andava fatto. Per questo appoggiò il piano elaborato da Pierre Besnard, segretario dell’Internazionale anarcosindacalista (al tempo AIT). Significava assumersi delle precise responsabilità di fronte alla storia. Rendere innocuo il poco esteso partito comunista di stretta osservanza moscovita, al quale venivano rimessi gli approvvigionamenti sovietici, rendendo di pubblico dominio la vergognosa manovra di accantonare le armi nelle retrovie in funzione della già prevista repressione antianarchica. Dichiarare indipendenti le ex colonie (ove avevano base le truppe golpiste) e riconoscerne la legittima rappresentanza autoctona. Liberare Abdel Krim, capo rivoluzionario marocchino, per scatenare la guerriglia alle spalle di Franco, anche se questi era prigioniero dei tiepidi “alleati” francesi (governo di “Fronte Popolare” social-comunista) che più del fascismo temevano egoisticamente un “contagio” indipendentista verso l’Algeria. Intensificare una guerra di resistenza “mordi e fuggi” nei territori iberici controllati dai fascisti e fomentare rivolte in Portogallo contro il regime di Salazar. Confiscare l’oro della Banca di Spagna per acquistare liberamente le armi necessarie e sopperire così alle carenze tattiche e strategiche dovute alle continue forniture italiane e tedesche alle truppe di Franco. Disgraziatamente il piano, al quale erano favorevoli Buenaventura Durruti ed altri, fu bloccato all’ultimo momento da Federica Montseny e da una parte dei leaders cenetisti. Così, quindici giorni dopo, il tesoro nazionale finì in URSS e non venne restituito nemmeno alla caduta di Franco, perché introitato – complice parte del governo – come smisurato pagamento delle armi “generosamente” inviate alla Repubblica. Per liberarsi dello stato occorreva avere una precisa autonomia politica in grado di esautorare il sistema, svuotandolo con la difesa e l’estensione delle conquiste popolari ed al tempo stesso di combattere efficacemente il fascismo internazionale e la quinta colonna legata a Mosca.

La posizione del lodigiano è pragmatica, ma non deroga dai binari  dell’anarchismo, così come quando aveva difeso il “sovietismo” dai “puristi” che lo rifiutavano a priori: “Recisamente contrari al sovietismo, noi? Noi che nelle autonomie locali avremmo la migliore trincea per sbarrare la strada allo Stato? Noi che non possiamo sognare di veder realizzata l’anarchia se non dopo la più lunga e la più profonda esperienza di auto-democrazia, nel campo dell’amministrazione cooperativa e comunale?

(54). Vedeva nel protagonismo del movimento anarchico in quanto tale lo strumento per utilizzare l’impianto comunalista della rete dei soviet (letteralmente “comune”), non l’occasione per ritrarsi dallo scontro con i bolscevichi in nome di forme stereotipe di “autismo ideologico”. Ma al tempo stesso non cadde mai nell’errore di voler “copiare” i bolscevichi o abbandonarsi, immoti ed abbacinati, alla loro guida: “Il sovietismo è il sistema di auto-amministrazione popolare e risponde ai bisogni fondamentali della popolazione, rimasta priva degli organi amministrativi statali. Questo sistema può permettere la ripresa della vita economica, compromessa dal caos insurrezionale e può servire di base alla formazione di un nuovo ordine sociale, costituendo inoltre una proficua palestra di auto-amministrazione preparante il popolo a sistemi di maggiore autonomia. E’ compito degli anarchici in seno al sovietismo di cercare di conservare ad esso il suo carattere spontaneo, autonomo, extra-statale: di cercare che

esso sia un sistema essenzialmente amministrativo e non diventi un organismo politico, destinato, in tal caso, a partorire uno stato accentrato e la dittatura del partito prevalente; di lottare contro le tendenze burocratiche e poliziesche, cercando anche di circoscrivere la sua azione legislativa ai regolamenti rispondenti all’utilità generale” (55). Anche il sovietismo non è che un mezzo: la meta è più alta. Perciò è transitorio: “Resta inteso che gli anarchici considerano il sovietismo come un sistema transitorio e superabile, e che non esiteranno a porsi contro di esso quando lo vedessero degenerare in istrumento di dittatura ed accentramento” (56).

Il fatto che Camillo Berneri, un instancabile costruttore di progetti ed un intransigente organizzatore, sia stato poi curato e ricordato da morto (ed i suoi scritti così spesso ospitati in vita), soprattutto da anarchici dichiaratamente antiorganizzatori o intransigenti (come nel caso della redazione de “L’Adunata dei Refrattari” o di Aurelio Chessa, fondatore in Italia dell’ “Archivio Famiglia Berneri”) (57), è un (apparente) paradosso che conferma la tesi. Anche la dirigenza cenetista fu, davvero, quantomeno improvvida nel non preoccuparsi di fornire a Berneri adeguata protezione, nonostante egli fosse uno dei più esposti alle rappresaglie degli agenti del Komintern nel pieno dello scontro fra anarchici e “cekisti”.

Troppo spesso si ricorda la figura di Berneri solo come quella di uno dei “santi degli ultimi giorni” che si opposero strenuamente alla degenerazione della rivoluzione spagnola. Il suo testo più diffuso a livello internazionale è la “Lettera aperta alla compagna Federica Montseny” (58), del 14 aprile 1937, con la quale metteva in guardia contro gli arretramenti della rivoluzione e la compiacenza verso i comunisti, con la famosa frase: “E’ l’ora di rendersi conto se gli anarchici stanno al governo per fare da vestali ad un fuoco che sta per spegnersi o vi stanno ormai soltanto per far da berretto frigio a politicanti trescanti con il nemico o con le forze della restaurazione della ‘repubblica di tutte le classi’”. La stessa lettera nella quale il lodigiano ricordava come, nonostante il 17 dicembre 1936 la “Pravda” avesse già proclamato: “In quanto alla Catalogna è cominciata la pulizia degli elementi trotskisti e anarco-sindacalisti, opera che sarà condotta con la stessa energia con la quale la si condusse nell’URSS”, proprio la Montseny aveva, più recentemente, rilasciato in un’intervista la seguente, grottesca dichiarazione: “…non fu Lenin il vero costruttore della Russia, bensì Stalin, spirito realizzatore…”.

Eppure Berneri non era stato fra quelli che s’erano stracciate le vesti di fronte alla nomina dei ministri anarchici. Per lui il problema non era l’utilizzazione (peraltro incidentale) delle istituzioni. Aveva difeso le scelte della dirigenza cenetista, collaborato con essa e scritto cose molto apprezzate per un lungo elenco di giornali libertari spagnoli (la “Revista Blanca”, “Mas Lejos”, “Tierra y Libertad”, “Tiempos Nuevos”, “Estudios”, il quotidiano “Solidaridad Obrera”), dai quali il suo apporto era richiesto e sollecitato (59).

Si preoccupava bensì dell’assenza di un progetto volto a privilegiare ed estendere, coscientemente ed in modo organico, le conquiste rivoluzionarie ottenute sul campo e le molteplici strutture autogestionarie e federaliste che l’anarcosindacalismo aveva comunque dimostrato di saper creare, dando libero sfogo ad un’esperienza accumulata in decenni e decenni di lotte. Se vi fosse stata abitudine alla politica, le istituzioni sarebbero state svuotate, non dall’interno ma “dall’esterno”, della presenza dello stato.

Egli vide bene l’originalità della “Spagna lavoratrice” (60), che: “…coordina, potenziandole vieppiù, le proprie forze ricostruttive; e questo su schemi propri e non scimmiottando questa o quella rivoluzione” (61). Seppe riconoscere davvero la trasformazione avanzatissima della società spagnola, gli elementi d’inaudita potenza che s’erano sviluppati, come l’abolizione del denaro in grandi territori rurali, la socializzazione delle fabbriche, delle campagne, dei servizi ed il doppio miracolo di una tenuta della funzionalità e dell’aumento della produzione. Era il tipo di prassi rivoluzionaria alla quale aveva sempre creduto, capace di coniugare elementi forti dal punto di vista economico con successi altrettanto importanti sul piano delle libertà e dei diritti civili. Senza mai venir meno al pluralismo politico ed alla  democrazia sostanziale, ancorché nel mezzo di una guerra civile e di un forte scontro interno con chi – comunisti in testa – intendeva “gestire” opportunisticamente la guerra ed abbandonare la rivoluzione, in un patto scellerato che contemplava la restituzione delle terre e delle industrie.

Esattamente a partire da quelle realizzazioni, che comunque restano agli atti come le più importanti nell’ambito di una rivoluzione, e dall’esame delle cause della sconfitta, assume maggior valore il monito di Berneri. Ma davvero pochi ne hanno, ancor oggi, compreso il messaggio, in primo luogo per quanto attiene alla necessità impellente di una revisione profonda nel campo socialista libertario, arato male e senza sistema.

L’anarchismo fra politica ed antipolitica (nessun sogno romantico)

A quasi vent’anni dalla caduta del muro di Berlino e dalla tragicomica fine del socialismo “surreale”, l’opera di questo intellettuale militante, più unico che raro nel panorama libertario “classico” per le sue prese di posizione insieme eterodosse ed illuminanti, assume una valenza universale, utile non solo agli anarchici, bensì a tutti quanti abbiano finalmente chiaro che il rinnovamento della sinistra non può essere mera riedificazione di facciata, pena la definitiva scomparsa del complessivo movimento d’emancipazione dalla scena del panorama politico.

Ed è proprio dalla “crisi della politica” che deriva l’attualità del pensiero di Camillo Berneri. Da quella richiesta forte, e sempre meno eludibile, di una trasformazione della mistificazione della delega assoluta di potere in partecipazione cosciente ed attiva, in decentramento federalista ed in democrazia diretta. Dalla spinta ad invertire l’incipit fondamentale dell’organizzazione umana, nel passaggio dei modi della rappresentanza, per dirla con Berneri, dal “sono governati” al “si governano” (62).

In verità, in politica egli concesse ben poco al romanticismo: “Il romantico ama i tempi remoti perché può metterli in cornice. Il nuovo gli sfugge e gli fa paura. Così il romantico ama gli eroi, perché può idealizzarli a suo piacimento” (63). Il romanticismo vive una contraddizione insanabile con l’anarchismo: “Il romanticismo è la statuaria della letteratura, della storiografia e della filosofia della storia. Il romanticismo confonde facilmente la grandezza con la fama, l’eroismo con il successo. E’ storicista” (64). Infine, il segno tradizionale e distintivo del romanticismo “classico” inclina pericolosamente a destra: “E il romanticismo reazionario accettò il prete ed elogiò il boia: perché riconducevano il popolaccio dietro le quinte della storia. Il popolo fa troppo fracasso e mette in subbuglio lo spirito. (…) Il romanticismo era contemplazione più che azione, mollezza più che volontà, egoismo più che generosità. E il suo sogno fu quello reazionario”(65).

 

La questione del programma

 

Berneri è soprattutto un “animale politico”, abituato a filtrare ogni cosa alla luce di una enorme capacità critica.

Ma sbaglierebbe chi pensasse a Berneri semplicemente come ad un “dissacratore” della tradizione anarchica. Il suo approccio è semmai contrario ed inverso e denota l’impegno consapevole di operare uno screening fra ciò che di vivo, vitale ed “immortale” è in essa contenuto e quanto invece, da elemento secondario, congiunturale e tattico è, per un gioco “inerziale”, assurto impropriamente al rango di principio. Per lui, i principi non escludono la politica: sono semmai quanti negano la politica a confondere gli elementi tattici con le questioni di principio. Berneri vuole: “un anarchismo idealista ed insieme realista, un anarchismo, insomma, che innesta verità nuove al tronco delle sue verità fondamentali, sapendo potare i suoi vecchi rami. Non opera di facile demolizione, di nullismo ipercritico, ma rinnovamento che arricchisce il patrimonio originale” (66). Di concerto ritenne perciò necessario combattere i “tabù” dei dottrinari, la fobia e l’ideologismo della “degenerazione”: “(…) e non pianteremo più meli perché molte mele hanno il baco? Ogni cosa che è nel mondo ha il proprio baco. Tutto sta nel saperlo levare. Preoccuparsi eccessivamente delle degenerazioni possibili, conduce ad un errore comune a molti tra noi: alla negazione assoluta” (67).

La generalizzazione negativa è un arbitrio logico” (68).

Il compito che coscientemente s’impose fu quello di demolire le costruzioni incerte edificate sotto l’influenza di pratiche “rituali”. Per questo, la lettura di Berneri è più che propedeutica al ritrovamento di un anarchismo in grado di agire a tutto campo, orgoglioso delle proprie radici ed altamente “competitivo” rispetto agli avversari, “conservatori” o “progressisti”. Berneri lavora affinché l’azione ed il pensiero libertario vengano restituiti alla propria dimensione naturale: per un anarchismo sempre pronto a mettersi in discussione, mai chiuso rispetto alla verifica della prassi, aperto a previsione e revisione. Capace quindi di rispondere alle sfide, di reinventarsi e soprattutto di esprimere progettualità.

 

 

 

Contro “l’anarchismo dagli occhiali rosa”

 

Il nostro ingaggerà dunque una lotta – rispettosa ma senza quartiere – contro l’ubriacatura positivista, il semplicismo, l’ottimismo spontaneista e l’ “anarchismo dagli occhiali rosa” (69) di kropotkiniana memoria, presenti anche in altro filone dell’anarchismo: quello comunista. Fra le varie, dichiarerà: “Respinto da Bakunin il Rousseau arcadico e contrattualista, l’ideologia kropotkiniana ci ha riportati all’ottimismo e all’evoluzionismo solidarista. Sul terreno dell’ottimismo antropologico, l’individualismo ha perpetuato il processo negativo dell’ideologia anarchica, conciliando arbitrariamente la libertà del singolo con le necessità sociali, confondendo l’associazione con la società, romanticizzando il dualismo libertà ed autorità in uno statico ed assoluto antagonismo. Il solidarismo kropotkiniano, sviluppatosi sul terreno naturalistico ed etnografico, confuse l’armonia di necessità biologica delle api con quella discordia discors e quella concordia concors propria dell’aggregato sociale (…)” (70).

Berneri lavora alla costruzione di un progetto politico che sappia raccogliere le caratteristiche migliori del pensiero antiautoritario ed egualitario: “Dal 1919 in poi non mi sono stancato di agitare in seno al movimento anarchico il problema di conciliare l’integralismo educativo e il possibilismo politico, osando sostenere polemiche e contraddittori con i più autorevoli rappresentanti dell’anarchismo italiano” (71). Per lui saranno soprattutto il federalismo ed il comunalismo gli strumenti atti alla riappropriazione ed all’autodeterminazione, mentre l’anarcosindacalismo rappresenterà il metodo organizzativo ed agitatorio in grado di dare al movimento libertario capacità di penetrazione, onde sviluppare la necessaria “egemonia” nel mondo del lavoro atta a far maturare e mutare i rapporti di forza. Strumento utile anche a combattere la scarsa propensione all’autodisciplina dello “specifico” anarchico ed a far da cemento per il senso di appartenenza che deve legare le strutture militanti.

 

 

La scelta anarcosindacalista

 

Recupererà quindi di Kropotkin il rigore scientifico, gli studi sulle dinamiche della rivoluzione francese, le intuizioni sulla fine del bolscevismo, la questione della parificazione fra lavoro manuale ed intellettuale, la propensione federalista (che arricchirà grazie alla profonda conoscenza di Cattaneo acquisita negli studi con Salvemini), lo spirito organizzativo e la comprensione dell’importanza del nascente anarcosindacalismo. Ecco, sintetizzato, il suo Commiato (72), redatto in morte del grande vecchio: “(…) al di sopra delle riserve, delle incertezze contingenti il suo sovietismo sindacalista-comunista brillava di coerenza logica e di audacia costruttiva”.

Che Berneri vedesse in Kropotkin un fautore dell’anarcosindacalismo è testimoniato anche da quest’altro estratto: “Il partito anarchico sognato dal Kropotkin sarebbe stato, anche se non ne avesse portato il nome, un partito anarco-sindacalista. Narra lo Schapiro: ‘E quando la discussione era sulla questione sindacale ripeteva sempre che in realtà, il sindacalismo rivoluzionario così come si sviluppava in Europa si trovava già interamente nelle idee propagate da Bakunin nella Prima Internazionale, in questa Associazione Internazionale dei lavoratori che egli amava dare come esempio di organizzazione operaia. Egli si interessava sempre più dello sviluppo del sindacalismo rivoluzionario e dei tentativi degli anarco-sindacalisti russi di partecipare al movimento sindacale ed alla ricostruzione industriale del paese’” (73).

Come Kropotkin, Berneri identificava nell’anarcosindacalismo la continuazione ideale della Prima Internazionale. Precisamente: “La ricostruzione sociale anti-statale non può essere, quindi, secondo il Kropotkine, che un nuovo ordine basato su un sistema di rappresentanze e di direzioni del quale partecipi tutta la massa lavoratrice. E tanto più questa massa dispone di uno strumento proprio per sostituire al regime capitalistico  l’organizzazione economica comunista, e tale istrumento non può che essere il sindacato, tanto più è possibile che la federazione comunalista possa subentrare allo Stato” (74).

Berneri, che nell’esilio scelse di rivitalizzare e dirigere la rivista di lingua italiana “Guerra di Classe” – prima del fascismo organo dell’Unione Sindacale e col quale aveva già collaborato in Italia dal 1917 – fu molto chiaro in merito: “Il campo sindacale è diventato l’unico campo che permette  un’attività concreta. (…) La stampa anarco-sindacalista ha un riflesso costante dei bisogni, delle aspirazioni, delle lotte delle masse proletarie (…) ma quella anarchica, pura, salvo qualche rara eccezione, è generica, cioè sorda e cieca alle realtà particolari dell’ambiente sociale in cui essa vive. Il giornale di Parigi potrebbe essere fatto a New York, e quasi in nulla muterebbe. In questo fenomeno sta uno dei massimi indici della crisi dell’anarchismo puro” (75).

Il suo è un anarcosindacalismo di progetto, volano di un nuovo programma: “La maggior parte degli anarco-sindacalisti è costituita da anarchici che sono sindacalisti in quanto vedono nel sindacato un ambiente di agitazione e di propaganda più che di organizzazione classista. E ben pochi anarco-sindacalisti si sono, quindi, posti i problemi inerenti al sindacato quale cellula ricostruttiva, quale base di produzione e di amministrazione comuniste. Ancor meno numerosi sono coloro che si sono posti il problema dei rapporti fra i sindacati e i Comuni. Ancor oggi siamo al bivio, fra l’insidia del sovietismo bolscevico e l’insidia unitaria accentratrice del confederalismo socialdemocratico” (76). Un programma insieme economico e politico, nonché mirato alle diverse realtà nazionali: “Se il movimento anarchico non si decide a limitare il proprio comunismo a pura e semplice tendenzialità, a formulare un programma italiano, spagnolo, russo, ecc. a basi comunaliste e sindacaliste; a crearsi una tattica rispondente alla complessità e variabilità dei momenti politici e sociali; a sbarazzarsi, insomma, di tutti i suoi gravami dogmatici, di tutte le sue abitudini stilistiche, di tutte le sue fobie, il movimento anarchico non attirerà più la gioventù intelligente e colta, non saprà combattere efficacemente la statolatria comunista, non potrà per lungo tempo uscire dal marasma. La crisi dell’anarco-sindacalismo è la crisi dell’anarchismo. Ed io ho fede che nella corrente anarco-sindacalista più che in ogni altra è possibile trovare le possibilità di una rielaborazione ideologica e tattica dell’anarchismo” (77).

Nel proprio iter il lodigiano esprimerà il suo punto di vista praticamente su tutte le questioni dibattute nel movimento libertario internazionale.

Contro l’individualismo

 

L’individualismo nichilista verrà combattuto da Berneri con grande determinazione, in particolare nelle sue accezioni nietzschiane e superuomistiche: “Una vita di quotidiani sforzi di volontà e di quotidiane esperienze di dolore e di amore vale certo più dei sogni infingardi dei Super-uomini, che si credono tali solo perché non sanno, non vogliono essere ‘uomini’” (78).

Significativa in proposito anche l’interpretazione critica che Berneri ci fornisce del Carlyle: geni ed eroi sono il prodotto di moltitudini, eventi e tempi dai vasti e spesso anonimi confini. Non esiste alcuna giustificazione per le concezioni elitarie: i pochi sono il prodotto, la voce dei tanti che si sommano fra passato e presente. Cionondimeno, il lodigiano non sottovalutò mai la forza dell’idea e la positività del mito: “Lo studioso dall’abito di considerare la storia, è condotto ad una particolare forma di irrealismo: quella che consiste nel non vedere la funzione del mito, delle tendenze estreme, dell’assoluto” (79). Purché l’ideologia non venisse considerata sacra e intoccabile e di contro la storia non dimenticasse ugualmente il determinante apporto dei semplici ed il sacrificio della miriade degli anonimi militanti: “Il socialismo deve uscire dall’infantilismo rivoluzionario che vede posizioni nette là dove sono problemi complessi, e da quello riformista, che non capisce la funzione storica dei programmi massimi e degli imperativi spirituali. E deve convincersi delle necessità di abbinare, nella propaganda, il fascino del mito con l’evidenza della necessità, in un’armonica conciliazione di valori ideali e di interessi utilitari” (80).

 

 

Per l’organizzazione politica degli anarchici

 

Per ovvi motivi, Berneri contrastò gli antiorganizzatori. Egli era per un anarchismo capace di dotarsi di strutture forti, di metodo e di senso d’appartenenza: “Che cosa intendo per coscienza di partito? Intendo qualche cosa di più del lievito passionale di un’idea, della generica esaltazione di ideali. Intendo il contenuto specifico di un programma di parte” (81).

Io non vedo i pericoli dell’accentramento, dell’autoritarismo che molti vedono nell’organizzazione sempre più salda e coordinata dei nostri gruppi, delle nostre unioni provinciali, delle nostre federazioni regionali. L’atomismo individuale e dei gruppi ha mostrato di essere utile? Il nostro movimento non è per sua natura e per definizione refrattario ai cattivi influssi di una disciplina di partito male intesa? Per quali ragioni un movimento libertario può cristallizzarsi divenendo un partito e può degenerare in tutte quelle forme di autoritarismo accentratore che alcuni paventano e profetizzano?” (82).

Eppure dovette constatare che il fenomeno, apparentemente marginale, aveva – eccezion fatta forse per la Spagna – conquistato molto più spazio di quello relativo ai singoli gruppi che esprimevano un palese rifiuto teorico dell’organizzazione: “Se me la piglio con l’individualismo è perché, se la corrente individualista ha poca importanza numerica, è riuscita ad influenzare quasi tutto il movimento” (83). Berneri scorgeva nel ripudio del lavoro sindacale, nella demonizzazione della discussione finalizzata al progetto e nell’indisponibilità ad impegnarsi sul piano di una politica del quotidiano, la determinante influenza dell’individualismo: “Quasi tutti gli anarchici, ai miei occhi, sono individualisti, ottimisti e dottrinari” (84).

Va da sé che gli strali di Berneri fossero diretti contemporaneamente contro la politica del “tanto peggio, tanto meglio”, (alla quale bisogna sostituire il detto: “meglio il male attuale che uno peggiore”) (85), quanto contro ogni tentazione di defilarsi dal contatto con le masse e di allontanarsi, con pericolose “fughe in avanti”, dalla comprensione dell’uomo comune.

E’ forse solo con Camillo Berneri che si può cominciare a parlare di un esplicito spirito autocritico nella storia del Movimento Anarchico militante. Se non si fosse colta la cosa sino ad ora, si avrà certo modo di ricredersi presto. L’orizzonte critico del lodigiano scava così in profondità nel paradigma libertario, tocca così tanti argomenti, da potersi definire davvero il tentativo di rivederlo globalmente, a tratti nella ricerca di una riattualizzazione, altrove cercando di “ripulirne” l’ideologia dalle scorie sedimentate di differente provenienza, e non di rado assistiamo ad una vera e propria opera di riforma.

Se in ogni occasione siamo di fronte ad un linguaggio privo di tatticismi, davvero sempre mirato senza mezzi termini all’obiettivo (ed anche in ciò sta la grandezza e la singolarità del “caso Berneri”), dinanzi agli interrogativi ed alle questioni relative all’organizzazione abbiamo l’argomentare più diretto e meno mediato in assoluto. Il testo più emblematico in materia ha un titolo assai significativo: Il cretinismo anarchico (86), del 1935. Vi si lancia una sfida senza esclusione di colpi alle deficienze croniche  dell’anarchismo “fossile”, vale a dire a prassi ed atteggiamenti invalsi da una acquisizione superficiale dei “sacri” principi: ciò che viene colpito è

quell’insieme di rituali senza senso che caratterizzavano – ed in molte occasioni caratterizzano ancora – un certo modo di vivere il momento collettivo nello specifico anarchico. Il malinteso di una mancanza assoluta di regole, un “democraticismo” autistico e paranoide che scambia il rispetto per forzatura autoritaria, e tanto d’altro: tutti elementi che impediscono il corretto funzionamento di un’organizzazione, ne nullificano l’esistenza.

Invece, il problema del funzionamento dell’organizzazione sta molto a cuore a Berneri. Per lui la struttura non deve servire al piccolo protagonismo dei partecipanti ad un’assemblea, bensì allo  scopo per la quale esiste in ogni consesso umano ed in particolare in politica: costruire ed affinare

l’impianto onde rendere incisiva la prassi del movimento. Leggiamo questo testo: “Benché urti associare le due parole, bisogna riconoscere che esiste un cretinismo anarchico. Ne sono esponenti non soltanto dei cretini che  non hanno capito un’acca dell’anarchia e dell’anarchismo, ma anche dei compagni autentici che in esso sono irretiti non per miseria di sostanza grigia bensì per certe bizzarrie di conformazione cerebrale. Questi cretini dell’anarchismo hanno la fobia del voto anche se si tratti di approvare o disapprovare una decisione strettamente circoscritta e connessa alle cose del nostro movimento, hanno la fobia del presidente di assemblea anche se sia reso necessario dal cattivo funzionamento dei freni inibitori degli individui liberi che di quell’assemblea costituiscono l’urlante maggioranza, ed hanno altre fobie che meriterebbero un lungo discorso, se non fosse,  quest’argomento, troppo scottante di umiliazione. Il problema della libertà, che dovrebbe essere sviscerato da ogni anarchico essendo il problema basilare della nostra impostazione spirituale della questione sociale, non è stato sufficientemente impostato e delucidato. Quando, in una riunione, mi capita di trovare il tipo che vuole fumare anche se l’ambiente è angusto e senza ventilazione, infischiandosene delle compagne presenti o dei deboli di bronchi che sembrano in preda alla tosse canina, e quando questo tipo alle osservazioni, anche se cordiali, risponde rivendicando la ‘libertà dell’io’, ebbene, io che sono fumatore e per giunta un poco tolstoiano per carattere, vorrei avere i muscoli di un boxeur nero per far volare l’unico in questione fuori dal locale o la pazienza di Giobbe per spiegargli che è un cafone cretino. Se la libertà anarchica è la libertà che non viola quella altrui, il parlare due ore di seguito per dire delle fesserie costituisce una violazione della libertà del pubblico di non perdere il proprio tempo e di annoiarsi mortalmente. Nelle nostre riunioni bisognerebbe stabilire la regola della condizionale libertà di parola: rinnovabile ogni dieci minuti. In dieci minuti, a meno che non si voglia spiegare i rapporti tra le macchie solari e la necessità dei sindacati o quella tra la monere haeckeliana e la filosofia di Max Stirner, si può, a meno che si voglia far sfoggio di erudizione o di eloquenza, esporre la propria opinione su una questione relativa al movimento, quando questa questione non sia di … importanza capitale. Il guaio è che molti vogliono cercare le molte, numerose, svariate, molteplici, innumerevoli ragioni, come diceva uno di questi oratori a lungo metraggio, invece di cercare e di esporre quelle poche e comprensibili ragioni che trova e sa comunicare chiunque abbia l’abito a pensare prima di parlare. Disgraziatamente accade che siano necessarie delle riunioni di ore ed ore per risolvere questioni che con un po’ di riflessione e di semplicità di spirito si risolverebbero in mezz’ora. E se qualcuno propone, estremo rimedio alla babele vociferante, un presidente, in quel regolatore della riunione che ha ancor minore autorità di quello che abbia l’arbitro in una partita di foot-ball, certe vestali dell’Anarchia vedono… un duce. Per chi questo discorso? I compagni della regione parigina che hanno, recentemente, affrontato la spesa e la fatica di recarsi ad una riunione da non vicine località per assistere allo spettacolo di gente che urlava contemporaneamente intrecciando dialoghi che diventavano monologhi per la confusione imperante e delirante, si sono trovati, ritornando mogi mogi verso le loro case, concordi nel pensare che la gabbia dei pappagalli dello zoo parigino è uno spettacolo più interessante. Quando degli anarchici non riescono ad organizzare quel problema meno difficile di quello della quadratura del circolo, di esporre a turno il proprio pensiero, un regolatore diventa indispensabile.

Questa è quella che io chiamo l’auto-critica. Ed è diretta a tutti coloro che rendono necessario un regolatore di riunioni anarchiche. Cosa che è ancora più buffa di quello che pensino coloro che se ne scandalizzano. Molto buffa e molto grave. E grave perché resa, molte volte, necessaria proprio là dove dovrebbe essere superflua”.

Il ruolo dell’organizzazione specifica è ben preciso per Berneri. Nel testo Risposta ad una consultazione sui compiti immediati e futuri dell’anarchismo (87), egli accenna a critiche e suggerimenti: “L’organizzazione (l’Unione Anarchica Italiana) ha vissuto poco, ma qualche anno di vita sarebbe bastato, se fosse esistita tra noi una costante ed intelligente volontà rivoluzionaria, a fare di essa un organismo di combattimento capace di agire con coordinazione e simultaneità, anche fuori dei quadri sindacali ed indipendentemente dai fronti unici, che si risolsero in bluff. Si consumarono energie insurrezionali in sporadiche azioni e si perdettero ottime occasioni (…) le esperienze del passato non vanno dimenticate. E la diagnosi dei nostri mali e delle nostre deficienze va accompagnata alla ferma volontà di un rinnovamento”.

E’ un altro, ancor più forte, richiamo all’organizzazione come veicolo della politica, capace di concentrare ed applicare le forze ed al tempo stesso di rigenerarsi e rielaborare: un vero e proprio laboratorio di idee, capace di essere al tempo stesso fabbrica e motore di esperienze.

Berneri è molto infastidito dai continui attacchi alla logica organizzativa. Già nell’agosto del 1922 interviene nel dibattito, molto contrariato dalle invettive strumentali lanciate contro l’appena nata Unione Anarchica Italiana: “(…) Vediamo, piuttosto, se ha ragione lo Cizeta a scrivere che gli anarchici italiani ‘costituendosi in partito e centralizzandosi negli organi e nelle commissioni di corrispondenza dell’Unione Anarchica Italiana, si sono allontanati dalle folle’. (…) Dov’è la centralizzazione? Forse nella Commissione di Corrispondenza? Essa è una Commissione (in cui v’è un solo indennizzato) incaricata dai singoli gruppi, di prendere iniziative di carattere generale: come manifesti nazionali, partecipazione a convegni con altri partiti di sinistra, ecc. La sua opera si limita a ricevere e trasmettere comunicati, somme di denaro, ecc. quando i gruppi abbiano bisogno, per questo, di lei. Altrimenti tutta la vita del movimento si svolge senza che sia avvertita l’esistenza di questa Commissione che ha tanto impressionato alcuni fegatosi critici per scopi personali e voi che, vivendo lontano non sapete come stanno le cose. Non vi avrei scritto se non credessi dannosi al nostro movimento questi contrasti che sono creati artificiosamente e non hanno alcuna ragione di esistere.

Piuttosto che sprecare lo spazio dei nostri giornali a fare critiche che non hanno base seria, intensifichiamo la nostra propaganda al di fuori ed al di sopra delle piccole sfumature di tendenza. Avrei preferito scrivere sul vostro giornale di altri argomenti, ma ho creduto necessario chiarire un equivoco che minaccia di prolungarsi, tutto a scapito del movimento nostro” (88).

In Considerazioni sul nostro movimento (89), Berneri non disdegna di usare il termine “partito”. La cosa è significativa, anche se si tratta della medesima accezione usata talvolta pure da Malatesta. La questione di una unione precisa dell’anarchismo organizzatore, sebbene all’epoca più sentita all’interno della tendenza maggioritaria, era comunque affatto scontata: “(…) Sul tappeto della discussione rimane la questione della costituzione del nostro movimento a partito. Occorre, per questa come per tutte le altre questioni, stabilire il valore delle parole, dando loro un significato ben definito, per evitare le eterne ed inutili discussioni pro e contro. Si può ripetere oggi quello che Epicuro – mi si conceda una citazione che puzza d’antico – diceva in una sua epistola ad Erodoto: «Convien rendersi conto del significato fondamentale delle parole, per poterci ad esse riferire come criterio nei giudizi o nelle indagini o nei casi dubbi: se no, senza criterio procederemo all’infinito nelle dichiarazioni o useremo parole vuote di senso». Che cosa intendiamo per partito? Qual è il calore, quali i limiti, quale la missione? (…) Io credo alla necessità di consolidare le nostre forze, associandole e coordinandole, ma riconosco che molte e contrastanti correnti scorrono in seno al nostro movimento riguardo a questa questione (…)”.

In un altro testo, Anarchismo e federalismo – Il pensiero di Camillo Berneri (90), il lodigiano aggredisce il problema con ancor maggiore veemenza: “(…) Siamo immaturi. Lo dimostra il fatto che s’è discussa l’Unione Anarchica sottilizzando sulle parole partito, movimento, senza capire che la questione non era di forma, ma di sostanza, e che quello che ci manca non è l’esteriorità del partito, ma la coscienza del partito (…)”. Berneri ci dice subito a cosa si riferisca: “Che cosa intendo per coscienza di partito? Intendo qualche cosa di più del lievito passionale di un’idea, della generica esaltazione di ideali. Intendo il contenuto specifico di un programma di parte” (91).

Sta evidentemente parlando di un’unità teorica e strategica, nonché di un necessario “senso di appartenenza”. Due cose che difettano molto nel movimento anarchico: la prima per carenza di programma, soprattutto in ambito strategico e tattico, la seconda per un malinteso senso di assoluta indipendenza individuale di fronte all’organizzazione. Questa è sicuramente un corpo collettivo, ed in quanto tale ogni suo membro, pur libero in coscienza, ne è parte, e deve ugualmente sentirsi interno ad un’entità plurima e plurale che unifica. Altrimenti non avrebbe senso parlare di organizzazione. La libertà individuale è quindi libertà di dissenso, ma mai senso di nonappartenenza. La differenza fra le due cose non è secondaria. La libertà di dissenso è garantita dalle regole, ma le regole sono di tutti e per tutti. Non sono valide a seconda della “giornata e dell’umore”. Una decisione può essere contrastata, ma deve, comunque, venire riconosciuta come la decisione della maggioranza, perché questa è la regola di ogni associazione umana. L’anarchismo non sfugge quindi alla democrazia: deve semmai essere democratico sino all’estremo limite, ma questo non può significare mettere in discussione la democrazia stessa. Si può arrivare all’estrema ratio di non rendere obbligatoria l’applicazione delle decisioni per chi non ha contribuito a prenderle, ma mai si può negare l’obbligo, almeno d’onore, di accettarle come scelte della maggioranza e quindi dell’organizzazione o quello di rimanere leale alla stessa.

 

 

Berneri ed Arcinov

 

Il dibattito sull’organizzazione diverrà assai attuale fra gli anarchici negli anni ‘20, dopo la deriva autoritaria della rivoluzione russa e la marginalizzazione del movimento libertario in quel paese, dovuta anche a deficit organizzativi palesi denunciati dalla maggioranza degli anarchici ucraini che avevano resistito militarmente all’armata rossa dopo che da questa erano stati abbandonati, traditi ed attaccati alle spalle durante le invasioni dei reazionari bianchi e dopo che la rivoluzione in Ucraina era stata assolutamente opera loro. Questi, data vita al gruppo “Dielo Truda”, proposero una Piattaforma per la ricostituzione dell’anarchismo organizzato che propugnava la cosiddetta “responsabilità collettiva” e l’unità tattica e teorica per una rifondazione dell’organizzazione libertaria.

Anche Berneri esprime critiche alle insufficienze di struttura dell’anarchismo russo (92): “Un altro errore è quello di non aver tenuto conto del fatto che tra lo scoppio della rivoluzione (…)” e la presa del potere da parte dei bolscevichi c’è stato un significativo lasso di tempo con “(…) libero gioco fra i partiti” durante il quale il movimento anarchico “(…) s’è esaurito e i partiti di sinistra hanno dimostrato di non essere all’altezza della situazione”. Nello stesso articolo, il lodigiano riconosce che, nonostante: “Criticare i criteri ed i metodi del partito comunista russo, illustrare gli errori e gli orrori del governo bolscevico”, fosse per gli anarchici un preciso “(…) dovere ed un diritto, poiché nel fallimento del bolscevismo statolatra vediamo la migliore conferma delle nostre teorie libertarie”, di fatto inizialmente vi fu il silenzio a causa del “(…) fascino rivoluzionario” (93) esercitato dalla Russia. Ed ammette che la denuncia cominciò per contrastare “(…) lo scimmiottamento di tutti i criteri tattici e la pedissequa imitazione di tutti i punti programmatici di Lenin e compagni” (94), aggiungendo: “Ci trovammo nella necessità di non più tacere ciò che era ormai rivelato dalla stampa socialista e nella necessità di opporci a quella propaganda giacobina che dilagava tra le masse, pregiudicando quello che noi riteniamo il giusto indirizzo rivoluzionario. A tutto questo si aggiunse la reazione anti-anarchica del governo di Mosca e la convinzione che la politica dei bolscevichi russi portasse ad un ripiegamento rivoluzionario in Russia e nell’Occidente” (95).

È evidente il senso di una riflessione amara, che denuncia col senno di poi i guasti prodotti dall’appiattimento di molti anarchici nella prima fase dell’affermarsi del potere sovietico, un favore che i bolscevichi ricambiarono con una spietata repressione.

Il motivo del contendere, a proposito della piattaforma del gruppo Dielo Truda, era relativo sia alla prassi organizzativa che a quella politica. E Berneri è sempre stato schierato per una più seria ricostruzione di entrambi gli elementi. Ci saranno però due cose che ad un certo punto lo faranno sobbalzare.

In primis, l’eccesso di zelo di uno dei massimi esponenti del gruppo “revisionista” russo: quel Pietro Arcinov che era stato il braccio destro di Nestor Mackhno, il principale fautore della rivoluzione anarchica in Ucraina. Arcinov, contrariamente a quanto avvenuto per gli altri, deciderà nel giugno del 1935 di tornare in Russia dall’esilio francese al quale era stato costretto come tutti per le persecuzioni dell’armata rossa e di aderire, nel pieno dello stalinismo, al partito comunista sovietico. A quel punto, in una lettera aperta del 5.10.1935, Due parole a Pietro Arcinov (96), Berneri stigmatizzerà brutalmente la posizione del russo: “(…) se ero preparato all’abiura, non ero preparato – nonostante non vi abbia mai considerato, come oggi vi presenta la stampa bolscevica, «uno dei più notevoli ideologi dell’anarchismo» – alla miseria delle giustificazioni, alla tendenziosità delle critiche, alla volgare demagogia delle sconfessioni dei vostri giudizi di un passato non ancora remoto. (…) Mentre, in nome del fallimento della dittatura proletaria nell’URSS, dei bolscevichi hanno dato e danno la libertà o la vita, voi, neobolscevico, vi affrettate ad agitare il turibolo di fronte allo Czar Stalin, e proprio in un momento politico in cui il possibilismo bolscevico sta degenerando nell’opportunismo il più governamentale e il più nazionalista.

Quando Francesco Saverio Merlino si allontanò dall’anarchismo, credette giustamente che fosse dovere di dignità di pensatore e di scrittore giustificare seriamente il suo nuovo atteggiamento. Quello che voi scrivete a giustificazione vostra e ad incitamento agli anarchici a seguirvi è di una povertà pietosa e di una volgarità disgustevole.

La vostra Piattaforma del 1926 ha contribuito a scindere il movimento anarchico polacco e quello bulgaro, e tanto in Polonia che in Bulgaria i secessionisti piattaformisti sono finiti in grembo al bolscevismo o alla socialdemocrazia. (…) Lo stesso Mackhno che agli estranei del movimento anarchico ucraino pareva essere unito a voi da una profonda comunità di idee, vedeva nel vostro piattaformismo una deviazione bolscevizzante. Mackhno era anarchico; ed è per questo che, non sperando adescarlo e sapendolo tenacemente coerente nemico, la stampa bolscevica lo ha sistematicamente diffamato in Russia e fuori di Russia.

Voi siete, inserito nel regime bolscevico, un suicida. Non avete altro ruolo che non sia quello dell’anarchico ricreduto. Quando attaccherete noi, tutte le Pravda e tutte le Isvestia vi saranno aperte. Ma se un po’ del lievito rivoluzionario, anche un minimo residuo, è restato nel vostro cervello e vorrete esprimere opinioni non consone a quelle del dittature e dei suoi luogotenenti, finirete come Sandomirsky. Il bivio aperto dinanzi a voi è questo: o insignificante inserito, destinato a confondersi nel grigio totalitario del regime o oppositore ben presto costretto a meditare su quanto e su come il regime bolscevico sia una dittatura proletaria. Questa seconda strada vi salverebbe dal fallimento della vostra personalità. (…) Eravate al di sopra della vostra abiura, Arcinov. Vi è modo e modo di andarsene dalla nostra casa. Voi ne siete uscito sbattendone le porte e vociferando come un ubriaco. E questo modo di uscire porta disgrazia, perché è di per sé un segno di decadenza intellettuale e morale”.

Purtroppo per Arcinov, il nostro fu buon profeta: il russo, dopo essere stato spremuto come un limone a fini propagandistici, verrà, di lì a poco, spietatamente epurato dal regime sovietico.

Arcinov era caduto nel versante opposto della critica che aveva espresso: avviando con altri una comprensibile critica all’anarchismo rispetto all’ambito organizzativo, era scivolato tragicamente nell’imitazione dell’avversario politico, quel bolscevismo che una ristrutturazione seria dell’anarchismo avrebbe messo in grande difficoltà. Questo, perché succube del plagio dei “vincitori”, cosa che gli aveva fatto dimenticare le ragioni dell’anarchismo. Ma succube anche del mito frontista, contrastato da Berneri in Spagna (e non solo) (97), nonché del politicismo senza scrupoli, tipico del bolscevismo. Peraltro, questo malinteso spirito d’unità, pure in campo sindacale (ove la scelta di formare un’organizzazione libertaria verrà sacrificata spesso alla militanza nel sindacato comunista) e filo-consiliarista, divenuto paradossalmente un indistinto, spontaneo embrasson nous (concepito fra mitiche “basi” popolari “autonome”), risulterà anche successivamente un difetto dei cosiddetti “arcinovisti” (di quanti cioè continuarono a seguire le

indicazioni della Piattaforma dopo la morte di Arcinov).

Infine, la seconda questione: la Piattaforma non poteva essere accettabile laddove portava – appunto copiando l’opportunismo marxista in politica – verso l’assurdo della cosiddetta “dittatura antistatale del proletariato”. Una sorta di periodo “transitorio” utilizzante ovviamente l’apparato statuale in termini totalitari: una sorta di pre-anarchismo negante la radice dell’anarchismo. Questo era inusitato, soprattutto per Berneri, che vedeva nella concezione antistatale l’elemento discriminante prioritario dell’anarchismo politico. Anche se per il lodigiano si tratta di un antistatalismo mai immotivato o dottrinario, bensì riconosciuto come base ineludibile per costruire una società di liberi ed eguali, proprio tramite la crescita e la vittoria della società civile a scapito delle impalcature autoritarie costruite per mantenere o ricreare il dominio di classe. Lo scontro fra il lodigiano ed i cosiddetti piattaformisti non è quindi ascrivibile alla questione organizzativa relativa al movimento specifico, rispetto alla quale moltissime sono le prese di posizione a favore di una maggiore strutturazione del movimento libertario negli scritti che abbiamo analizzato.

Non è certo la questione della “responsabilità collettiva”, la “pietra dello scandalo”. Berneri ha addirittura una concezione “etica”   della organizzazione, e in nome dell’integrità della struttura diviene a volte durissimo (98). Semmai, il nostro, rimprovera ai piattaformisti un inalterato eccesso di ingenuità dovuto, ancora una volta, all’idealizzazione delle masse. Vediamo, in proposito, il testo In margine alla piattaforma (99): “(…) nell’azione popolare insurrezionale vedo più «effetti» anarchici che «intenti» anarchici; non credo che la funzione degli anarchici nella rivoluzione debba limitarsi «a sopprimere gli ostacoli» che si oppongono alla manifestazione della volontà delle masse; vedo gravi pericoli e non poche difficoltà negli egoismi municipalisti e corporativi”.

Ed ecco di nuovo la critica del “semplicismo” di Kropotkin, inaccettabile per Berneri e da lui chiamato ancora in causa a proposito di un’ennesima, malintesa “santificazione” dell’azione popolare: “Il «Mir» con i suoi anacronismi, il Comune medioevale autoritario nella sua intima struttura, l’anarchismo comunalista delle masse popolari della Rivoluzione francese, gli apparivano, giustamente, forze innovatrici libertarie, moderne, in funzione storica di anti-Stato. Ma quando si trasportò sul terreno politico e guardò all’avvenire, Kropotkin sublimò le masse. Crollato lo stato, ci vuole una potenza ricostruttrice che ne riprenda e ne perfezioni le funzioni vitali, pubbliche. Kropotkin (la) sostituì (con): l’iniziativa popolare. Questo genio collettivo, questa volontà proteiforme ed armonica insieme, non ha soste e ricorsi. È satura di anarchismo. Gli anarchici posson confondersi in essa, che non fa che moltiplicare i loro sforzi, non fa che attuare le loro idee. Tutt’al più non c’è che da levare in alto una bandiera, da additare qualche ostacolo o lanciare una idea. Tutt’al più non c’è che da respingere il tentativo dei giacobini di pilotare l’azione popolare” (100).

Berneri vuole un progetto chiaro, capace di indicare concretamente la strada dell’organizzazione sociale dopo la rivoluzione, mentre i piattaformisti continuano ad affidarsi al cosiddetto “spirito costruttivo delle masse”. Queste sono paradossali analogie con l’impostazione kropotkiniana. Ma, meglio ancora sarebbe il dire che si tratta di indubbie influenze consigliariste (marxiste nella forma e populiste nella sostanza): “Kropotkin, storiografo ed etnologo, vide, in potenza, l’anarchismo integrale nell’anarchismo relativo delle masse in rivolta o nelle masse viventi fuori dell’orbita statale. Con ingenuo ottimismo proiettò il secondo nella rivoluzione sociale avvenire, e credette che tutto dovesse svolgersi non per una serie di esperienze, più o meno fortunate, ma per un «fiat»“ (101).

In ultima analisi, la necessità di un’organizzazione strutturata viene vista da Berneri come ineludibile, ma a patto che sia utile all’elaborazione di un progetto serio, non l’ennesimo appiattimento strategico di natura ideologica, che non è capace di differenziare la tattica relativamente alle esigenze. Il lodigiano vuole di più di un organismo strutturato, vuole che la capacità di intervenire in modo sincronico derivi da elaborazioni ed acquisizioni convinte, non da un semplice ed inutile conformismo di partito fine a se stesso. Per questo, nel piattaformismo, critica la “tattica unica”: “(…) Bisogna uscire dal romanticismo. Vedere le masse in modo, direi, prospettico. Non c’è il popolo, omogeneo, ma folle varie, categorie. Non c’è la volontà rivoluzionaria delle masse, ma momenti rivoluzionari, nei quali le masse sono enormi leve. (…) «Tattica unica» vuol dire tattica uniforme e continua. Alla «tattica unica» la «Piattaforma» è portata dalla semplificazione del problema dell’azione anarchica in seno alla rivoluzione. Se vogliamo arrivare ad una revisione potenziatrice della nostra non piccola forza rivoluzionaria, bisogna che sbarazziamo il terreno dagli apriorismi ideologici e dal comodo rimandare al domani l’impostazione dei problemi tattici e ricostruttivi. Dico ricostruttivi perché è nelle tendenze conservatrici delle masse il pericolo maggiore dell’arresto e delle deviazioni della rivoluzione” (102).

Se vi fossero ancor dubbi, va detto che è semmai proprio rispetto al profilo organizzativo che Berneri non usa mai mezzi termini. Contrariato dal timore reverenziale di tanti anarchici, avversi per partito preso alla strutturazione del movimento, la ritiene, al contrario, del tutto necessaria.

Nessuna paura della revisione: giudizi di fatto e giudizi di valore

 

Per inseguire e determinare un progetto anarchico capace di affermarsi sul piano politico, Berneri non esitò neanche di fronte alla solitudine: “(…) solissimo arrabbiandomi per far sì che gli anarchici siano qualche cosa di meglio degli eterni chiacchieroni ipercritici ed utopisti (…)” (103). “Chi dice chiaramente il proprio pensiero senza cercare applausi e senza temere le collere è l’uomo della rivoluzione” (104).

Lo confortava una frase di Malatesta, il cui ritaglio (sistema di raccolta e catalogazione molto usato da Berneri), conservava gelosamente: “Chi non si sente più anarchico si ritira da sé, in maniera più o meno franca ed elegante; e chi si sente anarchico resta tale anche se nell’interpretazione tattica dell’anarchismo fosse il solo della sua opinione” (105).

Il lodigiano nobilita il “revisionismo” in campo anarchico: “Non temiamo quella parola revisionismo, che ci viene gettata contro dalla scandalizzata ortodossia, ché il verbo dei maestri è da conoscersi e da intendersi. Ma troppo rispettiamo i nostri maggiori, per porre costoro a Cerberi ringhiosi delle proprie teorie, quasi come ad arche sante, quasi come ai dogmi. L’autoritarismo ideologico dell’ ipse dixit non lo riconosciamo che come canovaccio di comuni motivi ideali, non come schema da svilupparsi in pure e semplici volgarizzazioni” (106).

E’ ancora la figlia di Luigi Fabbri a scrivere: “(…) caratteristica principale che si libera chiaramente da tutti i suoi scritti: l’indipendenza di giudizio di fronte ai ‘Padri della Chiesa’, sarebbe a dire ai pensatori consacrati. Egli aveva in orrore il termine ‘ortodossia’” (107).

Sua convinzione basilare è non avere principi inamovibili: “Lo confermo: a me il richiamo ai principi non fa né caldo né freddo, perché so che sotto quel nome vanno delle opinioni. (…) Io ho dei principi e tra questi vi è quello di non mai lasciarmi impressionare dal richiamo ai principi. (…) L’uomo che ‘parte da principii’ adotta il ragionamento deduttivo, il più infecondo e il più pericoloso. L’uomo che parte dall’esame dei fatti per giungere alla formulazione di principii adotta il ragionamento induttivo: che è l’unico veramente razionale” (108).

Berneri contrasta con vigore: “(…) la gretta e pigra mentalità di molti compagni che trovano più comodo ruminare il verbo dei maestri che affrontare i problemi vasti e complessi della questione sociale quale si presenta oggi” (109).

Contro la religione della scienza

Berneri critica il positivismo, come rivela questa frase contenuta in un intervento di natura filosofica che esprime anche personali tensioni emotive: “respingerò, dunque, qualsiasi verità sulla materia. E fino a quando la materia rimarrà per me un mistero, in quel mistero vi è posto per Dio”.

Ma la valenza politica dello stesso, già dal titolo, non lascia alcun dubbio: “Irrazionalismo e anarchismo”. Si tratta di un testo molto importante, nato come risposta nel mezzo di un dibattito nel corso del quale Berneri fu critico sull’ateismo: “Tutti i ragionamenti dell’ateismo sono di una presunzione enorme e mi sembrano altrettanto assurdi dei ragionamenti del teismo. Irrazionalista, l’anarchico non sarebbe ateo bensì agnostico. E sarebbe il solo modo di essere razionale. Diffidenza verso il si sa dello scienziato; nessuna concezione universale del mondo, agnosticismo di fronte al problema religioso” (110).

Lo aveva già detto, usando delle citazioni, in termini ugualmente efficaci ma forse più “morbidi” ed allusivi, in un altro intervento (111): “Henri Poincaré ha potuto scrivere che «il mondo, che due secoli or sono si credeva relativamente semplice, diventa sempre più oscuro ed indecifrabile» proprio perché viveva in un’era di grande sviluppo scientifico. Ed il Pasteur diceva in un suo discorso: «Colui che proclama l’esistenza dell’infinito – e nessuno vi può sfuggire – accumula in questa affermazione più di soprannaturale di quel che ve ne sia in tutti i miracoli di tutte le religioni»“.

Ma il contributo sull’Irrazionalismo, come ben si può capire, non riguardava certo solo questo punto: “Il razionalismo conduce all’utopismo autoritario, al giacobinismo, alla mistica industrialista. Chi parla di verità proprie e di pregiudizi altrui è incline a sopprimere con la forza le ‘ragioni’ divergenti. (…) La pretesa di possedere la verità conduce a tutti gli eccessi autoritari. (…) La Città del sole dei filantropi autoritari è una specie di enorme gabbia dorata nella quale questi maniaci vorrebbero far entrare l’intera umanità” (112). Viene quindi posta in discussione qualsiasi presunzione dottrinaria basata sic et simpliciter sul raziocinio positivista, sullo scientismo manicheo e materialista che s’era fatto ideologia ed aveva arruolato anche gli anarchici, per analoghi ed altri versi già vittime di un altrettanto pericoloso semplicismo.

A dimostrazione delle difficoltà che il lodigiano aveva rispetto all’ambiente libertario, va detto che il testo rimase inedito, rifiutato dal giornale per il quale era concepito: “L’Adunata dei Refrattari”, di New York. Uscì postumo ed incompleto su “Volontà” solo nel 1952.

Per la tolleranza

 

Contro la violenza dei totalitarismi ed a favore della tolleranza come dato distintivo dell’anarchismo, Berneri ha scritto passi memorabili: “La tolleranza ha, dunque, due piani di possibilità: quello intellettuale e quello morale. Quanto al primo è tollerante colui che conoscendo il valore dello scambio di idee, della loro fusione o contrasto, non respinge aprioristicamente le ideologie altrui, ma si accosta ad esse e tenta penetrarle; per trarne ciò che vi è di buono (…). Quanto al secondo è tollerante colui che, pur avendo fede in un gruppo di principi e sentendo profondamente la passione di parte, comprende che altri, per il loro carattere, per l’ambiente in cui vivono, per l’educazione ricevuta ecc., non partecipa alla sua fede e alla sua passione. La distinzione tra il male e il malvagio, tra la tirannide e gli oppressori è scolastica, e chi concepisce la vita come lotta per il bene e per la libertà deve combattere coloro che intralciano la sua opera di redenzione. Ma il suo spirito, pur negando come formalistica la distinzione sopraccennata nei riguardi del problema morale dell’azione, giunge a combattere senza l’odio bruto che non sa la pietà (…). E a svolgere quest’azione di tolleranza, con la propaganda e con la forza, dobbiamo essere noi. I comunisti hanno una mentalità domenicano-giacobina, i socialisti riformisti sono dei De Amicis che si perdono in un impotente sentimentalismo. Noi possiamo abbinare la violenza e la pietà, in quell’amore per la libertà che ci caratterizza politicamente ed individualmente. La tolleranza è un concetto squisitamente nostro, quando non si intenda con questo termine  il menefreghismo (113).

Umanesimo e anarchismo

 

Alla tolleranza va avvicinato l’umanesimo profondo “ereditato” da Malatesta: “Malatesta è stato sempre profondamente umano, anche verso i poliziotti che lo sorvegliavano. Una notte fredda e piovosa, in Ancona, egli sapeva che un questurino era là alla porta, ad inzupparsi e a battere i denti per adempiere il proprio compito. Andare a letto compiacendosi di sapere il segugio nelle peste sarebbe stato naturale, ma non per Malatesta, che  scese alla porta ad invitare il questurino a scaldarsi un po’ e a bere un caffè. Passarono gli anni, tanti anni. Una mattina, in piazza della Signoria, a Firenze, Malatesta riceve un buon giorno, signor Errico’ da un vecchio spazzino municipale. (…) Gli domanda chi sia e quegli gli dice: ‘Sono passati tanti anni. Si ricorda quella notte che io ero alla sua porta…’. Era quel questurino, che serbava in cuore il ricordo di quella gentilezza come si conserva tra le pagine di un libro il fiore colto in un giorno soleggiato dalla gioia di vivere. Malatesta, nel raccontare quell’incontro, aveva un sorriso di dolce compiacenza, quello stesso sorriso con cui Gori respingeva l’insistente offerta di portargli la valigia, pesante di lastre da proiezione, dei poliziotti che, nel corso delle sue tournées di conferenze, lo attendevano alla stazione. (…) Soltanto chi vede in ogni uomo l’uomo, soltanto costui è umanista. L’industriale cupido che nell’operaio non vede che l’operaio, l’economista che nel produttore non vede che il produttore, il politico che nel cittadino non vede che l’elettore: ecco dei tipi umani che sono lontani da una concezione umanista della vita sociale. Egualmente lontani da quella concezione sono quei rivoluzionari che sul piano classista riproducono le generalizzazioni arbitrarie che nel campo nazionalista hanno nome xenofobia. Il rivoluzionario umanista è consapevole della funzione evolutiva del proletariato, è con il proletariato perché questa classe è oppressa, sfruttata ed avvilita ma non cade nell’ingenuità populista di attribuire al proletariato tutte le virtù e alla borghesia tutti i vizi e la stessa borghesia egli comprende nel suo sogno di umana emancipazione” . (…) Niente dittature, né del cervello sui calli, né dei calli sul cervello, ché ogni uomo ha un cervello e il pensiero non sta nei calli”. (…) Dittatura del proletariato è concetto e formula d’imperialismo classista, equivoca ed assurda. Il proletariato deve sparire, non governare (…). Che cosa permane allo sparire delle classi? Rimangono le categorie umane: intelligenti e stupidi, colti e semi-incolti, sani e malati, onesti e disonesti, belli e brutti, ecc.. (…) La rivoluzione sociale, classista nella sua genesi, è umanista nei suoi processi evolutivi. Chi non capisce questa verità è un idiota. Chi la nega è un aspirante dittatore” (114).

La verve antidottrinaria di Berneri, quindi, non fu certo rivolta solo contro i “dogmi” dei “maestri” dell’anarchia, per i quali, peraltro, conservò sempre, pur nella polemica, profonda considerazione, bensì contro tutti i luoghi comuni della “vulgata” di una certa sinistra.

 

Il revisionismo marxista

 

Berneri sviluppa un’altra delle vecchie questioni indicate da Bakunin. Puntando tutto sull’economico e considerando la cultura come “sovrastrutturale”, il potere sarà ancora una volta nelle mani di epigoni borghesi, naturali detentori degli arnesi del sapere atti a gestire la cosa pubblica, o dell’aristocrazia operaia, patrimonio quindi di un nuovo ceto tecnoburocratico giunto a dominare grazie all’infingimento della dittatura “proletaria”. In sostanza, non basta abolire la proprietà privata, se si crea una nuova struttura di dominio (connaturata allo stato), perché, tramite il monopolio del sapere, rimarrà il monopolio della conduzione del bene pubblico, amministrato da pochi sebbene nel nome di tutti. Evidentemente, il monopolio, anche economico, nelle mani dello stato, e la dittatura del partito unico rendono impossibile lo sviluppo della società in senso autogestionario: “Egualmente formalista è l’affermazione della necessità di un massimo concentramento del potere economico e politico dello Stato, come se il massimo concentramento avesse di per se stesso potere regolatore, virtù d’innovazione positiva, e non fosse, invece, il massimo accentramento statale passibile di dare una progressione geometrica agli errori dei governanti” (115).

Per Berneri, che lo stato sia la causa scatenante delle classi: “appare evidente dagli studi degli stessi marxisti quando siano degli studi seri, come quello di Paul Louis su Le travail dans le monde romain (Parigi 1912). Da questo libro risulta chiaramente che il ceto capitalista romano si è formato come parassita dello Stato. Dai generali predoni ai governatori, dagli agenti delle imposte alle famiglie degli argentari, dagli impiegati della dogana ai fornitori dell’esercito, la borghesia romana si creò mediante la guerra, l’intervenzionismo statale nell’economia, il fiscalismo statale, ecc., ben più che altrimenti. E se esaminiamo l’interdipendenza tra lo Stato e il capitalismo, vediamo che il secondo ha largamente profittato del primo per interessi statali e non nettamente capitalistici. Tanto è vero questo, che lo sviluppo dello Stato precede lo sviluppo del capitalismo. L’Impero Romano era già un organismo vastissimo e complesso quando il capitalismo romano era ancora alla gestione familiare. Paul Louis, non esita a proclamare: ‘Il capitalismo antico è nato dalla guerra’. I primi capitalisti furono, infatti, i generali ed i pubblicani. Tutta la storia della formazione delle fortune è storia nella quale è presente lo Stato. E’ da questa convinzione che lo Stato è stato ed è il padre del capitalismo e non soltanto il suo alleato naturale che noi deriviamo la convinzione che la distruzione dello Stato è la conditio sine qua non della disparizione delle classi e della non-rinascita di esse” (116).

Il lodigiano si scontra violentemente con il bolscevismo, considerando insieme impropri e mortali per il movimento socialista l’eliminazione del pluralismo ed il dominio del partito unico. Cosa che non perdona a Lenin e a Stalin, ma neppure a Trotskij, condannandone l’involuzione militarista e la disinvoltura politica: “Trotsky in atteggiamento di san Giorgio in lotta con il drago stalinista non può fare dimenticare il Trotsky di Kronstadt” (117).

Berneri svela inesorabilmente il legame profondo fra i dettami del marxismo ed i suoi epigoni, nessuno escluso, neppure quelli che denunciano la “burocratizzazione” del sistema sovietico. Infatti l’errore sta all’origine: “(…) se la diagnosi opposizionale è quasi sempre esatta, l’etiologia opposizionale è quasi sempre insufficiente. (…) Scagliarsi contro gli effetti senza risalire alle cause, al peccato originale del bolscevismo (dittatura burocratica in funzione di dittatura del partito) vale semplificare arbitrariamente la catena causale che dalla dittatura di Lenin giunge a quella di Stalin, senza profonde soluzioni di continuità” (118).

I marxisti sono i giacobini del socialismo e se Stalin è Napoleone, Lenin è Robespierre: “Chi dice «Stato proletario» dice «capitalismo di Stato»; chi dice «dittatura del proletariato» dice «dittatura del Partito Comunista»; che dice «governo forte» dice «oligarchia zarista» di politicanti. Leninisti, trotskisti, bordighisti, centristi non sono divisi che da diverse concezioni tattiche. Tutti i bolscevichi, a qualunque corrente o frazione essi appartengano, sono dei fautori della dittatura politica e del socialismo di Stato. Tutti sono uniti dalla formula: «dittatura del proletariato», equivoca formula corrispondente al «popolo sovrano» del giacobinismo. Qualunque sia il giacobinismo, esso è destinato a deviare la rivoluzione sociale. E quando questa devia, si profila l’ombra di un Bonaparte. Bisogna essere ciechi per non vedere che il bonapartismo stalinista non è che l’ombra fattasi vivente del dittatorialismo leninista” (119).

Nell’illusoria “scientificità” del meccanicismo economicista, nella subordinazione di ciò che è affatto “sovrastrutturale”, nel machiavellismo spregiudicato sempre pronto alla “conversione” dei principi a seconda della convenienza del momento, nella riduzione della libertà a “concetto borghese”, il marxismo teorizzato ed applicato tradisce tutti i suoi vizi.

Berneri denuncia di concerto la discriminazione del “popolo non operaio” ed all’interno di questo verso le masse contadine, peraltro a volte più combattive di quelle industriali: “Durante la settimana Rossa i centri industriali si mantennero fermi. Durante l’agitazione interventista, i centri industriali furono al di sotto delle campagne nelle manifestazioni antiguerresche. Durante le agitazioni del dopo-guerra i centri industriali furono i più lenti a rispondere. Contro il fascismo nessun centro industriale insorse come Parma, come Firenze e come Ancona, e la massa operaia non ha dato alcun episodio collettivo di tenacia e di spirito di sacrificio che eguagli quello di Molinella. Gli scioperi agrari del modenese e del parmense rimangono, nella storia della guerra di classe italiana, le sole pagine epiche. E le figure più generose di organizzatori operai le hanno date le Puglie. Ma tutto questo è misconosciuto. Si scrive e si parla dell’occupazione delle fabbriche, e quella delle terre, ben più grandiosa come importanza, è quasi dimenticata. Si esalta il proletariato industriale, mentre ognuno di noi, se ha vissuto e lottato nelle regioni eminentemente agricole, sa che le campagne hanno sempre alimentato le agitazioni politiche d’avanguardia delle città e hanno sempre dato prova, nel campo sindacale in ispecie, di generosa combattività” (120).

Per il lodigiano, sono sbagliate ed ingiuste le discriminazioni aprioristiche anche contro il ceto medio e medio-basso: “(…) La realtà è la classe sfaccettata in ceti, la classe eterogenea socialmente e psicologicamente” (121).

Tutti gli uomini hanno bisogno di essere redenti da altri e da se stessi. Il proletariato è stato, è e sarà più che mai il fattore storico di questa universale emancipazione. Ma lo sarà tanto più quanto meno sarà fuorviato dalla demagogia che lo indora e ne diffida, che lo dice Dio per trattarlo da pecora, che gli pone sul capo una corona di cartapesta e lo lusinga perfidiosamente per conservare, o per conquistare, su di lui il dominio” (122).

Per il lodigiano, il marxismo diviene parodia di se stesso quando, con presunta “scientificità”, condiziona lo sviluppo umano allo sviluppo dell’industrialesimo: “(…) la teoria della concentrazione del capitale si ridurrebbe ad un errore teorico che non intaccherebbe la solidità del marxismo se non avesse assunto, nella forma rivoluzionaria, il valore della previsione: separazione profonda tra le classi e conseguente cozzo finale (…); nella forma social-democratica, della previsione: conquista completa dello Stato da parte del proletariato per mezzo del parlamento. Quest’ultima revisione da tempo non ha ripercussione politica notevole, ma la prima si è trasformata in quella idolatria della grande industria come condizione necessaria del socialismo” (123).

Tale convinzione, che ha fatto del marxismo una “energia collaterale” nell’opera di spoliazione delle società cosiddette “primitive” (e non statali) e nella devastazione dell’ambiente, ha esportato anche a sinistra il mito del produttivismo, finendo, col bolscevismo e lo stalinismo, alla

ben nota farsa consistita nell’esaltazione dello stakanovismo.

Dovere del lavoro e diritto all’ozio

Berneri, pur fautore di una “rivoluzione culturale” ed economica in grado di eliminare l’anomia indotta dalla ruolizzazione del lavoro e dai miti del produttivismo acquisiti anche nel campo socialista (124), si preoccupò di ragionare sul modo affinché in una società liberata il lavoro venisse accettato come un dovere di tutti: “Un grande numero di anarchici oscilla tra il diritto all’ozio e l’obbligo del lavoro per tutti, non riuscendo a concepire una formula intermedia, che mi pare potrebbe essere questa: nessun obbligo di lavorare, ma nessun dovere verso chi non voglia lavorare” (125).

Cionondimeno, l’operaismo è per il lodigiano una deviazione ipocrita e pericolosa, dietro la quale spesso si celano anche forme di corporativismo invalse in un certo mediocre sindacalismo, incline a “lottare”, ad esempio, per l’aumento delle commesse militari nelle fabbriche d’armi.

Stesso dicasi per certe antieconomiche forme di protezionismo, destinate ad impoverire i consumatori ed a creare disoccupazione per favorire mere rendite di categoria: “Nel 1914, gli operai dell’industria zuccheriera che erano 4.500, cioè una piccolissima categoria, venivano protetti dai socialisti riformisti, che chiedevano al governo la protezione doganale dello zucchero, senza curarsi dell’industria danneggiata dall’alto prezzo della materia prima. Tale richiesta veniva a danneggiare tutti i consumatori italiani, costretti a pagare a prezzo più alto non solo lo zucchero, ma anche le confetture e le marmellate. Non solo; essa limitava il consumo interno delle seconde, ne impediva la esportazione, quindi diminuiva il lavoro degli operai di queste industrie. Gli operai degli zuccherifici avrebbero, quindi, dovuto: o richiedere la protezione per tutte e due le industrie o richiedere il libero scambio per lo zucchero, potendo essi essere assorbiti dallo sviluppo dell’industria delle confetture e della marmellata. Questo nell’interesse generale. Ma come pretendere che gli operai degli zuccherifici che guadagnavano «salari elevati, ignoti ad altre categorie di lavoratori» (Avanti!, 10 marzo 1910) rinunziassero alla loro posizione privilegiata?”(126).

Contro l’operaiolatria

 

L’operaismo sviluppa, per Berneri, un’inaccettabile iconografia. Scrisse: “Fu a Le Pecq, mentre in costume e in fatica da manovale muratore mi aveva sorpreso uno dei ‘responsabili’ comunisti. ‘Ora la puoi conoscere, Berneri, l’anima proletaria!’. Così mi aveva apostrofato. Tra una stacciatura di sabbia e due secchi di ‘grossa’ riflettei (…). I primi contatti con il proletariato: era lì che cercavo la materia della definizione. Ritrovai i miei primi compagni (…). E dopo allora, quanti operai, nella mia vita quotidiana! Ma se nell’uno trovavo l’esca che faceva scintilla nel mio pensiero, se nell’altro scoprivo affinità elettive, se nell’altro ancora mi aprivo con fraterna intimità, quanti altri aridi ne incontravo, quanti mi urtavano con la loro boriosa vuotaggine, quanti mi nauseavano con il loro cinismo! (…) E gli amici e i compagni operai più intelligenti e più spontanei mai mi parlavano di ‘anima proletaria’. Sapevo proprio da loro, quanto lente a progredire fossero la propaganda e l’organizzazione socialiste. Poi (…) vidi il proletariato, che mi parve, nel suo complesso, quello che ancor oggi mi pare, un’enorme forza che si ignora; che cura, e non intelligentemente, il proprio utile; che si batte difficilmente per motivi ideali, o per scopi non immediati, che è pesante di infiniti pregiudizi, di grossolane ignoranze, d’infantili illusioni. (…) Il giochetto di chiamare ‘proletariato’ i nuclei di avanguardia e le élites operaie è un giochetto da mettere in soffitta. (…) Una ‘civiltà operaia’, una ‘società proletaria’, una ‘dittatura del proletariato’: ecco delle formule che dovrebbero sparire. Non esiste una ‘coscienza operaia’ come tipico carattere psichico di un’intera classe; non vi è una radicale opposizione tra ‘coscienza operaia’ e ‘coscienza borghese’” (127).

 

 

Il valore della cultura

 

La cultura, peraltro, ha per lui un valore quasi assoluto. Ma non certo in quanto mero esercizio di enciclopedismo elitario e dimostrativo fine a se stesso, la qual cosa Berneri rifugge a tal punto da farne oggetto di analisi impietose e persino inutilmente autocritiche (sorta di “esorcismi” volti a definire prioritariamente un ruolo militante che prevale nettamente sul suo essere intellettuale). La sua preoccupazione è quella di differenziarsi dallo stile del “pensatore solitario” chiuso in una torre d’avorio che, con una critica speciosa ed onnicomprensiva, naufraga infine nel puro scetticismo.

Cultura e pratica d’analisi sono per Berneri indispensabili alla maturazione della coscienza e della capacità dell’organizzazione libertaria, ed è per questo che mostra di aborrire l’ideologismo, statico e immutabile: “Un anarchico non può che detestare i sistemi ideologici chiusi (teorie che si chiamano dottrina) e non può dare ai principi che un valore relativo” (128). Il lodigiano non sopporta la superficialità raffazzonata ed invasata dei neofiti e la sicumera di alcuni dottrinari dell’anarchismo: “Noi siamo sprovvisti di coscienza politica nel senso che non abbiamo consapevolezza dei problemi attuali e continuiamo a diluire soluzioni acquisite dalla nostra letteratura di propaganda. Siamo avveniristi, e basta. Il fatto che ci sono editori nostri che continuano a ristampare gli scritti dei maestri senza mai aggiornarli con note critiche, dimostra che la nostra cultura e la nostra propaganda sono in mano a gente che mira a tenere in piedi la propria azienda, invece che a spingere il movimento ad uscire dal già pensato per sforzarsi nella critica, cioè nel pensabile. Il fatto che vi sono dei polemisti che cercano di imbottigliare l’avversario invece di cercare la verità, dimostra che fra noi ci sono dei massoni, in senso intellettuale. Aggiungiamo i grafomani pei quali l’articolo è uno sfogo o una vanità ed avremo un complesso di elementi che intralciano il lavorio di rinnovamento iniziato da un pugno di indipendenti che danno a sperar bene. (…) E’ l’ora di finirla coi farmacisti dalle formulette complicate, che non vedono più in là dei loro barattoli pieni di fumo; è l’ora di finirla coi chiacchieroni che ubriacano il pubblico di belle frasi risonanti; è l’ora di finirla con i semplicisti, che hanno tre o quattro idee inchiodate nella testa e fanno da vestali al fuoco fatuo dell’Ideale distribuendo scomuniche” (129).

Anche fra noi vi è il volgo, difficile a fare orecchio nuovo a musica nuova, che ad impostazioni di problemi e a soluzioni oppone vaghi disegni utopistici e grossolane invettive demagogiche. Ché quelle quattro ideuzze, racimolate in opuscoletti didascalici o in grossi libri incompresi, nel cervelluccio inoperoso si sono accucciate e se ne stan lì, al calduccio di una facile retorica che pretende essere forza solare di una fede intera, mentre non è che focherello fumoso”(130).

Il suo sforzo per la costruzione di un progetto politicamente fruibile per l’anarchismo è assai complesso e variegato, come dimostra l’organicità della Costituzione della Federazione Italiana Comuni Socialisti (FICS) (131), sortita a latere del Convegno d’intesa degli anarchici italiani esuli in Francia tenutosi a Parigi nel 1935, ove è ben riconoscibile un preciso organigramma collettivistasindacalista-comunalista. Anche se si tratta di un progetto di “secondo livello” per l’anarchismo, utile, come ha avuto modo di sostenere Max Sartin, principalmente ad una mediazione per l’alleanza con Giustizia e Libertà, vi si trovano elementi tipici della posizione berneriana. Oltre al piano di una strutturazione orizzontale tramite il quale la società civile esautora lo stato, v’è ad esempio una particolare attenzione nella salvaguardia dell’autonomia e delle specifiche competenze delle professioni. Un elemento che richiama il periodo contiguo agli studi universitari, quando il nostro si prese una “reprimenda” da Salvemini appunto per aver innalzato l’insegnamento alla stregua di una professione: “…occorre sopprimere ciò che non si riferisce strettamente al tema. Il libero esercizio delle professioni ha niente da vedere con la libertà d’insegnamento. (…) le due questioni sono del tutto distinte: e formano argomenti di studi diversi. (…) Comprendere insieme le due discussioni non è né logicamente corretto, né utile al lavoro. (…) Sono incantato di aiutarti coi miei consigli; (…) è il mio dovere di insegnante” (132). Ricordiamo che Berneri ha esercitato il lavoro di cattedra. Alla luce degli sviluppi della funzione docente, ridotta ormai a rango di livello impiegatizio, chi può dire quale dei due avesse ragione?

Per un programma economico aperto

 

Berneri, se è intransigente in politica (per lui l’anarchismo coincide prioritariamente col rifiuto dello stato), non lo è in campo economico. Il ruolo dell’individuo deve venire recuperato in una struttura sociale che ne favorisca le inclinazioni e, pur nella necessaria strategia volta alla democrazia economica, occorre tener conto del valore e dell’iniziativa dei singoli.

Egli propende quindi per un sistema collettivista di tipo bakuniniano, con il rispetto della piccola proprietà (anche agraria), contemperata dalla eliminazione del lavoro salariato e da “inserti” di comunismo non coatto, proposti soprattutto a mo’ d’esempio e per realizzare, in itinere, il necessario incontro con i “compagni di strada” liberalsocialisti: “Le mie simpatie per i repubblicani revisionisti in senso socialista e autonomista risalgono al 1918 e le ho più volte manifestate, giungendo a polemizzare con Malatesta, che insistiva sull’individualismo repubblicano in contrasto con il comunismo nostro, (e le ho più volte manifestate) a favore di questa tesi: il collettivismo, inteso (…) come adattamento delle premesse comuniste alla realtà economica e psicologica dell’Italia, può diventare il terreno d’incontro e di collaborazione tra noi e i repubblicani” (133).

Avoca ai comuni ed alle entità federali la gestione generale delle terre e delle istituzioni pubbliche, ma intende premiare la capacità produttiva per il tramite di cooperative ed associazioni. Affida le grandi imprese alle assemblee operaie.

La sua è, anche in economia, un forma complessa di socialismo libertario (“socialista libertario come lo sono io”) (134), che parte dal piano più semplice per giungere ad una realtà più ramificata (ma mai piramidale), più “equitaria” che pianificatoria. Parlando della Prima Internazionale in Italia, ed usando la cosa per chiarire il suo pensiero, Berneri scrive: “ <<Il socialismo non ha ancora detto la sua ultima parola; ma esso non nega ogni proprietà individuale. Come lo potrebbe, se combatte la proprietà individuale (leggi: capitalista) del suolo, per la necessità che ogni individuo abbia un diritto assoluto di proprietà su ciò che ha prodotto? Come lo potrebbe se l’assioma ‘chi lavora ha diritto ai frutti del suo lavoro’, costituisce una delle basi fondamentali delle nuove teorie sociali?’>> (…) In questa risposta del Friscia è netta l’opposizione della proprietà per tutti alla proprietà monopolistica di alcuni; il principio dell’eguaglianza relativa (economica); ed infine il principio dello stimolo al lavoro rappresentato dalla ricompensa proporzionata, automaticamente, alle opere” (135). L’accento è posto sia su una democrazia diretta da realizzarsi prioritariamente in sede locale (pur contemperata dall’opera di salvaguardia solidaristica e di controllo di altre entità di tipo regionale e nazionale), che sull’attenzione allo sviluppo autonomo dei membri della collettività (cosa determinante per la stessa).

Il lodigiano coglie con preveggenza il problema e la sfida che rappresenta per il movimento rivoluzionario l’imporsi di una società complessa con un’enorme moltiplicazione dei beni, ove la questione di una nuova qualità della vita non può venire affrontata deterministicamente con un sistema chiuso. Egli considera “utopistica ogni pretesa di ridurre la produzione ad una sola forma”, individuale od associata (136). I meccanismi della partecipazione, l’organizzazione del lavoro, come già la diffusione della cultura, sono prioritari nella sua riflessione, in un interrogarsi che non ammette deroghe inclini al “sic et simpliciter” e ad assolutizzazioni ideologiche. Una

riflessione che non dà mai nulla per scontato.

In sostanza, Berneri indaga a tutto campo e “senza rete”, mettendo in crisi tutti i dogmi del socialismo. Di se stesso scrive: “Ho abbandonato il movimento socialista perché continuamente mi sentivo dare dell’anarchico; entrato nel movimento anarchico mi sono fatto la fama di repubblicano federalista. Quello che è certo è che sono un anarchico sui generis, tollerato dai compagni per la mia attività, ma capito e seguito da pochissimi. I dissensi vertono su questi punti: la generalità degli anarchici è atea ed io sono agnostico; è comunista ed io sono liberista (cioè sono per la libera concorrenza tra lavoro e commercio cooperativi e lavoro e commercio individuali); è anti-autoritaria in modo individualista ed io sono semplicemente autonomistafederalista (Cattaneo completato da Salvemini e dal Sovietismo)” (137). “In sede politica, il federalismo repubblicano di Cattaneo e del Ferrari mi pareva, fin dal 1918, passibile d’integrarsi col comunalismo libertario propugnato dalla 1.a Internazionale e con il Soviettismo, quale esperienza genuina, cioè prima che diventasse strumento della dittatura bolscevica” (138).

Nondimeno Berneri resterà sempre e comunque un socialista libertario ed i tentativi (anche postumi) di guadagnarlo al liberalismo rimarranno sempre frustrati.

Astensionismo ed anarchismo

 

Berneri arriva a mettere in discussione anche la pratica astensionista. Parte dall’assunto che la critica antiparlamentare debba nutrirsi di esempi pratici, in grado di rendere chiaramente comprensibile alla gente comune sia le lacune del burocratismo dovute alla delega priva di controllo che la sostituibilità del sistema secondo un progetto orizzontale. Perciò la propaganda non dovrà essere astrusa e dozzinale, dovendosi invece nutrire del quotidiano, ed il progetto dovrà essere meditato, pratico e comprensibile: “Federalismo! E’ una parola. E’ una formula senza contenuto positivo. Che cosa ci danno i maestri? Il presupposto del federalismo: la concezione antistatale, concezione politica e non impostazione tecnica, paura dell’accentramento e non progetti di decentramento” (139).

Berneri si scaglia quindi contro la reiterazione senza soluzione di continuità che l’anarchismo fa dell’astensionismo: “Come constato l’assoluta deficienza della critica antiparlamentare della nostra stampa, lacuna che mi pare gravissima, così non sono astensionista nel senso che non credo, e non ho mai creduto, all’utilità della propaganda astensionista in periodo di elezioni” (140). La propaganda astensionista va usata cum grano salis: è da adottarsi solo se utile tatticamente. Precisamente: “Ora, vorrei poter proporre a Malatesta questo quesito: se un trionfo elettorale dei partiti di sinistra fosse un tonico rialzante il morale abbattuto della classe operaia, se quel trionfo permettesse il discredito degli esponenti di quei partiti e avvilisse al tempo stesso le forze fasciste, se quel trionfo fosse una conditio sine qua non degli sviluppi possibili di una rivoluzione sociale, come un anarchico dovrebbe comportarsi? (…) Che quell’anarchico possa errare nella valutazione del momento politico è possibile, ma il problema è: se giudicando così un momento politico ed agendo di conseguenza egli cessa di essere anarchico (141).

Berneri, in realtà, si chiede che tipo di democrazia debba costruire l’anarchismo e non tralascia d’interrogarsi anche sul diritto (“ubi societas ibi jus”) (142).

Ubi societas, ibi jus: la differenza fra autorevolezza ed autoritarismo

 

Berneri ci lascia in merito un’ultima riflessione importante per l’anarchismo: “L’autorità è libertà quando l’autorità sia mezzo di liberazione, ma lo sforzo anti-autoritario è necessario come processo di autonomia. Autorità e libertà sono termini di un rapporto antitetico che si risolve in sintesi, tanto più la antitesi è sentita e voluta” (143). E’ l’autorevolezza che sta nelle cose, presente in natura, ad esempio, nelle regole non scritte che soprassiedono allo scambio di esperienze fr esseri umani e ai meccanismi dell’apprendimento, o al rapporto con i figli: “Ed è, d’altra parte, l’eteronomia dell’autorità, quando non mi ha soffocato od offuscato lo spirito, che ha permesso la mia autonomia, cioè la mia libertà” (144). Il concetto ha un valore notevole e si avvicina molto ad una dichiarazione programmatica, sempre presente nei testi di Berneri.

Quella del lodigiano è una concezione dinamica, pragmatica e affatto demagogica, per una nuova pedagogia sociale rivoluzionaria: “L’anarchia mi pare risulti dall’approssimarsi, identificarsi mai, ché sarebbe la stasi, della libertà e dell’autorità. Come principi. Come fatti, libertà e autorità stanno tra loro come verità ed errore; come enti che differenziano e si identificano, nel divenire storico” (145).

 

Berneri e Malatesta

 

Chiuderemo questo excursus berneriano cercando di tracciare – a mo’ di sintesi e chiosa – la differenza fra l’opzione malatestiana (un “classico” dell’anarchismo) e quella del nostro. Meglio sarebbe dire che si proverà a definire per sommi capi il percorso evolutivo che stacca Berneri da Malatesta, ma che pure mantiene i due in relazione. E’ vero infatti che se l’attualismo del lodigiano supera il volontarismo, dallo stesso volontarismo Berneri non prescinde completamente. Semplicemente lo sublima politicamente.

A prescindere da Malatesta, per Berneri, anziché parlare sempre e solo dei massimi sistemi, in un crescendo millenaristico che verrà riconosciuto al massimo come utopia positiva, irrealizzabile o molto “aldilà” da venire, la propaganda anarchica deve calarsi nella realtà, deve prendere corpo nell’azione quotidiana. In sostanza, non deve affidarsi al semplice volontarismo, deve divenire induttiva. L’anarchismo deve essere levatore di se stesso partendo dal capo e non dalla coda della problematica sociale. Per vincere, deve convincere la società civile che si può fare a meno dello stato, che ci si può organizzare su basi differenti, e che tutto ciò è assolutamente pratico e utile.

D’altro canto è evidente la necessità immediata di uscire dalle vuote formule cui il dottrinarismo ha costretto la ricerca sociale ed economica del movimento. Un movimento al quale – banalizzando – è stato predicato che prima avviene la rottura rivoluzionaria e poi la costruzione, che i due momenti sono privi di continuità e religiosamente separati, quasi nell’attesa di una sorta di palingenesi “mistica”, tanto timoroso di sbagliare da esser certo che si sbagli non appena ci si cali nell’opera di preconizzazione del futuro.

Questo è il segno dell’influenza giacobina sul movimento libertario, sia perché dal giacobinismo mutua la sciocca certezza che, mutatis mutandis, un “partito” d’avanguardia possa comunque forzare e predeterminare il futuro con la semplice azione o il gioco d’azzardo dei propri quadri (concezione che può bastare solo ad organizzazioni che abbiano come fine ultimo la realizzazione di un mero colpo di stato), sia perché esigenze dovute alle incombenze immediate della lotta politica e della storia costringono giocoforza l’anarchismo (privato della riflessione e del “sistemismo” che invece i vari giacobini praticano) a seguire pedissequamente “in coda” il bolscevismo in tutte le sue varianti.

Anche questo viene capito dal Berneri che comunque, sia detto per inciso, è un intellettuale d’azione. Egli afferma: “Io ho sempre vissuto, idealmente, accanto ai giganti dell’azione. Non ho idolatrie, ma tutti coloro che gettarono la vita, la libertà, la salute nel turbine luminoso della lotta per la Causa mi sembrano fratelli” (146).

Il lodigiano non disdegna per nulla l’opera di traino dei militanti rivoluzionari. Per lui occorrono l’uno e l’altro: un progetto che sfugga all’arroganza dei sistemismi e degli scientismi, nonché l’azione. Un progetto chiaro e comprensibile, ma sempre in divenire e soprattutto sempre aperto davanti agli insegnamenti pratici e teorici che si determineranno nel corso del suo inverarsi. Un’azione senza compromessi sul piano etico, ma pragmatica soprattutto nella capacità attrattiva che deve svolgere verso le masse. Infine, è per lui necessaria una revisione epistemologica, filosofica e sistemica dell’anarchismo. Paradossalmente, nonostante le critiche che riceve, Berneri è molto più “libertario” dei suoi detrattori o di quanti sono portati ad esprimersi polemicamente nei suoi confronti. Berneri, proprio nel momento in cui ritiene sia più necessario di qualsiasi altra cosa elaborare un programma, è totalmente convinto dell’impossibilità di una realizzazione, totale e radicale, del programma stesso.

Per gli stessi motivi, Berneri sa bene quanto poco possa essere auspicabile la credenza palingenetica nella totale trasformazione sociale dovuta alla rottura rivoluzionaria e persino, altrettanto naturalmente, aborre il retaggio di un’idea di perfezione. Proprio il pragmatismo varrebbe infatti a spingere il movimento anarchico, che dovrebbe essere il meno dottrinario per definizione, ad una prassi di continuo confronto senza rete con la realtà e con il progetto.

Tutto ciò è tanto importante da spingere il lodigiano a mettere nel conto che sarà meno grave un isolamento interno dell’anarchismo innovatore, dovuto all’incomprensione dell’ortodossia libertaria, che un isolamento dell’intero movimento rispetto al resto della società a causa dell’incapacità di rinnovarsi. Tuttavia non esiste il “sofisma” della “verità”. Se occorre riflettere a trecentosessanta gradi e darsi una rotta, non bisogna neppure dimenticare l’aderenza alla questione fondamentale: il moto di sdegno contro l’ingiustizia. Da ciò, il richiamo al sentimento, all’impeto, alla “bellezza” intrinseca allo spirito rivoluzionario.

Quali sono dunque le differenze fra il classico volontarismo malatestiano e l’attualismo berneriano?

Entrambi combattono contro il rivoluzionarismo “general generico”. L’alterità etica vale in entrambi i casi. Ma per il lodigiano il primo richiamo è verso la capacità d’incidere nel mondo e d’essere all’altezza delle situazioni, nonché dell’inevitabile assunzione di responsabilità che questo comporta, onde piegare la politica all’etica. Tutti e due lottano contro il nichilismo e le correnti disgregatrici, tutti e due promuovono un forte senso d’appartenenza, ma in Berneri tale sentimento è “più politico”. Per Malatesta conta maggiormente l’autonomia assoluta dell’etica di fronte alla politica. Tanto che, come avvenuto soprattutto dopo la scomparsa del “grande vecchio” (la cui mera presenza di grande organizzatore, unitamente ad un intuito innato avevano sempre funzionato da “collante”), l’anarchismo corre il pericolo di dirigersi semplicemente “contro la storia”.

Ma a ben vedere il volontarismo malatestiano rischia di divenire molto più “politico” di quanto non sembri, o addirittura involontariamente politicista. Se estremizzato (nel modo secondo il quale se ne sono appropriati molti epigoni), vi si può riscontrare la pericolosa tendenza a vedere il sociale quale mera risultante della volontà. Quindi volontà politica, se vogliamo, degli “uomini d’azione”, una variante “romantica” del partito di quadri (la “minoranza agente”).

Parliamo naturalmente della propensione a pensare di poter sovradeterminare la realtà per il tramite preponderante della volontà. La realtà è però molto più complessa, e l’evoluzione sociale, soprattutto se la si vuole libertaria, necessita per forza di cose un’attenzione particolarissima al livello di consapevolezza del corpo sociale (ed alla crescita dello stesso). Il volontarismo ha quindi senso solo se diviene volontà d’ascolto, capacità di relazione, sintonizzazione sulla lunghezza d’onda delle “masse”, stimolo alla crescita. La mera volontà, altrimenti intesa, può servire unicamente ad un colpo di mano più o meno autoreferenziale che (se riuscito) necessita poi di un’altra iniezione di “volontà”: quella dei vincitori (che diviene imposizione). L’approdo di un tale “volontarismo”, ben lungi dai desideri di Malatesta (il cui impianto teorico era poi tutto volto alla tolleranza), può divenire una variante di quella che oggi viene chiamata “società trasparente”, nell’accezione di una realtà subordinata agli imperativi di qualche “metafisica” volontà, che controlla l’intera vita di relazione. E’ per questo che – come dice Giampietro Berti (anche se all’interno di un discorso d’altro tipo) – per Berneri: “All’idea di un assetto ideale sotteso da una tensione utopica, è preferibile pensare l’anarchia in termini ‘liberali’, cioè non come: ‘la società dell’armonia assoluta, ma solo come la società della tolleranza’” (147).

Il progetto che si basa sull’indeterminata “volontà”, anche se non scritto (o forse a maggior ragione per questo), diviene in tal caso legittimazione del controllo, e il tutto (paradossalmente) si aggrava se alla base viene posta una totale fiducia nella spontaneità delle “masse”. La cosa non cambia qualora vi si sostituisca la fede nella capacità, presupposta come “innata” (conculcata sino alla rivoluzione, ma pronta a “riemergere”), di esprimere rispetto reciproco e civile coesistenza da parte degli “individui”. Qualora invece si prospetti una rivolta delle istituzioni contro lo stato, mirante a sopprimere l’identità del dominio, ma non a sovradeterminare il corpo sociale, la situazione è di molto diversa. Cambiano sia il concetto di “rivolta”, che quelli relativi a “massa” ed individuo. Carlo De Maria (148) conduce riflessioni interessanti in proposito: “(…) notiamo come l’importanza del gruppo familiare – vale a dire dell’ammaestramento dei genitori, della fedeltà a certe persone, della ricchezza di una tradizione ereditata, della continuità tra le generazioni – fosse parte in Berneri della centralità del ‘mondo dell’associazione involontaria’ (…). Potremmo dire che esse costituiscono il dato sul quale si fonda (si radica) l’ individuo, divenendo persona (con i suoi legami sociali, culturali ed economici) (149). Ai fini del nostro discorso, risulta particolarmente efficace la definizione di ‘persona’ che è stata data da Alessandro Ferrara: ‘Individuo <<preso con tutta la zolla>>, considerato cioè in congiunzione con quel nesso di relazioni di riconoscimento reciproco che lo fanno essere quel <<chi>> unico e irripetibile che è’ (150). Le seguenti parole di Lelio Basso – che corrispondevano, nel 1933, a un questionario di Giustizia e Libertà – forniscono, poi, una periodizzazione estremamente significativa: Abbandonare definitivamente il concetto dell’individuo così come è stato elaborato dal pensiero settecentesco e dalla rivoluzione francese, per sostituirvi quello più concreto e completo di personalità, ciascuna diversa e distinta e ciascuna centro di confluenza di rapporti sociali economici spirituali, è, se non m’inganno, un bisogno largamente diffuso fra le giovani generazioni’ (151). La sensibilità per le modalità della finitudine richiama (e sostanzia) l’opposizione ai regimi totalitari e al volontarismo politico – inteso come onnipotenza verso il dato – che li caratterizza (152). (…) Diviene, allora, possibile individuare con estrema chiarezza i temi della critica sociale di Berneri. Al totalitarismo, egli oppose, da una parte le associazioni involontarie e, dall’altra, l’autonomismo e il federalismo (…). La riflessione di Berneri ebbe al suo centro l’individuo immerso (come produttore e cittadino) nella società e nei suoi corpi intermedi, territoriali e non territoriali (famiglia, Comune, sindacato ecc.). Individuo radicato (153) in antagonismo con la società, piuttosto che individuo assoluto – ‘eroe liberale’ (e anarchico) – ‘preso’ e contrapposto allo Stato. La riflessione sull’individuo radicato in società conduce a una dimensione giuridica (di ‘diritti e responsabilità’) (…) avendo in mente ‘la società, con tutte le sue istituzioni: familiari, economiche, religiose, politiche, ecc.’ (154) e ‘intendendo le leggi come le norme morali e civili che sono più universalmente accettate come base di un’ordinata convivenza, e come quelle necessarie costrizioni della libertà individuale che sono la condizione necessaria della sicurezza e libertà individuali e collettive’ (155). (…) Proprio la coscienza dell’importanza del diritto si configura come antidoto alla presa esercitata dalle ideologie (156).  (…) Di fronte al totalitarismo, Ortega y Gasset, come Berneri, dava risalto al fenomeno giuridico (157). Rispetto a questa affinità, la lontananza politica tra i due passa – ai nostri occhi – in secondo piano (…). Con consonanza sorprendente, Ortega y Gasset e Berneri rifiutarono il contrattualismo moderno. Secondo le parole del primo (maggio 937): ‘Uno degli errori più grandi del pensiero ‘moderno’, di cui sentiamo ancora gli ultimi riverberi, è stato quello di confondere la società con l’associazione, che è più o meno il suo contrario. Una società non si costituisce per un accordo delle volontà. Al contrario, ogni accordo di volontà presuppone l’esistenza di una società, di gente che convive, e l’accordo non può consistere che nel precisare questa o quella forma di tale convivenza, di tale società preesistente’ (158).

L’errore contrattualista – aveva scritto Berneri – consiste nel confondere l’associazione con la società. Il contratto sociale non fu la base di alcuna società, di alcuno Stato; né lo può essere. Il contratto sociale è lo stabilirsi di una forma politica basata sulla libera volontà dei consociati. E’ la società che si uniforma nel volere, la società che da natura e storia si fa filosofia. E’ società utopica che si fa associazione ideale’ (159).

Potremmo dire che alla volontà del contrattualismo moderno i due autori contrapposero una fatalità del radicamento (della tradizione). La società, secondo le parole di Berneri, è ‘una cosa che si trova’. Essa comprende un insieme di unioni involontarie: ‘la società sono i genitori, il paese di nascita’… In questo, ‘non si può cambiare’ (160). (E le unioni involontarie, è bene ripeterlo, richiamano un sistema di valori comuni). A sua volta, Ortega scriveva: ‘La vita non sceglie il suo mondo, ma vivere vuol dire trovarsi immediatamente in un mondo determinato e incommutabile: questo mondo. Il nostro mondo è la dimensione di fatalità che integra la nostra vita’ (161).

Quanto abbiamo appena letto, pone un primo discrimine fra volontarismo malatestiano ed impostazione berneriana.

Al lume della conoscenza che abbiamo acquisito di lui, potremmo però affermare che il lodigiano si sforza di portare la politica ad “influire sulla fatalità”, ma in realtà egli semmai inaugura la strada per un tentativo di risocializzazione della società – dalla quale non è dato prescindere – atto a far “scorrere” la “fatalità”, sapendo che non può sovradeterminarla volontaristicamente. E tali, probabilmente, sono anche le basi del suo “irrazionalismo”. Ma tutto questo non è, come qualcuno tacitamente immagina (l’ortodossia libertaria), o apertamente tenta di dimostrare (qualche liberalsocialista), un allontanamento di Berneri dall’anarchismo, bensì una precisazione dello stesso: una “teoria politica” per il movimento autogestionario. Teoria politica con preminenza etica, ma pur sempre teoria politica. Sono le apparenti contraddizioni del lodigiano: non crede nel volontarismo, eppure è un uomo d’azione; vuole costruire un progetto, ma pretende che “l’anarchia” (il progetto stesso) sia nelle cose: nella società più che nell’associazione.

Per Berneri l’anarchismo è realtà politica (ché l’ “utopia perfetta” e totale è giudicata non solo irraggiungibile, ma anche pericolosa), e si costruisce nella storia e con la storia.

Da Malatesta la partita con la politica viene affrontata in modo molto diverso (o non viene giocata affatto, dandola per “persa” sin dall’inizio): se ne tiene conto solo se non se ne può “fare a meno”. Da qui anche il relativo interesse (se non meramente contingente e “strumentale”) per le alleanze. Lo stesso dicasi per l’anarcosindacalismo (giudicato “spurio”), per  l’associazionismo autonomo, per l’ambito normativo, per le battaglie d’opinione ed, in ultima analisi, anche per un progetto definito di federalismo sociale. Un’attenzione diminuita quindi, non tanto per il federalismo in sé, quanto per la accettazione dello stesso quale strumento, quale canale di connessione atto alla crescita graduale dell’anarchismo “possibile”.

In Malatesta, il federalismo è prima di tutto un fine. E’ vero che viene da lui visto anche come un metodo organizzativo: è intrinseco però  all’organizzazione specifica, polo intorno al quale ruota tutta l’azione degli anarchici. Per Berneri è in primis uno strumento che ha sia valenza strategica che tattica, un mezzo da utilizzarsi per estendere il protagonismo dei soggetti sociali che hanno cittadinanza al di fuori del movimento specifico, per sollevare, da subito, le contraddizioni fra società civile e stato, per far crescere la prima a detrimento del secondo. Poi è naturalmente un punto d’arrivo, ma il raggiungimento della tappa finale dipende dal percorso.

Questa è l’applicazione berneriana del gradualismo malatestiano, in uno sforzo programmatico, se possibile, molto più compiuto, che cerca ovunque adesioni e conferme quotidiane, che al tempo stesso è utilizzato per mettere in pratica e verificare costantemente un progetto politico preciso e riconoscibile, organizzato per fasi successive.

Il compito dichiarato della struttura specifica è quello di elaborare una prassi evolutiva (ed esserne garante), rivoluzionaria e non riformista, ma di lungo periodo. Non necessariamente da subito funzionale alla rottura rivoluzionaria, che semini invece il germe del divenire per essere modificazione qui ed ora, non solo per preparare lo scontro decisivo: una modificazione dell’oggi che è già parte dello scontro decisivo di domani, senza la necessità impellente di essere immediatamente strumentale allo stesso.

L’impegno volontaristico, eliminata ogni tentazione autoreferenziale, viene trasferito soprattutto nella militanza, sia nel profondo rispetto degli uomini d’azione (per i quali il riconoscimento di una valenza trainante non viene certo meno in Berneri), sia nella capacità di garantire un’autodisciplina capace di assicurare la costruttività dell’azione e l’elaborazione costante di una linea d’intervento, nella quale però le battaglie d’opinione hanno rilevanza quasi assoluta.

Un’organizzazione prima di tutto idonea a sedimentare sinergie con il corpo sociale, indipendentemente dall’adesione dello stesso agli ideali anarchici, indicando obiettivi e conquiste immediatamente praticabili, ma anche in grado di elaborare ed aver ben chiaro un progetto strategico che sappia sia promuovere una cultura del cambiamento, dell’autonomia e della libertà, che identificare le necessarie alleanze con quelle altre forze politiche che vengano ritenute utili per aumentare la possibilità di raggiungere tali obiettivi. Forme d’alleanza stabili che richiedono un’approfondita riflessione politica, l’identificazione di una linea di demarcazione (quella rispetto ai totalitarismi), in grado di garantire l’identificazione di obiettivi strategici a medio e lungo termine (come il comunalismo), e quindi non unicamente episodiche e contingenti come sono le alleanze nelle fasi di tensione ed insorgenza sociale. Un’organizzazione non ecumenica, ma decisamente orientata, parallelamente capace però di aprire le porte all’innovazione ed alla sperimentazione pragmatica e di circoscrivere le tendenze fondamentaliste. Nella quale la discriminante ideologica principale viene identificata nell’eliminazione finale dello stato, più che in disegni di trasformazione immediata rigidamente di stampo comunista (l’economia è un campo nel quale il lodigiano è molto più possibilista). Berneri rimprovera a Malatesta la contraddittorietà di un programma molto ideologico ed altrettanto parco nell’approfondimento del peculiare carattere politico (discussione di previsione sulle fasi, sulle tattiche, sulle strutture della società liberata, rimando generalizzato alla “onnicomprensività” della rivoluzione, anche in ambito normativo, sottovalutazione di una politica delle alleanze), ma molto rigido in economia. Tanto rigido da rischiare (nella pratica politica) di esporre il movimento ad opzioni codiste di fronte all’iniziativa di marca giacobina, nella quale la trasformazione economica e del potere prescindono da quella libertaria.

L’anarcosindacalismo è per Berneri un elemento di riconoscibilità dell’anarchismo, di sperimentazione della prassi della democrazia diretta, già nel quotidiano della prima fase di costruzione del tessuto connettivo del cambiamento, esattamente come gli altri strumenti per la propaganda specifica, ma con maggiori possibilità d’incidere a partire dall’impatto aggregativo delle vertenze e dalla pratica dei bisogni. Con una strutturazione organizzativa assai più forte, perché più forti sono il legame e la motivazione se non discendono unicamente da elementi di carattere ideologico. Soprattutto grazie alla consapevolezza di divenire gradualmente la base strutturale della riorganizzazione futura. Uno strumento per l’esercizio di un’egemonia reale del mondo del lavoro sui partiti e tutte le nomenclature della politica, operante a mezzo di un’autonomia decisiva anche dallo specifico anarchico (e dalle sue carenze organizzative e chiusure dottrinarie). Cionondimeno, espressione di un socialismo umanista, questo si, di chiaro stampo malatestiano. Nell’ambito di un “sovietismo sociale” capace di nutrirsi non solo dell’apporto dell’associazionismo indipendente, bensì anche delle istituzioni espresse – principalmente sul piano decentrato (ma non solo) – ancora una volta da quella società civile che per il lodigiano va stimolata dall’insieme dell’intervento politico dell’anarchismo nella capacità di darsi strumenti, anche normativi, per un autogoverno che dovrà basarsi su di una prassi libertaria, ma essere politicamente pluralista. La militanza libertaria organizzata, la cui presenza è fondamentale in quanto garante (oggi e domani) della democrazia diretta, non è perciò indirizzata senza consegne tattiche nelle organizzazioni di massa (ovvero con l’unica raccomandazione “frontista” di agire da stimolo per l’azione diretta), bensì deve lavorare alla costruzione di un sindacato autogestionario ben riconoscibile e strutturato.

In quanto all’empiriocriticismo, esiste invece un rapporto stretto con Malatesta, anche se Berneri porterà più avanti il discorso, fino alle estreme conseguenze, e con evidenti e ben diverse ricadute – come abbiamo già visto – sulla questione della politica. Scrive in proposito Pietro Adamo: “E’ il radicamento delle elaborazioni politiche nella sfera dell’epistemologia a costituire uno degli elementi dell’originalità berneriana, con una riflessione che (…) muove direttamente dai problemi posti dalla nuova fisica e dalla nuova filosofia della scienza. (…) Prendere atto dell’impossibilità di giungere a ‘verità’ definite conduce ovviamente alla valorizzazione della tolleranza, della controversia e del dibattito, come vie per evitare le cadute nel dogmatismo e nell’assolutezza dottrinaria e per progredire lungo la strada della conoscenza. Ed è proprio a partire da questa prospettiva che Berneri tenterà di concettualizzare la sua ‘rivisitazione’ dell’anarchismo, caratterizzandolo come la filosofia politica più adeguata a esprimere le ragioni e le suggestioni che emergevano dalla scienza (…)” (162).

Ed ecco, a seguire, il legame epistemologico con Malatesta. Questi, infatti, non solo consentì ed incoraggiò la sperimentazione berneriana perché – nonostante l’intransigenza “anti-politica” – era nel profondo intrinsecamente tollerante e “fidente” nel valore positivo  della controversia e del dibattito, ma soprattutto perché lui stesso aveva iniziato dapprima un percorso epistemologico parallelo (che, pur giunto infine all’importante istanza gradualista, non riuscirà a concludersi con i risultati d’impatto politico prodotti da Berneri): “La riflessione di Berneri si situa in un momento storico (gli anni Venti e Trenta del Novecento) in cui gli argomenti degli empiristi radicali e degli empiriocriticisti sono divenuti uno dei principali strumenti dell’attacco alla concezione positivistica della scienza ma anche della politica. La critica dello ‘scientificismo’, elaborata e divulgata in Italia soprattutto dai pensatori idealisti (Croce primo fra tutti), viene ripresa anche da parte dell’intellighenzia anarchica, in particolare da Malatesta. Quest’ultimo ammette di esser stato in gioventù ‘sotto l’influenza dell’allora prevalente filosofia positivista’ e di esser caduto, per questo motivo, ‘nella contraddizione in cui si dibattono tutti i cosiddetti deterministi’, accettando in particolare una visione organicistica del corpo sociale e la fede in una ‘legge sociale’ analoga, per sua natura, alle leggi naturali. Sottrattosi poi al nefasto ascendente ‘dei sociologi organicisti e dei pregiudizi scientificisti’, Malatesta giunge a una posizione che, di fatto, è assimilabile non tanto – e non solo – alla posizione idealista, quanto piuttosto alle versioni critiche del valore della scienza a suo tempo proposte da un matematico-scienziato come Jules-Henri Poincaré, e poi riprese e sviluppate nell’ambito del cosiddetto Circolo di Vienna, per non dire delle considerazioni sulla natura fallibile della scienza articolate nel corso degli anni Trenta da Karl Popper in confronto critico, se non in aperto scontro, con gli stessi positivisti logici e con l’impostazione convenzionalistica” (163).

Infine, quale fu il rapporto fra diretto fra Malatesta e Berneri? Le posizioni del lodigiano non hanno mai portato ad uno “scontro” aperto con Malatesta, che pare invece aver sempre avuto grande considerazione ed affetto per il giovane, indubbiamente considerato più che una promessa per il movimento. E la grande stima era certo ricambiata. Non è mai stata esercitata alcuna “censura” verso Berneri fino a che l’anarchico di Santa Maria Capua Vetere e Luigi Fabbri sono stati in vita.

 

 

Note

1 Gianni Furlotti, Le radici e gli ideali educativi dell’infanzia di Camillo Berneri, in Memoria antologica. Saggi critici e appunti biografici in ricordo di Camillo Berneri, Ed. Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1986.

2 Ne L’operaiolatria, Berneri scrisse: “Torquato Gobbi mi fu maestro (…). Lui era legatore di libri, io studentello di liceo, ancora <<figlio di papà>> dunque, e ignaro di quella grande e vera Università che è la vita”. Vd. C. Berneri, L’operaiolatria, pubblicato in opuscolo, Gruppo d’edizioni libertarie, a Brest nel 1934, poi in P. C. Masini e A. Sorti, Scritti scelti di Camillo Berneri. Pietrogrado 1917 Barcellona 1937, Sugar Editore, Varese 1964, p. 145. Sulla figura di Gobbi vd. il libro indicato nella nota a seguire.

3 Berneri, quando decide di passare al movimento anarchico scrive, usando lo pseudonimo “Camillo da Lodi”, la ben nota Lettera aperta ai giovani socialisti di un giovane anarchico, che viene pubblicata nel 1916 sul giornale pisano “L’Avvenire Anarchico”. La lettera verrà poi ripresa (parzialmente) in Pensieri e battaglie, edito a cura del Comitato Camillo Berneri, Parigi 5.5.1938. Oggi in Francisco Madrid Santos, Camillo Berneri. Un anarchico italiano (1897- 1937). Rivoluzione e controrivoluzione in Europa (1917-1937), Edizioni dell’Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1985.

4 Commento di Berneri a ricordo della “Lettera aperta ai giovani socialisti di un giovane anarchico”, op. cit., pubblicato in premessa alla stessa su C. Berneri, “Pensieri e battaglie”, op. cit., espresso in una lettera alla figlia Maria Luisa.

5 Adalgisa Fochi, In difesa di Camillo Berneri, Cooperativa Industrie Grafiche, Forlì 1951, p. 16.

6 Luce Fabbri, Prefazione a C. Berneri, Guerre de classe en Espagne, Edition Les Humbles, Parigi, luglio 1938 (la traduzione è mia).

7 Su Errico Malatesta vd. Luigi Fabbri, Malatesta, l’uomo e il pensiero, Edizioni Anarchismo, Catania, 1979; Giampietro Berti, Errico Malatesta e il movimento anarchico italiano e internazionale 1872-1932, Franco Angeli Editore, Milano, 2003.

8 Su Luigi Fabbri vd. Luce Fabbri, Luigi Fabbri. Storia d’un uomo libero, Biblioteca Franco Serantini Edizioni, Pisa,1996.

9 “Conscientia”, [1922] – 1925, rivista diretta da Piero Chiminelli e Giuseppe Gangale.

10 Raccogliamo queste informazioni da P. C. Masini in La formazione intellettuale di Camillo Berneri, pubblicato in Atti del Convegno di studi su Camillo Berneri. Milano 9 ottobre 1977, La cooperativa Tipolitografica Editrice, Carrara 1979.

11 G. Prezzolini, Ricordo di Camillo Berneri, da “Il Resto del Carlino”, Bologna 1962, poi in Prezzolini alla finestra, Pan Editrice, Milano 1977. Citato da Alberto Cavaglion, Camillo Berneri. L’anarchico filosemita, in Memoria antologica. Saggi critici e appunti biografici in ricordo di Camillo Berneri, Ed. Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1986. Lo stralcio citato del giudizio di Prezzolini su Berneri è ricordato da C. De Maria, nel suo Camillo Berneri tra anarchismo e liberalismo, Franco Angeli Editore, Milano 2004, p. 42.

12 Gaetano Salvemini, Donati e Berneri, da “Il mondo”, Roma 3.5.1952. Va ricordato che al nominato Circolo di Cultura o “Gruppo di cultura politica” – sorto con sede in Piazza S. Trinità nel gennaio 1921 e bruciato dai fascisti nel ‘25 – collaboravano anche Piero Calamandrei, Alfredo e Nello Riccoli, Piero Jahier e naturalmente lo stesso Salvemini, che ne fu il principale ispiratore.

13 C. Berneri, Ricordi, appunti manoscritti non datati, conservati presso ABC, Reggio Emilia, cassetta XII.4.Ricordi.

14 Gianni Furlotti, Le radici e gli ideali educativi dell’infanzia di Camillo Berneri, in Memoria antologica. Saggi critici e appunti biografici in ricordo di Camillo Berneri, Ed. Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1986.

15 C. Berneri, Le Juif antisémite, Edition Vita, Parigi 1935. Oggi vd. C. Berneri, L’ebreo antisemita, Carucci Editore, Roma 1984.

16 Alberto Cavaglion, Camillo Berneri. L’anarchico filosemita, op. cit.

17 Edition Vita, Parigi, per i tipi della quale venne appunto pubblicato, nel 1935, di C. Berneri, Le Juif antisémite.

18 Alberto Cavaglion, Camillo Berneri. L’anarchico filosemita, op. cit.

19 Ibid.

20 Il libro è stato pubblicato anche con questo titolo.

21 C. Berneri, Mussolini grande attore. Pubblicato per la prima volta in Spagna, Mussolini gran actor, Valencia Collecion Manana, 1934, Impresos Costa, Nueva de la Rambla, 45 Barcelona. In Italia, C. Berneri, Mussolini grande attore, Edizioni dell’Archivio Famiglia Berneri, Comune di Pistoia 1983. Viene trattato nel presente libro nel capitolo: Contro il fascismo e…. (nda).

22 P. C. Masini, La formazione intellettuale di Camillo Berneri, in Atti del Convegno di studi su Camillo Berneri.

Milano 9 ottobre 1977, La cooperativa Tipolitografica Editrice, Carrara 1979.

23 Theodor Lessing, Judischer Selbsthass – in italiano vd.: T. L., L’odio di sé ebraico (a cura di Ubaldo Fadini), Mimesis, Milano 1995. Segnala Cavaglion: “ (…) (un libro che ebbe diffusione maggiore di Le Juif antisémite), se soltanto qualcuno avesse avuto l’opportunità di segnalarlo alla sua curiosità onnivora – ma nemmeno Spire, che dopo il 1935 fu amico di Berneri, conosceva Lessing” (Alberto Cavaglion, Camillo Berneri. L’anarchico filosemita, op. cit.).

24 C. Berneri, Gli anarchici e G.L., da “Giustizia e Libertà”, Parigi 6.12.1935. Ora in P. C. Masini, P. C. Masini, A.Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit., ivi pubblicato sotto il titolo La polemica con Carlo Rosselli.

25 Gaetano Salvemini, Donati e Berneri, da “Il mondo”, Roma 3.5.1952, op. cit.

26 Il titolo esatto della tesi fu: La campagna dei clericali piemontesi per la libertà della scuola in rapporto alla campagna clericale in Francia (1831 – 1852), citato in C. Berneri (a cura di P. Feri e L. Di Lembo), Epistolario inedito, vol. II, ed. AFB, Pistoia, 1984, p. 18.

27 La stessa cosa la fece Luigi Fabbri: anch’egli insegnante, perse la cattedra quando si trattò di dover giurare fedeltà al fascismo ed infine riparò in Uruguay. E così molti altri. Ma la lotta contro l’imposizione del giuramento ha sempre appassionato gli anarchici, che hanno dimostrato di saper condurre (e vincere) anche battaglie d’opinione, alle quali poi lo stesso movimento libertario, sottovalutandole, ha dato e dà poco lustro. Per un insegnante, dover aderire alle leggi dello stato – di qualunque stato – è in sé un’imposizione assolutamente inaccettabile. Si tratta infatti di dare un placet in toto alle leggi e piegarsi ad esse ed alla ragion di stato (pensiamo ad esempio ai diktat sulla storia), ad onta della libertà d’insegnamento e di coscienza. Lo comprese bene l’insegnante e militante anarchico Sandro Galli, di Bologna, che nel 1982, con un durissimo sciopero della fame, costrinse gli organi preposti ad esonerare i docenti (unici, da allora, fra i dipendenti pubblici italiani) dal dovere di sottostare a tale pratica.

28 E’ doverosa una nota sulle donne della famiglia di Camillo Berneri. Tutte hanno dato un loro diretto contributo al movimento anarchico. La moglie, Giovanna Caleffi in Berneri (4.5.1897), presa su di sé l’attività politica del marito, con l’occupazione nazista viene detenuta per 3 mesi alla Santé di Parigi alla fine del 1941 e poi deportata in Germania, ove rimane in prigione altri 5 mesi. Consegnata alle autorità italiane, è rinchiusa nel carcere di Reggio Emilia e quindi condannata ad un anno di confino. Liberata, si dà alla latitanza e nel 1943 si unisce a Cesare Zaccaria, col quale pubblica il giornale clandestino “La rivoluzione libertaria”. Sempre con Zaccaria, dopo la liberazione, sarà la (ri)fondatrice in Italia della rivista “Volontà”, erede della storica testata teorica di Fabbri e Malatesta, che avrà come collaboratori Silone, Camus, Salvemini e diversi altri tra i migliori intellettuali del momento. Gestirà anche una casa editrice libertaria. Nel 1948 edita l’opuscolo Il controllo delle nascite, subito sequestrato: lei e Zaccaria subiscono un processo per propaganda contro la procreazione, dal quale usciranno assolti solo dopo due anni di battaglie su quello che fu il primo caso di denuncia civile dell’ignoranza in materia, imposta in Italia dal mondo politico clerico-fascista. Nello stesso anno, darà vita ad una sorta di Colonia estiva per bambini e ragazzi delle famiglie di anarchici, in particolare del Meridione, ospitati da compagni del Nord, esperimento che si ripeterà anche nel ‘49. Nell’estate del 1951, grazie ad una proprietà sita a Piano di Sorrento, messa a disposizione da Zaccaria, la Comunità è stabilmente inaugurata e raccoglie i giovani ospiti per due mesi d’estate, informandosi unicamente a principi di solidarietà e pedagogia libertaria. Verrà intitolata alla figlia Maria Luisa (scomparsa prematuramente a soli 31 anni), e procederà sino al 1957. Con la chiusura del rapporto con Zaccaria, dopo un periodo d’intervallo, altri proseguiranno il lavoro, sino agli anni ‘60, in località Ronchi, a 700 metri dal mare in provincia di Massa. Giovanna muore il 14 marzo 1962.

La primogenita, Maria Luisa (Arezzo, 1.3.1918), dopo aver condiviso il lavoro del padre a Parigi e Barcellona, con Vernon Richards darà vita a Londra al giornale “Spain and the word” combattendo dal 1939 al 1945 una difficilissima battaglia contro la guerra tramite le pagine dell’unica rivista antimilitarista presente in una nazione direttamente impegnata nel conflitto. Animerà l’editrice “Freedom Press” e darà un contributo importante all’anarchismo britannico. Come il padre, s’interessa alla psicologia ed è fra i primi a diffondere nel Regno Unito le opere di Wilhelm Reich.

Morirà per un’infezione virale quattro mesi dopo un parto andato male conclusosi con la morte della nascitura, il 13.4.1949 a Londra. Cionondimeno lascerà molti scritti, fra i quali il bellissimo libro Viaggio attraverso utopia

(Edizione a cura del Movimento Anarchico Italiano-Archivio Famiglia Berneri di Pistoia, Carrara, 1981).

L’altra figlia, Giliana (Firenze, 3.10.1919), laureata in medicina, opererà a lungo nel movimento anarchico francese dopo la liberazione. E’ morta il 19.7.1998 a Montreuil-sous-Bois. In quanto alla madre, Adalgisa Fochi Berneri, coinvolta direttamente nella vicenda politica del figlio, esule ella stessa, dopo l’assassinio lavorò assiduamente per tenerne alta e viva la memoria.

29 C. Berneri, Esilio, inedito, originale incompiuto custodito da AFB, Reggio Emilia. Si tratta di un libro autobiografico che Berneri iniziò a scrivere ma non riuscì mai a portare a termine.

30 Si veda in proposito: Vittorio Emiliani, Camillo Berneri: l’anarchico più espulso d’Europa, in V. Emiliani, Gli anarchici. Vite di Cafiero, Costa, Malatesta, Cipriani, Gori, Berneri, Borghi, Bompiani Editore, Milano 1973.

31 C. Berneri, Come vedo il movimento giellista, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 4.4.1936. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società…, op. cit.

(38). La sua attenzione sarà volta in particolare verso “Rivoluzione Liberale” e “Giustizia e Libertà”, organi di stampa omonimi dei relativi movimenti politici (embrionale il primo, definito il secondo), guidati rispettivamente da Piero Gobetti e Carlo Rosselli. Fu nel corso di uno dei primi dibattiti affrontati su quei giornali, proprio confrontandosi con Gobetti nell’aprile del ‘23, che Berneri sostenne essere gli anarchici “i liberali del socialismo” (39). 32 Carlo Rosselli, Socialisme libéral, Paris 1930, frase riportata da C. Berneri in Mussolini grande attore (Conclusioni), op. cit.

33 C. Berneri, Mussolini grande attore (Conclusioni), pubblicato per la prima volta in Spagna, Mussolini gran actor, Valencia Collecion Manana, 1934, Impresos Costa, Nueva de la Rambla, 45 Barcelona. In Italia, Mussolini grande attore, Edizioni dell’Archivio Famiglia Berneri, Comune di Pistoia 1983.

34 C. Berneri, Della demagogia oratoria (III), da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 28.3.1936. Pubblicato fra i testi di complemento nell’edizione italiana curata da P. C. Masini di Mussolini grande attore, op. cit.

35 C. Berneri, Scuotiamoci dal tedio di una attesa imbelle, indegna di noi. Appello agli anarchici, da “Il Martello”, New York 8.6.1929.

36 C. Berneri, Della demagogia oratoria (II), da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 7.3.1936, riportato fra i testi di complemento nell’edizione curata da P. C. Masini di C. Berneri, Mussolini grande attore, Ed. dell’Archivio Famiglia Berneri, Comune di Pistoia, 1983.

37 Ibid.

38 P. C. Masini, La formazione intellettuale di Camillo Berneri, in Atti del Convegno di studi su Camillo Berneri. Milano 9 ottobre 1977, La cooperativa Tipolitografica Editrice, Carrara 1979.

39 C. Berneri, Il liberismo nell’Internazionale, da “Rivoluzione liberale”, Torino 24.4.1923, poi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

40 C. Berneri, Il mio nazional-anarchismo, manoscritto inedito conservato presso Archivio

Famiglia Berneri-Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia, cassetta IV – opere di carattere politico, citato da P. C. Masini, in La formazione intellettuale di Camillo Berneri, op. cit. Il manoscritto non è datato, ma per le citazioni che vi appaiono risulta sicuramente successivo a C. Berneri, Costituzione della Federazione Italiana Comuni Socialisti (FICS), probabilmente elaborata nel corso del Convegno d’Intesa degli anarchici italiani emigrati in Europa o a margine dello stesso, Parigi, ottobre /novembre 1935. Lo scritto è anche indubitabilmente successivo alla Riforma Gentile (divenuta legge nel 1923).

41 Incarico assunto dopo la morte di Mario Angeloni, repubblicano, caduto il 19 agosto del 1936 nella battaglia di Monte Pelato (come l’Angeloni stesso aveva soprannominato una parte d’importanza strategica che venne conquistata sull’altipiano della Galocha). Angeloni morì in circostanze eroiche: “Angeloni era alla testa di un plotone di una quarantina di miliziani italiani, a pochi Km. da Huesca. Mentre Angeloni, con i suoi uomini, marciava sulla strada carrozzabile in direzione appunto di Huesca, un’auto blindata occupata da nazionalisti, improvvisamente è sbucata di fronte alla piccola colonna. Naturalmente una scarica di mitragliatrice ne uccise otto o nove; gli altri, gettandosi a terra a lato della strada, e fuggendo, riuscirono a salvarsi. (…) Al momento di morire, l’Angeloni lanciava una bomba a mano contro l’auto blindata (…)” (Divisione Affari Generali e Riservati, Nota n.° 441/038065, copia appunto n.° 500/27108, datata 17.9.1936, conservata presso ABC-Reggio Emilia, posizione CPC ACS, CB, documento n.° 104).

42 Lo testimonia una nota informativa sui partecipanti ai funerali di Mario Angeloni, tenutosi a Barcellona. Si tratta della Nota della Divisione Generale Affari Riservati n.° 441/038065, copia appunto n.° 500/27108, datata 17.9.1936 (documento n.° 104, conservato presso CPC ACS, CB, ABC-Reggio Emilia), e vi si legge: “(…) I funerali ebbero luogo il 1° corrente (…) Seguivano il corteo anche Rendani, l’anarchico Berneri, con la testa bendata e il braccio al collo, essendo anch’egli stato ferito in combattimento”.

43 C. Berneri, Come vedo il movimento giellista, op. cit.

44 Su Gobetti, dopo la sua morte, Berneri scrisse ampiamente recensendo Risorgimento senza eroi in “Veglia” (Parigi) del novembre 1926. Segnalato da P. C. Masini, La formazione intellettuale di Camillo Berneri, in Atti del Convegno di studi su Camillo Berneri. Milano 9 ottobre 1977, La cooperativa Tipolitografica Editrice, Carrara 1979. Su Berneri collaboratore di “Rivoluzione liberale” lo stesso Masini ha scritto un saggio su “Volontà”, Napoli 1.6.1947.

45 Sabatino (Nello) Rosselli, fratello di Carlo, pubblicò nel 1927 l’opera Mazzini e Bakunin in Italia, lavoro considerato oggi come il primo a porre sul piano scientifico l’intervento storico sul movimento operaio nella penisola. Oggi vd. Einaudi, Torino 1982. Berneri scrisse: “La lotta fra Mazzini e Bakunin, così ben illustrata da Nello Rosselli e da Max Nettlau, fu in grande parte lotta tra l’astratto ideale di Mazzini e il concretismo sociale” (C. Berneri, Il mio nazionalanarchismo, op. cit.).

46 C. Berneri, Cielo tre quarti coperto, da “La protestation”, Puteaux 28.3.1933. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

47 C. Berneri, Guerra e rivoluzione, in “Guerra di Classe”, Barcellona 21.4.1937. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit.

48 C. Berneri, Discorso in morte di Antonio Gramsci. Ricostruito e pubblicato da Alberto Sorti, Pier Carlo Masini in Pietrogrado 1917 Barcellona 1937, Sugar Editore, Varese 1964.

49 C. Berneri, L’operaiolatria, pubblicato in opuscolo, Gruppo d’edizioni libertarie, a Brest nel 1934, poi in P. C. Masini e A. Sorti, Scritti scelti di Camillo Berneri. Pietrogrado 1917 Barcellona 1937, Sugar Editore, Varese 1964.

50 C. Berneri, Discorso in morte di Antonio Gramsci, op. cit. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

51 Angelica Balabanoff. Esponente storico del movimento operaio, russa, nata nel 1869 a Černigov e morta a Roma nel 1965. Di famiglia benestante, laureatasi a Bruxelles, fu in Italia dal 1897. Della scuola di A. Labriola, aderì nel 1900 al Partito Socialista Italiano. Svolse lavoro politico in Svizzera con gli immigrati italiani. Sino alla prima deflagrazione mondiale fu vicina a Mussolini ed al suo massimalismo e “codiresse” con lui l’organo del PSI, il quotidiano “Avanti!”. Rientrata in Russia nel 1917, le vennero affidate da Lenin responsabilità di governo. Divenne segretaria dell’Internazionale Comunista, ma nel 1922 rifiutò i metodi dei bolscevichi ed, entrata fra l’altro in forte contrasto con Zinoviev, uscì dal Komintern e lasciò l’URSS, stabilendosi a Vienna ed in seguito a Parigi. Qui fu vicina a Turati e diresse l’ “Avanti!”. Fu anche negli USA. Di ritorno in Italia con la liberazione, aderì al nuovo PSLI e rimase nell’area socialista sino alla morte. Tra l’altro, ha scritto: Ricordi di una socialista (1946) e Lenin visto da vicino (1959). Angelica Balabanoff, nel protestare per l’assassinio di Berneri, riconobbe in lui l’erede della migliore tradizione dell’anarchismo: “Dopo la scomparsa di Malatesta e di Fabbri, egli era certamente la mente più elevata del movimento libertario italiano” (da l’ “Avanti!”, Parigi 6.6.1937).

52 C. Berneri, Come vedo il movimento giellista, op. cit.

53 C. Berneri, La socializzazione, op. cit.

54 C. Berneri, Sovietismo, anarchismo e anarchia, op. cit.

55 Ibid.

56 Ibid.

57 Su Aurelio Chessa è appena uscita una biografia curata dalla figlia Fiamma, che attualmente gestisce l’Archivio Famiglia Berneri, oggi intitolato anche a nome del padre. Dell’Archivio Famiglia Berneri, Chessa è stato per decenni l’animatore. Senza l’impegno, le doti e la tenacia di questo vecchio militante, qualsiasi studio sul lodigiano, qualsiasi ricerca o anche il semplice reperimento di molti dei testi (anche fra i più significativi), sarebbe oggi estremamente difficile. Egli è riuscito a raccogliere, catalogare e conservare un insieme incredibile di reperti, significativamente incrementati pure rispetto a quanto ebbe dalla moglie di Berneri, Giovanna. Un’opera continuata da Fiamma con analoga abnegazione, arguzia e competenza.

Aurelio Chessa (Putifigari-SS, 30.10.1913 – Rapallo, 26.10.1996), si avvicina all’anarchismo dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale. Con Franco Leggio, risulta tra i fondatori del gruppo “Genova Centro” e nel 1948 conosce Giovanna Caleffi (vedova Berneri), fornendole aiuto per la Colonia estiva libertaria che ella costituisce su di una proprietà di Cesare Zaccaria nella zona di Sorrento. Alla scomparsa della primogenita di Berneri, Maria Luisa, Chessa s’impegna nel supporto della Comunità che le viene intitolata e nella gestione della segreteria della rivista “Volontà”. Nel frattempo viene processato per istigazione alla disobbedienza civile a seguito di una campagna astensionista. Ferroviere, è molto attivo nelle iniziative popolari che hanno l’epicentro proprio in Genova durante il luglio 1960 e la parte datoriale lo ammonisce per la partecipazione a scioperi e manifestazioni politiche, imputandogli l’inosservanza “degli obblighi di servizio”. Nel 1962, alla morte di Giovanna, l’ultima figlia di Berneri, Giliana, gli passa l’archivio di famiglia che assumerà poi l’attuale denominazione. Chessa, intrattenendo costanti rapporti con la vecchia militanza anarchica in Italia ed all’estero, incrementa il materiale, assumendo varie importanti donazioni. Parallelamente, egli dà vita alle editrici “Vallera” e “Porro”, curando la stampa di varie opere di Berneri. “Galleanista”, con la scissione della FAI intervenuta nel 1965, è fra i promotori dei Gruppi d’Iniziativa Anarchica costituitisi il 4.11.1966. A quel punto, con ventidue anni d’anzianità, lascia il lavoro per dedicarsi interamente al movimento, impegnandosi, anche economicamente, oltre che per l’Archivio, nella cura del “Notiziario dei GIA” e del giornale “L’Internazionale”, nonché nella promozione di convegni ed iniziative a carattere nazionale (notizie da AA.VV., Dizionario biografico degli

anarchici italiani (2 volumi), Biblioteca Franco Serantini Edizioni, Pisa-Città di Castello, 2004).

58 C. Berneri, Lettera a Federica Montseny. Pubblicata postuma in Pensieri e battaglie, Parigi 5.5.1938. Oggi vd. in C. Berneri, Il federalismo libertario (a cura di Patrizio Mauti), Ed. La Fiaccola, Catania 1992.

59 La redazione di “Tiempos Nuevos” a Camillo Berneri – Barcellona, 3.9.1936: “Caro compagno, colla presente vogliamo chiederti un articolo di collaborazione per la nostra rivista <<Tiempos Nuevos>> su temi teorici di

orientamento e di ricostruzione sociale. Occorre che tu metta il necessario impegno nel sostenere, col tuo apporto intellettuale il nostro sforzo economico, in modo che noi si riesca a superare tutte le difficoltà del momento attuale, che assorbe in molteplici incarichi ed attività i compagni del corpo redazionale. Poiché la nostra Rivista, a livello nazionale come internazionale, è una pubblicazione unica nel suo genere come tribuna di propaganda libertaria, di grande prestigio, e indiscutibile importanza; vogliamo che rifletta nelle sue pagine i numerosi problemi di ricostruzione che gli anarchici devono affrontare nel momento attuale e il tuo apporto e le tue opinioni non devono mancare nelle sue pagine contribuendo così al chiarimento delle idee e delle tattiche del movimento libertario. Tenendo presente che il tempo preme, ti chiediamo che tu ci invii il tuo scritto colla massima urgenza, in modo che

possa uscire tra il 1° ed il 15 di questo mese. Sperando che tu risponderai alla nostra richiesta, ti salutiamo cordialmente. Redazione e Amministrazione” Il giornale chiedeva che Berneri inviasse il suo saggio su Lo Stato e le classi, già uscito in lingua madre sulla testata diretta dall’italiano (C. Berneri, Lo Stato e le classi, in “Guerra di Classe”, Barcellona, 17.10.1936, riportato in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.).

Ma è interessante anche la seguente comunicazione di “Solidaridad Obrera”, quotidiano, principale organo dell’anarchismo catalano (ed iberico). Chi la scrive, esponente della FAI, è il direttore del giornale (che sostituì De Santillán). Jacinto Toryho da parte di “Solidaridad Obrera” a Camillo Berneri (Barcellona, 10.11.1936): “Compagno Berneri, Salud! L’organizzazione mi ha appena incaricato della direzione del nostro giornale <<Solidaridad Obrera>>. Ho accettato ben sapendo l’enorme responsabilità che mi assumo, responsabilità che mi sarà alleviata se potrò contare sulla tua collaborazione, cosa che sollecito attraverso queste brevi righe. Ti sarei grato se mi inviassi un articolo settimanale sulla attività che realizzi, e ti esprimo il desiderio che lo scritto in questione non abbia una lunghezza superiore a tre cartelle senza interlinea. Senza altro se non il mio saluto, rimango fraternamente tuo. Toryho”. Entrambe le lettere sono tratte da C. Berneri, Epistolario inedito, Vol. II – a c. di Paola Feri, Luigi Di Lembo. Ed. Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1984, pp. 171-199.

60 C. Berneri, Levando l’ancora, da “Guerra di Classe”, Barcellona, n.° 4, 9.10.1936. Anche in Entre la revolution y las trincheras-Recompilacion de nueve articulos de Camilo Berneri (Guerra di Classe, Barcelona, 1936-1937), Rennes,

  1. Poi in Guerra di Classe in Spagna (1936-1937), Edizioni RL, Pistoia, 1971. 61 Ibid.

62 C. Berneri, La concezione anarchica dello Stato, inedito incompiuto del 1926, conservato presso Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia, pubblicato per la prima volta da Pietro Adamo, Anarchia e società aperta, M&B Publishing, Milano 2001.

63 C. Berneri, Carlyle. Oggi in Interpretazione di contemporanei, Ed. RL, Pistoia 1972.

64 Ibid.

65 C. Berneri, Il romanticismo sanfedista, da “Pensiero e Volontà”, Roma, 15.6.1924.

66 C. Berneri, Anarchismo e federalismo. Il pensiero di Camillo Berneri, da “Pagine libertarie”, Milano 20.11.1922. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

67 C. Berneri, Sovietismo, anarchismo e anarchia, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 15.10.1932. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit., ivi pubblicato con il titolo Il Soviet e l’Anarchia.

68 C. Berneri, La concezione anarchica dello Stato, op. cit.

69 C. Berneri, L’operaiolatria, op. cit.

70 C. Berneri, Per un programma d’azione comunalista, op. cit.

71 C. Berneri, Gli anarchici e G.L., da “Giustizia e Libertà”, Parigi 6.12.1935. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti,”Pietrogrado 1917…”, op. cit., ivi pubblicato sotto il titolo La polemica con Carlo Rosselli.

72 C. Berneri, Il federalismo di Pietro Kropotkin, su “Fede!”, Roma 1925. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit. Riprendiamo il testo riportato da Masini nell’opera citata, ove però (come chiarisce P. Adamo nel suo Anarchia e società aperta, op. cit., pp. 258-259), va segnalata l’integrazione di C. Berneri, Pietro Kropotkin e l’anarcosindacalismo, “Guerra di Classe”, Bruxelles febbraio 1931.

73 Ibid.

74 C. Berneri, Pietro Kropotkin e l’anarco-sindacalismo, da Guerra di Classe, Bruxelles, febbraio 1931 (incluso da P. C. Masini nel testo precedente: C. Berneri, Il federalismo di Pietro Kropotkin).

75 C. Berneri, Fallimento o crisi?, in “Guerra di Classe”, Parigi 1930. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

76 C. Berneri, L’ora dell’anarco-sindacalismo, da “Guerra di Classe”, Parigi settembre 1930. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit., ivi pubblicato sotto il titolo Anarco-sindacalismo, oggi e domani.

77 Ibid.

78 C. Berneri, Nietzsche e l’anarchismo, oggi in Quaderni liberi: C. Berneri, Interpretazione di contemporanei, op. cit.

79 C. Berneri, Come vedo il movimento giellista, op. cit.

80 C. Berneri, La socializzazione, op. cit.

81 C. Berneri, Anarchismo e federalismo. Il pensiero di Camillo Berneri, op. cit.

82 C. Berneri, Considerazioni sul nostro movimento, firmato con lo pseudonimo “Camillo da Lodi”, in “Libero accordo”, Roma luglio 1926. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit., pubblicato sotto il titolo Il movimento anarchico.

83 C. Berneri, Lettera a Luigi Fabbri, fra dicembre 1930 e gennaio 1931, pubblicata poi in Pensieri e battaglie. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, M&B Publishing, Milano 2001.

84 Ibid.

85 C. Berneri, Per finire, op. cit.

86 C. Berneri, Il cretinismo anarchico, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 12.10.1935. Oggi in P. Adamo, Anarchia esocietà aperta, op. cit.

87 C. Berneri, Risposta ad una consultazione sui compiti immediati e futuri dell’anarchismo, da “La Revue Internationale Anarchiste” (sezione italiana), Parigi, 15.1.1925. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op.cit.

88 C. Berneri, A proposito dell’Unione Anarchica Italiana da “L’Adunata dei Refrattari”, New York, 30.8.1922.

89 C. Berneri (firmato con lo pseudonimo “Camillo da Lodi”), Considerazioni sul nostro movimento, da “Libero accordo”, Roma 1920. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit., ivi pubblicato con il titolo Il movimento anarchico.

90 C. Berneri, Anarchismo e federalismo – Il pensiero di Camillo Berneri, da “Pagine libertarie”, Milano 20.11.1922.Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917 Barcellona 1937, op. cit.

91 Ibid.

92 C. Berneri, A proposito delle nostre critiche al bolscevismo, quotidiano “Umanità Nova”, 4.6.1922. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

93 Ibid.

94 Ibid.

95 Ibid.

96 C. Berneri, Due parole a Pietro Arcinov, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 5.10.1935. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

97 Si veda in proposito il duro attacco di Berneri all’Unione Comunista Anarchica che, appena abbracciata la teoria arcinovista, sollecitata dai socialisti massimalisti, progettava l’ingresso in un fronte unico con questi e con i comunisti (“L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 10.6.1933).

98 Basta dare uno sguardo a quanto scrisse (e fece) in Spagna, quando ad esempio fu promotore dell’espulsione di un militante di nome Girelli. Da C. Berneri, Un indegno, su “Guerra di Classe” (Barcellona) del 16.12.1936, si legge: “Comunico ai compagni tutti di aver richiesta l’espulsione dalla Spagna di Giuseppe Girelli, che iscritto alla milizia della CNT e della FAI, si è ripetutamente sottratto alle partenze per il fronte per abbandonarsi alle più indegne gozzoviglie. In Spagna un anarchico non viene che per combattere e per lavorare e non per sciupare tempo, energie, e soldi nelle bettole e nei postriboli. (…) Chi manca alla disciplina morale della milizia antifascista, come vi è mancato il Girelli, non è che un sedicente anarchico ed un pseudo rivoluzionario. Ed è doveroso sbarazzare il campo da questa gramigna”.

99 C. Berneri, In margine alla piattaforma, da “Lotta umana”, nella serie “Discussioni anarchiche”, Parigi 3.12.1927. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit.

100 Ibid.

101 Ibid.

102 Ibid.

103 C. Berneri, Lettera a S. Spada, Versailles, 15.11.1929, copia manoscritta da una spia fascista, Archivio Centrale dello Stato, riportata da Carlo De Maria in Camillo Berneri tra anarchismo e liberalismo, Franco Angeli Editore, Milano 2004.

104 C. Berneri, Umanesimo e anarchismo, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 22 / 29.8.1936. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, “Pietrogrado 1917…”, op. cit.

105 Frammento presente nella “Raccolta di articoli sul pensiero degli anarchici classici”, presso l’Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia.

106 C. Berneri, Per un programma d’azione comunalista, op. cit.

107 Luce Fabbri, Prefazione a C. Berneri, Guerre de classe en Espagne, Edition Les Humbles, Parigi, luglio 1938 (la traduzione è mia).

108 C. Berneri, I principii, da “L’Adunata dei Refrattari”, New York 13.6.1936. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit.

109 C. Berneri, Anarchismo e federalismo – Il pensiero di Camillo Berneri, op. cit.

110 C. Berneri, Irrazionalismo e anarchismo, interno ad un dibattito, ma non pubblicato da “L’Adunata dei Refrattari”, uscito postumo ed incompleto su “Volontà” (Napoli) nel 1952, testo custodito dall’Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia. Oggi in P.Adamo, Anarchia e società aperta, M&B Publishing, Milano 2001.

111 C. Berneri, Anarchismo e anticlericalismo, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 18.1.1936. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit.

112 C. Berneri, Irrazionalismo e anarchismo, op. cit.

113 C. Berneri, Della tolleranza, da “Fede!”, Roma 20.4.1924. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit.

114 C. Berneri, Umanesimo e anarchismo, op. cit.

115 C. Berneri, Sullo Stato proletario. Manoscritto del 1936 per il “Nuovo Avanti”, censurato dalla redazione, raccolto nel fondo V. Richards, ora depositato presso AFB, Reggio Emilia e pubblicato da P. Adamo in Anarchia e società aperta, M&B, Milano 2001.

116 C. Berneri, Il marxismo e l’estinzione dello Stato, in “Guerra di Classe”, Barcellona 9.10.1936. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

117 C. Berneri, Lo Stato e le classi, da “Guerra di Classe”, Barcellona 17.10.1936. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917..., op. cit.

118 Ibid.

119 C. Berneri, Abolizione ed estinzione dello Stato, da “Guerra di Classe”, Barcellona 24.10.1936. Oggi in P. C. Masini e A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

120 C. Berneri, L’operaiolatria, op. cit.

121 C. Berneri, Sulla difesa della rivoluzione. Per impedire la formazione di un’armata bianca, del 1929, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 21 / 29.5.1937. Citato da C. De Maria, Camillo Berneri fra anarchismo e liberalismo, op. cit.

122 C. Berneri, Umanesimo e anarchismo, op. cit.

123 C. Berneri, A proposito di revisionismo marxista, in “Pensiero e Volontà”, Roma 1.4.1924. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917..., op. cit.

124 Berneri scrisse infatti: “L’uomo dell’avvenire sarà un miliardario delle idee, un re dello spirito, (…). L’uomo di domani sarà semplice. I suoi piaceri saranno intimi (la lettura dei filosofi e i giuochi erotici) o collettivi (il concerto con 100.000 uditori), piaceri che costano poco e sono inesauribili. (…). Il regime socialista è un sistema epicureo, non utilitarista borghese”. C. Berneri, La ricchezza che è in noi, in “L’Adunata dei Refrattari”, New York 17.6.1933. Citato da Gianni Furlotti, Le radici e gli ideali educativi dell’infanzia di Camillo Berneri, in Memoria antologica. Saggi critici e appunti biografici in ricordo di Camillo Berneri, Ed. Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1986.

125 C. Berneri, Il lavoro attraente, da “L’Adunata dei Refrattari” N. Y., vari numeri dal settembre al novembre 1936. Pubblicato in Spagna: C. Berneri, El trabajo atrayente, Ediciones “Tierra y Libertad”, Barcelona, 1937. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit.

126 C. Berneri, L’operaiolatria, op. cit.

132 Frammento di lettera di Salvemini a Berneri, Firenze 9.1.1924, conservato presso Archivio Famiglia Berneri –Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia. Oggi in Camillo Berneri. Epistolario inedito, Vol. I, a cura di Aurelio Chessa /

Pier Carlo Masini, Archivio Famiglia Berneri Edizioni, Pistoia 1980. Citato anche da Carlo De Maria, “Camillo Berneri tra anarchismo e liberalismo”, Franco Angeli Editore, Milano 2004.

127 Ibid.

128 C. Berneri, Astensionismo e anarchismo, da “L’Adunata dei Refrattari”, N.Y. 25.4.1936. Oggi in P. Adamo,Anarchia e società aperta, op. cit.

129 C. Berneri, Anarchismo e federalismo. Il pensiero…, op. cit.

130 C. Berneri, Per un programma d’azione comunalista, op. cit.

131 C. Berneri, Costituzione della Federazione Italiana Comuni Socialisti (FICS), op. cit.

133 C. Berneri, Del diritto alla critica, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 2.7.1932. Citato in C. De Maria, Camillo Berneri fra anarchismo e liberalismo, op. cit.

134 C. Berneri, Come vedo il movimento giellista, op. cit.

135 C. Berneri, Il liberismo nell’Internazionale, op. cit. Oggi in Pier Carlo Masini, Alberto Sorti, Pietrogrado 1917 Barcellona 1937. Scritti scelti di Camillo Berneri, op. cit., qui pubblicata sotto il titolo Una lettera a Pietro Gobetti. Berneri si riferisce (testualmente) a: Risposta di un internazionalista a Mazzini “(pubblicata sopra il giornale bakuninista <<L’Eguaglianza>> di Girgenti, e ripubblicata da Guillaume, che la trova superba e l’approva toto corde [cfr. Oeuvres, VI, pagine 137-140])”. Aggiunge (in nota) Masini: “Successive ricerche hanno accertato che l’autore dell’articolo L’Internazionale e Mazzini (e non Risposta di un internazionalista a Mazzini) apparso su “L’Eguaglianza” di Girgenti, fu non Saverio Friscia ma Antonino Riggio, direttore di quel giornale”.

Per quanto riguarda il testo citato, vd. James Guillaume, L’Internationale. Documents et souvernirs (1864-1878). Oggi vd. James Guillaume, L’Internazionale. Documenti e ricordi (1864-1878), (4 volumi), Edizioni Centro Studi Libertari Camillo Di Sciullo, Chieti 2004 (nda).136 C. Berneri, I problemi della produzione comunista, in “Volontà”, Ancona 1.7.1920. Oggi in P. Adamo, Camillo Berneri…, op. cit.

137 C. Berneri, Lettera a Libero Battistelli, Versailles 7.12.1929, copia dattiloscritta da una spia fascista, Archivio Centrale dello Stato, riprodotta in Camillo Berneri. Epistolario inedito, Vol. I, a cura di Aurelio Chessa / Pier Carlo Masini, Archivio Famiglia Berneri Edizioni, Pistoia 1980. Riportata anche da C. De Maria, Camillo Berneri…, op. cit.

138 C. Berneri, Del diritto alla critica, op. cit.

139 C. Berneri, Anarchismo e federalismo. Il pensiero…, op. cit.

140 C. Berneri, La questione elettorale. Il cretinismo astensionista, in Compiti nuovi dell’anarchismo, su “L’impulso”,Livorno 1955, già apparso come Astensionismo e anarchismo, ne “L’Adunata dei Refrattari”, N.Y. 25.4.1936. Oggi in P. Adamo, Anarchia…, op. cit.

141 C. Berneri; Astensionismo e anarchismo, op. cit.

142 C. Berneri, Per un programma d’azione comunalista, op. cit.

143 Ibid.

144 Ibid.

145 C. Berneri, Libertà ed autorità, op. cit

146 C. Berneri, Lettera a Manlio Bonaccioli, Reggio Emilia, settembre 1918, originale in Archivio Feltrinelli, Milano.Pubblicata in appendice a C. Berneri, Epistolario inedito, Vol. I, a cura di Aurelio Chessa / Pier Carlo Masini. Ed.Archivio Famiglia Berneri, Pistoia (Carrara) 1980, p. 154.

147 Giampietro Berti, Il “revisionismo” di Berneri nella storia dell’anarchismo italiano, in Camillo Berneri singolare/plurale. Atti della giornata di studi. Reggio Emilia, 28 maggio 2005, Biblioteca Panizzi. Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa, Reggio Emilia 2007, p. 22. Berti riporta una frase tratta da C. Berneri, Della tolleranza, da “Fede!”, Roma 20.4.1924. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit.

148 Carlo De Maria, Camillo Berneri fra anarchismo e liberalismo, Franco Angeli Editore, Milano 2004.

149 Segnala De Maria: “Il ‘mondo dell’associazione involontaria’ ricorda, decisamente, la ‘radice’ di cui scrisse Simone Weil (nel 1942-43): la ‘partecipazione naturale’ – ‘cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente’ – alla vita di una collettività (cfr. Simone Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, trad. di F. Fortini, SE, 150 Segnala De Maria: “A. Ferrara, Presentazione del fascicolo di ‘Parolechiave’, 1996, n.° 10/11, dedicato al termine ‘persona’ (pp. 9-12, p. 9)”.

151 Segnala De Maria: “Citate in M. Salvati, Lelio Basso protagonista e interprete della Costituzione, in G. Monina (a c. di), La via alla politica…, cit., pp. 33-50, p. 41. Basso è del 1903: di appena sei anni più giovane di Berneri. E’ da notare che entrambi ebbero interesse per la dimensione religiosa dell’uomo. Più in particolare, verso la metà degli anni venti, sia Berneri che Basso si avvicinarono alla rivista neo-protestante ‘Conscientia’ di Roma (Berneri vi collaborò nel periodo 1924-1926, con una decina di articoli). Più tardi, poi, Basso fu influenzato dal personalismo di Emmanuel Mounier. Berneri conosceva la figura dell’autore cattolico francese: lo nominò in un articolo (…); in più fra le sue carte vi è il ritaglio di un articolo di Mounier (cfr. Raccolta di articoli sul tema della ‘Intolleranza religiosa in Spagna’, in Afb, cassetta X). Per quanto detto su Basso, cfr. anche G. Monina, Basso, La Malfa e Ruini: considerazioni sul percorso formativo, in id. (a c. di), La via alla politica…, cit., pp. 11-29, pp. 12-15”.

152 Segnala De Maria: “Cfr. A. Finkielkraut, L’humanité perdue, Seuil, Paris 1998 (1° ed. 1996), pp. 80-81. Dedica attenzione a questo testo Mariuccia Salvati, Il Novecento. Interpretazioni e bilanci, Laterza, Roma-Bari 2001 (cfr. p. 101). Una precisa definizione di volontarismo politico la ricaviamo dalle pagine sul Novecento di François Furet: la tendenza a immaginare il sociale come un puro prodotto della volontà politica (cfr. F. Furet, op. cit., pp. 93, 187)”.

153 Segnala De Maria: “Usiamo questa formula poiché Berneri non usò il termine ‘persona’”.

154 Segnala De Maria: “C. Berneri, La concezione anarchica dello Stato, cc. 2 + cc. 4 con numerazione separata, in Afb, cit., cc. 2”.

155 C. Berneri, La concezione anarchica dello Stato, inedito del 1926, conservato presso Archivio Famiglia Berneri–Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia. Oggi in Pietro Adamo, Anarchia e società aperta, M&B Publishing, Milano

  1. Citato in questo caso da De Maria.

156 Segnala De Maria: “Cfr. M. Salvati, Hannah Arendt e la storia del Novecento, in M. Flores (a c. di), Nazismo,fascismo, comunismo. Totalitarismi a confronto, Mondadori, Milano, 1998, pp. 219-257 (p. 249); M. Salvati, Lelio Basso protagonista e interprete della Costituzione, cit., p. 33”.

Milano 1990, p. 49)”.

157 Segnala De Maria: “Simone Weil andò oltre. Nel 1942-43, la nozione di ‘diritto’ non le sembrava più sufficiente.Preferì quella di ‘obbligo’. L’obbligo al ‘rispetto’ dell’essere umano in quanto tale. Mentre ‘i diritti appaiono sempre legati a date condizioni’, ‘quest’obbligo è incondizionato’: ‘in esso nessun cambiamento nella volontà degli uomini può nulla modificare’. Dal rispetto per l’essere umano deriva il rispetto per ogni collettività (…)”.

158 Segnala De Maria: “Cfr. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., pp. 31-32”.

159 Segnala De Maria: “C. Berneri, La concezione anarchica dello Stato, (…)”, (op. cit. – nda).

160 Segnala De Maria: “Nell’intento di delineare una netta contrapposizione tra società e associazione, Berneri scrisse:’La società è per propria natura giuridica. L’associazione è essenzialmente contrattuale. (…) L’associazione è l’amante,la moglie, il partito: una cosa che si sceglie. La società sono i genitori, il paese di nascita: una cosa che si trova, che non si può cambiare’ (ivi, c. 4 di cc. 4)”. Il riferimento è sempre a La concezione anarchica dello Stato, op. cit.

161 Segnala De Maria: “J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., p. 80”.

162 P. Adamo, Per una fondazione epistemologica dell’anarchismo: Camillo Berneri e l’empiriocriticismo, in Camillo Berneri singolare/plurale. Atti della giornata di studi. Reggio Emilia, 28 maggio 2005, Biblioteca Panizzi. Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa, Reggio Emilia 2007, p. 112-113.

163 Ibid., p. 106.

Un’estate da cinque lune

di Paolo Repetto, 9 ottobre 2018

Un'estate da cinque luneSi, un’estate davvero particolare. A maggio il mare era già un brodino e neppure ora (siamo ai primi di ottobre) il bel tempo pare intenzionato ad arrendersi. Una sorta di “alto continuo” che rischia persino di venire un po’ a noia. La cosa non dovrebbe stupire – semmai deve allarmare – perché l’anomalia di stagioni calde precoci e prolungate sta diventando una regola, e c’entrano senz’altro il surriscaldamento del pianeta e la sciagurata presunzione degli umani: ma anche perché in realtà il fenomeno non è del tutto nuovo. Accadeva la stessa cosa mezzo secolo fa, negli anni sessanta. O forse allora si trattava solo di una mia percezione, dettata dal fatto che le scuole iniziavano a ottobre e dall’intensità con la quale vivevo ogni singolo giorno. L’effetto comunque era identico: mi aggrappavo ad ogni nuova mattinata di sole come fosse l’ultima.

A dilatare ulteriormente questa stagione eccessiva è ancora una volta il mio status anagrafico. Non più la condizione adolescenziale, purtroppo, bensì quella di pensionato. So di scoprire l’acqua calda, ma fino a quando non ci sei dentro certe cose le puoi solo immaginare, senza capirle davvero: l’assenza di un confine preciso tra il tempo istituzionalmente consacrato al lavoro e quello “libero”, la condizione di feria perpetua, scombina i ritmi sia biologici che psicologici, per quanto uno resista alle sirene del burraco e si crei gli impegni più disparati. Con la pensione si entra in una sorta di limbo, senza la speranza in un’amnistia o in un condono. Tutto ciò che fai lo fai guardando indietro, anziché avanti.

Forse per questo mi è parsa un’estate strana. Intanto mi ha riportato indietro non solo nei ricordi ma anche nel recupero di sensazioni. Ho ritrovato ad esempio la totale confidenza con l’acqua, in particolare con quella del fiume, vincendo i timori (e gli avvertimenti espliciti) di complicazioni reumatiche che da qualche anno mi stavano frenando. Non siamo ai livelli di quando rimanevo in ammollo tre o quattro ore al giorno, o inseguivo i record del primo e dell’ultimo bagno stagionale, ma per tre mesi ho nuotato quasi quotidianamente, di buon mattino, spesso in perfetta solitudine, nel lago superiore della Lavagnina. E da domani si replica, al mare.

Sono anche tornato a lavori manuali di un certo impegno senza pagare dazi allo sciatico. Ho finalmente imparato a tenere ritmi bassi ma continui, a muovermi come gli astronauti sulla luna, col risultato che i lavori arrivano comunque in porto, sia pure in tempi doppi. Per gli altri sarà una notizia di nessun rilievo, come del resto tutto ciò di cui ho parlato sinora, ma c’è il fatto che imbarcarsi in attività di manutenzione o addirittura di nuova edificazione sembra smentire quanto ho detto sopra, supporre uno sguardo in avanti: mentre in realtà lo sguardo mira talmente avanti da andare persino “oltre”, da non riguardare cioè il mio futuro. Idealmente ho lavorato per i posteri (senza chiedermi però che ne faranno di muretti, pergolati e tettoie o degli alberi da frutta che ho messo a dimora), in verità l’ho fatto per sentirmi in qualche modo ancora agganciato al mio passato.

Rimane la soddisfazione di non aver perso una sola ora. Che non è l’atteggiamento più indicato in vista del prossimo inverno e del domani in genere, ma al momento è confortante. Diverso è invece il bilancio della scrittura. Cresce la sindrome da saturazione e da insignificanza, e mentre sulle prime la cosa un po’ mi preoccupava, ora sto iniziando a trovarla normale. Come giustamente dice un amico: “Se non scrivi è perché non hai niente da scrivere”. In effetti è così, o forse mi sono soltanto stufato di parlare di me stesso a me stesso (ma non so concepire diversamente questa attività). Cambia poco: il risultato è che dagli inizi di giugno non ho buttato giù una riga. La cronaca ufficiale non mi ha aiutato (è dominata da Di Maio e Salvini), quella personale l’ho già esaurita, perché – fortunatamente – non ho eventi da raccontare. Quale che sia la loro lunghezza, le stagioni alla Stand by me, quelle dell’avventura, reale o fantasticata, delle scoperte e degli incontri che danno un’altra direzione alla tua vita, quelle non tornano.

Ora, pochi mesi di stipsi improduttiva non costituiscono poi un gran problema, anche se per i ritmi cui ero abituato e per il valore terapeutico che attribuivo alla scrittura a me paiono già un’eternità. E sarebbero comunque anche questi un po’ fatti miei, non fosse che di nuovo, proprio con lo scrivere queste pagine, mi sto contraddicendo.

La verità è che del tutto improduttivi questi mesi non sono stati. Nel tempo liberato dalla non scrittura ho ripreso a leggere con continuità e ho trovato cose che possono forse risultare interessanti anche per altri. Per questo scendo dall’Aventino: se non ho nulla di significativo da dire c’è almeno qualcosa che vorrei ricordare, e di cui sarà bene lasciare una traccia scritta, prima di perderlo. La diaspora neuronale galoppa.

Quello che segue sarà pertanto un resoconto delle letture estive, delle scoperte e delle conferme che mi hanno regalato: un personalissimo memorandum, affidato anche al sito nella remota e un po’ balzana ipotesi di lettori che non abbiano di meglio da fare (di qualcosa bisogna pur nutrirlo questo benedetto sito, se vogliamo tenerlo in vita). Lo considero un ennesimo aggiornamento di Elisa nella stanza delle meraviglie: ormai ne conta più della Treccani.

Purtroppo devo ricostruire a memoria, perché ho smesso da tempo di tenere una qualsiasi forma di diario. È un peccato. Una volta avrei potuto citare date e persino luoghi di acquisto di ogni singolo libro, nonché l’ordine giornaliero delle letture. Per trenta e passa anni ho annotato, sera dopo sera, eventi, incontri, stranezze, qualche volta anche sensazioni ed emozioni, sia pure in maniera telegrafica: e la parte più interessante, a posteriori, rimane proprio quella relativa alle acquisizioni librarie e alle letture. Può sembrare una cosa stupida, un’inutile registrazione contabile, invece è importantissima. Quando scorro le agende di quarant’anni fa colgo proprio nella successione dei titoli un percorso, si illuminano le scelte, vanno al loro posto i tasselli del caotico mosaico della mia formazione. Senza parlare di quando le letture sono commentate, o collegate ad altre precedenti, oppure rinviano a libri o ad autori non ancora conosciuti (Urgente! Vedere subito!). La nostalgia o i rimpianti qui non c’entrano: per capire chi siamo – sempre che della cosa ci importi – è fondamentale avere chiaro da dove arriviamo (le letture) e come ci siamo arrivati (l’ordine delle letture). Mi sono anche proposto più volte di riprendere questa abitudine, non arrivando però poi mai oltre la metà di gennaio. Immagino voglia dire qualcosa. Non seguirò dunque l’ordine cronologico, che non sono in grado di ricostruire, ma procederò con un criterio, diciamo così, emozionale.

Accennavo sopra a scoperte e a conferme. Le scoperte riguardano alcuni saggisti italiani della generazione di mezzo (quella che comprende i nati tra la prima metà degli anni sessanta e quella degli anni ottanta), e sono un po’ tardive, dal momento che costoro sono sulla breccia da un pezzo. Non li conoscevo perché evidentemente non fanno opinione, meno che mai in tivù e comunque non nei salotti di prima serata (di questo però non garantisco: non seguo i talk e potrebbero quindi benissimo essermi sfuggiti): ma frequentano con parsimonia anche i supplementi culturali dei quotidiani, affidandosi piuttosto alle “riviste” on-line, e lì sono io a bazzicare poco, per una insuperabile idiosincrasia alla lettura in modalità digitale. Ammetto inoltre di essere stato a lungo fuorviato dal preconcetto che tutta la generazione cresciuta all’ombra di Vattimo e del “pensiero debole”, e oggi scaldata dal sole di Grillo, fosse perduta per ogni causa.

Per fortuna non è così. Lo dimostrano i casi di Claudio Giunta e Daniele Giglioli. Al primo sono arrivato per vie traverse, leggendo in primavera un suo reportage sull’Islanda (Tutta la solitudine che meritate). Non volevo anticipazioni su quel paese prima di averlo visitato, già viaggiavo con un bagaglio sin troppo pieno di suggestioni letterarie. Ma questo libro mi era stato suggerito da un amico di cui mi fido, e in effetti valeva la pena. Così al ritorno dal viaggio ho immediatamente cercato altre cose dell’autore, e ho trovato “L’assedio del presente. Sulla rivoluzione culturale in corso”, uscito nel 2008, “Una sterminata domenica”, del 2013 e infine, più recente, “E se non fosse la buona battaglia?”, edito lo scorso anno. Letture sufficienti a darmi un po’ di ristoro, in mezzo alla congerie di idiozie che, più ancora dell’afa, hanno reso pesante l’aria di questi mesi.

Il conforto non arriva certamente dagli scenari che dipingono, ma dalla constatazione che altri vedono le stesse cose che vedo io, col mio stesso stato d’animo. Giunta in effetti dice nulla di nuovo: almeno, nulla che già non conoscessi, o non pensassi, o di cui addirittura non avessi già scritto. Ma lo dice benissimo. Mette cioè in fila fenomeni, atteggiamenti, segnali che io ho continuato per anni a cogliere in ordine sparso, anche se sapevo fare capo a una matrice unica. Non vedevo nell’assieme quella che lui definisce una “rivoluzione culturale”, forse perché continuo ad attribuire inconsciamente un significato positivo, costruttivo, al termine rivoluzione. Ma anche perché sono portato a pensare che quando una deriva demenziale coinvolge molta gente – nel nostro caso la quasi maggioranza – non siano necessariamente da ipotizzare cause recondite e complesse: la si può tranquillamente spiegare con la stupidità, ovvero con l’esasperazione maligna e autodistruttiva di un naturale egoismo, che è un fattore troppo trascurato a dispetto della sua evidenza e diffusione e persistenza, o con quel tipo di ignoranza “rivendicata” che della stupidità è sia madre che figlia. In genere concorrono entrambe le cose. Il mio limite è che scorgo attorno il puro sfascio, un degrado inarrestabile che si autoalimenta e si diffonde con accelerazione crescente: e lo sfascio non si lascia raccontare in un discorso articolato.

Giunta non si accontenta di questa spiegazione “fenomenologica” (nel senso che basti guardarsi attorno per constatare quanto idiota può essere la famigerata “gente”). Ha uno sguardo “sociologico”, va in profondità e iscrive tutti gli indizi nel quadro storico e sociale della “condizione postmoderna”, qualunque cosa poi questa stia a significare.

Non è nemmeno il primo a farlo. Riprende in fondo un argomento già trattato, ad esempio, da Alessandro Baricco (ne I Barbari. Saggio sulla mutazione (2006). Ma Baricco lo affrontava in questi termini: ‟Dovendo riassumere, direi questo: tutti a sentire, nell’aria, un’incomprensibile apocalisse imminente; e, ovunque, questa voce che corre: stanno arrivando i barbari. Vedi menti raffinate scrutare l’arrivo dell’invasione con gli occhi fissi nell’orizzonte della televisione. Professori capaci, dalle loro cattedre, misurano nei silenzi dei loro allievi le rovine che si è lasciato dietro il passaggio di un’orda che, in effetti, nessuno però è riuscito a vedere. E intorno a quel che si scrive o si immagina aleggia lo sguardo smarrito di esegeti che, sgomenti, raccontano una terra saccheggiata da predatori senza cultura. I barbari, eccoli qua.

Ora: nel mio mondo scarseggia l’onestà intellettuale, ma non l’intelligenza. Non sono tutti ammattiti. Vedono qualcosa che c’è. Ma quel che c’è, io non riesco a guardarlo con quegli occhi lì. Qualcosa non mi torna.”

Ognuno di noi sta dove stanno tutti, nell’unico luogo che c’è, dentro la corrente della mutazione, dove ciò che ci è noto lo chiamiamo civiltà, e quel che ancora non ha nome, barbarie. A differenza di altri penso che sia un luogo magnifico.”

Beato lui. Che ha senz’altro delle buone ragioni per ritenerlo tale, visto che alle sue conferenze (ricordo una lettura con commento de “L’infinito” da far avere le convulsioni alle ossa di Leopardi) incontra folle adoranti, alle quali di capire o anche semplicemente ascoltare qualcosa di Leopardi non importa nulla, andrebbe benissimo anche l’esegesi del linguaggio di Jerry Calà, ma che delibano l’ambrosia culturale vaporizzata dall’incantatore e si portano via il suo ultimo libro, possibilmente autografato. Quanto all’onestà intellettuale, forse questa avrebbe richiesto all’autore una riflessione a posteriori sulla differente eco che i media hanno riservata alla sua posizione rispetto a quella di Giunta o di altri “apocalittici” sgomenti, non certo in virtù di un superiore livello dell’analisi. E un’altra dovrebbe dettargliene oggi, a dieci anni di distanza, sulla presenza o meno di “orde di predatori senza cultura”.

Tra l’altro, nemmeno Baricco è originale: riprende a sua volta quanto predicato da Michel Maffesoli ne “Il tempo delle tribù (2004)” e nelle “Note sulla postmodernità” del 2005, (che su un sito immodestamente titolato “La rivista culturale” erano recensiti così: “Un esempio felice e virtuoso nel documentare la nostra contemporaneità che lui chiama il tempo delle tribù, del lusso, di dionisio, del nomadismo, del comunitario, dell’immaginario e del ritorno del tragico e del “sacrale”. Non commento, perché di Maffesoli ho parlato già sin troppo altrove). E comunque, potrei proseguire il gioco andando a ritroso per almeno un altro mezzo secolo a caccia di precursori.

Ecco, queste interpretazioni sono per me già esempi perfetti di legittimazione di ciò che in pubblico definisco “uno sfascio etico e culturale” e in privato “il trionfo dei cretini”. Ne L’assedio del presente Giunta lo tratta invece come una “rivoluzione”, e ne vede tutte le possibili declinazioni e derive, partendo dal sovvertimento delle norme sociali, dalla crisi delle agenzie educative tradizionali e dalla frantumazione dell’autorità per arrivare all’eclissi del senso storico e alla perdita di validità dell’esempio, e leggendo tutto questo attraverso le trasformazioni del linguaggio televisivo, del ruolo della scuola e dell’università e dei concetti di cultura e di arte. Sugli esiti di questa “rivoluzione” culturale, o sulla deriva insensata delle politiche educative, non si scosta poi di molto da quel che penso io: ma interpreta giustamente i vari problemi secondo criteri di causa ed effetto, e ne coglie il concatenamento. Uno per tutti: l’ingresso della logica di mercato nell’Università e la banalizzazione della cultura indotta dal moltiplicarsi – ma anche già solo dall’esserci – degli “eventi” (il proliferare di festival della mente, della scienza, della lettura, della storia, della filosofia, le mostre “monstre” sui Grandi Artisti, sempre gli stessi, con Van Gogh e Caravaggio superstar, le passerelle “artistiche” sui laghi o i concerti in alta quota, e tutta la paccottiglia che viene spacciata col bollino culturale doc da una schiera superpagata di addetti ai lavori, reclutata per l’appunto negli atenei). Il libro risale a dieci anni fa, quando il fenomeno non aveva ancora raggiunto i livelli attuali di squallore, ma li lascia ampiamente presagire.

Con i pezzi raccolti in Una domenica sterminata Giunta fornisce poi le esemplificazioni concrete e puntuali di questo sfascio, o rivoluzione che dir si voglia. Sono istantanee che colgono situazioni apparentemente marginali, personaggi di secondo piano, furberie di bassa lega, da poveracci, e che proprio per questo radiografano perfettamente, molto più della produzione seriale di libelli sulle caste, sui grandi evasori e sui conflitti di interesse, la malafede e la tabe di fondo della società italiana. Perché ci ricordano che esiste una complicità diffusa, una partecipazione di massa al trionfo dell’illegalità e dell’imbecillità, che si trincera ipocritamente dietro l’indignazione per gli scandali clamorosi (Onestà! Onestà!). Il bello, ma anche il rischio connesso a questi pezzi, è che riescono addirittura amaramente divertenti, e lo sono per sé, per gli argomenti trattati, senza che Giunta faccia alcuno sforzo per ingraziarsi il lettore. Il paragone potrebbe essere col Diario minimo di Umberto Eco, con la differenza che là Eco metteva in campo la tecnica già postmoderna dello spiazzamento interpretativo, facendo ricorso all’ironia e anche ad una certa gigioneria (vedi L’elogio di Franti), mentre Giunta si limita a fotografare la realtà.

Daniele Giglioli prende le mosse dalla stessa realtà impietosamente raccontata da Giunta, ma poi va oltre. L’incontro con Giglioli è recentissimo. Naturalmente non ricordo già più come l’ho scovato (a proposito di memoria!), forse è arrivato di sponda da qualche altra lettura: ma ciò che importa è che mi sono immediatamente riconosciuto.

Ho scoperto che un suo saggio critico, All’ordine del giorno è il terrore, aveva movimentato la superfice dello stagno culturale italiano già nel 2008 (è stato riedito quest’anno, con una lunga postfazione). In verità, movimentato è una parola grossa: diciamo che l’aveva leggermente increspata. Come docente di letterature comparate Giglioli andava a rintracciare nella letteratura del passato la continuità dell’uso politico del terrorismo, in tutte le sue manifestazioni, quelle ufficialmente riconosciute e rivendicate (anarchico, rivoluzionario, islamico, ecc…) e quelle mascherate (guerre umanitarie, ecc. …). Ciò che veramente gli premeva era però arrivare al nocciolo, al fatto cioè che l’immagine del terrorista risponde a un bisogno radicato in profondità nelle nostre coscienze: il bisogno di attribuire ad altri, percepiti come assolutamente diversi, le debolezze e il senso di impotenza che rifiutiamo di riconoscere in noi. In sostanza: di fronte alla crescente insignificanza dei singoli decretata dalla modernità, allo smarrimento e alla fragilità inerme dei quali sono in continua balia, cresce negli individui un rancore sordo, un desiderio represso di riscatto violento.

Quello che Giglioli trova nella letteratura, viaggiando da De Sade a DeLillo, via Schiller, Dickens, Dostoevskij, Conrad, Ballard e decine d’altri, compreso l’insospettabile Manzoni, noi possiamo molto più banalmente coglierlo nel tema dominante nel cinema attuale (ma prevalente da sempre, ad esempio, nel filone western): la vendetta. Alla faccia dell’esecrazione e della messa al bando ufficiale della giustizia fai da te, il grande schermo è popolato oggi come non mai di vicende in cui le vittime, gli umiliati e i perseguitati, rifiutano il ruolo passivo nel quale sarebbero obbligati e scavalcano leggi, ordinamenti e organismi che non garantiscono più, se mai l’hanno fatto, la loro difesa. A partire dai classici, cose tipo Il giustiziere della notte e Un borghese piccolo piccolo, le varianti della storia sono poi infinite. Pochi giorni fa sono passati in tivù nella stessa serata Harry Brown e Il buio dell’anima, dove a ribellarsi alla pavida passività sono un vecchio e una donna, che vendicano rispettivamente un amico e il proprio fidanzato. Nei colpi di pistola esplosi da due rappresentanti delle categorie più indifese si sublima il desiderio di milioni di individui che si sentono abbandonati, schiacciati nella loro solitudine tra l’indifferenza del potere e l’impunità dei carnefici. E anche se francamente non penso di soffrire di quella sindrome, confesso di aver atteso anch’io con un senso di esaltata liberazione il compimento della vendetta, di essermi identificato con le vittime, di aver non solo giustificato, ma invocato la loro reazione, e premuto il grilletto assieme a loro.

La differenza rispetto a quel che accadeva nei western della mia infanzia sta nel fatto che Shane, il cavaliere della Valle Solitaria, agiva in un contesto quasi mitologico, in una dimensione che anche un bambino percepiva come totalmente altra, ed era un pistolero, dal quale non ci si poteva attendere altro che coraggio, precisione e velocità nell’estrarre, mentre Harry Brown è un pensionato con l’asma, e vive (e muore) in un mondo che avverto sempre più prossimo, nel tempo e nello spazio. Asma a parte, potrei benissimo essere io, e Jodie Foster potrebbe essere qualsiasi donna. Shane era la mano armata di un ideale di giustizia, rozza e sbrigativa quanto si vuole, ma superiore, impersonale: era legittimato da una speciale integrità etica, che gli imponeva di mettere la sua abilità al servizio dei deboli, e sparava, quando tirato per i capelli, per sgombrare la strada al futuro, assicurando a ciascuno pari opportunità. E uscendo poi di scena, una volta ristabiliti gli equilibri violati. Gli eroi di oggi reagiscono e uccidono proprio perché in quell’ideale non credono più, per rispondere a personalissime offese e chiudere i conti con le cicatrici del passato. E sulla scena tendono a restarci.

Dopo aver letto il libro di Giglioli sono andato a cercare sul web traccia delle recensioni che gli erano state dedicate. Non si può dire che i critici si siano sprecati (e questo almeno in parte spiega perché non l’abbia conosciuto prima), ma soprattutto non hanno affatto compreso qual era il vero assunto dell’autore. Anche quando gli tributano lodi per l’intelligenza e per il coraggio, gli rimproverano poi di non aver fatto i dovuti distinguo tra un terrorismo in qualche modo giustificato e uno insensato: che significa riportare un discorso che ha una dimensione “antropologica” al livello più superficiale della contingenza storica. A Giglioli non interessava affatto indagare o denunciare le diverse facce del fenomeno, ma rintracciarne la radice, che è unica, nella risposta a una condizione esistenziale.

Se questa volontà non fosse stata già chiara, Giglioli l’ha ribadita ed esplicitata in maniera inequivocabile qualche anno dopo in Critica della vittima (2014), un saggio più breve, quasi un pamphlet, col quale affonda il coltello nella piaga senza usare anestetici. L’ho letto ripetendomi ad ogni pagina: Eccolo lì, vedi che allora non sono un menagramo lagnoso e inacidito.

Faccio prima, anziché raccontarlo, a far parlare Giglioli stesso. “La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. … nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa … la vittima è irresponsabile, non risponde di nulla, non ha bisogno di giustificarsi.” E di conseguenza: “… chi sta con la vittima non sbaglia mai.” Che parrebbe lapalissiano, ma non lo è. Perché: “La mitologia della vittima trova la sua ragion d’essere nel venir meno di una credibile, positiva idea di bene”. Ergo, con l’idea di una trionfante iniquità che “eleva a martire chi è stato colpito, o lo desidererebbe, o lo pretende per legittimare il suo stato. Col corredo di affetti inevitabili: risentimento, invidia, paura.” Il tutto riassumibile in una citazione da Christopher Lasch: “È proprio questa la ferita più profonda inferta dalla vittimizzazione: si finisce per affrontare la vita non come soggetti etici attivi, ma solo come vittime passive, e la protesta politica degenera in un piagnucolio di autocommiserazione” (da L’Io minimo, del 1984, ma uscito in Italia solo nel 2004: giusto in tempo comunque per fotografare la situazione attuale).

Giglioli analizza puntualmente tutti i sintomi del fenomeno. Parte dalla sovrapposizione della memoria alla storia, anzi, dalla rimozione in blocco di quest’ultima a favore della prima. “La memoria configura un rapporto con il passato di tipo inevitabilmente proprietario: il mio, il nostro passato. Isola gli eventi dalla catena del loro accadere, li ipostatizza in valori invece di spiegarli come fatti.” Denuncia le ambiguità di fondo del credo umanitario, che “è una una tecnica, un insieme di dispositivi che disciplinano il trattamento delle parole, delle immagini, delle reazioni emotive ingiunte agli spettatori: estetizzazione kitsch, sensazionalismo riduttivo, naturalizzazione vittimaria di intere popolazioni.” E che riserva al clemente, al misericordioso il ruolo di “testimone legittimo”, accreditato a parlare in nome delle vittime. Le quali “sono private di ogni soggettività, di ogni diritto che non sia quello al soccorso”.

Procede quindi, in una concatenazione perfettamente logica, dalla colpevolizzazione della modernità, del novecento, della cultura occidentale in genere e della prassi politica che ha espresso, per approdare alla paura che come un gas nervino viene diffusa nell’immaginario sociale e paradossalmente si autoalimenta, in quanto assunta come arma difensiva, come strumento immunitario. Una paura che crea risentimento e appunto identificazione, e partorisce da un lato la necessità di “individuare un ostacolo, un estraneo da espellere, un nemico di cui dichiararsi vittime”, dall’altro l’emergere di leader che di questo atteggiamento si fanno interpreti, riassumono in sé la condizione di vittime, e la usano per legittimare una loro assoluta insindacabilità. Sono i meccanismi di fondo del populismo. Il quale viaggia e prospera soprattutto nell’universo del web, che è “il paradiso immaginario della soggettività irrelata, incontrollata, senza filtri apparenti”, mentre in realtà rimane sotto il ferreo controllo dei grandi gestori. Un paradiso nel quale allo spirito critico genuino è negato in realtà ogni accesso, dove impera la rissosità e dove ogni contradditorio è subito virato in persecuzione. Non penso sia difficile riconoscere trame e interpreti del melodramma tragico cui stiamo assistendo.

E mi fermo qui, alla primissima parte del saggio: ma credo che basti. Non voglio guastare il piacere (insomma) di scoprire il resto ad eventuali lettori. Direi che comunque è sufficiente a spiegare perché del libro non avevo sentito parlare prima.

Non ho invece ancora letto “Stato di minorità”. Dalle poche righe della presentazione arguisco che sia un tentativo di passare alla pars construens. “Mi sono accorto che la domanda attorno a cui ruotavo era sempre la stessa: quali sintomi si manifestano in una società in cui l’agire politico è sentito come qualcosa di impossibile, non perché proibito, ma perché ineffettuale, senza esito, svuotato di ogni concretezza … L’obbiettivo di questo saggio non è tanto la constatazione quanto l’elaborazione di un lutto. Elaborare un lutto comporta attraversarlo e superarlo”. Sono curioso di verificare come, e andando verso dove.

Un po’ defilato, e comunque in linea con i due incontri precedenti, ce n’è un terzo, quello con Sergio Benvenuto. Benvenuto non appartiene alla generazione di mezzo, ha esattamente la mia età ed evidentemente abbiamo parecchie altre cose in comune, visto che ha visitato anche lui in occasione dei settant’anni, proprio durante l’ultima estate, per la prima volta l’Islanda (e ne ha scritto un bellissimo reportage). Non ho letto libri suoi perché è uno psicanalista, e della psicanalisi non mi importa granché, ma ho raccolto in uno dei miei preziosi libricini gli articoli postati negli ultimi tre anni su DoppioZero, trovandoci una notevole consonanza. Intanto Benvenuto, a dispetto della sua formazione e della sua professione, usa un linguaggio decisamente semplice (che non significa povero): vale a dire che parla e argomenta in maniera tale che persino un idiota potrebbe capirlo (non fosse che gli idioti di norma non leggono, e non comunque quelle cose). Quanto ai contenuti, potrebbe sembrare appiattito sulla linea di una “sinistra del buon senso”, ma dal momento che il buon senso ha in questo momento con la sinistra un rapporto molto conflittuale, non è affatto un megafono dell’establishment. Rischia anzi di sembrare un eretico: che parli di anti-politica, di leggende metropolitane, della “straordinaria affermazione di Renzi nel referendum del 4 dicembre”, non è mai in linea con gli umori prevalenti. E infine, per quanto mi riguarda più personalmente, è la dimostrazione che a dispetto delle differenti situazioni di partenza (ha studiato a Parigi, ha vissuto un Sessantotto da protagonista, o quasi – tutti indizi di una condizione ben diversa dalla mia) l’approdo, per chi appunto del buon senso fa la propria bussola, è poi lo stesso.

Nota a margine. Questi incontri mi hanno rievocato, per un processo analogico che non sto qui a spiegare, sensazioni provate molti anni fa leggendo l’opera forse meno conosciuta di Luigi Meneghello, “Il dispatrio”. Che sono andato quindi puntualmente a rileggere. È stata una rilettura molto condizionata, perché ho cercato soprattutto quello che Meneghello non diceva, ma balzava già fuori con evidenza dal confronto implicito con la realtà inglese. E anche una rilettura tonificante, perché mi ha indotto a risfogliare Pomo Pero e i Fiori italiani, con benefici effetti sul morale.

Forse mi sono dilungato troppo sulle new entry della mia personale classifica: c’è altro di cui vale la pena parlare, anche se il legame con l’attualità è molto più sottile, o addirittura quasi invisibile. La prima parte dell’estate l’ho dedicata al recupero di testi, notizie, memorie archiviate nel cassetto, relativi ad un argomento che potrebbe sembrare un po’ peregrino, oltre che inattuale (ma non lo è). Da qualche tempo mi frulla in testa questo interrogativo: perché gli anarchici amano la geografia, e i socialisti, o meglio, i marxisti, prediligono la storia? In effetti i due pensatori anarchici più significativi dell’800 (almeno per me), Piotr Kropotkin e Élisée Reclus, erano entrambi geografi – ma ce ne sono altri. Ho cercato di darmi una risposta, che contavo di sviluppare, e della quale comunque posso già anticipare la tesi di fondo: gli anarchici prendono in considerazione innanzitutto il rapporto dell’uomo con la natura, quindi con lo spazio, mentre i comunisti considerano solo quello tra gli uomini, che ha come teatro il tempo. Non a caso Marx riteneva che con le prime grandi civiltà, e quindi con la prima organizzazione dello sfruttamento, si fosse conclusa la storia naturale, per lasciare il posto a quella culturale (o sociale).

Stanti i miei umori attuali temo che questa riflessione abbia poche probabilità di essere un giorno debitamente argomentata: ma ho scoperto, sempre durante l’estate, che almeno una parte del lavoro, quella riguardante il rapporto degli anarchici con la geografia, è già stata fatta. Ne Il mondo senza la mappa. Élisée Reclus e i geografi anarchici Federico Ferretti si occupa non solo del grande geografo francese ma anche del suo collaboratore Metchnikoff e del cartografo Perron, oltre naturalmente che di Kropotkin. Viene fuori che gli anarco-geografi diffidavano assolutamente della cartografia piana, che schiaccia la realtà riducendo tutto a segni e simboli e linee, funzionali solo a una lettura politica, mentre propugnavano l’uso didattico di modelli tridimensionali che offrissero in scala un rilievo realistico della crosta terrestre, con la sua orografia e i suoi bacini idrografici. (In pratica quei plastici – ma allora erano di gesso o di cartapesta – che fino a qualche tempo fa prendevano polvere negli armadi delle aule di scienze). In questo modo, pensava Reclus, è possibile davvero trasmettere l’idea che fiumi e catene montuose non sono degli ostacoli, non segnano dei confini tra gli uomini ma, al contrario, li mettono in comunicazione, agevolano i loro incontri. Aveva persino progettato un enorme globo, di quasi centotrenta metri di diametro, in vista della Esposizione universale di Parigi (quella della Tour Eiffel), sul quale avrebbe dovuto essere riprodotta l’intera superfice terrestre, dentro il quale doveva essere ospitata una biblioteca e attorno e sopra il quale i visitatori avrebbero girato con un complesso sistema di scale. Naturalmente non se ne fece nulla (ne fu esposto uno di quaranta metri che Reclus giudicava malfatto e assolutamente impreciso). Rimane solo il frammento di rilievo che il suo cartografo Perron realizzò del territorio svizzero, tendo conto della curvatura terrestre. Preso dall’entusiasmo Perron adottò la scala 1:400.000, il che avrebbe comportato, per rilevare la superfice di tutto il globo, costruire una sfera di 400 metri di diametro: e tuttavia su quella sfera ideale il Cervino è un grumo di gesso a punta che non raggiunge i cinque centimetri di altezza.

Sono queste le cose che mi scaldano il cuore, o quantomeno mi spronano a continuare nella ricerca del materiale “preparatorio”. Così, sul pensiero di Reclus ho letto ad esempio Natura ed educazione, una silloge di interventi che ne scandagliano un po’ tutti gli interessi, quello geografico in primis. Le opere più significative del geografo francese non sono più state edite in Italia dalla fine dell’800, ma si può rimediare scaricandole da Liberliber (certo, il primo dei diciannove volumi della Nuova Geografia Universale consta di ottocento pagine più le cartine fuori testo, mentre per L’uomo e la Terra i volumi sono soltanto sei … ). Per il momento mi sono accontentato di ciò che era alla portata della mia stampante, la Storia di un ruscello e la Storia di una montagna: libri persino ingenui nella loro aspirazione a fare una divulgazione scientifica non noiosa, ma che restituiscono senz’altro l’immagine di uno scienziato e di un uomo incredibilmente libero e buono.

A questo punto però il percorso si è complicato e ha imboccato un nuovo sentiero. Mentre ripercorrevo velocemente la storia del pensiero anarchico ho cominciato a chiedermi come mai tanti filosofi e rivoluzionari ebrei abbiano optato per l’anarchismo anziché per il comunismo. In fondo gli ebrei sono per antonomasia il popolo del tempo, la loro adesione a un approccio storicistico parrebbe scontata. Invece, cercando una risposta ne L’anarchico e l’ebreo (una raccolta di saggi a cura di Amedeo Bertolo), ho preso atto che la mia concezione dell’anarchismo è consonante solo col filone meno conosciuto, quello popolato appunto dai pensatori ebrei. Qui forse vale la pena di spiegarmi meglio, perché in definitiva il discorso va a sfociare direttamente non solo in quanto ho detto sopra a proposito di Giunta, Giglioli e Benvenuto, ma in tutto ciò in cui ho continuato a credere e di cui sto scrivendo da quasi sessant’anni. Farò quindi un breve abstract di qualcosa che da troppo tempo mi propongo di riconsiderare con calma

Semplificando al massimo, si possono identificare due modelli di anarchismo, molto diversi, quasi antitetici, che partono da differenti premesse e approdano a prassi diversissime. Da un lato c’è il modello insurrezionalista incarnato da Bakunin, che sfocia poi nel terrorismo bombarolo di fine ottocento, e che è perfettamente riassunto nel motto “La passione per la distruzione è anche una passione creativa” . Il secondo aspetto della passione Bakunin non ebbe mai modo di sperimentarlo.

Dall’altro c’è una concezione che potremmo definire “gradualista”, più individualistica, che procede per una linea piuttosto tortuosa e difficile da identificare, partendo da Max Stirner per arrivare sino a Berneri. Il motto potrebbe essere in questo caso quello di Reclus, “L’anarchia è la più alta espressione dell’ordine” (dove l’ordine è quello che nasce dall’assunzione di responsabilità degli individui, e non quello imposto dal potere di uno stato): ma anche quello di Landauer “La scoperta (da intendere come “coscienza piena”) di essere costretto in condizioni indegne costituisce il primo passo per la liberazione da queste condizioni”. Su questa linea si collocano in prevalenza i pensatori ebrei, da Landauer appunto fino a Mühsam e a Benjamin.

Dove sta lo specifico ebraico che li porta a immaginare e praticare un anarchismo ben lontano da quella che ne è l’immagine diffusa e accreditata? A mio parere sta nel rifiuto, o perlomeno nella lettura critica, di una concezione millenaristica che molto deve alla radice cristiana, dell’aspettativa soteriologica di una apocalisse che faccia piazza pulita dell’ingiustizia e della malvagità e prepari il terreno ad un mondo nuovo. Può sembrare un paradosso, perché proprio all’ebraismo si tende ad attribuire la paternità del millenarismo. Invece le cose non stanno così. Gli ebrei sono convinti che la salvezza dipenda innanzitutto da una trasformazione individuale, non demandata ad una forza superiore, sia essa Dio o il popolo. Sono più interessati alla fase costruttiva che a quella distruttiva, e questo perché la seconda sembra lontana a venire, mentre la prima può cominciare ad essere attuata nell’intimità del singolo, nella cerchia ristretta delle sue relazioni con gli altri.

Il modello anti-insurrezionalista era già presente sia in Reclus che in Kropotkin, con la differenza che in essi (che infatti ebrei non erano) c’è al fondo un ottimismo “spontaneista” di matrice positivistica, una interpretazione solidaristica dell’evoluzionismo, (quello che Berneri chiamava “l’anarchismo dagli occhiali rosa”). Come a dire che anche se non sarà un Dio a portare la giustizia e l’armonia in questo mondo, e magari neanche un movimento o un partito progressista, provvederà la natura stessa: quasi un naturalismo deterministico.

C’è invece chi rifiuta di demandare la trasformazione ad un “attore esterno”, sia esso un’entità superiore come la Provvidenza, lo Spirito Assoluto o la Natura, o un ideale, nelle vesti di Ragione, Libertà, Progresso, Spirito assoluto, o una entità impersonale, come il popolo o le classi sociali, e fa degli uomini, intesi come singoli che si associano e cooperano volontariamente, i soggetti attivi della storia.

Questa è la sostanza del pensiero di Gustav Landauer. E proprio a lui sono approdato. Landauer non è molto conosciuto, neppure nella ristrettissima cerchia di coloro che ancora si interessano alla storia e al pensiero politico. Delle sue opere è stata tradotta in italiano, a un secolo dalla comparsa, soltanto La rivoluzione: io stesso lo ricordavo sino a ieri solo per quello che ne aveva scritto il suo amico Martin Buber in Sentieri in Utopia (anche questo rimasto però per anni introvabile). Ora il vuoto è almeno in parte colmato da un poderoso saggio biografico di Gianfranco Ragogna, Gustav Landauer anarchico ebreo tedesco. Al di là del valore intrinseco dell’opera, che sta tanto nella ricchezza dell’informazione che nella profondità dell’analisi, questa lettura mi ha stimolato a cercare in rete tutto ciò che poteva essere rintracciabile. Ho trovato ben poco, praticamente solo il breve saggio Per una storia della parola anarchia. Ma anche quel poco è estremamente interessante.

Landauer è lontano anni luce dall’idea di una rivolta distruttrice di massa, quella propugnata da Bakunin, ma anche dalla fede “deterministica” del materialismo storico. Ha una concezione etica del mutamento, che chiama in causa i singoli individui e li mette di fronte alla loro responsabilità. Il sistema può essere combattuto qui e ora, e da ciascuno, senza attendere gli sviluppi “dialettici”, economici o politici, postulati dal marxismo. Si può già costruire una “controsocietà” fuoruscendo dal sistema esistente e recuperando un rapporto con la terra e la natura che modelli il legame sociale su basi solidaristiche e comunitarie. In altre parole, cominciamo noi, come singoli, a creare degli exempla di vita buona, a vivere “come se” la trasformazione fosse già attuata: questo ci darà modo di condividere con altri ragioni di vita, obiettivi concreti, aspettative, utopie, che non debbono essere il risultato della “rivoluzione”, ma costituirne le premesse. Siamo come uomini primitivi di fronte all’indescritto e indescrivibile, non abbiamo niente davanti a noi, ma tutto solo dentro di noi: dentro di noi la realtà ovvero la forza non dell’umanità a venire, bensì dell’umanità già esistita e per questo in noi vivente e consistente, in noi l’operare, in noi il dovere che non ci travia, che ci conduce sul nostro sentiero, in noi l’idea di ciò che deve diventare realtà compiuta, in noi la necessità di uscire da sofferenza e umiliazione, in noi la giustizia che non lascia nel dubbio o nell’incertezza, in noi la dignità che esige reciprocità, in noi la razionalità che riconosce l’interesse altrui. In coloro che provano questi sentimenti nasce dalla più grande sofferenza la più grande temerarietà; coloro che vogliono tentare, malgrado tutto, un’opera di rinnovamento, orbene, si devono unire.”

Non è un sognatore, perso nelle nuvole. È anzi assai più realista di coloro che si attendono la liberazione dall’azione di “soggetti sociali collettivi”, o cercano di anticiparla con la “violenza libertaria”, gettando bombe o sparando ai simboli del potere. Per lui “ogni violenza è o dispotismo o autorità”. Il suo è, come scrive Ragogna, un modo d’essere insieme politico e impolitico. Impolitico, per un verso, perché era sulle relazioni tra gli uomini in tutti gli aspetti della vita che Landauer puntava per inaugurare un’epoca del tutto nuova: una vera e propria mutazione antropologica. Etico-politico, per un altro verso, perché egli continuava a credere in forme forti di azione collettiva, collocate al di fuori della sfera d’influenza dello Stato ma orientate a un fine dai contenuti spiccatamente universalisti: l’uguaglianza, la pace e, in esse e grazie a esse, la libertà.”

Ma la libertà è un concetto vago, che diventa addirittura pericoloso quando può essere manipolato dal potere stesso. Mi ha colpito, in mezzo alle tante altre, una considerazione: “Mi chiedo se siamo sicuri di essere in grado di sopportare tutto quello che adesso comincia a imperversare al posto dello spirito mancante, fra istituzioni coercitive che lo sostituiscono, se saremo capaci di sopportare la libertà senza lo spirito, la libertà dei sensi, la libertà del piacere scevro da responsabilità”. La libertà incondizionata non può che portare all’individualismo atomistico, e mette i singoli individui alla mercé del pensiero dominante e di chi lo controlla. Landauer ha fotografato il nostro tempo, la nostra società, con un secolo d’anticipo.

Nella storia del pensiero anarchico novecentesco solo Berneri è a questi livelli, e di Berneri ho già parlato diffusamente altrove. Segnalo soltanto che in Anarchismo e politica nel problemismo e nella critica dell’anarchismo Stefano d’Errico ne ha fatta una rilettura magari non sempre condivisibile, ma senza dubbio intelligente. E soprattutto, molto chiara e articolata. (Può essere la buona occasione per un primo approccio a questa figura tanto eccezionale quanto misconosciuta, in alternativa alla minibiografia che io stesso ne ho sbozzato nel volumetto Lo zio Micotto e le cattive compagnie).

Mi sembra però anche giusto sottolineare come paradossalmente gli anarchici “razionali”, quelli che diffidavano delle soluzioni insurrezionali e rifiutavano la scelta terroristica, siano poi quelli che, al bisogno, hanno combattuto in prima fila, e hanno pagato con la vita la difesa di idee e di scelte che magari nemmeno condividevano appieno. È accaduto a Landauer a Berlino e a Berneri in Spagna (quest’ultimo assassinato proprio da chi la rivoluzione avrebbe dovuto difenderla). I grandi agitatori rivoluzionari, da Bakunin stesso a Lenin, sono morti al contrario tutti nel proprio letto .

La linea gradualista, che i duri e puri bollano come “revisionista”, è indubbiamente la meno conosciuta. Se si chiede (io l’ho fatto) a qualche animatore dei tanti circoli anarco-insurrezionalisti, anarco-rivoluzionari, anarco-ecologisti, quelli che fanno cagnara appena fiutano odor di telecamera, chi fossero Berneri o Landauer o Reclus, per non parlare di Benjamin, si ottengono risposte desolanti. Ma non mi scandalizza l’ignoranza in sé, quella la do per scontata, in fondo è proprio la sua persistenza a inverare il “gradualismo” revisionista, a obbligarmi ad avere in sospetto le masse rivoluzionarie inferocite e chi le guida: mi irrita invece il fatto che essa fa gioco al potere, perché gli consente di liquidare in blocco l’anarchismo come un movimento di sballati, se non addirittura di terroristi. E mi irrita anche perché non è affatto innocente, è solo comoda: consente di mettersi al traino di un’idea di rivoluzione che non ti chiede di responsabilizzarti individualmente, ma ti offre dei “responsabili” sui quali scaricare la tua rabbia e le tue frustrazioni.

A riprova del fatto che si è trattato di un’estate di immersioni totali, non solo nelle acque della Lavagnina, c’è un altro libro legato all’ebraismo, L’esilio della parola, di André Neher. Il legame in questo caso è diretto, perché l’autore si interroga sui diversi significati del silenzio, quello di Dio e quello degli uomini, nella Bibbia, desumendo da una lettura filologicamente serratissima una interpretazione molto originale della spiritualità ebraica. Anche in questo caso è meglio lasciare direttamente a lui la parola: “La lettura ebraica della Bibbia in piena logica della Genesi scopre l’illogico. Nel ritmo regolare dell’insieme scopre delle irregolarità sorprendenti. Alla concezione (greca) di un universo creato nella sua totalità, con tutti i suoi elementi, sostituisce la visione di un mondo in cui ci sono lacune, vuoti, e inversamente supplementi e aggiunte. Infine, è sensibile al fatto che alcune creature, lungi dal piegarsi alla Parola divina, le oppongono resistenza, si mostrano indocili e provocano così rivolte, accidenti, drammi. Osa penetrare nel mondo per scoprire, con stupore, ma senza compiacimento, che tale opera non è stata affatto meditata né realizzata secondo un piano prestabilito, ma che, al contrario, essa è scaturita da un’impreparazione radicale, e ha conservato lungo tutta la sua esecuzione i caratteri a volta deludenti o stimolanti di una improvvisazione”. Questo significa, secondo Neher, che non c’è una provvidenza divina a regolare il mondo. Dio tace, davanti alle invocazioni affinché metta un po’ d’ordine, per lasciare all’uomo uno spazio di libertà, perché l’uomo impari a rispondere con parole proprie, perché sia indotto a cooperare al completamento o al miglioramento dell’opera. Dio si ritira, dicevano i cabalisti, per lasciar sussistere il mondo. Ma “creando libero l’uomo, Dio ha introdotto nell’universo un fattore radicale di incertezza … l’uomo libero è l’improvvisazione fatta carne e storia … che mette in pericolo il piano divino nel suo insieme”. E il rischio nasce quando Dio dice, nel primo capitolo della Genesi, “facciamo l’uomo”, perché con quel plurale proprio all’uomo si rivolge. “Facciamo l’uomo insieme – tu, uomo e io, Dio – e questa alleanza fonda per sempre la libertà dell’uomo, di cui essa ha fatto per sempre il partner di Dio. Pertanto, le fasi successive e drammatiche della storia sono altrettanti ‘momenti di apprendistato’ della libertà. Tutto si svolge come se Dio tentasse l’uomo, obbligandolo a temprare la sua libertà.” È dunque una libertà tragica, se si vuole, ma è l’unica vera e possibile. Apre all’uomo un campo d’azione infinito, e lo carica della responsabilità di agire.

Come si può immaginare è un libro complesso, che parrebbe richiedere una concentrazione difficilmente conciliabile con le atmosfere dell’estate: in realtà mi ha preso e affascinato come un romanzo, e mi ha fatto rimpiangere di non aver frequentato l’università a Strasburgo, dove Neher insegnava e dove alla fine degli anni sessanta deve essersi creata una eccezionale concentrazione di cervelli (erano in fuga da Parigi, dove imperversava invece Cohn Bendit – altro ebreo, altro anarchico, poi eletto però per ben quattro volte parlamentare europeo). Mi ha anche indotto a riprendere in mano Linguaggio e silenzio di George Steiner, per avere conferma che parla d’altro ma dice in fondo le stesse cose.

Non soltanto. Mentre leggevo il saggio di Neher mi sono ricordato di un piccolo saggio che da tempo giaceva sepolto nel settore “ebraismo” della mia libreria, L’odio di sé ebraico, di Theodor Lessing. Ero quasi certo di averlo già letto, ma ho poi realizzato che lo confondevo con un altro scritto dal titolo quasi identico, Ebraismo e odio di sé (si tratta in realtà di un capitolo estrapolato da Sesso e Carattere di Otto Weininger), ma di ben più modesta levatura. Quello di Lessing è un classico della storia dell’antisemitismo (nella fattispecie, di quella particolare forma di antisemitismo espressa dagli stessi ebrei), anche se si tratta di un opuscoletto smilzo, un centinaio pagine di piccolo formato e stampate a caratteri grandi. La lettura mi ha preso poco più di un’ora, ma ci sono tornato su più volte nei giorni successivi: anche in questo caso si imponeva immediato il confronto con l’interpretazione del fenomeno che Steiner da ne La barbarie dell’ignoranza e in Nel castello di Barbablù.

Lessing può essere letto in continuità con Neher (anche se scrive quarant’anni prima), nel senso che va già oltre il tema della responsabilità, e legge la singolarità, e il dramma, del popolo ebraico nei termini del senso di colpa. Quando si chiede il perché dell’odio che ha accompagnato gli ebrei nel corso di tutta la loro vicenda si dà una spiegazione non storica, ma religioso-filosofica: “Gli eventi della storia umana … sarebbero insopportabili se l’uomo non potesse introdurre un senso in tutti questi ciechi avvenimenti. Non gli è affatto sufficiente scoprire fondato casualmente tutto l’accadere, lo vuole piuttosto scoprire fondato con pienezza di senso … Questo rendere pienamente sensato anche tutto il patire insensato può però risultare da due vie. O addossando all’altro la colpa, o cercando quest’ultima in se stessi. Ora, una delle più certe conoscenze della psicologia dei popoli è che il popolo ebraico è il primo, anzi, l’unico tra tutti i popoli a cercare solo in se stesso la colpa dell’accadere mondiale.”

Questa colpa collettiva deriva “dal frantumarsi di una totalità originaria, di uomo e mondo. La rottura di questa totalità è operata dallo ‘spirito’ e avviene per ragioni interne al suo stesso costituirsi: esso si realizza spingendo la ‘vita’ a rovesciarsi contro se stessa, in quanto ‘sapere’, a mortificare la vita… Una scissione può essere data solo nello stato di ‘veglia”, ovvero nel momento in cui si comincia a riflettere e a separare l’esperienza dalla riflessione sull’esperienza. Quando cioè si comincia a pensare. “Tutto il pensare presuppone il due e la dualità”. E quando si comincia a pensare ci si avvia a sostituire l’immediatezza della vita con il sapere attorno al vivente.

In altre parole: gli Ebrei sono colpevoli perché hanno spinto più innanzi di qualunque altro popolo o civiltà l’autocoscienza. Lo hanno fatto per una forma di autodifesa, in quanto eterna minoranza. Il loro “è un caso speciale del destino generale di ogni creatura oppressa, bisognosa, ritagliata dall’elemento vitale… Dovunque la minoranza deve badare a non scoprire nessun punto debole. Essa vive sospettosa, attenta e sotto il controllo della sua coscienza critica. Per essa “il pericolo consiste nel perdere la propria immediatezza e nell’entrare sotto una sorveglianza attenta. A ciò è però connessa una inclinazione all’ironia. Qualcosa di diffidente. Uno stare a lato. Una impercettibile sfiducia in se stessi.” Insomma, per autodifesa gli ebrei sviluppano uno spirito critico che mina definitivamente il loro legame empatico con la vita immediata. E contagiano con tale spirito il resto dell’umanità. Questa la loro colpa. Che, espressa in termini molto più confusi e da punti di vista opposti, è esattamente quella imputata loro da sempre dagli antisemiti.

Non è ancora finita. Ebreo è anche Bruno Bettheleim, del quale ho letto Sopravvissuti (solo la prima parte, quella sui campi di sterminio). Bettheleim sta tra quegli autori che hanno conosciuto davvero il terrore, anzi, l’orrore, prodotto dall’odio antiebraico del quale Lessing tentava di dare una spiegazione, e hanno poi sentito l’urgenza di testimoniarlo (constatando amaramente quanto questo orrore fosse incomunicabile, indescrivibile). Ma a differenza di altri tenta di spiegarlo sottraendolo alla sua unicità, alla sua storicità, e impiegando categorie interpretative più generali (alcune accostabili a quelle di Lessing). L’impressione è che usi gli strumenti del suo mestiere (era uno psicanalista, come Benvenuto) per creare una distanza “scientifica”, il che è normale e corretto, ma che ecceda poi nel “raffreddare” e neutralizzare sotto il microscopio le cicatrici della sua personale esperienza. Non mi ha particolarmente impressionato, né del tutto convinto: ora, in attesa di essere ripreso, sta nello scaffale assieme a Primo Levi, a Robert Antelme, a Jean Amery, ma anche assieme a Solgenitzin, a Salamov e a Gustav Hering.

Di quest’ultimo ho portato invece a termine la rilettura di Un mondo a parte: gliela dovevo, perché quarant’anni fa lo avevo frettolosamente rubricato nella memorialistica concentrazionaria. Invece è un gran libro, anche sotto l’aspetto letterario, e sul tema delle vittime, dei rapporti tra loro e con i carnefici, ha molto da insegnare.

Gli ebrei compaiono infine, sia pure nell’ombra, anche ne “La politica e i maghi“, del solito Giorgio Galli (dico il solito perché ha già scritto sulle stesse tematiche “Occidente misterioso” e “Hitler e il nazismo magico“: tutt’altro che paccottiglia, al di là di quel che i titoli potrebbero far pensare). Galli dà molto credito all’influenza che sarebbe stata esercitata sulla politica moderna (parte da Richelieu e dai Rosacroce) da sette iniziatiche e da personaggi ambigui e a volte insospettabili. A volerlo seguire, anche se non si sbilancia mai in interpretazioni esplicite e disegna tutti i passaggi e collegamenti in maniera apparentemente “neutra”, in una forma documentaria e oggettiva, si arriva a ipotizzare una rete estesa su tutta l’Europa e anche oltreoceano (Reagan, e sin qui è anche credibile, Clinton, un po’ meno): una rete che dai tempi di Elisabetta I si tende sino a Churchill, da Marx alla Russia di Bresnev, da Goethe ad Heisemberg .

Non sto a dire la mia opinione in proposito: è tuttavia indubbio che dal Cinquecento ad oggi c’è stata una continuità nel proliferare di società iniziatiche e sapienziali. Per come la vedo io, ciò è avvenuto in risposta al bisogno congenito degli uomini di presumere una possibilità di controllo o di dominio totale sulle cose e sui fatti, o al desiderio di appartenere comunque alla cerchia ristretta di coloro che questo potere lo deterrebbero. Non c’è necessità di alcuna trasmissione sapienziale diretta, di riti particolari di affiliazione: gli uomini sono sempre pronti ad affidarsi all’irrazionale, quando la ragione non dà loro le risposte che vorrebbero. E hanno necessità di credere che se è stato così da sempre, ciò non sia frutto dei loro limiti cognitivi, ma dell’esistenza di un velo che solo una speciale iniziazione può squarciare.

Sono arrivato in fondo al libro con una certa fatica, per via di una forma spesso approssimativa e di numerose ripetizioni, forse evitabili. Ero comunque incuriosito dai risvolti segreti di personaggi e vicende che davo per scontati e dei quali conoscevo invece solo una faccia o una versione.

Ho notato però la strana assenza, in questo festival della bizzarria, di Adam Weishaupt, il fondatore degli Illuminati di Baviera. Alla setta bavarese Galli dedica solo una brevissima nota, forse perché la magia ha nella vicenda una parte molto marginale. È invece esauriente ed eccezionalmente documentata in proposito la Storia segreta. Adam Weishaupt e gli Illuminati, di Mario Arturo Jannaccone.

Nel mio personalissimo arrangiamento della teoria dei sei gradi di separazione (che è affascinante ma fasulla), ogni libro può essere collegato a qualunque altro attraverso una catena di relazioni. In questo caso la relazione col libro di Galli sarebbe addirittura di primo grado, ma non sono arrivato a Jannaccone per suo tramite. Confesso di aver preso il volume perché l’ho trovato ad un euro, ma poi l’ho immediatamente letto, prima ancora di quello di Galli, perché rispondeva a un interesse che dura da moltissimo tempo.

La mia passione per le sette e le associazioni segrete è infatti precocissima, si perde nella notte dell’infanzia. È probabilmente legata a un particolare senso dell’amicizia. Sin da bambino ho concepito quest’ultima come un legame più forte di qualsiasi parentela. Mi sono anche chiesto se a muovermi fosse un’idea di possesso esclusivo, ma posso onestamente dire che non è così, perché mi piaceva allargare costantemente le mie amicizie e non ne sono mai stato geloso. Al contrario, era piuttosto un costante desiderio di vedere tutti vivere in una armoniosa e costruttiva concordia. Una sindrome da dio insoddisfatto di come gli è venuta la creazione, che cerca di mettere ordine. Questa disposizione all’apertura ha fatto paradossalmente di me anche un intollerante: in linea di principio sono sempre stato convinto che tutti meritassero la mia amicizia, e felice di ottenere la loro: ma di fatto, per guadagnarla certi requisiti mi sono sempre sembrati imprescindibili: in assenza di questi, scatta pesante l’esclusione.

Torniamo però alle società segrete. Queste parrebbero andare in direzione contraria, giocare appunto sull’esclusivismo. Io le interpretavo piuttosto non come una istituzionalizzazione, una ufficializzazione del legame amicale, ma come un rafforzamento. Un modo per cementare il sodalizio attraverso la condivisione di un particolare rituale e di conoscenze riservate. So che potrebbe somigliare sinistramente al matrimonio, ma non è così. Mi importava l’identificazione forte in un gruppo, prima ancora che in una idea, perché sono convinto che le idee debbano essere molte, e consacrarsi ad una finisca per essere limitante, e davvero escludente. Il criterio è la piena fiducia nell’altro, come uomo, a prescindere da come la pensa. Una concezione balzachiana, e d’altro canto la Storia dei tredici è uno dei primi libri “adulti” che ho letto.

Perché il carattere ha la sua parte, ma a fare il resto sono le suggestioni letterarie. Le mie fonti erano innumerevoli. Trovavo società segrete, positive o negative, nei libri scolastici, ad esempio la carboneria: ma soprattutto nei fumetti di Gim Toro, con la Hong del Drago e le Triadi, nei libri di Salgari, con i Tughs, ne “I compagni di Jehù” di Dumas padre, in Balzac, appunto. Il modello originario era però quello de “I ragazzi della via Paal” (ancora oggi darei chissà cosa per ritrovare la vecchia edizione Salani-Biblioteca dei miei ragazzi, con le illustrazioni di Faorzi, per anni la mia Bibbia).

Dei ragazzi di Molnar gli Illuminati avevano in realtà ben poco. Il merito di Storia segreta è quello di raccontarne la vicenda senza nulla concedere a suggestioni misteriche. Il fondatore, Weishaupt, era nella vita quotidiana un modesto professore universitario che aveva ottenuto la cattedra per via di protezioni, quindi fortemente inviso a tutti colleghi e senza ulteriori prospettive di carriera. Ma la percezione che aveva di sé era ben diversa: si vedeva come un campione della lotta contro l’oscurantismo, perseguitato dai suoi avversari ma deciso a far trionfare i lumi della ragione, all’occorrenza servendosi anche di strumenti ben poco razionali. Creò dal nulla una società segreta, si inventò ascendenze nobili, come quella rosacrociana, mutuò rituali e simboli dalla massoneria, fece balenare agli affiliati la prospettiva di rivelazioni sapienziali risalenti addirittura agli egizi, riuscì ad infiltrare gli adepti nelle istituzioni. Ma al dunque la società segreta si rivelò un grande bluff, un castello di carte fondato sul nulla: non c’era un piano, non c’erano scopi precisi se non quello molto vago di una rivoluzione illuminata, non c’erano segreti sapienziali da rivelare, e in assenza di tutto questo gli affiliati erano mossi ognuno da intenti e da finalità diverse. Presto si crearono all’interno del gruppo delle fazioni, delle rivalità, e non appena le autorità ebbero sentore della sua esistenza e cominciarono a intervenire la setta si squagliò.

Il dato più interessante (e sconcertante) che emerge da questa vicenda è l’incredibile facilità con la quale tante persone, anche di discreto livello culturale, siano state pronte ad abboccare e a rischiare la reputazione, se non la pelle. L’altro dato è come la cospirazione abbia suscitato all’epoca un allarme del tutto spropositato rispetto alla sua totale inconsistenza, e come sia stata circonfusa in seguito da un alone di leggenda, andando ad infoltire il già vastissimo repertorio del complottismo. D’altro canto, è comprensibile che l’idea di una setta di “illuminati” che congiura per rendere più razionale e più ragionevole il mondo susciti interesse e simpatia. Vorremmo davvero tutti continuare a credere che qualche Illuminato è ancora tra noi. Anche contro ogni evidenza.

Non ho passato però tutto il mio tempo su testi “impegnati” o funzionali alle mie ricerche. In pomeriggi assolati trascorsi ai bordi della piscina di un amico, lontano dai bombardamenti musicali o pubblicitari e da marmocchi insopportabili con genitori a carico, immerso insomma in quello che i malevoli bollerebbero come un paradiso radical chic ed è invece semplicemente un’oasi di civismo, ho gustato Una vita da libraio, di Shaun Bythell. È il diario di un anno tenuto non da un agente segreto, da un navigatore solitario o da un politico di punta, ma da un semplice rivenditore di libri vecchi o antichi. Va da sé che non è un libro d’azione, che non ha una trama, e che in esso non solo non accadono eventi eccezionali, ma anzi, non accade proprio nulla, se non il ripetersi dei giorni. Eppure ogni giorno ha la sua nota diversa, e dopo un po’ arrivi a conoscere i clienti abituali, con le loro manie e pretese e stramberie, e ti aspetti di rivederli. Come Giunta, Bytell non ha bisogno di condire la realtà con una dose supplementare di ironia: gli è sufficiente raccontarla per tenerci di ottimo umore per oltre duecento pagine.

Non va sempre così, naturalmente. Penso di dover citare in coda anche le “non letture”, ovvero le letture tentate e interrotte. Una riguarda David Foster Wallace. Wallace non è una scoperta recente, perché già lo conoscevo, avevo letto alcuni suoi reportage e tenevo in casa da un pezzo un paio di libri suoi. Ho aperto, confesso senza troppa convinzione, Jnfinite Jest, che avevo accantonato per via della mole (sono milletrecento pagine), e ho trovato uno scrittore bravissimo ma adatto ai ventenni, a chi ha molto tempo davanti (e non sa come trascorrerlo). L’ho richiuso quasi subito. È andata un po’ meglio con Considera l’aragosta, del quale ho letto tre o quattro pezzi, riportandone comunque la stessa impressione: è bravo, ma non è più per me.

Un discorso analogo vale per William Volmann. Volmann mi era però assolutamente sconosciuto fino a un mese fa, sono arrivato a lui solo per aver raccolto un vago accenno ad un libro sulle missioni gesuitiche in Canada nel XVII secolo. Naturalmente l’ho cercato subito e ho scoperto un pazzo scatenato che ha scritto decine di migliaia di pagine sugli argomenti più strampalati. Venga il tuo regno fa parte di una serie di sette volumi, immagino della stessa mole (siamo poco oltre le cinquecento pagine, ma stampate in corpo otto o nove, un vero attentato alla vista), che ricostruiscono varie fasi della storia americana. Altri sette li ha scritti sul tema della violenza, colta in tutte le sue possibili e a volte più improbabili manifestazioni, e in almeno venti altri ha viaggiato tra l’ultima guerra mondiale, il mondo della prostituzione e il teatro Nö giapponese. Mi sono perso dopo trenta pagine.

Quasi quante ne ho scritte tra ieri e oggi (in compenso non ho letto nulla). Mi fermo qui. Non garantisco di non aver dimenticato qualcosa, anzi, sono sicuro del contrario, ma evidentemente si tratta di cose che hanno lasciato poco segno. D’altro canto, venti libri letti in una estate, sia pure di cinque mesi, possono già sembrare molti: ma a conti fatti sono meno di uno la settimana. In tutto questo periodo la pila dei volumi tenuti “in caldo” sul ripiano della scrivania non si è comunque affatto abbassata. Ne sono entrati più di quanti ne siano usciti. A occhio e croce c’è materiale per i prossimi venti anni. È una prospettiva magari un po’ ottimistica, ma i segni sono buoni. La sesta luna di questa estate infinita si è fatta proprio oggi. E oggi era una giornata stupenda.

Libri letti, in ordine di apparizione

Claudio Giunta – L’assedio del presente – Il Mulino 2008,
Claudio Giunta – Una sterminata domenica Il Mulino 2013
Daniele Giglioli – All’ordine del giorno è il terrore- Bompiani 2007
Daniele Giglioli – Critica della vittima – Nottetempo 2014
Luigi Meneghello – Il dispatrio – Rizzoli 1993
Federico Ferretti – Il mondo senza la mappa. Élisée Reclus e i geografi anarchici Zero in Condotta, 2007
Élisée Reclus – Natura e educazione- Bruno Mondadori 2007
Élisée Reclus – Storia di un ruscello – Guerini 2005 (introvabile)
Élisée Reclus – Storia di una montagna – Tararà 2008 (idem)
Amedeo Bertolo – L’anarchico e l’ebreo Eleuthera 2017
Gianfranco Ragogna- Gustav Landauer: anarchico ebreo tedesco – Editori Riuniti, 2010
Gustav Landauer – Per una storia della parola Anarchia – (web)
Stefano d’Errico – Anarchismo e politica nel problemismo e nella critica dell’anarchismo Mimesis 2007
André Neher – L’esilio della parola Marietti 1991
Theodor Lessing – L’odio di sé ebraico Mimesis 1995
Bruno Bettelheim – Sopravvivere – Feltrinelli 1981
Gustav Herling – Un mondo a parte – Laterza 1958
Giorgio Galli – La politica e i maghi – Rizzoli 1995
Mario A. Jannaccone – Storia segreta. Adam Westhaupt e gli Illuminati – Sugarco 2005
Shaun Bythell – Una vita da libraio – Einaudi 2018
David Forster Wallace – Considera l’aragosta – Einaudi 2006

Libri almeno tentati, parzialmente letti o solo citati 

Claudio Giunta -Tutta la solitudine che meritate – Quodlibet 2014
Claudio Giunta – E se non fosse la buona battaglia? –Il Mulino 2017
Daniele Giglioli – Stato di minorità – Laterza 2015
Alessandro Baricco – I Barbari – Feltrinelli 2006
Michel Maffesoli – Il tempo delle tribù – Guerini 2004
Michel Maffesoli – Note sulla postmodernità Lupetti 2005
Christopher Lasch – L’Io minimo – Feltrinelli 1984
Martin Buber – Sentieri in Utopia Comunità 1967
Gustav Landauer – La rivoluzione Diabasis, 2009
Luigi Meneghello – Pomo Pero – Rizzoli 1974
Luigi Meneghello – Fiori Italiani – Rizzoli 1976
George Steiner – Linguaggio e silenzio – Garzanti 2001
George Steiner – Nel castello di Barbablù SE 1971
George Steiner – La barbarie dell’ignoranza Nottetempo, 2005
Otto Weininger Ebraismo e odio di sé – Studio Tesi, 1994
Honoré de Balzac – La storia dei tredici Sansoni 1965
David Forster Wallace – Jnfinite Jest – Einaudi 2006
William T. Volmann – Venga il tuo regno- Alet 2011

Cipriani, la rivoluzione in un solo uomo

di Paolo Repetto, 2012

La mia patria è il mondo e io andrò
ovunque ci sia un despota da abbattere,
un abuso da sopprimere, un oppresso da difendere

Io ci provo a raccontare la vita di Amilcare Cipriani. Ma premetto già che non è possibile riassumerla in quattro o cinque pagine, anche limitandosi solo all’essenziale: non è una vita, è un romanzo d’avventure.

Cipriani ha l’irrequietudine nel DNA: nasce nel 1843 ad Anzio da un padre romagnolo e dichiaratamente antipapista (in una biografia si dice che lo abbia battezzato con una manciata di polvere da sparo), che per motivi politici è rispedito, quando Amilcare ha solo quindici mesi, a Rimini. Studia con scarsa convinzione in un collegio religioso, dove la sua esuberanza non è molto apprezzata. È il tipico studente da dieci in educazione fisica e sei in condotta, che più che all’imitazione di Cristo aspira a quella di Pisacane. Quando scoppia la seconda guerra d’indipendenza ha sedici anni: scappa immediatamente di casa – sembra che nessuno abbia tentato di fermarlo, meno che mai i suoi insegnanti – per raggiungere a piedi il Piemonte ed arruolarsi. Si spaccia per diciottenne e gli credono subito, perché è grande e grosso e perché gli arruolatori non vanno troppo per il sottile. È già in prima linea a San Martino, dove si guadagna una promozione sul campo per l’ardore con cui combatte. La guerra finisce in tre mesi, e lui di tornare a casa non ne ha per l’anima, per cui conferma l’arruolamento; ma appena viene a sapere che Garibaldi sta preparando una spedizione molla tutto e cerca di raggiungerlo. Non ci riesce al primo colpo e parte quindi con il secondo scaglione, nel battaglione Medici. Si distingue subito negli scontri, tanto da essere nominato ufficiale. Quando la campagna termina ha diciassette anni, il grado di tenente e un’accusa di diserzione sulla testa.

Scansa la condanna (avrebbe potuto essere fucilato), viene riammesso nell’esercito e inviato a reprimere il brigantaggio in Abruzzo. È un compito che gli ripugna, e infatti dura poco. Nel ’62 Garibaldi è di nuovo in moto, al grido di o Roma, o morte, e Amilcare pianta tutto un’altra volta per unirsi a lui. Dopo lo scontro dell’Aspromonte però le cose si mettono male. Stavolta la condanna per diserzione non gliela toglie nessuno, e Cipriani è costretto a prendere il largo prima che lo becchino. Fa parte di un gruppetto di disertori che vagano per la montagna calabra, e assiste di lontano alla fucilazione dei suoi compagni catturati. Finalmente trova un imbarco clandestino sulla costa, su uno scafo in rotta per la Grecia. Naturalmente la nave fa naufragio davanti al Pireo. Sopravvivono solo lui e il comandante, che guadagnano la terra nuotando per diverse ore.

È difficile dire se sia Cipriani ad avere un fiuto speciale per i guai, o se sia la sua presenza a provocarli: sta di fatto che ad Atene finisce subito in mezzo ad una rivolta animata dagli studenti e ne diventa un capo. Da ex-ufficiale che non ha perso il suo tempo insegna ai rivoltosi come si adopera un cannone, e li esercita bombardando la banca Rothschild e guidandoli all’assalto del palazzo reale. Va da sé che una volta tornata la calma debba filarsela alla spicciolata, questa volta in direzione dell’Egitto. Qui conosce un periodo di pausa che deve parergli un’eternità, perché per tre mesi fa un lavoro normale. Ma da Alessandria parte una spedizione che vuol trovare le sorgenti del Nilo, ed è logico che non possa partire senza Amilcare. Quando la spedizione si sfascia lui torna a piedi attraverso il deserto, arrivando ad Alessandria in condizioni pietose1. Ricomincia a fare il magazziniere, e nel frattempo annoda contatti con Mazzini, esule anche lui a Londra, lavorando nel variopinto sottobosco dei fuorusciti per fare proseliti. Fonda non una, ma addirittura due associazioni patriottiche, la Società Democratica Italiana e la Sacra Falange. Nel 1865 in tutto il nordafrica scoppia il colera: Cipriani organizza un comitato di assistenza, ed è in prima fila nel prestare i soccorsi. Per non perdere l’allenamento costituisce nel frattempo un terzo sodalizio, la Legione Egiziana, pronta all’azione qualora l’Italia chiamasse; ma quando questo avviene, in occasione della terza guerra d’indipendenza, prende su da solo e si arruola come soldato semplice nei Cacciatori delle Alpi, partecipando agli unici scontri vinti dagli Italiani. Non può fare a meno di distinguersi, e questo è un guaio, perché viene fuori la storia della doppia diserzione, e gli lasciano giusto il tempo per sparire di nuovo.

Questa volta la destinazione è Creta, e qui fa un incontro decisivo, perché conosce Gustave Flourens, una singolare figura di internazionalista.2 I due si battono fianco a fianco per la libertà dell’isola, che nel frattempo, manco a dirlo, è insorta contro i Turchi. Flourens è strabiliato dal coraggio di questo giovane, ma si rende anche conto di quanto sia confuso, e lo induce per la prima volta a riflettere sul senso da dare a tanta energia. Cipriani comincia a dubitare che tutto possa esaurirsi nella causa italiana. Da Creta torna poi, e siamo nel 1867, in Alessandria. Ormai è famosissimo tra i connazionali, e a qualcuno fa anche ombra: soprattutto perché è lui a gestire i soldi raccolti per la causa mazziniana. Una sera, nel corso di un banchetto patriottico, un certo Santini e alcuni suoi compari prendono a insultarlo pesantemente, passando anche alle mani. Cipriani non è tipo da porgere l’altra guancia, possibilmente nemmeno la prima: sfodera un coltello e si fa strada, fuggendo in un vicolo buio. Lì viene nuovamente assalito, e nuovamente si difende. uesta è la sua versione: altre non ne esistono, perchè Questa, almeno, è la sua versione: altre non ne esistono, perché il mattino dopo Santini viene trovato ammazzato nel vicolo, e con lui due guardie egiziane. Non è il caso di sperimentare la giustizia del kedivè: Cipriani ne è consapevole, e parte direttamente per Londra.

Mi fermo un attimo, perché mi gira la testa e ho bisogno di riprendere fiato. Mi sta accadendo spesso, ogni volta che racconto una vita “interessante”. Pare che fino a un secolo fa la gente, consapevole che l’aspettativa di vita era bassa, si affannasse a fare precocemente tutte le esperienze possibili. Amilcare a questo punto ha ventiquattro anni. Ha combattuto in due guerre, nella spedizione dei Mille, nel primo tentativo di Garibaldi su Roma, nella rivoluzione greca e nell’insurrezione di Creta; nei tempi morti ha partecipato a una spedizione esplorativa e ha tessuto fila per la cospirazione mazziniana. È ora di ritagliarsi un po’ di tempo per sé.

A Londra Cipriani è preso sotto l’ala da Mazzini. Vittorio Emiliani scrive3 che quando Cipriani va a bussare alla porta del grande esule questi gli batte la mano ossuta sulla spalla dicendogli semplicemente: So tutto. Tramite Mazzini è assunto in uno studio fotografico italiano, e diventa anche bravo, al punto che sarà chiamato a fare il ritratto fotografico della regina Vittoria. Racconterà in seguito di averla strapazzata perché non riusciva a star ferma in posa. Capacissimo di averlo fatto davvero. Tra l’altro, è suo anche il ritratto più famoso di Mazzini, quello malinconico e pensoso che una volta compariva in tutti i manuali di storia (oggi un po’ meno). Ha persino una storia sentimentale con una ragazza francese, Adolphine Rouet, dalla quale nasce una bambina. Nello stesso tempo frequenta gli ambienti della Prima Internazionale, di cui conosce tutti gli esponenti di spicco. Scriverà in seguito: “Bakunin, Marx, Engels che io conobbi in Svizzera e a Londra, le letture di opere socialiste, fecero di me ciò che io sono da quarant’anni: socialista ateo, rivoluzionario, comunista ed internazionalista”. Sotto la loro influenza matura infatti gradualmente nuove convinzioni, più congeniali al suo carattere. La causa italiana non può essere l’unico obiettivo: quello ultimo deve diventare l’instaurazione della giustizia sociale, e questa può essere rivendicata solo attraverso un’azione rivoluzionaria. Il suo dissenso da Mazzini sulle finalità e sui modi della rivoluzione si fa sempre più marcato, anche se l’amicizia tra i due non si raffredda.

Per il momento, quando il maestro gli dà notizia di fermenti di rivolta nella zona della Garfagnana non ha esitazioni: molla lavoro, casa e famiglia e riparte per l’Italia. Ormai però è famoso anche negli uffici di polizia, temutissimo e sorvegliato, per cui appena messo piede in Francia viene arrestato con l’accusa di cospirazione contro Napoleone III, in attesa di essere espulso. Non lo conoscono però abbastanza: alla prima distrazione è già uccel di bosco, in viaggio per la Svizzera, dove prende contatto col mondo dei rifugiati anarchici. Di lì, con un giro largo torna in Inghilterra: giusto il tempo per raccontarla, perché dopo pochi mesi Napoleone III è umiliato a Sedan, e in Francia viene proclamata la repubblica. Il 5 settembre è già a Parigi dove ritrova il vecchio commilitone Flourens. Il nuovo regime non è granché diverso da quello precedente: a fine novembre Flourens è arrestato e a metà dicembre tocca a Cipriani. Rimane in carcere quindici giorni, poi viene liberato e parte subito con un commando all’assalto della prigione dove è rinchiuso Flourens, tirandolo fuori a forza. Nel frattempo la situazione è precipitata: i Prussiani sono quasi alle porte di Parigi, e uomini come Cipriani sono preziosi. Viene arruolato nella Guardia Nazionale e combatte come una belva, guadagnandosi addirittura la Legion d’Onore (che, coerentemente con le sue convinzioni, rifiuta: “Grazie dell’onore. Non accetto la croce: prima di tutto perché l’accettarla sarebbe contrario alle mie idee, e poi perché i garibaldini non accettano simili onori se non quando piantano le tende nel campo nemico”). Quando il governo ufficiale si arrende, Cipriani non molla: è ancora una volta ricercato dalla polizia, e raggiunge la legione garibaldina che continua a combattere nei Vosgi. Lì lo raggiunge però l’appello di Flourens: Parigi è insorta contro il governo, è nata, nel marzo del 1871, la Comune.

Cipriani è nominato colonnello dello stato maggiore rivoluzionario. Con quello che ha a disposizione fa mirabilie, ma ai primi di aprile l’esercito di Versailles, appoggiato dai Prussiani, riprende la città; Flourens viene immediatamente giustiziato, mentre Cipriani, arrestato con lui, viene imprigionato, sottoposto a torture, sommariamente giudicato e condannato a morte. Ma nemmeno questa volta è giunta la sua ora: mentre quasi tutti i suoi compagni vengono fucilati (alla fine del primo bagno di sangue i fucilati saranno trentacinquemila, ma il bilancio totale della repressione è di oltre centomila) lui è lasciato tra gli ultimi, non si sa se per prolungare la tortura psicologica o perché anche la reazione ha nei suoi confronti un certo timore reverenziale. Lo legano persino un paio di volte al palo dell’esecuzione, ma alla fine si vede commutare la pena nel bagno penale a vita. Finisce imbarcato sulla Danae, insieme a quattrocento altri disgraziati, per essere deportato in Nuova Caledonia (un’isola del Pacifico, ad est dell’Australia, tra Nuova Zelanda e Nuova Guinea). Nemmeno in questa situazione riesce a darsi una calmata: appena a bordo si mette in urto con il capitano, Rion de Kerprigeant, un reazionario della peggior lega, che intende gestire il trasporto come un carico negriero. Il risultato è che finisce ai ferri (nel senso proprio che viene incatenato mani e piedi in un cubicolo grande una cuccia per cani) nella stiva e vi rimane per quarantacinque giorni, arrivando praticamente in fin di vita. Il comandante è costretto a sottrarlo a quell’inferno dalla minaccia di rivolta dei suoi compagni, ma quando arriva all’isola Cipriani è praticamente un morto che cammina.

E tuttavia, si tratta di Amilcare Cipriani: si riprende, e trascorre in Nuova Caledonia quasi nove anni, buona parte dei quali passati in isolamento, perché non sta zitto neppure ad ammazzarlo, e si ribella ad ogni sopruso: l’ultimo anno e mezzo lo passa a spaccar pietre come forzato. Sembra di leggere la vita di Papillon o di assistere ad uno di quei film sulle carceri americane, Nick mano fredda o Brubaker, con la differenza che Cipriani dalla Nuova Caledonia non può nemmeno tentare la fuga. Attorno ci sono solo migliaia di chilometri di oceano, pieni di pescecani.

Nel 1880 il governo repubblicano promulga un’amnistia, e Cipriani torna in Francia. Si mette immediatamente alla ricerca di Rion de Kerprigeant, il suo aguzzino. Quando viene a sapere che è già morto scoppia a piangere per la rabbia: aveva vissuto quei nove anni e sopportato tutto con un solo pensiero in testa, quello della soddisfazione che avrebbe provato nel torcergli il collo. Comunque, non perde tempo: i reduci dalla Caledonia vengono accolti da grandi manifestazioni degli anarchici francesi, e durante una di queste Cipriani interviene in difesa di una donna aggredita da un poliziotto, spedendo quest’ultimo all’ospedale: nuovo arresto, due mesi di reclusione ed espulsione dalla Francia.

Cipriani intende stavolta far ritorno in Italia; ma non vuole farlo clandestinamente. Per intanto ai primi del gennaio 1881 va in Svizzera ad incontrare Carlo Cafiero, anche lui esule. Contemporaneamente lancia insieme ad altri internazionalisti un manifesto, Agli oppressi d’Italia, in cui si annunciano prossime iniziative insurrezionali: “La nostra risoluzione è presa, e la venuta nostra sarà una protesta armata contro tutte le forme del dispotismo dinastico, aristocratico e capitalista… Tregua adunque alle parole dottrinarie quando è tempo d’agire, silenzio ai sobillatori di pace quando tutto annunzia la guerra: guerra di classe e di plebi scatenate. Fine una volta alle dissenzioni e ai personali rancori: anarchici, collettivisti e internazionalisti, tutti s’uniscano in un sol pensiero e formino il gran partito della rivoluzione”.

Con questo biglietto da visita è naturale che le associazioni operaie gli preparino un’accoglienza trionfale, ma anche che ad aspettarlo ci sia tutta la polizia italiana. A Rimini, dove si è diretto per rivedere il padre morente, non lo lasciano neppure scendere dal treno. Viene anzi arrestato e trasferito a Milano, con l’accusa di aver cospirato insieme a Cafiero, Malatesta e altri (tutti latitanti) contro l’ordine e la sicurezza del paese. Quando giornali e organizzazioni cominciano a gridare allo scandalo, l’accusa viene cambiata: si rispolvera la vicenda di Alessandria d’Egitto di quindici anni prima. Comunque rimane in carcere per un anno in attesa di giudizio.

Il processo si tiene ad Ancona agli inizi dell’82. Naturalmente è una farsa, che si chiude con una condanna a venticinque anni. All’uscita dal tribunale scoppia una mezza rivolta, e in pratica gli viene data dalla polizia l’opportunità di fuggire: è una patata bollente che nessuno vuole maneggiare. Ma Cipriani è stanco: rifiuta di scappare e si appella alla Cassazione. La pena è ridotta a vent’anni.

Ne sconta sei, in una cella larga un metro e lunga tre, con la catena ai piedi. Si sforza di sopravvivere alla forzata immobilità, all’umidità, alla sporcizia, alla mancanza di luce, al cibo spesso ributtante, alle angherie dei secondini. Scrive ad un amico: “Sono quindici anni, fra Caledonia e Italia che lotto contro lo spietato sistema dei pretesi domatori d’uomini. A quale prezzo lotto! Se ho salvato il carattere e l’onore, questo grazie agli amici, ho però perduto la salute, la gioventù, la forza, l’intelligenza”. La campagna in suo favore, per la quale scendono in campo in Italia personaggi del calibro di Carducci, Rapisardi, Saffi, e in Francia di Victor Hugo, Benoit Malon e Clemenceau, non ottiene alcun risultato. Anche perché il governo subordina l’indulto alla richiesta di grazia, e Cipriani naturalmente rifiuta. A Carducci che gli scrive supplicandolo di presentare questa cavolo di domanda, risponde: “Mi si mette fra il bagno e la libertá imbrigliata. Senza esitare, scelgo il bagno. Io mi sento più onorato, ora che sono perseguitato dal loro odio, che se fossi protetto dalla loro clemenza; voi curvate la testa, proponendomi una viltà”.

Viene persino candidato alla Camera dai gruppi radicali, ed eletto, ma la commissione della Camera invalida l’elezione. Esce dall’ergastolo di Portolongone solo per un calcolo propagandistico di Crispi4: ma giusto in tempo per essere trasferito a Milano e processato per la famosa doppia diserzione. I giudici questa volta non se la sentono di infierire, anche perché la cosa potrebbe diventare pericolosa per l’ordine pubblico: lo condannano, ma ritengono che abbia già espiato a sufficienza. È finalmente libero.

Torna in Francia, dove ormai si sente di casa. Fa il giornalista, e intanto è impegnatissimo ad organizzare congressi e sezioni socialrivoluzionarie. Il periodo di ferro parrebbe finito.

Non è così. Nel 1891 Cipriani si fa convincere a rientrare in Italia per celebrare il primo di maggio. Si porta dietro la sua maledizione. Durante il comizio (non autorizzato) a Roma scoppiano degli incidenti tra i dimostranti e l’esercito, schierato a contenimento. Ci sono cariche di cavalleria con la sciabola sguainata, e ad un certo punto un poliziotto, che sta per fare fuoco su Cipriani, viene ucciso da uno dei dimostranti. In galera ci va naturalmente Cipriani, che trascorre quindici mesi a Regina Coeli in attesa del processo e altri due anni nel carcere di Perugia.

Esce dalla prigione per l’ennesima volta nel 1894. A questo punto ha cinquant’anni, e il tempo trascorso dietro le sbarre, a partire dalla sua fuga da casa, è più di quello vissuto in libertà. Ha bisogno di tregua. A Parigi riprende la vita “borghese”, da giornalista, fotografo, animatore di sezioni politiche: ma con una certa cautela.

Nel 1897 scoppia l’ennesima (la sesta) rivolta di Creta contro i Turchi. La Grecia interviene e l’impero ottomano invade la Tessaglia, costringendo alla fine Atene alla resa. Tra i difensori della “libertà” greca c’è naturalmente Cipriani. Creta è una sua vecchia passione, dai tempi del sodalizio con Flourens: e poi, tre anni di riposo per uno come lui bastano e avanzano. Ad Atene raccoglie una brigata italiana di duecentocinquanta uomini, della quale è il comandante naturale. Le cose non si mettono bene: malgrado si battano come leoni, gli italiani sono travolti dalla disfatta greca e Cipriani stesso ha una gamba spezzata da un colpo di cannone. Prima che lo becchino i Turchi riesce a farsi trasbordare in Italia, per essere curato. Gli viene proposto di sostituire alla Camera un suo compagno caduto proprio in Grecia, per poter usufruire dell’immunità parlamentare, ma naturalmente non ne vuol sentir parlare (e comunque la commissione della Camera gliela negherebbe). Deve quindi riparare ancora in Francia, dove riprende, stavolta per un periodo più lungo, la vita normale. Non è solo l’età a calmarlo: le conseguenze della ferita di Creta sono gravi, e per diversi anni sarà costretto a camminare con le stampelle.

Da questo momento comunque le acque si chetano. Ha persino la gioia di ritrovare la figlia Fulvia, quella nata in Inghilterra dalla sua relazione con Adolphine Rouet. Per quasi quarant’anni Cipriani si era praticamente dimenticato di lei. Era occupato in altro. Ora ha tempo. Sembra ripetersi la storia di Foscolo, con la differenza che in questo caso sarà la figlia ad appoggiarsi a lui.

Nel frattempo in Italia continuano a candidarlo al Parlamento, e lui continua ad essere eletto. Ma non potrà mai sedere a Montecitorio: coerentemente, rifiuta di prestare il giuramento al re. Ciò non toglie che continui ad occuparsi delle cose italiane. Segue ad esempio l’ascesa di Mussolini all’interno del partito socialista e, confermando l’eccesso di fiducia negli uomini e la scarsa capacità di giudicarli, ne trae un’ottima impressione. Viene ripagato dall’altro romagnolo con un vero e proprio culto. In un discorso pronunciato nel gennaio del 1913, durante la campagna per l’elezione di Cipriani a deputato, Mussolini lo dipinge così: “Prima del ‘70 egli offre braccio e anima alla causa della Patria, dopo il ‘70 a quello dell’Umanità. Ci dicono che il nostro grande compagno è vecchio; ma c’è senilità e senilità. C’è quella dell’impotenza, della stanchezza, del rammollimento fisico e intellettuale. Per questa noi chiediamo il riposo e il silenzio. Ma per Cipriani la cosa è diversa. Se dopo tanti eroismi, tanti sacrifici, tante lotte, egli è ancora vivo di corpo, di cervello e di fede, ciò vuol dire che la sua vecchiaia è migliore della nostra giovinezza”.

Anche rispetto alla prima guerra mondiale finiscono per trovarsi sulle stesse posizioni, avendo Cipriani firmato verso la fine del 1914 un appello lanciato da alcuni anarchici, tra i quali Hervé, Kropotkin e Hyndmann, per la difesa della Francia contro l’aggressione degli imperi Centrali. La guerra ribalta molte posizioni e convinzioni, ma non le sue. Continua ad essere un comunista e un rivoluzionario5, ma anche un fervente patriota. Ormai è però sempre più solo: i vecchi compagni sono tutti andati, quelli nuovi a malapena lo conoscono. Muore in una casa di riposo prima che la guerra finisca, nel maggio del 1918, poverissimo come era sempre stato. Vorrebbe che ceneri fossero sparse al vento: viene invece sepolto al Père Lachaise. A seguire i suoi funerali sono solo pochi amici. L’uomo che era stato leggenda è entrato nel processo di rimozione. Non è più tempo di eroi del proletariato, ma di funzionari di partito.

Adesso, dopo aver preso un bel respiro, vorrei rubare il tempo per un paio di considerazioni: una di carattere umano, l’altra di ordine politico. Cominciamo dalla seconda. Cipriani è il perfetto esempio del passaggio dall’idea nazionale, garibaldina e mazziniana, a quella internazionalista, bakuniniana. Non è uno sbocco obbligato: altri garibaldini, primo tra tutti Crispi, vanno in direzione completamente opposta. Cipriani lo dice chiaro: Al vostro re e a voi non devo nulla, non ho mai nulla domandato. Mentre che quelli fra voi che hanno reso qualche servizio al paese si sono affrettati di presentare la nota da pagare: e quale nota!

Nel suo caso non c’è in realtà altro possibile esito. La ribellione ce l’ha nel sangue, gli arriva da suo padre, che non gli ha trasmesso solo i geni, ma anche un esempio di coerente irriverenza nei confronti del potere. Mezzo secolo prima sarebbe stato un giacobino: a metà ottocento non può essere che un garibaldino. Il primo riferimento teorico è Mazzini, col quale si creerà a Londra anche un forte legame affettivo; ma è proprio a Londra, con la frequentazione dell’ambiente internazionalista e dei fuorusciti, che Cipriani scopre il limite della causa nazionale alla quale Mazzini si ferma. Il rapporto che si crea tra i due è molto bello, perché non comporta nessuna sudditanza psicologica: “L’affezione di cui il Mazzini mi dava prova era addirittura paterna: ma egli non riuscì mai a fare di me un proselite. Spesso mi diceva: fra tanti giovanotti che conosco non ho mai trovata un’intelligenza più ribelle della vostra ad accettare certe idee. Ma mi amava perché sapeva che io soprattutto desideravo una cosa, lo splendore dell’Italia, la libertà ed il bene degli oppressi. E però quando mi udiva esaltar le dottrine del Cabet, egli diceva ridendo: tutti i giovani passano di là, ma quando sono uomini vengono a noi”. È amicizia, un sentimento che paradossalmente nel modo degli esuli e dei rivoluzionari viene in subordine rispetto alla professione ideologica, e quindi trova poco spazio. Si raffredderà notevolmente dopo il 1871, perché Mazzini valuta negativamente l’esperienza della Comune parigina, che per Cipriani rimarrà invece sempre centrale, l’unica occasione in cui le sue “poche, semplici ma ferme idee” hanno trovato per un attimo realizzazione.

Il suo avvicinamento al socialismo, nella versione anarchico-utopistica, non lo porta comunque a ripudiare gli entusiasmi per il garibaldinismo, inteso come azione insurrezionale subito, ovunque ci sia una causa di oppressi da difendere, lasciando a dopo i distinguo. Quando parla di giustizia sociale Cipriani pensa alla libertà prima che all’eguaglianza: è vero che l’una non può esistere senza l’altra, ma non pretendiamo troppo da uno che della mancanza assoluta di libertà ha fatto esperienza sulla propria pelle per almeno metà della sua vita. Nell’accezione elementare è un ideale più prossimo, meno ambiguo, realizzabile da subito attraverso l’azione.

Sotto il profilo intellettuale Cipriani è un uomo semplice: non ci sono molte sfumature di grigio nella sua visione dei problemi. Parla in nome del proletariato, ma pensa in termini di individui. Le classi sociali subalterne prenderanno coscienza, ma per risvegliare questa coscienza occorrono uomini decisi, pronti a qualsiasi sacrificio, che sappiano tirarsi da parte al momento giusto in caso di vittoria, e dare esempio di ferma resistenza nella sconfitta. Le “avanguardie rivoluzionarie” per Cipriani non hanno il compito di “guidare” il proletariato, ma quello di fornirgli degli esempi. Ed è sull’esemplarità rivoluzionaria che si fonda, e in sostanza anche si esaurisce, la sua prassi politica. Ne è consapevole, non vorrà mai assumere il ruolo di teorico, non sente il bisogno di raccogliere sulla carta le sue idee. Devono essere le sue azioni a parlare, e quindi occorre sfruttare ogni occasione per agire, costi quel che costi.

Il linguaggio dell’azione deve però raccontare di uomini e di un mondo eticamente superiori. La lealtà e il coraggio sono l’unica garanzia di una società giusta, e gli unici fondamenti su cui può nascere. Per questo Cipriani non ammette l’azione terroristica. Insieme a Malatesta condanna la campagna di attentati che scuote l’Europa di fine Ottocento, con il solo risultato di isolare il movimento anarchico in seno alla sinistra e di offrire alla reazione pretesti per colpire le organizzazioni dei lavoratori. Ma mentre in Malatesta la condanna nasce da considerazioni di opportunità politica, in Cipriani c’è il rifiuto di una pratica che considera vile e sleale. Anche la violenza ha le sue regole, non basta la bontà dello scopo a giustificarla: e detto da Cipriani, che in mezzo alla violenza ha trascorso un’intera vita, c’è da crederlo.

Questo spiega anche la posizione nei confronti della guerra, già assunta nel caso della rivolta di Creta e ribadita poi allo scoppio del conflitto mondiale. Vale per lui quello che valeva per Garibaldi: “Lo schiavo ha il diritto di fare la guerra al tiranno. Gli è il solo caso in cui credo che la guerra sia permessa”. Su questo tema si trova in contrasto con Malatesta, che critica aspramente la partecipazione della brigata di volontari italiani alla guerra greco-turca. Malatesta è contrario alle guerre di liberazione puramente nazionaliste: ritiene che siano solo uno strumento ulteriore di profitto per il capitalismo, e che sarà semmai la lotta rivoluzionaria dell’ internazionalismo operaio a risolvere anche il problema delle cause nazionali. Cipriani non ha molti argomenti teorici per rispondere: si limita a giustificarsi dicendo: “noi difendiamo i greci, non la monarchia: noi non siamo al soldo di questa ma al soldo del comitato rivoluzionario che ci ha armati e pagati. Siamo vestiti in borghese, con la camicia rossa”. Che non è una risposta accettabile sul piano del dibattito teorico, ma è perfettamente comprensibile su quello della passione umana.

L’altra considerazione è ormai la solita che mi trovo a fare quando racconto la vita dei personaggi che mi hanno affascinato: ma che razza di uomini erano? Parlo di uno che rifiuta un lascito di cinquantamila lire (all’epoca una piccola fortuna) destinatogli da una vecchia ammiratrice, e accetta solo una poltrona consunta a ricordo dell’amica; e penso ai guru odierni della disobbedienza, che quella cifra (opportunamente rivalutata) la percepiscono per ogni comparsa in pubblico. Di uno che piuttosto che abbassarsi a chiedere la grazia marcisce letteralmente nell’ergastolo di Portolongone, e mi corre la mente a quei miei coetanei che hanno abbracciato la lotta armata, e che una volta braccati facevano la corsa a chi denunciava per primo i compagni, per ottenere qualche sconto. Certo, anche l’ambiente anarchico e internazionalista nel quale si muoveva Cipriani era pieno di profittatori, di spie, di delatori, di venduti: c’è tutta una letteratura, da Dostoevskji a Conrad, a raccontarne le sfumature più ambigue, e soprattutto ci sono montagne di documenti delle prefetture e della magistratura a testimoniarlo. Ma in mezzo a costoro c’erano uomini capaci di sacrificare tutto ai loro ideali, alle loro convinzioni. E sia chiaro, non mi riferisco solo ai rivoluzionari “professionisti”, come Malatesta, Bakunin, Cafiero e Cipriani: parlo di scienziati, di esploratori, persino di artisti. E soprattutto parlo di artigiani come Modesto, di operai o contadini come lo zio Micotto, capaci di opporre comunque resistenza, con la loro determinazione fisica o con la loro ferma mitezza. Sono questi che oggi mancano alla conta.

Mi rendo conto che la mia sta diventando sempre più una laudatio temporis acti, e rischia di scadere nel patetico. Sarà un problema di età. Ma qui non è questione di mitizzare né un’epoca né gli uomini che l’hanno vissuta. È una presa d’atto che le pagine che precedono, nelle quali non si è raccontata che una minima parte delle peripezie di Cipriani, impongono.

Secondo i parametri odierni di normalità Cipriani era un uomo pieno di difetti: il suo rapporto con la figlia è emblematico. La dimentica per quarant’anni, e non è certo lui a cercarla: è lei che si fa timidamente avanti, mandando in avanscoperta il marito. Campolongo, un amico intimo di Cipriani, racconta che al primo incontro il vecchio anarchico abbia subito detto ai due: badate che non ho una lira. Venti anni di galera (e che galera!) non possono non indurire l’animo, rendere diffidenti persino nei confronti del proprio sangue. Ma non è solo questo. C’è un problema di scelte a monte, anche se nel caso di Cipriani verrebbe quasi spontaneo arrischiare la parola destino. La scelta di vivere per un ideale non comporta necessariamente sacrificare affetti e sentimenti, quando l’ideale è tenuto sotto controllo, rapportato alla realtà: questa è anzi la condizione vera all’interno della quale coltivare l’idealità. Ma il confine è sottile, e rispetto alla coltivazione di un ideale la scelta degli affetti può diventare a volte castrante. Per Cipriani il problema non si pone nemmeno: quando arriva all’età in cui si pensa all’amore o a una famiglia ha già un passato che non gli consente cedimenti, pena il trascinarsi appresso nelle sue sventure degli incolpevoli.

Cipriani è anche una persona dal carattere forte, che a parlare senza ipocrisia potremmo definire violento (lo ammetto per dovere di cronaca, perché l’eccesso in questo senso è negativo: ma nel tipo di violenza intrinseca al carattere di Cipriani, quella di cui si parlava sopra, non posso non riconoscermi). Ha individuato, sia pure un po’ confusamente, uno scopo, e non indietreggia di fronte a nulla per raggiungerlo. Si lascia alle spalle dei morti, e non mi riferisco solo all’episodio di Alessandria. Durante le settimane della Comune si ritrova a dare anche ordini spietati. Ma è uno che rischia e paga sempre in prima persona, e che a cinquant’anni combatte in prima linea e si fa maciullare una gamba perché è tornato indietro a raccogliere un suo uomo ferito. Certo, è in mezzo a una battaglia, e lo ha voluto lui: ma c’è perché la ritiene una lotta di oppressi contro oppressori, e lui combatte per gli oppressi. Sarà elementare quanto si vuole, ma è un’etica della responsabilità.

Ad un certo punto Cipriani è probabilmente anche un uomo innamorato della sua immagine, non tanto per la gratificazione personale che può dargli la costruzione del suo mito, ma per la forza di esemplarità che può trasmettere. Se resiste imperterrito al carcere è anche perché non può smentire il personaggio che si è cucito e che gli hanno modellato addosso. Se racconta le cose a suo modo (dell’episodio di Alessandria diceva: io volevo solo andarmene tranquillamente, ma quelli si sono messi in mezzo…) è perché così lui le ha vissute, ma anche per dare coerenza ad un comportamento che ha ormai una rilevanza pubblica.

Tutto questo non toglie che sia un uomo eccezionale. Lo avvertono anche i suoi tardi contemporanei, quelli che lo conoscono nella vecchiaia. Al termine della sua intervista ad un Cipriani ormai settantenne Prezzolini commenta: Si tratta di due generazioni a confronto: la nostra fu tutto pensiero, la loro tutta azione. Noi li comprendiamo: essi ci guardano da lontano, non possono pensare bene di noi. Lo so, Cipriani, lo so anche se non lo dite: siamo degenerati per voi, siamo effeminati, cresciuti nella pace, nutriti di tranquillità, senza le costole che fanno arco nella pelle dei fianchi, senza cicatrici ai ginocchi e sulla faccia e sulle mani; uomini che hanno usato gli occhi fino alla miopia sui libri, e non posero mai in mano il fucile; e non hanno mai veduto né una rivoluzione né una guerra”. Ora, lasciando perdere le mani sul fucile e la guerra, di cui possiamo fare tranquillamente a meno, c’è qualcosa di vero nelle costole che fanno arco nella pelle dei fianchi. La fame non ti fa vedere più chiare le cose, anzi, è più probabile che ti appanni la vista: ma il bisogno, quando non è assoluta miseria, ti obbliga almeno a capire cosa è essenziale e cosa no, e ti porta a desiderare ciò che potrebbe aiutarti a superarlo. La cultura, ad esempio. O i valori per i quali vale la pena spendere una vita, dall’amicizia alla libertà, all’equità sociale.

Cipriani fa ancora parte di un mondo nel quale erano i bisogni a generare il modello produttivo, e non viceversa. Quando parliamo di rivoluzione industriale le date e le statistiche ci portano a pensare che a metà dell’800 il modo di produzione capitalistico, con tutto il suo indotto di consumi, fosse ormai ovunque affermato: ma non è affatto così. Io stesso ho conosciuto una vita di paese nella quale intere famiglie riuscivano a sopravvivere con quello che producevano in un fazzoletto di terra o che ricavavano da una mucca, un maiale, quattro galline. Non era certo l’Eden, la vita la strappavano con i denti, non erano liberi perché il minimo soffio di vento, una malattia, un cattivo raccolto, poteva spazzarli via: e tuttavia ciò che è rimasto vivo nel mio ricordo è un senso altissimo della dignità, o almeno la capacità di riconoscerla e di apprezzarla, e di conseguenza di stigmatizzare ciò che dignitoso non era. I “furbetti” c’erano come ci sono oggi: solo, li si chiamava mascalzoni.

In quel mondo una vita come quella di Cipriani aveva senso, perché era consacrata a consentire a ciascuno di essere dignitoso. Alla luce del poi, il disegno suo e in generale quello degli anarchici era il più ingenuo ma anche il più pulito, perché non prevedeva l’instaurazione di un “ordine nuovo”, socialista, fascista o capitalistico che si voglia, ma di un “uomo nuovo”. Tutto può essere imputato agli anarchici, ma non certo di aver contribuito alla creazione dei modelli sociali, economici e politici, e conseguentemente mentali e comportamentali, odierni (meno che mai a quelli di coloro che oggi all’anarchismo si richiamano); mentre un loro ruolo nella demolizione di quanto c’era di stantio in quelli vecchi lo possono rivendicare.

Cipriani è una figura eccezionale perché ha potuto credere fino in fondo, senza dover ricorrere a compromessi e senza chiudere gli occhi, a ciò che stava facendo: non c’era pericolo che la società da lui vagheggiata si rivelasse poi ingannevole. È allora possibile capire come un uomo potesse, credendoci seriamente, lasciare nel suo testamento questo mandato agli amici e ai compagni: “Quando sarò morto verrete sulla bara […] a dirmi che tutti questi giovani non sono morti invano, e che non vi sono più popoli oppressi sulla terra. Verrete a dirmi che non vi sono più imperatori né re a Vienna né a Berlino: che il mondo è davvero in marcia, questa volta verso la Pace e la Giustizia Internazionale”.

Appendice uno Carlo Prosperi, da storico vero qual è, al sentir nominare Cipriani ha subito drizzato le antenne e mi ha scovato questo curioso documento. Sia il personaggio che il clima che lo circonda risultano particolari, soprattutto per l’insistenza sull’antisemitismo. Varrebbe la pena tornare sull’argomento. E magari, varrebbe la pena lo facesse uno serio, come Carlo stesso.

Amilcare Cipriani ad Acqui Nell’autunno 1897 capitò alle Vecchie Terme un noto e coraggiosissimo rivoluzionario, il romagnolo Amilcare Cipriani. Proprio qui voglio e godo confermare le mie impressioni anteriori. L’ho veduto nel volto puro e dal candido cuore: a me parve l’erede vero di Giuseppe Garibaldi. Altissimo di statura, non grosso ma non allampanato, veniva nella città termale per guarire della ferita avuta sul campo di Domokos, quand’era alla testa della sua legione, condotta contro i Turchi. Il nodo del ginocchio venne spezzato da palla nemica. Ma quel violento, quel bevitore di sangue … comandò il fuoco, inerme; e cioè con un frustino in mano! Epperciò le Vecchie Terme, coi loro fanghi, saldarono il ginocchio al vecchio rivoluzionario, combattente spontaneo, disinteressato, per la libertà della Grecia. In gruppo di giovani e vecchi acquesi andammo incontro alla figura grande e mite del Romagnolo. Cipriani volle convocarci in un pittoresco albergo chiamato: Isolabella. Per la verità cronistica devo affermare che dalla sua bocca, in quel tempo, non ho udito il nome di Carlo Marx, né proposizioni anticlericali. Nel lucido e conciso discorso disse belle parole auguranti ad un sano rinnovamento d’Italia. E, se ebbe qualche accesa parola la espresse per detestare gli «spavaldi chiacchieroni» ancorché fossero venuti a noi come rivoluzionarî! Nell’abside della celebre Abbazia [di San Pietro] quell’accolta nostra entrò dopo che era stata la «Società Filarmonica»; e là vi fu anche un magazzeno di carbone … In quel luogo, istituimmo per suo ricordo un Circolo, intitolato: Amilcare Cipriani. Il caso o altro volle che alle pareti non fosse appesa neanche un’icona … sovversiva. Una lunga adunanza dei compagni … ha bocciata la proposta di comprare un quadro di Marx, poco tedesco e moltissimo semita. L’antisemitismo, allora, era così naturale fra il popolo, tanto che alcuni ebrei chiedenti l’ammissione al Circolo, non furono ammessi nel gruppo rivoluzionario. Uno scrittore non ben informato sull’avvenimento della fine dell’altro secolo, ebbe a dire una cosa non vera: e cioè che il Circolo A. Cipriani aveva profanato quelle antiche e religiose mura. Le conferenze nostre giovanili erano rivolte, tutte, preferibilmente, all’educazione politica degli operai; educazione poi mirante ad alcune oneste rivendicazioni economiche. Quei buoni propositi si mantennero, nell’incipiente movimento rivoluzionario italiano, fino al momento che nel partito rivoluzionario non comparvero i massoni e gli ebrei. (G. Reggio, Nella strada, La Staziella, MI 1940).

1 Su questa vicenda ci sono molte nebbie. Dovunque, persino nel dizionario biografico Treccani, si parla di una partecipazione di Cipriani alla spedizione di Giovanni Miani (altro bel personaggio). In realtà, le spedizioni di Miani furono tre, una nel 1858, una nel 1862 e l’ultima nel 1871: nel periodo in cui Cipriani risiede in Egitto non ne risulta alcuna. Quindi: o si tratta di un’altra spedizione, della quale non sono riuscito a trovare traccia, o è un’invenzione dello stesso Cipriani – che una certa tendenza a esagerare, o almeno a raccontarla alla maniera sua, l’aveva – oppure fa parte di quella costruzione del mito che il movimento rivoluzionario avviò sulla figura di Cipriani molto precocemente.

2 Gustave Flourens insegna storia naturale al Collège de France, fino a quando non lo cacciano perché materialista e repubblicano. Combatte a Creta in rivolta, ed è ripagato dal governo greco con l’espulsione. Nel 1869 viene quasi ucciso in un duello di matrice politica e deve nuovamente lasciare la Francia. Rientrato dopo la caduta di Napoleone III, per otto giorni nel 1871 è comandante della piazza di Parigi “liberata”. Viene ucciso nel corso della prima offensiva dei versigliesi.

3 Vittorio Emiliani, “Libertari di Romagna – Vite di Costa, Cipriani, Borghi”, Longo Ed., Ravenna

4 Lui naturalmente rivendicherà di essere stato scarcerato per volontà popolare: “I miei nemici, dopo aver esaurito contro di me il loro dizionario di ingiurie vili e di lordure, per aver detto che la morte di re Umberto non mi aveva né sorpreso né afflitto, aggiungono che la mia uscita dal bagno la devo alla sua bontà. Menzogna. Al bagno vi fui inviato nel nome del re e ne uscii per volontà di popolo, soprattutto dei due collegi elettorali di Forlj e Ravenna, ove fui eletto deputato nove volte come protesta contro la mia condanna ingiusta ed infame. Fu l’opinione pubblica che forzò il re a firmare la mia grazia, grazia che disprezzai di domandare e che mi sarei creduto disonorato se l’avessi fatto”.

5È proprio lui, tutto nero vestito. Il viso è quello della sua età, segnato dalla pace dei vecchi, il pelo s’accresce sulla faccia e sulle falangi delle dita e sul dorso della mano, tradisce la forza di quel corpo; il pelo non s’è fatto ancor bianco, non è tutto bianco, nella testa covano ancora molte strisce nere. Come è magro, Dio mio quel corpo! Come regge il peso di sessantotto anni, di cui venti di guerre, quattordici di bagno e lavori forzati, cinquantatré di vagabondaggio, di povertà, di indipendenza”. Da un’intervista di Giuseppe Prezzolini ad Amilcare Cipriani a Parigi, pubblicata sull’“Avanti” il 3 gennaio 1914

 

Cafiero, matto da legare

di Paolo Repetto, 2012

La vicenda di Cafiero mi colpì immediatamente per una ragione ben precisa. L’opuscolo parlava di un giovane facoltoso che rinunciò ai suoi privilegi e devolvette tutto il suo patrimonio per la causa anarchica. Non essendo facoltoso stentavo a capire i motivi che possono spingere chi lo è a rinunciare a tutto, ma la cosa in sé mi piaceva. Ingenuamente reputavo più difficile e meritevole abbracciare una causa quando si ha molto da perdere, piuttosto che quando non si hanno alternative. E quindi immaginavo il giovane facoltoso che al contatto con la miseria, l’ingiustizia, l’oppressione si sentiva bollire il sangue nelle vene dallo sdegno e decideva di combattere queste piaghe (all’epoca il mio riferimento ideale era Tex, che non sarà socialista ma le ingiustizie le combatte eccome, e a suon di ceffoni e di pallottole). La mia fonte era più reticente sulla “tragica fine”, e il perché l’ho capito solo dopo. Ma andiamo con ordine.

La vita di Cafiero è altrettanto intensa di quella di Cipriani, anche se un po’ meno movimentata (difficile potesse essere altrimenti); ma per certi versi è ancor più drammatica. Offre soprattutto molte occasioni per riflettere su aspetti particolari della vicenda rivoluzionaria, e queste cercherò di cogliere, limitando ad una sintesi stringata il racconto biografico.

Cafiero nasce nel 1846 da una ricca famiglia della borghesia agraria pugliese. Studia in seminario (come tutti, all’epoca: o meglio, come quei pochi che possono permettersi di studiare) e si laurea poi in giurisprudenza a Napoli. Avendo ereditato dal padre un grosso patrimonio non si preoccupa eccessivamente di trovare un lavoro: i suoi lo vorrebbero in diplomazia, ma lui preferisce, come si suol dire, guardarsi un po’ in giro; per cui prima si trasferisce a Firenze, che è momentaneamente la capitale del regno, poi allarga lo sguardo all’Europa. Soggiorna per qualche mese nella Francia del dopo Sedan e degli impressionisti, ospite del conterraneo De Nittis, alla ricerca di contatti per i suoi interessi nei confronti dell’occultismo e delle civiltà orientali: ma i francesi hanno per il momento altro cui pensare, per cui, vista anche la brutta piega presa dalla situazione politica, si trasferisce in Inghilterra. Qui frequenta l’ambiente dei fuorusciti, rimane sconvolto dalle miserie dei lavoratori industriali, che gli sembrano messi peggio addirittura dei braccianti pugliesi, e stringe amicizia con Friedrick Engels. Dopo un rapido corso d’avviamento al pensiero marxista accetta con entusiasmo l’incarico di “agente speciale” della corrente marx-engelsiana, che chiameremo comunista, nelle sezioni italiane dell’Internazionale, con il compito di contrastare l’influenza di Mazzini e di Bakunin e di mantenere i rapporti con Londra.

Torna quindi a Firenze nel maggio 1871, proprio mentre in Francia si consuma la tragedia della Comune, ed entra in contatto con i vari circoli democratici della città toscana, che sono in fermento per la polemica interna sul valore positivo o negativo da attribuire all’esperienza comunarda. Si sposta poi nell’Italia meridionale, in Campania e in Puglia, dove trova una situazione caotica, con sezioni in balìa di avventurieri, profittatori o sprovveduti. Il suo primo arresto, a Napoli, è legato ai pasticci finanziari e alle accuse tra compagni piuttosto che all’attività cospirativa.

L’esperienza lo segna: continua a tenere aggiornato Engels sul dibattito accesissimo tra mazziniani, marxisti ed anarchici che è in corso in tutte le sezioni della penisola, ma comincia anche ad avvertire la grande distanza esistente tra la visione che il suo corrispondente e Marx hanno della questione sociale e le realtà esistenti in paesi meno sviluppati, come l’Italia appunto o la Spagna, o a sviluppo diverso, come la Svizzera. A Londra hanno in effetti altro per la mente: dopo il Consiglio Generale del settembre 1871 Marx ed Engels stanno cercando di serrare le fila e di prendere il controllo dell’intero movimento attraverso un’organizzazione burocratica e centralizzata, e lo fanno col sistema collaudato di liquidare un’opposizione alla volta. È toccato prima ai mazziniani, che in pratica si sono autoeliminati prendendo posizione contro la Comune, ora si arriva alla resa dei conti con Bakunin. Non è altrettanto facile: in Italia, come in Svizzera e in genere in tutta l’Europa meridionale1, la componente anarchica è maggioritaria. Il congresso operaio che si tiene nel tardo autunno a Roma lo conferma. Lo stesso Cafiero, che sino ad ora aveva cercato di mantenere un atteggiamento da osservatore neutrale nella disputa, agli inizi del 1872 comunica ad Engels di essere ormai apertamente schierato in favore dell’anarchismo.

A questo punto non gli resta che recarsi in Svizzera per incontrare personalmente Bakunin. Ha un’altra folgorazione, di carattere però ben diverso da quella nei confronti di Engels: questi aveva conquistato Cafiero per la scientificità delle basi teoriche e l’efficienza organizzativa, Bakunin lo affascina per l’esuberanza, l’irruenza, il cameratismo caldo. L’incontro ratifica la scelta di campo: l’obiettivo sarà d’ora innanzi il collettivismo anarchico. È una scelta che influisce fortemente sulla rottura definitiva della sezione italiana dell’Internazionale con la centrale londinese, perché Cafiero si è ormai conquistato un ruolo di leader. Nel Congresso di Rimini, nell’agosto 1872, gli italiani e le sezioni svizzere del Giura abbracciano il federalismo e l’autogestione: in quello dell’Aja, convocato un mese dopo dal Consiglio generale londinese, arriva la risposta: tutta la componente anarchica è sbattuta fuori dall’Internazionale.

Cafiero diventa uno dei puri e duri dell’anarchismo. I suoi assunti ideologici sono in pratica mutuati da quelli di Bakunin: niente stato, niente partito, nessuna partecipazione alle procedure “democratiche” parlamentari, movimento insurrezionale armato, redistribuzione sulla base dei bisogni: in più, un rigore morale che a Bakunin è assolutamente sconosciuto. Non è un capo carismatico, un trascinatore: è piuttosto un segretario politico. Cura i rapporti interni ed esterni, l’organizzazione, la definizione delle linee programmatiche. Fonda con gli anarchici svizzeri e spagnoli l’Internazionale Antiautoritaria (al convegno di Saint-Imier), crea un comitato politico per il coordinamento del nuovo movimento, cerca di fare pulizia degli infiltrati e dei profittatori. E intanto, comincia anche per lui la sequela degli arresti. Ogni volta che c’è un congresso o qualche manifestazione particolare viene preventivamente fermato, interrogato con comodo e poi prosciolto, giusto il tempo per impedirgli di partecipare.

Nella seconda metà del 1873 si reca nuovamente a Zurigo, da Bakunin. Hanno in progetto la realizzazione di un rifugio per i fuorusciti e i ricercati politici di tutta Europa. Trovano una villa circondata da un vasto appezzamento di terreno a Minusio, nel Canton Ticino (la “Baronata”), la ristrutturano e la ampliano. Ma l’idillio dura poco. La tenuta è intestata a Bakunin, ma i soldi naturalmente li mette Cafiero. Il rivoluzionario russo non lesina sulle spese, progettando l’impianto di frutteti, stalle e campi che dovrebbero assicurare l’autonomia alimentare e finanziaria della “colonia”, ma che si rivelano un vero disastro e richiedono continue trasfusioni di capitali. La realtà è che Bakunin ha come primo obiettivo quello di farsi raggiungere dalla moglie, nei confronti della quale mantiene un rapporto di ambigua dipendenza, e che dal canto suo disprezza tanto lui quanto tutti gli anarchici che si muovono attorno a lui (ed è da questi ultimi assolutamente ricambiata). A dispetto della devozione che nutre per il maestro, Cafiero non può non ribellarsi alla sciagurata gestione finanziaria che sta dilapidando tutto il suo patrimonio. Ne nasce una situazione assurda e quasi ridicola, che porterà in breve tempo alla rottura.

Qui si inserisce una prima considerazione. Il rapporto Bakunin-Cafiero è quello tipico che si crea tra l’ideologo-pensatore e l’ammiratore-mecenate. Temo di leggerlo alla luce di tanti sodalizi analoghi che ho conosciuto nei contesti più disparati, dal bar ai circoli politici alle sette religiose, e che mi hanno sempre infastidito; quindi la mia interpretazione potrebbe essere un po’ forzata. Ma sulla sostanza andrei tranquillo. A volte non è neppure necessario che l’ideologo sia un grande pensatore e il mecenate un ammiratore convinto. È sufficiente che il secondo viva con un qualche senso di colpa la propria agiatezza, e il primo con la sindrome del creditore la propria vera o presunta “superiorità” intellettuale. Parrebbe persino la ricetta ideale, buona tanto in economia quanto negli altri campi, il perfetto connubio tra chi ha le idee e chi ha i mezzi per portarle avanti. Ma ci sono ambiti, e quello dell’azione politica è senz’altro il principale, nei quali questo rapporto tende comunque a diventare ambiguo, se non addirittura velenoso: la dipendenza economica finisce per degradare tanto chi chiede quanto chi offre, anche quando all’origine ci sono le migliori intenzioni. La conclusione poi è quasi sempre la stessa: il mecenate ad un certo punto apre gli occhi, o semplicemente si stufa. Se lo fa in tempo salva ancora qualcosa, altrimenti va in rovina, mentre il suo parassita passa a succhiare da qualche altra parte.

Di questi rapporti la storia è piena. Alcuni sono famosi proprio per come sono andati a finire. Rousseau, esule volontario ed ospite di Hume in Inghilterra, si rivelò talmente invadente e maleducato da farsi cacciare praticamente a calci. Hume ammirava gli scritti di Rousseau; magari non ne condivideva appieno le conclusioni, ma era d’accordo sulle premesse e sullo spirito. Ma era anche una persona seria, riservata e coerente nei comportamenti etici. Si trovò ad ospitare e a mantenere un paranoico egoista, pieno di contraddizioni e di sospetti. Gli ci vollero pochi giorni per capire che razza di cialtrone si fosse messo in casa, e un anno e mezzo per toglierselo dai piedi. Ne venne fuori più scettico che mai nei confronti della natura umana e dei predicatori di palingenesi sociali.

Cafiero decisamente non ha l’acume critico di Hume, ma deve comunque riprendersi dal quasi totale dissesto finanziario e dal contemporaneo insuccesso dell’azione rivoluzionaria. La rottura con Bakunin coincide infatti con il fallimento di un tentativo insurrezionale organizzato a Bologna, per partecipare al quale (ma soprattutto per sfuggire alle grinfie della moglie) lo stesso anarchico russo è entrato clandestinamente in Italia, è rimasto chiuso tre giorni in una camera ed è poi riuscito a stento a riguadagnare il confine. Tutta la faccenda è talmente malcondotta da sfociare nel patetico, con l’aggravante di un sacco di arresti. Cafiero decide di cambiare aria per qualche tempo, e ne approfitta per raggiungere e sposare in Russia la rivoluzionaria Olimpia Kutusov, con la quale aveva intrecciato una relazione già dal primo soggiorno svizzero.

E questo ci offre un secondo spunto di riflessione. Sia Cafiero che l’altra anima dell’anarchismo degli anni settanta, Andrea Costa, hanno un debole per le giovani e combattive rivoluzionarie russe. Al di là del fascino dell’esotico, del mito da sempre coltivato dal maschio italiano della “straniera”, o dell’estensione dell’internazionalismo all’ambito sentimentale, il fenomeno ha una sua significativa rilevanza storica. Costa ha una prima relazione con la nihilista Vera Karpov, e dal 1877 la sua vita sarà legata a quella di Anna Kulisciov, che non è anarchica ma socialista, ed eserciterà un’influenza decisiva sulla conversione del compagno al socialismo parlamentare. Anche la Kutusov, che Cafiero sposa per consentirle di lasciare la Russia, fa valere il suo indubbio ascendente, ed è alla sua presenza in Svizzera che si deve il rinsavimento di Carlo nell’affare della Baronata. L’una e l’altra sono donne tanto belle e disinvolte quanto coraggiose e determinate, e quando conoscono i nostri, pur essendo entrambe giovanissime, hanno già alle spalle ricche esperienze sentimentali e politiche.

Non mi è del tutto chiaro il meccanismo che porta in Russia nella seconda metà dell’ottocento una simile fioritura di figure femminili straordinarie (con l’eccezione della moglie di Bakunin, che tuttavia dal suo punto di vista qualche ragione ce l’ha), da Marija Kovalevskaja a Vera Figner, a Marija Subbotina, a Sof’ia Perovskaja e ad una infinità d’altre: credo c’entri nell’immediato l’apertura alle donne di tutte le facoltà universitarie, anche di quelle scientifiche, ma che più in generale il fenomeno vada riferito ad una condizione femminile che almeno nelle classi agiate era paradossalmente più avanzata rispetto al resto dell’Europa. È sufficiente leggere uno qualsiasi dei romanzi di Tolstoi per rendersene conto, e Terra vergine di Turgenev per conoscere il coraggio delle giovani che rischiavano il carcere e la deportazione per fare propaganda in fabbrica. C’è poi senza dubbio il ruolo fondamentale che le donne possono rivestire in quella che viene chiamata “la causa del libro”, il vasto movimento di alfabetizzazione e di educazione politica promosso dai čajkovcy all’inizio degli anni settanta; o quello che vengono a svolgere nella seconda metà dello stesso decennio nelle colonie populiste di Zemlja i volja (terra e libertà). È sempre una donna, Vera Zasulič, a rompere gli indugi per il passaggio alla Narodnaja volja, la risposta armata alla repressione, sparando al governatore di Pietroburgo.

Comunque, il peso di questa presenza femminile è eccezionale nella prima fase rivoluzionaria, quella dell’andata al popolo, mentre va poi riducendosi progressivamente mano a mano che il movimento si organizza “politicamente” e che allo spontaneismo si sostituisce la disciplina di partito. Si ripete quello che accade in occasione di ogni grande passaggio rivoluzionario, primo tra tutti quello del cristianesimo: l’apporto femminile risulta inizialmente determinante, ma viene poi drasticamente ridimensionato o addirittura escluso quando si passa alla costruzione del nuovo ordine.

Resta il fatto che i nostri giovanotti non avrebbero potuto incontrare alcuna donna simile in Italia. A differenza della stagione populista russa il nostro Risorgimento, che di rivoluzionario ha ben poco, vede le donne solo nei ruoli di cucitrici di bandiere, infermiere dietro le barricate o paraventi per i salotti cospirativi. Le uniche eroine sono quelle che seguono il compagno nelle sue peregrinazioni, come Anita Garibaldi, peraltro nemmeno italiana e che non avrebbe potuto fare altrimenti, o che prestano alla causa le loro armi di seduzione, come la contessa di Castiglione. E le cose non cambiano quando, fatta l’Italia, si passa a cercare di darle un senso. Tutto viene messo in discussione da mazziniani, radicali, anarchici e socialisti, tranne il fatto che le donne debbano rimanersene a custodire il focolare. E tutto sommato si direbbe che queste ultime accettino di buon grado questo ruolo. La figura femminile più rivoluzionaria della nostra letteratura dell’Ottocento è in fondo quella della Lupa di Verga. In tanta assenza, meno male che arrivano le russe.

Le fallite insurrezioni del 1874 chiudono in pratica la fase embrionale dell’anarchismo italiano e aprono quella dell’azione dimostrativa. Lo schema dell’insurrezione bolognese è in fondo ancora quello mazziniano, con gruppi di insorti che si danno segretamente convegno in uno o più punti per accendere lì la miccia della rivoluzione: ed ha anche gli stessi esiti, perché nel luogo convenuto si ritrovano quattro gatti, che quando possono, dal momento che la polizia ha immancabilmente ricevuta la soffiata ed è lì ad aspettarli, tornano mestamente a casa. Il processo successivamente intentato ai quaranta arrestati di Bologna si conclude in una generale assoluzione, dopo però che tutti gli imputati (compreso anche qualcuno che non ha partecipato) hanno trascorso almeno un anno in carcere.

Rinfrancati dalla vittoria almeno morale ottenuta nel processo di Bologna gli anarchici organizzano un congresso nazionale a Firenze per l’autunno del 1876. I delegati arrivano da tutta l’Italia e alla stazione trovano naturalmente ad accoglierli la polizia. Quelli che sfuggono alla rete cercano di organizzarsi in qualche modo. Lasciano alla spicciolata Firenze, di notte e sotto un diluvio, e provano a ritrovarsi a Pontassieve, dove però nessun albergo vuole ospitarli e già si sente il fiato della polizia. Non si danno per vinti e trovano infine una soluzione in una locanda di Vallombrosa di Tosi. Hanno appena iniziato a discutere quando la polizia fa irruzione. Nuova fuga, questa volta per le finestre direttamente nel bosco vicino, e qui finalmente uno sparuto gruppo di superstiti porta avanti e conclude i lavori, sotto una pioggia battente che non li abbandona per due giorni. Tra le soluzioni adottate, quella di passare ad azioni dimostrative clamorose, secondo la linea proposta da Cafiero stesso di una «propaganda dei fatti» che scuota l’opinione pubblica, indipendentemente dal successo delle azioni. L’obiettivo è a limite quello di creare occasioni per processi clamorosi, che consentano di propagandare il messaggio rivoluzionario anarchico2.

Si comincia subito. Nel corso dell’inverno Cafiero e Malatesta vanno di persona ad esplorare la zona del Matese, nella quale quindici anni prima il brigantaggio aveva dato filo da torcere ai piemontesi, e si convincono che le ceneri di quel movimento siano ancora calde. A primavera, dopo aver procurato con gli ultimi fondi di Cafiero le armi e l’equipaggiamento, lanciano il segnale ai compagni. Un centinaio di questi converge da ogni parte d’Italia a San Lupo, un villaggio alle falde del massiccio, che è stato scelto come base insurrezionale. La polizia segue di lontano le loro mosse, aspettando solo l’occasione per prenderli tutti assieme. Una buona metà viene comunque già fermata durante il viaggio o all’arrivo nei centri circostanti. Gli altri riescono a sfuggire alla retata e si danno alla macchia. Sono una quarantina, hanno già perso gran parte delle armi, i viveri, le carte.

Il gruppo si riorganizza alla meglio e prende la strada della montagna. Si alternano al comando un giorno ciascuno, secondo la buona regola anarchica: faranno a tempo ad esercitarlo solo in tre, Cafiero, Malatesta e Ceccarelli. Malgrado il tempo volga decisamente al brutto sono tutti determinati a portare avanti l’iniziativa. La zona è però completamente circondata da reparti della polizia e dell’esercito: sono stati mobilitati dodicimila uomini per dare la caccia ad una trentina di sprovveduti che vagano nei boschi. Gli anarchici per intanto si danno da fare: raggiungono un paio di paesini sperduti, occupano i municipi, bruciano gli archivi, danneggiano i contatori dei mulini, il tutto al cospetto di paesani esterrefatti, che li seguono come fossero una compagnia di saltimbanchi. Nel frattempo il cerchio si stringe: da qualsiasi parte si volgano trovano truppe e forze di sicurezza. Tentano di superare un valico per riuscire nella valle adiacente, ma vengono fermati da una bufera di neve. Sono stremati, intirizziti, demoralizzati. Si arrendono quasi con sollievo, per sottrarsi alle intemperie e alla sensazione di insensatezza che ormai li pervade. Vengono avviati con i loro compagni già arrestati ai penitenziari più vicini, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e poi in quello di Benevento. Cafiero ha tempo di meditare: durante la lunga pausa forzata, mentre prepara la sua strategia difensiva, che sarà in realtà una strategia di attacco, può anche dedicarsi alla traduzione del primo libro de Il Capitale di Karl Marx.

Al processo, che si celebra a Benevento un anno dopo, Cafiero viene difeso tra gli altri da un giovane avvocato, Francesco Saverio Merlino, destinato a diventare un personaggio di punta del movimento anarchico. Insieme i due riescono a ribaltare la situazione, usando il banco degli imputati e l’eco giornalistica dell’evento come tribuna per illustrare i fondamenti del programma anarchico e chiarire le finalità e i modi dell’azione rivoluzionaria. Il risultato è che il governo, grazie anche ad un intervento della figlia di Pisacane presso il ministro della giustizia, preme per chiudere al più presto la faccenda e per spegnere i riflettori, mandando assolti tutti gli imputati. Quello che gli anarchici non capiscono è che l’assoluzione, apparentemente una sconfitta del sistema, vuol essere invece agli occhi dell’opinione pubblica una sorta di declassamento della pericolosità dell’anarchismo, diffondendone un’immagine poco seria e accreditando tra l’altro la giustizia italiana di una tolleranza e di una equità che delegittima ogni ulteriore protesta e recriminazione. Alla fine del processo Cafiero e tutti i suoi compagni sono immediatamente liberati: nel frattempo hanno però trascorso un altro anno in carcere.

Le vicende di Bologna, di Vallombrosa e del Matese, e anche tutte le altre iniziative insurrezionali che si concentrano nel decennio “eroico” degli anni settanta, fanno parte dell’epica del movimento anarchico; ma sotto certi aspetti risultano quasi parodistiche. So bene che è ingeneroso giudicare col senno di poi, e che al di là dei risultati andrebbero valutate le intenzioni, oltre che tenuto presente il contesto. So anche che ci troviamo di fronte a uomini generosissimi, che hanno abbracciato una causa dalla quale possono attendersi solo sacrifici, persecuzioni, galera, vite scombussolate: su questo, al contrario che sugli anarchici, non ci piove. Ma il velleitarismo di certe iniziative, il distacco da quella che è la realtà della “coscienza proletaria”, pari quasi a zero, non possono essere ignorati. Esiste senz’altro anche in Italia, negli ultimi decenni del secolo, una effervescenza “insurrezionale”. I motivi non mancano: tassa sul macinato, inasprimento fiscale generalizzato, revisione dei patti agrari a sfavore di fittavoli e mezzadri, estensione a tutta la penisola della legislazione piemontese, esordi di un modo di produzione industriale che introduce tempi e modalità e carichi di lavoro assolutamente inusitati: e poi calamità naturali e politiche doganali che falcidiano l’agricoltura, emigrazione in crescita esponenziale, ecc. Ma si tratta per l’appunto di un’effervescenza legata a una molteplicità di problemi diversi, a rivendicazioni di carattere sociale o economico che si intrecciano con forti connotazioni localistiche e particolaristiche, e che in una società arretrata come quella italiana necessariamente entrano in conflitto l’una con l’altra. Questo dagli anarchici non viene ben capito. Certo, non sono signorotti o borghesi annoiati, la gran parte di loro arriva dai ceti artigiani o operai; non vanno a predicare solo la libertà, come i giacobini partenopei stigmatizzati da Cuoco, parlano anche del pane e del lavoro; ma è proprio sul modo di procurarsi il primo e di dividersi il secondo che non riescono convincenti. Soprattutto perché parlano ad un e in nome di un popolo ideale. Ancora una volta, è Verga a riassumere perfettamente il problema in Libertà, quando racconta del sospetto e della sfiducia reciproca che subentrano nei rivoltosi dopo l’euforia iniziale. Questo è il “popolo”, quello di Bronte e del Matese ma anche di Bologna, al quale gli anarchici chiedono di organizzarsi spontaneamente.

Cafiero ancora non lo sa. Una volta libero lascia nuovamente l’Italia. Si ferma in Francia, dove cura la stampa e la pubblicazione del Compendio del primo volume de “Il Capitale”. Alla fine del 1879 però viene espulso anche di lì: durante una manifestazione, alla quale partecipa anche Malatesta, avvengono degli scontri con la polizia. Ripara in Svizzera, prima a Ginevra, poi a Berna e infine a Lugano, dove è raggiunto dalla moglie Olimpia, a sua volta fuggita rocambolescamente dalla Siberia. In questo periodo le sue frequentazioni si allargano: a Ginevra entra in rapporto con gli anarchici che ruotano intorno a Kropotkin, a Lugano ristabilisce i contatti con internazionalisti italiani di lungo corso, da tempo fuorusciti e maturatisi in un clima di dibattito intellettuale molto più vivace e avanzato rispetto a quello in corso nella penisola.

Riesce anche a liberarsi della “Baronata”, diventata un vero pozzo di spese, ridando un po’ di ossigeno alle proprie finanze, con le quali peraltro sostiene le attività propagandistiche ed editoriali. In questo periodo scrive il saggio Rivoluzione e il discorso su Anarchia e comunismo, incentrato sulla convinzione che la rivoluzione sia una legge che regola la storia dell’umanità e che rende possibile il progresso dei popoli nel corso del tempo: «La rivoluzione è causa ed effetto di ogni progresso umano, è la condizione di vita, la legge naturale dell’umanità: arrestarla è un crimine; ristabilire il suo corso è un dovere umano».

Non ha naturalmente reciso i contatti con l’Italia. Alla fine del 1880 presiede un congresso dei socialisti dell’Italia settentrionale che si svolge proprio sul confine svizzero, nel corso del quale da un lato ribadisce la sua opposizione alle elezioni e al sistema parlamentare, dall’altro sostiene che gli anarchici debbano comunque partecipare, anche solo al fine di fare agitazione sociale, alle iniziative in programma nel paese per la richiesta del suffragio universale. Lui stesso è delegato dal congresso, assieme a Cipriani, a partecipare ad una manifestazione prevista a Roma (che peraltro verrà rinviata, e alla quale non presenzierà).

A Lugano Cafiero incontra anche Anna Kuliscioff: per un breve periodo i due collaboreranno all’edizione dei saggi di Carlo Pisacane, ma la sintonia con la socialista russa è scarsa. Cafiero si rende conto che attraverso l’influenza da lei esercitata su Costa sta maturando in seno al movimento anarchico una frangia che auspica l’abbandono dell’insurrezionalismo e l’inserimento nella vita parlamentare ed elettorale del paese. L’abiura più clamorosa all’anarchismo è proprio quello di Andrea Costa, che si presenta candidato alle elezioni nel 1881. Lo stesso Cipriani viene candidato, sia pure soltanto al fine di fargli avere l’immunità parlamentare. A difendere l’insurrezionismo sono rimasti ora Cafiero, Malatesta e Merlino. Cafiero ribadisce che solo questa può essere la linea anarchica, purché l’insurrezionismo sia spontaneo, non organizzato strutturalmente.

Anche la Svizzera però comincia a diventare stretta. Nel settembre 1881 viene arrestato assieme ad un gruppo di anarchici piemontesi. Una volta rilasciato deve abbandonare la Svizzera per rifugiarsi a Londra, dove ritrova Kropotkin e rivede Malatesta.

Al rientro in Italia, nella primavera del 1882, è portatore di una posizione assolutamente inaspettata: si è convertito alla tattica elettorale. Di fronte alle scelte elettoralistiche dei socialisti egli non se la sente più di isolarsi dalle masse: “è meglio fare un solo passo con i compagni nella via reale della vita che rimanere isolati a percorrere centinaia di leghe in astratto” (aprile 1882). Ne ha discusso con Kropotkin e Malatesta, che naturalmente, con argomentazioni diverse, hanno cercato di dissuaderlo: e soffre tremendamente lo strappo, che giustifica proclamando di rinunciare “non all’ideale, ma alla pratica anarchica, non all’anarchia, ma all’anarchismo”. La scelta di Costa, che inizialmente aveva avversato, lo ha evidentemente portato a riflettere, anche perché sul piano umano conserva un’enorme stima dell’ex compagno d’avventura. Nell’ambiente anarchico questa conversione viene vissuta malamente: qualcuno ci vede già i segni di un disordine mentale che effettivamente è in agguato, e la cosa è anche amplificata per rendere il nuovo atteggiamento politicamente meno significativo. Ma in realtà è la conclusione di un percorso reso quasi obbligato da una collezione di sconfitte e di delusioni che impongono un ripensamento sui modi, se non sui fini, dell’azione anarchica.

Nuovamente arrestato, Cafiero stavolta ha un crollo psicologico e tenta il suicidio in carcere. L’uomo che una volta liberato viene accompagnato alla frontiera svizzera è ormai l’ombra di se stesso. Non è accettato dagli alberghi, perché nell’abbigliamento e nei comportamenti appare uno squilibrato. Tenta nuovamente il suicidio, fallendo anche stavolta. Viene accolto in casa da un ex compagno, gode di un breve periodo di tranquillità, riesce persino a intervenire ogni tanto nel dibattito politico interno all’anarchismo (anche se ormai è in realtà un emarginato). Nell’autunno dell’82 viene candidato, come Cipriani, in vari collegi alle elezioni politiche: ma a differenza di quello, non viene eletto. Esorta tuttavia Andrea Costa, che l’elezione l’ha trionfalmente ottenuta, ad entrare senza esitazioni in Parlamento.

Agli inizi dell’anno seguente riparte improvvisamente per l’Italia. Si ferma in Toscana, dove soggiorna per qualche tempo nel completo anonimato, fino a quando non viene trovato ad aggirarsi completamente nudo in mezzo a un bosco. È ormai in una situazione completa di follia.

Sopravviverà ancora nove anni, trascorsi per la gran parte in ospedali psichiatrici: nell’ultimo periodo viene affidato alla custodia della moglie, che ad un certo punto è però costretta rientrare in Russia. Una nuova ricaduta lo porta ad un altro ricovero nell’ospedale di Nocera Inferiore, dove muore nel 1892. Ha quarantasei anni, ma ne ha vissuti realmente solo trentasette, e di questi quattro li ha trascorsi in carcere.

La malattia mentale di Cafiero può essere fatta risalire alle cause più disparate, ma di fatto i presupposti per una crisi psicologica che avrebbe potuto devastare anche il cervello più sano ci sono tutti. Cafiero parte entusiasta agli inizi degli anni settanta. Ha davanti il mito, sia pure in declino, di Mazzini, le figure emergenti di Marx e di Engels, la personalità straordinaria e da tempo famosa di Bakunin. Ha addirittura l’imbarazzo della scelta. Il problema è che questi tre riferimenti sono in guerra tra loro, e la guerra viene portata avanti senza esclusione di colpi, a botte di reciproca delegittimazione rivoluzionaria. Quindi conosce ben presto quelle che sono le lacerazioni che hanno sempre e che continueranno sempre a dividere, e qualche volta a paralizzare, la sinistra. Si ritrova alle spalle una esperienza per qualche verso esaltante, ma per troppi altri tragica, come quella della Comune, che in qualche modo mette fuori gioco per anni una delle sinistre più avanzate e più combattive, quella francese. Deve prendere atto delle innumerevoli contraddizioni interne al movimento, la disorganizzazione delle sezioni, i personalismi, le guerre intestine, gli arrivismi: quando va bene si tratta solo di divergenze sul metodo o sui fini, ma alla lunga anche questa dialettica, a fronte della pochezza dei risultati pratici, è sfiancante. Cafiero può misurare infatti sulla fallita insurrezione di Bologna la realtà del rapporto tra organizzazione sulla carta e realizzazione pratica, quando le migliaia di uomini promesse dalle varie sezioni si riducono a poche decine. Verifica col congresso di Vallombrosa la precarietà di una organizzazione che è perfettamente nota alla polizia, malgrado tutte le misure di segretezza, anche perché il modello stesso dell’esemplarità anarchica impedisce di organizzare filtri di sicurezza più efficienti. Sperimenta con i fatti del Matese il velleitarismo della chiamata del popolo alla rivoluzione. Credo che ad un certo punto, mentre celebrava ufficialmente la caduta delle istituzioni, la decadenza del re, la nuova società, davanti ad una folla di contadini che guardava allibita lui e gli altri scalcagnati “liberatori”, non riuscendo a capire se si trattava dello scherzo di una banda di matti o se parlavano sul serio, si sia sentito anche un po’ ridicolo. Ha subito la delusione di una fiducia totale riposta in un uomo che era un mito, e che si rivela poi quanto meno un pasticcione, e mette la sua vita privata in mezzo e persino dinnanzi al problema collettivo. Conosce il carcere, che per una volta può essere un momento di rafforzamento delle convinzioni, ma ripetuto finisce per sgretolare qualsiasi animo, a meno di essere Cipriani.

Ecco, la grande differenza è proprio questa: o si è un Cipriani, che si è dato delle mete personali delle quali è responsabile solo in prima persona, e quindi si regge: oppure, come Cafiero, ci si danno delle mete sociali che comportano necessariamente il concorso e la condivisione di altri, e allora si è destinati come minimo alla delusione, come ipotesi peggiore, se ci si è creduto ed investito troppo, alla pazzia. Cafiero è uno che ha creduto troppo e, mi permetto di dire, in maniera sbagliata.

Provo ad essere più chiaro, con me stesso prima ancora che con improbabili lettori. A fronte di vicende che hanno comportato costi umani altissimi, in termini di vite perdute o completamente scombussolate, di una miriade di anni di detenzione, di violenze subite e di risposte altrettanto violente, è anche opportuno ad un certo punto, quando sia maturato un sufficiente distacco storico, azzardare un qualche bilancio. Non si tratta di una contabilità dare-avere, impossibile e comunque priva di senso, ma di una riflessione del tipo: “ne valeva la pena?” Certo, anche questa domanda è priva di senso, perché per coloro che vi hanno investito per intero l’esistenza evidentemente la pena valeva, e poi perché domande del genere nella storia non trovano posto. Ma qui non sto ragionando da storico: provo a chiedermi fino a che punto sono debitore, anche per il solo fatto di poter stare qui a scriverne, del sacrificio di tante anime nobili. E allora la devo mettere così: sotto il profilo pratico, per quanto mi spiaccia dirlo, le conquiste sociali che hanno caratterizzato gli ultimi centocinquant’anni (e che oggi rischiano seriamente di essere azzerate) non devono nulla allo spontaneismo movimentista. Sono invece il frutto di un’azione organizzata, disciplinata nelle formazioni partitiche di massa, irreggimentata dietro bandiere che non ammettevano dubbi e diserzioni, e nelle quali il concetto di eguaglianza passava attraverso quello dell’uniformità assoluta e incondizionata. Che poi queste conquiste possano essere solo un surrogato di una qualche equità sociale, che possano essere state le perline colorate con le quali il modo di produzione industriale e il sistema capitalistico che ne consegue hanno comprato tempo e lavoro e vite delle masse, è un altro discorso.

Rimane, certo, il piano ideale: il congresso sotto la pioggia battente, la marcia nella neve del Matese, sono senza dubbio immagini romantiche, che mi hanno fatto innamorare di questi uomini e anche delle loro idee. Ma come ci si innamora della storia di un film, sapendo che la vita è altro.

1 Per una ragione ben precisa, il ritardo nello sviluppo industriale. L’anarchismo guarda ancora molto al mondo contadino e a quello artigianale, che da Marx sono praticamente considerati dei residuati economici. Il mazzinianesimo, a sua volta, è più legato ad una certa piccola e media borghesia commerciale, unica forma di borghesia esistente nei paesi che si affacciano sul mediterraneo, in lotta con quella agraria conservatrice.

2 Dopo la morte di Bakunin (luglio 1876), all’interno del movimento anarchico si dibatte a lungo sulla sostituzione del programma collettivista (a ciascuno secondo il suo lavoro), adottato inizialmente anche dall’Internazionale antiautoritaria, con quello comunista anarchico (ad ognuno secondo i suoi bisogni). Cafiero sostiene questa tendenza.

 

L’occhio del lupo

di Gianni Repetto, da Sottotiro review n. 4, giugno 1996

<<… È da un’ora, ormai, che il lupo trotta. Un’ora che gli occhi del ragazzo lo seguono. Il pelo grigio del lupo sfiora la rete. I muscoli guizzano sotto il pelame invernale. Il lupo grigio trotta come se non dovesse fermarsi mai… “Lupo della steppa” sta scritto sulla targhetta di ferro, sulla rete… Un occhio giallo, rotondo, con una pupilla nera proprio al centro. Un occhio che non si chiude mai. È come se il ragazzo stesse fissando una candela accesa nella notte; non vede che quell’occhio: gli alberi, lo zoo, il recinto, tutto è scomparso. Non resta che un’unica cosa: l’occhio del lupo. E l’occhio si fa sempre più grande, sempre più rotondo, come una luna rossa in un cielo vuoto con, nel mezzo, una pupilla sempre più nera, con macchioline di colori diversi che appaiono nel bruno giallastro dell’iride…>>. Nel suo andirivieni il lupo guarda il ragazzo ora con un occhio, ora con l’altro. Il ragazzo non ha paura. Rimane immobile, non abbassa lo sguardo. E scopre quello che finora nessuno aveva mai scoperto nell’occhio del lupo: la pupilla è viva, si scuote, è in movimento. È… un uomo che alza il pugno chiuso gridando. Uno schiavo romano che brandisce il gladio strappato ad un centurione. Un contadino tedesco che colpisce con la forca il suo feudatario. Un cardatore fiorentino che scaccia il padrone dalla sua bottega. Una donna milanese che ruba il pane imboscato da un fornaio. Un sanculotto parigino che taglia la testa ad un nobile imparruccato. E questo? Che cos’è questo? “L’iride” pensa il ragazzo, “l’iride intorno alla pupilla…”. Scorrono veloci le immagini e tutte hanno contorni rossi e accesi. C’è Robespierre che si difende fino all’ultimo nel municipio di Parigi, e poi Babeuf che attacca la Convenzione al grido di “Tutti uguali!”, mentre Filippo Buonarroti sfugge ancora una volta alla polizia (francese? olandese? tedesca? austriaca? piemontese?) e s’incontra con Mazzini in una località segreta. C’è lo sguardo amareggiato di Pisacane davanti ai forconi dei contadini del Cilento, c’è la barba grigia e maleodorante di Bakunin appena fuggito dalla Siberia, che diventa rossa, ricciuta, come se ringiovanisse. C’è Carlo Marx, che con il suo “Manifesto” suscita un fantasma che fa ancora tremare le vene ai signori, e Robert Owen, con le sue città ideali, e poi Proudhon, per il quale la proprietà è un furto. C’è Amilcare Cipriani, con un cappellaccio tirato sugli occhi, che risponde sprezzante ai giudici del regno. C’è Malatesta sui monti del Matese ad organizzare un’impossibile rivolta. C’è un lupo che trotta avanti e indietro, chiuso in un vagone blindato che attraversa l’Europa: Vladimir Ilic piomba a Pietroburgo, la Russia s’infiamma, è la rivoluzione. Ci sono i corpi senza vita di Rosa Luxemburg e di Karl Liebknecht, assassinati dai compagni socialisti. C’è il sorriso pulito di Giacomo Matteotti quando enuncia alla Camera i brogli elettorali. Ci sono i capelli arruffati di Gobetti prima delle bastonate dei fascisti. C’è la gobba travagliata di Gramsci che non riesce a trovar pace neanche dopo morta. C’è il cadavere di Durruti, fasciato nella bandiera rossa e nera, e il popolo anarchico che rimane muto, per una notte intera, sotto l’acqua a dirotto, a presidiare il cimitero. C’è una folla di partigiani antifascisti cadti con negli occhi il sol dell’avvenire. Ci sono i morti di Reggio Emilia, di Afragola e di Portella delle Ginestre, quelli di Piazza Fontana, di Bologna e di Ustica, che invocano ancora giustizia. Ci sono i ragazzi del Maggio francese, che volevano la fantasia al potere. C’è la faccia sorridente del Che, con il basco e la stella rossa sulla fronte, la folla ondeggia, “el pueblo unido jamà serà vencido… venciidoo… venciiidooo”. La pellicola stride, come se fosse rovinata. I fotogrammi sono sempre più sbiaditi. Irriconoscibili. Bianchi. Ciak, bianchi, ciak, bianchi. L’OCCHIO SINISTRO È ORMAI UN OCCHIO CIECO, L’OCCHIO CIECO DELLA SINISTRA INESISTENTE.

Il lupo svolta, cambia occhio. Il ragazzo è sempre fermo che lo guarda. Ma non sorride più, sembra che abbia paura. Fissa la pupilla del lupo che s’allarga, che pian piano si mette in movimento. Una luce strana sprigiona dal vortice, come un lampo sinistro nella notte. È… il luccichìo di un cranio pelato, di una faccia dalla mascella volitiva. Il simbolo del socialismo interventista. È il Giuda del proletariato, è Mussolini, il fascista. È Hitler con i baffetti da moscone, seduto su una svastica che si stende sul mondo. Che finisce ad Auschwitz, che finisce a Mathausen. “L’olocausto può succedere ancora” diceva Hannah Arendt solitaria. Nessuno le credette veramente. Ma ecco che avanzano due baffoni georgiani, è Josif Giugasvili, detto Stalin. Un gulag a trenta gradi sotto zero, la rivoluzione si suicida a testa in giù. L’occhio destro è Leon Blum che si sveglia nella notte e piange il sangue dei miliziani spagnoli. È Franco che avanza a Guadarrama mentre la repubblica arresta gli anarchici della CNT. È Petain che lascia ai nazisti mezza Francia per seviziare più “liberamente” l’altra. È Salazar che instaura il suo regime così come “sostiene Pereira”. Ma è anche Togliatti, ministro della giustizia, che vara l’amnistia per i fascisti. O Saragat, che a palazzo Barberini vende l’anima per una poltrona. O Nenni, che con il centro-sinistra puntella una DC moribonda. C’è invece solo il carcere per i camalli che fermano a Genova la svolta autoritaria. E il ‘69 delle lotte operaie svanisce dieci anni dopo con la marcia dei quarantamila. L’occhio destro è la polizia dei colonnelli che “ripulisce” il politecnico di Atene. È Pinochet che assalta la “Moneda” contro Salvador Allende, il “presidente”. Sono le mani dei generali argentini che grondano del sangue dei “desaparecidos”. Sono gli squadroni della morte in Guatemala e i killer di bambini del Brasile. Sono le raffiche dei mitra brigatisti che distruggono ogni possibilità di “Movimento”. Sono gli anni della “deregulation”, con Reagan e la Thatcher a farla da padroni. Sono i naziskin che nelle città tedesche danno la caccia ai turchi o ai nigeriani. L’occhio destro è Re Mida Craxi che trasforma la scala mobile in tangenti per il suo partito. “Mani pulite” rompe l’incantesimo, ma nulla può contro il mago delle televisioni. “Forza Italia” dice Berlusconi, prendendo sottobraccio il camerata Fini. La bandiera rossa ammainata sul Crem lino, la svolta del PCI alla Bolognina. La faccia di Fede incipriata, quella di Sgarbi apPannellata, quella di Ferrara maleducata, quella di Liguori malfidata, quella di Mike Bongiorno asservita, quella di Baudo democristianata, quella di Magalli rincoglionita, quella di Frizzi imbambolata, quella di Santoro arruffianata, quella di Prodi… di Prodi? Sì, di Prodi, appaccioccata, quella di Veltroni arcipretata, quella di D’Alema supercontrollata, quella di Buttiglione inCasinata, quella di Bianco addormentata, quella di Bertinotti assignorata, quella dell’Avvocato liftata… C’è una gran confusione dentro l’occhio destro, tutti spingono per stare in prima fila. E l’occhio gonfia, gonfia a dismisura, esce fuori dall’orbita, s’ingrossa finchè esplode e spande materia dappertutto. Il ragazzo stramazza, colpito in pieno, e per un attimo crede di essere morto. Non appena si riprende s’accorge di essere ricoperto da una sostanza molliccia. La tocca con cautela, forse teme si tratti del suo sangue; poi si porta le dita al naso e l’annusa: è merda, È PROPRIO MERDA SCHIETTA.