Della mia onestà vado superbo

Francesco Natta, storia di un anarchico sansalvatorese

di Giancarlo Torra, 4 dicembre 2020

Chi è Francesco Natta?
Vita di Francesco Natta
Vita (e sventure) di Agenore Natta
Della mia onestà vado superbo

 Chi è Francesco Natta?

L’anno scorso un amico, Paolo Repetto (professore di storia, storico e molto e molto altro ancora…), mi telefonò per chiedermi se avessi mai sentito parlare di un certo Francesco Natta, nato a San Salvatore nella prima metà dell’ottocento. Paolo si era imbattuto il quel nome nel corso di una sua ricerca riguardante alcuni eventi insurrezionali avvenuti nella seconda metà dell’800 nell’Italia Meridionale, e riferiti ad un gruppo di anarchici passati poi alla storia come “la Banda del Matese”. Il nome non mi disse nulla e non trovai nulla neppure nei vari libri storici su San Salvatore.

Facendo, pieno di perplessità, una ricerca in rete, scoprii invece, sorprendentemente, moltissime pagine che parlavano di Francesco Natta. Anche la Treccani gli aveva dedicato un importante spazio, riportando numerosi eventi storici e politici di cui era stato protagonista.

Francesco Natta era un anarchico, e approfondendo la sua figura sono giunto alla conclusione che nei suoi confronti il paese abbia attuato una sorta di damnatio memoriae. Essere anarchici, a quel tempo, in un paesino come era allora il nostro, doveva per forza essere considerato una vergogna.

Senza arrivare agli estremi di Salvia Lucana (il paese di Giovanni Passanante, attentatore mancato di Umberto I, che per una sorta di desiderio di riconciliazione col re e per un sentimento di vergogna per quanto capitato a causa del proprio compaesano mutò il proprio nome in Savoia Lucana)1 è probabile che a San Salvatore sapere che due suoi cittadini (Francesco aveva un fratello, Agenore, anche lui anarchico) avevano abbracciato quegli ideali ed erano stati più volte arrestati e ricercati dalle forze dell’ordine (e uno di questi – Agenore – anche condannato per un sanguinoso attentato) passasse per qualcosa di enorme e fosse trattato, secondo lo stile degli abitanti delle nostre colline, con discrezione e silenzio, per evitare il riaprirsi di una ferita.

Oltre a Francesco, figura di spicco dell’anarchismo, vi era infatti anche il fratello minore, che ebbe a pagare con oltre vent’anni di carcere la sua adesione al movimento, condannato per un reato che come vedremo in seguito non aveva commesso.

Non è comunque possibile che la storia dei fratelli Natta abbia potuto passare sconosciuta o inosservata in una realtà piccola come la nostra (tra l’altro nel 1875 Natta, nel corso di un processo, affermava di aver ancora una casa a San Salvatore, dove forse ebbe a ritornare per qualche tempo). È molto più probabile che le condanne riportate dai fratelli Natta e la loro posizione all’interno del movimento anarchico fossero per il nostro tranquillo paese un qualche cosa che doveva andare rimosso. In fondo, sansalvatoresi nati in epoche più risalenti e con vite ben meno intensamente vissute di quelle di Francesco e (sia pur in misura minore) di Agenore, hanno trovato spazio nel nostro ricordo.

Mi sembra pertanto un obbligo cercare di far conoscere la figura di questo nostro concittadino (e, sia pur sommi capi, del fratello minore), che si trovò nella seconda metà dell’Ottocento ad essere uno dei personaggi più nobili e di maggior spicco del movimento operaio ed anarchico di quegli anni e la cui vita, ricca di eventi e a tratti anche avventurosa, ebbe ad intrecciarsi con quella dei personaggi più importanti dell’epoca.

La sua difesa appassionata (Della mia onestà vado superbo) nel processo del 1875 avanti la Corte d’Assise di Firenze è celeberrima ed è pubblicata e letta ancor oggi; la sua figura di coraggioso compagno di Bakunin è descritta ampiamente ne “Il diavolo a Pontelungo” di Riccardo Bacchelli; quella di infaticabile motore dell’organizzazione del movimento anarchico a Firenze e nel centro Italia è narrata ne “Un sogno d’amore” di Angelo Toninelli e la sua figura di operaio militante compare anche, sia pur per pochi istanti, nello sceneggiato Rai “Anna Kuliscioff” del 1981, per la regia di Roberto Guicciardini2.

Vediamo la sua storia.

 Vita di Francesco Natta

(San Salvatore Monferrato, 7 settembre 1844 – La Plata, Argentina, 7 marzo 1914)

Tipo romano antico, statura e corporatura regolare, capelli folti, corti e per niente separati d’alcuna divisa.

Due baffettini colle punte rivolte in sù, accrescono favore ad un volto simpatico, di colore naturale, Gli occhi cerulei e il labbro sorridente, sono l’espressione della impassibilità e dell’accortezza.

I suoi modi ed il suo parlare rivelano un carattere dolce per educazione, prudenza e bontà. Meccanico distinto, mostra grandissimo amore e fede per l’avvenire del proletariato, alla cui causa si è consacrato propugnando il principio di associazione fra gli operai in mezzo ai quali si distingue come uno di più intelligenti. Nel 1869 lavorava in politica sotto la immediata direzione di Mazzini, e soffrì carcere preventivo per imputazione di cospirazione contro lo stato.

Presentemente è schierato nelle file della Internazionale che egli solo ha proclamata difesa a viso aperto.

La sua franca professione di principi, la massima indifferenza che mostra sulla sorte che potrebbe incontrare in questo processo, gli hanno acquistato la simpatia universale e conciliato la stima di tutti, nessuno dubitando dell’onestà delle sue intenzione e della convinzione profonda che egli mostra di giovare alla causa dei diseredati.

Fede di apostolo, abnegazione di martire si leggono scolpite su quel volto imperturbabilmente sereno in mezzo alle più terribili burrasche.

Interrogato sulle sue generalità risponde chiamarsi Francesco Natta di Giuseppe di anni 30, nato a San Salvatore provincia di Alessandria, residente a Firenze, meccanico sa leggere e scrivere; è stato processato una volta per disturbo alla quiete pubblica e condannato nelle spese.3

Francesco Natta, nasce a S. Salvatore (AL) il 7 settembre 1844 da Giuseppe e Teresa Milanese. È il primo di tre figli.

Il padre, nato nel 1805 e proveniente da Castelletto, come apprendiamo dall’atto di matrimonio, era fabbro ferraio, mentre la madre, di vent’anni più giovane, di San Salvatore, era cucitrice.

Con ogni probabilità Francesco, che nel registro della popolazione del 1858 è già registrato come fabbro, lavora col padre fino a quando non si trasferisce a Firenze, continuando poi ad esercitare il mestiere di fabbro, meccanico e riparatore specialista di macchine da cucire per tutta la vita. Nella sua attività è estremamente quotato, tanto da far dichiarare al Procuratore generale del Re, nel corso del processo di Firenze del 1879, che è “un abile meccanico, capace di guadagnare 15 lire al giorno – cinque lire più di me4.

La firma del padre in calce all’atto di battesimo è una bella firma, sicura e armonica, segno che il padre di Francesco è persona da ritenersi istruita, almeno per quei tempi. D’altra parte, chiamare il secondogenito Agenore denota una ricercatezza inconsueta nella scelta del nome di un figlio.

Agenore è un nome che poco si concilia con un paese del Monferrato, a maggior ragione alla metà dell’Ottocento: ed in più è un nome adespota, che probabilmente non venne neppure visto di buon occhio dal parroco battezzante, viste le disposizioni di diritto canonico che imponevano di assegnare al battezzato il nome di un santo (ed infatti accanto al nome Agenore, con cui veniva comunemente chiamato, gli fu imposto il nome Pietro).

È ipotizzabile quindi che il germe dell’anarchia sia stato trasmesso ai figli dal padre.

Nel 1840 Pierre – Joseph Proudhon pubblica il suo saggio “Che cos’è la proprietà?”. Da quella data la dottrina anarchica inizia a farsi strada in Europa. È quindi probabile che sei anni dopo (Agenore è nato il 7 gennaio 1846) il padre chiami con un nome così poco diffuso il secondogenito per una sorta di adesione all’ateismo che rientrava tra gli ideali anarchici. Ed è altresì probabile che tanto Francesco quanto Agenore abbiano maturato le loro idee attingendo a quelle paterne.

Con altrettanta probabilità Francesco riceve un’educazione scolastica superiore per quei tempi, tanto da essere in seguito considerato unanimemente come una persona oltremodo istruita e un brillante oratore.

Infatti, così come nel profilo sopra tracciato dall’ Avv. Bottero, anche Angelo Toninelli nel suo romanzo “Un sogno d’amore”, in cui il Nostro è un co-protagonista, così descrive il Natta: “un meccanico armaiolo, […] veniva da Alessandria, si era trasferito a Firenze da pochi anni e oltre che di armi si occupava di macchine da cucire, che aggiustava e vendeva. Era sposato e aveva due figli.

Ma era soprattutto un uomo istruito. Nella sua bottega entravano ed uscivano diversi giornali, il Gazzettino rosa, la Plebe, il Lavoratore, pareva un chiosco in certi momenti, entrava uno, prendeva un giornale, spariva senza pagare, e qualche giorno dopo lo riportava, E via di seguito5.

È giocoforza ritenere che già quando abitava a San Salvatore la sua maturazione politica e culturale fosse in gran parte formata. E infatti risulta che Francesco fosse attirato fin da giovanissimo dalle idee di Mazzini, con il quale, come già riportato dal Bottero, risultò essere in diretto contatto; tanto da essere da questi considerato, “uno dei personaggi più affidabili” e ritenuto inoltre “personaggio assai vivace politicamente6.

Non mi è stato possibile stabilire con esattezza quando i Natta (sono con lui il fratello e forse anche il padre, la madre essendo nel frattempo morta) si siano trasferiti a Firenze. Probabilmente ciò è avvenuto attorno alla seconda metà degli anni sessanta, senz’altro prima della fine del decennio. Nella capitale provvisoria del regno Francesco si sposa, va ad abitare in via Lorenzo il Magnifico e apre una bottega da fabbro, armaiolo e riparatore di macchine da cucire, nella centralissima via della Vigna Nuova. E quasi subito, con Gaetano Grassi (sarto) e Oreste Lovari (calzolaio), partecipa all’esperienza dell’Unione democratica sociale, dove sono confluiti mazziniani, garibaldini, liberi pensatori. Nel 1869 arriva il primo arresto: è accusato di cospirazione contro lo Stato per aver propagandato il principio di associazione tra gli operai.

In breve tempo si rivela un importante referente politico per coloro che simpatizzano per il movimento dei lavoratori; e se un giovane meccanico, giunto da un piccolo paese del Piemonte, è in grado di diventare in pochi anni il perno attorno al quale ruota il fermento politico di una città e l’elemento catalizzatore dei movimenti internazionalisti che spuntano numerosi, è perché evidentemente ha dimostrato di possedere l’intelligenza, le capacità e il carisma per poter assumere la guida e ed essere il riferimento dell’anarchia locale.

Abbandonati alla fine del 1870 gli ideali mazziniani, deluso come tanti altri giovani dal fatto che il Mazzini avesse sconfessato l’esperienza della Comune di Parigi, aderisce nei primi mesi del 1872 alla fondazione del Fascio Operaio (che in pochi mesi arriva a superare i 3.000 iscritti) e della sezione fiorentina dell’Associazione italiana lavoratori (AIL).

Ha da subito forti legami con la Fratellanza Artigiana d’Italia, all’epoca la più importante associazione mutualistica di orientamento repubblicano di tutta Italia. Con ogni probabilità aderisce anche alla Società Democratica Internazionale.

La polizia, che lo mette immediatamente sotto controllo, lo descrive come “di carattere vivace, fermo di propositi, assai educato e di molta intelligenza, abile nel suo lavoro7.

Natta emerge quindi ben presto, come già detto, come una figura centrale dell’internazionalismo. Il 10 gennaio 1872 sottoscrive con il Lovari un manifesto che recita:

Ecco chi siamo e cosa vogliamo.

Chi ci vuol bene sinceramente e chi vuole esserci utile ci segua; chi è ambizioso si allontani da noi, perché il cammino che dovremo percorrere sarà molto aspro e difficile e non offrirà campo a speculazione di sorta.

Operai della città, lavoratori delle campagne!

La nostra causa è la vostra. Siamo fratelli di sventura e dobbiamo pur anche esser fratelli nella lotta per la comune emancipazione.

Unitevi dunque a noi, confidate unicamente nelle vostre forze, abbiate fede nell’avvenire, marciamo avanti, insieme compatti, tenendo alta la nostra bandiera, nella quale sta scritto: verità-giustizia-morale.

Salute e solidarietà

Firenze, lì 10 gennaio 1872

Nel 1873 Natta fa parte della Commissione di corrispondenza della Federazione Italiana dell’AIL, nonché del Comitato per la Rivoluzione sociale, l’organismo clandestino creato da Carlo Cafiero, Andrea Costa ed Errico Malatesta (massimi esponenti dell’anarchismo italiano di quegli anni) e facente riferimento alla Alliance internationale de la democratie socialiste di Bakunin. Nel frattempo organizza in segreto, con i già ricordati Lovari e Grassi, il Comitato rivoluzionario fiorentino.

La Federazione punta infatti ad una vasta insurrezione per l’estate dell’anno successivo. Natta viene nominato il responsabile per la Toscana e rimane in diretto e costante contatto anche con Bakunin. Anzi, nell’estate del 1873 si reca a Locarno, da Bakunin, presso la famosa villa “la Baronata”, centrale dell’anarchia europea, messa a disposizione da Carlo Cafiero.

Il fatto che il Natta si rechi in Svizzera è estremamente significativo dell’importanza del suo ruolo all’interno dell’organizzazione anarchica internazionale. Raggiunto Bakunin alla Baronata, Natta, insieme ad altri compagni, getta le basi dell’insurrezione che si intende organizzare per l’anno successivo.

L’incontro di Natta con Bakunin è narrato da Riccardo Bacchelli ne “Il diavolo a Pontelungo”. Nell’episodio del romanzo, Natta, definito dallo scrittore come “piemontese di nascita ma fiorentinizzato dal lungo soggiorno”, recita uno dei passaggi più toccanti dell’intero libro.

Bakunin gli chiede: «Tu Natta, hai mai avuto paura della miseria?

E come no? Sentimi, sor Michele. Un giorno, io vidi ripescare in Arno sotto il Ponte alla Carraia un disgraziato. Sul morto trovarono una busta dentro il portafogli. Sulla busta c’era l’indirizzo: “a chi mi ripescherà”. E dentro, una parola sola: “Miseria”.

Rivedo sempre il morto in acqua, pareva un fagotto di cenci, un gatto affogato, un oggetto da nulla.

Poi mentre lo issavano colle funi, saliva, saliva, e spaziava sempre più grande. Lo stesero come Cristo in Croce sul ponte, col volto al cielo, sor Michele mio; era una giornata di sole fiorentino. Lo frugarono, lessero forte quella parola sola.

E che t’ho da dire? Il Ponte alla Carraia e mezzo Lungarno stipati di gente se la ridissero a mezza voce. Non si vide e non si udì più altro.

Un morto con quella parola, che non ne aveva altra da dire al mondo: “Miseria”, e faceva paura a tutti»8.

Il racconto ha tutta l’aria di riportare qualcosa che è stato raccolto, ascoltato ed assimilato dal Bacchelli, se non altro perché il commento di Natta a quel fatto di cronaca pare così personale e intimo da poter essere trasmesso in una confidenza sussurrata agli amici.

Che non si tratti di un’invenzione letteraria di Bacchelli ma di un fatto realmente accaduto, di cui il Natta è stato spettatore, lo si può anche desumere da due circostanze. La prima, la più rilevante, è che Natta, allorché si trasferì in Argentina, fece parte della redazione di un giornale che si chiamava appunto “La Miseria”; la seconda riguarda invece la conoscenza che dei fatti anarchici fiorentini Bacchelli aveva avuto di prima mano. Bacchelli era infatti amico di numerosi personaggi che gravitavano o erano simpatizzanti dell’anarchia, dall’Avv. Barbanti Brodano a Giosuè Carducci e al nonno Ermanno Bumiller, e che avevano vissuto in prima persona o avevano avuto notizie di prima mano dei fatti poi narrati nel libro.

Ritornato a Firenze, Natta, viene designato appunto dal rivoluzionario russo come organizzatore dell’insurrezione che dovrebbe infiammare Bologna nell’agosto del 1874, per estendersi poi alle regioni vicine.

La data dell’insurrezione è fissata al congresso straordinario di Bruxelles per il 12 agosto 1874. L’ottimistica previsione dei rivoluzionari indica in 30.000 uomini, 4.000 fucili e 1.000 bombe le forze da mettere in campo. Le armi, infinitamente meno di quanto avevano ipotizzato gli insorti, sono state acquistate con gli ultimi residui del patrimonio di Carlo Cafiero e raccolte dal Costa, da Malatesta e da Natta alla Baronata.

In realtà la mobilitazione finisce per interessare poche centinaia di uomini (è una costante nei moti rivoluzionari italiani di quegli anni…). Nella notte fra il 7 e l’8 agosto, anniversario della cacciata degli Austriaci nel 1848, gli anarchici internazionalisti tentano una prima insurrezione a Bologna, con la speranza di estenderla dapprima alla Romagna e in seguito alle Marche e alla Toscana.

Il piano prevede: la concentrazione di tre colonne di congiurati provenienti da paesi vicini presso le campagne di Caprara, vicino a Bologna, dove sono state nascoste le armi; l’entrata in città all’alba e l’occupazione del palazzo comunale; l’assalto e il saccheggio dell’arsenale militare e la liberazione dal carcere dei prigionieri politici.

Vengono raccolti in vari punti della città materiali per erigere barricate. Un centinaio di uomini armati sono pronti all’azione, ma la Prefettura, informata da spie infiltrate, sventa la rivoluzione sul nascere. Una colonna partita da Imola si impadronisce della stazione di Castel San Pietro, sabotando la linea telegrafica e portando via armi, lucerne e bandiere rosse per le segnalazioni. Viene però poi fermata presso Bologna da un contingente di militari e di carabinieri. Quarantasette uomini sono arrestati sul posto, mentre gli altri, fuggiti in montagna, vengono catturati il giorno seguente.

Bakunin, presente a Bologna, è ricercato dalla polizia, e i suoi compagni di insurrezione organizzano immediatamente la sua fuga.

Si imponeva quindi per gli internazionalisti rimasti liberi o latitanti, la necessità di trovar prontamente un compagno scaltro, serio, fidato ed energico, capace di condurre il Bakunin, oltre il confine italiano. E quest’uomo fu subito trovato nella persona di Francesco Natta, il quale seppe condurre la difficilissima impresa con una veramente rocambolesca accortezza, pari ad un raro coraggio.9

Bakunin, travestito da prete, viene infatti accompagnato in Svizzera, in treno, proprio da Natta. Quest’ultimo, sempre secondo il romanzo del Toninelli, che come già detto attinge alle cronache del tempo, non fa poi ritorno a Firenze, preferendo tornare a San Salvatore dove può ancora contare su amicizie e coperture. Viene però arrestato alla fine di ottobre, alla stazione di Firenze, dove ha fatto ritorno o per ricongiungersi alla famiglia o, forse, perché vuole condividere con i compagni il carcere e affrontare con loro il processo. Fatto sta che appena giunto in città è riconosciuto e arrestato. Ecco il resoconto della cattura comparso su La Nazione del 3 novembre 1874.

L’altro ieri veniva eseguito nella nostra città l’arresto di un tale Francesco Natta, a proposito del quale ci vengono comunicate le seguenti notizie. Da Ginevra ove è uno dei triumviri della Internazionale, il Natta veniva a Firenze per rassettare le file sparse e, più numerosi e dalle fruttuose perquisizioni di documenti, armi e materie incendiarie, in gran copia fatti dalla nostra Questura. Giunto in Firenze, la brava nostra polizia fu informata. Sembra che egli spiegasse la sua venuta colla necessità di vigilare ad una fabbrica di macchine da cucire in via Niccolini. È un giovane d’aspetto distinto, di carattere ardito ed energico. È nativo di Alessandria (Piemonte). Insospettitosi che la polizia si fosse accorta della sua presenza in Firenze, non pose tempo in mezzo e se ne andò alla stazione per fuggire, ma trovò là agenti e delegato, i quali gli intimarono l’arresto.

Sulle prime nascose il suo nome, ma vistosi scoperto, non seppe poi tacere, e confessò con animo affranto che era il Natta, uno dei capi degli internazionali.

Né qui si limitava l’operato della Questura. Si sapeva che quest’individuo, oltre rivestire alte funzioni nella setta, era come si direbbe il conservatore generale di tutte le carte, documenti e corrispondenze dell’Internazionale in Italia. Ora egli doveva averle presso di sé, ma come trovarle?

Tante e tali furono le indagini che si riuscì a scuoprirle.

Dietro una latrina in uno stambugio a guisa di forno, ove bisognava entrare con le mani e coi piedi, si trovò tutto l’archivio dell’Internazionale. Il Natta, prima di andar via da Firenze, certo di tornarvi fra molto tempo, aveva dato la disdetta della bottega, l’aveva sgombrata e aveva pensato in quello stambugio di murare tutto quell’ammasso di carta che potevano compromettere tanti e rivelare appieno i propositi di quella setta.

E murò infatti tutto quell’archivio; ma la polizia, rovistando con l’aiuto di due muratori il luogo e demolendo qua e là, al cadere di vari mattoni scuoprì dietro ad essi un vero arsenale di carta e corrispondenza che somministreranno piena luce in questo gran processo, ove figurano finora 61 accusati, e che si agiterà a Firenze. Le carte reperite saranno anche di non poco lume ai giudici d’istruzione nei processi di simil genere che si stanno adesso istruendo nelle altre parti d’Italia. Il Natta fu, com’è naturale, tradotto alle Murate a disposizione dell’autorità giudiziaria.

Le singolari circostanze che accompagnarono questo arresto e la scoperta delle carte fanno molto onore alla nostra Questura.

L’arresto ha una grande risonanza, tanto da far scrivere a Gregorio, su Bulletin del 15 novembre 1874: “La polizia è finalmente riuscita a mettere la mano sul “capo” dell’Internazionale a Firenze, Francesco Natta, che è stato arrestato a Firenze la sera del 1 novembre e deferito all’autorità giudiziaria sotto l’accusa di cospirazione contro lo Stato!

La determinazione delle forze dell’ordine non deve stupire. Nel quadro politico, in vista delle elezioni dell’autunno 1874, la questione dell’internazionalismo è divenuta molto importante e passibile di strumentazione.

Proprio in quei giorni viene emanata la “circolare Cantelli”, un documento del ministro dell’Interno ai prefetti sulle elezioni, col quale, di fatto, li invita ad intervenire attivamente nella lotta elettorale. Il presidente del Consiglio Marco Minghetti, nel timore di nuove rivolte, ha indicato come priorità il contrastare le “straordinarie e criminose malattie sociali di alcune province”. Vengono quindi diramati ordini perché tutto i capi dell’internazionalismo siano arrestati.

Il processo contro i 72 arrestati con l’accusa di cospirazione si apre il 9 marzo 1875 avanti la Corte d’Assise del Tribunale di Firenze.

All’apertura, la Corte ritiene valida l’accusa solo per 34 imputati, rei di “essersi costituiti in numerosa associazione preordinata allo scopo di eccitare e promuovere una rivoluzione sociale, onde distruggere lo Stato in tutte le sue manifestazioni giuridiche, economiche e politiche, abbattere l’Autorità sotto qualunque forma o rappresentanza, rovesciare il governo, sostituirvi l’anarchia e giungere al comunismo e alla liquidazione sociale mediante ogni sorta di violenza verso le persone e i beni dei cittadini; per avere fra il luglio e l’agosto 1874, con l’intendimento di raggiungere lo scopo su enunciato, stabilito e risoluto un progetto di insurrezione consistente nell’armare delle bande in Firenze e nelle terre circostanti, suscitare incendi e commettere stragi, per distrarre e deviare le forze della truppa quivi stanziata, assaltare gli uffici, uccidere i funzionari della Pubblica Autorità, liberare i detenuti dalle prigioni per unirli alle loro fila e, divenuti quindi padroni del paese, scorrazzare le campagne ed attendere che le altre provincie del Regno seguissero l’esempio, nel modo che si era appunto tentato nelle Romagne; e per avere a tal fine fatti preparativi di esecuzione, dividendosi in varie sezioni di operazione, distribuendosi le parti, apparecchiando armi e munizioni e facendo tutto quello che era necessario per dare immediato incominciamento all’insurrezione”.

Natta, unico fra tutti gli imputati, conferma tutti gli incarichi assunti nell’Associazione, la sua partecipazione ai congressi, la sua assenza da Firenze all’epoca dei fatti di agosto, (sia pur giustificandola con un viaggio di lavoro a Roma…) e afferma di condividere i principi dell’Internazionale Italiana: ateismo, collettivismo, anarchia.

Spiega quindi le finalità dell’Internazionale: “Scopo materiale pratico è l’assistenza dei suoi aggregati, sostenendoli nelle dissensioni che possono insorgere fra gli operai e i capitalisti. L’Internazionale poi ha un complesso di dottrine che costituiscono i suoi principi scientifici, che io accetto; i principii cioé dell’ateismo, del collettivismo e dell’anarchia. Alla parte materiale mi sono dedicato con tutta attività; alla parte scientifica non ho né la forza, né la scienza di cooperare.

Tra teoria e pratica Natta, che pure deve tener conto di un contesto in cui parla da imputato, accetta di illustrare la sua visione politica, e quando gli viene chiesto se condivide quanto definito dalla passata Conferenza di Rimini (conferenza nella quale era stata data piena adesione al programma rivoluzionario di Bakunin) risponde: “sì, come principio dell’avvenire; se mi si dicesse di tradurre immediatamente in atto tutte le dottrine proclamate in quella conferenza mi vi opporrei […]. Nella nostra associazione, l’anarchia è già bell’in attività. Una Federazione spontanea di sezioni […]. Il vocabolo anarchia per se stesso significa non autorità; ciò però per me non significa confusione. E tanto è vero che l’Associazione Internazionale dei Lavoratori cammina benissimo”.

E, alla domanda del Presidente se l’anarchia gli insorti la vorrebbero nella Società loro o in tutta la Società Umana, aggiunge: “per intanto, l’anarchia è nella società internazionale; naturalmente io la voglio estesa al genere umano, se fosse possibile; ma per ora io non ne ho né i mezzi né la volontà; se la volessero imporre con la violenza, io mi opporrei, perché come vi sono entrato io con la persuasione, così spero che c’entreranno tutti”.

Natta quindi riesce a trasformare il processo in un clamoroso fatto di propaganda socialista. Pone ai giurati inquietanti quesiti non sulla propria innocenza o colpevolezza ma sulle condizioni degli operai italiani disoccupati, sfruttati, privi di assistenza, di mezzi di vita e dei più elementari diritti. E tali parole giungono diritte alla sensibilità dei giurati. (Si riporta al termine di queste pagine l’integrale, appassionata e nobilissima autodifesa del Natta, che diverrà nel tempo un opuscolo classico della propaganda anarchica).

La difesa di Natta e la sua strategia processuale sono, a mio avviso, perfette.

Questi, molto intelligentemente, dimostrandosi anche in questo frangente un vero leader, riconosce la propria appartenenza all’Internazionale, confermando tutto quanto è già comunque stato accertato dagli inquirenti e quindi inutilmente negabile; convince gli altri imputati a respingere ogni loro coinvolgimento, confidando nel fatto che la fretta e l’approssimazione delle indagini farà il resto; risponde in modo pacato e preciso (non a caso i compagni, proprio per questo suo atteggiamento, lo chiamano Pacificone o anche Giuggiolone…) ad ogni domanda postagli dalla pubblica accusa e procede egli stesso ad interrogare alcuni testi che lo accusano, facendo emergere alcune contraddizioni.

L’opinione pubblica è apertamente schierata a favore degli imputati ed in particolare parteggia per il Natta, peraltro estremamente conosciuto a Firenze, tanto da fagli dire al processo: “per la mia professione di meccanico tutta Firenze mi conosce, dall’alta aristocrazia al ciabattino”.

In realtà tutta Firenze conosce il Natta non tanto o non solo come meccanico, quanto proprio per il suo carisma e la sua instancabile attività a favore degli ideali anarchici. Emblematico, a questo proposito, è il fatto narrato da “Il Monferrato” nell’edizione del 10 maggio 1878.

L’episodio è successivo di quattro anni ai fatti qui trattati, quando la notorietà di Natta era al culmine; ma è senz’altro vero che già allora il Natta fosse conosciutissimo: “Non voglio chiudere questa mia senza rilevarvi una spiccata pubblicità cui diede luogo la nostra infelice polizia la settimana scorsa. La nostra infelicissima questura, infelicemente inspirata ebbe l’infelice pensiero di far sorvegliare da due questurini: il noto internazionalista Francesco Natta da Alessandria della Paglia […]. Una guardia di P.S. veglia costantemente all’uscio del laboratorio meccanico del giovane comunista […]. Pazienza se le guardie vestissero alla borghese, ma il male si è che vestono in divisa e per di più hanno l’incarico di seguirlo dovunque esso vada…

Ora avvenne che il Natta essendo uscito seguito alla lontana dall’ombra […] del questurino […] incontrò alcuni amici che lo chiamarono per nome e cognome… il nome di Natta fu allora ripetuto da questi lo udirono e per festeggiare il felice incontro entrarono in un caffè.

Quando uscirono videro con loro sorpresa una moltitudine di gente fuori ferma […] Se ne meravigliarono, ma la loro sorpresa avani tosto allorchè si accorsero che la pubblicità e la riunione di quel popolo era causata dalla presenza degli agenti della Questura che facevano la guardia d’onore al caffè che aveva accolto il Natta.

Stizziti il Natta e i suoi amici del contegno poco prudente e punto dignitoso degli agenti di questura invece di dividersi, come era forse loro intento, pensarono di fare una passeggiata in S. Frediano […] e la eseguirono.

Ma fu una passeggiata seguita da un cinquecento curiosi, desiderosi di vedere il volto simpaticissimo e l’aspetto il più ingenuo e modesto che si possa immaginare, del capo degli internazionalisti di Firenze.

Figuratevi che figura han dovuto fare le guardie di P.S. incaricate di tener dietro a quella massa di popolo…

I camaldoli di San Frediano erano tutti fuori a vederli passare. Sul volto degli internazionalisti brillava la soddisfazione, sulle labbra del popolino quello della curiosità […] e sul muso degli agenti il dispetto di un solenne fiasco patito per opera dei poco previdenti loro superiori”.

La lettura della notizia, se vogliamo poco più che un aneddoto (a dimostrazione comunque di una indubbia notorietà del Natta) è però interessante anche per almeno due altri motivi.

Innanzi tutto è un poco mortificante il confronto con i nostri quotidiani attuali, osservando come in quegli anni (o per posta o con il telegrafo) venissero riportate notizie anche lontane, come poteva essere lontana Firenze dal Monferrato allora (pensiamo ai nostri cronisti attuali che pescano e traducono alla meno peggio le notizie trovate in rete); in secondo luogo ci dice che, malgrado una certa retorica che vorrebbe un ferreo controllo della censura applicata un po’ ovunque, all’epoca venivano invece riportate sui giornali notizie nelle quali il Potere non faceva certo una gran bella figura.

A chi scrive, leggere dei due ingenui agenti che in divisa seguono il Natta e, ingenuamente, non adottano nessuna cautela per dissimulare il pedinamento, ha fatto venire in mente le vignette di Alfredo Chiappori con i due agenti con trench e berretto, onnipresenti in ogni episodio della politica degli anni ‘70…

Tornando comunque al processo, il clima favorevole nei confronti degli imputati e le indubbie lacune dell’attività investigativa fecero il resto.

In effetti il pubblico ministero lo ammette: la polizia non è riuscita a forzare la catena di aiuti e di complicità che si sono venute a creare a Firenze. Con grande onestà intellettuale la pubblica accusa riconosce che non per tutti coloro che sono stati rinviati a giudizio si sono raggiunte prove sufficienti di colpevolezza.

Le cronache dell’epoca riportano che il Pubblico Ministero ha aggiunto serenamente come i vuoti dell’indagine vadano considerati come “i limiti della giustizia umana ai quali con serenità bisognava non arrendersi, ma porre rimedio”.

Un riconoscimento però sente di doverlo esprimere all’onestà della polizia, che ha indagato al limite del possibile e non ha corrotto nessuno, né con danaro né con altri mezzi illegali.

Per quattordici imputati il pubblico ministero ritira quindi l’accusa di cospirazione, chiedendo per gli altri pene ridotte.

La parola passa ai difensori, i quali sono confortati, oltre che dall’alleggerimento delle accuse, anche dal fatto che il 4 agosto precedente la corte di Assise delle Puglie in Trani ha assolto dall’accusa di complotto contro lo stato Enrico Malatesta e 24 imputati. È un precedente che fa ben sperare.

Ed infatti, nel giugno dell’anno successivo la giuria popolare, facendosi interprete dell’opinione pubblica, assolve tutti gli imputati, ad eccezione di due internazionalisti, condannati a pochi mesi di carcere.

Pochi giorni dopo l’assoluzione (e precisamente il 23 luglio 1876), Natta organizza il congresso regionale toscano dell’Internazionale. Rinsaldate le fila toscane, in agosto, a nome della Commissione di Corrispondenza dell’AIL Natta convoca a Firenze il Terzo congresso federale.

Il governo però decide di impedire ad ogni costo il congresso. Così il 19 ottobre, due giorni prima dell’inizio dei lavori, Natta viene puntualmente arrestato, così come Costa, Grassi e decine di altri delegati. La città è completamente presidiata e gli scampati agli arresti si riuniscono in modo fortunoso nei boschi della vicina ma isolata località di Tosi10.

Quando in novembre la nuova Commissione si sposta a Napoli, in previsione dell’azione nel Matese (un tentativo di insurrezione organizzato, tra gli altri da Cafiero, Costa, Pezzi e Grassi), Natta, che nel frattempo è stato rilasciato, rimane a Firenze e qui promuove il Primo Congresso operaio toscano (novembre 1876).

Le ventisei associazioni partecipanti danno luogo in questa occasione alla Federazione Operaia toscana, che esprime il proprio sostegno all’Associazione Italiana lavoratori e ne adotta lo statuto.

In seguito all’azione nel Matese (primavera 1877) le autorità si determinano a sciogliere le Federazioni e le associazioni internazionaliste: con quasi tutti gli esponenti di primo piano in carcere o riparati all’estero, ancora una volta è Natta a tenere le fila dell’organizzazione.

A fine gennaio 1878, grazie all’amnistia per l’insediamento del nuovo re, che favorisce l’assoluzione di tutti i partecipanti ai moti del matese, i vari attivisti arrestati possono far ritorno presso le loro abitazioni, e anche a Firenze riprende l’attività dei movimenti anarchici. Natta, infaticabile, insieme ai coniugi Pezzi e a Grassi organizza in continuazione comizi fuori porta e massicce manifestazioni nel centro stesso della città.

L’8 febbraio esplode una bomba agli Uffizi. Natta, con Grassi e Vannini, nega ogni responsabilità degli internazionalisti, affermando che quel tipo di attentati non sono nelle corde del movimento, e che ci si attende invece il verificarsi “di ben altri avvenimenti”. Da un lato il clima politico interno è infatti molto agitato, dall’altro la crisi internazionale sembra dover sfociare in una guerra europea.

In questo quadro gli anarchici pensano di poter agire nuovamente. In tale direzione vanno quindi i lavori del IV Congresso della Federazione italiana, che si tiene clandestinamente a Pisa nell’aprile, e quelli del convegno altrettanto clandestino dei vertici internazionalisti il 1° ottobre a Firenze.

Il 3 ottobre, in una riunione degli internazionalisti fiorentini a casa di Francesco Natta, si discute sull’organizzazione di un nuovo moto rivoluzionario. A questo punto però la polizia, percepito il fermento in atto, reagisce arrestando tutti gli intervenuti e i maggiori esponenti fiorentini. Natta è arrestato il 3 ottobre, e con lui Luisa Minguzzi e Anna Kuliscioff, appena giunta dalla Russia ed ospite a casa sua. Rimarrà in carcere in attesa di giudizio, con gli altri arrestati, per oltre un anno. La circostanza dell’arresto proprio a casa di Natta dei vari militanti provenienti da diverse parti d’Italia è un’ulteriore prova di come questi sia il riferimento per tutti i rivoluzionari di passaggio da Firenze. La sua casa è definita a tal proposito “il Vaticano”.

Nel resoconto del processo apparso su “La Gazzetta Piemontese” del 27 dicembre 1879 il giornalista scrive appunto che il fatto che la Kuliscioff sia andata a casa del Natta è naturale, “perché non conosceva altra persona in quella città”. Se Firenze è quindi una delle più importanti sedi della riorganizzazione dell’anarchismo, la casa di Natta è il centro dell’anarchismo italiano.

Il processo che ne segue ha un grandissimo impatto sull’opinione pubblica11. Natta viene unanimemente riconosciuto dagli inquirenti e dalla stampa come l’elemento di maggior spicco del movimento. Il cronista de “La Gazzetta piemontese”, riportando l’inizio della requisitoria del P.M., così lo descrive: “Incomincia dal Natta. Nota che il Natta non va semplicemente guardato come un segretario, un socio qualunque dell’Internazionale. Egli era uno dei capi più influenti dell’Associazione ed era per certo l’anima della Federazione fiorentina. Egli formulava i quesiti da discutersi faceva circolari, dava le direzioni opportune, insomma era uno dei capi più autorevoli dell’Associazione” (resoconto dell’udienza del 24 dicembre (?!)

E così anche il cronista de “Il Monferrato” annota: “Francesco Natta, come al solito, comparisce come capo”.

Natta, difeso da Francesco Saverio Merlino, che in seguito assumerà l’incarico di difensore di Gaetano Bresci (anche da tale difesa, di così alto livello, si deduce il ruolo importantissimo svolto dal nostro nell’ambito dell’organizzazione), viene assolto e liberato, come tutti gli altri, il 6 gennaio 1880.

Nel frattempo però viene arrestato il fratello Agenore, pittore decoratore, per la bomba esplosa a via Nazionale il 18 novembre 1878, (il giorno successivo all’attentato avvenuto a Napoli al Re Umberto I, ad opera di Giovanni Passanante) nella quale sono rimaste uccise quattro persone. Ma del suo processo, della sua dura condanna e delle vicende successive tratteremo poi brevemente in seguito.

La repressione attuata dal governo mette in grave difficoltà il movimento internazionalista, che vede tra l’altro in quel momento la svolta legalitaria di Andrea Costa e il rifiuto dei metodi violenti di lotta.

Ancora una volta tocca a Natta tirare le fila dell’organizzazione e mediare tra le posizioni più intransigenti del movimento e quelle più istituzionali di Costa. Il piemontese dà subito vita ad un comitato rivoluzionario segreto che ristabilisce i contatti con gli anarchici rifugiati in Svizzera, cercando quindi di rilanciare l’organizzazione.

A questo proposito, ciò che balza agli occhi seguendo l’instancabile attività di Natta nel tessere le file dell’organizzazione anarchica è la sua abilità a lavorare sottotraccia. Praticamente ogni iniziativa di quegli anni passa per il tramite della sua persona ed egli, malgrado abbia gli occhi della polizia puntati su di sé e a dispetto della notorietà, riesce quasi sempre ad evitare gli arresti; quando invece ciò accade, riesce a non riportare condanne.

Dopo essere stato presentato come candidato di protesta, insieme a Cafiero, alle elezioni politiche del 1882, ed aver ricevuto in verità pochi voti, l’anno successivo Natta è tra i fondatori della Federazione socialista fiorentina, che si riconosce nel programma comunista anarchico.

Sempre nel 1883 firma la circolare che annuncia l’uscita de “La Questione Sociale”, il periodico diretto da Malatesta che diverrà il portavoce degli anarchici allineati su posizioni antiparlamentari e rivoluzionarie.

Nello stesso anno si verifica la rottura di Costa con il movimento anarchico. La sua candidatura e la successiva elezione in Parlamento (primo deputato socialista nella storia d’Italia) determina fortissimi (e in alcuni casi anche violentissimi) contrasti in seno al movimento.

Anche in questo caso Natta dà prova di una concretezza e pacatezza che a mio avviso è il criterio guida della sua vita politica. Infatti, a differenza della maggior parte degli altri anarchici, ritiene che si debba evitare la frattura con Costa.

A tal riguardo polemizza con Errico Malatesta, il quale in una lunga lettera al giornale ha censurato piuttosto aspramente l’opera del neo deputato. Pur marcando la distanza dalla posizione di Costa, Natta ritiene che il contrasto e le polemiche intolleranti e offensive nuocerebbero a tutto il movimento. Riconosce la buona fede sia del compagno non più rivoluzionario, sia dei socialisti romagnoli, i quali ritengono che l’emancipazione del proletariato possa venire dal parlamentarismo. Secondo questi ultimi la differenza fra socialisti intransigenti e legalitari sta nel fatto che i primi si affidano ai metodi violenti, mentre i secondi ritengono che la strada da percorrere debba invece avere i requisiti di un cambiamento che prediliga l’organizzazione e la preparazione della rivoluzione sociale. In sostanza, la discussione verte non sui principi, ma sul metodo di lotta.

Natta, e con lui Pezzi, difendono perciò vivacemente Costa, ritenendolo onesto e sincero e ribellandosi, come “anarchici rivoluzionari intransigenti, a qualunque imposizione che dovesse limitare la libertà di condotta nella propaganda, nella iniziativa, nell’azione12.

Nel 1884, quando Malatesta e Merlino vengono condannati dal Tribunale di Roma come “malfattori” (così all’epoca era definita “l’associazione per delinquere”), Natta è tra i firmatari di un manifesto di protesta che gli costa l’ennesima incriminazione e la condanna in contumacia (il 19 settembre 1884) a 30 mesi di carcere e 3900 lire di multa, per i reati di “offesa al rispetto delle leggi fondamentali dello Stato, apologia di fatti qualificati delitti, offesa contro il diritto di inviolabilità della proprietà e di manifestazione di voto di distruzione dell’ordine monarchico costituzionale per mezzo della stampa”.

Resosi latitante, alla fine del 1884 riesce a fuggire dall’Italia, insieme proprio a Malatesta e ai coniugi Pezzi, e ripara, via Marsiglia e imbarcandosi sul piroscafo Savoie, a Buenos Aires (città che già dà asilo a diversi anarchici), dove sbarca l’ultimo giorno dell’anno13. In questa occasione Malatesta viaggia nascosto in una cassa di macchine da cucire (e la spedizione è probabilmente riconducibile, sia pure sotto falso nome, proprio a Natta, che utilizza il nome della moglie, Elisa Innocenti, da cui è separato) spedite in Argentina per l’intrapresa dell’attività che va ad impiantare a Buenos Aires. E nelle sue memorie racconta in proposito un particolare degno di un film di De Funes: un poliziotto che procedeva alle ispezioni ha aiutato a spostare la cassa nella quale l’anarchico era nascosto14.

Nel marzo 1885 la polizia italiana sa che Francesco Natta, unitamente a Malatesta, ha aperto un laboratorio a Buenos Aires, nella centrale via Corrientes 384, sotto il nome di “Malatesta e Natta”. Ciò grazie all’aiuto di un sarto di cognome Lombardi, fratello di un anarchico rifugiato a Londra ed amico del Malatesta. In realtà il nome della ditta è “Malatesta, Natta, Pezzi e Cia” ed è da ritenere che l’unico a svolgere l’attività sia proprio Natta, mentre per gli altri soci è solo una copertura. Il Ministero dell’Interno italiano ritiene peraltro che l’intrapresa di attività produttive indipendenti da parte di anarchici e socialisti sia soltanto uno strumento per accumulare mezzi finanziari, attesa la facilità di credito reperibile in Argentina in quel periodo, per poi tornare in Italia “alla testa di una spedizione”. La realtà è però ben diversa. Il ministro d’Italia in Argentina fa presente che gli anarchici cercano soltanto di “sostentarsi, divertirsi e anche di fare alcuni risparmii, ma non vistosi per ora, né tali probabilmente neppure pel seguito, che nelle loro immaginazioni”.

Una volta stabilitisi a Buenos Aires, Natta e compagni s’integrano subito nel Circolo Comunista Anarchico fondato l’anno precedente da Ettore Mattei, e successivamente danno vita al Circolo di Studi Sociali (chiamato anche Circolo Socialista) che si riunisce nel café Grütli, dove si svolgono le prime conferenze comuniste anarchiche. In seguito tali conferenze si terranno presso la sede del giornale “La Questione Sociale”, creato dal gruppo e rifacentesi all’omonimo foglio pubblicato a Firenze. Questo giornale è il primo periodico anarchico in lingua italiana pubblicato in Sud America, e ad esso collabora attivamente il Natta, che ne è anche generoso finanziatore. Il giornale incontra però scarso successo, e dopo quattordici numeri si decide di sostituirlo con la pubblicazione di opuscoli, ritenuti più efficaci per la propaganda.

Nel novembre del 1885 Natta fa giungere a Buenos Aires il figlio Temistocle, di 19 anni, con la nave La France, partita da Marsiglia, mentre l’altro figlio, Ezio, diciottenne, arriva l’anno dopo, nel mese di febbraio, sul piroscafo Roma, partito da Genova. È possibile che una volta giunti a Buenos Aires i figli subentrino nel condurre l’attività, mentre il padre, assieme a Malatesta e ad altri tre compagni, parte per l’estremo sud argentino (Cabo de las Islas Virgenes, Patagonia), per un’incredibile corsa all’oro. In realtà la partecipazione del Natta all’avventura è riportata soltanto da due o tre fonti (o forse anche da una sola e riproposta dalle altre), ma ne riferisco ugualmente perché mi è sembrata una storia fantastica15. Un sansalvatorese che, affrontando un viaggio incredibile, giunge fino nell’estremo sud della Patagonia per una corsa all’oro e per giunta per finanziare i propri ideali, era una storia che andava comunque narrata. A prescindere. Non fosse altro per sottolineare come poco più di un secolo fa vi fossero personaggi (Malatesta e il Pezzi partecipano alla spedizione sicuramente) che per un’Idea erano pronti a sopportare una vita di stenti, di pericoli e di avventure in terre sconosciute ed anche ostili.

L’idea è quella di andare in Patagonia a cercare fortuna per finanziare l’opera di propaganda anarchica. Sette mesi dopo, però, nel mezzo del terribile inverno patagonico, i compagni di spedizione decidono di abbandonare l’impresa. Muoiono quasi di fame e devono essere messi in salvo su una nave come naufraghi, per poi essere sbarcati in un porto in prossimità di Buenos Aires.

Tornato a Buenos Aires, Natta riprende la propria attività nel negozio, che nell’annuario generale del 1895 risulta essere stato trasferito a La Plata, la nuova ed elegante città sorta pochi anni prima. Ed il fatto che quell’attività risulti nell’annuario generale lascia intendere che, idea anarchica o meno, gli affari non gli vanno affatto male.

Nel frattempo l’attività a sostegno del movimento anarchico continua incessantemente, trasformandosi sempre più in un’opera di proselitismo e di divulgazione dell’idea anarchica per mezzo di giornali e volantini diffusi capillarmente.

Il primo numero de “La Questione Sociale” esce nella capitale argentina il 22 agosto 1885, mentre l’ultimo di cui abbiamo notizia, il decimo, compare il 29 novembre dello stesso anno. È poi la volta de “El Perseguido”, che è il primo giornale anarchico sudamericano. Il periodico raccoglie fondi non solo a Buenos Aires, ma anche a Rosario, La Plata, Córdoba, Mar del Plata, Luján e in innumerevoli altri paesi dell’Argentina, mentre arrivano anche contributi da alcuni compagni dell’Uruguay, del Brasile, del Cile, del Paraguay, del Nordamerica, della Spagna, di Londra, e persino dal periodico parigino “La Révolte”. Nelle sottoscrizioni raccolte dal giornale compaiono un gran numero d’italiani residenti in Argentina, tra i quali appunto Francesco Natta, il quale, raggiunta una certa tranquillità economica, interviene, oltre che come organizzatore e cofondatore, sempre più come finanziatore. Ed in effetti, l’anarchico Cappellini fa sapere in una lettera al Costa che Natta, ancora a La Plata, si dedica completamente agli affari.

In realtà l’attività di Natta quale promotore di iniziative sul territorio non è affatto venuta meno. Assieme ai figli ventenni, secondo i rapporti della polizia, partecipa spesso alle riunioni dei socialisti di La Plata e di Buenos Aires, essendo “uno degli oratori più considerati ed applauditi in tali riunioni”.

Pochi mesi dopo l’apparizione de “El Perseguido”, il 16 novembre 1890, esce a Buenos Aires “La Miseria”, giornale scritto in lingua italiana che ospita alcuni articoli in spagnolo e qualche piccola rubrica in francese. “La Miseria”, che si dichiara un organo comunista anarchico fin dall’inizio, ha una vita piuttosto breve e cessa le pubblicazioni dopo soli quattro numeri – l’ultimo è del 1° gennaio 1891. Dai tre numeri disponibili sappiamo che il gruppo redazionale è in contatto con anarchici di diverse località argentine, tra cui Mar del Plata, e quindi probabilmente con Francesco Natta e con il figlio di questi, Temistocle.

Attento anche alla situazione delle lavoratrici, il Natta risulta essere finanziatore de la “Propaganda anarquista entre las mujeres”, che pubblica all’interno della rivista “La Questione Sociale” almeno quattro opuscoli, a partire dal marzo 1895. Dal canto suo “La Questione Sociale”, scomparsa verso la fine del 1896, trova continuità in una nuova rivista, questa volta interamente redatta in spagnolo dallo stesso gruppo redazionale. Nell’aprile 1897 nasce infatti “Ciencia Social”, rivista mensile che vivrà fino al febbraio 1900. Prima della cessazione di “La Questione Sociale”, però, il gruppo del giornale pubblica nel 1895 il numero unico “XX settembre”, a proposito della commemorazione della festa patriottica italiana: e nella sottoscrizione per il foglio, pubblicata dalla rivista, appare anche in questo caso, tra i finanziatori, il nostro. Lo stesso vale per “La Anarquía” de La Plata; anche in questo caso tra gli autori delle sottoscrizioni raccolte compaiono i nomi di Francesco Natta e dei figli.

Natta risulta poi tra i finanziatori de “La Voz de la Mujer” di Buenos Aires, primo periodico libertario in America – e forse, al mondo – redatto esclusivamente da donne. Di tendenza comunista anarchica, il giornale era schiettamente femminista. Ad esso Natta dà il proprio contributo attraverso il canale de “La Questione Sociale”.

Negli anni che seguire Natta continua a dividersi tra gli affari16 e la propaganda anarchica che, come abbiamo visto, lo vede sempre in prima fila allorché si tratti di finanziare nuove iniziative a sostegno dell’Idea17. L’ultima notizia che si ha di lui riguarda un’informativa della Polizia Italiana della fine del 1903.

Il governo argentino scatena in quel periodo una violenta repressione antianarchica nella capitale, e Natta si prodiga per i molti che si rifugiano a la Plata. La scheda trasmessa a Roma annota: “nonostante la sua età, egli è sempre l’antico settario convinto e propagandista di un tempo”. Da allora non si hanno più notizie circa le attività del nostro concittadino. Sappiamo solo che muore a La Plata nel marzo del 1914.

In Italia la notizia è riportata da “Il Lavoro” di Prato, il 4 aprile.

 Vita (e sventure) di Agenore Natta

Agenore nasce a San Salvatore il 1 gennaio 1847. Si trasferisce a Firenze con il fratello, svolgendo l’attività di pittore decoratore. Di lui non si conosce quasi nulla, se non il fatto che, come il fratello Francesco, è un internazionalista convinto.

Questo fino al 18 novembre 1878, quando a Firenze esplode in via Nazionale una bomba lanciata contro un corteo monarchico, che provoca diverse vittime (almeno 4) L’attentato segue quello avvenuto a Napoli nei confronti del re Umberto I il giorno prima, compiuto dall’anarchico Giovanni Passanante: e scatta probabilmente la volontà da parte delle istituzioni di trovare in tempi rapidi dei colpevoli e la necessità di comminare ad essi una pena esemplare. Questo determina l’arresto di Agenore Natta con altri sette internazionalisti.

Nel processo che segue Agenore è riconosciuto come uno dei principali responsabili e condannato a vent’anni di lavori forzati. Una pena più grave (l’ergastolo) è comminata soltanto a Cesare Batacchi, uno degli elementi più in vista dell’anarchismo più intransigente fiorentino. Ciò a dispetto del fatto che tutti i condannati protestino vigorosamente la loro innocenza ed estraneità al sanguinoso attentato.

In realtà fin da subito appare all’opinione pubblica come gli otto arrestati siano dei capri espiatori per cercare di bloccare sul nascere le reazioni anti monarchiche e mostrare la forza e l’efficienza delle istituzioni. È sufficiente leggere le cronache del processo per comprendere come l’atmosfera garantista che nel Tribunale di Firenze si è respirata fino a qualche mese prima sia ormai svanita18. La responsabilità di Agenore Natta è determinata sulla base di due semplici affermazioni di presunti testimoni, peraltro prive di altri riscontri, e malgrado l’imputato protestati vibratamente la propria innocenza. Tre anni dopo i due accusatori, riparati all’estero, dichiareranno di loro spontanea volontà, davanti a pubblici ufficiali, di aver inventato le loro accuse su istigazione della polizia, e sosterranno l’innocenza dei condannati19.

In diverse parti d’Italia si promuovono iniziative in favore dei condannati, ma anche a causa del progressivo indebolimento del movimento anarchico fiorentino (i cui principali esponenti, tra cui Francesco Natta sono esuli all’estero) la campagna di stampa non riesce a far luce sull’attentato né ad ottenere la revisione del processo.

Anni dopo (ma saranno ormai trascorsi vent’anni dalla condanna) per iniziativa del giornale socialista “La difesa” si costituirà un comitato, in favore principalmente del Batacchi, a cui parteciperanno rappresentati di tutti i partiti. Tutto ciò porterà alla candidatura del Batacchi, tra le fila dei socialisti.

Agenore Natta, finito di scontare da poco la sua condanna a Pianosa, torna a Firenze tra i compagni il 23 dicembre 1898, in tempo per partecipare alla campagna pro Batacchi, ma rimane sempre strettamente vigilato. Batacchi venne eletto e il suo caso è discusso in parlamento il 10 marzo 1900. Quattro giorni dopo viene graziato. Agenore rimane a Firenze fino al 1922 quando, crollate le speranze del primo dopoguerra e preso atto dell’avanzare del fascismo, espatria in America Latina dove fa perdere completamente le sue tracce. Nel 1929 la polizia lo radia dal Casellario Politico Centrale, servizio in cui venivano schedati i sovversivi. Non se ne saprà più nulla.

 Della mia onestà vado superbo20

Signori Giurati, Voi avete sentito gli argomenti dell’accusa, e quelli dell’egregio avvocato Lupi mio difensore, come ché mi corre l’obbligo di pubblicamente e sinceramente ringraziarlo per avere con tanto zelo perorata la mia causa; con pari affetto ringrazio tutti quegli avvocati che con qualche argomento hanno tentato di attenuare la mia responsabilità. Voi, o signori Giurati, vi trovate di fronte un onesto operaio accusato di cospirazione contro lo Stato, per il sol fatto di appartenere all’Internazionale.

Qualunque possa essere il programma di detta Società, io non prenderò a svolgerlo perché superiore assai alle mie forze. Solo mi limiterò a parlarvi di quella parte materiale del programma che più da vicino mi riguarda come operaio, e per il quale ho preso una parte attiva.

Le ingiustizie e le sofferenze di cui l’operaio è continuamente vittima del capitalista e del monopolio, senza trovar altro che vane promesse, o noncuranza ai suoi giusti reclami, giustificano pienamente l’esistenza di quest’Associazione la quale ha per scopo immediato la organizzazione del Lavoro. Molti sarebbero i quesiti che io vi potrei proporre su questo argomento, senza dubitare minimamente di essere smentito; il primo che io intendo presentarvi, o signori Giurati, è questo: l’operaio d’Italia è esso assicurato da un lavoro quotidiano senza interruzione che lo ponga in circostanze di non dovere per mantenere la famiglia diventare disonesto? Son pienamente sicuro che siete convinti della verità di questo quesito, e quindi ammetterete con me la mancanza del lavoro causa principale in Italia, che appoggia il mio assunto.

Secondo quesito: Questi pochi operai che hanno la fortuna di essere al lavoro, sono essi retribuiti secondo l’opera loro, e ai bisogni necessari della vita? A questo quesito, o signori Giurati, non so se mi potrete rispondere coscienziosamente, perché è ben difficile a chi non operaio il considerare e il vederne i bisogni.

Ma basta che io vi metta davanti un quadro statistico di una classe delle più lucrose fra gli operai in genere per convincervi che purtroppo questa seconda causa è una terribile verità; vi parlerò degli operai meccanici. lo vi mostrerò, Signori, che le officine governative sono le prime a dare il cattivo esempio a quelle particolari nel retribuire l’operaio.

La media del salario nelle officine Galileo, Pia Casa di Lavoro, Ferrovie Romane, l’Arsenale d’Artiglieria di Fortezza, la Fonderia del Pignone, e tante altre che non ricordo il nome, è di L. 2,50 al giorno. Le ore del lavoro giornaliero sono 11 con dei regolamenti insoffribili i quali non si trovano alla casa di forza; notate che in queste Officine non vi entrano che operai onestissimi dietro certificato della questura e molte raccomandazioni; la maggioranza di questi operai onesti e specchiati si trovano con moglie e in media tre figli da mantenere e istruire.

Ora, o signori Giurati, vi lascio considerare se quest’operaio dopo avergli richiesto tutti i requisiti d’onestà e d’intelligenza, è retribuito equamente secondo le esigenze che i doveri che la Società moderna gli ha imposto verso la famiglia.

No, o signori, son sicuro che nella vostra coscienza non potrete ammettere che con due o tre franchi al giorno cinque individui possano onestamente menar la vita in una città, tenuto conto del caro dei viveri e le pigioni di casa; senza considerare le malattie che purtroppo nelle famiglie degli operai sono assai frequenti, e che molte volte lo portano alla dura necessità di vendere anche il letto.

E ben per esso se in mezzo a tutte queste calamità che le circondano riesce a mantenersi onesto, perché se questo bravo operaio onesto e laborioso, per causa di malattie o per qualunque altra causa, disgraziatamente arrivasse a macchiarsi il suo nome, sapete, o signori, cosa gli segue? Tutte queste officine si chiudono per lui, e allora è costretto a menare una vita vagabonda da una bottega ad un’altra mendicando lavoro, senza speranza di sfamare la sua famiglia il domani; di qui, o signori, la fonte di ogni vizio, dalla prostituzione al delitto.

Ma vi è una classe di operai più infelice di quelli che vi ho parlato e che pur nonostante le incombe i medesimi doveri e questi sono i cosiddetti braccianti agricoltori. E quando vi avrò detto quale è la media dei suoi guadagni son sicuro che vi sorprenderà il trovare in essi una virtù così grande per mantenersi onesti.

Questi operai infelici, o signori, guadagnano un franco al giorno in media; ora tolto le feste e il cattivo tempo non si arriva a contare 280 giorni lavorativi nel corso dell’anno. Così avremo in circa la media di 70 centesimi al giorno, coi quali, questo povero disgraziato, deve provvedersi gli arnesi di lavoro, mangiare e vestire con la sua famiglia, e pagare la pigione di casa, ed io gli ho visti questi infelici, nel cuore dell’inverno per la miseria, fare un tragitto di quasi due chilometri a prendervi acqua salata alle sorgenti per farsi la polenta.

Ma non più di questo, o signori.

Se la Società presente che si chiama civile adottasse quell’assioma: non vi è causa l’effetto, e che per avere delle conseguenze buone è necessario avere delle cause migliori; in altri termini se invece di perseguitare le conseguenze, cercassero le cause e queste si condannassero, o signori, voi vedreste su questo banco non noi che siamo le conseguenze, ma ben altri che rappresentano le cause!

Sapete voi, signori giurati, a quali conseguenze portino la mancanza di lavoro, la miseria e l’abbandono di un operaio isolato dalla società?

Domandatelo all’onorevole P.M. che a migliaia passano dalle sue mani i passaporti di questi disgraziati, conseguenza di un sistema, a popolare le case di forza, e io stesso, o signori giurati, benché della mia onestà ne vada superbo, non esito a dirvi che il giorno in cui per mancanza di lavoro fossi costretto ad onta della mia buona volontà nel procacciarmene, ad essere spettatore impassibile del digiuno dei miei figli, cosa orribile a pensarlo solamente, non esiterei, lo ripeto, di fronte a un delitto per sfamare i miei cari.

E allora, o signori, non avrete più davanti a voi un cospiratore, ma un assassino o un ladro, e come tale il P.M. sarà ben lieto di poter strappare da voi un verdetto di colpabilità, crescendo così il numero di coloro che già mi avrebbero preceduto alle galere per le medesime conseguenze.

Un terzo quesito, o signori, sottopongo alla vostra coscienza: Di fronte a questi bisogni, a queste necessità sociali, quali provvedimenti hanno preso gli uomini cui incombe questo dovere? Nessuno. Eppure, se non erro, uno dei provvedimenti è stato preso, capace di tutelare la società da questi affamati e vagabondi, almeno lo credono in buona fede.

Sì, o signori, non contenti dei domicili coatti, inflitti a una quantità di operai creduti rei di vagabondaggio, ci hanno regalata la legge eccezionale di P.S. e quanto questa sia giusta ed opportuna l’onorevole Taiani vel dica per me.

PRESIDENTE: Natta, dovete sapere che non è permesso censurare una legge dello stato, dite tutto quello che volete a vostra difesa ma rispettate le leggi esistenti.

NATTA: Non credo di aver mancato di rispetto alle leggi; ho detto soltanto: “Quanto la legge eccezionale sia giusta ed opportuna vel dica per me l’onorevole Taiani”

PRESIDENTE: Queste parole sono una censura.

NATTA (proseguendo): Ma ecco, o signori, che la logica dei fatti porta naturalmente ad una considerazione, e nello stesso tempo ad una domanda.

Come mai al grido degli operai italiani, parlo di quelli onesti che chiedono continuamente lavoro, si risponde con le ammonizioni e deportazioni per vagabondaggio? lo lascio a voi la risposta, e non mi allungherò di più su per questo terreno pieno di angosce. Solo mi limiterò a dirvi che la innumerevole emigrazione di operai italiani, mentre le arti e la terra poltriscono, mi dà pienamente ragione.

Su un ultimo argomento, o signori, vi domando con preghiera la vostra attenzione.

L’onorevole P.M. nella sua requisitoria vi ha parlato dell’Associazione Internazionale inglese confrontandola con quella Italiana, ed ha conchiuso che le operazioni fatte dall’Internazionale inglese sono pienamente nei suoi diritti, e legalmente approvate Britannico, perché se da un lato la Internazionale alle esigenze dei capitalisti [si] oppone spiegando le sue forze con uno sciopero imponente, dall’altro lato, sempre legalmente, e senza l’intervento della polizia, i capitalisti coalizzati alla loro volta oppongono la chiusura delle loro fabbriche finché un accordo non sia venuto, il quale fin qui fu favorevole agli operai.

Ma, o signori, in Italia è ben diversa la situazione economica e sociale degli operai.

Mentre in Inghilterra l’operaio non deve rivendicare dai capitalisti che il frutto intero del proprio lavoro, in Italia invece si presenta per l’operaio la necessità di rivendicare in prima linea il diritto di lavorare, cosicché mentre in Inghilterra il lavoro è un dovere, in Italia invece costituisce un diritto che ancora l’operaio non ha dal governo potuto ottenere. E sapete a questo grido di diritto al lavoro innalzato da- gli operai italiani come si usa rispondere? Vi citerò un fatto, o signori Giurati, che risponderà pienamente a questa mia domanda.

Nel 1872 verso la metà dell’inverno, la sezione dei muratori del Fascio operaio fiorentino contava da 300 di operai, quasi tutti con famiglia, privi di lavoro.

Il Fascio operaio in una sua adunanza per provvedere affinché non avvenissero disordini nella città, e nello stesso tempo dare la sussistenza a queste 300 famiglie, deliberò di fare istanza al municipio di Firenze, affinché volesse patrocinare presso gli accollatari di lavori in arte muraria, di spettanza del municipio questi stesso, a riaprire il corso delle costruzioni, state malignamente e egoisticamente troncate da questi accollatari, per il solo motivo che essendo le giornate d’inverno assai più corre non trovavano il loro tornaconto. Facendoli in ultimo osservare che i lavori decretati dai municipî, devono aver di mira principalmente non l’ingrassare accollatari, ma bensì deve alla sussistenza di tanti operai che fatalmente spesse volte li manca.

Fu nominata un’apposita commissione incaricata di presentare al municipio in nome del Fascio operaio la suddetta istanza.

Il rappresentante del municipio rispose che avrebbe sottoposto la nostra istanza al Consiglio comunale, e che fra qualche giorno si avrebbe saputo il risultato.

Sapete quale fu il risultato? E non si fece molto attendere; il giorno dopo con decreto dell’illustrissimo signor prefetto si scioglieva l’Associazione del Fascio operaio e non si è mai saputo quali fossero i motivi, solo vi posso dire che il Fascio operaio fu sciolto e i lavori municipali non furono aperti.

Dunque o signori Giurati dietro a questi eloquenti fatti, in Italia si deve conchiudere che l’operaio legalmente non può che piangere le sue miserie in seno alla famiglia, soffocando però quei gemiti, affinché non vengano sentiti in pubblico, correndo il pericolo di essere cambiati come voci sediziose, e come tali condannati.

Conchiudo adunque col dire che l’Internazionale in Italia, si presenta sotto un aspetto assai diverso a considerarsi da quello del Pubblico Ministero.

La Internazionale come associazione dei lavoratori in Italia, rappresenta la voce straziante di migliaia di operai onesti che mancanti di lavoro, o mal retribuiti, sorgono a protestare contro chi ne è la causa.

La Internazionale, o signori, non ha mai cospirato contro lo stato e sarebbe un assurdo il crederlo.

Composta come è di operai, la questione principale e immediata per essi è assicurarsi il pane e il lavoro per sé e loro famiglie, lasciando lo svolgimento dei suoi programmi al tempo e alla scienza. Voi non dovete considerare la Internazionale dai suoi congressi o da qualche lettera o documento privato che nulla vi provano, ma che invece letti spassionatamente e spogliandoli di qualche frase che inconsideratamente oppure in un momento di dolore avrà potuto l’autore dei medesimi lasciarsi sfuggire alla penna, vi troverete a ogni passo invece i gemiti dell’angoscia, della miseria, e della disperazione.

Voi vi rammenterete, o signori Giurati, la situazione d’Italia nel luglio e agosto 1874, vi ricorderete le sommosse di piazza per il caro dei viveri, e per la mancanza generale di lavori, e son più che persuaso che nella vostra coscienza sarete convinti, che questa mancanza di lavoro non fosse una scusa, perché allora non si potrebbe conciliare l’assalto alle botteghe dei fornai delle madri, nella città di Pisa in mezzo alla florida Toscana, e in diversi comuni delle Romagne, strappandosi il pane di mano l’una coll’altra, per correre a sfamare i loro cari.

Ebbene, o signori, dietro questi strazianti fatti furono fatti degli arresti, condannati come incitatori a commettere il saccheggio diversi individui, più fu incolpata la Internazionale come causa principale di detti disordini e vollero in questa anche la cospirazione.

Ora, o signori Giurati, se considerando questi fatti e come liberi cittadini, e di una classe agiata della società, di fronte a una moltitudine affamata di operai privi di lavoro, con dei vecchi impotenti, e dei pargoli macilenti fra le braccia delle loro madri squallide e smunte dalla miseria, che sorgono spinti non dai raggirı di un partito, ma da una causa assai chi potendo non prende rimedio, e che invece di provvedervi, e lavoro, potente, cioè la miseria; sorgono dico, a tumultuare contro immaginano una cospirazione impossibile; se credete che questi infelici ma onesti operai, che chiedono siano degni di casa di forza, allora non mi rimane altro che subire con calma la mia sorte, convinto che non ho nulla a rimproverarmi.

Ma se invece, nella vostra coscienza ho potuto penetrare quel grido straziante, che con le mie deboli forze ho cercato richiamarvi alla mente, oh allora non dubito di trovare in voi un atto di giustizia, e per me sarà un giorno di gioia abbracciando i miei figli poter dire: non tutti i borghesi sono insensibili!

NOTE

1 La storia di Giovanni Passanante meriterebbe un doveroso approfondimento; per alcune note al riguardo, cfr., in rete, Treccani Dizionario Biografico degli Italiani.

2 L’episodio dell’arresto di Anna Kuliscioff a casa di Francesco Natta, è visibile al seguente indirizzo: https://youtu.be/o8knfXNRCY a partire da 1h, 08’ 32”

3 Così l’Avv. Alessandro Bottero ne “Dibattimenti nel processo per cospirazione e internazionalismo innanzi alle Assise di Firenze” 1875, descrive Francesco Natta, con una presentazione che lo fa entrare nel processo (e nella nostra storia) da protagonista, riservandogli una descrizione pressoché unica rispetto a tutti gli altri coimputati.

4 Pier Carlo Masini, Storia degli anarchici italiani da Bakunin a Malatesta, Rizzoli, 1969, pag. 189

5 Angelo Toninelli, “Un sogno d’amore”, Edizioni ETS, pag. 99

6 Giuseppe Dolfi, Il “capopopolo” del 1859, fra sovranità nazionale, democrazia, diritti sociali, A cura di Armando Nicolai, Ed. dell’Assemblea, pag. 54

7 Bibilioteca Serantini, Collezioni digitali

8 Riccardo Bacchelli, Il Diavolo al Pontelungo, Mondadori 1957

9 Giuseppe Scarlatti, “L’Internazionale dei lavoratori e l’agitatore Carlo Cafiero, 1909, pag. 69

10 La vicenda del congresso di Firenze ha dei risvolti addirittura rocamboleschi. Dopo gli arresti degli esponenti più in vista i delegati decisero di spostare l’incontro nella vicina Scandicci: ma anche lì furono intercettati dalle forze dell’ordine, che decimarono ulteriormente il gruppo. Altro spostamento, questa volta in una locanda nei pressi dell’abbazia di Vallombrosa, ma ancora una volta la polizia fece irruzione. I superstiti finirono per riunirsi all’aperto, nei boschi, in due giornate (22-23 novembre) particolarmente fredde e piovose. Quel che non avevano fatto le forze di polizia venne completato probabilmente dalla polmonite.

11 Il processo ebbe grandissima risonanza e l’aula era sempre affollatissima. La stampa del banco degli imputati, posta nella prima pagina di questo lavoro, fu realizzata dal famoso Eduardo Ximenes per “L’Illustrazione Italiana” che così descrive, la Kuliscioff: “Il personaggio più interessante era una donna, Anna Kouliscioff, di 22 anni, nata a Mosca, maestra di lingue, intima amica di Andrea Costa, espulsa dalla Russia e dalla Francia. E una donnina piccola, svelta, simpatica, vestita con eleganza, un cappellino tondo e due trecce bionde le scendevano dalle spalle. Ha parlato con gran fuoco, con ardire, contro la società moderna che è tutta da cambiare”. Anche la rivista il Monferrato nell’edizione del 12 dicembre 1879 – evidentemente riprendente le cronache locali – così descrive la giovane russa: Essa è una vezzosissima donnina gentile di modi e di persona esilissima, pallida in volto, ma di lineamenti con una magnifica capigliatura biondissima. La sua fisionomia è tutto quanto si possa desiderare di delicato e simpatico. Tiene un contegno riservato, ma sciolto, senza impacci. È istruitissima e parla cinque lingue compresa l’italiana che imparò nel tempo della sua carcerazione”. Anche Carlo Lorenzini (Collodi) assistette alle udienze e rimase folgorato dalla giovane rivoluzionaria russa ed in seguito affermò d’aver modellato il personaggio della Fata Turchina sulla sua persona dichiarando appunto che per il personaggio della fatina dai capelli turchini “si era ispirato alla forza magnetica emanata da Anna Kuliscioff nell’aula di tribunale”. “La Repubblica”, 4 maggio 2007, Giuseppe Barbalace, Alle radici del femminismo, Mondoperaio 8-9/2016, p. 107

12 Fondazione Modigliani, Bibliografia del socialismo e del movimento operaio

13 Politica, Istituzioni, Storia. Le valigie dell’anarchia, di JA Canales Urriola, 2016, pag. 200. Nella lista degli sbarcati del Savoie, proveniente da Marsiglia, compare il nome di Francesco Natta, (40 anni, sposato, agricoltore, analfabeta (Vd listado de pasajeros 1882 a 1920 in S. Lamperti e M Risani – Website “Barcos de Agnelli). Il fatto che il Natta si dichiari agricoltore e analfabeta, denota chiaramente l’intento di nascondere la sua reale identità, ndr.

14 Brigate volontarie d’altri tempi, Malamente, 18 giugno 2020

15 Anarchisme en Argentine, Wikipedia; Calabresi sovversivi nel mondo, a cura di Amelia Paparazzo, Rubettino Ed. 2004

16 Gli affari dovettero andare piuttosto bene al Natta posto che la ditta, ormai Natta e hijos, con sede a La Plata è è inserita nell’annuario generale del 1895 sia sotto la voce “armaioli” sia sotto la voce “macchine da cucire”.

17 Tutte le notizie riguardanti i fogli e le pubblicazioni di propaganda cui il Natta partecipò alla stesura e finanziò sono tratte dal già citato Politica, Istituzioni, Storia, Le valigie dell’anarchia di JA Canales Urriola, 2016.

18 Archivio Storico “La Stampa”, maggio 1879

19 Cfr. la voce Batacchi Cesare, in Dizionario Biografico degli Italiani, di Luciano Trentin

20 Tratto da Dibattimenti nel processo per cospirazione e internazionalismo innanzi all’Assise di Firenze raccolti dall’Avv. Alessandro Bottero, Roma, pp. 503-506

Umanesimo socialista

a cura di Paolo Repetto, 30 ottobre 2018

Umanesimo socialista

Quell’umanesimo socialista

Il senso della lotta

Le due anime

L’associazione

Capitalismo e libertà

Nella foto in copertina, il piedi: Heinrich Blücher, Hannah Arendt, Dwight Macdonald, Gloria Lanier; seduti: Nicola Chiaromonte, Mary McCarthy, Robert Lowell, 1966

Intervista a Pietro Adamo

realizzata da Franco Melandri

Quell’umanesimo socialista…

 

L’esperienza e la riflessione preziosa di quel gruppo di pensatori militanti, antifascisti radicali, come Rosselli, Caffi, Berneri, Chiaromonte, che videro anzitempo la natura dei due totalitarismi e rifiutarono il rivoluzionarismo finalista, in nome di una sperimentazione di società aperte, libere, in cui anche il mercato, liberato dall’orrore capitalistico, diventasse fattore di liberazione e di libertà. Intervista a Pietro Adamo.

Pietro Adamo, storico delle idee, si occupa principalmente della cultura politica del protestantesimo e della tradizione libertaria. Fra i suoi libri: Il dio dei blasfemi. Anarchici e libertini nella rivoluzione inglese (ed. Unicopli, 1993); La libertà dei santi. Fallibilismo e tolleranza nella rivoluzione inglese (ed. Franco Angeli, 1998); La città degli idoli. Politica e religione in Inghilterra 1524-1572 (ed. Unicopli, 1999). Ha recentemente curato la pubblicazione di Anarchia e società aperta. Scritti editi e inediti di Camillo Berneri (ed. M&B Publishing, 2001).

\r

\r Uno dei punti di crisi della sinistra attuale è senza dubbio quello della cultura politica. Tuttavia una recente serie di studi su personaggi come Carlo Rosselli, Andrea Caffi, Francesco Saverio Merlino, Camillo Berneri, Nicola Chiaromonte, per molto tempo tenuti ai margini dalla sinistra stessa perché in vario modo considerati ‘eretici’, fa pensare che siamo all’inizio di una ricerca dopo anni di sostanziale apatia…

\r Il motivo per cui negli anni ‘90 si sono intensificati gli studi sulle correnti ‘eretiche’ della sinistra (cioè del campo socialista, libertario, liberal-socialista) è da far risalire al crollo del Muro di Berlino e alla fine dell’Unione Sovietica. Dopo quegli eventi, infatti, non c’è più alcuna possibilità di pensare il socialismo in termini marxisti o marxisteggianti, per cui, se non ci si vuole appiattire sul capitalismo attualmente trionfante, è necessario cercare nella storia e nella cultura della sinistra dei ‘padri nobili’, dei primogenitori rispettabili che non siano stati coinvolti con il socialismo di stato in versione totalitaria. Questo è il motivo per cui, a proposito e a sproposito, oggi tutti, da D’Alema a Veltroni a Amato, citano Rosselli, Gobetti o Chiaromonte. Detto questo, tuttavia, bisogna anche aggiungere che sia a livello prettamente teorico sia a livello politico il rifarsi a questi ‘padri nobili’ non implica, né può implicare, un’adesione alle loro indicazioni. Se infatti nelle elaborazioni di Caffi, Chiaromonte, Berneri, Rosselli, eccetera, si volessero trovare delle soluzioni bell’e pronte per i problemi dell’oggi si farebbe un errore clamoroso, si andrebbe fuori bersaglio. Sono infatti passati settant’anni dalle riflessioni e dagli scritti di questi autori, la società è cambiata, l’universo mentale della gente è cambiato, per cui, per fare un esempio, un suggerimento come quello rosselliano circa un’economia ‘a due motori’ -pubblico e privato- presa in sé si rivela semplicistica, già superata dai tempi. In Italia, nel dopoguerra, tale suggerimento venne in parte accolto ed i problemi che oggi dobbiamo affrontare derivano proprio dall’intreccio che si è creato fra i due motori di questa economia: sappiamo bene che essi si sono trasformati da un lato nel protezionismo occulto dell’impresa privata, dall’altro nella crescita esponenziale della burocrazia e dell’intervento statale nell’economia…

\r La vera ragione per interessarci di questi autori, perciò, non sta tanto nelle loro indicazioni pratiche, quanto nel fatto che rappresentano il tentativo dell’antifascismo radicale di trovare una risposta ai problemi posti dall’ascesa dei totalitarismi continuando a tenere alta la domanda su come sia pensabile e possibile una società libera. Da questo punto di vista questi autori mettono in luce una cultura estremamente ricca, in cui possiamo trovare tantissime cose che si confanno alle nostre aspettative anche se questi settori dell’antifascismo rappresentano un’esperienza ‘saltata’, nel senso che le loro elaborazioni non sono mai entrate non solo nella coscienza politica della nazione, ma neanche nella progettualità di qualche componente politica della sinistra italiana. Per la sinistra l’averli accantonati è stata una grave perdita, perché su molte questioni furono particolarmente acuti e preveggenti. Oggi si parla molto della questione del totalitarismo, ma l’idea che il comunismo fosse un’altra forma di totalitarismo, che fascismo e comunismo fossero due facce della stessa medaglia, nasce proprio in questo ambito, negli anni ‘30.

Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte, Tuluza 1947
Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte

\r È un’idea che non nasce con la Arendt, ma dalla cultura politica di questi militanti. In verità, proprio riguardo al dibattito sul totalitarismo, gli italiani hanno avuto un’importanza non da poco ed è forse possibile vedere proprio in loro una delle radici genealogiche del pensiero della Arendt: negli Stati Uniti la Arendt era collaboratrice di Politics, la rivista di Dwight Macdonald, nella quale sono comparsi scritti di Chiaromonte e Caffi (con Chiaromonte, fra l’altro, la Arendt fu molto amica). Non è del tutto assurdo sostenere che una radice dell’analisi arendtiana del totalitarismo affondi proprio in questo laboratorio. Questi “militanti che pensavano”, secondo me, hanno proposto un nucleo di riflessione intorno alla questione del totalitarismo molto importante e fruttifero, forse più fruttifero del lavoro dei vari scienziati della politica, soprattutto per il tentativo che questi militanti-pensatori compirono di pensare una società libera come frutto di una rivoluzione antifascista. Da questo punto di vista le loro teorizzazioni sono molto interessanti perché sono dei possibili punti di partenza per ripensare i problemi attuali della politica. Il Polo delle Libertà, ad esempio, si è impadronito della parola d’ordine della libertà e presenta, non a torto, il liberismo come una delle principali strategie del vivere libero; dall’altra parte la sinistra si è totalmente amputata la possibilità di discutere delle possibilità di libertà insite in una politica di liberalizzazione e si è arroccata a difesa degli interessi corporativi. Tuttavia, se si va a vedere come pensavano una società libera i vari Berneri, Rosselli, Gobetti, allora ci si accorge che tutti loro valutavano in modo estremamente positivo il liberismo, anche se, naturalmente, lo pensavano in termini eticamente forti, per cui non lo vedevano solo nel liberismo economico in senso stretto, ma come il cemento possibile di una società libera.

\r Il principale difetto del liberismo berlusconiano, invece, sta proprio nell’essere un liberismo che riguarda la sola economia: quando i conservatori italiani parlano di liberismo, infatti, parlano semplicemente e sostanzialmente della libertà degli imprenditori di fare tutto quello che vogliono. Questo, per loro, è il liberismo, mentre quando si parla di altre cose -di diritto di famiglia, di sesso, di droga, eccetera- questo liberismo della destra scompare come neve al sole e viene fuori la faccia vera del conservatorismo autoritario. Lo si vede anche nei presunti portavoce liberali: qualche anno fa Galli della Loggia (cui rispose con sagacia Nadia Urbinati, dalle pagine di Critica liberale) sostenne che lo stato aveva il pieno diritto di controllare il tipo di sostanze che assumevano i suoi cittadini, la qual cosa è quanto di meno liberale, quanto di meno liberista, uno possa mai immaginare.

\r Ma come vedevano in realtà il liberismo questi militanti-pensatori?

\r Va innanzitutto detto che fra i personaggi di cui parliamo c’erano differenze anche profonde, soprattutto dovute alla loro provenienza politica e al pubblico cui si rivolgevano. Così, ad esempio, Berneri rimase per tutta la vita un anarchico e agli anarchici soprattutto si rivolgeva; Rosselli era un socialista, ma anche un liberale, e si rivolgeva agli appartenenti ad entrambe le tradizioni e così via; va anche detto che le loro riflessioni trovarono numerosi punti di contatto e di consonanza. Il caso del liberismo è uno di questi: sostanzialmente lo vedevano tutti in termini etici, cioè come valorizzazione ad oltranza del pluralismo e della differenza, la qual cosa implica la libera sperimentazione come principio integrale che ispira la vita associata; libera sperimentazione che, evidentemente, ha uno dei campi d’applicazione certo nell’economia, ma lo ha anche nella vita sessuale, nella vita associativa, eccetera. L’idea generale era quella di valorizzare le possibilità di sperimentare liberamente ogni tipo di attività umana e all’interno di questo paradigma veniva valorizzata anche l’idea di una libera intrapresa economica. In un periodo in cui i totalitarismi presentavano come ipotesi costruttiva l’idea di uno stato fortissimo, per molti di questi autori la valorizzazione dell’intrapresa economica individuale diventava anche momento di difesa nei confronti dell’invasività dello stato.

\r Una delle cose che colpiscono è il fatto che questo gruppo di persone di origini e appartenenze politiche diverse, trovasse necessaria una discussione in qualche modo comune: Berneri discuteva con Rosselli e aveva collaborato con Gobetti; Caffi e Chiaromonte erano membri di Giustizia e libertà, ma anche vicini a posizioni libertarie…

\r Quando noi pensiamo a questi gruppi, dobbiamo avere presente un fenomeno, cioè l’emigrazione antifascista in Francia, soprattutto a Parigi, dove nella prima metà degli anni ‘30 convergono buona parte degli intellettuali giellisti, buona parte degli anarchici, Berneri in particolare, ma dove finiscono anche dei repubblicani radicali come Schiavetti e Montasini, essi pure vicini alle posizioni di Berneri, e la cosiddetta ‘ala libertaria’ del Partito Socialista, e cioè gente come Alberto Jacometti e, fino a un certo punto, Angelo Tasca. In questo ambiente di fuoriusciti, in cui tutti conoscevano sostanzialmente tutti, al di là delle diverse appartenenze politiche, a mio giudizio si crea una sorta di cultura antifascista radicale, nel senso di una cultura antifascista che mira non solo alla rivoluzione in Italia, ma ad un completo rovesciamento dello stile di vita politico prefascista. Gente come Rosselli, Chiaromonte, Berneri, infatti, non solo si proponeva di abbattere il fascismo in Italia, ma vedeva in questo il passaggio necessario per costruire un’altra Italia. Come dicevo, ad unificare questi militanti-pensatori era la domanda su quale potesse essere una società libera -più o meno socialista, più o meno liberista a seconda delle convinzioni individuali- scartando quelle opzioni che, all’epoca, sembravano condurre necessariamente verso il totalitarismo. Tutto questo implicava non solo scartare il comunismo in senso stretto, ma anche qualsiasi tipo di orizzonte finalistico, cioè l’idea che la società libera sarebbe stata una società perfetta, oltre la quale non sarebbe stato più possibile andare.

\r Per quanto riguarda poi la figura di Berneri, che come accennavo prima si confrontava con gli anarchici e si considerò anarchico per tutta la vita, a tutto questo si aggiungeva anche la necessità di ripensare in toto la politica -che invece gli anarchici rifiutavano e rifiutano- vedendone le possibili estrinsecazioni in chiave libertaria. Il ripensamento della politica, comunque, è un altro tratto unificante di questo variegato gruppo, e le risposte che essi dettero furono altrettanto variegate, andando dagli abbozzi di una democrazia libertaria, fondata sulla libera federazione di comuni, sui sindacati e sui consigli operai, elaborata da Berneri (ma che trovava in linea di massima concorde Rosselli), alle proposte di democrazia liberale conflittuale, mutuate da Gobetti, fatte da alcuni esponenti di Giustizia e libertà.

\r Questi temi rappresentavano un tratto d’unione perché buona parte di questi intellettuali avevano radici comuni, essenzialmente rappresentate da due personaggi: Piero Gobetti e Gaetano Salvemini, per molti di loro punti di riferimento imprescindibili. Berneri, ad esempio, certamente fu molto stimolato da Gobetti -che, non va dimenticato, morì nel ‘26, cioè appena all’inizio della forte emigrazione antifascista-, ma il suo imprescindibile punto di partenza fu sicuramente Salvemini, che fu un riferimento importante per lo stesso Rosselli. Era questo ‘universo culturale’ ad unificarli veramente: Ernesto Rossi, nonostante fosse incarcerato per quasi tutto il periodo fascista, in qualche modo, dal carcere, partecipa a questa temperie culturale proprio in virtù del presupposto salveminiano che lo unisce agli altri. E’ per questo che egli, pur isolato in carcere, finisce per pensare sostanzialmente quello che Berneri, Caffi, Rosselli o Montasini o Jacometti pensano nell’esilio francese.

\r C’era, insomma, una sorta di percorso comune dato dalle circostanze.

\r Ma questi intellettuali militanti come si ponevano i problemi del capitalismo, dell’anticapitalismo, del socialismo?

\r Questi autori sono quasi tutti accomunati da una feroce sensibilità anticapitalistica, anche se bisogna chiedersi che cosa fosse per loro il capitalismo, che cosa intendessero per capitalismo. A ben guardare, la maggior parte di loro intendeva il capitalismo come una perversione di fondo dei valori del mercato. In molti di essi a me pare di cogliere il tentativo di operare una distinzione tra il capitalismo realmente esistente e una società di mercato ideale. Alcuni di essi teorizzarono tale distinzione in modo specifico, cioè sostennero molto semplicemente che è possibile pensare a una società di mercato senza che questa necessariamente finisca nell’orrore capitalistico.

\r Certamente quello che quasi tutti criticano nel capitalismo è la perversione del mercato, cioè la trasformazione dei rapporti umani sulla base di rapporti economici, analisi non lontanissima da quella marxista classica. Ma accanto a questa c’è anche la valorizzazione di un certo tipo di eredità liberale, per cui il mercato viene immaginato essenzialmente come il risultato di una libera contrattazione tra individui che scelgono. Sono concezioni che troviamo in Berneri, in Rosselli e, senza arrivare a teorizzare il socialismo, persino in Gobetti: grande avversione per il capitalismo così come esso si è sviluppato e, di contro, un’ipotesi di lavoro che si muove attorno al problema della società giusta e libera, che per molti di loro voleva appunto dire socialismo.

\r A proposito della concezione che essi avevano del socialismo, però, occorre fare la stessa distinzione fatta a proposito del capitalismo, visto che in quasi tutti, da Berneri a Rosselli, da Caffi a Chiaromonte, quello che viene chiarito a fondo è che l’unico socialismo accettabile è un socialismo chiaramente libertario, che per loro, detto in soldoni, significava la necessità che venisse in qualche modo garantito al produttore il controllo del suo prodotto.

\r In questa ottica Berneri recupererà anche l’esperienza dei consigli operai, emersi sia all’inizio della rivoluzione russa sia nella brevissima esperienza della Repubblica dei Consigli di Baviera del 1919, sia nell’occupazione delle fabbriche italiane, nei primi anni ‘20. In sostanza, comunque, il modo in cui tutti loro pensavano il socialismo era radicalmente diverso dal modo in cui lo pensava il marxismo (per il quale il socialismo, fatto coincidere con la statalizzazione dei mezzi di produzione e scambio, era il punto d’arrivo reso necessario dallo sviluppo della stessa società capitalistica).

\r Essi lo vedevano non tanto come una precisa serie di soluzioni politico-economiche, ma soprattutto come una sorta di sovrastruttura umanistica della società. Certo essi pensavano anche a forme di socializzazione economica, ma quando parlano di socialismo si riferiscono essenzialmente all’idea di una società che si pensa come tale, cioè ad una società fondata su una serie di vincoli umanistici precisi, in particolare il riconoscimento della dignità di ogni persona, del singolo individuo.

\r Questa, comunque, è una riflessione che negli anni ‘30 non appartenne solo agli italiani. Un autore che rifletté su questi problemi fu Emmanuel Mounier, il filosofo francese teorico del personalismo, molto spesso sottovalutato, che arrivò a teorizzare un socialismo umanistico di questo tipo, con grandi sfumature libertarie e antistatalistiche. Non a caso scrisse un saggio, Anarchia e personalismo, in cui c’è una riflessione sulla tradizione anarchica e sull’utilità che questa può avere proprio per un socialismo di questo genere.

\r La visione che del socialismo avevano gli antifascisti radicali, pur nelle diverse versioni, aveva quindi degli elementi di collettivismo, ma di un collettivismo non statalistico; un collettivismo che doveva essere il prodotto della libertà di associazione e, contemporaneamente, un’ipotesi umanistica sulla struttura della società. Considerando tutto questo, perciò, mi pare che, in verità, la contrapposizione fra socialismo e capitalismo operata da questi pensatori sia più che altro una contrapposizione etica, non una contrapposizione specificamente relativa agli strumenti dell’economia.

\r Dicevi prima che un altro elemento che accomuna questi intellettuali è il loro abbandono di ogni prospettiva finalistica e, quindi, dell’idea di rivoluzione intesa come fatto palingenetico…

\r Tutti loro, in verità, non superarono affatto il dilemma della rivoluzione, nel senso che tutti pensavano all’Italia libera dal fascismo come al frutto di una rivoluzione che doveva essere contemporaneamente antifascista e antigiolittiana, cioè una rivoluzione che spazzasse via radicalmente anche il liberalismo conservatore che proprio nel giolittismo si era incarnato. In questo senso, perciò, tutti loro continuarono comunque a pensare ad una frattura decisiva nella storia, una frattura che, in qualche modo, doveva azzerare, in tutto o in parte, quello che c’era stato in precedenza.

\r Nel loro pensiero, quindi, resiste questo mito della rivoluzione come atto fondativo, tant’è che il problema politico immediato che si ponevano era cosa fare per avere una rivoluzione in Italia. Tuttavia è anche vero che il loro modo d’immaginare la fattura rivoluzionaria era assai diverso da quello che si era affermato nell’800.

\r La maggior parte dei pensatori ottocenteschi di area socialista, fossero essi marxisti, anarchici o socialdemocratici, infatti, vedeva la rivoluzione come un evento di tipo decisamente millenaristico, cioè come il fatto che non solo apriva le porte di un mondo nuovo, ma anche di un mondo finale.

\r Per loro, cioè, la rivoluzione era l’atto che doveva porre fine a tutte le altre rivoluzioni e alla necessità della politica come confronto fra diversi interessi e visioni del mondo. Al contrario, soprattutto la riflessione di Berneri, Rosselli e di molti giellisti, tenderà a concepire la rivoluzione certo come evento che apre una nuova era, ma un’era che non viene affatto vista come la società perfetta, la società finale, il paradiso sulla terra, bensì come un’era in cui ci sarà la possibilità di ripensare a fondo i problemi della politica, dello stato e dell’economia, sperimentando le soluzioni più diverse. E’ in questa prospettiva che quasi tutti loro, in un modo o nell’altro, accetteranno quello che io, prendendo a prestito un’espressione cara agli anarchici, chiamo il paradigma della ‘libera sperimentazione’. Questi intellettuali, cioè, penseranno alla società libera come ad una società in cui il conflitto e l’interazione fra le diverse ipotesi di associazione economica, politica, sociale, non sarà affatto risolto, ma sarà un farsi dinamico. Penseranno quindi alla società socialista non come ‘società finale’, ma come una società che si è messa sulla buona strada, in cui però sempre resta ancora molto lavoro da fare; una società che è uno stadio di un più generale movimento di progresso e non lo stato finale di questo stesso progresso.

\r E’ all’interno di questo paradigma che il problema della politica, delle istituzioni e dello stato viene ripensato. C’è in tutti loro, in particolare in Rosselli, Berneri, Caffi, una profonda sfiducia nei confronti dello stato moderno e della democrazia rappresentativa, almeno per come essa si era realizzata prima del fascismo e del nazismo.

\r Lo stato e le istituzioni vengono quindi ripensate come il quadro di riferimento generale che da un lato garantisce una serie di libertà personali e collettive, mentre, dall’altro, è lo spazio all’interno del quale si sviluppa la dialettica fra le associazioni cooperative, i sindacati, i comuni, a loro volta visti come il vero centro della vita e della partecipazione democratica. In tutti questi intellettuali permane poi, pur senza alcuna mitizzazione (proprio Berneri fu autore di L’operaiolatria, un saggio radicalmente critico delle concezioni operaiste), la fiducia nelle capacità popolari e la convinzione che la partecipazione popolare sia non solo utile ma necessaria. E’ per questo che essi sviluppano un’idea della sovranità -cioè dell’elemento ‘sorgivo’ dello stato, che ne determina poi anche la natura specifica- che fa perno sul decentramento, per cui la sovranità non si accentra in un singolo organismo, ma, al contrario, va posta in una rete di relazioni sempre in divenire tra le istituzioni, le associazioni e i cittadini.

\r Berneri, che anche per la sua storia personale è quello che si confronta più radicalmente con la tradizione rivoluzionaria e con questi problemi, sottolinea la necessità, la non eliminabilità, della politica intesa non in senso funzionale, ma proprio in senso forte, cioè appunto come confronto e scontro fra diversi interessi e diverse visioni del mondo. Tutto questo lo porta, per esempio, a sottolineare la diversità costitutiva che esiste fra istituzioni fra loro coordinate e governo, sostenendo che quest’ultimo, in quanto sede centralizzata di decisione, si può abolire, mentre non si può abolire l’elemento istituzionale all’interno del quale, reticolarmente, anche la funzione decisionale del governo può essere diluita. Questa concezione è ovviamente assai diversa da quella dello stato-nazione ottocentesco, nel quale non solo governo e istituzioni finiscono per coincidere, ma il governo è l’elemento di direzione di una società in sé considerata sostanzialmente informe.

\r Dicevamo all’inizio che queste teorizzazioni e riflessioni sono sempre rimaste marginali nella cultura politica della sinistra italiana, eppure personaggi come Chiaromonte e Silone anche nel dopoguerra fondarono riviste, continuarono a partecipare al dibattito politico…

\r Innanzitutto va detto che la sinistra italiana, a parte Giustizia e libertà prima e, almeno parzialmente, il Partito d’Azione poi, osteggiò non poco questo tipo di riflessioni. I comunisti, ovviamente, non erano minimamente interessati, visto che la loro fiducia nel socialismo alla sovietica era, almeno sino alla svolta di Salerno, granitica e comunque, anche dopo la svolta di Salerno, la loro impostazione rimase decisamente marxistica, quindi molto lontana dall’’agnosticismo gnoseologico’, per usare un’espressione di Berneri, dei pensatori di cui stiamo parlando. La maggioranza del Partito Socialista, per quanto non ignorasse queste riflessioni, invece, finì per seguire Nenni e Saragat, per i quali, nonostante i loro dubbi, alla fine ‘socialismo’ voleva dire socialismo di stato.

\r Lungo tutto il corso degli anni ‘30, anzi, Nenni difenderà pervicacemente l’idea del socialismo di stato, addirittura difenderà l’idea di un socialismo che egli stesso chiamò ‘autoritario’ proprio per contrapporlo alle concezioni dei giellisti, dei quali diceva che erano dei libertari anarchici, non dei socialisti. In questo contesto il fallimento, nel dopoguerra, dell’azionismo significò anche il fallimento di queste opzioni etiche, politiche ed economiche, nonostante personaggi come Chiaromonte non si fossero certo ritirati a vita privata.

\r Proprio Chiaromonte, anzi, fu quello che portò alle loro conclusioni logiche alcune delle riflessioni di cui abbiamo parlato.

\r La svolta che Chiaromonte compì fu di rinunciare completamente ad ogni idea di rivoluzione, anche intesa nel senso in cui la intendevano Berneri o Rosselli, e di pensare alla costruzione di una società libera a partire dall’Occidente per come esso si è via via definito.

\r Il suo fu un percorso che lo accomunò ad un altro gruppo importante ed eretico, cui ho accennato anche precedentemente, cioè il gruppo di radicali americani che ruotava attorno alla rivista Politics e al suo direttore Dwight Macdonald e che comprendeva anche Hannah Arendt e Mary McCarty.

\r Una buona parte di questo gruppo negli anni ‘30 aveva fatto militanza nelle file comuniste e trotzkiste, ma negli anni ‘40 si mise alla ricerca di un radicalismo diverso e via via si orientò sempre più verso prospettive di tipo libertario.

\r Durante la guerra fredda questo gruppo, e con esso Chiaromonte, fece la scelta dell’Occidente, cioè dichiarò apertamente che, di contro ai paesi del socialismo reale, una società libera si poteva costruire a partire dalla configurazione democratica che buona parte dell’Occidente aveva progressivamente assunto. E questo senza bisogno di una rottura rivoluzionaria, ma lavorando sulle sementi liberali e democratiche.

\r La scelta certo non fu indolore, -Caffi, ad esempio, si rifiutò di compiere questo passo, anche se rimase in contatto con Chiaromonte per tutta la vita- ma a me pare sia stata importante proprio perché ci rivela uno dei possibili esiti costruttivi di quell’esperienza, cioè l’accettazione dell’Occidente come ambito nel quale condurre la sperimentazione integrale, senza più pensare ad un taglio netto con il passato, a una rivoluzione che ponga su un terreno nuovo. Anche perché, almeno a partire dalle fondamentali riflessioni di Simone Weil (la prima che pare capire, sin dagli anni ‘30, la natura “mitica” della rivoluzione), della rivoluzione si è progressivamente capita la natura d’inganno, cioè il fatto che essa può certo mobilitare le masse, ma troppo spesso, per non dire sempre, predispone anche le condizioni per il prevalere dei totalitarismi. A questo punto, rinunciando all’idea della rivoluzione comunque necessaria, l’umanesimo socialista dei Rosselli, ma anche dei Berneri, si trasforma in un’ipotesi di elaborazione interna all’Occidente. Proprio questo, a mio parere, è lo stimolo più importante che può venire oggi dalle elaborazioni dell’antifascismo radicale degli anni ‘30. Io non credo che oggi, per una sinistra che sia realistica ed abbia abbandonato ogni velleità palingenetica, ci siano altre possibilità. Ogni altra ipotesi mi pare ci porti sul terreno dell’utopia, e pensare l’utopia è una simpatica esperienza personale, una cosa che io auguro a molti, io stesso indulgo in questo stile di pensiero, ma è una questione che ha a che fare con noi stessi, è, come dire, un modo brillante di autogratificarci; insomma, è un’esigenza esistenziale, non una proposta praticabile sul terreno politico.

\r Io allora penso che la sinistra possa ritrovare se stessa all’ombra dell’Occidente, ma anche che l’Occidente debba essere pensato come un modello che permetta costantemente anche rotture violente.

\r E’ un po’ la logica cui si ispirava Thomas Jefferson, uno degli estensori della costituzione americana, che affermava il diritto del popolo di rovesciare il governo quando esso non faccia gli interessi del popolo stesso.

\r L’Occidente a cui penso, quindi, non è certo l’Occidente tranquillo e rilassante del liberalismo conservatore; non è quello in cui tutti si accomodano sotto l’ombrello protettivo di uno stato ‘garantista’, è invece un Occidente che rappresenta una palestra di libera sperimentazione. Per questo ciò che resta da fare -a noi e alla sinistra- è di sforzarci di trasformarlo sempre più in una palestra più ampia e variegata possibile.

Intervista a Gino Bianco

realizzata da Franco Melandri

Intervista a Pietro Polito

realizzata da Enzo Ferrara, Stefania Taranto

Il senso della lotta

 

Come in Piero Gobetti si intrecciarono liberalismo e idea di rivoluzione. Un marxismo valido nel suo materialismo e nell’idea di storia come storia di lotta di classi. Il grande valore democratico del conflitto e della lotta nella società. Intervista a Pietro Polito.

Pietro Polito, curatore dell’archivio Norberto Bobbio, ricercatore per il Centro Studi Piero Gobetti di Torino, ha lavorato a lungo con Norberto Bobbio e curato diverse sue opere, come la riedizione del De Senectute (2006) . Tra i suoi scritti: Piero Gobetti e gli intellettuali del Sud (1995) , L’eresia di Aldo Capitini (2001) , La democrazia alla prova (2005) . Nel 2007 ha pubblicato Il liberalismo di Piero Gobetti, edito dal Centro Studi di Torino. Presso il Centro studi coordina il “Laboratorio della democrazia”, che con un gruppo di giovani ha avviato un percorso di ricerca nella crisi delle democrazie contemporanee. L’intera raccolta della “Rivoluzione Liberale”, rivista storica settimanale diretta da Piero Gobetti e uscita dal novembre 1918 al febbraio 1920, è disponibile in rete all’indirizzo internet http: //www. erasmo. it/liberale/. Piero Gobetti fu protagonista giovanissimo di un periodo storico drammatico per il nostro Paese. L’intensità e la lucidità dei suoi scritti sorprendono ancora, soprattutto se accostati alle leggerezze e alle contraddizioni del presente. Pensi che sia utile rileggere Gobetti oggi? E’ difficile rispondere a questa domanda. Posso dire che nel mio ultimo libro questa possibilità rimane sullo sfondo, ma non è esplorata. Mi è sembrato più interessante provare a fare un percorso a partire da Piero Gobetti, uno degli autori studiati nei nostri seminari, non per arrivare a una riflessione sulla democrazia oggi ma per un ragionamento più storico, per arrivare a considerazioni più generali rispetto a quelle che l’attualità suggerirebbe. Il testo, nato da una serie di lezioni all’Università, si confronta sul rapporto fra Gobetti e la tradizione del pensiero liberale, sul suo liberalismo, che Gobetti stesso chiamò “rivoluzionario”, e sul suo illuminismo. Perché il grande tema di Piero Gobetti non è la democrazia, né la politica in generale, ma è il liberalismo: l’eredità e il rinnovamento del liberalismo. Gobetti è un intellettuale sui generis, che si colloca nella grande tradizione del pensiero liberale italiano ed europeo, ma che da questa tradizione si distacca per una elaborazione politica assolutamente nuova. C’è un articolo fondamentale nel suo cammino, “I miei conti con l’idealismo attuale”, del 16 gennaio del 1923. E’ un articolo di svolta, in cui si confronta con la sua formazione idealistica. Non se ne stacca completamente, però si pone oltre, egli stesso ricostruisce la cronaca della sua formazione intellettuale e dice a un certo punto: “Nel 1920 interruppi le Energie Nove perché sentivo bisogno di maggiore raccoglimento e pensavo a una elaborazione politica assolutamente nuova, le cui linee mi apparvero, di fatto, nel settembre al tempo dell’occupazione delle fabbriche”. Poi aggiunge: “Devo la rinnovazione della mia esperienza salveminiana al movimento dei comunisti torinesi da una parte, vivi di un concreto spirito marxista, dall’altra agli studi sul risorgimento e sulla rivoluzione russa che ero venuto compiendo in quel tempo”. Mi interessava rispondere a questa domanda: che cos’è questa elaborazione politica assolutamente nuova e a cosa allude Gobetti quando evoca quest’idea? La questione è importante. Gli anni di Gobetti vanno dal 1918 al 1925, sette anni incandescenti come incandescente fu la sua biografia. Sono gli anni dall’affermazione della rivoluzione russa mentre in Italia si andava dal socialismo possibile al fascismo reale. Cioè, dalla possibilità che l’Italia, dopo l’occupazione delle fabbriche, vivesse una rivoluzione, si arrivò all’avvento del fascismo e al consolidamento del suo potere. Fu un periodo storico e politico arroventato e complesso, i paragoni col presente possono essere fatti solo con grande precauzione. E poi bisogna saper leggere la realtà nel suo complesso. Nel periodo fra il 1918 e 1920 a Torino era attivo anche l’Ordine Nuovo… [continua]

Intervista a Nicola Del Corno e Sara Spreafico

realizzata da Carlo De Maria

Le due anime

 

Per Andrea Caffi il socialismo era uguaglianza, libertà, diritti, ma anche felicità; un uomo vissuto tra due secoli e tra tanti paesi, forgiato dalla cultura dell’illuminismo francese, ma anche dal populismo russo, in cui il razionalismo conviveva con la solidarietà per gli umili. Intervista a Nicola Del Corno e Sara Spreafico.

Sara Spreafico, saggista e giornalista radiofonica, ha curato recentemente l’antologia Andrea Caffi, Scritti scelti di un socialista libertario, pubblicata dalle edizioni Biblion di Milano (www.biblionedizioni.it), con una prefazione di Nicola Del Corno, storico dell’Università di Milano e condirettore della giovane collana editoriale “Storia, politica, società”, che ospita l’antologia.

\r Andrea Caffi considerava il socialismo come la realizzazione più alta nella storia dell’umanità, e mi sembra significativo il fatto che si pensi di ripubblicarlo e di rileggerlo proprio in un periodo (politico e culturale) nel quale tutta la tradizione socialista pare dimenticata e rimossa. Parliamo, allora, sia di inattualità di Caffi che di un ritorno a Caffi?

\r Del Corno. Di Caffi mi ha colpito soprattutto una cosa, la sua spiegazione del socialismo. Caffi afferma che il socialismo è uguaglianza, libertà, diritti per tutti, ma poi dice anche che il socialismo è felicità. Ecco, questa dimensione prettamente esistenziale della felicità è ciò che mi ha spinto a interessarmi a Caffi, ad avvicinarmi a lui, a considerarlo un grandissimo autore che, in qualche modo, dovrebbe essere riletto, ristudiato, rivisto, ripreso in considerazione anche dai nostri partiti della sinistra.

\r Credo, infatti, debba esistere una sorta di -chiamiamolo così- diritto (propensione o volontà) alla felicità. E felicità, oggi, cosa significa?

\r A mio modo di vedere che ciascuno possa autodeterminare la propria vita come meglio crede, che un giovane possa trovare un lavoro dignitoso, con un salario e con tutele sufficienti, per riuscire a gestire la propria esistenza. E quindi andare a vivere con chi vuole, appartenga oppure no allo stesso sesso; trovare una casa e poterla mantenere, non ridursi a essere un “bamboccione” fino all’età in cui non si deve più esserlo.

\r La felicità, dunque, è qui intesa come possibilità di scegliere in modo libero e responsabile la traiettoria della propria vita. Il socialismo deve far proprio questo diritto ad autodeterminare la propria esistenza, cambiandola, modificandola e così via.

\r Ecco, Caffi insiste su questo argomento, per tale ragione, a mio parere, se egli è inattuale per tantissimi aspetti (forse soprattutto per la carica utopica, visto che le utopie non godono di buona salute ai giorni nostri), però è attualissimo quando rivendica questa possibilità, che ciascuno di noi ha, di essere felice.

\r Spreafico. Devo dire che non condivido il termine “inattuale”. Proprio negli ultimi tempi, ad esempio, il principio dell’autodeterminazione è stato ribadito da alcune persone, e in particolare mi riferisco al caso di Eluana Englaro, al padre di Eluana, dove invece una forza, il governo, ha cercato di negare ad un individuo la legittima possibilità di scegliere per sé. Ho trovato in Caffi un monito importante: quello di ricordare a tutti che le persone -e lo ripeto spesso nell’introduzione- vanno considerate a tutto tondo, nella pienezza della loro umanità. Per questioni anagrafiche (ho 26 anni) ho cominciato solo recentemente a interessarmi al dibattito politico e mi sono, comunque, resa conto che Caffi è in grado di dare delle parole, delle chiavi di lettura, molto interessanti, attualissime, per interpretare quanto accade oggi.

\r Questa mattina, mentre camminavo per venire qui, sono passata in Piazza Duomo, dove proprio in quel momento transitava una camionetta dell’esercito. Caffi, ispirandosi a Platone, sosteneva che nella società ideale la forza pubblica (che egli comunque riteneva necessaria) doveva essere relegata fuori dalla città.

\r La presenza dei militari dentro la città sta, chiaramente, a significare che la società non funziona, che essa si deve difendere da se stessa, poiché crede di aver trovato un nemico dentro di sé.

\r Riflettendo, poi, sulle questioni economiche, Caffi metteva in guardia sul dirigismo dello Stato e sul crescente interventismo nei tempi di crisi. Viviamo anche noi, in questo momento, una crisi economica che dicono sia molto forte, e cominciano già a delinearsi alcuni interventi dei governi che tendono a influenzare sempre più la vita dei singoli. Caffi mi ha aiutato a capire che non devo -io, come persona formata, autonoma, indipendente- per forza accettare la logica secondo la quale c’è sempre qualcuno o qualcosa di più autorevole di me su di me, ma che è giusto rivendicare il diritto, mio e di ognuno, a non farsi muovere, spostare da altri come pedine. Per me, dunque, Caffi è attualissimo; l’inattualità è nell’utopia, ma in qualunque epoca l’utopia è inattuale perché lontana, difficilissima da costruire.

\r Per certi versi, Andrea Caffi sembra un uomo dell’Ottocento, mi riferisco in particolare a una formazione culturale che credeva ancora possibile l’enciclopedismo (Caffi è filosofo, storico, sociologo e molte altre cose), nello stesso tempo è un uomo pienamente immerso nel suo secolo, nel Novecento: ne vive le guerre, le rivoluzioni, le fughe, gli esilii…

\r Spreafico. Oltre a essere un uomo tra due secoli, è un uomo tra più nazioni, è italiano, ma è anche russo, vive in Francia e in Germania. Nasce, nel 1887, a San Pietroburgo da genitori italiani. In quella città, dove frequenta la scuola riformata, avviene la sua prima formazione culturale. Fin da giovanissimo comincia a conoscere il “sottosuolo rivoluzionario” dell’epoca (come lo ama definire), incontra i menscevichi, che lui ritiene essere la parte migliore dei rivoluzionari, più umani e meno inquadrati dei bolscevichi. Più tardi, dopo aver trascorso alcuni mesi in carcere, è il 1907, Caffi scappa dalla Russia e raggiunge la Germania, dove incontra altri italiani, frequenta l’università di Berlino alla scuola di Georg Simmel. Dalla Germania comincia, poi, letteralmente, a camminare per l’Europa: i suoi amici lo ricordano così, Caffi è proprio un camminatore. Cammina molto e si sposta spesso camminando: torna in Italia, nella Firenze della “Voce” di Prezzolini, va in Francia, attraversa quasi tutta l’Europa: è un flâneur.

\r A Parigi lo coglie lo scoppio della Prima guerra mondiale e fra lo stupore dei suoi conoscenti decide di arruolarsi. Terminata la guerra, il “Corriere della Sera” gli offre l’incarico di corrispondente da Costantinopoli. Per lui è soprattutto l’occasione di tornare verso Est. E quando giunge a Costantinopoli, decide di fare ritorno in Russia, per l’attrazione e per l’amore che ha nei confronti di quel paese, dove però sta prendendo forma la dittatura di Stalin.

\r Trova un impiego presso il ministero degli esteri, dove però comincia a fare cose poco ortodosse per non dire illegali, come produrre dei documenti per chi vuole fuggire dal regime. Rimandato in Italia, è il 1923, incappa nel fascismo e non può anche qui fare a meno di impegnarsi nella propaganda contro il regime nascente: diffonde materiale a stampa sarcastico, critico. Mussolini è “lo sparafucile romagnolo”. E’ ancora in Italia nei mesi dell’omicidio Matteotti, ma più tardi è costretto a lasciare il paese -perché sotto minaccia di arresto- e a riparare in Francia.

\r A Parigi conosce Rosselli e il gruppo di “Giustizia e Libertà”, con i quali comincia a collaborare pur non approvandone, in tutto e per tutto, le modalità di azione antifascista. Ritiene, infatti, che Rosselli abbia un’idea vecchia di antifascismo, nella quale gli sembra di cogliere dei residui culturali che risalgono alla democrazia liberale dell’Italia giolittiana.

\r Mentre scrive di antifascismo con l’obiettivo di svecchiarlo e di liberarlo da certa retorica risorgimentale, lavora in maniera occasionale, collaborando a riviste e vivendo -come racconta chi l’ha conosciuto- in modo decisamente strano. Caffi dà l’impressione di lavorare giusto quanto basta per guadagnare quello che gli serve per mangiare. Spesso altrimenti ripudia il lavoro.

\r Nel 1940, da Parigi scende verso il Sud della Francia e raggiunge gli anarchici a Toulouse, dove viene torturato dal regime di Vichy, finché un clochard suo amico lo scagiona di fronte alle milizie francesi. Muore a Parigi di una malattia incurabile il 22 luglio del 1955. E’ sepolto a Père-Lachaise.

\r Del Corno. A questo ritratto posso aggiungere una riflessione che non è mia, ma di Alberto Moravia, che la svolge nell’introduzione alla prima biografia di Caffi, quella scritta da Gino Bianco.

\r Moravia parla di un uomo di due secoli, con diverse culture, diversi “padri spirituali”, e coglie bene nel segno quando dice che delle due anime caffiane, una era quella illuminista francese, seguendo la quale cercava di spiegare il mondo partendo sempre e comunque dal dubbio, e l’altra era quella del populismo russo, che lo conduceva, invece, a solidarizzare in ogni modo coi ceti subalterni. Moravia ha ragione quando puntualizza questa duplice ispirazione nel pensiero e nell’azione di Caffi. Uomo dell’Ottocento, ma direi quasi del tardo Settecento, vista la derivazione illuminista e la costante propensione a studiare, a investigare, a conservare l’approccio enciclopedico di cui parlavi.

\r Il suo razionalismo convive, però, con la costante solidarietà per gli umili e per gli oppressi, che lo porterà a conoscere, ad esempio, il clochard che gli salvò la vita. Essere amico degli ultimi, come vedi, può servire anche nella vita di tutti i giorni!

\r La produzione scritta di Caffi non è esorbitante (tanti intellettuali impegnati hanno scritto molto più di Caffi), ma quello che risulta estremamente interessante è la persona di Caffi, il camminatore, il girovago. È molto azzeccata una osservazione di Gino Bianco che sottolineò come di Caffi convenga parlare come persona, dal punto di vista biografico, ancora prima che come autore. Cosa ne pensate?

\r Spreafico. Bianco ha ragione quando dice che bisogna parlare di Caffi come persona. Del resto, serve poco teorizzare il socialismo, se non lo si pratica, e la vita di Caffi è la testimonianza di un vero socialista, che ha vissuto la sua esistenza a tutto tondo. Caffi è quello che parla coi clochard, che cammina per l’Europa, che studia di tutto.

\r Del Corno. C’è un altro tema rilevante messo in luce da Bianco, quello della “filia”, dell’amicizia, dell’empatia e della solidarietà reciproca. Infatti il socialismo di Caffi è da intendersi in senso etimologico: viene dalla società. Come ha messo in luce Sara, non sono tanto le letture, i classici del marxismo, o dei revisori di Marx, degli ortodossi o degli eterodossi del marxismo a creare il suo socialismo. Il suo socialismo nasce sul campo, dai rapporti di empatia e “filia” che lui riesce a creare con chi si trova di fronte.

\r Ancora una volta mi vengono in mente le pagine di Moravia che ricorda il suo incontro con Caffi e di come viene conquistato da questa stranissima figura (stranissima anche da un punto di vista fisico). Moravia fa una descrizione molto divertente di come si presentava il personaggio Caffi, una figura che destava subito simpatia al primo incontro, capace di mettere sempre a proprio agio gli interlocutori.

\r Spreafico. Una nota di colore. Caffi lasciava straniti i suoi interlocutori anche per un altro aspetto: si presentava di solito in abiti molto trasandati, ma con acqua di colonia spruzzata in ogni dove. Pare non avesse mai una lira, ma quei due soldi che aveva li usava, evidentemente, per comprarsi l’acqua di colonia!

\r Per lungo tempo, se si esclude la rivista “Tempo presente” di Chiaromonte e Silone, quasi nessuno ha parlato di Caffi. Negli ultimi vent’anni, invece, la sua figura è ricomparsa nel dibattito culturale, anche se non ancora sufficientemente…

\r Del Corno. Lo stesso Rosselli fino a qualche anno fa non è che se lo filassero poi molto!

\r In generale, si nota una riscoperta di percorsi politici e biografici di intellettuali critici, collocati fuori oppure ai margini dei partiti tradizionali, che del resto sono crollati …

\r Del Corno. La tua osservazione è sicuramente sensata, molto giusta. Fino a poco tempo fa non c’era spazio per gli eretici e anche lo stesso Rosselli era stato posto nel dimenticatoio. È tornato in auge agli inizi del Duemila perché un bel giorno Veltroni ha scoperto che c’era anche Rosselli, salvo poi dimenticarsene quando è comparso Obama!

\r E’ davvero così, agli inizi del Duemila sembrava fossimo tutti rosselliani, così come intorno alla metà degli anni Novanta eravamo tutti tocquevilliani. Un centro studi dei Ds era intitolato a Tocqueville, che era sicuramente un liberale ma anche un conservatore. Insomma, la cosa mi sembrò eccessiva. Per tornare al punto dell’intervista, se -per usare un brutto termine- verranno sdoganati gli “eretici”, sarà solo un bene. A mio parere, in realtà, la scomparsa dei partiti di massa è un aspetto negativo, perché toglie il coinvolgimento della politica, basta vedere come sono strutturati, oggi, i due principali schieramenti politici: manca una classe dirigente locale, manca una formazione politica e, così, pochi leader tengono in pugno tutto il potere decisionale. Questo è un fatto negativo. Ma se tale cambiamento porterà, come è auspicabile che porti, anche all’emergere degli “eretici” e alla fine dei legami tra interessi partitici e studi di storia politica (per cui, fino a poco tempo fa, ciascuno studiava solo la storia dei propri partiti), allora si sarà raggiunto almeno un risultato positivo.

\r Certo, pensare che Caffi diventerà protagonista del dibattito politico degli anni a venire mi sembra azzardato. Vediamo come andrà a finire, speriamo che i leader della sinistra si rileggano Caffi, lo studino, lo facciano conoscere, ma temo invece che saremo sempre in pochi a leggerlo!

\r Spreafico. E’ difficile che Caffi possa influenzare un partito, un movimento, però può influenzare le persone e, ad esempio, gli studenti di Nicola che lo leggono per preparare un esame. Possono nascere delle idee, delle buone indicazioni, che aiutino a formare le coscienze.

\r Del Corno.

\r La nota di Sara sulle possibili suggestioni di Caffi è vera. Ho notato, infatti, che quando a lezione leggo Caffi, Rosselli, Gobetti, Berneri, vedo che da parte degli studenti c’è ricezione, li vedo partecipi, prendono appunti, agli esami rimangono colpiti da ciò che leggono, dicono: “Ah beh, però settant’anni fa c’era qualcuno che diceva queste cose!”. Li sentono molto attuali e suscitano in loro una serie di riflessioni, poi magari vengono a chiedermi la tesi su uno di questi intellettuali. Speriamo che queste riflessioni non siano contingenti agli esami, alla tesi, ma che rimanga qualcosa, per cui a distanza di dieci, venti, trent’anni, di fronte a particolari eventi della vita, si ricorderanno: ah ma io per quell’esame ho studiato Caffi, che diceva queste cose e non aveva torto… Avremmo vinto, se così fosse, la missione e la scommessa di aver riproposto Caffi.

\r Credo che autori come Caffi oggi possano dirci due cose. Primo, regalarci una lezione di autonomia e di indipendenza rispetto a partiti e “chiese”. Secondo, ricordarci che un tempo, tra Otto e Novecento, la cultura della sinistra era molto più creativa, varia e plurale di quella prevalentemente autoritaria e statalista che poi si è affermata nel corso del XX secolo.

\r Del Corno. Sì, c’erano tanti socialismi, tante sinistre, c’era una discussione più aperta, più libera, più franca, più colta probabilmente. Non c’era quella ricerca spasmodica del consenso per cui si tende a unificare, a trovare slogan, parole d’ordine, con tentativi esasperati di sintesi, per cui chi è eretico, ovviamente, rimane fuori ed escluso dalle formule preconfezionate.

\r (a cura di Carlo De Maria)

Intervista a Carlo De Maria

realizzata da Franco Melandri e Gianni Saporetti

L’associazione

La figura luminosa di Andrea Costa, uno dei fondatori del socialismo italiano, che non rinnegò mai le sue origini libertarie e che sognava un partito federale, decentrato, pluralista, alleato a radicali e democratici; l’esperienza di Imola, primo comune italiano governato dai socialisti; il welfare municipale. Intervista a Carlo De Maria.

Carlo De Maria svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di discipline storiche dell’Università di Bologna. Si occupa di storia del socialismo, dell’associazionismo popolare e delle autonomie locali. Ha lavorato sulle carte e sulle biografie di Camillo e Giovanna Berneri, Alessandro Schiavi e Andrea Costa. Recentemente ha curato il volume Andrea Costa e il governo della città. L’esperienza amministrativa di Imola e il municipalismo popolare. 1881-1914, (catalogo della mostra organizzata per il centenario della morte di Andrea Costa) , Diabasis, 2010. Andrea Costa è stato fondamentale nella storia del socialismo italiano, e nella stessa storia d’Italia, ma è oggi un personaggio praticamente dimenticato, quasi considerato di secondo piano…

E’ vero che oggi di Andrea Costa si parla poco e, più in generale, sono le tradizioni del socialismo (intendendo questo termine nel senso più ampio, dall’anarchismo al socialismo riformista) che sembrano non trovare più spazio nel dibattito pubblico, nella vita culturale del paese. La figura di Costa richiama vicende politiche e biografiche che oggi appaiono lontanissime, ma che in realtà non sono slegate dal nostro tempo e sono ancora in grado di parlarci. Sono convinto che, per certi aspetti, Costa si riveli essere nostro contemporaneo. Puoi parlarci della sua biografia? Costa nasce nel 1851 e appartiene alla generazione dei giovani nati troppo tardi per partecipare alle lotte risorgimentali. Le prime reclute, come lui, del socialismo anarchico erano, in qualche modo, dei garibaldini mancati. In molti casi era assai stretto il loro rapporto ideale con Garibaldi. Ad esempio, il legame tra Costa e Garibaldi è un legame intenso: si conserva una lettera del 1872 di Garibaldi a Costa, il quale poi, nel 1907, partecipò al pellegrinaggio a Caprera, in occasione del centenario della nascita dell’”eroe dei due mondi”. Il rapporto e lo scambio tra il primo socialismo italiano e Garibaldi sono da ricondurre a varie ragioni, in particolare al fatto che il patriottismo di Garibaldi non si era mai chiuso in una prospettiva nazionalista, ma si era invece coniugato con una battaglia di libertà e giustizia sociale più ampia: propriamente internazionalista. Questo è solo un esempio di come, attraverso il percorso del giovane Costa, sia possibile cogliere il socialismo al suo stato nascente e seguire la formazione del movimento socialista nel nostro Paese. Proprio in ragione della sua storia personale, Costa ebbe la capacità di rappresentare il socialismo nel senso più ampio del termine (in senso morale, appunto) , al di sopra delle correnti e delle parti. A emergere è la vicenda profonda della sinistra italiana ed europea, i tanti filoni di pensiero e di azione sociale che l’animavano nell’800 e nei decenni a cavallo del 1900, rendendola un universo plurale. La vitalità di quel primo socialismo e la sua ricchezza consistevano nella diversità delle scuole (come tante volte ha rilevato Pino Ferraris) . A partire dagli ultimi decenni dell’800, Costa rappresenta un punto di riferimento per le associazioni popolari di tutta Italia: dalla Sicilia alle regioni settentrionali. Anche per questa via passa il consolidamento della recente unità nazionale. Si è spesso insistito su una estraneità del mondo socialista rispetto alle istituzioni dello Stato liberale, ma di fatto il prezioso patrimonio di solidarietà e di educazione civile sedimentatosi grazie all’opera di sindacati, cooperative e comuni rossi contribuì al consolidamento della giovane comunità nazionale. Mi riferisco ai molti aspetti del personalismo associativo, all’incontro tra spirito d’associazione e iniziativa economica, alle tante forme della così detta “economia sociale” o “economia popolare”: dal mutuo soccorso, alla cooperazione, alle casse rurali (fenomeni che interessavano non solo il versante laico e socialista, ma anche quello cattolico) .

Intervista a Giampiero ‘Nico’ Berti

realizzata da Franco Melandri, Gianni Saporetti

Capitalismo e libertà

 

Libertà e capitalismo sono indissolubili? Ogni idea di cambiamento non può che partire dalle condizioni storiche concrete in cui il massimo di libertà si è realizzata. L’idea di libertà non può che essere negativa, come assenza di coercizione; il pericolo delle libertà positive, sempre prescrittive. La libertà è anche quella di non partecipare. Il grande errore della sinistra di legare libertà a risorse. Conversazione con Nico Berti.

Giampiero ‘Nico’ Berti insegna Storia delle dottrine e dei movimenti politici all’Università di Padova. E’ autore di numerose pubblicazioni storiografiche e analitiche sul movimento e sul pensiero anarchico. La conversazione che pubblichiamo trae spunto da un saggio, I paradossi del relativismo culturale, che Berti, da sempre vicino al movimento anarchico, ha pubblicato sul n. 3/2002 di Mondo Operaio. Alcune delle tesi sostenute da Berti hanno suscitato molte reazioni critiche in ambito libertario, non a caso il n. 2/2003 della rivista Libertaria dedica un ampio dibattito a più voci proprio ad alcuni di questi temi. Con Nico Berti, per Una città, discutono Franco Melandri e Gianni Saporetti. Nico. Intanto ripeto quello che ho detto su Mondo Operaio: noi conosciamo società capitaliste dove non vi è libertà, ad esempio il Cile di Pinochet, però non conosciamo nessuna società liberal-democratica dove non vi sia anche il capitalismo, o, diciamo meglio, un’economia a libero mercato. Indubitabilmente laddove ci sono società liberal-democratiche vi è il capitalismo. Questo significa forse che il capitalismo è la causa delle società liberal democratiche? No, significa però che è una condizione necessaria; non sufficiente perché altrimenti non salterebbero fuori i Pinochet, ma necessaria sì. Questo nessuno può negarlo. Laddove c’è l’una c’è anche l’altro e insieme producono l’unica libertà che finora noi abbiamo conosciuto, che è la libertà liberal-democratica: non la libertà tout court, ma la libertà che storicamente abbiamo conosciuto, che è la forma più compiuta di libertà che la storia abbia prodotto finora. Io non credo che, in tutto questo ragionamento, ci sia alcuna apologia, né che noi dobbiamo accontentarci di questa libertà, c’è semplicemente una constatazione. Ovviamente, lo dico fra parentesi, il ragionamento vale se per libertà intendiamo una serie di cose che rientrano nei parametri della concezione liberale e occidentale della libertà; se partiamo da una concezione diversa, poniamo spirituale, per cui riteniamo che si è liberi quando si è liberi dal peccato, è un altro discorso. Il mio discorso, insomma, vale se riteniamo per libertà quei principi generali, creati a partire dal Rinascimento, che solo la cultura occidentale ha prodotto. Franco. Nella prima metà dell’800, anche Proudhon, uno dei “fondatori” del pensiero anarchico, diceva che senza la proprietà e senza lo scambio libero, cioè senza il libero mercato, non vi può essere libertà. Ma la proprietà, il capitalismo, cui Proudhon pensava, cioè quelli dell’America del 1776, fatti soprattutto di piccoli proprietari, o quello della società rurale francese, in cui la piccola proprietà era assai diffusa, non è il capitalismo dell’America di oggi. Nell’America della fine del ‘700 lo vedo anch’io il legame fra libertà e capitalismo, ma oggi? Non c’è il rischio che le stesse libertà liberal-democratiche siano messe in crisi dallo sviluppo del capitalismo, non dalla proprietà privata o dal mercato, ma dal monopolio che del capitalismo sembra l’ineludibile sviluppo? Nico. Possono essere messe in crisi, certo, ma questo cosa c’entra? Il capitalismo intanto è fatto di capitalisti. Nel 1919-’20-’21 in Italia c’era il capitalismo? Sì, allora com’è che è nato il fascismo? Perché dei capitalisti, impauriti dal bolscevismo, hanno finanziato i fascisti. Ma questo cosa vuol dire? E’ la conferma che il capitalismo è condizione necessaria della libertà, ma non sufficiente. Tutto qui. Rispetto a questo, mettersi a discutere del capitalismo degli Stati Uniti alla fine del ‘700, dei piccoli proprietari teorizzati da Washington, mi sembra un almanaccare. Io dico questo: il capitalismo è una condizione necessaria della libertà che conosciamo; noi conosciamo un certo tipo di libertà che è quella che si è venuta formando tra mille travagli…