a cura di Paolo Repetto, 30 ottobre 2018
Tutti gli scritti riportati nella presente raccolta sono tratti dal sito http://www.bibliotecaginobianco.it
Critica della violenza
“Homo faber” e “homo sapiens”
Divagazione sugli intellettuali
Riflessioni sul socialismo
Individuo e società (1)
Individuo e società (2)
Popolo, massa e cultura
Sull’educazione
Mito e mitologia
Critica della violenza
In forma un poco abbreviata, questo scritto fu pubblicato per la prima volta nel numero di gennaio 1947 della rivista politics di New York, diretta da Dwight Macdonald, nella quale apparvero in seguito anche altri scritti di Caffi, tratti dall’amichevole corrispondenza che egli intrattenne con Macdonald.
La mia tesi è che un “movimento” il quale abbia per scopo di assicurare agli uomini il pane, la libertà e la pace, e quindi di abolire il salariato, la subordinazione della società agli apparati coercitivi dello Stato (o del Super Stato), la separazione degli uomini in “classi” come pure in nazioni straniere (e potenzialmente ostili) l’una all’altra, deve rinunciare a considerare come utili, o anche possibili, i mezzi della violenza organizzata, e cioè: a) l’insurrezione armata; b) la guerra civile; e) la guerra internazionale (sia pure contro Hitler, o… Stalin); d) un regime di dittatura e di terrore per “consolidare” l’ordine nuovo.
La ragione prima -tratta dall’esperienza e dal semplice buon senso- è che tali mezzi sono inefficaci, e anzi conducono a risultati opposti a quelli che ci si proponevano. A tale argomento -”utilitario”, se si vuole- se ne aggiungono parecchi altri: gli uni confermati dai pensieri e sentimenti unanimemente nutriti sin da quando gli uomini cominciarono a riflettere sulla condizione umana, gli altri imposti dalla situazione senza precedenti in cui si trovano i due miliardi di abitanti del pianeta Terra alla metà del secolo ventesimo.
Il disgusto (o l’orrore) della violenza è forse altrettanto antico quanto la violenza medesima, mentre l’esaltazione di questa è sicuramente un prodotto abbastanza recente di stati d’animo che abbiamo seri motivi di considerare artificiali, o anche morbosi. Io credo che Simone Weil abbia ragione di scorgere in fondo all’Iliade e ai tragici greci l’orrore per la violenza. Il buddismo non sarebbe riuscito a conquistare un cosi gran numero di proseliti se non ci fosse stata una corrispondenza intima fra i suoi precetti e un sentimento diffuso fra le masse popolari. Si hanno buone ragioni di supporre che durante l’età neolitica (durata forse più di cento secoli) una profonda pace regnasse fra quelle comunità sedentarie: dei selvaggi invasori armati di bronzo, e poi di ferro, vennero in seguito a riempire il mondo di carneficine e di gloria guerriera, diffondendo quell’ebbrezza di cui i Re d’Assiria e i Khan mongoli segnano i più tipici parossismi.
Nel corso dell’ultimo lungo secolo, dai coscritti dell’Anno II agli SS hitleriani, ai marescialli staliniani e ai generali del tipo Patton, l’umanità occidentale (senza parlare del Giappone, e della Cina “novatrice e guerriera”) ha sperimentato in tutte le sue forme la febbre e il culto della violenza: esasperazione patriottica, romanticismo rivoluzionario, “fardello dell’uomo bianco”, affermazione del superuomo al dilà del bene e del male, riflessioni soreliane sulla violenza, terrore giacobino, fascista, bolscevico, eccetera
Di fronte a questa marea, il pacifismo, che sembrava aver guadagnato non poco terreno nel XVIII secolo, ha non solo indietreggiato, ma s’è lasciato andare a una sorta di mimetismo pusillanime cercando una via d’uscita (provvidenziale o “dialettica”) sul terreno stesso sul quale il suo avversario andava di trionfo in trionfo (o di catastrofe in catastrofe). Il pacifismo razionalista dei liberali faceva troppe concessioni alla patria, e anche alla ragion di Stato; quello di un Robert Owen, di un Saint-Simon oppure di un Proudhon (il quale si opponeva soprattutto all’idea della “violenza rivoluzionaria”), l’evangelismo dei quaccheri e poi di Leone Tolstoi, erano ammirati o irrisi come sogni di spiriti ingenui. Le speranze “ragionevoli”, condivise da grandi masse d’uomini, riguardavano una “lotta finale” dopo la quale l’umanità si sarebbe trovata riunita nell’Internazionale; oppure una “guerra finale” (quella del 1914!) o, ancora più meccanicamente, l’effetto terrificante dei congegni omicidi, così devastatori che non si sarebbe osato servirsene. Tutta l’azione di Jaurès per la pace era minata alla base dal riconoscimento di una “sovranità nazionale” da difendere a ogni costo; l’antimilitarismo degli anarchici e dei sindacalisti francesi (spinto fino all’idea di uno sciopero generale dei mobilitati) mancava di prestigio morale in quanto, mentre ripudiavano la guerra fra nazioni, quegli uomini preconizzavano l’uso della violenza nella lotta di classe.
Guardiamo ora da vicino ai motivi dell’avversione dell’uomo civile per la violenza. Per semplificare il discorso, prendiamo come punto di partenza la seguente frase di Condorcet, che esprime la convinzione di un gran numero di suoi contemporanei: “Più la civiltà si diffonderà sulla terra, e più spariranno la guerra e le conquiste, in uno con la schiavitù e la miseria.”
La civilisation (parola nuova, nel XVIII secolo: non la si trova in nessun libro francese prima del 1765, e il dottor Johnson rifiutava ancora di ammetterla nel suo dizionario) era concepita dallo scozzese Millar come “‘ cette politesse des moeurs qui devient une suite naturelle de l’abondance et de la sécurité”. (Remarques sur les commencements de la société, seconda edizione francese, Amsterdam, 1773.) Nel 1780, l’abate Girard definiva la politesse asserendo che essa “ ajoute à la simple civilité ce que la dévotion ajoute a l’exercice du culte public: les moyens d’une humanité plus affectueuse, plus occupée des autres, plus recherchée”; il che suppone “une culture plus suivie, des qualités naturelles, ou l’art difficile de les feindre”. E fin dal 1736, nell’epistola dedicatoria di Zaïre, Voltaire aveva precisato che la politesse non è “une chose arbitraire comme ce qu’on appelle civilité: c’est une loi de la nature que… les Français depuis le règne d’Anne d’Autriche ont heureusement plus cultivé que les autres peuples”‘, divenendo, grazie a ciò, “le peuple le plus sociable de la terre”. Al che conviene aggiungere il tratto caratteristico, e così spesso reiterato, che Duclos formula opponendo i selvaggi, presso i quali “la force fait la noblesse et la distinction”, ai paesi civili, dove “la distinction réelle et personnelle la plus reconnue vieni de l’esprit”.
Si tratta dunque di “costumi”, di “cultura” di “umanità”, e non di principi metafisici o di precetti religiosi. Dall’ateniese che trattava umanamente il suo schiavo alla signora inglese che apostrofava il carrettiere che maltrattava il suo cavallo, la politesse, o refinement, consiste essenzialmente nel bandire ogni violenza. In nome di che? Del “rispetto di sé”, impossibile senza il rispetto degli altri; di una socievolezza che, estendendosi dall’uno all’altro, finisce logicamente col comprendere tutti gli esseri viventi. Alla superficie, si tratta di buona educazione e di “costumi civili”; in profondo, c’è in primo luogo la coscienza della “società” come fatto e come valore, e dunque immancabilmente della “giustizia” nei rapporti sociali, una nozione che -lo si vorrà ammettere- è più fondamentale di qualsiasi dogma religioso o morale.
Ma a ciò si aggiunge necessariamente il desiderio (poco importa se utilitario, come pensava Bentham, oppure ispirato dalla bontà divina) della felicità di tutti, senza la quale io stesso non potrei essere felice (“cette idée du bonheur, si neuve en Europe” dirà Saint-Just, e farà tagliar teste per affrettarne l’avvento). Insistiamo: la giustizia implica l’eguaglianza, la felicità esclude ogni oppressione. V’è dunque contrasto irriducibile fra l’aspirazione alla socievolezza e la volontà di potenza. Ogni violenza è, per definizione, antisociale. Ma la barbarie antisociale esiste in noi, nell’istinto di possesso, nel rancore, nella crudeltà nativa, nella paura, nell’ignoranza; e attorno a noi, visto che la civiltà, la politesse, la coltivata socievolezza son rimaste finora privilegio di una minoranza di persone in un numero limitato di luoghi. Donde, attraverso i millenni, il predominio quasi costante della barbarie, e specie della barbarie coperta da una vernice di civilité, per usare il termine dell’abate Girard. Le antinomie permangono. Sempre di nuovo, per preservare l’esistenza, si devono sacrificare le vivendi causas. Il compromesso è riuscito più o meno bene attraverso i secoli, giacché un certo numero di avversari sinceri d’ogni violenza è riuscito a sopravvivere, sia abbandonandosi di quando in quando alla violenza, sia cedendo ai suoi comandi. Ma oggi, a che punto siamo?Platone affidava la difesa della sua Repubblica a guerrieri espressamente allenati alla carneficina, come “cani da caccia”. Ma -importa notarlo- si trattava unicamente di guerra difensiva, visto che ogni ingrandimento territoriale avrebbe segnato la rovina della Città ideale. Importa anche notare che la casta degli armati è ancora più rigorosamente lontana dalla saggezza -fine essenziale della Città platonica- che non il popolo degli artigiani, confinato anch’esso in funzioni subalterne, ma non senza che si sian scelti nella sua progenie gl’individui suscettibili di essere avviati, attraverso un’educazione appropriata, ai gradi superiori. Si può inoltre intravedere che, nello Stato concepito da Piatone, la socievolezza e i costumi del popolo saranno umanizzati, mentre per i guerrieri è prescritta una disumanità rigorosa. Il problema che Platone cerca di risolvere è come si possa concepire una società capace di attingere a un grado supremo di civiltà e, al tempo stesso, di difendersi contro un ambiente barbaro. Il filosofo immagina quindi la sua Città: 1) come un’isola nell’oceano di un’umanità imperfetta, con la quale essa non avrà che dei contatti occasionali; 2) come un luogo dove si sarà una volta per tutte regolato il male inevitabile relegando una parte della popolazione nell’esercizio della violenza, mentre i lavoratori da una parte, i filosofi dall’altra, potranno godere i benefici di un’esistenza pacifica e di costumi gentili. Una tal situazione, e una tal divisione, non hanno nulla di utopico: rappresentano, in sostanza, quella che è stata la condizione di un buon numero di società civilizzate quando la lotta fra le classi non vi s’inaspriva fino a prendervi forme violente. E questo è appunto il pericolo che Platone pensa di aver eliminato dalla sua Repubblica.
Durante il diciottesimo secolo, e buona parte del diciannovesimo, malgrado la coscrizione universale decretata dalla Rivoluzione francese, la violenza non si esercitava che in momenti eccezionali o in zone limitate: era in genere l’affare di professionisti, e si credeva da molti che le sue forze tendessero ad attenuarsi e ad umanizzarsi. È solo dopo il 1914 che si è entrati nell’era della violenza totale, indiscriminata e senza tregua. Sappiamo bene quel che son diventati la civiltà, i costumi e la politesse sotto un tale regime. Che si creda o no in una qualsiasi religione, sia pure la “religione del progresso” o del più vago umanismo, il dilemma formulato da Dwight Macdonald in Politics s’impone a tutti: o ci liberiamo (noi e tutto il patrimonio della nostra cultura, con le idee di civiltà, giustizia, felicità che danno un senso alla nostra vita) dell’apparato di coercizione violenta che sembra aver fatto tornare l’esistenza sociale a quello stato di paura endemica che, secondo Hobbes, precede la formazione della società organizzata, oppure ne saremo stritolati.
È possibile vincere la violenza con la violenza? La questione, in realtà, ne nasconde due molto diverse. La prima è d’ordine empirico: quale probabilità c’è che un’organizzazione di refrattari, uomini liberi e pienamente coscienti dello scopo da raggiungere, disponga delle armi, dell’equipaggiamento, delle capacità tecniche per affrontare gli attuali padroni del mondo con una ragionevole prospettiva di successo? Ma la questione decisiva è l’altra: anche supponendo che si riesca a inquadrare le masse (ribelli, oppure repentinamente convertite a un ideale altamente illuminato della società e della civiltà), a strappare la bomba atomica ai suoi attuali detentori, e infine a impegnare la battaglia, è seriamente credibile che si possa evitare una ricaduta, in circostanze quanto si voglia “rivoluzionarie”, in quelle abitudini barbare, in quegli eccessi della volontà di potenza, e infine nella divisione fra un gregge docile e dei capi imperiosi che l’impiego organizzato della violenza inesorabilmente genera? E allora, come in Francia dopo Termidoro, come nel 1918-’19 un po’ dappertutto in Europa, come sotto Stalin in Russia, non sarà forse legittimo chiedersi: “Questi fiumi di sangue, perché son stati sparsi? Queste miriadi di giovani vite, a quale idolo sanguinoso sono state immolate?” E quale risposta si può dare a tali domande se non si condivide il culto della forza e del sacrificio eroico?
Chi era più devoto di Robespierre e di Saint-Just alla causa del popolo, al disegno di condurre l’umanità a governarsi da sé secondo la libertà, l’eguaglianza e la fratellanza? Nessuno certo ha perseguito con vigore più ostinato di Lenin e di Trotski la lotta per la unione dell’umanità in una federazione di collettività socialiste. E tuttavia furono Robespierre e Saint-Just a stroncare ogni slancio spontaneo del popolo di Parigi, demoralizzandolo col terrore e riducendo i clubs a sedute ufficiali frequentate da funzionari impauriti; e furono ancora essi a centralizzare e militarizzare la Francia (il che comportava il consolidarsi di una nuova casta dirigente di burocrati, di generali, di grandi fornitori dello Stato), sicché il paese fu maturo per il despotismo napoleonico e l’oligarchia dei notables. D’altro canto, furono proprio i due grandi capi bolscevichi a sopprimere i Soviet, a instaurare il regno della Ceka, a sottomettere i lavoratori alla gerarchia poliziesca dei sindacati di Stato, a moltiplicare i poteri arbitrari, i controlli soffocanti, e insomma a preparare il terreno per l’autocrazia di Stalin.
Né traditori né pusillanimi, i giacobini e i bolscevichi arrivarono a tali risultati seguendo la logica della “violenza rivoluzionaria”; e nel modo in cui applicarono tale violenza, come nelle azioni cui furono condotti da tale logica, essi rivelarono la loro mentalità essenzialmente “antisociale”. I giacobini francesi e i bolscevichi russi concepivano la realtà unicamente in termini di instaurazione di determinati rapporti di potenza e di “organizzazione” del governo e dell’economia pianificata nel nome del popolo o del proletariato, mentre non intendevano che in astratto, considerandoli come un sottoprodotto (o una “sovrastruttura”), quei costumi, quella socievolezza, quel bisogno di giustizia e di felicità che costituiscono il “contenuto immediato” dell’esistenza e la sostanza stessa della libertà delle masse popolari, se si vuole che esse formino effettivamente una società.
L’opinione che la storia non insegna mai nulla a nessuno è molto plausibile. Tuttavia, se si esaminano le esperienze di rivoluzioni e controrivoluzioni che si son susseguite dopo la ribellione delle colonie americane contro la Corona britannica, quel che colpisce è la regolarità con la quale si son ripetute talune serie di conseguenze. Conveniamo anzitutto di chiamare “società” l’insieme di quei rapporti umani che si possono definire spontanei, e in certo qual modo gratuiti, nel senso che hanno almeno l’apparenza della libertà nella scelta delle relazioni, nella loro durata e nella loro rottura: le pressioni non vi si esercitano che con mezzi “morali”, mentre i moventi utilitari sono o realmente subordinati, oppure mascherati dalla politesse, dal piacere che si ha a trovarsi in mezzo ai propri simili, dalla solidarietà affettiva che si stabilisce naturalmente fra i membri di un medesimo gruppo. Intesa in questo senso, la “società” esclude per principio ogni costrizione, e soprattutto ogni violenza. Apparirà allora chiaro che la forza, la continuità, i successi almeno parziali (giacché le forze oppressive possono certo essere schiaccianti) di un movimento d’emancipazione umana saranno in funzione diretta del grado di sviluppo e di consistenza della “società”, mentre nessuna organizzazione armata potrà aumentare le chances, né tanto meno i progressi reali di un tale movimento.
I tredici Stati americani erano, ben più che delle formazioni politiche o militari, delle comunità dal tessuto sociale assai vigoroso: i costumi puritani vi erano certo angusti e tirannici, ma erano anche accettati in piena libertà dalla stragrande maggioranza. E così -quasi all’altro estremo- l’anarchia della szlachta (la piccola nobiltà terriera polacca), che comportava una socievolezza vivacissima unita al sentimento permaloso dell’indipendenza personale, spiega la straordinaria resistenza dei polacchi a oppressori strapotenti per un così lungo periodo di tempo, nonostante la povertà economica del paese e la lamentevole politica dei governi “nazionali” (nel 1830 come nel 1930). È perché erano, secondo la parola di Voltaire, “il popolo più socievole d’Europa” che i francesi son rimasti fino al 1871 alla testa del movimento rivoluzionario. E, quanto alla Russia, la formidabile energia della Rivoluzione d’Ottobre non si capisce se non si tiene conto dell’azione parallela, durante tutto un secolo, delle sètte religiose (che erano comunistiche e, quasi tutte, tenacemente pacifiste) da una parte e, dall’altra, dell’intellighentsia umanitaria, accompagnata dal fiorire della “società” a Mosca e a Pietroburgo. Nel 1848, la socievolezza relativamente superiore di Vienna rispetto a Berlino, l’indigenza della “società” in Italia (con gradazioni alla cui cima si troverebbe Venezia, dove la vita sociale rimase, almeno fino alla fine del secolo XVIII, più animata che altrove) coincidono con le peripezie più o meno energiche, più o meno sfortunate, dei tentativi di liberazione. In Spagna, alle forze antisociali che dominarono il paese dopo la Controriforma e Filippo II, si oppose non già la tradizione centralista e autoritaria della Castiglia, ma la “coesione sociale” che ebbe i suoi focolai a Barcellona, nelle tendenze separatiste catalane e nelle forme di “solidarietà anarchica” diffuse in tutta la penisola.
L’altisonante apoftegma di Marx, “la violenza è la levatrice della storia”, manca di sottigliezza. Le emorragie causate dal forcipe storico possono essere più o meno gravi, l’operazione riuscire più o meno bene, e anche fallire. Vi sono le insurrezioni causate dalla disperazione o dal fanatismo, e annegate nel sangue: la violenza vi prorompe fino alla dismisura e, dopo l’assassinio del feto, la paziente -la “civiltà”- si trova indebolita al punto da non potersi più sollevare. Vi sono poi i colpi di Stato che chiamiamo “reazionari”, in quanto generalmente bloccano o “prevengono” un movimento di popolo. Essi cominciano sempre con un uso efficace della forza e, durante un periodo più o meno lungo, impiegano su larga scala la violenza per reprimere, o anche sopprimere, ogni spontaneità sociale al fine di estendere e consolidare al massimo il potere d’imperio di uno Stato, di un partito, di un capo, di un “ordine” inventato ad arbitrio. E vi sono infine le rivoluzioni “ liberatrici”, risultato della convergenza fra le aspirazioni lungamente maturate in vasti strati del popolo e le idee elaborate in seno alla “società”. Da qui l’atmosfera di gioia, di speranza radiosa, di riavvicinamento fraterno degli uomini che avvolge queste “albe di una nuova èra”. La violenza che segna il trionfo di un tale movimento è altrettanto repentina che breve, e come simbolica. La presa della Bastiglia, le giornate del luglio 1830 e del febbraio 1848 a Parigi, del marzo 1848 a Berlino come a Vienna, a Napoli, a Milano, costarono un numero di vittime insignificante; inoltre -particolare non trascurabile- una generosità caratteristica dei vincitori di tali battaglie ha sovente attenuato la crudeltà della lotta: i russi nel marzo 1917 e gli spagnoli nell’aprile 1931 poterono perfino congratularsi di aver conquistato la libertà senza spargimento di sangue. Sappiamo, tuttavia, che il sogno sognato in tali giorni non ha domani. Il primo trionfo di un moto popolare è immancabilmente seguito dalla tragedia; o, per esser precisi, da due fasi tragiche.
È che, da una parte, il quasi-razionalismo nato nel Rinascimento non ha soltanto bonificato le paludi della superstizione, ma ha anche inaridito quella che si potrebbe chiamare la facoltà “mitologica”: quel senso della situazione dell’uomo nell’universo, della persona nella società, della norma di una giustizia imprescrittibile e quasi ineffabile, che unisce e connette come dal profondo e dall’intimo i membri di una data società, e grazie al quale essi comunicano in una visione armonica del significato dell’esistenza. Gli occidentali si sono abituati a considerare le istituzioni, le leggi, la polizia (1) come delle realtà più conseguenti, e più maneggevoli, che non i costumi, i legami non-organizzati, la mentalità, le credenze vive di un ambiente sociale. D’altro canto, pochissimi, specie nel popolo, son quelli che hanno la percezione chiara di come il mutamento sostanziale che una rivoluzione consacra e promulga nelle tavole della sua legge è, in parte, già avvenuto molto prima delle “storiche giornate”, le quali altrimenti avvenute non sarebbero (così gli spostamenti di ricchezza, influenza e primato culturale di una classe sull’altra), mentre in parte non potrà realizzarsi che per tappe, in un avvenire che si prolungherà forse per parecchie generazioni (così i nuovi modi di vita, le vie aperte a nuovi “strati”, la caduta definitiva delle credenze esautorate). Si è al tempo stesso impazienti di un rinnovamento totale e preoccupati di non rimanere un sol giorno senza l’apparato che garantisce la continuità dell’ordine. Si è quindi delusi di vedere che plus ça change, plus c’est la même chose, e scandalizzati perché il “levati di là che mi ci metto io” profitta non già a tutti, ma solo ad alcuni, e non ai migliori.
Mani inesperte scuotono allora la macchina per rimetterla in movimento: le misure affrettate, e spesso contraddittorie, che si prendono hanno per scopo un impossibile “pronto ritorno alla normalità” piuttosto che un previdente adattamento a “torbidi” che potrebbero non essere infecondi. La diffidenza che s’insinua tra i capi e le masse, un’apprensione diffusa del “dove si va a finire?”, la resistenza subdola o insolente degli spodestati, la vertigine delle responsabilità e della “salute pubblica” aumentano il disordine; il quale può aggravarsi fino alla guerra civile, e penetra comunque nei meandri della vita sociale producendovi effetti contrari. Si vedono intensificarsi i legami di cameratismo, rivelarsi altruismi sublimi, ma al tempo stesso si scatenano lo spirito di conservazione esasperato, le rabbie gregarie, gli appetiti più brutali. Allora la violenza erompe da ogni parte e decide il corso degli eventi.
V’è stato sempre, o quasi sempre, un gruppo, o dei gruppi concorrenti, che il disordine non spaventava e che furon capaci di organizzarne lo sfruttamento. Ma assai raramente (nel solo caso della Rivoluzione americana, mi sembra, e fu un’insurrezione con scopi limitati, senza alcuna complicazione sociale, dunque un’eccezione assoluta) quelli che avevano preso la testa del movimento sono rimasti alla sua testa fino alla pacificazione finale. La “conquista giacobina” prevenne i piani tortuosi della reazione monarchica; i bolscevichi annientarono il tentativo prematuro di Kornilov; nel 1848, a sbarrar la strada al bonapartismo, non ci furono che dei “montagnardi” indecisi; in Spagna, Gil Robles prima, Franco poi, ebbero in mano delle carte che né la FAI, insidiosamente assillata dagli staliniani, né Negrin poterono controbattere.
Così si giunge alla terza fase della rivoluzione, il trionfo di una violenza dittatoriale che “consacra le conquiste del popolo” o “restaura” l’antico regime, ma che, nell’un caso come nell’altro, rafforza gli organi di coercizione a spese della società e della civiltà. Fino a oggi, i partigiani convinti della violenza rivoluzionaria hanno sempre sperato che si potesse “far meglio la prossima volta”. Oggi, però, sarebbe un rischio assurdo impegnare la battaglia contro un potere i cui mezzi e i cui sistemi abbiamo visto “illustrati” in sei anni di guerra totale, per vederla poi finire… come è sempre finita, e ritrovarci sottoposti sul serio e per lungo tempo a un apparato di dominio controllato magari dai capi che noi stessi avremo scelto come i soli capaci di tener testa all’avversario.
Bisogna evidentemente cercare mezzi più sicuri, e soprattutto più conformi ai fini. E se è vero che la situazione attuale non ha precedenti nella storia, sarà pure ragionevole preconizzare l’invenzione di una “strategia” e di una “tattica” ancora mai tentate, e delle quali l’esperienza del passato non offre che accenni suggestivi.
Sicché, alla domanda: su quali princìpi può fondarsi un’”azione di resistenza” da cui sia escluso l’impiego della violenza organizzata, io risponderei in questi termini: a) la violenza è incompatibile con i valori di civiltà e d’umanità socievole che noi vogliamo appunto preservare dagli attentati distruttori dei violenti; usando la violenza, noi rinneghiamo necessariamente i valori che sono la nostra ragione di vivere e ne ritardiamo indefinitamente la propagazione e la fioritura; b) le risorse meccaniche e i sistemi d’organizzazione massiccia (eserciti e polizia, Ceka e Gestapo, campi di concentramento, regime russo nei paesi satelliti) che vengono attualmente impiegati nella lotta fra gruppi umani hanno raggiunto un tale grado d’atroce efficienza che la distruzione completa della società civile, se non del genere umano, è diventata una possibilità effettiva. Non è affar nostro provocare l’Armageddon.
E i partiti socialisti? Nel suo libro Travaux, Georges Navel, operaio di officina, racconta la sua vita: “Verso i quindici anni -egli scrive- ne avevo abbastanza della vita di fabbrica e della sua disciplina. Quel che volevo era, subito, una vita più nobile e degna, una vita in cui non fossi più un operaio, in un paese dove non ci fosse che dello spazio, e niente industria.” La disperazione si fa così cupa che, una sera, l’adolescente scavalca un ponte sul Rodano: non ci guadagna che un bagno d’acqua sporca, dopo il quale ritorna alla catena di montaggio. Gli altri tentativi di evadere dalla propria condizione, o di costruirsi una vita a parte dal lavoro quotidiano, non riescono meglio. “Otto ore d’officina bastano per esaurire le energie di un uomo. Quel che egli da al lavoro è la sua vita, il meglio delle sue forze. Anche se il lavoro non lo ha avvilito, se non si è sentito sopraffatto dalla noia e dalla fatica, ne esce esausto, diminuito, con l’immaginazione inaridita… Al mattino, non mi svegliavo che quando arrivavo nel frastuono dell’officina, e quando ne uscivo il frastuono mi perseguitava dovunque. Mi sentivo ridotto a un pezzo di officina, per l’eternità.” All’ultima pagina del suo libro, Georges Navel conclude: “C’è una tristezza dell’operaio per cui non c’è altra medicina che l’azione politica”.
Socialisti e comunisti trovano una tal conclusione perfetta: per loro, essa indica una “coscienza proletaria” ben matura. Quanto a me, non posso fare a meno di notare due cose: la prima è che una tale adesione al “movimento di classe” (e dunque di massa), lungi dal costituire di per sé il raggiungimento di una pienezza vitale in cui si adempiono le aspirazioni profonde dell’individuo, rappresenta piuttosto lo sbocco e la chiarificazione di un risentimento. Sono due cose molto diverse. D’altra parte, un uomo così sincero, il cui essere è stato ferito in modo così irrimediabile, non potrà mai trovare nell’azione politica quel pieno riscatto che cerca. L’organizzazione di partito, i comizi e le sfilate in massa, gli slogans della propaganda, le campagne elettorali, e persine la cospirazione e l’insurrezione armata, possono essere mezzi ottimi e necessari nel pensiero utilitario dei dirigenti, ma non mai esaurire il significato della sua esperienza. In fin dei conti, sono dei surrogati. E questo spiega, fra l’altro, la sproporzione penosa fra i sublimi sacrifici degli “elementi di base” e i risultati che si propongono, o riescono a ottenere, i capi.
Qui, la politica appare come un surrogato -spesso irrisorio- del sociale, ossia di quella comunione spontanea fra uomini coscienti del proprio destino la cui realtà sostanziale nozioni come “civiltà”, “dignità”, “eguaglianza”, “fratellanza”, “gentilezza di costumi” non fanno che indicare approssimativamente.
Ora, si vorrà pure ammettere che nell’idea di “socialismo” c’è l’idea di “società”. Fin dai suoi primordi, nelle concezioni dei grandi pensatori come nel sentimento delle comunità oppresse, “socialismo” ha significato anzitutto annettere un’importanza preminente all’uomo che vive in una trama di rapporti sociali spontanei, egualitari, “civili”: solo per un tale uomo, infatti, i problemi della giustizia e della felicità hanno un senso. Le istituzioni, le attività governative, le lotte di fazione che costringono, e spesso soffocano, la società, sono sempre apparse ai veri socialisti o come escrescenze maligne da eliminare, oppure come un male necessario da limitare e circoscrivere al massimo.
È d’altra parte evidente che non c’è società la quale non sia “completata”, sostenuta, o schiacciata, da una struttura politica, e per la quale quindi le questioni di governo come quella della guerra e della pace non abbiano un’importanza vitale. Una fusione completa del “sociale”, del “politico” e del “religioso” fu realizzata solo nella città greca e, forse con minore armonia, nelle città fenicie, etrusche, latine. Mentre, in Occidente, il Comune medievale s’è costituito come unione essenzialmente sociale e laica, e non ha raggiunto che in prosieguo di tempo, e solo in una minoranza di casi, la forma di corpo politico (Repubblica). Ed è anche la preminenza del fenomeno “sociale” nel carattere personale del rapporto fra signore e vassallo che distingue, tra il secolo IX e l’XI, il feudalismo occidentale da formazioni molto più “politiche”, o anche “teocratiche”, che s’usano designare con lo stesso termine: da una struttura sociale come quella del Giappone, per esempio. Platone ha naturalmente adattato la sua visione di una società “perfetta” alla forma di una città ellenica; diciamo pure che, di tali forme, egli adottò il tipo “laconizzante”, conforme a certi pregiudizi degli ambienti aristocratici da cui proveniva. Ciò gli ha valso, fra le altre, le severe ramanzine del professor Arnold J. Toynbee. Ma ci deve pur essere un malinteso, quando si arriva a immaginare il maestro dell’Accademia come una specie di conservatore terrorizzato che avrebbe concepito il poco intelligente progetto di fissare una volta per sempre la vita dello Stato e della società, imponendole la tetraggine di una disciplina immutabile.
Si può discutere se Platone abbia avuto ragione o torto di diffidare della felice concordanza fra la socievolezza più libera, più civile e più umana da una parte e, dall’altra, il regime democratico ateniese quale lo elogia Pericle nel suo famoso discorso. Comunque, dopo le terribili prove e il disastroso bilancio della guerra detta del Peloponneso, non era certo irragionevole pensare che il fiorire della società attica era troppo legato all’espansione imperialista e ai contrasti di ricchezza che avevano provocato sia i massacri di Corcira e d’Argo sia il regime di terrore instaurato da Crizia ad Atene. Ora, la preoccupazione che anima la Repubblica (il cui tema, non dimentichiamolo, è la “giustizia”) è come si possa preservare la civiltà ellenica dai funesti effetti della volontà di potenza, della sete di guadagni, della troppa ricchezza e della troppa povertà. Ma prospettive ancor più vaste e minacciose assillavano la mente di Platone: sotto i suoi occhi, la polis si disgregava; i costumi, le istituzioni politiche, la vita spirituale non si accordavano più che a gran pena; gli interessi particolari si opponevano al bene comune; l’alta cultura filosofica perdeva il contatto con le credenze popolari. In un passo della famosa VII Lettera, Platone poteva scrivere: “La legislazione e i costumi erano a tal punto corrotti che io, che dapprima ero stato pieno d’ardore e di desiderio di lavorare al bene pubblico, riflettendo sulla situazione e vedendo come tutto andava alla deriva, finii col rimanere come stordito… Alla fine, compresi che gli attuali Stati sono tutti mal governati, e che il male di cui soffrono le loro leggi non si può guarire senza il soccorso di circostanze fortunate, ora imprevedibili”. Nell’attesa di tempi migliori -o peggiori- l’élite della società greca e la quintessenza della sua civiltà avrebbero dovuto conservarsi in piccole “città-modello” d’ispirazione filosofica, così come, più tardi, si conserverà nei conventi il culto, e lo studio, delle antiche lettere.
Fino a quale punto Platone sperasse di veder effettivamente sorgere rifugi di questo genere, nessuno può dire. Forse il filosofo presentiva che la nostalgia di una società più umana si sarebbe mantenuta e tramandata e perpetuata solo attraverso la influenza della cultura ellenica su “scuole”, cenacoli, sètte. Che è, di fatto, ciò che avvenne: noi troviamo, fra l’altro, motivi indubbiamente “platonizzanti” nel Cristianesimo, nell’Isiam, e in molti movimenti ereticali del Medio Evo; né è da trascurare la tesi di Simone Weil sulle origini greche della predicazione evangelica.
Quel che è certo, in ogni caso, è che Platone fu condotto a immaginare la Città dove “tutto sarebbe messo in comune” dal disgusto per la politica: non solo per la politica tirannica dei Trenta, alla quale si era trovato mescolato a causa dei suoi legami di famiglia, ma per quella dei loro successori “democratici”, responsabili della morte di Socrate. L’esempio di Platone suggerisce che ci sono momenti, nella storia, in cui è ragionevole e lungimirante abbandonare ogni speranza di risultati immediati e massicci.
Quanto agli altri rappresentanti della tradizione socialista, già prima di toccar con mano le realtà della politica come Cancelliere d’Inghilterra, Thomas Moore aveva in ben poca stima i governanti del suo tempo, sotto la cui egida egli aveva visto ridurre i contadini alla condizione di bestie perseguitate, nelle enclosures. La sua Isola d’Utopia era un giardino dove le facoltà dell’uomo pacifico e socievole non avrebbero subito alcuna costrizione da parte di autorità costituite. E la Città del Sole apparve a Campanella dopo che il fallimento catastrofico del complotto di Calabria e la prigione lo ebbero allontanato dalla politica attiva.
Le società giuste e felici immaginate da More e da Campanella eran basate sull’ideale di un governo all’antica, più o meno stilizzato. Mentre, nel Medio Evo, le vampate di comunismo messianico di Fra Dolcino e dei Fratelli Moravi avevano per modello le città libere e i “cantoni” di contadini affrancati su cui poco pesava l’autorità lontana del re o dell’imperatore. Giovanni di Leyden o gli estremisti del puritanesimo anglo-scozzese eran mossi da archetipi tratti dal Vecchio Testamento. Nel Seicento e nel Settecento -come già sotto le monarchie ellenistiche- i riformatori speravano che un “despota illuminato” avrebbe fondato o protetto delle comunità ideali. Gli anabattisti e i quaccheri non si curarono mai di questioni istituzionali. In tutti questi casi, i mezzi si possono discutere, ma il fine è sempre una “società” più umana. E il raggiungimento di un tal fine è concepito possibile solo fuori delle istituzioni esistenti.
Nei tempi moderni, la prima opera di Saint-Simon (Lettres d’un habitant de Genève) denuncia l’errore commesso dalla Rivoluzione quando aveva voluto applicare un rimedio politico a un disordine che era essenzialmente sociale. Robert Owen non prese parte alcuna nel fermento radicale del 1820 né, più tardi, nell’agitazione cartista. Proudhon, nel febbraio 1848, andò sulle barricate, ma non credeva che il popolo potesse ottenere un beneficio qualsiasi da una rivoluzione politica, e riteneva futile “organizzare la Repubblica” quando il problema era “organizzare la società”. Al tempo stesso, sia Saint-Simon che Robert Owen e Proudhon pensavano che un regime autenticamente liberale avrebbe favorito i loro piani di riorganizzazione della società. Per contro, Babeuf, Blanqui, Louis Blanc, e senza dubbio anche Karl Marx, videro nel Comitato di Salute Pubblica un primo e riuscito abbozzo di quella “dittatura del proletariato” che avrebbe garantito il trionfo del socialismo. Non si può certo dire che tali mezzi non siano stati applicati a fondo nel nostro tempo.
Venne poi la Seconda Internazionale e consacrò l’amalgama socialismo-democrazia. Per democrazia, qui s’intendeva un’amministrazione statale fortemente centralizzata, fortemente armata, alimentata da un grosso bilancio, e in cui lo “spirito nazionale” fa funzione d’anima. Un tale meccanismo è sottoposto alla sorveglianza, se non proprio alla direzione, degli eletti del suffragio universale; questi, a loro volta, si suppone che siano controllati dall’” opinione pubblica” (identificata in genere col “popolo”) grazie a una completa libertà di stampa, di riunione e d’associazione e alla concorrenza fra partiti organizzati. Tutto questo, naturalmente, era fondato sull’ipotesi che la complessità della macchina stessa, e il margine da lasciare alla competenza speciale dei tecnici civili e militari, non rendesse il “controllo” puramente illusorio. In ogni caso, il socialismo avrebbe dovuto servirsi astutamente di un tal poderoso mezzo, eliminandone i difetti e preservandone i vantaggi. Ciò che accadde a questa utopia -la più macchinosa di tutte- è già storia antica. A causa del rapido successo della propaganda socialista fra le masse, l’azione politica dei partiti socialisti passò ben presto dall’intransigenza alla riforma, e dalla riforma alla collaborazione effettiva con lo Stato “borghese”. A maggior gloria dello Stato nazionale e della sua “grandezza”. Le riforme ottenute per via di lotta o di compromesso avrebbero dovuto servire a far partecipare sempre di più le classi lavoratrici alla direzione della cosa pubblica. Ma esse consistevano poi essenzialmente in vantaggi economici (che ci si credeva in diritto eo ipso di qualificare “sociali”) garantiti dalla legge a quelli che fin allora “non avevano (avuto) nulla da perdere”. Il risultato era un innegabile miglioramento delle condizioni materiali del popolo, ma anche inevitabilmente un aumento delle risorse, dei mezzi d’azione, del numero dei funzionari al servizio dell’apparato sovrano dello Stato. Senza quasi avvedersene, il movimento socialista impegnò tutte le sue forze nell’azione “democratica”, non riservando al “socialismo” (cioè alla civiltà, alla società, alla giustizia) che una funzione di parata nelle manifestazioni ideologiche. E fu sempre meno questione di società, sempre più di “Stato socialista”, o di socialismo di Stato.
Si arrivò così al 1914, l’anno in cui i partiti affiliati alla Seconda Internazionale abbandonarono l’atteggiamento intransigente statuito dal congresso di Amsterdam del 1904 partecipando a dei governi di difesa, ma fatalmente anche di “conquista”, nazionale. Ora, è precisamente nel 1914 che le grandi democrazie moderne si avviarono verso la forma (e il contenuto) dello Stato “totalitario”, il quale consiste essenzialmente nella soppressione totale della società, e nella noncuranza egualmente totale per i valori di socievolezza e di civiltà.
Mi sembra inutile insistere sui progressi irresistibili del sistema totalitario nei tempi più recenti. Basti ricordare un fatto culminante: nel paese meno affetto dal cancro dell’onnipotenza statale, negli Stati Uniti, a Oak Ridge, centoventimila operai hanno potuto essere impiegati per lunghi mesi senza che avessero la minima idea dell’oggetto del loro lavoro. E l’oggetto del loro lavoro era un congegno capace di annientare in pochi minuti trecentomila vite umane (2). A questo punto, è chiaro che la macchina democratica ha bisogno di riparazioni.
“Tutto nello Stato, niente fuori dallo Stato, niente contro lo Stato.” Sotto Innocenzo III, era la Chiesa che si arrogava diritti totali sulla società, in un mondo relativamente piccolo e con mezzi di coercizione rudimentali. Oggi, su un tale principio, sono d’accordo praticamente tutte le “Nazioni unite” (o disunite). Alla società come l’intendeva il socialismo si sostituisce la “civiltà di massa” (della massa in quanto tale), i cui Anacreonti e Tirtei occupano le stazioni-radio, dirigono e sfruttano la produzione cinematografica, perfezionano dovunque i sistemi di produzione e i metodi pubblicitari.
Ci sembra dunque difficile mettere in dubbio che l’idea dell’azione di massa con la parola d’ordine “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”, nella prospettiva grandiosa del “salto dal regno della necessità nel mondo della libertà” è oggi completamente esaurita. Dove potremmo trovare il coraggio di ricominciare da capo, dai piccoli gruppi organizzati ai grandi e ben disciplinati partiti di massa? I fatti ci dicono che: 1) le basi, gli scopi e il significato di una “politica di classe” sono completamente mutati; 2) la “democrazia” quale funziona oggi nei grandi Stati moderni non può più esser considerata terreno naturalmente propizio ai progressi del socialismo: in ogni caso, non si può avere nella sua “evoluzione” la fiducia che poteva esser legittima nel 1889; 3) l’obbiettivo essenziale di una politica socialista, oggi, non potrebbe essere che la lotta tenace contro la “macchina” dello Stato nazionale, che è diventato l’agente principale, se non unico, dell’oppressione sociale.
Ci vorrebbe un volume dell’importanza del Capitale per esporre i mutamenti che la tecnica e l’economia (ma anche quelle che i marxisti credono di poter chiamare “soprastrutture”: i costumi, il regime politico, la cultura) hanno determinato nelle situazioni sociali e nei rapporti fra le classi durante gli ultimi cinquant’anni. Quel che sembra modificare nel modo più radicale l’orizzonte di un socialista il quale voglia avere un quadro chiaro di ciò che impedisce oggi il cammino verso la giustizia, è che, oggi, bisogna considerare tutto il pianeta come un’unità.
In questa unità globale, al contrasto semplicista fra borghesi e proletari in ciascun paese isolatamente preso si è sostituita una scala in cui hanno un posto ben determinato l’indigeno sfruttato in condizioni prossime alla schiavitù, l’”uomo di colore” segregato da certi impieghi e situazioni, l’operaio privilegiato, il proletario parassita, il piccolo imprenditore tiranneggiato dai “monopoli”, gli intermediari sempre più numerosi, i funzionari dello Stato direttamente o indirettamente coinvolti negli “affari”, le turbe di politicanti, giuristi, scienziati, agenti di pubblicità, tecnici del divertimento e delle “comunicazioni” di massa; e, al vertice, il piccolo numero dei veri potenti. Ma, al tempo stesso, costoro dipendono tutti gli uni dagli altri, al dilà delle frontiere nazionali e delle categorie ufficiali della “ divisione del lavoro”. La lotta di classe è molto più accanita di una volta, ma anche molto più confusa. Ci sono classi e frazioni di classi che, pur essendo oppresse, s’oppongono ferocemente all’emancipazione di certe altre; c’è una massa di gente che sostiene passivamente lo stato di cose attuale per il profitto indiretto che ne ricava: burocrati statali e non statali, intellettuali e professionisti corrotti o semicorrotti, domestici grandi e piccoli dei potenti. Nessun partito può diventare “partito di massa” se non si adatta a questa “base” fangosa. I socialisti non possono più ignorare questo ingranaggio complesso, continuando a esigere (a parole a spese dei capitalisti, ma in realtà sul bilancio dello Stato) “pane e cinematografo” per i salariati delle fabbriche.Che cosa rimane?
Pochi individui dispersi, e piccoli gruppi isolati, capaci, al tempo stesso, di un pessimismo risoluto quanto all’avvenire immediato e di non disperare dell’”eterna buona causa” dell’uomo.
Marx e Engels hanno scritto, e i signori Thorez e Togliatti lo vanno ripetendo con unzione, che il socialismo s’identifica con l’umanismo. Quanto a me, temo che i padri del socialismo scientifico pensassero soprattutto alla filologia e alla filosofia che fiorivano così prospere, al loro tempo, nelle Università tedesche, e i cui lumi, insieme a quelli della “Scienza” in generale, avrebbero dovuto aiutare i proletari a prender coscienza della loro missione storica: l’erudizione più la dialettica..Ma l’importanza dell’umanismo nella nostra civiltà non è consistita principalmente nella “rinascita delle lettere e delle arti”, né in quelle “umanità” di cui i gesuiti han mostrato come potessero anche, e molto bene, essere utilizzate ad asservire gli spiriti. Il grande impulso dato dalla reviviscenza dello spirito greco si manifestò -attraverso sconfitte ed eclissi, ma anche con un “progresso” irresistibile- nel fiorire di una socievolezza che era “libera” soprattutto nel senso che gli uomini sceglievano liberamente i loro “simili” al dilà delle barriere di casta, di nazionalità, di confessione religiosa. E in questa socievolezza, rapporti di autentica politesse, ossia basati sull’eguaglianza e la reciproca fiducia, sostituivano i cerimoniosi e sospettosi artifici del “rispetto gerarchico”.Oggi, il moltiplicarsi di gruppi d’amici partecipi delle medesime ansie e uniti dal rispetto per i medesimi valori avrebbe più importanza di qualsiasi macchina di propaganda. Tali gruppi non avrebbero bisogno di regole obbligatorie né di ortodossie ideologiche; non fiderebbero sull’azione collettiva, ma piuttosto sull’iniziativa individuale e sulla solidarietà che può esistere fra amici che si conoscono bene e dei quali nessuno persegue fini di potenza. Il Cristianesimo fece le sue più stupefacenti conquiste quando era diviso in un gran numero di chiese autonome, collegate fra loro dalla “comunione”, senza una gerarchia episcopale ben definita, né autorità “ecumenica” di sinodi o di patriarchi. Nel XVIII secolo, i cenacoli di libertini e di enciclopedisti, le piccole “società di atei” di cui parlano volentieri Fielding e Smollett, le Logge massoniche e i “salotti dove si conversava” svolsero una propaganda irresistibile, mettendo in contatto gli spiriti liberi da un capo all’altro d’Europa. Quegli uomini non avevano alcun bisogno di un’organizzazione centrale che prendesse decisioni e applicasse sanzioni in loro nome. Il loro scopo era di trasformare i modi di pensare e i costumi piuttosto che le cose, e perciò la loro opera portò nel mondo un cambiamento reale.
(1) “J’appelle police les loix et ordonnances qu’on a de tout temps publiées dans le Estats bien ordonnez pour régler l’oeconomie des vivres, retrancher les abus et les monopoles du commerce et des arts, empêcher la corruption des moeurs, retrancher le luxe et bannir des villes les jeux illicites” (LE BRET, Traité de la Souveraineté du Roy, 1700 – Livre IV, Chapître XV).
“On prend quelquefois [le mot police] pour le gouvernement général de tous les Estats, et dans ce sens il se divise en Monarchie, Aristocratie, Démocratie… D’autres fois il signifie le gouvernement de chaque Estat en particulier et alors il se divise en police ecclésiastique, police civile et police militaire… [Mais] ordinairement et dans un sens plus limité, police se prend pour l’ordre public de chaque ville, et l’usage l’a tellement attaché à cette signification que toutes les fois qu’il est prononcé absolument et sans suite, il n’est entendu que dans ce dernier sens” (DELAMARE, Traité de la Police, 1713 -Livre I, Titre I).
(2) Valutazioni più recenti del numero delle vittime di Hiroshima hanno ridotto a un terzo questa cifra. L’enormità della strage rimane.
“Homo faber” e “homo sapiens”
Andrea Caffi, 1945.
I
L’uomo, visto dal di fuori, è un organismo animale. La sua esistenza, la sua riproduzione, la sua morte, i suoi movimenti, le sue sensazioni, la sua fisiologia e patologia possono essere studiati come fenomeni biologici, con tutto ciò che questo implica d’interdipendenza con la natura, le influenze del clima, eccetera.
Il fatto che l’uomo sia un animale che vive in società non lo distingue in maniera essenziale da altre specie. E forse il linguaggio neppure. Ma è con la specificazione dell’homo sapiens (cosciente degli scopi del suo agire, e dunque capace di porsi il problema della propria condizione) e dell’homo faber (il quale estende per mezzo di strumenti le sue facoltà d’azione sulle cose che lo circondano) che si pone l’insieme delle questioni di cui si occupano sia la filosofia che la ricerca storica.
II
L’uomo si conosce: oppone il proprio io a tutto ciò che esiste attorno a lui, non solo nell’azione per sopravvivere, ma come “visione” (theoria) costante.
È per tale via che si viene progressivamente articolando la sua esperienza, si organizza la sua memoria, si costruisce una complicata gradazione d’irrealtà -previsioni, ricordi, immaginazioni- che s’intrecciano ai “dati” direttamente e materialmente subiti del mondo qual è (per i nostri sensi).
III
È attraverso questo seguito d’intenzioni coscienti, di scelte fra possibilità preconcepite, d’invenzioni piuttosto rare e d’imitazioni spesso ragionate, di sforzi più o meno coerenti per stabilire delle distinzioni e delle “partecipazioni” fra cose diverse e fra momenti distinti della durata temporale, che l’uomo diventa il creatore, o il “produttore”, della propria esistenza. La fatica quotidiana, il conforto del riposo, i giochi, i piaceri, le sofferenze, i progetti laboriosi, le fantasticherie, le sorprese, i terrori, gli stupori, i languori e le nostalgie, tutto ciò si compone in un’unità di significati che aderiscono per quanto è possibile a forme fisse il cui richiamo alla mente può dirsi “simbolo”, e cioè segno di riconoscimento, ovvero ritorno del “medesimo” nel flusso di mutamenti senza posa.
IV
Ma l’esistenza dell’essere umano non si realizza che nell’ambiente sociale. Non c’è, nella coscienza e in tutti gli atti della coscienza, momento — anche quando l’individuo è materialmente isolato -il quale non sia un’azione reciproca con i suoi simili. Nelle più piccole reazioni agli eventi del mondo esterno, come in ogni immagine evocata dalla mente e nei suoi progetti più singolari, il “tu”, il “noi” o il “loro” sono una presenza altrettanto reale quanto l’”io”. Allo stesso modo che tutto il corredo materiale dell’esistenza -alloggio, nutrimento, mezzi di protezione e di lotta -proviene dall’insegnamento e dalla cooperazione degli altri, così anche quello che si potrebbe chiamare il corredo della coscienza -e cioè non soltanto l’espressione per parole o gesti, ma la maniera stessa di sentire o di vedere- è con tutta evidenza frutto dell’educazione e della collaborazione incessante del gruppo sociale.
V
L’astratta chiarezza del “penso, dunque sono” non si acquista che a un certo livello di meditazione disinteressata, sufficientemente distaccata dalle contingenze per poter operare la connessione fra la nozione d’”essere” e quella di “esistere”. La maniera ordinaria di concepire l’equazione “io sono = io esisto” -ossia la coscienza dell’io nella realtà sociale- è una combinazione spesso confusa dei risultati (sempre soggetti a revisione) di esperienze che si continuano e si modificano per tutto il corso di un’esistenza e comprende:
- a) ciò che mi sembra di essere;
- b) ciò che spero di essere;
- c) ciò che temo di essere;
- d) ciò che mi piacerebbe di essere;
- e) ciò che so o credo di essere agli occhi degli altri;
- f) ciò che voglio apparire agli occhi degli altri, eccetera.
Questa creazione perpetua della persona, intrecciata a tante illusioni, a tanti inganni innocenti o perversi, ma anche a tanti apporti reali e nuovi di “scoperte in profondità,” di conversioni imprevedibili, di enigmi e contraddizioni senza uscita, deve la sua complessità unicamente al fatto di effettuarsi al tempo stesso sul teatro della vita sociale e nel segreto incomunicabile del foro interiore: i fatti compiuti che impegnano senza remissione non sono spesso che un’assurda violenza esercitata dal caso contro le vere intenzioni dell’individuo. Il problema che per tal modo si pone di una “conoscenza” dell’uomo non comporta che una risposta pratica già data (o imposta) dal conformismo sociale: in società, siamo quel che facciamo e quel che gli altri ci giudicano secondo i nostri atti e il nostro modo d’essere; e, per definirci in modo diverso, per far valere quel che di noi non appare nelle circostanze che ci son date, ci si definirà contro il giudizio corrente, che è sempre una maniera di dipendere da ciò che gli altri hanno deciso. Marx pretendeva di poter distinguere fra ciò che l’uomo è in realtà e ciò che egli crede di essere in un determinato ambiente sociale. Ma come paragonare due entità assolutamente inafferrabili? Il più presuntuoso (o il più ottuso) degli uomini non è mai sicuramente (o definitivamente, o interamente) convinto di essere quello che si crede, o che vorrebbe si credesse di lui; e la psicanalisi più rigorosa non riuscirà mai a esaurire la più semplice delle anime. Tuttavia, le convenienze della coabitazione sociale riescono molto bene a stampare sul volto di ognuno la sua maschera e a confinare ciascuno in una parte precisa. Per via di reciproco adattamento, l’individuo e l’opinione collettiva mettono in risalto le apparenze di un carattere o di una mentalità durevole, e… il resto è silenzio.
VI
Questo sarebbe uno dei risultati finali di quella che Marx chiama “la produzione sociale della loro esistenza” da parte degli uomini. Vi si constatano infatti dei rapporti “determinati e necessari”. Marx aggiunge “indipendenti dalla loro volontà”, il che sembrerebbe sottintendere una distinzione fra una facoltà di decisione assoluta, spontanea, della coscienza, che sola meriterebbe il nome di “volontà”, e le volontà disciplinate, canalizzate, coordinate che si manifestano regolarmente nell’attività degli uomini organizzati in società. Per rendere più precisa l’analisi, bisognerebbe forse distinguere in concreto, secondo propone Georges Gurvitch, fra rapporti di comunione, di comunità e di massa. Il panico o il furore aggressivo di un branco, il ritmo “unanimizzante” di un lavoro comune, la sottomissione o l’integrazione con esseri che si amano, si rispettano, si ammirano ovvero si temono, determinano delle costrizioni sociali differenti quanto a durata, intensità ed efficacia.
VII
D’altro canto come interpretare la nozione marxista, secondo la quale “i rapporti di produzione che costituiscono la struttura economica” sono “la base reale su cui s’innalza una sovrastruttura giuridica e politica”? Ammetteremo forse che questa “base” possa fare a meno della sovrastruttura, o che essa ha preceduto nel tempo la formazione delle sovrastrutture in questione? Ovvero che tali “rapporti determinati e necessari” che si affermano come istituzioni giuridiche, religiose, eccetera, hanno meno realtà che non la divisione del lavoro, la cooperazione, l’assimilazione o il perfezionamento di certe tecniche (quelle strettamente e utilitariamente produttive, ma non quelle della magia o dell’arte)?
Nella realtà storica quale noi possiamo conoscerla, non si vede una sola società la cui coesione, o struttura, non presenti almeno tre ordini di fatti che il nostro esame ragionato distingue, ma che, beninteso, s’intrecciano e si penetrano a vicenda nell’attività quotidiana degli individui associati:
- a) dei modi abituali, regolati, di procurarsi la sussistenza, di concepire e misurare il benessere materiale, di ripartire i compiti e i frutti degli sforzi più o meno organizzati;
- b) delle forme di comunicazione e d’accordo intimo costanti, incorporate nel linguaggio e (sempre e necessariamente) in una mitologia;
- c) delle norme di condotta esplicitamente formulate o osservate per intesa tradizionale, sostenute da una nozione del “sacro” (o mana, o tabù) la quale si riassume a sua volta nella nozione di “giustizia”.
VIII
Una concordanza intima fra la giustizia, la mitologia e la “struttura economica” non basterebbe a dimostrare che quest’ultima ha in qualche modo generato le due altre. Ma il fatto è che una simile concordanza non è mai esistita. Si è spesso notata la immoralità fondamentale delle mitologie, che “eroicizzano” le più flagranti violazioni della giustizia; ed è assurdo restringere il significato dei racconti sull’età dell’oro, il paese di Cuccagna, le ricchezze e l’onnipotenza ottenute grazie alla lampada d’Aladino o ad altri mezzi magici al punto da non vedervi altro che la rappresentazione di strutture economiche eccezionali di cui sognerebbe una classe oppressa, oppure una fazione reazionaria. Giacché è la condizione umana in sé e per sé che viene in tali favole trasfigurata in una prospettiva di assoluta perfezione e di eterna durata che sorpassa di gran lunga ogni concepibile vicissitudine storica.
Le nozioni della giustizia sono spesso rimaste in conflitto permanente con le finalità utilitarie dell’economia. Si potrebbe anzi vedere l’embrione di una antinomia insolubile fra le due nell’atteggiamento del cacciatore che, per nutrirsi, uccide il bisonte, ma procede in seguito a cerimonie magiche per placare lo spirito della sua vittima e, in un certo senso, espiare quell’uccisione motivata da scopi meramente utilitari. Dal capo-tribù che pratica lo spreco del potlach, emulazione in doni sontuosi da tribù a tribù (costume che Marcel Mauss ha denominato, nella sua celebre analisi, “economia del dono”), fino alle spese di prestigio del Re Sole, dei princìpi contrari a ogni calcolo economico possono scuotere dalle fondamenta la “struttura” che esigerebbe un rigoroso “rapporto delle forze produttive”.
A sua volta, l’azione delle forze economiche corrode i fatti normativi che una certa concezione del giusto e dell’ingiusto poneva alla base dell’ordine sociale: il cittadino romano ridotto alla condizione di proletario non cessava di esser considerato membro di pieno diritto di un corpo sovrano, e il paradosso di questo parassitismo di una plebe degradata ha finito col minare l’edificio di un Impero magnificamente organizzato. Per più di un secolo, le Repubbliche dell’America del Sud si sono ostinate nel gioco a volte burlesco e a volte tragico di Costituzioni nelle quali i diritti dell’uomo e la separazione dei poteri erano sanciti secondo la teoria più rigorosa, mentre un’economia composita, nella quale permanevano le forme più primitive a fianco di quelle ultramoderne, resisteva come poteva ai colpi di mano successivi di avventurieri politici esaltati dalla mitologia dei conquistadores.
IX
La teoria marxista ha cercato di spiegare in vari modi queste incongruenze.
C’è in primo luogo 1’”alienazione”: i fermenti ideologici che un sistema di rapporti tecnico-economici e l’opposizione d’interessi che esso implica hanno suscitato possono venir trasposti in termini “mistici”, i quali sono talvolta un mascheramento utile di iniqui privilegi accaparrati dalla classe dominante, talvolta l’espressione di speranze ancora timide, annebbiate dall’ignoranza e dalla superstizione, tra gli oppressi. In secondo luogo, le sovrastrutture possono essere prese in prestito: la Rivoluzione francese si drappeggia in atteggiamenti eroici modellati secondo Plutarco; i principi barbari adottano il cerimoniale bizantino per dar prestigio al loro dominio nei paesi longobardi o bulgari. Lo storico avvertito non ha difficoltà a far cadere questi orpelli per scoprire la realtà delle situazioni economiche e della lotta di classe.
Infine, le sovrastrutture e le ideologie sono in ritardo sull’evoluzione della struttura economica. I morti soffocano i vivi. Le norme giuridiche e le credenze che si adattavano a una fase antica e superata dell’economia vengono mantenute, non senza artificio, da una casta retrograda ancora accanita a difendere le sue ultime posizioni. I marxisti hanno molto lodato Hegel per aver questi visto che il tema dell’Antigone era il conflitto fra l’antico diritto gentilizio e il nuovo diritto politico in nome del quale Creonte si vede obbligato a infierire. Ciò non toglie che, per Sofocle e i suoi spettatori, il martirio della figlia di Edipo e la crudeltà della ragion di Stato invocata da suo zio erano fatti appassionatamente attuali e nient’affatto “superati” dal verdetto della Storia
Se il borghese Saint Just che dice: “II mondo è vuoto dal tempo dei Romani” e il borghese Guizot col suo famoso Enrichissez-vous, la mitologia plutarchesca di un David e quella di un Balzac e di un Daumier (col parapioggia di Luigi Filippo a guisa d’omphalos) vanno spiegati in base alla medesima struttura economica, allora il conflitto fra mito rivoluzionario e mito borghese, che si tradusse in alcune migliaia di morti violente, esige un supplemento di spiegazione. Giacché, infatti, un sottoprodotto artificiale della sola realtà che conta — l’ideologia del trinomio Liberté, Égalité, Fraternité rispetto al capitalismo trionfante — e persino un travestimento d’origine libresca hanno potuto trascinare un gran numero d’uomini a dimenticare ogni preoccupazione economica fino a sacrificare la loro vita (si ricordi la frase, registrata da Stendhal di quel generale di Napoleone il giorno del Sacre di Notre Dame: “Un million d’hommes sont morts pour qu’on ne revoie plus jamais cela”), è legittimo supporre che alla base della condizione umana ci siano dei motivi d’azione, degli stimoli della coscienza individuale o gregaria e dei fatti normativi singolarmente riottosi ai “rapporti necessari” determinati dalla fabbricazione e impiego produttivo di strumenti o dal progresso dei procedimenti tecnici.
X
Alcune indicazioni sommarie potranno servire a circoscrivere il problema.
1) Abbiamo accettato le definizioni homo sapiens e homo faber. È evidentemente impossibile concepire che l’uomo possa essere l’uno senza essere l’altro. Tuttavia ciascuna di queste due qualifiche ricopre un insieme di fatti e di valori molto diverso da quello che riassume l’altra. Ogni considerazione sulle società umane e la loro storia che subordini le molteplici manifestazioni della coscienza alle attività produttive rischia di dare un’immagine impoverita e artificialmente razionalizzata delle vicissitudini e esperienze realmente osservate.
2) Così pure l’”‘animale politico” non può essere identificato con l’homo oeconomicus. La socievolezza umana, e forse già quella di altre specie animali, produce dei motivi d’affetto, di comunione, di dedizione, di gelosia, eccetera, che complicano e possono perfino contrastare le finalità economiche della conservazione, della difesa e dell’espansione del gruppo. Il semplice fatto che si siano date e si diano situazioni, sia individuali che di gruppo, nelle quali, per riuscire a conservare puramente e semplicemente la vita, bisogna sacrificare le “ragioni di vivere” mostra quanto siano complessi i valori che gli uomini producono in comune e che si cristallizzano per ciascuno e per tutti in forma di interessi vitali.
3) II pedantismo quasi grammaticale delle due precedenti osservazioni dovrebbe servire a sottolineare la banalità della constatazione che siamo costretti a fare una volta che abbiamo ammesso che l’attività sociale degli uomini è un’integrazione di persone coscienti e non di cifre statistiche o di funzioni astratte: c’è un contrasto insormontabile fra l’evoluzione dell’esistenza sociale nella regolarità delle opere e dei giorni (come per un alveare o un formicaio) e la storia della medesima società considerata nella discontinuità degli eventi e delle avventure individuali, sempre irreversibili e imprevedibili, uniche e soggette all’impero multiforme del Caso. È altrettanto arbitrario erigere la prima serie al rango di “sostanza” (aristotelica) e ridurre la seconda a “accidente” quanto annettere importanza solo ai “grandi eventi storici” che si svolgerebbero sul fondo neutro dell’esistenza quotidiana di miriadi d’individui i quali, essendo individui privati e non statisti, generali o capipopolo, sarebbero meri soggetti passivi della Storia. Una tale dissociazione non appare, e non è possibile, se non nella prospettiva di un passato artificialmente ricostruito, mentre non soltanto l’esperienza attuale, ma anche una “ricerca del tempo perduto” che sappia aderire all’esperienza realmente vissuta, constaterà sempre, intimamente mescolati, il ritmo ininterrotto dei bisogni abituali e le sorprese memorabili che segnano le fasi di un destino individuale o collettivo.
4) Non c’è dubbio che i popoli, gli Stati, le istituzioni hanno il loro destino, punteggiato da “svolte storiche”, da epoche d’oro e da catastrofi più o meno grandiose. A guardar meglio, tuttavia, è solo per astrazione o metafora che si possono attribuire a delle formazioni collettive fasi di grandezza e fasi di decadenza: le tribolazioni sono sempre individuali, così come, secondo Platone, individuale sempre è la facoltà di ragionare. Quanto al cosiddetto “corpo sociale”, e cioè a quella rete di azioni reciproche, regolari, abituali che impegna e mantiene un maggiore o minor numero di esistenze personali nei binari di atti precisi, ripetuti indefinitamente e quasi automaticamente, certo, condizione del suo funzionamento normale è un grado notevole d’invariabilità. A cominciare dai popoli detti felici perché senza storia fino al gruppo d’amici che si ritrovano per trent’anni ogni giorno quasi alla stessa ora nello stesso caffè per la stessa partita a carte, quel che si constata è che la garanzia più efficace di una produzione — o riproduzione continua — dell’esistenza sociale è l’attenuazione fino ai limiti del possibile della “fuga del tempo” grazie all’immutabilità delle circostanze ambientali e dell’atteggiamento adottato dai personaggi in questione. L’individuo si preoccupa continuamente del passato e dell’avvenire e le sue aspirazioni s’innestano su ogni momento della sua azione e del suo pensiero. La società, al contrario, vive in certo modo in un presente indefinito. Il calendario è una creazione eminentemente sociale: esprime la perennità del medesimo ciclo di stagioni e dello stesso avvicendarsi delle classi d’età che si sostituiscono regolarmente l’una all’altra. Il che, fra l’altro, confermerebbe l’opinione che le metafore con le quali si attribuiscono a una società la gioventù o la vecchiaia sono quasi sempre prive di senso.
5) Non è affatto assurdo supporre l’azione normativa di un calendario fra gli animali: gli accoppiamenti, le migrazioni stagionali, il sonno invernale, le covate sono fissate in date precise dell’anno in maniera ancora più imperiosa che non le operazioni dell’economia umana. Ma sarebbe difficile scoprire nei calendari degli animali delle Feste, la cui importanza è viceversa così evidente in tutti i calendari degli uomini. Giacché la Festa rappresenta il successo più notevole dell’integrazione delle esigenze personali dell’uomo — della coscienza del passato e del futuro che da un senso alla sua vita — nella uniformità necessaria all’esistenza sociale, è un compromesso fecondo fra economia e mitologia, un’incorporazione dell’evento unico nella serie dei vertumnes ritornanti a data fissa.
Questo fatto merita una digressione. Ricordiamo, per cominciare, i molti motivi che giustificano la qualifica di “evento” applicata alla Festa. Le intenzioni magiche delle solennità che si ritrovano presso tutti i popoli primitivi — danze di primavera, feste del solstizio, della semina e della mietitura, eccetera — rivelano le inquietudini e le speranze suscitate dal fatto elementare per cui il passato e l’avvenire sono sempre “presenti” alla coscienza dell’uomo. Il ricordo delle siccità, delle carestie, delle epidemie, ma anche la tendenza (fondata sull’esperienza del tracciato univoco di ogni carriera umana fra la nascita e la morte) a “individualizzare” i fenomeni naturali, rende indispensabile l’intervento straordinario di sforzi ben coordinati e resi, grazie a simboli efficaci, ben rispondenti alla natura delle cose, per far risuscitare il sole, ottenere che la terra consenta a esser feconda, che la selvaggina abbondi e che le donne facciano molti figli. È, ogni volta, un “ricominciare dal principio”, un fatto straordinario.
Conviene anche tenere a mente l’effetto memorabile che ogni celebrazione festiva ha sull’animo di quelli che vi partecipano. Si sa che, nei riti d’iniziazione degli adolescenti, le prove (spesso dolorose) e le simulazioni terrificanti vengono moltiplicate a piacere, al fine d’imprimere un ricordo indelebile; ma anche le feste periodiche segnano delle date in ciascuna esistenza particolare, associandosi facilmente a un momento “unico” di gioia o di tristezza, di pienezza o d’angoscia, vissuto precisamente in occasione di questa o quella ricorrenza solenne.
Il significato “storico” -e cioè di elevazione al disopra del corso ordinario dell’esistenza- s’accentua quando la Festa “commemora” una gloria o un lutto di cui la comunità conserva e coltiva il ricordo per le generazioni future. Il culto degli eroi -con la creazione mitologica che le loro gesta fanno fiorire- si unisce naturalmente a un seguito tumultuoso di grandi avvenimenti, dei quali esempi egregi sono lo sciamare delle colonie greche intorno al Mediterraneo e probabilmente anche le invasioni ariane in India. Né occorre insistere sul significato di evento indimenticabile che aderisce a ogni gara olimpica, istmica o pitica, sulla risonanza del nome del vincitore per tutta l’Ellade, sulla gioia orgogliosa della sua città e i capolavori di lirica e di scultura che immortalavano la sua impresa. Così pure, a Atene, ogni Dionisiaca vedeva sbocciare tetralogie e commedie le cui vestigia ci meravigliano tuttora come un fatto “unico” negli annali del genere umano.
Dopo la guerra del Peloponneso, il teatro attico si svigorisce visibilmente: è l’epoca della quale tutti i testimoni attestano da una parte che il potere del danaro e l’aspra ricerca del profitto -la crematistica- vi si rafforzavano ogni giorno e, d’altra parte, che la lotta di classe -la divisione della città in due città: quella dei ricchi e quella dei poveri- minava la sicurezza dei costumi (ethos, mores) e corrompeva le norme della giustizia. Il che ci porta a esaminare un altro aspetto della Festa come istituzione sociale che offre all’uomo, al tempo stesso, un sentimento d’emancipazione dalle servitù dell’esistenza associata e una comunione più stretta e più spontanea con i suoi simili. Dalla licenza che i Saturnali accordavano agli schiavi al bacio fraterno che, il giorno di Pasqua, il basileus di Bisanzio o lo zar di Pietroburgo non hanno mai mancato di scambiare col più umile dei loro servitori, un gran numero di feste popolari statuivano esplicitamente o tolleravano senza riserve, insieme all’interruzione di ogni fatica produttiva, l’abolizione delle barriere fra le diverse condizioni sociali; già l’”abito da festa” e le vettovaglie prodigate in banchetti pubblici e privati significavano l’abbandono di ogni cura “economica”.
Ora, non c’è festa che se il popolo non solo vi partecipa, ma ne è l’animatore e il protagonista. I circenses concessi dal despota a masse prive di coesione (prive, cioè, della dignità che proviene da costumi -mores- ben assodati), la parata continua in cui si traduceva a Versailles il funzionamento della machine royale, la grande vie a cui degli oziosi possono darsi tutti i giorni e tutte le notti dell’anno, non hanno nulla del significato mitologico e delle virtù sociali che sono il proprio della Festa. I festeggiamenti “a porte chiuse” ai quali non hanno accesso che gli invitati di una certa casta o corporazione speciale, se non rimangono nei limiti di una modesta riunione intima, cadono facilmente nella presunzione o nella volgarità, hanno qualcosa di artificioso, di angusto, di meschino; neppure i tornei cavallereschi sfuggivano a quella rigidità e a quel gusto della rozzezza “professionale” che si ritroverà nelle cene d’ufficiali o nelle riunioni di birreria degli studenti tedeschi; e, a cominciare dal ballo in casa di Cèsar Birotteau, il ridicolo del “grande apparato” in un ambiente borghese ha fornito argomento di molti capitoli di romanzi realisti.
Perché la Festa meriti il suo nome e dispieghi tutto il suo valore nella vita sociale, bisogna che il popolo, sbarazzato delle sue cure quotidiane, possa ritrovarvisi intero. Ma importa ancora precisare: perché la celebrazione di una vera Festa sia possibile sotto un determinato regime, o in un determinato momento storico, occorre che il popolo, ossia l’insieme degli uomini che con la loro pena quotidiana assicurano la continuità dell’esistenza materiale e morale del “corpo sociale”, sia capace d’apprezzare e di praticare certi “rapporti reciproci” che costituiscono la società per eccellenza. Per il che intendo dei modi di socievolezza cordiale, di cortesia spontanea, di solidarietà senza obbligo né sanzione, di comunanza di gusti, di credenze e di maniere di cui i legami d’amicizia, i cameratismi solidi e provati, le riunioni “per il solo piacere di stare insieme”, i cenacoli di ferventi di un medesimo ideale, eccetera, offrono gli esempi più o meno raffinati. Basta che le necessità del lavoro di ciascuno e i “rapporti imposti dal sistema di produzione” lascino sussistere abbastanza serenità e abbastanza fiducia nei costumi tradizionali, abbastanza fiducia e comprensione reciproca nei riguardi dei propri vicini (e anche dei propri “superiori” e “inferiori”) perché, almeno negli intermezzi di rilassamento, la spensieratezza gioiosa possa darsi libero corso, il “calore comunicativo” trionfi di ogni impulso represso e nessuna distanza agghiacciante separi le classi sociali, o l’uomo dell’élite dall’uomo della strada. È uno spettacolo visto: si vorrebbe sperare di poter rivederlo. Se questo dovesse significare che la lotta di classe non è tutta la storia delle società umane, bisognerebbe rassegnarsi sospirando: “Amicus Marx, sed magis amica societas…”
I rapporti fra un fenomeno sociale così saturo di significati magici e mitologici come la Festa e il sistema di azioni reciproche obbligate che costituiscono la struttura economica non sono semplici. È evidente che le feste contadine (o quelle dei popoli cacciatori) sono strettamente legate alle cure produttive; ma, introducendo la magia fra le forze produttive, si esce evidentemente dai limiti del determinismo strettamente materiale dei “mezzi tecnici”. Ciò rende plausibile l’ipotesi che la nozione del sacro e le norme del fas et nefas sono dei fattori primordiali dell’esistenza sociale e non delle sovrastrutture della situazione economica governata dai procedimenti che vengono messi in opera per nutrirsi, alloggiarsi, vestirsi e difendersi.
La fusione del fattore economico con la Festa si ritrova nel caso assai frequente in cui la celebrazione gioiosa di dèi o di santi patroni coincide col traffico “rinforzato” delle fiere e mercati. Non si esiterà a riconoscervi una conseguenza importante e caratteristica del “capitalismo mercantile”; ma, a guardar le cose da vicino, si è colpiti da un certo numero di dubbi. C’è, in primo luogo, lo spettacolo di uno spreco che bisogna pur decidersi a chiamare “antieconomico” e che ha in tutti i tempi predominato nelle fiere, dove le folle accorse da una periferia più o meno vasta comprendevano sempre, insieme a un piccolo numero di uomini d’affari, una maggioranza di saltimbanchi, cantastorie e istrioni d’ogni specie, di gente venuta non per fare affari ma proprio per divertirsi dissipando in pochi giorni, se non in poche ore, i frutti di mesi e mesi di fatica. Il caso-limite è quello dei mercati che si organizzavano nei punti di partenza e d’arrivo dei cercatori d’oro o delle installazioni di mercanti che si spostavano al seguito di eserciti vittoriosi e carichi di bottino (quelle di Alessandro e dei suoi diadochi, per esempio). Lì, quello che era venuto da una parte se ne andava dall’altra: l’oro guadagnato in maniera facile o insperata si volatilizzava in orge frettolose, in consumi fastosi, acquisti di oggetti inutili, distruzioni giocose o sadiche. Dilapidazioni di tal sorta erano di regola nella maggior parte delle fiere, fino a quelle che si tenevano a Nijni-Novgorod sotto la protezione di San Macario. Ricordando che c’è stato un filologo tedesco che ha tradotto il termine aristotelico con lustvolle Entladung (scarica, o degurgitazione, gioiosa), possiamo pensare che si tratti di una catarsi periodica molto salutare per il progresso normale delle attività economiche: un po’ come il riposo domenicale è propizio al miglior rendimento della “forza di lavoro” (ma non è per poter lavorare che ci si riposa e ci si svaga: piuttosto per poter sopportare il lavoro). Quello che sembra molto debole è l’argomento col quale si pretende di vedere un incoraggiamento razionale alla circolazione delle ricchezze nel vortice di casi, di frodi, di parassitismi, di prostituzioni, di stravaganze il cui motivo principale e principale attrattiva è la liberazione momentanea da ogni “regolarità”, a cominciare da quelle dell’economia. Ci voleva lo spirito mercantile moderno, e in particolare quello americano, per commercializzare la Festa fino a ridurla a occasione di compere in massa. Ma bisogna dire che ciò è stato possibile solo perché lo spirito della Festa era già spento.
Divagazione sugli intellettuali
Andrea Caffi, 1950.
Anche in Tempo Presente, Vol. IV, n. 6, giugno 1959
A Jaurès che, trovandosi in compagnia di uomini politici, uscì a dire: “Qui, siamo tutti universitari,” si racconta che Briand, seduto accanto a lui, interrompendolo, sussurrasse soavemente: “Scusate, caro amico, sono forse di troppo?”
Eppure Briand era certo capace di “agitare idee”; ma non le rispettava “in quanto tali”. Al polo opposto, c’è il rispetto insincero, e spesso esagerato anche nella forma, per le “idee”: l’orrore ipocrita per il “materialismo sordido”; e cioè lo pseudo-intellettuale. Se Jaurès si fosse lanciato in una discussione della sua tesi sulla realtà del mondo sensibile, Briand, l’anti-intellettuale, si sarebbe gentilmente rifiutato di seguirlo su un tal terreno; mentre Raymond Poincaré, lo pseudo-intellettuale, avrebbe esposto autorevolmente la dottrina gnoseologica di Joseph Prudhomme.
Fra gli uomini politici inglesi, John Morley e Balfour erano degli intellettuali autentici; Lloyd George e i Chamberlain (sia il padre Joe che il figlio Neville) degli anti-intellettuali; mentre Gladstone e Ramsay Macdonald sarebbero da definire pseudo-intellettuali. Quanto a un Lord Halifax, come classificarlo?
Gli odi e i sospetti “di frontiera” fra queste categorie sono spesso violenti. Gli pseudo-intellettuali detestano (con l’aggravante e la complicazione di un sentimento d’inferiorità) sia gli intellettuali autentici che gli anti-intellettuali; mentre fra l’intellettuale e l’anti-intellettuale può esistere una stima reciproca. Per esempio, l’anti-intellettuale Giolitti rispettava Croce, ma disprezzava Nitti; il quale Nitti, a sua volta, nutriva risentimenti sia contro l’uno che contro l’altro. Stalin non poteva fare a meno di rispettare Gorki, mentre il suo odio per Trotski, Kamenev, Zinoviev, Bukharin era misto a una forte dose di disprezzo. Il grottesco di un Mussolini e di un Hitler viene dal fatto che essi stanno a mezza strada fra l’anti-intellettualismo e la pseudo-intellettualità. C’è anche il caso di apostasia clamorosa e vittoriosa: l’intellettuale autentico convertito per cinismo all’asservimento dei valori intellettuali alla volontà di potenza di una casta o di uno Stato. Federico di Prussia, il quale da principe illuminato e amico dei “filosofi” si trasforma nel conquistatore che dice: “Prima occupo una provincia, poi troverò sempre dei giuristi che dimostrino il mio buon diritto”, è uno di questi: la diatriba di Diderot contro di lui ha proprio il tono della diatriba contro un apostata. La frase di Disraeli: “E dire che abbiamo speso tesori d’eloquenza e d’intelligenza per salvare una mitologia consunta” (quella della Chiesa anglicana) è un altro esempio di tale cinismo. Io classificherei anche Lenin in questa categoria di “uomini forti” (diversi dagli anti-intellettuali per felice ignoranza, come Gambetta, Briand, Lloyd George), capaci di apprezzare i valori intellettuali e, nel contempo, di rinnegarli di fatto: il libro sull’empirio-criticismo, diretto contro Bogdanov, intellettuale autentico rimasto “chierico” anche dopo il trionfo della rivoluzione, è concepito come una denuncia di “sospetti” a un futuro tribunale rivoluzionario. Nell’apprezzamento dei fatti dello spirito, l’atteggiamento di Lenin coincide perfettamente con la frase attribuita a un giudice giacobino: “La rivoluzione non ha bisogno di scienziati.”
Prima del 1917, i bolscevichi sarebbero difficilmente stati ammessi in quell’”ordine” che era l’intellighentsia russa, mentre non si esitava a riconoscere che uomini come Kropotkin e Plekhanov vi appartenevano di pieno diritto. Un mio amico, che era stato corrispondente a Sofia durante la prima guerra balcanica, mi raccontava che fra i giornalisti c’era Trotski, inviato dalla Kievskaia Mysl; ma si teneva in disparte dagli altri (fra i quali c’erano uomini come Ossorghin e Nemirovich-Dancenko), e gli altri preferivano che così fosse: “Noi eravamo là per vedere e informare il meglio possibile, lui condiscendeva a fare quel mestiere; lo faceva, bisogna dirlo, in maniera brillante, ma teneva a rammentarci (e a rammentare ai suoi lettori) che la sua vera missione era ‘di cambiare il mondo, non di conoscerlo’.”
Questa formula marxista, come la dottrina di Auguste Comte, possono essere considerate dichiarazioni intellettuali di anti-intellettualismo. Marx e Comte erano intellettuali dei più autentici, ma la loro progenie intellettuale è stata composta soprattutto di pseudo-intellettuali, genia che pullulava nella socialdemocrazia, ma di cui d’altra parte anche un Maurras è esemplare abbastanza significativo. Così, il dogma cristiano ha soddisfatto più gli pseudo-intellettuali come Atanasio che non gl’intellettuali autentici: Origene, intellettuale se mai ve ne furono, finisce nell’eresia, come Tertulliano. I Padri di Cappadocia, Basilio, i due Gregori e Gerolamo si tengono in equilibrio sulla corda tesa dell’ortodossia, continuamente in pericolo di cadere; Gregorio rifugge con terrore dalle responsabilità dell’episcopato.
D’altra parte, gl’intellettuali al potere non hanno mai fatto una gran figura: l’esempio più vicino è Léon Blum, ma si ricordino Lamartine, Teofilo Braga in Portogallo nel 1910, Miliukov, il gruppo Kerenski e Tseretelli in Russia. Quanto a Salazar, lo si direbbe piuttosto uno pseudo-intellettuale sostenuto dalla Somma di san Tommaso e da quella di Auguste Comte; oppure, forse, un apostata.
Nel parlare d’intellettuali, si oscilla quasi sempre fra un significato abbastanza preciso e un’accezione assai larga e vaga. Dopo la diffusione del romanzo in Occidente, e soprattutto dopo l’affare Dreyfus, c’è la tendenza a considerare come quasi intercambiabili l’intellettuale quale l’han formato in Francia i cenacoli romantici, i diners Magny, l’École normale, le “torri d’avorio” del simbolismo da una parte, e l’intellighente russo dall’altra: Herzen, Nekrassov, gli slavofili, e poi i realisti, i nihilisti, i “nobili pentiti” eccetera. L’intellettuale francese si considera certamente investito della missione del “chierico” (laicizzato) secondo Benda; mentre l’intellighentsia russa proviene (come ho spesso cercato di spiegare) da un rovesciamento delle posizioni rispettive dello Stato e della società.
“All’ordine dello zar Pietro di andare a scuola, la nazione rispose cento anni dopo con Pushkin” ha detto un russo, e questo segna all’incirca il momento dell’inversione delle parti. Fin allora — e Pushkin lo sottolinea in alcuni celebri passi — i “lumi” erano stati appannaggio del governo, quindi tutti coloro che si curavano di valori intellettuali erano servitori dello Stato. Nicola I e la sua cerchia, pieni di paure e di timori controrivoluzionari, rompono con questa tradizione e trattano l’intellettualità in blocco pressappoco come Ceu Hoang Ti, imperatore Ts’inn, e il suo gran giudice Li Seu trattarono le lettere e i letterati. Risultato: l’emancipazione risoluta degli intellettuali da ogni legame con il regime e la formazione assai rapida di una classe di refrattari i quali si sentono investiti solidalmente della missione di tenere alta la fiaccola della Verità, della Giustizia, della Libertà, del Progresso eccetera
.La divergenza di atteggiamenti nei due tipi di intellettuale è evidente: il “chierico” secondo Benda proclama e coltiva la verità senza curarsi di quello che il “secolo” ne farà. L’”ordine” degli intellettuali russi, invece, si considera una milizia per il trionfo della verità nella vita sociale e per la “felicità di tutti gli uomini”: le sue speranze sono fondate sulle energie nascoste e oppresse del popolo che basterà svegliare e emancipare per contagio morale o anche attraverso un’azione di liberazione materiale perché spontaneamente si costituisca il nuovo ordine. Conviene sottolineare che in nessun momento della sua storia l’intellighentsia russa si è atteggiata a “classe dirigente di domani”: nel suo seno, il giacobinismo di un Netciaiev o di un Tkatciev si scontrò, più che a una critica ragionata, a una ripulsa istintiva e generale.
Fra le conseguenze di tale diversità tra le due posizioni iniziali degli intellettuali occidentali e di quelli russi si possono notare:
1) l’estrema riserva di piccoli cenacoli o di esistenze quasi eremitiche verso le questioni sociali da una parte, un’intensa effusione di socievolezza dall’altra;
2) la differenza evidente nell’apprezzamento delle convinzioni politiche: in Russia, questo era il punto dove cominciava l’intolleranza, mentre in Francia e in Inghilterra la politica era quasi un epifenomeno che (prima di conflitti come l’affare Dreyfus) non impediva a un legittimista e a un anarchico di incontrarsi sul terreno della cultura, di scambiare idee e di condividere le stesse dottrine estetiche o metafisiche;
3) l’alterazione dell’élite francese, soprattutto nel mondo universitario, ma anche nelle lettere e nelle arti, veniva dalla contraffazione: dall’adesione cioè di snob, di arrivisti, di dilettanti, e insomma della genia degli pseudo-intellettuali; mentre in Russia c’era piuttosto la difficoltà di stabilire un livello, di escludere dall’”ordine” i mezzi intellettuali e i quarti d’intellettuale, e si potrebbe addirittura dire i meticci, dato che si sognava l’estensione dell’ordine medesimo all’umanità intera; di qui un appesantirsi dell’intellettualità a causa dell’analfabetismo presuntuoso, invidioso, reso nevrastenico dai disinganni e dalle impotenze: è il mondo illustrato da Cechov, nel quale il più meschino telegrafista di paese si atteggia a intellettuale; ed è anche lo strato sociale nel quale la rivoluzione, all’indomani della sua vittoria, troverà nugoli di agenti servili e pieni di rancori da sfogare.
Nell’uscire dalla sua “torre d’avorio” l’intellettuale occidentale, incontrandosi con questo cugino barbaro, provò una curiosità assai viva, una simpatia un po’ torbida o una diffidenza inquieta verso quel turbolento parente. Con alcuni scarti genealogici, l’ascendenza comune era innegabile: il “chierico” poteva richiamarsi all’atteggiamento particolare di un D’Alembert, l’intellettuale russo all’agitazione generale, non esente da promiscuità, della cerchia dell’Enciclopedia; il “chierico” occidentale ha subito fortemente le tendenze della sinistra hegeliana, l’intellettuale russo è stato piuttosto sensibile alla reazione anti-hegeliana fondata sulle scienze naturali; sfumature analoghe si potrebbero rilevare nell’eredità intellettuale: romanticismo, saint-simonismo, Comte, Stuart Mill, Darwin, Spencer.
Date quelle che erano le circostanze verso la fine del secolo XIX (ascesa del movimento operaio, democratizzazione dei costumi e delle istituzioni, istruzione obbligatoria, grande stampa, importanza degli apporti tecnici, accessibili a tutti, nell’esistenza quotidiana), è la tendenza russa che alla fine ha trionfato. E uno dei risultati fu che l’intellettuale che aveva aderito alla Fabian Society o combattuto per la revisione del processo Dreyfus si sentì in dovere di avvicinarsi (come era avvenuto fin dal principio in Russia) alle “classi inferiori” non già del popolo medesimo, ma dei semi-intellettuali, autodidatti o falliti, che operavano già in gran numero nei partiti popolari, nei sindacati, nel giornalismo, nella scuola elementare eccetera.
A questo punto, a proposito di origini e tradizioni, bisogna rilevare una contaminazione che ha causato gli equivoci più perniciosi quanto alla funzione degli intellettuali (o piuttosto degli pseudo-intellettuali) negli Stati totalitari, e anche in partiti politici che pretendono di difendere la democrazia.
È stato detto che tanto il “chierico” moderno quanto l’intellettuale rivoltoso del tipo russo hanno la loro origine nel secolo XVIII. In quel tempo, si era ardentemente persuasi che “la ragione finirà con l’aver ragione”. Il “chierico” moderno, mentre rinunciava a un tale atto di fede e di speranza, si sentiva sempre più fortemente ancorato alla convinzione che la verità (e di conseguenza la “giustizia”, la “felicità” eccetera) non può essere imposta, né venire assimilata bell’e fatta, ma ha bisogno di una laboriosa gestazione in ogni coscienza individuale. L’intellighentsia russa, da parte sua, rimaneva molto più fedele alla dottrina primitiva degli enciclopedisti e professava in genere che, siccome l’assimilazione della verità era in armonia prestabilita con la natura dell’uomo, il compito era relativamente facile: bastava che gli occhi si aprissero e la “vera luce” avrebbe inondato la realtà esterna come quella intima. Quindi l’emancipazione intellettuale dell’uomo non poteva essere concepita che come un atto libero e individuale, di portata limitata all’orizzonte e alle capacità di ognuno.
Questa luce era di per sé un gran beneficio e una fonte di gioia, ma non un privilegio: certo, non era escluso che, per il loro stesso bene, si dovesse dare una buona scossa ai “ciechi”; l’idea di un despota illuminato si accompagnava alla previsione di costrizioni salutari. Ma la nozione di una luce naturale e dipendente interamente dallo sforzo individuale implicava in primo luogo un’assai larga tolleranza e, in secondo luogo, il riconoscimento che la competenza di ciascuno è necessariamente limitata e che non esiste nessuna istanza superiore la quale possa conoscere meglio di me quel che mi concerne più da vicino. Di qui le numerose idee sulla superiorità del selvaggio, del contadino, del tecnico (ivi compreso l’uomo di Stato) nel campo in cui egli è specializzato, accompagnate dalla diffidenza per le ingerenze regolatrici in nome di un qualche assoluto.
Ora, in seguito allo smarrimento proprio dell’epoca che seguì la rivoluzione francese, ma anche forse come trasposizione metafisica dell’immensa audacia del Comitato di salute pubblica, a tutto questo, in Europa, venne a sovrapporsi la sublimazione dell’Idea nella teologia hegeliana.
Attraverso la mostruosa identificazione dell’Idea con l’essere e con tutte le manifestazioni empiriche della realtà, si giunse a attribuire un potere sacerdotale e dispotico ai manipolatori e agli interpretatori d’idee, o meglio: di quell’informe complesso chiamato l’Idea, nella quale vengono a confondersi tutte le operazioni ideologiche. Con ciò, di colpo, ogni azione umana, ma soprattutto ogni azione di governo, fu “sacralizzata” come espressione dell’Idea. Da una parte si dichiarava che ogni valore intellettuale portava in sé un “valore di potenza” (e di responsabilità effettiva, essendo equiparato a un atto), dall’altra si promuoveva ogni atto di potenza alla dignità di “significato ideale”, di valore di verità e di giustizia (e quindi fonte d’obbligazione morale e di… terror sacro), la giustizia non essendo peraltro che la norma decretata da un potere effettivo. Così cominciò il vero “tradimento dei chierici”.
Riflessioni sul socialismo
primi anni del dopoguerra
Tratto da Gino Bianco (a cura di), Andrea Caffi, Socialismo libertario, Azione Comune, 1964
Anche, in forma parziale, in Critica Sociale, 1962
Se il socialismo oggigiorno non può essere altra cosa che un «apparato» d’azione politica (con stinte o tarlate coperture ideologiche) impegnato -assieme ad altri partiti- nel mesto compito di mantenere più l’apparenza che la sostanza di regimi «democratici» in una Europa sconquassata e imbarbarita, non vale proprio la pena di essere socialista piuttosto che radicale o liberale o magari democratico-cristiano; se invece intendiamo per socialismo la continuazione -con discesa nel popolo- delle grandiose ed audacissime speranze concepite nel Settecento, di attuare una completa emancipazione della ragione umana, sui principii della quale è unicamente possibile fondare la pace, la fraternità, la felicità per tutti -allora dobbiamo cominciare col riconoscere che tutti gli eventi dall’agosto 1914 in poi hanno calpestato, soffocato, deviato questo movimento- e che… bisogna ricominciare da capo. Spietato, prima di tutto, deve essere l’esame di coscienza giacché inavvedutezze e colpose facilonerie da parte nostra hanno contribuito certamente al così catastrofico generale collasso.
Per giustificare la mia frase: «ricominciare da capo» non è forse inutile fare qualche considerazione sulla storia del socialismo: a mio parere quella che speriamo iniziare sarà la quarta «ripresa» (o la quinta fase del movimento socialista):
1) La prima fase è sorta quasi assieme alla Rivoluzione francese, si esplicò nelle classiche «utopie» di Owen, Saint-Simon ecc., nonché di molti operai inglesi (culminanti nel «cartismo») e francesi (giornate di Lyon ecc.). Non solo il massacro del giugno 1848 a Parigi, ma la disfatta completa della rivoluzione europea – sembrò segnare la fine di ogni speranza, lo sbandamento delle schiere, il «rinsavimento» dei «sognatori» (tipico il voto di molti operai per Napoleone III con il passaggio dei saint-simonisti al culto della «efficacia capitalista» e anche statale).
2) Speranze, entusiasmi, combattività rinacquero nell’Internazionale (ed anche, contemporaneamente – nel tradeunionismo e nel movimento promosso da Lassalle). Ma di nuovo, ed assai presto, l’esito tragico della Comune di Parigi (come di quella spagnola di Cartagena e forse anche dell’«andata al popolo» dei bakuninisti russi) – riecheggiarono come campane a morte; provocarono diserzioni, ravvedimenti, scoraggianti pessimismi. Ma per poco.
3) Verso il 1884-85 la «spinta in avanti» è di nuovo manifesta: tenaci progressi della socialdemocrazia germanica, grandi scioperi a Londra, «Martiri di Chicago», nascita di «partiti operai» in molti paesi. Sarà la Seconda Internazionale «marxista» nei suoi più grossi contingenti, ma sarebbe ingiusto dimenticare sia il sindacalismo inglese, sia quello francese; l’attività cospicua di non pochi gruppi libertari ed il «fiancheggiamento» di correnti «intellettuali» (Ruskin, William Morris, i «fabiani», Tolstoi, Frederik van Eeden ecc.). A mio parere, la decadenza della Seconda Internazionale comincia con la disfatta della Rivoluzione russa (1905-1907) ed il generale restringimento ad una specie di «realpolitik» elettoralistica, parlamentare (e quindi forzatamente nazionale). Cosi gli eventi del 1914 non incontrarono nessun dinamismo di resistenza socialista.
4) L’epoca successiva è dominata indiscutibilmente dal «mito russo». Più tipico che l’adesione totale o «con riserve» al bolscevismo di tanti militanti che non erano tra i peggiori dell’«avanguardia operaia» – mi pare l’atteggiamento («complesso» di inferiorità o di colpevolezza) degli avversari del bolscevismo fra il 1919 ed il 1939. – Hanno usato di fraseologie a cui credevano «a fior di labbro», sono ricorsi a meschinissimi ripieghi e sofismi per camuffare compromessi d’ogni sorta, pigrizia nelle idee, sordidi vantaggi di «arrivismi» personali – (beninteso v’erano anche vestali candide attorno ad un fuoco spento).
Il distacco dal « mito russo » delle coscienze ancora deste (per es. dei veterani del sindacalismo francese che in gran numero avevano «creduto» alla rivoluzione nel 1919) cominciò fin dal 1924-25, agevolato dal dissidio fra Trotzky e Stalin. I processi di Mosca, l’effettiva liquidazione dell’autentico «bolscevismo», avrebbero dovuto avere effetti decisivi. Ma, da un lato, il minaccioso addensarsi della reazione -sotto forma fascista o «criptofascista», la necessità dei «fronti popolari» in Francia, Spagna ecc.- ritardavano, rendevano inopportuna la rottura; dall’altro lato -e questo mi pare il fatto determinante- non esisteva una alternativa al proletariato: al proletariato deluso da Mosca non s’offrivano che partiti screditati o «gruppi dissidenti» troppo insignificanti (e spesso settari). Così la guerra ha trovato le formazioni comuniste praticamente «senza rivali» e nella tremenda, devastatrice «semplificazione» di tutti i problemi (ridotti quasi all’unico di «sopravvivere») -è bastata Stalingrado per ridare sembianze di vita all’insepolto spettro- (quasi parodia del famoso spettro del «Manifesto»).
5) Ora, dopo quattro anni di continue rivelazioni sulla innegabile infamia delle «democrazie popolari», del totalitarismo xenofobo di Mosca ecc., solo la mole immensa della stupidità umana aiuta l’«apparato» (certo ben congegnato) del Kominform a mantenere «occhi che non vedono, orecchie che non odono». E tuttavia è assai probabile che l’atroce farsa di un «movimento rivoluzionario» per instaurare la schiavitù integrale – sia alle penultime battute. Se è così lento il processo, la colpa ne va attribuita (oltre che ad uno stato generale di «stanchezza » e demoralizzazione collettiva) alla mancanza d’una vera rinascita del socialismo: benché molte buone volontà si agitino in proposito, non si vede ancora una reale ripresa di «eroici furori». E’ che questa volta il compito è infinitamente più scabroso che non fosse nel 1880 o nel 1885: allora gli ostacoli da affrontare erano forze schiettamente, apertamente nemiche della classe operaia. Oggi si tratta di «superare» o liquidare non già un trionfo della reazione (dell’oppressione economica e politica), ma una doppia mostruosa falsificazione dello stesso socialismo: giacché non meno del totalitarismo comunista, sono stati deleteri gli effetti del nazionalismo socialdemocratico nato dalle «unioni sacre» del 1914 ed oggi impersonate nei Ramadier, Moch, Bevin, Saragat ed anche Schumacher (difensore anzitutto di un quarto Reich).
Fra le fasi successive che ho cercato di definire nei «150 anni di socialismo» non vi fu soluzione di continuità. Nella I Internazionale, Marx, Proudhon, Blanqui portavano esperienze anteriori al 1848; nella Seconda, Liebknecht e Bebel, Jules Guesde e Andrea Costa ecc., potevano dirsi formati nella Prima; a cominciare da Stalin, Cachin, Kolarov, ecc., lo stato maggiore del bolscevismo conta un buon numero di veterani dell’Internazionale socialista. Per la rinascita in cui speriamo oggi, si vorrebbe fare affidamento su forze giovanissime, spontaneamente creative. Ma (a parte certi dubbi sul livello d’educazione politica… ed anche sull’educazione generale della nuovissima generazione cresciuta nell’abominazione e desolazione dell’ultimo decennio), sarebbe strano ignorare il contributo delle «classi anziane» che naturalmente -se il movimento riprende vita davvero- dovranno rassegnarsi a che l’eredità da loro custodita non venga accolta se non con «beneficio d’inventario». Nessuno, credo, vorrà un semplice «ritorno» alle «buone tradizioni» di prima del 1914; il passato rivive solo in trasfigurazioni… che lo rendono irriconoscibile. Più che sui superstiti dell’epoca veramente preistorica in cui Lenin, Vandervelde e Prampolini si consideravano vicendevolmente «compagni», bisognerebbe poter contare su quelli – e sono numerosissimi – che sono passati per l’inferno stalinista e magari per il purgatorio trotzkista (usciti beninteso anche da quest’ultimo). Perché l’avere conosciuto dal «didentro» il serraglio bolscevico – mi sembra una garanzia (direi quasi una vaccinazione) più di tutte effettiva contro certe illusioni e certe ambiguità.
Senza spingersi ad esagerazioni di analogie (che applicate a momenti della storia sono sempre fallaci) – si può dire che oggi -come alla vigilia del «Manifesto Comunista», come prima della costituzione della Seconda Internazionale- vi è in Europa un numero impressionante di sparuti cenacoli e di «isolati», nei quali nonostante tutto vive la convinzione che «qualcosa bisogna fare» per combattere l’assurdità dell’attuale «condizione umana», per muovere le menti e le «volontà di vivere» verso la redenzione (che si desidera totale, anche se la si sa irraggiungibile). Vi è pure questo fatto a mio avviso abbastanza inquietante: che fra tutti coloro che si assumono il compito di governare le genti o di erudire la pubblica opinione non se ne trova uno che non voglia essere «anche lui socialista fino ad un certo punto» o «in un certo senso». Dal Papa al magnate di Wall Street, dal graziato gerarca dell’OVRA all’emerito agente del MVB (o NKVD o Ghepeù che dir si voglia) tutti caldeggiano una «organizzazione della società», collettivistiche coercizioni in nome della «maggior giustizia»… e della minor libertà possibile. Il fenomeno non è assolutamente nuovo: una parte del «Manifesto» di Marx ed Engels è destinata all’esame delle già allora numerose correnti socialiste, fra le quali certune qualificate come «reazionarie»; non ricordo più se sia stato Gladstone o un membro del suo gabinetto che verso il 1832 asseriva: «siamo tutti più o meno socialisti». Ma non regge il paragone quando si misurino le proporzioni gigantesche, mostruose che oggi presenta questa orgia di «ideologie anticapitalistiche», al pari di tante altre manifestazioni della nostra presunta «civiltà» planetaria e massiccia. Come le dimensioni degli Imperi, la micidialità delle guerre, la funzione ed i mezzi d’azione dello Stato, i parassitismi d’ogni grado, la brutalità dei metodi repressivi, ecc. ecc., cosi pure l’enunciazione e la diffusione di «parole d’ordine» e programmi demagogici hanno straripato da ogni «misura umana». Donde lo «scoraggiamento» a priori d’ogni iniziativa di sincerità e di buon senso.
Se il nostro compito di far rivivere il socialismo era già severamente ipotecato dalla pregiudiziale d’una critica a fondo (e s’intende «critica in atto») degli errori colposi tanto del comunismo che della socialdemocrazia, difficoltà ancora più gravi incontreremo nelle specifiche condizioni dell’ambiente di «massa» in cui dovremo operare. Non è più questione di «inerzia» delle masse che la propaganda, l’agitazione, il risveglio di «coscienze» e «solidarietà» poteva proporsi di vincere. Abbiamo ora le masse, la mentalità gregaria, l’affogamento nella volgarità (chiamata «civiltà di masse») in piena ed irruenta effervescenza. Il disprezzo per tutto ciò che non è immediatamente «efficace», adorazione della forza, del successo e quindi del «capo» (o duce), il gusto d’essere comandati e «messi al passo», l’oblio d’ogni dignità e d’ogni rispetto per l’altrui persona sono i caratteri più ovvii dell’«animo» coltivato ed esasperato in queste masse che gli eventi mondiali dal 1914 ad oggi, assieme all’accelerato progresso di tutte le tecniche, hanno messo in subbuglio e spinto «sul proscenio della storia».
Naturalmente la ragione prima di tutto il male è l’assenza di una base sia di popolo, sia di convinzioni chiare. Ed oserei dire che la prima manca perché genialità, audacia della ragion critica, sincerità di coscienza hanno fatto difetto per attuare la seconda.
Il socialismo in quanto: 1) capacità di concepire l’ambiente sociale alla luce d’una «critica» rigorosamente razionale esplicata dalla «facoltà di giudizio» dell’individuo; 2) solidarietà profonda fra individui che «si sono compresi» non superficialmente fra loro e si sono sentiti legati da un modo pressappoco identico di intendere (ma anche di sentire, giudicare) la realtà circostante – non può assolutamente adattarsi a una «organizzazione di masse». La massa è una forma di collegamento fra gli individui, in cui tutto il fondo di «essenza» caratteristica o di «esistenza» originale che costituisce «la persona» (unica, irriducibile a misurazioni quantitative o norme meccaniche) viene eliminato, e gli uomini ridotti a semplici «unità» sostituibili di un certo numero efficiente.
Al tipo di reciproci rapporti fra esseri umani che si esprime nella «massa» si oppongono i modi più complessi d’unione, che (seguendo le spiegazioni di Gurvich a mio parere assai convincenti) si definiscono come «comunità» o, – ad un grado di ancor maggior intensità, come «comunione» fra persone pienamente coscienti e del loro «io» e della loro integrazione in un «noi» (noi altri). Ora, la propaganda (la educazione, la conversione) socialista non è stata feconda che quando distaccava l’uomo (convertito a tutto un modo nuovo di capire quanto «succedeva intorno a lui») dalle meccaniche ingiunzioni della «massa» (inerte o animata da ciechi furori), quando creava nuove «comunioni» di stretti circoli o «comunità» – come quelle che sentivano nascere i partecipanti (per la prima volta) ad uno sciopero -con rischi gravissimi di fame e di persecuzione poliziesca- o ad una «manifestazione» che faceva scandalo agli occhi di un’immensa maggioranza di timorosi o «benpensanti». Il socialismo non poteva riuscire che con il continuo rinsaldamento e la proliferazione di simili associazioni schiette, spontanee, articolate con profondo riguardo per il più modesto degli individui che vi si erano aggregati: era una necessità, se si voleva redimere l’uomo da quella condizione di «elemento di massa» (oggetto e non soggetto) alla quale prima il sistema d’accentramento amministrativo delle monarchie assolute (corroborate dalla chiesa cattolica in seguito alla Controriforma, da chiese protestanti o «ortodosse» che avevano accettato in pieno la teoria «cristiana» della ragion di Stato come ultima «ratio») e poi il sistema economico del capitalismo l’avevano ridotto; in contrasto con l’illusoria «libertà» e la formale «uguaglianza» dell’«atomo» sociale della democrazia secondo i principi del 1789 (o della rivoluzione americana), il socialismo era tutto intento a ricreare la reale integrità della persona umana nella effettiva spontaneità di associazioni libere («senza potestà corruttiva né sanzioni coercitive»).
La prima organizzazione che deviò il socialismo verso l’azione di «massa» fu la socialdemocrazia tedesca verso il 1900: apparato amministrativo e relative gerarchie, interesse esclusivo per le manifestazioni massicce (elezioni – slogans «parole d’ordine» -semplificate e appoggiate con perfetta e più o meno « militare» disciplina- unità di dogmi ideologici, imposti per esempio dal concilio di Dresda nel 1903, stampa severamente controllata e perciò ridotta ad una mediocre uniformità). Lenin ha imparato molto dallo studio dell’«apparato» germanico del 1914 – Mussolini e anche Hitler si sono addestrati, prima a contatto con i metodi della socialdemocrazia «ortodossa marxista», poi osservando i metodi del bolscevismo che ha osato spingersi sulla stessa via fino a conseguenze che quella brava gente che erano tuttavia i Kautsky, Scheidemann, Ebert, avrebbero con orrore ripudiato.
E’ facile oggi con il senno di poi constatare come i successi della socialdemocrazia, apparentemente così fragorosi fra il 1890 ed il 1913, fossero illusori; giacché si scontarono con le ignominiose disfatte dell’agosto 1914, del 1919, del 1932-1933; ma ai tempi d’oro suscitavano una ammirazione ed una emulazione generale. I paesi di più radicata tradizione umanistica (ma anche di più concreti ricordi di una «libera» azione del popolo che è l’assoluto contrario d’una azione di «massa») come la Francia e l’Italia (in parte anche la Spagna, il Belgio, i paesi scandinavi) quasi si vergognavano di non poter uguagliare la disciplina «tedesca», eppure facevano nelle leghe cooperative italiane, nella C.G.T. di Fernard Pelloutier e della «Charte d’Amiens» – un socialismo molto più costruttivo, che realmente ingenerava «comunità» al posto di supini greggi umani. Così pure dagli stretti circoli «cospirativi», sindacati clandestini, cooperative mezzo tollerate di Russia e di Polonia, con la loro varietà di «ideologie» e di pratiche iniziative, emanò una potenza esplosiva di rinnovamento (malgrado che riunissero un’infima parte della popolazione, il che, fra l’altro, spiega l’impossibilità in cui dopo il 1917 si trovarono di potersi opporre a soluzioni «totalitarie») di cui la socialdemocrazia tedesca, coi suoi tanti milioni di elettori e tanta perfezione di gerarchie amministrative non ha mai posseduto la decima parte.
La «politica delle masse» è stata adottata e sempre più sviluppata – a scapito delle esigenze del socialismo – perché la faciloneria è sempre una tentazione vittoriosa e perché tutti gli opportunismi, tutte le pusillanimità, tutte le ipocrisie vi trovavano beneficio. Anche il popolo -come dimostra la «psicologia collettiva» prevalente negli Stati Uniti d’America- preferisce allo sforzo acerbo d’una reale redenzione, l’euforia di gregarie illusioni con divertimenti vari.
I socialisti (a cominciare da Engels colle sue ottimistiche previsioni nella prefazione del 1895 alla Lotta di classe in Francia sui benèfici effetti del servizio militare obbligatorio) non sembrano aver avuto la chiara percezione dell’efficacia (disastrosamente rapida) con cui l’istituzione degli eserciti permanenti (corruzione di giovani durante i due o tre anni di caserma pur denunciata in scritti come Les bons attes di L. Descaves fin dal 1887), l’agglomerazione nelle «città tentacolari» (dove «si vive l’uno accanto all’altro senza conoscersi»), la «standardizzazione» di tutti i particolari dell’esistenza materiale al livello d’una deprimente bruttezza e volgarità, le gigantesche officine di Krupp o Ford con l’abbruttimento del «lavoro a catena» – contribuivano a ridurre il popolo, ed anzi tutto il proletariato ad una «massa» dove l’individuo diventa sempre più sperduto, insignificante, costretto a meccanica imitazione dei suoi «simili» che sempre più gli diventano indifferenti.
La guerra del 1914-18 ha mostrato (con una certa sorpresa per gli stessi governanti, dapprima abbastanza preoccupati) quanto fosse facile maneggiare le masse e non solo spingerle all’ammazzatoio, ma «imbottirne i crani» (sicché «morivano soddisfatti»). E’ probabile che il cesarismo che in altre epoche si è valso del consenso di «masse» più o meno irreggimentate o stanche di trascinare un’esistenza oltreché misera, continuamente esposta a imprevedute tribolazioni – sia oggi giorno un disegno anacronistico – benché un De Gaulle sembri cullare ambizioni abbastanza affini a questo vetusto modello. Ma un acutissimo osservatore della realtà sociale moderna -Dickinson in un molto oxfordiano «symposium» scritto prima del 1914- affermava che i regimi moderni, abusivamente qualificati come «democratici», sono in realtà una combinazione di «ochlocrazia» (sovranità più apparente che reale di folle senza coesione) con la plutocrazia – regno effettivo delle grosse fortune. Con minime attenuazioni, il regime della grande repubblica americana potrebbe ancora nel 1948 benissimo corrispondere a tale definizione. Le esperienze europee hanno mostrato -dopo la guerra del 1914-18- che la stessa agitazione abilmente orchestrata di masse s’adatta al «totalitario» predominio burocratico militare, soprattutto se questi si corazza del fanatismo aizzatore ed intollerante d’una «ideocrazia».
Se si vuol capire qualcosa degli eventi del nostro tempo, bisogna lasciare da parte (o sotto beneficio di inventario), gli schemi astratti della «psicologia» (o coscienza) di classe e considerare, unicamente alla stregua di fatti osservati, il comportamento delle «masse» da un lato e quello dei dirigenti che hanno creduto di comandare dette masse ed hanno invariabilmente finito coll’essere trascinati assieme alle masse verso le troppo note catastrofi. La massa è tutt’altro che omogenea. In modo grossolano vi si possono distinguere almeno tre strati. Vi è anzitutto la schiuma di quell’inferno che forma un ampio sottosuolo della civiltà moderna. Troppi e notissimi fattori tanto fisiologici che economici saturano non solo i bassifondi (e perciò ogni riferimento al «Lumpenproletariat» non è che un goffo tentativo di «alibi» nelle spiegazioni marxiste), ma tutte le sfere della società moderna, fino alle più alte, di esseri mostruosi, squilibrati, degeneri o disperati; il personale per le atrocità di «pogrom» antisemiti o di vari «squadrismi», per l’attività zelante di Ceke, Gestapo, Ovra, per l’organizzazione così diligente e insistente dell’agonia di milioni di esseri umani nei campi di concentramento, si recluta con estrema facilità e abbondanza. Credo che sia stato un «nobile errore» degli umanitari -pieni di fervore ottimistico- l’avere trascurato questo coefficiente di efferatezza nei movimenti di «massa», e particolarmente nelle effervescenze «rivoluzionarie»; può darsi che il relativo successo di proselitismi che si possono dire reazionari in quanto diffondono la rassegnazione all’ordine esistente -come quello dei Wesleyani metodisti e anche quello dei cattolici «sociali»- si spieghi appunto con le cautele ispirate dalla dottrina del «peccato originale» la quale trovava un istintivo consenso in molti fra i migliori degli «umili e semplici» edotti per pratica esperienza di tante «inclinazioni perverse» nell’ambiente stesso in cui vivevano.
Vi è poi il numero preponderante di coloro che il depauperamento materiale e morale, il triste distacco dal «paese natio», cioè da un ambiente protettivo fornito di tradizioni, costumi, mitologie, «stile di esistenza », sia pure «primitiva»; la promiscuità dei tuguri e delle «vie senza gioia»; l’indifferenza se non l’odio per il genere di fatiche quotidiane con cui è ineluttabile necessità preservarsi dalla morte per fame – hanno ridotto al ristretto orizzonte mentale e soprattutto all’atonia morale che sono tipiche dell’ «uomo della massa». Questa gente è stata «logorata» da troppe delusioni (le guerre, i regimi d’oppressione, la lunga serie di disfatte sia del socialismo sia della «democrazia»; la serie altrettanto lunga e continua di successi -oltreché di impunità ostentati dai «pescicani» del 1920 come del 1945- e da tutte le forme di corruzione, d’egoismo spietato, di brutalità in genere), e d’altra parte ha trovato un certo equilibrio di esistenza materiale – acquistato al prezzo d’una sempre più ottusa indifferenza per i problemi di «verità», di «giustizia», di «dignità » e d’un adattamento agli «Ersatz» sempre piu volgari. Insomma un certo modo di mantenersi a galla non tanto differente dal «panem et circenses» di classica memoria. La «coscienza di classe» -in quanto suppone un senso vivo di «dignità» ed uno sforzo di giudizio critico- è (nella stragrande maggioranza) ridotta a fievoli riflessi, a velleità soffocate abbastanza facilmente dalla riflessione: «bisogna salvare la pelle» e «così fanno tutti».
Vi sono infine nella «massa» odierna, ed è questo un aspetto singolarmente tragico, quelli che si possono definire vittime (o «resistenti senza speranza») della trasformazione del «popolo» (con il qual termine intendo un aggregato di comunità «organiche» – ma il vocabolo è pericoloso in seguito a certe note dottrine sociologiche, appoggiantesi su rozze analogie biologiche nonché più o meno esplicite tendenze di «mistica» reazionaria) della trasformazione, dicevo, del «popolo» in «massa». Opponendo «organico» a «meccanico» si vorrebbe soltanto distinguere un sistema di collegamenti in profondità mercé il quale un consenso «senza coercizioni né sanzioni» su certi princìpi morali, l’osservanza di certi costumi, l’adesione ad una certa mitologia creano una viva, concreta «coscienza collettiva» dalla rete di rapporti superficiali, esteriori, brutalmente necessari in cui l’«uomo qualunque» si rassegna a convivere con i suoi simili. Uomini che per origine o educazione (per esempio contadini o artigiani «proletarizzati») hanno ancora la nostalgia d’una reale comunità, o uomini di superiore capacità nel «sentire umanamente», si trovano, per fatalità economica, immersi nella massa; se non cedono al totale scoraggiamento si appassionano per ogni possibilità di redenzione (di loro stessi ma anche di tutta quella misera umanità che li circonda). Più prevale in loro la semplice «bontà dei sentimenti» ed una «ingenua» intuizione di verità elementari, più sono disponibili alla ribellione semplicista e all’utopia.
I partiti di massa con scopi totalitari e metodi machiavellici devono appunto il loro successo allo sfruttamento di questa sete di «purezza» e di fede nella giustizia, che -nonostante tutto- con un entusiasmo di autentici «credenti» vive in questi uomini.
Può darsi che si presenti il bisogno per i socialisti di imparare e di porre in pratica una «tecnica dei rapporti sociali» a cui ben poca attenzione è stata finora concessa. Viviamo un po’ troppo sulle tradizioni che hanno preso consistenza nei tempi ormai lontani delle prime lotte per l’emancipazione delle classi lavoratrici. Allora la classe operaia era di fatto esclusa dalla compagine che pretendeva costituire la «nazione» o la «collettività civile»: il compito, non facile, ma di formulazione semplice, era di condurre il proletariato alla conquista di diritti politici, e di almeno un minimo di «facoltà economiche» che gli rendessero possibile di sentirsi l’eguale degli «uomini e cittadini» nei paesi inciviliti secondo i principi del 1789. Oggi questa fase della «lotta di classe» per l’integrazione nel «corpo nazionale» (della nazione-stato) può dirsi superata; al produttore, la cui «forza lavoro» continua ad essere sfruttata in modo più o meno iniquo sia da oligarchie plutocratiche sia da burocrazie dirigenti di Stati totalitari, non si nega più la capacità di elettore ed eleggibile, il diritto all’istruzione elementare e persino il diritto all’assistenza sotto vari aspetti; e tuttavia le forme di schiavitù che i campi di concentramento (ancora troppo numerosi), certe legislazioni sulla mano d’opera straniera e superstiti regimi coloniali impongono ancora a milioni di individui sono una minacciosa alternativa che purtroppo sarebbe incauto ottimismo sottovalutare. Ma nei paesi occidentali da più di una generazione, sembra acquisita la partecipazione di pieno diritto ed anche di fatto dei lavoratori nullatenenti alla medesima «vita pubblica» e su per giù al medesimo «tipo di civiltà» (dal modo di vestire agli svaghi detti «intellettuali») delle (ridotte e scompaginate) classi abbienti. Tale partecipazione finora ha forse comportato per la classe operaia, accanto a vantaggi (materiali e spesso decantati con eccessiva compiacenza) non pochi oneri e parecchio disorientamento morale. Il che facilmente si spiega con il fatto che i proletari sono stati accolti in un sistema di società e civiltà nel momento in cui i valori di questa ed i capisaldi (tanto politici che sociali) di quella erano già in piena crisi. L’uomo moderno ha strenuamente lottato per la libertà della persona come massimo pregio dell’esistenza. La libertà nel vivere sociale pareva assicurata, oltreché dal principio di reciproca tolleranza, dalla molteplicità di raggruppamenti distinti per i fini che conseguono e per gli statuti che ciascuno di essi si foggia, nei quali la medesima persona si trova in uno stesso tempo impegnata: la famiglia, la scuola, la confessione religiosa, la «cosa pubblica», il partito, l’attività professionale, l’affinità di idee o di gusti artistici e via dicendo.
Ma per essere effettivamente libero occorrevano due condizioni: che dipendesse dalla libera decisione di ogni uomo di contrarre come di sciogliere ogni legame per cui temporaneamente si aggregava a l’uno o l’altro consorzio, e che il senso critico e di responsabilità della persona fosse abbastanza sviluppato e vigile per non perdere la capacità di scelta e di eventuale svincolo, proprio il socialismo con la sua concezione dell’uomo e dei rapporti umani, doveva essere e spesso è stato guida efficace per un comportamento dignitoso ed intelligente in questo equilibrio sempre instabile dei «pluralistici» rapporti quali li comporta la nostra civiltà.
Nessuno negherà che durante gli ultimi trent’anni, in Europa ed in Italia particolarmente, sia i principi di reciproca tolleranza, sia la reale libertà di scelta fra i vincoli sociali abbiano avuto una quasi catastrofica degradazione. Per questo non è inutile insistere su questo problema dei rapporti sociali in una collettività degna di essere qualificata «libera» e quindi veramente «democratica» (nel senso che un «demos» composto di uomini liberi e non «masse» o «plebi» allucinate, irregimentate, «messe al passo», determina tanto il funzionamento delle istituzioni quanto i «costumi» della vita sociale quotidiana). Creare non solo l’atmosfera morale, ma anche le condizioni materiali -con i nuclei di cooperazione, federazione ecc. cui sopra è stato accennato- per un risorgimento delle abitudini e delle norme d’una vera libertà, è la meta di pazientissimi e perspicaci sforzi che si propone ai socialisti. Compito da esplicarsi nell’immediato ambiente ed in evidente coesione con la diffusione della «coltura popolare».
Il rischio di essere fraintesi consiglia di enunciare qui certe premesse, non di carattere dottrinale, ma riassuntive di un’esperienza della storia recente. Fino al 1914 né la partecipazione di socialisti al governo dello Stato «borghese» o «capitalista» (conservante quindi la sua attuale struttura economica, amministrativa, militare) né la presa del potere per instaurare il socialismo, erano problemi d’urgente attualità. Ed è «in sede» di dibattiti dottrinali, senza il controllo di pratiche esperienze, che hanno preso consistenza diverse formulazioni più o meno «programmatiche», dalla benigna previsione d’un graduale e pacifico progresso parallelo delle istituzioni democratiche e dell’organizzazione della classe operaia (sicché questa formante la maggioranza del popolo sovrano e animata da una «volontà generale» nettamente espressa un giorno avrebbe potuto assumere «tutti i poteri» quasi senza incontrare resistenza), fino alle nostalgie d’insurrezioni barricadiere o alla speranza in un colpo di forza come il partito di Lenin doveva effettuarlo nel 1917. Ammettiamo francamente che il concetto di «dittatura del proletariato» è sempre rimasto avvolto in oscurità; ed in particolare è stato appena adombrato (in certe polemiche di Plechanov, Trotzky, Rosa Luxemburg contro Lenin subito dopo la scissione del 1903) il problema (che tanto greve di conseguenze delusive doveva manifestarsi alla prova degli eventi) dei rapporti fra le «masse» popolari, un partito organizzato ed avocante a sé, pur essendo minoranza, il diritto di decidere in nome della «classe più numerosa», ed un comitato centrale (se non addirittura un duce) che in nome della necessità dell’azione rivoluzionaria avrebbe potuto e dovuto esigere anche dalle schiere del partito stesso un’obbedienza rigorosamente militare. Cosi pure le interminabili contese tra riformisti che non escludevano un supremo atto insurrezionale per il coronamento dell’opera di trasformazione, e rivoluzionari che non negavano l’utilità di riforme parziali e dell’azione parlamentare, non hanno mai approdato a «prese di posizioni» veramente scevre di equivoci: la fraseologia -avviluppata spesso in dottrinali «considerandi» che l’«uomo della strada» (e tali erano in fin dei conti, anche novantanove su cento dei nostri seguaci) difficilmente afferrava- chiariva male, se non occultava per «ragioni tattiche», sia il fondo delle questioni (rapporto fra società ed attuale congegno dello Stato, fra classe e «popolo», fra immediati e necessariamente limitati interessi di categorie bisognose ed il grandioso compito d’una reale emancipazione dell’uomo) sia gli effettivi sinceri propositi delle diverse «élites» dirigenti l’azione politica socialista, dal politico in buona fede integrato nel giuoco regolare delle vigenti istituzioni, al refrattario impaziente di totali e violentissime ribellioni e (perché non menzionarlo, se fu un fenomeno tutt’altro che infrequente) al demagogo che con torbide ambizioni confusamente mescolava vaste prospettive d’un rinnovamento politico e sociale.
E’ che sotto l’accettazione cosciente di una «ideologia» elaborata in sostanza attorno al 1848, vi era una quasi «subcosciente» aderenza dell’animo dei militanti socialisti in Europa Occidentale (e massime in Italia) alle realtà sociali del 1900. Questa realtà implicava che nonostante l’insperata rapidità dei progressi compiuti in due-tre decenni dalla propaganda e da tutte le forme di organizzazione operaia, le «conquiste» erano ancora superficiali e precariamente assicurate, immensi «terreni vergini» aspettavano di essere «dissodati» per mezzo di iniziative politiche, sindacali, cooperativistiche; e tanto questa espansione quanto il consolidamento necessario delle posizioni già tenute sembravano attuabili nel miglior modo se perdurava in quiete l’assetto dei regimi nazionali (certo non conformi alle nostre esigenze, ma tollerabili e perfezionabili) e dell’equilibrio pacifico sia pure fondato sulla «pace armata» (che si sperava gradualmente disarmare) nei rapporti internazionali. Donde una specie di avversione e quasi il rifiuto di soffermare la mente sui « grandi avvenimenti» in politica interna o mondiale. Nelle cordialissime accoglienze che i compagni «europei» facevano ai rivoluzionari russi spuntava in modo commovente e talvolta comico il loro disorientamento dinnanzi al fenomeno «esotico» quasi «romanzesco» della rivoluzione, della clandestinità, del terrore praticato da ambo le parti. Questa impreparazione psicologica (e tecnica) può spiegare in gran parte l’esito lamentevole e talvolta grottesco dei tentativi fatti nel 1918-20 in diversi paesi occidentali per «imitare la Russia», nonché, in seguito, la scarsa capacità di adattamento ai metodi del «sotterraneo illegale» nella lotta contro la dominazione fascista. Più gravi conseguenze ebbe l’incapacità dei partiti socialisti di dare effetti meno platonici che le rituali manifestazioni del primo maggio alla decisione presa al Congresso stesso nel 1889 ove si costituì la Seconda Internazionale, di «combattere con tutti i mezzi» il militarismo, la gara degli armamenti, gli imperialismi e di impedire ogni guerra fra nazioni. Qualcuno ricorderà forse ancora (come il sottoscritto) il profondo senso di avvilimento alla chiusura del Congresso internazionale di Stoccarda (nel 1907) quando risultò chiaramente che nessuna resistenza efficace sarebbe stata concordata contro la strage mondiale i cui prodromi già ottenebravano l’orizzonte.
Ma intanto (sempre in quel periodo che corre all’incirca tra il 1900 e il 1914) era indiscutibile una funzione dei partiti socialisti organizzati su base legale, rappresentati nei Parlamenti e per principio (espresso nella nota decisione del Congresso d’Amsterdam del 1904) contrari ad ogni «partecipazione» ai governi nel regime attuale; il che significava il divieto ad ogni membro iscritto al partito di vincolarsi sia assumendo responsabilità che inevitabilmente pongono la ragion di stato al di sopra di ogni criterio di giustizia, sia beneficiando del minimo vantaggio materiale e di prestigio connesso ad una carica «ufficiale». Salvo poche eccezioni (che si riducevano ad individui isolati piuttosto che a gruppi politici) il partito socialista in Italia come in parecchi altri paesi era ormai l’unico difensore conseguente ed insistente della democrazia, cioè dei diritti dell’uomo e del cittadino secondo le formule proclamate in America e poi in Francia alla fine del secolo XVIII.
Scartiamo nettamente l’assurda supposizione che «democrazia» debba significare «popolo governato dal popolo stesso» Nessuna adunata di popolo (e neppure alcuna assemblea tampoco numerosa) ha potuto mai effettivamente governare (esercitando cioè in concreto i «poteri» esecutivo, legislativo, giudiziario ecc.) neppure in una minuscola città greca o in quei due cantoni rurali della Svizzera famosi come esempi di democrazia diretta. E se si ammette la delega della «sovranità popolare» sia di un uomo, sia di un partito politico, i risultati tipici che offre sinora l’esperienza della storia sono da un lato il cesarismo plebiscitario, dall’altro quella vera (o «nuova») democrazia che rende ora felici i polacchi i bulgari gli jugoslavi. La realtà della democrazia s’afferma non con la fiducia negli eletti ma con la possibilità di manifestare efficacemente la propria sfiducia verso di loro, di controllarli ad ogni passo, di limitarli in funzioni strettamente definite. Anche la forza di un Parlamento si manifesta non nella nomina di un governo, ma nella facoltà di rovesciarlo, nel discutere e criticare le leggi (che non possono essere «creazione collettiva» ma sempre sono testi elaborati da pochi competenti); quando un comitato di Salute Pubblica si sovrappone alla convenzione nazionale, il regime parlamentare e la libertà ch’esso è chiamato a tutelare sono di fatto aboliti. La sostanza dell’ordinamento democratico sta nella difesa dell’incolumità personale d’ogni cittadino contro qualsiasi arbitrio o eccesso della «potestà coercitiva» e nel raggiungimento di un massimo d’uguaglianza nella facoltà riconosciuta ad ogni individuo di conoscere e verificare tutti gli atti dei pubblici poteri. Al principio del secolo XX i partiti socialisti hanno saputo agire con successo in questo senso negli stati che potevano dirsi «democrazie» solo con moltissime riserve (per causa di tutti gli elementi autoritari che vi perpetuavano le gerarchie militari, burocratiche e soprattutto plutocratiche); persino in paesi semi-autocratici come la Germania, l’Austria-Ungheria e la Russia (dopo il 1905) non pochi soprusi venivano frenati per paura «del chiasso che susciterebbero i socialisti». Questa azione di vigilanza e di pressione democratica diretta dai socialisti non solo con le campagne elettorali, ma con la stampa, i sindacati, il ricorso a scioperi generali politici ecc. guadagnava senza dubbio in efficacia per il fatto che i socialisti si mantenevano fuori dall’«ingranaggio governativo», si sottraevano alle omertà e relative sanzioni cui è soggetto il «personale dirigente» dello stato e davano al pubblico affidamento di incorruttibilità. Ma, ben inteso, questa stessa circostanza per cui tutto l’apparecchio ingente di risorse materiali e organizzazioni amministrative rimaneva in mano dei nostri avversari, segnava i limiti della forza socialista; tutt’al più si sarebbe potuto riporre serie speranze nell’azione «dissolvitrice» di nuclei socialisti nell’esercito e fra il proletariato.
Per non lasciare nell’ombra l’origine di incongruenze e di disagi che hanno assai pregiudicato lo sviluppo del partito in Italia, come pure in Francia e in Belgio, giova ricordare l’influsso di una certa rigidità dottrinale. L’«ortodossia» marxista voleva che non solo i socialisti fossero (come abbiamo effettivamente constatato) i soli autentici propugnatori della libertà e dell’uguaglianza democratiche, ma che la classe operaia fosse la sola a potere acquistare coscienza di tali principii e ad impegnarsi nella lotta per la loro attuazione. Ciò era esatto in seguito a particolari vicende della sua storia politica e sociale, per la Germania. Ma nei paesi dove ben prima dell’«industrializzazione» intensa, le Rivoluzioni del 1789, del 1830, del 1848 (e parecchi momenti del Risorgimento) avevano impresso in larghi strati della nazione un culto mai più interamente offuscato per i Diritti dell’Uomo, l’appello dei socialisti, in quanto continuatori evidenti dei menzionati «gloriosi moti» di emancipazione, trovava eco in una cerchia più vasta che quella dei salariati delle officine moderne. Sennonché la socialdemocrazia tedesca esercitava nella II Internazionale una specie di primato soprattutto in questioni di dottrina. L’interpretazione rigorosamente «classista» fu adottata dai socialisti di altri paesi ma in pratica dovette spesso piegarsi a situazioni contrastanti con lo schema ortodosso; donde sorsero certe apparenze di insincerità e di opportunismo che in seguito la propaganda comunista non poteva mancare di sfruttare.
La funesta sorte del movimento socialista fu di vedersi costretto dagli avvenimenti ad assumere quasi all’improvviso nello stato e nella vita nazionale una parte che implicava la rinuncia alle sue essenziali funzioni sociali ed alla pratica applicazione dei suoi principii di pacifismo integrale e di internazionalismo. Un’ironia del destino ha voluto che proprio l’opera feconda della propaganda socialista e dell’azione sindacale, elevando la classe operaia all’importanza di un «fattore politico ed economico» senza l’adesione del quale ogni sforzo unitario della nazione era ormai impensabile, abbia imposto al partito socialista la scelta fra uno sfacelo (di cui non era più possibile dire che i socialisti nulla tenenti vi avrebbero perduto soltanto le loro catene) ed una compromissione totale con uomini ed istituzioni che nella «difesa della Patria in pericolo» inglobavano la conservazione di tutti i congegni d’oppressione e di ineguaglianza sociale avversati da noi durante decenni.
I fatti sono presenti a tutti e nessuna apologia può infirmare la durissima realtà della decadenza sociale, morale (appoggiando sul senso di «mores», costumi, implicito in questo termine) e colturale dell’Europa di cui questi eventi furono le successive tappe: dislocazione dell’lnternazionale e adesione di partiti socialisti alle «unioni sacre» nazionaliste del 1914-1918; logoramento della socialdemocrazia tedesca (Ebert, Scheidemann, Noske) nell’ingrato compito di salvare «ad ogni costo» il Reich e porre al sicuro i mezzi d’una rivincita che si identificherà con il trionfo di Hitler; culminazione dell’esperienza MacDonald in quel «governo nazionale» d’Inghilterra a cui fra l’altro si dovrà la politica che condusse a Monaco; necessità in cui i laburisti Attlee e Bevin si trovano di marciare sulle orme del «sacro egoismo» imperialista in Palestina, in Grecia, nella lotta contro l’egemonia economica degli Stati Uniti o contro l’egemonia militare della Russia; il primo governo Blum (che dichiara: «sono anzitutto francese e solo in secondo luogo socialista») memorabile per il «non-intervento» in Spagna, l’intensificazione degli armamenti, la svalutazione del franco (certo non vantaggiosa per i salariati) ecc.; un nuovo governo Blum, dieci anni dopo, che s’inizia con la guerra coloniale contro il popolo annamita, di cui pochi giorni prima lo stesso venerando capo della SFIO riconosceva (in un articolo del Populaire) i diritti all’indipendenza. L’elenco è superficiale, ma in tutti i casi che conosciamo l’azione di governo è stata imperniata su una «situazione fallimentare dello Stato nazionale» in latente o aperto conflitto con potenze rivali. Lo stato d’animo collettivo (per non dire psicosi) che prorompe quando impende la minaccia di catastrofi o quando si è in guerra, e ancora quando il compito urgente è di «ricostruire» dopo una disfatta o una (spesso non meno rovinosa) vittoria, è agli antipodi di quella coscienza critica dei valori umani su cui si fonda l’osservanza dei principi democratici e l’edificazione del socialismo. Non esiste un modo socialista di armare eserciti, fare funzionare le corti marziali, eseguire scientifici massacri. Può darsi che per «salvare il salvabile» e per salvare l’avvenire sia imperioso dovere anche dei socialisti di assumere in tali momenti le più ingrate responsabilità. Ma l’impostura ingiustificabile sta nel volersi persuadere e volere persuadere le «masse» che queste tragiche emergenze ci avvicinano ad un trionfo della giustizia sociale, della civiltà democratica e della fratellanza fra i popoli.
Il più tipico esempio è quello della rivoluzione russa. Il crollo del regime zarista ha tratto seco un totale sfacelo dello Stato (che come altrove s’identificava con la «nazione»). La speranza di Lenin e Trotzky che il collasso dell’ordine fondato sui privilegi delle minoranze plutocratiche si sarebbe esteso almeno a tutta l’Europa e che da un moto liberatore i popoli avrebbero ricomposto una vasta comunità su basi completamente nuove, non si è avverata. Quindi tutte le forze del partito comunista e tutti i mezzi del paese già stremato bastarono appena alla difesa -condotta con mirabile tenacia- del potere di comando conquistato su un lembo del disfatto Impero.
Per resistere, consolidarsi, estendersi il bolscevismo dovette dedicarsi interamente ed unicamente alla ricostituzione dello Stato, fino a renderlo più accentrato, più potente agli occhi dei formidabili nemici, più capace d’espansione imperialista di quanto mai fosse stata prima la monarchia dei Romanov. Che il «collettivismo» di masse irregimentate fosse qualificato democrazia e l’apparato gigantesco dell’industrializzazione con scopi quasi esclusivamente bellici venisse glorificato come fondazione del socialismo è stato un utilissimo espediente demagogico per uso interno quanto esterno. Ma oggigiorno bisogna essere d’una incurabile ingenuità o accecati dal fanatismo, o molto lontani dalla buona fede per affermare che l’operaio dei «combinat» sovietici o il contadino proletario dei «kolchoz», l’uno e l’altro sottoposti a condizioni di lavoro assai analoghe alla servitù della gleba, e sottoposti altresì ad una «tutela spirituale» forse più rigorosa di quanto mai era riuscita a mettere in pratica l’Inquisizione cattolica di Spagna, rappresentino la fase più evoluta della democrazia e quasi la realizzazione del socialismo. Del resto il generalissimo Stalin e lo stuolo di marescialli, poliziotti, segretissimi diplomatici e santi metropoliti che stanno in adorazione attorno al suo trono, inneggiano ormai alla «grandezza della patria russa» con aperto disprezzo per tutto ciò che è «straniero» (il principale capo d’accusa contro gli scrittori, musicisti, scenaristi di films testé messi all’indice dal Comitato Centrale staliniano del Partito Comunista dell’URSS è stata la loro contaminazione da «mode straniere») e la disinvoltura con cui un Tito o un Gomulka sono trattati mostra in qual poco conto Mosca tenga le pedine «proletarie» d’Occidente nel suo giuoco. E’ molto dubbio che il più lontano rapporto possa ancora sussistere fra le vedute di Lenin e l’azione svolta dai Molotov, Viscinski ed altri Gromyko al servizio di Stalin. L’occupazione della Manciuria è stata celebrata non come un successo del socialismo, ma come gloriosa rivincita sul Giappone che cancella l’obbrobrio della disfatta degli eserciti imperiali russi nel 1904 (come Mussolini invadendo l’Etiopia voleva vendicare Adua). Dopo la caduta dello Zar, nella primavera del 1917 i bolscevichi erano stati i più accaniti a fomentare il furore del popolo contro il Ministro degli Esteri Paolo Miliukov perché questi reclamava un controllo russo sui Dardanelli; ora vediamo l’«egemone autocrate» del Kremlino esigere gli stessi Stretti, quasi vantandosi di seguire le orme dei suoi augusti predecessori la zarina Caterina II e lo zar Nicola I. Malgrado le molte differenze nell’origine e nelle circostanze fra la rivoluzione russa e quella francese di centocinquant’anni prima, un’innegabile analogia si scorge nel modo in cui l’idolo della «nazione» ha in ambedue i casi soffocato le aspirazioni verso l’emancipazione sociale; anche i giacobini hanno sacrificato alla potenza dello Stato nazionale tutte le libertà e Napoleone ha ripreso i sogni di grandezza d’un Luigi XIV.
Individuo e società (1)
1938-1942.
Anche in Tempo Presente, Vol. III, n. 12, dicembre 1958
I
L’individuo umano —la persona cosciente(1)— non è concepibile che come “essere sociale” integrato in una comunità, educato, provvisto di modi di pensiero e di espressione articolata da questa società in cui nasce cresce muore, e se ha la nozione della morte —privilegio umano, secondo Malraux— è unicamente perché l’esperienza sociale gliel’ha inculcata; altrettanto valga per le nozioni di “progresso” e “regresso”, gioventù e vecchiaia, salute e malattia, fortuna e miseria, libertà e dipendenza, eccetera.
Sembra evidente che non esiste “società” distinta dalla somma degli individui che la compongono. Non che la vita sociale e quel che chiamiamo forma di civiltà non comportino realtà “materiali” molto più durevoli che gli organismi umani e capaci di dominare, determinare, soffocare le stesse “coscienze” individuali. Le “cose” che gli uomini fabbricano sopravvivono ad essi e con il loro “essere” comandano al volere, sentire, pensare; il linguaggio e tutto ciò ch’esso accumula di passate esperienze e “potenziali sviluppi” nella materialità di suoni o di segni è patrimonio di tutti e di nessuno; le “norme artificiali” (dalla distribuzione del bottino d’una caccia al regolamento dei connubi “secondo il grado di parentela”), per cui le società umane si distinguono da quelle di altre specie di animali, sono pure “imperativi” materialmente sanciti contro ogni arbitrio di individuali desideri o giudizi. Ma tutte queste “reti” o “meccanismi” di realtà sociali, che sembrano sovrastare all’individuo e quasi tenerlo prigioniero, possono essere efficienti soltanto per un continuo gioco di azioni e reazioni alle quali non possiamo assegnare altra origine e altro arbitro che le stesse coscienze individuali. La realtà, che si vorrebbe dire “corporea”, del tessuto sociale consiste unicamente in un sistema di molteplici “azioni reciproche” fra individui, con infinite gradazioni di spontaneità e di automatismi, di “piena coscienza” e di “subcoscienza”, di “alienazioni” passivamente accettate e di affermazioni di perturbante “originalità”.
L’enunciazione di queste evidenze banali non sembra del tutto inutile se si intende scartare dalla discussione sull’individuo e la società: a) anzitutto ogni appello a “verità rivelate”, “valori spirituali” trascendenti, e simili dogmatiche premesse; b) ogni esercitazione retorica sul tema dell’”uovo e la gallina”, cioè se vi sia precedenza (se non di origine, di “dignità” o di “finalità”) dell’individuo sulla società o viceversa. Quando l’individuo sembra “trascendere” le norme della società in cui vive, o ribellarsi contro di esse, tali “atteggiamenti personali” sono determinati —nella sostanza come nelle forme— da situazioni, esperienze, “rapporti con uomini e con cose create da uomini” che solo l’esistenza sociale ha potuto creare e sviluppare. Né il destino di Achille che sa di dover morire giovane e condivide l’illusione di molti uomini sani che anche dopo la fine della giovinezza la vita valga la pena d’essere “goduta”, né il destino di Edipo che malgrado le sue rette intenzioni si trova coinvolto in orride catastrofi, né quello di Amieto che senza esservi preparato o sentirsi veramente colpevole deve affrontare un “mondo uscito dai cardini” si possono inserire nella razionalità di “carriere” assegnate dagli individui entro il normale decorso di una “vita collettiva”. Vi si manifesta un fato che riduce l’intero genere umano a poca cosa entro l’”ordine cosmico”.
[1940-’42]
(1) Se si ricorda che persona etimologicamente significa maschera —aspetto agli occhi altrui— nel dire “persona cosciente” si cerca di combinare (o condensare) due serie di fenomeni: tutto quello che l’individuo è solo a sapere della propria esistenza e tutto quello che egli —in gran parte a sua insaputa— significa “visto dall’esterno” dai suoi simili e come necessario elemento d’una catena di successive generazioni.
II
La tripartizione Governo-Società-Popolo, comunemente usata dai pubblicisti e dagli storici russi durante più di un secolo, non è forse così sempliciotta, dal punto di vista sociologico, quanto potrebbe parere ai seguaci del marxismo e dei criteri stabiliti da questa dottrina per distinguere le “classi” sociali.
Si ammetterà che, qualunque sia il sistema di produzione, qualunque la struttura, semplice o complicata, della gerarchia di caste, ordini, classi “sovrapposte” l’una all’altra secondo una scala di ricchezza, potenza, prestigio, grado di cultura eccetera, qualunque l’apparecchio di istituzioni e di forze coercitive che mantiene l’unità di una grande o piccola “nazione”, sempre si troverà alla base la stragrande maggioranza di detta collettività, costretta non solo a lavorare per vivere, ma a vivere unicamente per lavorare. Questa moltitudine è stata sempre chiamata “popolo”. Lo “spazio vitale” degli individui dotati di coscienza e di intelligenza che compongono questo popolo —cioè il chiuso orizzonte delle possibilità materiali e morali in cui si esaurisce, dalla nascita alla morte, la vita di un uomo del popolo— è stato definito in un celebre passo del discorso preliminare che Proudhon ha posto in capo alla Justice dans la Révolution et dans l’Eglise:
“Da quando l’umanità è entrata nel periodo storico della civiltà, e per quanto lontano si risalga nei ricordi del passato, il popolo —come diceva Paul Louis Courier— altro non fa che pagare e pregare.
Prega per i suoi principi, per i suoi magistrati, per i suoi sfruttatori ed i suoi parassiti;
prega come Gesù per i suoi carnefici;
prega persino per chi sarebbe in obbligo, data la qualità sua, di pregare per lui.
Poi, esso paga quelli stessi per cui ha pregato;
paga il governo, la giustizia, la polizia, la chiesa, la nobiltà, la corona, la rendita, il proprietario, le milizie;
paga per ogni sua pratica per poter andare e venire, comprare e vendere, bere, mangiare, respirare, scaldarsi al sole, nascere e morire;
paga persino per avere il permesso di lavorare.
E prega il ciclo che, benedicendo il suo lavoro, gli dia di che pagare sempre di più.
Il popolo non ha mai fatto altro che pagare e pregare”.
Questo è esattamente il “popolo” che successivamente scoprirono Alexandr Radiscev (deportato in Siberia da Caterina II per aver descritto, nel suo Viaggio da Pietroburgo a Mosca, la condizione dei contadini ascritti alla gleba), poi Ivan Turgheniev (nei Racconti di un cacciatore) e Alexandr Herzen, infine i “nobili penitenti” del 1870.
Nei paesi dell’Europa occidentale la scoperta del popolo da parte di spiriti irrequieti, appartenenti appunto a quella “società” di cui cercheremo di spiegare come e perché si sentisse distaccata dal popolo, eppure non legata ai “dirigenti” che lo sfruttavano, potrebbe datarsi dalle cupe imprecazioni nel Testamento del misterioso curato Meslier (testo che gli enciclopedisti conobbero ma non osarono pubblicare integralmente) e di parecchi generosi sfoghi nei romanzi di Henry Fielding(1).
In Francia un medico di Nantes, A. Guépin, poco dopo il 1830 descriveva esattamente la situazione fatta all’uomo del popolo, che allora lavorava nelle officine 14 ore al giorno: “Per lui vivere significa meramente non morire. In più del pezzo di pane che lo nutrirà, lui e la sua famiglia(2), in più della bottiglia di vino che potrà per un attimo togliergli la coscienza dei suoi strazi, egli non chiede nulla, non spera in nulla”. Una “petizione alla Camera dei deputati” di Charles Béranger, “proletario, operaio orologiaio”, che fu pubblicata dalla rivista Le Globe il 3 febbraio 1831, esprime molto bene nell’esordio che cosa si debba intendere per popolo: “Ici j’entends par le peuple tout ce qui travaille, tout ce qui n’a pas d’existence sociale, tout ce qui ne possedè rien; vous savez qui je veux dire: les prolétaires… Dans les premières semaines du mois d’aoùt 1830(3) on en a dit du bien: Vous etes le premier peuple du monde. Ah messieurs, ils ont cru cela, les bonnes gens!…”
Nel marzo 1843 compariva dinanzi ai giudici del Lancaster Richard Pilling, tessitore, accusato di aver fomentato uno sciopero: “Signori giurati”, disse l’imputato, “ho 43 anni. L’altra sera mi si chiese se non avevo varcato la sessantina. Ma, fossi io stato trattato come certi altri, invece di sembrare sessantenne mi si darebbero probabilmente non più di 36 anni. Sono stato dall’età di dieci anni, durante venti anni, tessitore alla mano e poi ho lavorato dieci anni in una fabbrica e, salvo l’anno in cui i padroni di Stockport mi hanno rifiutato l’impiego, posso senza esitazione dichiarare che ogni giorno ho lavorato durante 12 ore. E più lavoravo, più era dura la fatica, e sempre più povero mi trovavo di anno in anno, sicché infine eccomi qui quasi esausto. Se i padroni avessero ancora una volta ridotto i salari del 25%, credo che avrei posto fine alla mia vita piuttosto che continuare… Eppure non sono uno di quegli irlandesi che tirano innanzi nutrendosi di patate fradice, né un servo russo venduto insieme alla terra ch’egli coltiva…”
È molto probabile che oggi milioni di operai giapponesi, cinesi, indiani, indocinesi potrebbero raccontare a un tribunale una storia non dissimile; ma anche altrove, dall’Andalusia alla Polonia, e dalla Basilicata agli Urali, una tale condizione dell’uomo e della “massa del popolo” non sarebbe da considerare eccezionale. Proprio in quest’anno 1940 si applica con rigore alla maggioranza della popolazione del globo ciò che Martin Nadaud, egli stesso operaio muratore, dice (nei Mémoires de Léonard) dei suoi compagni di fatica e di miseria nella Parigi del 1840: “Le peuple était pris comme dans un étau, ou comme un honnéte homme dans un cercle d’assassins”.
Al popolo s’oppongono direttamente i “principi, magistrati, sfruttatori, carnefici” ch’esso paga e per i quali prega. Il governo di uno Stato, di un esercito, di un’officina, di un’impresa di commercio o di credito, è un’occupazione appassionante, responsabile, provvidenziale. Gli uomini che detengono e maneggiano queste “leve di comando” non hanno tempo né voglia di pensare ad altro che al pieno successo del compito assunto: sicurezza, vittoria, egemonia, aumento di produzione, guadagno, costruzione di “piramidi” o di edifici utilitari, battaglia del grano o battaglia di colonne motorizzate. Per il ferocissimo Assarhaddon, re d’Assur, come per il mansueto Neville Chamberlain, la devastazione dell’Egitto o della Polonia, centomila morti o un milione di esistenze infrante significano unicamente una “circostanza” lieta o incresciosa in quanto riguarda o agevola il raggiungimento di uno scopo prefisso. Come per il capitano d’industria o lo speculatore in borsa, le carestie e le inondazioni, la lunghezza della giornata di lavoro, l’impiego dei bambini nelle fabbriche, il trattamento dei negri nelle piantagioni, la rovina del tenant irlandese o del rabassaire catalano, sono da “valutare” in funzione di certe cifre di profitti o di perdite a fine esercizio.
Geniali o mediocri, magnanimi o sordidi, gli uomini che governano (purché non siano dei malcapitati indegni del loro posto agli occhi di tutti i loro colleghi, superiori e inferiori) devono pensare ed agire esclusivamente in vista di una sempre più salda, efficiente, spieiata “dominazione” su uomini e cose. Il che non implica affatto una nozione grettamente egoistica del dominio; anzi, la quasi ascetica dedizione al fine “obbiettivo” di una più o meno splendida sistemazione di masse umane, e persino di una generica “felicità” di dette masse (oggi, domani, o fra un secolo) è negli uomini di governo piuttosto la regola che l’eccezione. Ma, nel fervore dell’azione, sarebbe debolezza colpevole cedere a considerazioni di semplice “umanità”. La “grandezza” di Pietro il Grande o di Lenin sta appunto in diretta proporzione con la loro assenza di sensibilità per tutto quel che riguarda le umili gioie e le umili sofferenze degli uomini governati.
Navigare non significa tuttavia affrontare continuamente burrasche e cicloni. Persino nell’econonomia capitalistica, fra le crisi e i booms vi sono intervalli di calmo andazzo; e la leggenda vuole che vi siano stati “popoli senza storia”, cioè non esposti a eroici parossismi di pagamento e di preci(4). Nei momenti di relativa quiete, quando non solo l’ordine e la sicurezza, ma anche il pane quotidiano si ottiene con sforzi abitudinari e perciò meno gravosi, i governanti possono distrarsi dalle loro nobili funzioni e anche il popolo può permettersi qualche rilassatezza, sia nei redditizi sudori che nei rituali gesti di adorazione. Nascono allora quelle oasi di “ozio” in cui Aristotele ha ravvisato le origini d’ogni “cultura dello spirito”.
L’osservazione del filosofo greco comporta qualche ovvio complemento. Aristotele pensava soltanto ai figli di ricche famiglie, i quali invece di aumentare il loro patrimonio con negozi o di partecipare al governo della città, si erano dedicati agli studi e alla meditazione filosofica. Ma la superiorità della “società” ateniese su quella di molte regioni elleniche, dove non mancava un’oligarchia opulenta e “oziosa”, sembra dimostrare l’importanza decisiva (per l’”umanizzazione” e l’affinamento dei rapporti sociali fuori dalle cure quotidiane imposte dal lavoro “produttivo” o “governativo”) di quel più largo respiro assicurato al popolo prima dalla legislazione di Solone, che liberava i contadini da molte servitù, poi dal sistema delle “liturgie” imposto ai ricchi e dei “tre oboli” pagati al cittadino povero affinchè frequentasse l’Assemblea e sedesse nei tribunali.
La civiltà attica comincia a illanguidire dopo che per dieci anni la “guerra di Decelea” ha rovinato i campicelli, vigne, frutteti sul modesto provento dei quali poggiavano tante esistenze modeste ma non tribolate, le giornate di fatica essendovi “spaziate” dalle numerose feste in cui nacquero la Tragedia e la Commedia. Alla completa decadenza di Atene contribuì certamente la reazione oligarchica sotto il protettorato macedone, che abolì l’”immorale” sussidio al minuto popolo; così questi fu guarito dall’insolenzà di voler ragionare, discorrere e ridere spensieratamente. Importa assai ricordare che effetti simili a quelli di Atene si ottengono soltanto se il lieve aiuto materiale rafforza, anziché abbassare, la “dignità” del popolo. Il pane e i rozzi divertimenti offerti dagli ottimati alla plebe romana (come ai nostri giorni il sussidio-elemosina ai disoccupati) inculcavano al popolo la coscienza della sua obbrobriosa e definitiva inferiorità; mentre il “triobolario” si sentiva confermato nei suoi sovrani diritti di “uomo ateniese”, modello di superiore umanità rispetto non solo ai barbari ma a tutti i greci.
Si aggiunga, per memoria, ancora una condizione senza la quale è poco probabile che il popolo possa contribuire alla fioritura di una vita di società: Socrate non aveva da sostenere grandi spese di vestiario, veicoli, mance per frequentare i convivi dove cingeva la corona di fiori freschi accanto agli uomini più illustri e più ricchi della Repubblica; l’inventario delle suppellettili di Alcibiade vendute all’asta mostra pure come il misero manovale del Pireo non corresse il rischio di essere umiliato, o avvelenato da invidioso livore, imbattendosi nelle vie della sua città in qualcosa che somigliasse allo sfarzo d’un Crasso portato in lettiga fra lo stuolo di clienti e di servitori, o alla visione, attraverso i grandi vetri illuminati, di una cena d’apparato all’Hotel Savoy o allo spettacolo d’un film rappresentante i sollazzi dei miliardari. Così, in Russia, l’intellettuale democratico riuscì a introdurre la sua “camicia alla contadina” e i suoi modi volutamente irriverenti in non pochi salotti aristocratici e convegni solenni. Per l’Occidente, si noterà che un letterato, un inventore, o semplicemente un “uomo piacevole” visibilmente squattrinato poteva sentirsi a suo agio alla tavola di un signore del Settecento, mentre faceva cosa savia rifiutando un invito in casa di un grande borghese dell’Ottocento.
Gli “interessi” e i rapporti che si sviluppano nelle ore di distacco dalle obbligatorie fatiche produttive o governative formano la trama di una “vita di società”. E, se la prosperità dura alquanto, si differenzia un ceto emancipato dalla necessità di lavorare (e quindi dalla voglia di pregare) e, almeno fino a un certo punto, attaccato alle seduzioni della vita privata, e talvolta anche a quelle della “vita interiore” ed emancipato dall’ambizione di dominare.
Quest’ambizione può non essere soppressa, ma deviata verso mete di carattere particolare: la ricchezza, il lusso, e tutto quel che può intendersi per “successo mondano”. Occorre tuttavia rammentare che solo nell’ambito della società, quale qui l’intendiamo, l’avaro, l’intrigante, il vanesio, il tiranno domestico, il dissoluto sono condannati dall’opinione e sbeffeggiati dalla satira come tipi nettamente “negativi”, “inumani” (o “troppo umani”), e quindi “antisociali”. Nel popolo, gli stessi vizi, o hanno troppo scarso campo di applicazione, o diventano addirittura una forza, per cui l’usuraio di villaggio, il prepotente, il furbo, il ruffiano si elevano a “condizione superiore”, conculcando i già compagni di miseria. Nella figura dell’”uomo di governo” tratti consimili saranno “inessenziali”, purché non intralcino l’azione con la quale si confonde il suo destino e che “sola importa al giudizio del pubblico”.
Potrà sembrare un lezioso concettismo il ravvicinamento dell’epiteto di “inumano”, applicabile agli eccessi dell’egoismo, a quello di “troppo umano”, che pure è d’uso comune per le “debolezze morali” della persona, soprattutto in quanto si riferisce all’adempimento dei “doveri verso il prossimo”. Ma volevo accennare in ogni modo al fatto che la ripugnanza per ogni eccesso, l’apollineo “nulla di troppo”, come la tesi dell’Etica a Nicomaco che “la virtù sta nel mezzo”, sono esigenze tipiche del sistema di rapporti proprio alla società secondo la definizione qui convenuta. La società prova disagio non solo di fronte a tutto ciò che sta al disotto d’un certo livello di dignità umana, ma anche al cospetto del “sovrumano”: il santo e l’eroe sono poco socievoli. Il teatro greco non sopportava atti di violenza in scena, e il teatro elisabettiano conveniva ai gusti di un popolo, piuttosto che a quelli di una società. La “società” russa non ha mai potuto accettare Dostoevskij senza riserve spesso ingenue per la sua “inutile crudeltà”. L’ingiustificata fiducia della “società” nella moderazione dell’uomo cosciente può pure spiegare la sua incapacità a difendersi contro ogni assalto di barbarie; non si tratta di vigliaccheria o “effeminatezza” di costumi: i selvaggi sono molto più proclivi alla pusillanimità e al panico, i barbari molto più attirati dalle voluttà sfibranti. Si tratta della circostanza che l’attaccamento a certi “modi di essere” ha preso il sopravvento sul semplice istinto di conservazione.
Il ceto intermedio, insinuatosi tra i governanti e il popolo e libero dalla necessità materiale, è stato chiamato “società” per antonomasia. Non può identificarsi né con una classe economica (distinta cioè secondo la parte che le spetta nel “ sistema di produzione”) né con la “classe politica” o l’elite di Pareto, e meno che mai con il comodo limbo delle “classi medie”.
Nell’Italia della Controriforma evocata da G. A. Borgese nel suo “Goliath” le classi medie (piccoli possidenti, mercanti, artigiani, legulei, medici, professori, eccetera) continuavano ad esistere ma non potevano certo pretendere a quella “rispettabilità universalmente riconosciuta” che, secondo la teoria liberale, fa del “terzo stato” o del “popolo grasso” il più stabile sostegno dell’edificio sociale. Perché, da un lato, le cure casalinghe e professionali tenevano queste classi chine sul solco quasi come il servo della gleba, e dall’altra esse si trovavano irretite in un esoso, sospettoso, pettegolo sistema di governo, nel quale la delazione e la sorveglianza del vicino di casa erano elementi non meno importanti che il prete e lo sbirro.
Abbastanza curiosa —per capire certi aspetti della “società”— è la quasi esclusione da essa del bottegaio, anche facoltoso(5). Il mondo dei mercanti russi, raffigurato nel dramma di Ostrovski, veniva opposto come “regno delle tenebre” all’altra minoranza elevatasi al disopra del popolo (e non incorporata nel ceto governativo) che aspirava alla cultura, all’emancipazione della persona, alla riforma dei costumi e delle istituzioni nel senso di una sempre più comprensiva umanità. La storia di César Birotteau mostra, punita con la rovina dell’azienda (al governo della quale fino allora faceva capo tutta la vita della famiglia, confinata nel retrobottega), l’imprudente ambizione di lanciarsi nelle pompe e negli imbrogli della “vita di società”. In “Dombey and Son” la gestione della grande ditta, l’orgoglioso feticismo del successo commerciale assorbono e deformano tutto l’animo di un uomo non malvagio per natura, al punto da renderlo inumano e infelice nei rapporti con la moglie, i figli, i veri amici; e solo dopo il fallimento dell’impresa, Dombey padre può conoscere la gioia degli affetti spontanei e delle buone azioni “gratuite”; per contrasto Dickens, nello stesso romanzo, fa sbocciare la sagace ingenuità dei migliori sentimenti umani e la più delicata tolleranza verso il prossimo nel negozio del “Guardiamarina di stagno” dove, nel corso di due settimane, non sono entrati che tre avventori, e non han comprato nulla.
In un’operetta “libertina” e piuttosto mediocre di quel secolo XVIII, che in Francia segnò l’apogeo della “vita di società” (il Colporteur di Chévrier), si racconta di una marchesa: “Il y a longtemps que, retirée du grand monde, ette s’est mise dans le commerce”. E vi si spiega come si possano distinguere “quatre sortes de réformes que les femmes qui ont vécu embrassent quand elles veulent faire une fin”: il mecenatismo, la devozione, la gerenza di una bisca e il mestiere di “intrigante a Corte”, mestiere il quale comporta “il traffico di vescovadi, abbazie, magistrature, gradi dell’esercito, pensioni, appalti, grazie sovrane”. Si noterà che queste quattro “posizioni sociali” —lucrose per l’anima o per il corpo— esistevano certamente anche in Italia e in Spagna alla stessa epoca senza che per ciò la società di questi paesi potesse paragonarsi a quella francese.
Un altro tratto caratteristico è l’importanza dei contatti con “elementi stranieri” (quindi dei viaggi, dell’assimilazione di mode estere, eccetera) per lo sviluppo della “società”. Dal liberale trattamento dei metechi ad Atene all’animazione cosmopolita di Parigi e di Pietroburgo, dal giovane Ippocrate che viene a svegliare Socrate prima dell’alba per annunziargli l’arrivo di Protagora, alle accoglienze che “tutta Mosca” fa a Madame de Stael(6), dalle fiere di Troyes, di Lione e di Bruges, dove tanti italiani del Tre e Quattrocento acquistarono una “visione europea” dei fatti sociali, alla continua circolazione di “novità” e di notizie su cose lontane lungo i consueti itinerari di pellegrini, fraticelli, scolari d’università, “compagnons du Tour de France”, giocolieri, compagnie d’attori, compagnie di ventura: sempre l’incontro di gente di diversa origine e almeno temporaneamente distaccata da “fisse” occupazioni si è manifestato fecondo per una solidarietà umana fuori dalle norme utilitarie o giuridiche. Mentre il rigido spirito di casta, il nazionalismo xenofobo, il provincialismo condannano al torpore ogni vita di società.
In “Mein Kampf” appare in modo chiaro come l’aspetto dell’ebraismo che più faceva andare in bestia il tristo imbianchino, capitato dalla natia Braunau nella babilonia viennese, fosse la “ spudorata petulanza” di questa gente socievole nei caffè, salotti, sale di redazione, corridoi del parlamento, eccetera. Si è detto peraltro che i signori della Rinascenza e, molto prima di essi, i tiranni greci “favorivano la licenza dei costumi” per consolare i sudditi delle perdute libertà politiche. Così qualcuno sostiene oggi che, sotto un regime totalitario, il vile borghese può beatamente rannicchiarsi nella “vita privata”. Il che non è molto evidente né a Mosca né a Berlino, dove a nessuna ora del giorno o della notte anche il più pacifico cittadino è proprio sicuro di non ricevere l’intempestiva visita della Gestapo o dell’ex-Ghepeù, o il brusco avviso di cambiar professione, trasportarsi in campagna, non bere più caffè, o bere il “té genuinamente germanico” (a base di buon nordico fieno), e così via. Il punto importante, tuttavia, è che l’”autonomia” della vita privata non consiste affatto in quei gesti e quelle cure con cui poteva soddisfarsi anche lo schiavo romano nell’ergastolo (contubernio, peculio, pettegolezzo, superstiziosi riti). L’agricoltore, l’artigiano, il medico, il pedagogo si sentono rispettabili e membri di una società civile solo se, attorno alle necessità quotidiane (lavoro, famiglia, mangiare, bere, dormire), esiste una sfera di esperienze intime e di rapporti con i simili dove si possono dimenticare ogni assillo di scopi economici e ogni costrizione connessa alla “gerarchia” politico-sociale. È una sfera di sicurezza, di continuità, di norme spontaneamente accettate dalla ragione e dal sentimento: una sfera di pace.
E’ quello che in tutto questo ragionamento cerchiamo di identificare con la “società”. Le norme che or ora abbiamo menzionato sono quelle dei “costumi” (mores) e quindi della “dignità” umana. Se esiste questa sfera di vita, si sopportano (e anzi si giustificano idealmente) le due sfere liminari: quella del “sudore della fronte” e quella del “date a Cesare”. Ma deve pur esservi una ragione ben fondata nella coscienza umana per cui tanti miti —a cominciare dalla cacciata di Adamo dal paradiso o dalle descrizioni del regno di Saturno— hanno immaginato la vera felicità dell’uomo come possibile unicamente in un mondo senza “sistema economico”, senza governo, senza fasti e nefasti della storia.
Nessuna meraviglia quindi che nell’Italia del Seicento non si manifestassero che ben misere vestigia d’una vita di società. “O delizie italiane —esclamava il Serlio, ricordando le feste date da Alfonso di Napoli a Poggioreale— come per la discordia nostra siete estinte…”
Senonché la prosperità e la sicurezza di tenere un rango “rispettabile” tra le alte sfere e il basso popolo non bastano neppure per fare della “classe media” il focolaio d’una civile socievolezza come qui l’intendiamo. I romanzi di Jane Austen al principio dell’Ottocento ritraevano la “vita moderna” nell’ambiente della upper middle class britannica, orgogliosa delle sue libertà costituzionali e cosciente della forza che le conferivano le fortune ogni giorno aumentate dal progresso industriale, dalle spoglie dell’India, dal dominio dei mari. Eppure si ha l’impressione di un modo di vivere privo di spontaneità e spesso caricaturale; c’è un sussiego stucchevolenell’imitazione di abitudini nobiliari, ma più ancora la goffaggine e la meschinità appaiono nell’adattamento ai precetti di un arcigno e sospettoso “moralismo” delle maniere, dei gusti, dei divertimenti, delle forme di gentilezza o di disinvoltura, che la gentry descritta due generazioni prima nei romanzi di Smollett e di Fielding praticava con schietto, esuberante (e talvolta rozzo) slancio di vitalità.
La ricca borghesia inglese si iniziava alle seduzioni del “vivere spensierato”, conservando intatto un senso di invidiosa venerazione per le gerarchle stabilite e l’orrore per il minimo strappo ai rigidi tabù della pudicizia (o dell’ipocrisia) cristiana. Mentre, alla stessa epoca, i nuovi ricchi sotto il Direttorio in Francia cercavano di tornare ai piaceri e alle eleganze del secolo di Luigi XV con accentuato “impudore” e noncuranza nei riguardi di ogni promiscuità(7). Trent’anni dopo, commentando l’insurrezione parigina di luglio, il grande organo liberale (benthamista) inglese, il “Morning Chronicle” (3 agosto 1830) osservava: “Si può affermare che gli avvenimenti di Parigi hanno recato un colpo decisivo alla superstizione; e ciò perché questo male in Francia non è, come in Inghilterra, radicato nel popolo medesimo. I francesi non sono proni come gli inglesi all’influenza di un tetro fanatismo. Là basta che il governo rinunci a imporre per forza la supremazia clericale. Da noi è tutt’altra cosa…”
Questo sogno di una “vita facile” è il vero peccato originale contro il quale da Catone il Vecchio fino a certe lugubri radiofonie dell’estate 1940 non hanno cessato di inveire i precettori di una umanità laboriosa ed eroicamente rassegnata al suo destino. Il quale destino consisterebbe nel vivere e soprattutto nel morire per “grandi cose”: splendore di sovranità, miracoli di obbedienza, durevoli incatenamenti di masse, ricchezze possibilmente agglomerate in un luogo e perpetuate nel possesso di pochi padroni, eccidi memorabili. Quando Paolo di Tarso o gli apostoli del manicheismo o gli anabattisti, sorti dal popolo stesso, persuadevano questi a rinunciare alla cattiva, bassa, illusoria “facilità” (offerta sotto forma di godimenti assai rozzi ai più scaltri, in un sistema economico e politico dove i vicendevoli agguati e lo sfruttamento del “prossimo” sono laregola); quando persuadevano il popolo a sopportare pazientemente le fatiche e anche —secondo l’Epistola ai Romani— ogni signoria, almeno gli promettevano come ricompensa il prossimo avvento del millennio, e immediatamente l’esaltazione intima della purificazione, la gioia liberatrice di essere tra i veggenti, l’effusione di fraterno amore fra gli “eletti”. Ma esortazioni quasi identiche, e magari appoggiate sulla medesima “divina rivelazione”, in bocca a coloro che governano (e che sono ben decisi a mantenersi nei loro diritti e doveri di governanti) non possono avere che un significato: ridurre, se non sopprimere addirittura la “società” per svincolare da ogni paralizzante riguardo gli atti di comando e allontanare dal popolo la tentazione di voler fare altro che lavorare, prolificare, umiliarsi nelle devozioni prescritte.
Comunque, è un fatto che, dove sono rigorosamente osservate le leggi di Licurgo o domina la santità delle milizie cromwelliane o l’incorruttibile Massimiliano intende imporre il regno della virtù, non v’è posto per i modi di vita in cui si manifesta la “società”.
La “douceur de vivre” che ricordava Talleyrand aveva allietato l’epoca in cui la monarchia assoluta s’impersonava nell’innocente Luigi XVI e le pubbliche finanze erano gestite con amabile (o spudorata) noncuranza da un Calonne. Ma fu pure allora che si videro i privilegiati plaudire sinceramente alle diatribe di Figaro contro i privilegi e le migliori intelligenze abbandonarsi senza ritegno a “generose illusioni”, scontate poi in modo ben triste col rapido crollo di quel sistema di governo “mansueto” che la Costituente e la Legislativa avevano creduto di poter imbastire per la nazione rigenerata. Lo scopo delle riforme promulgate sotto la rubrica dei “Diritti dell’uomo” era evidentemente di estendere il “dolce vivere” —e anzitutto una giusta comprensione di ciò che rende la vita degna di essere assaporata— anche ai contadini di Bretagna e di Alvernia, ai proletari del Faubourg Saint Antoine e di Lione, i quali non devono aver figurato con molto rilievo nel ricordo del vescovo di Autun, divenuto principe di Benevento.
L’ardimento degli uomini del 1789 (s’intendono i più sinceri e bene intenzionati, il fatto significativo essendo tuttavia che con il sentimento loro coincideva la moda intellettuale, il contagio spirituale dell’epoca) era sostenuto dalla convinzione che fosse possibile fare dello Stato e dei suoi mezzi di coercizione uno strumento per la “comune felicità”, purché se ne dirigessero e controllassero con oculatezza i congegni raddrizzati. Così come il socialismo crederà di assicurare l’instaurazione di rapporti equi e fraterni fra gli uomini, cioè il trionfo di un vero e perpetuo “Stato di società”, con l’adeguato governo del lavoro produttivo e della distribuzione dei beni prodotti. In qualche modo la società avrebbe dovuto o fondersi con lo Stato, o trasformarsi essa stessa in una potenza capace di imporre la sua “volontà collettiva” tanto al singolo “particolare” quanto all’intero groviglio di “istituzioni”. Con ciò da un lato queste istituzioni riassumevano un carattere sacro (di cui sarebbe stato blasfemo porre in dubbio la “legittimità”) e d’altra parte la massa del popolo come tale, cioè come gregge che “lavora e che prega”, veniva d’un tratto inclusa (almeno virtualmente) nella “società”(8).
Ora il paradosso di quell’insieme di sentimenti, di reciproci rapporti tra gli uomini, di “costumi”, di discorsi e giudizi che tentiamo di riassumere nella nozione di “società” fu di concludere nell’obbligo della passione politica (“Nessun uomo retto può esimersi dai doveri del pubblico servizio”) e quindi nel desiderio di partecipare al governo nonché di sentirsi strettamente uniti all’intero popolo, partendo da una avversione profonda, spesso “cinica” sia per tutte le faccende governative sia per le “plebi” abbrutite dalle fatiche e dalle superstizioni.
L’ironia è un fattore essenziale di ogni emancipazione umana. Alimentata dai contrasti enormi che presenta una civiltà molto elaborata, cioè un ordinamento di grandi masse umane per mezzo di convenzioni complicate e contraddittorie (essendosi esse accumulate nel succedersi di necessità o pretesti dimenticati), l’ironia si esercita in aiuto di una molto seria e quasi paurosa difesa dell’individuo e della sua privata esistenza fra la Scilla e la Cariddi di armatissimi potenti e di turbe pericolosamente frenate. È ovvio allora l’aguzzarsi estremo del sarcasmo…
Un altro periodo, durante il quale la “vita sociale” ha potuto dilatarsi in Francia con innegabile “lietezza” di modi e di sentimenti, rimane connesso al regime che un celebre pamphlet di Robert De Jouvenel ha definito la République des camarades, sottolineando con appena qualche esagerazione il prevalere dei rapporti di amicizia su ogni razionale criterio di strenua amministrazione e di “rendimento” economico. Ma quei tempi sono forse ancora meglio qualificati dall’effervescenza della pubblica opinione per il processo del capitano Dreyfus: nessun rispetto delle istituzioni, nessuna ragion di Stato, e in molti casi neppure gli interessi di famiglia, di carriera, di professione poterono allora controbilanciare l’indignazione per l’ingiustizia patita da un solo uomo.
Se la società ha tendenza a ignorare i sistemi di subordinazione e coordinazione su cui poggiano la “salute pubblica”, la maestà dello Stato, i gloriosi meriti degli uomini di azione, il buon andamento degli affari, essa mostra pure uno scarso rispetto di ogni valore “sacro”. È quasi sempre un segno di progredita socievolezza la riduzione delle cerimonie a forme discrete, la “secolarizzazione” dei miti nell’arte.
[1938]
(1) Penso in particolare alla History of the Life of the late Mr. ]onathan Wild the Great (che è del 1743) dove questo passo apparirà, spero, abbastanza esplicito: “It is well said of us, the higher order of mortals, that we are born only to devour the fruits of the earth; and it may be as well said of the lower class that they are born only to produce them for us. Is not the battle gained by the sweat and danger of the common soldier? Are not the honour and fruits of the victory the general’s who paid thè scheme? Is not the house built by the labour of the carpenter and the bricklayer? It is not built for the profit only of the architect and for the use of the inhabitants who would not easily have placed one brick upon another? Is not the cloth or the silk wrought into its form and variegated with all the beauty of its colours by those who are forced to content themselves with the coarsest and vilest part of their work while the profit and enjoyment of their labours fall to the share of the others?…” [Si dice giustamente di noi, specie superiore fra i mortali, che siamo nati solo per consumare i frutti della terra; e si potrebbe altrettanto giustamente dire della classe inferiore che son nati solo per produrli per noi. Non è grazie al sudore e ai rischi del semplice soldato che si vincono le battaglie? E l’onore e i frutti della vittoria non vanno forse al generale che escogitò il piano? Non è con la fatica del carpentiere e del muratore che si costruisce la casa? E non la si costruisce forse unicamente per il profitto dell’architetto e per l’uso degli abitanti, i quali sarebbero stati a mala pena capaci di mettere un mattone sull’altro? Non sono il panno e la seta lavorati nella loro forma e variegati in tutta la bellezza dei loro colori da quelli che son costretti a contentarsi della più rozza e vile parte del loro lavoro, mentre il profitto e il godimento delle loro fatiche vanno agli altri?]
(2) A una famiglia operaia composta di 4-5 persone, 196 franchi dovevano bastare per cibarsi tutto l’anno; pur privandosi all’estremo, essi non potevano spendere meno di 150 franchi per il solo pane; rimanevano quindi 46 franchi per il sale, il burro, un po’ di cavoli e un po’ di patate. [A. Guépin: Nantes au XIX siècle, 1835].
Cento anni dopo, nel 1935, inchieste sulle condizioni degli operai nell’URSS “socialista”, studi estremamente “oggettivi” corredati da abbondanti statistiche sui disoccupati in Gran Bretagna e negli Stati Uniti d’America, e anche molte rivelazioni sui salari percepiti da certe categorie di lavoratori (specie lavoratori a domicilio) in Francia alla vigilia degli scioperi del maggio-giugno 1936, hanno mostrato come per diecine di milioni di uomini, donne, bambini del popolo continuasse a sussistere lo stesso livello d’un “vivere che equivale soltanto al non morire”.
(3) È noto che, per rovesciare Carlo X e il regime aristocratico, i fabbricanti di Lione chiusero tutte le officine e che i mercanti setaioli mandarono i loro impiegati dagli artigiani con l’ordine (sotto pena di vedersi rifiutare ogni lavoro nell’avvenire) di recarsi in piazza e di battersi contro le regie truppe. [O. Festy: Le mouvement ouvrier au début de la Monarchie de Juillet entre 1830 et 1834, Parigi, 1908].
(4) Forse non è pura leggenda. Le deduzioni abbastanza probabili che gli archeologi hanno creduto di poter trarre dall’esplorazione degli abitati dell’età “neolitica” e soprattutto la constatazione d’una straordinaria, ininterrotta stabilità dei villaggi allora popolati e dei campi allora dissodati e delimitati (stabilità bene illustrata da Gaston Roupnel: Histoire de la campagne francaise) tenderebbero a farci credere che durante sessanta o ottanta secoli l’Europa occidentale ha vissuto in condizioni di “pace perpetua” in piccole comunità collegate da rapporti di buon vicinato e di traffico lento, senza eroiche commozioni degne “di passare alla storia”.
(5) L’ostracismo del mercante sicuramente si connette al preconcetto “classico” così esposto da Montesquieu [“Esprit des lois”, libro V]: “Enfin tout commerce était infame chez les Grecs. Il aurait fallu qu’un citoyen eùt rendu des services à un esclave, à un locataire, à un étranger: cette idée choquait l’esprit de la liberté grecque. Aussi Platon veut-il dans ses lois qu’on punisse un citoyen qui ferait le commerce”. Ancora nel 1835 Lord Melbourne, Primo Ministro, scriveva al suo collega Lord John Russell: “Is it certainly true that I always admitted a man’s being a trader to be an objection to his becoming a Magistrate… after all Country Gentlemen have held and do hold a higher character than Master Manufacturers”. [“È certamente vero che io ho sempre ammesso che il fatto che un cittadino fosse un commerciante costituiva un’obbiezione al suo divenire magistrato… dopo tutto il nobile proprietario di terre ha occupato e occupa un rango superiore a quello del fabbricante”.] Al che Lord John Russell rispondeva: “The landed gentry are very respectable and I have always found them kind and humane, but they are certainly the class in this country most ignorant, prejudiced and narrow-minded of any. The uneducated labourers beat them hollow in intelligence”. [“La nobiltà terriera è molto rispettabile, e io l’ho sempre trovata gentile e umana, ma è certo la classe più ignorante, più piena di pregiudizi, più stretta di mente che ci sia in Inghilterra: i contadini ineducati la superano di molto, quanto a intelligenza”.]
I fuori-classe (déclassés) hanno perpetuato non poche fisime dell’orgoglio aristocratico. Tuttavia una giustificazione più umana (o più schiettamente “sociale”) può essere data alla ripugnanza per una cortesia interessata, utilitaria, stereotipata verso un “pubblico” indifferente, mentre ogni vera gentilezza di modi significa riguardo per la persona altrui senz’altro scopo che quello di un “commercio” fra animi tutto diverso dagli scambi lucrosi designati con lo stesso vocabolo.
(6) Descritte da Pushkin nel frammento di un romanzo in prosa sulla società russa nel 1812, rimasto appena abbozzato. Potrebbe riuscire curioso un paragone con i modi impacciati della “società provinciale” di Weimar, che si intravedono nei ricordi di Goethe (Annalen oder Tags-und Jahreshefte) sul soggiorno di Madame de Stael e di Benjamin Constant a quella corte nell’inverno 1803-’04.
(7) Per capire il fascino esercitato da Parigi su tutti gli uomini che nelle cinque parti del mondo sentivano l’oppressione del provincialismo e la nostalgia di una socievolezza “senza obblighi né sanzioni” conviene ricordare come in Francia —fin dai tempi della Reggenza, ma soprattutto in quel periodo tra il 1796 e il 1830 di cui qui si discorre— ai modi di vivere e soprattutto di gustare la vita che sono il proprio della “società” si sia sentito capace di aspirare anche un largo ceto, l’equivalente inglese del quale doveva rimanere, quasi fino al termine dell’età vittoriana, dominato dal severo conformismo d’osservanza presbiteriana, metodista, eccetera. L’epicureismo sfacciato ma “senza pretese” della minuta gente, cosi come lo esprimevano le canzoni di Béranger o i romanzi di Pigault-Lebrun e di Paul de Kock, ha creato un alone di “allegria generale” in una molto ampia “democratica” periferia della società francese: pur sprezzando il vile livello di colali “popolarizzazioni” dei “lumi del Settecento”, pochi hanno potuto resistere all’immediato contagio dell’atmosfera di libertà, di facilità, di bonaria petulanza, che questa espansione della società ha suscitato.
(8) L’avvertire i pericoli di questa incorporazione automatica sarà uno dei meriti del sindacalismo francese, un secolo più tardi. Fra molte dichiarazioni caratteristiche si può ricordare questo passo di una relazione di Trévennec (rappresentante della “Borsa del lavoro” di Lorient) al congresso di Marsiglia nel 1908: “II faut des hommes libres. Si prompt et énergique qu’aurait pu étre le geste de suprème révolte collective, rien ne prouve que les hommes auxquels on devra ce geste seront capables de rendre viable la société nouvelle. Une organisation créée dans l’ardeur révolutionnaire, dans l’enthousiasme de l’action réformatrice n’est pas assurge d’étre durable”.
III
Presso i popoli detti “primitivi”, la comunità poco numerosa (in cui l’individuo si “integra” quasi completamente, invece di sentirsi “coordinato” e “subordinato”) ci appare costituita in modo da combinare intimamente —in gesti che hanno tutti un significato magico— le funzioni “produttive”, quelle “governative”, e anche certi atti, interessi, svaghi che, nelle collettività “complicate”, si differenziano come dominio proprio di quel che abbiamo chiamato la “società”. La famiglia e le “classi d’età”, la caccia o la guerra, il lavoro e le feste sono regolati secondo gli stessi criteri, sotto la direzione dei medesimi anziani, e per di più sono sfere d’attività a cui tutti i membri della tribù partecipano con identica comprensione. A ciò corrisponde quella “mentalità pre-logica” studiata da Lévy-Bruhl, tratto significativo della quale è la non-distinzione, o fusione, di quel che noi siamo soliti separare come esperienza religiosa, emozione artistica, cognizione intellettuale, senso morale, e che si condensa nella forma genuina del “mito”.
Questo stato d’equilibrio, o piuttosto d’integrazione, di tutti gli atti abituali che concorrono a soddisfare i vari bisogni di una collettività primitiva (ed è verosimile che tale equilibrio si rispecchi nella coscienza come nozione di una Giustizia cosmica) basterebbe a spiegare il fatto che i popoli primitivi, se risparmiati da brutali interventi d’una forza esterna, tendono a non mutar mai nulla nel loro modo d’esistenza, e in particolare avversano qualunque innovazione “tecnica”.
Evidente è invece come lo squilibrio spinga a un dinamico progresso (o regresso) perché, alle mutate condizioni d’una sfera dell’esistenza sociale, devono adattarsi tutte le altre manifestazioni della medesima collettività. Il marxista non esiterà ad affermare che, in ogni caso, convien cercare l’inizio dello spostamento in una invenzione, o in un perfezionamento notevole, o in una decadenza della “tecnica produttiva” o di certe risorse: materie prime, fertilità del suolo, vie di commercio; ne risultano rapporti nuovi fra le persone che sono impegnate nel “processo produttivo”, e a questi mutati rapporti si devono necessariamente adattare le “sovrastrutture” giuridiche e ideologiche. Vi possono essere, anzi sono press’a poco inevitabili, ritardi di qualche parte del sistema nel mettersi al passo con la “linea generale” inesorabilmente prescritta dalla “dialettica” del movimento storico; donde vari disagi, conflitti, rivolte e, anzitutto, la “lotta di classe”, potente incentivo di ulteriori “progressi”. Un discepolo di Proudhon potrà sostenere che le alterazioni d’un sistema economico, ma soprattutto la “dismisura” dei potenti nel conseguire immediati profitti e nell’affermare la loro autorità, suscitano un generale disordine e un diffuso sgomento morale: la “dignità” di molta gente essendo calpestata, il popolo non riesce più a vivere secondo il “buon costume”; le nozioni del giusto e dell’ingiusto si confondono, e ci vuole uno sforzo eroico per ritrovare e restaurare la Giustizia, senza la quale nessun consorzio può realmente sussistere.
Comunque, le differenziazioni (“divisione del lavoro”) e le più o meno violente dissidenze entro un gruppo costretto a vivere insieme ingenerano due serie di conseguenze che, per comodità teorica, si possono considerare separatamente. L’una si riferisce alla situazione dell’individuo rispetto alla collettività (e agli organi che esprimono o pretendono di esprimere la “volontà generale”). Storici e sociologi hanno dimostrato con abbondanza di documenti come la disgregazione della famiglia patriarcale, della gens, della fratria, della tribù, e in altri casi la decadenza e lo scioglimento delle corporazioni di mestiere, abbiano liberato l’individuo dalla tutela di un ambiente ristretto e, si può dire, “intimo”, ma sempre in modo da rinforzare la dipendenza dello stesso individuo da istanze più alte, più impersonali, più inflessibilmente regolate e regolanti: lo Stato, l’anonima direzione d’una grande officina, la legge della domanda e dell’offerta sul mercato, gli imperativi della pubblica opinione.
È stato ripetuto a sazietà il parallelo tra lo schiavo che, bene o male trattato, è sicuro di trovare sempre il pane quotidiano e un giaciglio nella casa a cui appartiene, e il salariato “libero” di morire sul lastrico senza che nessuno ne risenta responsabilità. Così pure, è abbastanza trito il tema dell’isolamento senza reale indipendenza di un uomo vivente in mezzo alla moltitudine d’una grande città e astretto a modi di vestire, di mangiare, di abitare, di divertirsi, di pensare da cui è esclusa la minima possibilità d’invenzione, di scelta, di fantasia personale. Sorgono in queste circostanze tutti i problemi e i paradossi dell’”individualismo”: la famosa opposizione fra libertà esteriore di atti e discorsi e libertà interiore della coscienza; l’esame delle virtù contrarie a una leale e lieta adesione alle norme vigenti, alla “fede dei nostri padri”, al comune buon senso e d’un più o meno arduo e pericoloso uso del rigore “critico”, della “sincerità” o dell’”originalità” nelle opere e nei sentimenti; la controversia sui limiti e sul valore dell’”azione individuale”, in quanto può più o meno pesare sulle sorti della collettività o addirittura sul “corso della storia”.
Ma l’essenziale è che, sotto forma di ragionamento chiaro o di confuso sentimento, l’uomo diventa un problema di fronte a se stesso. Quando s’accorge d’essere “governato” per fini che non riesce a conoscere e d’essere trascurato, non appoggiato, non capito, nelle circostanze che più gli premono, gli viene naturale di chiedersi: “E che ci sto a fare io, qui?”. In troppi casi, egli vede la “folla sconosciuta” vivere e arrangiarsi come se lui, il singolo Tal dei Tali, non esistesse affatto; quasi per ritorsione, egli penserà che una parte della sua vita —e non la meno stimabile— può svolgersi come se “gli altri”, la comunità di cui è pur membro, non vi fossero. Già non vi è più coincidenza fra l’universo naturale e quello sociale, fra la mitologica Giustizia del cosmo e l’apparecchio di giustizia che regola i rapporti sociali. L’individualismo diventa un atteggiamento ben definito (e, per connessioni solo in apparenza paradossali, diventa anche una “forza sociale”) quando l’Io si pone direttamente in faccia al Tutto (l’Essere, Dio, la Natura, l’Intelligibile, il Bene assoluto) ignorando —o superando— le istanze intermedie. Se, emancipandosi dalla famiglia, l’individuo veniva a diretto contatto con lo Stato, da una “piccola patria” passava a una più grande, eccetera, adesso, al dilà di tutti i consorzi “transitori”, crede di vedere la più stabile realtà del “genere umano”; e questo, a sua volta, sembra offrirgli un appoggio che nei rapporti sociali concreti non sempre si trova: l’idea dell’Umanità aiuta a vivere, investendo l’individuo delle sovrane prerogative e responsabilità dell’homo sum.
L’altra serie di effetti prodotti dallo sviluppo del “corpo sociale”, nel senso d’una sempre maggiore “articolazione”, è l’”estraneità” reciproca dei compartimenti nei quali si “specializzano” le varie forme d’attività che pure concorrono tutte a mantenere unito e capace di durare lo stesso gruppo: città, nazione o impero. Da un lato, fra il contadino e l’operaio industriale, l’ingegnere e il banchiere, il mercante e l’artista, e così pure fra l’imprenditore e il manovale, il proprietario e il colono, l’ufficiale e il soldato, l’alto funzionario e lo sgherro, eccetera, si nota una “distanza” tale nel modo di vivere, di vestire, di pensare e parlare, di concepire il bene e il male, che la “reciproca comprensione” si limita a certi gesti utilitari (obbedienza di comandi, scambi di servizi o di beni). D’altra parte, l’uomo finisce col non sentirsi “lo stesso” (tenuto a un diverso contegno e a diversa disposizione dell’animo) secondo che è in casa, a scuola, al reggimento, sul luogo di lavoro, in “società”, eccetera; sorge la questione se mai l’uomo possa dirsi veramente “sincero”, manifestare il suo intimo essere e non “rappresentare” un convenzionale personaggio nella “commedia umana”.
Antistene e Diogene, Rousseau e Tolstoi rispondono che il bene dell’uomo consiste nel manifestare pienamente la propria natura: ora, tutte le forme del galateo sociale sono esteriori a tale “natura”, e quindi un male; conviene “vivere nella società di se medesimo” e ridurre al minimo tutti i rapporti ai quali ci obbliga l’assurda ricerca della ricchezza, degli onori, del potere, della “raffinata civiltà”. Invece Necker(1) o Jeremiah Bentham, o anche Benedetto Croce (con più complicate prospettive) ci spiegano come la realtà dell’essere umano consista tutta nella varietà e nel “progresso” di attuali vicissitudini, nelle opere che producono “risultati concreti” d’ogni specie, nel sempre migliore accomodamento della vita interiore (“ragione” o “spirito” che sia) alla forte e prospera esistenza di organizzati consorzi: insomma l’essere s’identifica con l’operare e il significato di un’esistenza consiste nella sua “storia”. Alla giustificazione (dinanzi al “foro intimo”) degli atti e comportamenti prescritti da una data posizione nel sistema sociale, nella quale ci si trova senza averla potuta scegliere, può pure servire l’imperativo “Fa’ bene qualunque cosa ti capiti di fare”, fondato su una certa degradazione utilitaria della dottrina stoica o cristiana, per cui si applica all’adempimento di obblighi professionali, familiari o politici la stessa norma che valeva nella sfera puramente religiosa o filosofica.
[1940-’42]
(1) B. Groethuysen (Introduction à la vie bourgeoise) cita questo caratteristico testo del finanziere ginevrino: “Tout s’anime autour de l’homme, et tout se rapporte à ses désirs et a ses besoins… Tranquilles au sein de l’asile, et sous l’abri tutélaire que chacun de nous a choisi, nous y jouissons en paix de cette multitude de biens qui, par une affinité merveilleuse, s’allient à tous nos goùts et à tous les sentiments dont nous avons été doués”.
Individuo e società (2)
Andrea Caffi, 1949.
Sembra evidente che, ponendo il problema “l’individuo e la società”, l’intenzione sia di considerare i due termini, e cioè l’uomo in quanto persona singola, anzi unica, e la collettività umana, come in qualche modo opposti l’uno all’altra. Esame, quindi, di incompatibilità e conflitti, ricerca di una “sintesi” d’armonia superiore o di un compromesso.
Nessuno pretenderà di poter conoscere, o anche solo immaginare, un autentico individuo umano, la cui essenziale qualità è d’essere capace di linguaggio articolato (senza di che non potrebbe esservi articolazione della memoria, della riflessione, della conoscenza di se stesso, dell’intelligenza, insomma) all’infuori d’ogni vita sociale. D’altra parte, fuori degli individui che vivono insieme e agiscono in rapporti reciproci, non vi è nessuna realtà concreta in quel complesso fenomeno che s’usa riassumere nella parola “società”.
Vi sono tuttavia almeno due modi di concepire la condizione umana che giustificano e illustrano un insuperabile contrasto fra l’individuo umano e le norme, le attuazioni, la storia delle collettività umane.
La prima di queste si fonda sulla maggior realtà (o “naturalezza”, o immutabilità) dei fatti biologici rispetto alle mutevoli convenzioni che regolano le vicende sociali: sul primato, se così si può dire, della natura animale rispetto alla seconda, acquisita, natura dell’”animale politico”. È un luogo comune denunciare le abitudini di civiltà e di educato comportamento come una tenue “vernice” che si screpola non appena le circostanze permettono o stimolano lo sfogo dei permanenti, atavici, e più o meno feroci, “istinti”.
Dal conseguente materialismo cui si ispira Hobbes per spiegare le origini e gli sviluppi del consorzio politico fino a tutte le deduzioni operate da Freud a partire dalla scoperta del subcosciente, il rapporto fra individuo e società appare come una continua, necessaria, e forse salutare, repressione del primo da parte della seconda. Sarebbe in sostanza una costante repressione dell’irreprimibile; il mantenimento, con la violenza e con l’astuzia, di un certo ordine artificioso, arbitrario, e per giunta mutevole, contro una spontaneità vitale che rinasce in ogni neonato sempre con gli stessi primitivi, fisiologici e profondamente antisociali appetiti e impulsi.
Senza inoltrarci in una critica della scelta di certi fatti che conducono alla suddetta interpretazione del rapporto fra individuo e collettività umana e del modo di connetterli fra loro (non senza petizioni di principio) vogliamo limitarci a due osservazioni.
1) II contrasto fra esigenze “naturali” dell’uomo e “artifici”, corruttele, mostruosità delle istituzioni sociali ha suscitato —a partire dagli antichi filosofi cinici fino alle correnti dell’individualismo anarchico che ancora sussistono— non pochi movimenti di protesta contro l’oppressione dello Stato, del conformismo sociale, e talvolta addirittura contro la civiltà in genere.
Il paradosso è che tali movimenti -e parliamo soltanto di quelli che ripudiavano ogni mistica e insistevano sull’empirismo razionale delle loro affermazioni- si siano quasi sempre attuati nella stretta solidarietà e disciplina di un gruppo di consenzienti, e cioè in un’esperienza e formazione spiccatamente “sociali” e nient’affatto “biologiche”. Per quanto le loro aspirazioni fossero violentemente distruttive e negatrici di ogni ordine stabilito nelle leggi, nei costumi, nell’economia stessa, la conclusione programmatica era quasi sempre l’instaurazione di un ordine sociale più perfetto, nel senso di una più intensa, più pacifica, più lieta vita in comune del più largo possibile numero di individui, e spesso anzi l’unificazione armoniosa dell’intero genere umano.
2) Le diverse dottrine che (partendo spesso da acute, ardite, competenti vedute d’insieme sul comportamento fisiologico e psicologico dell’animale bipede implume) considerano la vita dell’organismo individuale e della sua “psiche” come una realtà indipendente e quasi eterogenea rispetto alle strutture e vicende della società, cadono in un impaccio caratteristico allorché tentano di spiegare, con rigore di metodo scientifico, la diversa serie di fatti reali ingenerata dall’esistenza stessa, dalle norme, dalle istituzioni, dalla continuità storica delle società umane.
Dal punto di vista di una scienza effettivamente informata e attenta a non pascersi di ipotesi affermando solo fatti ben accertati, le supposizioni di Freud sull’origine dei “totem e tabù”, o le prolisse e eruditissime disquisizioni di un’intera scuola di etnografi psicanalisti (come Geza Roheim o Gregory Bateson) i quali deducono da certi “complessi” le caratteristiche dell’economia, della mitologia, della morale di tribù malesi o siberiane, valgono assai meno del mito razionalista di un primordiale “contratto sociale” che, da Hobbes a Rousseau, ebbe tanta voga. In quest’ultimo caso, l’artificio consiste nel supporre che gli individui, a un dato momento, avessero la libera scelta d’integrarsi o no in una collettività ordinata, e allora resta inspiegabile come mai, non ancora integrati, possedessero un idioma comune per discutere e approvare le clausole del contratto.
… Lacuna nel testo …
II fatto è che bisogna pur ammettere come due regioni distinte (ma non separate) dell’esistenza quella della coscienza individuale e quella della vita associata. Ci sono certo nell’individuo prospettive estranee, se non addirittura contrarie, a quelle dell’esistenza sociale. Nel fatto che la Messa in Si bemolle sommuove e rischiara l’intima coscienza di chi non crede affatto al dogma della Redenzione, che si può compenetrarsi della visione di un tempio greco senza alcuna partecipazione all’ambiente religioso e politico da cui esso è sorto, che la bellezza intrinseca di fiabe o di sculture primitive venga sentita da uomini completamente impegnati nella civiltà industriale, si trova la conferma di esperienze umane eminentemente personali che in qualche modo si emanciperebbero dalle contingenze dell’immediata realtà sociale. E lo stesso appare nell’unicità di ogni amore profondo e d’ogni imperativo morale.
Ma è lecito riassumere tutto ciò nel “mistero” di quel che chiamiamo “vita”. Come la vita naturale è proliferazione di organismi vegetali e animali, così la vita sociale -attività di organismi coscienti- è tutta esuberanza, sperpero, fecondità smisurata continuamente corretta da massicce distruzioni.
La civiltà comincia con il superfluo, con la produzione “in aumento”, e cioè al dilà dell’immediato bisogno, con le disponibilità per l’ingordigia, per il fasto, per lo spreco.
Huizinga ha scritto un libro sull’importanza del gioco in ogni creazione culturale. “La cultura non nasce dal gioco come frutto vivo che si svincoli dal corpo materno, ma si sviluppa nel gioco e come gioco”, egli scrive; e cita il noto testo di Platone (Leggi II – 653-54) secondo il quale “le creature giovani non sanno tenere in riposo il corpo e la voce, devono far movimento e rumore, saltare, ballare di gioia e emettere ogni sorta di suoni. Ma, mentre gli animali in tutto ciò non conoscono distinzione fra ordine e disordine, agli esseri umani gli dei hanno conferito la felice facoltà di osservare ritmo e armonia”.
Lo storico olandese insiste sulle molteplici connessioni fra il dominio del gioco e quello del sacro: feste, danze rituali, rappresentazioni drammatiche, simboli, gare d’ogni specie (dal potlatch all’agon). In un campo come nell’altro, il mondo immaginato, inventato, agisce in due direzioni: da un lato circoscrive in forme convenute, dall’altro espande verso l’infinito e l’inconoscibile i dati della realtà quotidiana: “II culto sorse e crebbe in gioco sacro. La poesia nacque in gioco e continuò a vivere di forme ludiche”.
Potrebbe a tal proposito venire in mente una formula di Mallarmé ripresa da Valéry: “L’homme a inventé le pouvoir des choses absentes, par quoi il s’est rendu puissant et misérable”.
Meno chiaramente ha Huizinga indagato la necessaria correlazione fra tutte le forme di coscienza collettiva che si attuano in “azioni ludiche” o “sacre” e un ordine fisso sia della divisione del lavoro sia del governo tanto economico che politico, per cui le brutali necessità del lavoro per sussistere e dell’obbedienza ad autorità provviste di mezzi coercitivi vengano completate (o “compensate”) da momenti di spontanea, gratuita, lieta, egualitaria “socievolezza”. Si tratta, insomma, di ritmo e armonia ad ampie cadenze nell’esistenza stessa di una comunità alla quale il singolo individuo si integra.
Popolo, massa e cultura
Tratto da Tempo Presente, Vol. IV, n. 2, febbraio 1959
Queste considerazioni furono scritte in forma di note marginali a due articoli apparsi nella rivista newyorkese Politics nel febbraio 1944: A Theory of Popular Culture di Dwight Macdonald e The Breadline and the Movies di Melvin Lasky. Una versione succinta di queste note fu pubblicata nel numero di Politics del novembre 1946, con lo pseudonimo di European.
Nel suo interessante articolo, Dwight Macdonald distingue: 1) una high culture, che egli inclina a identificare con 1’”avanguardia” in tutte le sue forme; 2) una popular culture for the élite, che prenderebbe la forma dell’”accademismo”; 3) una folk art, che sarebbe “l’istituzione propria del popolo” (ed è abbastanza sintomatico che a questo proposito si parli soltanto dell’arte, e non di tutto il campo della cultura: filosofia, nozioni scientifiche, norme morali, riti di socialità); e, infine, il vero problema: 4) la popular culture per le “masse”, la quale sarebbe in primo luogo passabilmente “degradata” e in secondo luogo “strumento di dominio sociale”, ma pur sempre “cultura”, ossia una forma d’educazione della sensibilità e dell’intelligenza.
Ora, a me pare che una tale costruzione trascuri taluni dati essenziali:
1) “Popolo” e “massa” sono due realtà assai diverse. Si può accettare lo schema di Georges Gurvitch il quale, nel distinguere la “comunione”, la “comunità” e la “massa” come tre forme diverse del rapporto sociale, sostiene che, nella massa, quel che importa non è il numero degli individui, bensì un certo modo di stare insieme nel quale la personalità dell’altro è totalmente ignorata e il problema sociale si riduce a quello di coordinare meccanicamente i propri movimenti a quelli degli altri: una socialità, cioè, così elementare e, al tempo stesso, così poco umana da obliterare praticamente la coscienza critica e la facoltà di scelta. Il “popolo”, invece, presuppone necessariamente il permanere di una “comunità” e delle possibilità effettive di “comunione” nei riti, nelle feste, nei momenti sia di pericolo che di trionfo della comunità.
2) La massa in quanto tale, e trattata come tale da sfruttatori o da demagoghi, non è suscettibile di alcuna “cultura”, in quanto la cultura esige una certa autonomia di colui che “si coltiva” o accetta di “venir coltivato”. La massa non può che subire degli chocs psicologici (i quali si traducono per lo più in isteria collettiva) o degli stimoli imperiosi che la riducono alla passività totale, all’automatismo del soldato, al panico (che può anche non esser violento) e all’atonia senza rimpianti e senza speranza della bestia da soma.
3) II dressage prussiano o fascista è il contrario di una “educazione”. La deformazione di un’anima secondo i metodi della pedagogia gesuita o calvinista rappresenta il pervertimento di ciò che intendiamo per opera “educativa” o “culturale”. Esiste dunque -nell’ambito delle possibilità sociali- un fatto che si può chiamare “anti-cultura”. E c’è anche la “incultura”, quando manchi un ambiente proprio a generare uno stato di “comunità” o di “comunione”. Gli eschimesi hanno una cultura; invece ciò che si racconta dei miseri abitanti della Terra del Fuoco ci fa dubitare che esistano, fra di loro, le basi elementari di una vita religiosa, estetica, o politica in senso lato. Forse non senza esagerazione, Giovenale ci mostra una plebe romana caduta preda della “incultura”. Le SS e gli aguzzini di Auschwitz o di Dachau erano radicalmente immunizzati contro ogni germe di “cultura”.
4) Ora, la rivoluzione industriale data in Inghilterra dal 1750 circa, ed è fra il 1840 e il 1850 che Friedrich Engels e Herman Melville ne constateranno gli effetti sulla popolazione operaia delle grandi città. Il meno che si possa dire è che questi uomini e queste donne vivevano da due o tre generazioni segregati da tutto ciò che può nutrire una “cultura”: incatenati dall’età di sei anni all’inferno dell’officina, per quattordici o sedici ore su ventiquattro, non potevano conservare alcuna memoria di una folk art e di uno “stile d’esistenza” comunitario. Lo stesso fenomeno si è riprodotto dovunque s’è impiantato il capitalismo industriale. Si vedano per la Germania I tessitori di Hauptmann, per la Polonia I minatori di Tetmagr, per la Russia I costumi della via Rasteriajeva di Glieb Uspenski; e infine, per la Cina, le descrizioni delle fabbriche di tessuti di Sciangai. Parigi e Lione sembrano aver resistito meglio: nel secolo diciannovesimo, si sviluppò in queste città una vera “cultura popolare”. Ma abbiamo documenti sull’Alsazia, su Nantes, sulla regione Lille-Roubaix dal 1830 al 1860, altrettanto atroci di quelli sull’Inghilterra. Si prenda, d’altra parte, il livello d’educazione individuale e sociale di moltissimi degli emigranti che arrivavano in America dopo avere (anch’essi per diverse generazioni) stagnato in villaggi e ghetti nei quali gli effetti di un pauperismo spinto a estremi inimmaginabili (Manda, Andalusia, Italia meridionale, Galizia) avevano progressivamente spogliato gli uomini di ogni vestigio d’umanità. E non si dimentichino gli schiavi negri liberati, gl’indigeni delle colonie abbrutiti dal cattivo alcool e dal lavoro forzato (o dalla caccia all’uomo), le bidon-villes dell’Algeria e del Marocco. In tutti questi casi, non c’era nessuna folk culture da reprimere o corrompere per far posto alla “cultura”, all’Ersatz di cultura o all’incultura sistematica che il capitalismo gettava sul mercato insieme agli altri articoli di “consumo corrente”. Si operava in certo senso su una tabula rasa, e tuttavia non su delle anime nuove, fresche, ingenue, bensì su esseri anemizzati, cagionevoli, viziati, “svuotati”. La pianta umana ha resistito, e quando si è portata un po’ d’aria in quei campi di morte non tanto lenta che erano i sobborghi operai, e a forza di sommosse e di scioperi i salariati hanno ottenuto qualche ozio, un po’ d’igiene, delle scuole, la gioia di vivere, e persino la bellezza fisica, quella pianta ha potuto rifiorire. Ma i gusti, gli appetiti, i sogni, la mitologia non avevano radici né in una tradizione, né in una natura propria di questo popolo sradicato. Tutti gli oggetti e tutti i valori di cui essi potevano avere la conoscenza e l’uso erano “fabbricati”, e fabbricati in serie.
5) Ma chi erano i fabbricanti? Ed è lecito vedere nella “cultura volgarizzata” il disegno di una “ideocrazia” borghese paragonabile a quello messo in opera assai più brutalmente dagli Stati totalitari del nostro tempo? Un fatto abbastanza sorprendente è che la classe che arrivò al potere in Francia sotto Luigi Filippo e che in Inghilterra s’è infiltrata più lentamente in tutti i posti un tempo occupaci dalla gentry non ebbe mai una cultura veramente conforme alle sue convinzioni intime e ai suoi gusti spontanei. Quei parvenus si sono installati — non senza un sentimento d’imbarazzo — nelle proprietà dei loro predecessori e non sono mai riusciti a farne veramente la loro home: hanno accettato le “umanità” e il “progresso della scienza”, le nozioni di cortesia e di fasto, le norme consacrate dell’onore (cavalleresco), della gloria (soprattutto guerriera), della virtù (ascetica), ma senza mai poter veramente dirigere la gestione di questo patrimonio talvolta ingombrante, né potersi mai liberare da una diffidenza (repressa con vergogna o grossolanamente ostentata) verso gli artisti, gli scienziati, gli “ideologi”. La cultura s’è spesso creata contro di loro (persino Adam Smith disprezza i mercanti, speculatori eccetera): i borghesi si sono sentiti più spesso allarmati o scandalizzati dalle nuove creazioni che orgogliosi di averle indirettamente ispirate come modelli o come finanziatori. È innegabile che, parallelamente a ciò, le antiche aristocrazie venivano perdendo quella familiarità con l’alta cultura e quel “diritto d’intervento” di cui avevano un tempo goduto grazie al mecenatismo, alla vivacità dei salotti, alla facilità del dilettantismo enciclopedico. Paragonati alla brillante aristocrazia russa del 1820 (nella quale un Pushkin poteva trovarsi gomito a gomito con i principi e conti “decabristi”), i cortigiani di Nicola II, i suoi “marescialli della nobiltà”, i suoi governatori eccetera, che fossero amici o avversari di Rasputin, facevano figura di deplorevoli cretini. Intorno a Francesco Giuseppe, ai tempi del suo declinare, si sarebbero invano cercati uomini di cultura così compiuta e disinvolta come un Kaunitz, un Metternich, e persino un Von Gentz. Fra gli Junker ai quali Guglielmo II distribuiva cariche, non ce n’era forse uno solo che fosse al livello dei Von Stein, Von Hardenberg, York eccetera, capaci, ai loro tempi, di apprezzare Goethe e Hegel.
Il malessere caratteristico — ma anche il singolare dinamismo — del secolo XIX furono causati appunto dal fatto che l’alta cultura si trovò isolata dalle classi dirigenti non meno che dal popolo (in parte già sparito, perché trasformato in “massa”). E talvolta la vita dello spirito si è completamente staccata dalla vita sociale: con un Rimbaud, per esempio, l’artista diventava un individuo nettamente “asociale”.
Alle distinzioni di Macdonald si potrebbe dunque sostituire la classificazione seguente:
- A) Un’arte — o una cultura — popolare, creazione spontanea di un “ambiente popolare”, facilmente particolarista e persino regionale. Quest’autentica cultura del popolo è in parte schiacciata dal capitalismo (il quale vi sostituisce il deserto della massa e dell’anti-cultura); in parte sbiadita dall’uniformità cosmopolita che il progresso tecnico, le comunicazioni rapide eccetera hanno reso inevitabile; in parte infine raccolta e integrata nell’alta cultura, in modi vari che possono andare dagli studi etnografici all’adozione della musica negra e della plastica del Benin da parte di artisti d’avanguardia.
- B) L’”alta cultura” è sempre stata appannaggio di un’élite ristretta. Nei secoli passati, tale élite s’è spesso confusa con una parte dell’aristocrazia o della casta sacerdotale (Kshatria o bramini, monaci e troubadours, eccetera). Dopo l’avvento della borghesia e i limiti imposti al potere delle Chiese, l’élite intellettuale (e culturale in genere) è venuta a trovarsi nella situazione ambigua di una aristocrazia decaduta, di “chierici” non consacrati, di refrattari che evadono in spirito da un sistema di rapporti sociali al quale restano in pratica sottomessi.
- C) Le molteplici varietà di semi-cultura, ossia miscugli in dosi variabili di cultura (attività dello spirito) e d’incultura (inerzia conformista, esistenza senza personalità, senza problemi, senza comunione viva coi propri simili). È in tali surrogati di una cultura autentica che si rinchiudono tutti i padroni e dirigenti del mondo attuale, insieme alle loro fedeli clientele. Questa è, in certo senso, la zona della “cattiva coscienza” e del “cattivo gusto” spesso cosciente della propria deficienza, come pure del lavoro frettoloso di artigiani disonesti e di tutte le forme d’insincerità: Kitsch, camelote, trompe-l’oeil, eccitazione artificiosa dell’ottimismo ufficiale, noia paludata, e insomma tutto quello che Flaubert intendeva con pignouflisme.
- D) L’anti-cultura, aggressiva e distruttiva. Si tratta di una forza di primo piano: barbarie motorizzata, mille volte più nefasta dei cavalieri di Tamerlano, dopo il passaggio dei quali l’erba non cresceva più, essa dispone di tutte le risorse delle scienze applicate e al tempo stesso della capacità di “razionalizzare” tutti i più bassi appetiti della bestia umana. Oltre la grande impresa già menzionata — la condizione degli operai a Manchester nel 1842, e in mille altri luoghi nel corso del secolo — l’offensiva dell’anti-cultura può vantare, come realizzazioni pienamente riuscite: il militarismo moderno, imposto indistintamente a tutti, senza i motivi culturali — onore del cavaliere, vocazione del lanzichenecco — che determinavano in altri tempi la scelta della carriera delle armi, e oggi perfezionato fino alla bomba atomica; gli ergastoli di bambini, come la scuola descritta da Dickens in Nicholas Nickleby, o gli “internati” napoleonici, che Maxime du Camp non poteva ricordare senza rabbia anche quando ebbe settantanni; lo sterminio di numerose popolazioni nelle colonie (da notare che la semplice barbarie degli spagnoli non c’era riuscita); infine, lo Stato totalitario di Hitler o di Stalin, senza pregiudizio di quelli semi-totalitari, o avviati a diventarlo. Nel campo propriamente culturale, l’anti-cultura si manifesta con la sottomissione di ogni facoltà intellettuale ai “bisogni della propaganda” attraverso l’unità del comando, la negazione teorica e pratica della persona umana e della sua dignità, l’esaltazione della dismisura e della volontà di potenza.
- E) Per le masse in quanto masse, lo ripeto, nessuna cultura è possibile. Riunirle in un circo, a un match di foot-ball, in un comizio a base di altoparlanti o in una sala di cinema, far legger loro lo stesso slogan nella stampa o propinarglielo per radio, non significa “coltivarle”, ma solo comandarle. C’è tuttavia la possibilità di comunità popolari che si liberino dal magma della massa: i sindacati operai, le mutue, talune sètte religiose, le cooperative, le Internazionali socialiste vi hanno contribuito; ma non bisogna dimenticare delle formazioni meno appariscenti come quei “gruppi d’amici” nei sobborghi operai che un giovane sociologo francese si proponeva di studiare. Per tali gruppi, vi sono possibilità di cultura disparate e fortunose. Come nel consumo delle derrate e dei beni d’uso, l’esiguità del “potere d’acquisto” e la onestà relativa del bottegaio determinano la qualità e la quantità di tali alimenti spirituali. È evidente che la cianfrusaglia e l’Ersatz della semi-cultura, e i veleni dell’anti-cultura, sono quelli che predominano sul mercato. Senza nessuna intenzione machiavellica prestabilita, i trusts e i mercanti profittano naturalmente dell’inesperienza del compratore. L’uomo del popolo e le comunità popolari avrebbero dunque bisogno di consigli, di guida amichevole o di organizzazioni analoghe alle cooperative. Bisogna pur dire che il socialismo marxista ha lamentevolmente trascurato questo lavoro educativo, ripetendo macchinalmente la giaculatoria della “coscienza di classe”.
Dwight Macdonald passa poi a parlare delle immense possibilità aperte dai mezzi moderni di comunicazione e diffusione alla cultura delle masse, come pure del contributo enorme che l’industria e la tecnologia moderne possono dare al conforto materiale delle masse medesime. Macdonald dice in particolare che “il progresso tecnologico ha reso possibile la produzione a buon mercato di libri, periodici, riproduzioni fotografiche, musica e architettura.” L’argomento è, per così dire, classico fra coloro che hanno a cuore un’interpretazione ottimistica del mondo moderno, oppure — come lo stesso Macdonald — temono di non rendergli sufficiente giustizia.
Cominciamo dall’architettura. I Propilei e i Fori imperiali, il Partenone e Santa Sofia, tutte le cattedrali romaniche e gotiche, come pure le terme, gli acquedotti, i caravanserragli fondati dai califfi e dai sultani, sembrano aver avuto per scopo la soddisfazione dei bisogni e dei gusti del popolo. Anche i giardini di Versailles furono costruiti ad intenzione di un “popolo” di cortigiani e di bighelloni che potevano andare a contemplare il re mentre pranzava. Goethe si meraviglia che a Vicenza e a Verona il popolo consideri i portici costruiti dal Palladio come luoghi di sua proprietà dove esso può fare il proprio comodo di giorno e di notte. Non si vede che la tecnologia moderna sia riuscita a costruire, per il popolo, luoghi altrettanto maestosi o brulicanti di vita spontanea. E, per parlare di architettura più intimamente utilitaria, le Fachhäuser di Hildesheim, certe isbe della Russia del Nord, certe case contadine dell’Italia del Nord e del Sud sembrano conservare una certa superiorità sulla desolazione dei sobborghi popolari di Londra e di Parigi, sulle “case popolari” moderne dove lo spazio è misurato al centimetro e il comfort di qualità infima. Dall’inizio del capitalismo a oggi, l’età moderna non sembra essersi preoccupata di architettura quanto di “macchine per abitare” più o meno efficienti (a seconda del prezzo). E forse anche gli architetti più moderni, con tutte le loro buone intenzioni, rimangono essenzialmente schiavi delle idee d’utilità e d’efficienza, dalle quali non sembra facile passare a un vero culto della bellezza e della dignità: dell’”inutile”.
Quanto ai libri e alle immagini, vorrei ricordare che fin dall’invenzione della stampa i “mercati” (e in particolare le numerose “fiere”) hanno saputo soddisfare una vasta clientela popolare con almanacchi, Volksbücher (storia del Dottor Faust e dei Reali di Francia), incisioni, stampe eccetera. La proletarizzazione e i tuguri dell’era industriale, diminuendo il potere d’acquisto, hanno determinato la decadenza di questa produzione di articoli di cultura popolare. Il poeta Nekrassov poteva ancora, in una delle sue tirate demofile, esprimere il voto che “al ritorno dalla fiera il contadino portasse a casa non già l’almanacco (astrologico) di Bruce o la storia idiota del ‘Milord inglese’, ma le opere di Bielinski e di Gogol”. Certo, oggi si stampa enormemente. Ma, in questa marea di stampati, bisognerebbe considerare in primo luogo la proporzione fra cultura e anti-cultura e, in secondo luogo, la graduatoria delle opere e pubblicazioni varie cui va il favore del pubblico.
Macdonald menziona poi la radio e il cinema. Ma il teatro di Dioniso, l’Ippodromo di Costantinopoli, le piazze sulle quali si celebravano i “misteri” nel Medioevo, le impalcature su cui s’installavano all’aria aperta gli attori spagnoli che recitavano Lope de Vega, erano pur destinati e adatti a pubblici imponenti. E qual era il paese o anche il paesetto di Francia, d’Italia, di Germania dove, dal secolo XV al XVIII, non facesse la sua apparizione una qualche troupe di mimi, giocolieri, prestigiatori, di attori della commedia dell’arte o dei drammi shakespeariani (conosciuti in tutta la Germania prima del 1648 grazie a “attori inglesi”)? Quel che c’è di nuovo oggi è che si può andare al cinema o al caffè fra due incombenze di lavoro o d’affari, senza vestirsi, senza “perder tempo”, senza la preparazione psicologica a un godimento fuori serie. È la nozione e il sentimento della “festa” che la civiltà moderna tende a distruggere. Questo è il fenomeno peculiare dei tempi moderni.
Macdonald passa quindi a parlare della “separazione fra cultura popolare e alta cultura” come di un fatto costante nella storia. Ora, una tale separazione fra i gusti dell’aristocrazia e quelli del popolo non è esistita che in certi periodi, quando: 1) l’aristocrazia si è rinchiusa in un’esistenza procul negotiis; 2) il popolo è stato ridotto all’atonia dal pauperismo o dall’oppressione poliziesca, militare o ecclesiastica. Aristofane è certamente della folk art al tempo stesso che della high culture. Ma cento anni dopo, in un’Atene umiliata, privata della sua esuberanza democratica, le commedie di Menandro sembrano riservate a un “bel mondo” di ricchi oziosi protetti dalla machine royale del despota macedone. Così, il teatro di Shakespeare e di Marlowe faceva vibrare, se non all’unisono certo con eguale intensità, le anime di Lords e d’artigiani londinesi; mentre il Catone di Addison è riservato al rispettabile pubblico dei profittatori della Glorious Revolution del 1688. Molière e Goldoni sono passati per gradi dal teatro popolare ai salotti mondani d’alta cultura. Ma evidentemente la gente del quartiere Saint Antoine non poteva andare ad applaudire Bérénice. La Chiesa prescriveva ai pittori d’insegnare le verità della religione agli analfabeti, ma più di un aristocratico era, a quei tempi, incapace di tracciare la propria firma. Tutti i capolavori italiani e fiamminghi del secolo XV sono altrettanto accessibili al popolo che ai chierici più addottrinati. C’è poi un’arte per umanisti e per gente educata secondo il Cortegiano del Castiglione. Ma i pittori olandesi non elevavano certo alcuna barriera fra “arte per il popolo” e “arte aristocratica”. E la musica di Bach era senz’alcun dubbio accessibile ai fedeli della chiesa di San Tomaso a Lipsia, mentre le arie di Haydn e di Mozart si diffondevano nei quartieri più umili di Vienna. “Questa folla di Siviglia che freme, trema, si esalta, sviene, s’inebria di quel dramma di sangue e di lacrime che è la Passione, e nel quale essa ritrova i propri tormenti, i propri dolori, s’identifica con il Crocifisso, con la Madre trafitta, con i santi bruciati sulla graticola, attanagliati, squartati, suppliziati sulla ruota, scorticati vivi, che portano i loro occhi o la loro testa su un piatto, con tutti i martiri di cui essa rinnova il supplizio con una crudeltà e un sadismo che rinascono ogni anno. Giacché tale folla è insieme la vittima e il carnefice, piange e applaude, e il dramma si svolge sia in essa che a causa di essa”.
L’analogia che viene alla mente leggendo questo brano descrittivo dovuto alla penna di Georges Pillement, sono le processioni fastose e sanguinose, intramezzate di giochi scenici e di scontri violenti, con le quali gli “sciiti” persiani (e anche quelli di Bakù) commemoravano il martirio di Hosein il giorno della festa dell’Asciura. È la stessa esplosio-ne di frenesia fanatica e di pathos profondo, in una folla composta di miserabili, abitualmente immersi in un’apatia passabilmente cinica. Ora, i paesi dell’Islam, e in particolare la Persia, presentano, dopo i Selgiuchidi (nel secolo XI) tutte le vicende — a volte lente, a volte accelerate, ma sempre a senso unico — di una disintegrazione dei centri di cultura, di una accumulazione di rovine e di pidocchiume, d’abbandono delle masse alla brutalità di effimere dominazioni militari, alla direzione spirituale di un clero (dervisci compresi) sempre più ignaro, e infine alle magre risorse di un’economia sempre più retrograda.
Salvo il parere di persone più competenti di me, in una manifestazione di cultura religiosa popolare, come nella grande festa dell’Asciura, mi sembra di poter individuare tre strati confusi e mescolati più che sovrapposti. C’è, per cominciare, una mistica assai sottile e sapiente (“alta cultura”) che il mistero dell’Iman invisibile, il sufismo (impregnato di Plotino), la dottrina segreta degli Ismaeliti hanno sviluppato durante i secoli d’ascensione intellettuale del mondo musulmano; c’è poi un fondo evidentemente indistruttibile di culti orgiastici (Dioniso o Siva-Kali) che costituisce un elemento primordiale di ogni cultura popolare; infine gli orpelli inventati espressamente — come gli scenari barocchi e tutti gli eccitanti pubblicitari moderni — per una folla rozza nella quale la sensibilità e la gravita di un popolo autentico hanno ceduto di fronte ai risentimenti (abitualmente repressi) della “massa”, o promiscuità di rifiuti umani.
A Siviglia, nella settimana della Passione, non si ritrovano forse gli stessi ingredienti? La descrizione già citata continua così: “I pasos sono dei totem e dei feticci, feticci mostruosi e splendidi, i portafortuna della città: fanno piovere, portano la prosperità, sono segni di riconoscimento, parole d’ordine, intercessori. Il ‘Cristo del Gran Potere’ di Montanes, la ‘Santa Veronica’ di Zurcillo saranno presenti quando un membro della loro confraternita arriverà alle porte del Cielo… Signori accigliati e monaci estatici circondati da contadini che guadagnano appena il loro sostentamento con un duro lavoro, sostenuti dalla speranza di vedere un giorno il Cristo e la Vergine e tutti questi santi che sono per loro delle entità viventi”.
Evocare tutto ciò a proposito di una discussione sulla qualità dei libri, dei film, dei programmi radiofonici citati da Macdonald come ingredienti della popular culture a New York, Londra e Parigi, parrà specioso. Ma mi sembra che il problema debba essere esaminato in tutta la sua ampiezza, esplorando a fondo sia il campo della “cultura” sia le inclinazioni, patenti o dissimulate, del “popolo” per il quale questa cultura sarà in parte un “regno ritrovato”: costumi, senso estetico, gioia di vivere, gusto della saggezza eccetera, obliterati nello stato di “massificazione”; e bisognerà a maggior ragione esaminare l’invito a uno sforzo oltremodo complicato di liberazione spirituale insito nella cultura. Per accedere alla cultura autentica, la personalità deve emanciparsi da un assai spesso e assai pesante amalgama di terrori, di diffidenze, di ferocie, d’inclinazioni a “perdersi per ritrovarsi”; e la comunità deve ricostituirsi in modo non superficiale e astratto, mettersi al diapason di tutte le nozioni attualmente accertate quanto all’universo, la condizione umana, le molle fisiologiche e psicologiche, le possibilità, i pericoli, le paurose “aporie” della scienza tecnica.
Cercherò, se non di spiegarmi, almeno di indicare la direzione dei miei pensieri, con alcuni esempi deplorevolmente frammentari tratti da note che son venuto ammucchiando e da articoli che mi son capitati sotto gli occhi in questi giorni piuttosto desolanti dell’inverno 1945-’46, in questa città di Toulouse dove la maggior parte della gente — e io con essa — è costretta a spendere la maggior parte del tempo a difendersi dalle urgenze delle necessità materiali, e dove dunque la serenità indispensabile ai “buoni studi” è difficilmente raggiunta e presto interrotta.
Comincerò da una citazione di Roger Vailland, tratta dal settimanale Action del 26 ottobre 1945: “Ditemi quali sono i vostri piaceri — scrive Vailland — e vi dirò chi siete. Quando si pensa al ‘volto’ di una civiltà o di un’epoca, quel che viene per primo alla mente sono i suoi piaceri. E questa non è ‘leggerezza francese’. Una società in cui l’uomo consacrasse interamente la sua attività a soddisfare i suoi bisogni elementari — mangiare, dormire e ripararsi — non si definirebbe in alcun modo come ‘civiltà’: sarebbe priva di ‘volto’. Civiltà significa maniera di vivere; ma l’accento è su ‘maniera’. Un sedile non diventa oggetto di civiltà se non è qualcosa di più d’un oggetto che serve a sedersi: ciò comporta, se non degli ornamenti, perlomeno la ricerca di una linea destinata a dar piacere all’occhio. Lo stesso pensiero è un lusso… l’affamato non ha un pensiero sistematico”.
Da questa considerazione, che mi sembra quanto mai giusta, passerò di nuovo all’articolo di Georges Pillement sulla Settimana Santa di Siviglia, nel quale trovo scritto: “I pasos, con le loro membra articolate, i loro costumi d’apparato, le loro parrucche e barbe di veri capelli, i loro occhi di vetro, sembrano segnare la decadenza dell’arte barocca. Ma, al contrario, ne sono lo sbocco logico e glorioso, la manifestazione più espressiva e più spirituale”.
Insieme agli autodafé, alle feste come quelle di San Gennaro a Napoli e di Sant’Agata a Catania, insieme alle corridas, la cui voga sembra essersi molto accresciuta nel secolo XVIII (quando si cominciarono a bruciare meno eretici), gli spettacoli della Settimana Santa a Siviglia hanno “coltivato” (ossia aiutato a far accettare) non già una brutale degradazione del popolo da parte della rivoluzione industriale, ma la sua stagnazione indefinita nel pauperismo totale.
Il mito del Grande Inquisitore di Dostoevskij evoca la Controriforma e i suoi effetti sul popolo “che paga e che prega” delle regioni mediterranee. L’Inquisizione, i gesuiti, l’installarsi di un torpore sia economico e sociale che dell’intelligenza e della coscienza morale non hanno potuto trionfare senza che si facesse appello a un fondo di disperazione orgiastica e di voluttà nei tormenti, nonché a quell’ossessione del peccato (ossia della disfatta nella volontà di vivere) che conduce ad aborrire la felicità insieme a qualsiasi audacia innovatrice. A volte in maniera squisita (Santa Teresa d’Avila), o soave (i chemins de velours della casuistica e il quietismo), spingendo l’immaginazione fino all’esaurimento (il concettismo, il gongorismo, Bernini, l’opera), l’arte del barocco, con la concezione dell’uomo e della grandezza umana che vi si esprime, hanno distillato 1’”oppio del popolo”. Nessuna meraviglia quindi se il barocco è sopravvissuto come Ersatz dell’arte popolare vera.
D’altra parte, non si potrebbe emettere il minimo giudizio valido sulla “cultura del popolo” senza un esame molto attento di fenomeni come quelli di cui (a quanto m’informa un’ottima recensione letta in una rivista inglese) tratta Herbert Hewitt Stroup in un libro consacrato alla sètta dei “testimoni di Jehova”. Questa lugubre sètta, che (a quanto afferma l’autore) “domina i cuori di vari milioni (?) di credenti inglesi e americani”, ha antecedenti e correnti parallele così numerosi e singolari che bisogna pur riconoscervi uno dei fattori decisivi di una certa educazione delle “masse” alla disperante docilità che le ha persuase ad accettare la schiavitù in tutte le sue forme, la rassegnazione al tugurio (slum), lo scivolamento verso la disumanizzazione totalitaria. Mi sembra che la predicazione di Wesley e tutte le mutazioni successive del metodismo hanno operato in questo senso. È in ogni caso significativo che il wesleyanismo abbia tanto contribuito a distogliere le folle proletarizzate da ogni velleità di rivolta all’epoca stessa in cui la macchina a vapore consacrava il trionfo del capitalismo. In questo campo, gli americani sono naturalmente blasés, avendo visto proliferare sul loro territorio tante sètte strane. Ma lo stesso fenomeno ha caratterizzato la Russia dalla violenta europeizzazione del 1700 (quella che Herzen chiamava “pietrograndismo”) fino ai prodromi del movimento emancipatore (1861-1905). Ma bisognerebbe scrutare molti particolari di simili riduzioni del cristianesimo alla “mentalità pre-logica” e di messianismi così poveri d’invenzione per scoprirne gli effetti sociali. Allora ci si potrebbe domandare se anche le ideologie di “fuga” (come i Mormoni in America e i Duchobori in Russia) non abbiano contribuito a facilitare il trionfo dell’oppressione economica e dell’anti-cultura, così utile (in quanto stabilizza il basso livello mentale delle masse) alla meccanizzazione totalitaria.
L’Europa contava troppe vecchie comunità “intellettualizzate” (ossia impregnate di princìpi razionali e di ricordi storici inestirpabili) per cedere nel secolo XIX (come sembra aver ceduto nel XIV, al momento dei “flagellanti”) a tali revivals di orge spirituali primitive. Tuttavia, per esempio, un certo culto di Sant’Antonio (di cui s’è molto occupato André Thérive) è fiorito nel Belgio, paese di proletarizzazione quanto mai intensa e spietata, proprio nel momento in cui la pittura di Van Gogh esprimeva un’indicibile angoscia sulla “materialità” della condizione umana (vedi “I mangiatori di patate”). Arriverei fino a domandarmi se, dopo i piani quinquennali, in Russia — ma soprattutto, in questo buio anno 1945, nell’Europa coperta di rovine — la religione staliniana non obbedisca a una tendenza dello stesso tipo: quel che si predica alle masse è appunto la docilità assoluta e il sacrificio totale in vista di un “millennio”; nell’attesa, non cerchino di capire… In paragone, il Grande Inquisitore di Dostoevskij appare puerilmente imbarazzato da pregiudizi di “alta cultura”, ormai inutili.
Una delle manifestazioni primordiali dell’arte popolare genuina sono, fin da tempi antichissimi, i giocolieri e gli acrobati. Non c’è dubbio alcuno sul fatto che questi giochi di destrezza e di prestidigitazione si collegano alla magia e alle sue operazioni di maggior apparato. La loro voga nella Creta minoica è documentata; i caldei, gl’indiani, i siri, gli etruschi vi hanno eccelso. E attraverso i secoli, fino a oggi, i baracconi da fiera, coi loro giocolieri, imbonitori e acrobati girovaghi, rimangono il più tipico ed abituale divertimento del popolo.
Ora, non manca d’interesse rintracciare i ravvicinamenti e allontanamenti sporadici fra questa folk art così primitiva e certe creazioni abbastanza coerenti dell’”alta cultura”. In religioni molto sviluppate, e che implicano esperienze mistiche raffinate e complicate, si conserva un posto abbastanza difficile da definire ai dervisci e ai fachiri; può anche darsi che la pia leggenda del Jongleur de Notre Dame non sia soltanto un aneddoto che illustra la semplicità di spirito di un umile fratello laico: se si obbiettasse la serie ininterrotta d’anatemi con cui la Chiesa — in Oriente come in Occidente — non ha cessato di perseguitare i giocolieri, si potrebbe replicare che la religione cristiana ha sempre conservato dei misteriosi rifugi — d’origine forse manichea — dove si son nascoste delle concessioni conturbanti al satanismo: i saturnali del carnevale o della “festa dei pazzi” celebrati nel nartece o addirittura all’interno dei santuari, le pratiche talvolta assai strane dell’esorcismo, la venerazione dei “pazzi di Cristo”, nonché certe interpretazioni dell’oportet ut scandala eveniant del Vangelo, che scivolavano sul cammino dell’eterodossia fino a quella dottrina del peccato necessario alla salvezza attribuita alla setta dei flagellanti e a Rasputin.
I giochi dei saltimbanchi hanno un posto importante nei drammi indù (di livello letterario così alto) come nella Commedia dell’Arte, e potrebbe darsi che questi divertimenti più o meno acrobatici facessero anche parte dei “giochi di satiri” che terminavano le tetralogie di Eschilo e di Sofocle; in ogni caso, li ritroviamo nei clowns di Shakespeare e nel gracioso dei drammi di Lope de Vega e d’altri spagnoli. Sono, questi, sintomi sufficienti di un adattamento tenace dell’arte popolare più triviale all’arte più aristocratica. Un’interpretazione intellettualmente raffinata dell’estetica del circo (e in particolare del circo Medrano) ha prodotto opere letterarie come Les frères Zemganno e parecchi capolavori della pittura moderna — da Seurat a Picasso — che si ricollegano curiosamente agli affreschi di Cnosso, come pure molte splendide composizioni di artisti giapponesi.
I contatti fra popolo e alta cultura si potrebbe andarli a cercare persine nella medicina. L’omeopatia, per esempio, non è una teoria così assurda che non meriti di esser discussa dai più gravi membri della Facoltà di medicina. Raspail aveva del genio, e non era certo un ciarlatano, malgrado le bizzarrie della sua Médecine populaire. Ma quanti ciarlatani e inventori di cure meravigliose, la cui mentalità e le cui nozioni di fisiologia non sorpassavano quelle di un medicine-man botocudo o zulù, hanno goduto di una voga immensa nelle capitali d’Europa durante il secolo della scienza, e quante droghe assolutamente bislacche hanno procurato milioni e miliardi ai loro fabbricanti!… Il mesmerismo, lo spiritismo, la Christian Science hanno trovato miriadi di adepti ferventi nella migliore società. Nel suo dramma I frutti dell’istruzione (o dell’alta cultura, o delle lumières) Tolstoi ha voluto mostrare quello che la scienza di Pasteur e di Koch diventava quando passava nelle teste vuote della gente di mondo. E Tolstoi medesimo, con la sua diffidenza di contadino verso gli “uomini dell’arte” e i loro satanici ritrovati rendeva (secondo la testimonianza del dottor Elpatievski) assai penoso il compito dei medici curanti: non è forse egli stesso un esempio della giustapposizione di una cultura eccezionalmente alta e di pregiudizi “primitivi”?
Vengo ora all’interessante tema trattato da Melvin Lasky nel suo articolo. Esso fa sorgere parecchie questioni:
1) II pane distribuito a Roma dall’annona imperiale non potrebbe paragonarsi al dole dei disoccupati inglesi e d’altri luoghi? Nelle misure di razionamento così largamente praticate dagli Stati dopo il 1914 (mantenute in Russia fino al 1935-’36, riprese in Germania molto prima della guerra del 1939) non potrebbe vedersi qualcosa come il principio di un’imitazione del sistema cesareo? Il ministro Pleven ha giorni fa deciso che lo Stato pagherà un certo numero di miliardi ai produttori per colmare la differenza fra il prezzo di costo e il prezzo di vendita al dettaglio di varie derrate. La vendita del pane a buon mercato ha continuato a costare grosse somme al Tesoro in Francia come in Italia per un tratto di tempo abbastanza lungo, dopo la pace del 1919. Nell’URSS, le derrate distribuite a basso prezzo nelle cantine riservate agli operai dello Stato costavano soprattutto lo sforzo delle requisizioni ai contadini, eseguite spesso manu militari; ma l’Egitto, quando era il granaio di Roma, era anch’esso sottoposto a un regime speciale che toccava la requisizione e la spoliazione del fellah.
2) Si può veramente affermare che il cinema è l’equivalente odierno dei circenses romani? Se si pensa al Dopolavoro, alla Kraft durch Freude, alle esibizioni paracadutistiche domenicali di Mosca, ai terreni di foot-ball organizzati per gli operai dal governo Baldwin, si propenderebbe piuttosto a considerare equivalenti agli spettacoli del Circo e dell’Ippodromo certe esibizioni sportive e certe manifestazioni di massa a base spettacolare.
3) È evidente che la distribuzione quotidiana o ebdomadaria di farina e d’olio mantiene l’uomo in una dipendenza più diretta, e soprattutto più umiliante, dei famosi tre oboli che il cittadino povero di Atene riceveva per deliberare sullo Pnyx o per sedere come giurato. Ai nostri giorni, i sussidi ai disoccupati sono accompagnati da controlli che fanno ben sentire al beneficato la sua degradazione. Il fatto che le classi dirigenti preferiscono accordare (sul reddito dello Stato) dei crediti considerevoli per procurare ai poveri pane (o anche alloggi) a prezzo ridotto, anziché aumentare la loro capacità d’acquisto con aumenti di salario, si spiega facilmente. Il sistema delle tessere alimentari di cui Vichy, per esempio, minacciava di privare quelli che avessero disobbedito a questa o a quella ordinanza di polizia, è uno strumento di controllo e di pressione così comodo che si capisce come lo Stato sia tentato di prolungarne l’uso oltre lo stretto necessario.
4) Prima del principato, le distribuzioni di grano e i giochi del circo erano spese obbligate di ogni candidato a un’alta magistratura (edile, pretore, console). Si trattava, insomma, della remunerazione di una clientela elettorale; tutte le magistrature essendo divenute monopolio dell’imperatore, il corpo elettorale tutto intero divenne automaticamente clientela dei Cesari. Ancora a Costantinopoli, i demi che formavano gli aficionados dell’Ippodromo non erano senza influenza politica, e i basileis preferivano non mettere a repentaglio la stabilità del trono scontentandoli. È a una simile preoccupazione di combinazioni elettorali che si pensa quando, in questa bonne ville de Toulouse dove vivo e dove non esistono fognature, si vedono gli eletti socialisti costruire stadi abbastanza lussuosi; ovvero quando si constata l’emulazione fra socialisti, comunisti e cattolici per organizzare il maggior numero possibile di competizioni sportive (mentre le vecchie barbe del partito radicale si attengono alle forme più arcaiche e individualiste delle mance e bustarelle, o della concessione di appalti, tabaccherie e piccole sinecure).
5) È evidente che ci si preoccupa di nutrire e di divertire i poveri solo quando sono assembrati in numero cospicuo in prossimità dei ricchi, sicché potrebbero succedere guai se il lusso degli uni contrastasse senza attenuazioni con la miseria degli altri. In tutti gli Imperi, si son lasciati tranquillamente i contadini morir di fame a seguito di siccità o inondazioni (vedi, per esempio, le carestie sotto Luigi XIV); ma Napoleone diceva di sentirsi meno minacciato da una sconfitta dei suoi eserciti che dal fatto che Parigi mancasse di pane per due giorni. Dai tempi del libello di Swift fino all’atroce carestia del 1847, nessun governo britannico ha pensato a qualcosa come il dole per impedire a milioni d’irlandesi di morir di miseria. Analogamente, il programma del buon re Bomba: “Feste, farina, forca” non si applicava ai contadini di Basilicata, i quali vivevano peggio delle bestie, ma ai “lazzaroni” di Napoli, al cui umore il regime non poteva essere indifferente.
6) Tutto questo ci rammenta che l’”oclocrazia” è quasi sempre complemento inevitabile della “plutocrazia”. I rozzi spettacoli del circo erano al livello di un ochlos (plebe), mentre il teatro di Dioniso corrispondeva alle esigenze estetiche di un demos. Gli antichi giochi olimpici — con le odi di Pindaro e le statue elevate ai vincitori — erano un elemento sostanziale della cultura aristocratica cui seppe elevarsi una democrazia come l’ateniese. Gli atleti professionisti dell’epoca ellenistica e romana si esibirono per i plutocrati e per l’ochlos (plebe). Da Shakespeare e Lope de Vega al melodramma romantico, il teatro ha certamente contribuito a una certa educazione delle élites popolari. Diremo che il cinema è fatto per l’ochlos? o forse la radio? o gli sport più o meno industrializzati? o tutte queste cose insieme?… C’è forse dell’altro. C’è un torpore spirituale che l’uomo moderno, dai capitani d’industria al più umile operaio moderno, dal pilota di alta velocità al non-combattente che s’aspetta da un momento all’altro una bomba atomica in testa, non può fisiologicamente evitare. Dopo la giornata di lavoro moderna, il fracasso delle macchine, l’asfissia nella metropolitana, la sequela di tensioni e d’attenzioni infime che comporta la vita in una grande città, l’individuo non ha più l’energia di concedersi emozioni attive o sforzi di immaginazione. Non c’è posto per la ricettività artistica, per la riflessione, per la contemplazione placida, per il gusto delle forme “immobili”. Il vantaggio dei movies è di risparmiare a un tale uomo ogni tensione della fantasia saturandolo d’immagini bell’e fatte e che “passano presto”. Per conto loro, la radio come il giornale a titoli sensazionali, si sforzano di liberarlo d’ogni stimolo a pensare. Gli sport si ritmano sul dinamismo brutale della “febbre di velocità”. Può darsi che l’economia capitalista sia all’origine di tutto ciò. Ma quel che è certo è che a trame il massimo profitto sono i regimi totalitari e le tendenze autoritario-burocrati-che immanenti in tutte le società dette moderne.
7) Ora, sono appunto i rapporti fra plutocrazia, oclocrazia e Stato totalitario che costituiscono il problema sul quale la critica socialista (ossia marxista, visto che a Marx si è rimasti) inciampa da una ventina d’anni a questa parte quando cerca di spiegare l’evoluzione del capitalismo “liberale” verso il capitalismo di Stato e la deviazione della “volontà generale” delle masse verso regimi autoritari. È il problema del fascismo, e non è detto che sia finito con la fine di un paio di dittatori.
8) Che la si designi con i termini empirici di trust, di “feudalità finanziaria”, delle “duecento famiglie” francesi, delle duemila di cui parlava un tribuno dell’antica Roma o degli upper ten thousand. americani, la plutocrazia sembra facile da definire. Inoltre, si direbbe che aggiungere kratos a ploutos è un pleonasmo. I più ricchi sono sempre stati i più forti, che si trattasse dei grandi sacerdoti di Ammone, proprietari di centinaia di migliaia di ettari e di eserciti di servi, o della Chiesa di Innocenzo III, grassa di benefici e di decime; dei satrapi persiani o dei “signori della guerra” cinesi; dei proprietari terrieri di Tessaglia o dei grandi feudatari francesi che Joinville chiama les riches hommes; degli armatori e negozianti che governavano Corinto o Venezia, eccetera. Ma, perché un regime possa esser qualificato di autentica plutocrazia, occorre che talune altre condizioni siano interamente soddisfatte: il danaro accumulato — il danaro che non olet — non deve più trovare alcun ostacolo a poter tutto comprare, dalle terre alle magistrature, dai tesori di Golconda alle coscienze e all’onore degli uomini. Si veda l’ossessione del danaro e della sua potenza nei drammi elisabettiani e già in certi lirici greci del VI secolo, quando il fatto era ancora una novità. Bisogna anche che un razionalismo diffuso dall’alto al basso della piramide sociale abbia ridotto a ombre vane, a pregiudizi inoperanti, a una “mascherata” tutti i valori che consacravano il prestigio della regalità, della nascita, della stessa rispettabilità (“timocrazia”). E bisogna soprattutto che l’arricchimento e l’impiego delle ricchezze si effettui in modi evidenti di rapina e di quella che in tedesco è chiamata Raubbau (economia depredatrice): l’usura su scala smisurata, il saccheggio delle colonie o dei paesi asserviti, gli armamenti e la guerra, l’utilizzazione del meccanismo fiscale per assicurare dei redditi parassitari a se stessi e a una numerosa clientela di parassiti subalterni. Si riconoscerà qui la dominazione degli ottimati romani durante i due ultimi secoli della Repubblica; e si riconoscerà anche la “degenerazione imperialista” del capitalismo moderno, a partire soprattutto dal 1920.
Quanto all’ochlos, o plebe, o massa, esso si situa al polo opposto del “popolo”. È il popolo sradicato dalle sue comunità, dimentico dei “costumi” senza più altra mitologia che dei brandelli inerti e scoloriti di superstizione. L’ochlos antico era composto dei contadini cacciati dai loro campicelli ancestrali, di tutti i rifiuti umani che non hanno cessato di brulicare nei porti del Levante, e anche delle masse di schiavi mescolati e dispersi all’epoca in cui a Belo si mettevano all’incanto diecimila capi di bestiame umano. L’ochlos moderno, dal canto suo, non è composto che in parte (ed è, a mio parere, la parte meno importante) da quello che i marxisti chiamano Lumpenproletariat. Il grosso è costituito da elementi per i quali il marxismo stesso non ha che il vocabolario elastico e abusato all’infinito di “piccola borghesia”. Ma come applicare un tal termine a quella che vediamo essere la massa moderna, la quale ci sembra a volte comprendere l’enorme maggioranza della popolazione, con al margine una esigua élite e un ormai quasi introvabile “popolo”? Riscattare dall’incultura di cui è preda una simile massa con i mirabili mezzi di comunicazione e di diffusione che la tecnologia moderna mette a servizio della massa appunto, sembra un’utopia: non è dall’alto e a macchina che si costituisce una cultura.
Sull’educazione
Andrea Caffi,1950.
Ai programmi d’educazione obbligatoria e inesorabilmente razionale che Platone ha esposto nella Repubblica e nelle Leggi si fa risalire tutto il sistema occidentale delle scuole pubbliche, cioè controllate e dirette secondo certi criteri d’ideale convenienza per fornire sia un ben addestrato personale di governo sia dei cittadini (o sudditi) ben pensanti. Si suppone, cioè, che l’esempio dell’Accademia avrebbe indicato allo Stato (laico o ecclesiastico) il mezzo di dominare anche le coscienze.
Qui, per cominciare, si dimentica che, per rigorosa che fosse la disciplina immaginata da Platone nel suo Stato ideale, la nozione della rigidità di un dogma qualsiasi è del tutto assente dalla sua filosofia. Basti, a ciò indicare, il passo del Politico (294b) dove Platone dice: “La diversità che si avverte negli uomini e nelle loro azioni, l’assenza completa d’immobilità nelle cose umane, sottraggono queste a qualsiasi regola semplice, applicabile a tutti i casi e valida per tutti i tempi; ogni arte umana ha da fare con cose mutevoli e varie, quindi procede tenendo assai minor conto delle regole generali che d’ingegnosi adattamenti alle circostanze.” Lo sforzo da fare, per capire Platone, è sempre quello di tener pensieri simili in non minor conto di quelli nei quali si esprime il rigore del filosofo deciso a svolgere fino in fondo un certo ordine di riflessioni, per opporlo alle incertezze velleitarie del comune discorso.
Ma il vero paradosso è che la formazione dell’uomo e del cittadino ideata nell’Accademia, e variamente poi praticata dalle altre scuole filosofiche, mirava anzitutto a risvegliare, a rendere coscienti e efficienti le migliori capacità dell’animo, naturalmente implicite, ma che non potevano spontaneamente esplicarsi nell’ambiente corrotto dalla polis in decadenza, e tanto meno in quello delle monarchie ellenistiche o barbare, e perciò esigevano di essere coltivate in qualche giardino sottratto a ogni ingerenza delle autorità costituite. La conseguenza anche più paradossale era che la politeia alla quale si preparavano i discepoli di queste scuole e verso la quale puntavano le loro positive aspirazioni non poteva assolutamente identificarsi con nessuno Stato esistente, anzi si ergeva spesso di fronte a questi come un punto di appoggio per una critica risoluta.
Ora, quest’autonomia di un consorzio ideale, e l’ascendente che la sua mera affermazione esercitava sulla società reale (contribuendo anche a mantenere vivo il senso di un “diritto naturale” al disopra e al difuori di ogni legislazione coercitiva) non ha mai potuto essere soppressa o addomesticata dai poteri costituiti: i Senati, gli imperatori, i re hanno potuto chiudere scuole, proscrivere in massa i “filosofi”; ma non appena si decidevano a fare un posto alla vita intellettuale, costretti a convincersi che senza questa non avrebbero neppure avuto le risorse e il decoro della civiltà dovevano poi ineluttabilmente lasciarla perseverare in libertà nelle sue proprie vie.
Decisiva fu la determinazione della Chiesa cattolica — dopo parecchie esitazioni e reazioni — di fare una parte congrua a questa eredità del paganesimo: altrimenti non si sarebbe potuta mantenere la preminenza dell’elemento ecclesiastico fra la popolazione di antiche città; tanto più che, la parte più attiva del clero reclutandosi nel ceto colto delle medesime città, non si vede neppure come si sarebbe costituita una gerarchia veramente cattolica, o “ecumenica”, senza un compromesso fra le “regole” di una setta, sostenute dalla coercizione, e le “norme” prive d’ogni sanzione che caratterizzano una società civile distinta dallo Stato. Non pare assurdo vedere in ciò un merito dell’imperatore Giuliano, che gli storici hanno forse torto di compatire tanto per le “romantiche chimere” cui sarebbe andato dietro: con l’aver posto in chiara luce i valori propri della tradizione ellenica e invitato i “nazareni” a rinunciarvi se volevano essere coerenti (nel decreto che chiudeva ai cristiani l’accesso alle cattedre di eloquenza, poesia, filosofia), è probabile che Giuliano suscitasse un generale ravvedimento quanto all’insostituibile prestigio dell’alta cultura ellenica, contribuendo così a far nascere l’avido zelo con cui vediamo i Padri Cappadoci da un lato, e Girolamo, Ambrogio, Agostino dall’altro, incorporare quanto più potessero di pensiero greco al patrimonio della civiltà cristiana.
Le Scuole, del cui tipo Oxford e Cambridge conservano oggi gli ultimi vestigi, furono fulcri della teologia ortodossa, ma anche focolai del pensiero critico che doveva confondere la teologia medesima; sostegni della Civitas Dei, ma foggiami pure i princìpi e le norme di una giurisprudenza laica ad uso imperiale; infervorate di Platone e d’Aristotele non meno che della Sacra Scrittura; cosmopolite per l’universale latino adoperato nell’insegnamento e per il nesso, che si potrebbe dire federativo, stabilito fra
le varie “nazioni” di studenti; fautrici di eguaglianza sociale nel reclutamento di scolari e maestri; cumulanti privilegi del Papa, dei prìncipi, dei Comuni e gelosissime di un’autonomia spesso riottosa. Tali Scuole hanno largamente fruito per secoli del particolare sistema medievale secondo il quale ogni “ordine” sociale costituito a comunità o “università” diventava uno “stato” relativamente libero entro lo Stato.
“Lo ‘stato’ (ordo) — dice Huizinga — è una realtà voluta da Dio… Questo modo di concepire la società come divisa in ordini penetra fino al midollo ogni considerazione teologica o politica.” Si potrebbe rilevare che l’università del medioevo, disponendo (a differenza delle scuole filosofiche di Atene, o d’Alessandria) di poteri coercitivi quali una polizia e dei tribunali nei riguardi dei suoi membri, rappresentava una formazione intermedia fra la semplice comunità e il consorzio politico. Giustamente uno storico inglese (nella Cambridge History of the Middle Ages) connette la fondazione e lo sviluppo delle università al fatto che “il secolo XII fu un periodo durante il quale un grande movimento verso ogni specie di associazione si veniva manifestando in tutta l’Europa”.
Gli ulteriori destini della “pubblica istruzione” in Europa e la maggior parte delle caratteristiche questioni che oggi ancora sono attuali in questa sfera si possono ricollegare alla serie di “scissioni” che vediamo effettuarsi nella società europea agli inizi dell’epoca moderna: divisione del mondo cristiano in cattolici e protestanti e divisione in Stati nazionali con relative culture “nazionali”; separazione sempre più grande fra capitale e lavoro parallela all’enorme distanza frapposta fra governi e sudditi nelle monarchie assolute (con l’aggiunta opposizione fra la Cour e la Ville); infine il fosso che l’umanesimo ha contribuito a scavare fra la vita spirituale del popolo e l’ambiente intellettuale dei ceti facoltosi.
Il “chierico” poteva essere “vagante”, mendicante, di modi plebei, senza che ciò diminuisse la sua intrinseca superiorità (così come, per quanto riguarda l’antichità, la condizione giuridica dello schiavo non impedisce che sian giunti fino a noi i nomi di schiavi ammessi alle grandi scuole di filosofia). Invece l’honnête homme difficilmente poteva formarsi, e soprattutto riuscire, se nel tenore di vita, nelle maniere, nel linguaggio non si assimilava alla classe dirigente. Cominciava quella che Aldous Huxley chiama the Age of Respectability, e finirà nei “dottori” e “professori” del nostro tempo, sicuri della loro posizione sociale e della loro carriera, ma non altrettanto del loro rapporto con una cultura viva e dell’influenza della cultura medesima sulla società. Notiamo di sfuggita che il clerc di Julien Benda somiglia assai più a un honnête homme provvisto di rendite e perciò procul negotiis che a un filosofo cinico o a un eresiarca.
Contro questi motivi di disunione, una resistenza efficace fu opposta fin da principio dall’attiva comunanza sovranazionale e sovraconfessionale che la cultura classica e la scienza mantennero nel campo degli studi, parallelamente alla pressione irresistibile del commercio e del progresso tecnico, per cui diventava sempre più uniforme e solidale la vita economica delle nazioni.
In sostanza, nei paesi protestanti le università create durante il medioevo hanno attinto un vigore nuovo, combinando l’umanesimo con il libero esame (libero, intendiamoci, entro limiti talvolta assai angusti) dei problemi della fede. In conseguenza, la scuola (collegi come Eton, o ginnasi come Schulp-forta) si modellarono sulle università e servirono di preparazione a queste. Una differenza essenziale fu dovuta a circostanze particolari: la classe dirigente inglese, che sapeva organizzare i suoi interessi al difuori dello Stato, e imporre a questo le sue “leggi non scritte”, ha fatto dell’alta cultura un monopolio di casta, accentuandone i lati “educativi”; e la barriera non è stata spezzata che ai giorni nostri. Nel Settecento, l’istruzione superiore, in Inghilterra, veniva dispensata da due tipi di istituzioni: l’aristocrazia mandava i suoi figli nelle public schools e nelle università, lige a tutte le tradizioni nonché alla Chiesa stabilita; le Academies dei non conformisti accoglievano invece molti ragazzi del ceto mercantile e industriale, ed è da queste alte scuole di dissenters che sono usciti uomini come Daniel Defoe, Richard Price, Godwin, Hazlitt, Priestley.
In Germania, invece, la grettezza degli staterelli e la rozza sufficienza dei baroni, degli Junker eccetera, ha lasciato le scienze e le lettere in uso e consumo a un’umile (e soprattutto umiliata) classe media. L’università fu, in terra tedesca, vivaio di pastori, medici, funzionari, Hauslehrer, dai modi goffi e per lo più servili, isolati dal popolo e rassegnati a ossequiare ogni signoria, i quali talvolta potevano ritrovare libertà (“ideale”) e dignità nelle stramberie della pura erudizione, nelle polverose penombre di faustiani laboratori, nell’incontrollabile gergo di monografie in numerosi volumi in-folio.
Nei paesi dove vinse la Controriforma, la Chiesa romana (e talvolta anche il principe autocrate) ebbero a loro mercé i cadaveri delle antiche università, sprofondate nel conformismo e nell’astio ringhioso contro ogni novità scientifica o letteraria. L’istituzione che con più successo ha sopperito a questa eclissi di già gloriosi centri d’istruzione è stata il collegio dei gesuiti: una scuola che noi diremmo “secondaria”, ma che doveva bastare a sé, nel senso che la maggior parte degli alunni, uscendo di lì, non intendeva avviarsi a studi superiori.
Potrebbe sembrare pacifico che in tal modo la cultura si trovasse asservita in modo completo a una autorità d’indole totalitaria. È tuttavia notorio che la volontà gesuita di dominio sulle anime (e sui corpi) si è sempre valsa di metodi affatto contrari a quelli di cui i totalitarismi comunista, fascista e hitleriano ci hanno offerto gli esempi. La pedagogia, come la politica, dei figli di Sant’Ignazio ha saputo pazientemente valersi del compromesso: les chemins de velours.
La Compagnia di Gesù non identificava gli scopi da essa perseguiti né con la fortuna di una dinastia, né con la supremazia di una nazione sulle altre, né con gli interessi specifici di una classe dominante; persine entro la Chiesa, teneva a preservare una certa linea propria che alla Santa Sede, al clero secolare, agli ordini monastici rivali non sempre garbava. Si trattava di religiosi che preparavano scrupolosamente i giovani alla vita di Corte e alla carriera delle armi. La vita del collegio, l’aver passato cioè una parte dell’adolescenza in un quasi claustrale distacco dalla famiglia e dal “secolo”, poteva anche favorire, negli allievi non istupiditi dalla fredda disciplina dei Padri, il formarsi di una facoltà di giudizio più complessa di quanto i Padri medesimi non desiderassero. Ma soprattutto, se nulla s’opponeva a che i gesuiti distillassero nell’insegnamento i loro narcotici morali e alterassero la realtà inculcando nozioni speciose, non era in loro potere la determinazione del fondo e dei limiti della cultura generale di cui dovevano nutrire le menti se non volevano perdere la loro distinta clientela.
Fuori dalle serre dove essi intendevano far crescere la “pianta uomo” a modo loro, esuberava una vegetazione che né la Chiesa né le polizie di Stato erano in grado di contenere: la “repubblica delle lettere” (strettamente legata, nei secoli XVII e XVIII, al movimento scientifico), alla quale mezzi d’espansione così esigui come il libro letto da trecento persone, il salotto e il teatro bastavano per diffondere una concezione liberale dei diritti della ragione in una società molto sensibile alla paura di apparire “barbara”. Comunque, facendo leggere Plutarco e addestrando alla discussione coerente, smorzando gli orgogli di casta mentre volentieri stimolavano ambizioni letterarie, i gesuiti hanno potuto educare… Descartes, Voltaire e la generazione dell’Enciclopedia.
Quel che importa ritenere di questi esempi è che lo Stato della monarchia assoluta, le tendenze abbastanza eterogenee degli ambienti sociali dove sono sorti i collegi per l’aristocrazia inglese, le fucine di dotti in Germania e le scuole dei gesuiti destinate a formare un mondo benpensante dai gentili costumi non hanno impedito a tutte queste istituzioni di perpetuare una cultura che né per il contenuto né per le forme aderiva direttamente a preoccupazioni e opportunità del momento. Ma furono da una parte la concezione nient’affatto totalitaria, anche se angusta, della cultura, dall’altra l’esistenza di una società ristretta ma capace di elaborare liberamente i frutti della medesima, a permettere quel risveglio progressivo della vita intellettuale dal sonno teologico che doveva diventare impetuoso e travolgente nel secolo decimonono.
Mito e mitologia
Andrea Caffi, 1946.
Tutti sembrano d’accordo nel chiamare “miti” quei prodotti della mentalità collettiva che si esprimono in “racconti”, ma anche in danze, rappresentazioni rituali e simboli di ogni specie nelle società cosiddette primitive. Si è detto che questi prodotti contengono allo stato di abbozzi indifferenziati tutti gli elementi che più tardi si distingueranno in esperienze religiose, teorie metafisiche, creazioni artistiche “pure”, scienza prima magica e poi razionale, e forse anche in sistemi di morale, di diritto, di disciplina politica o ecclesiastica. Secondo Roger Caillois (e forse Frazer e Lévy-Bruhl sarebbero stati d’accordo con lui), il mito muore, perdendo la sua realtà (ossia la sua efficacia rituale, magica, normativa), nella letteratura: per Caillois i miti di Platone sono già letteratura.
Ora, a me sembra che, lungi dal morire, il mito si complica e esercita un’influenza più vasta sulle coscienze individuali e nella comunione sociale quando: 1) le forme differenziate dell’arte, del dogma religioso, della filosofia, della scienza gli offrono una molteplicità di “maschere” ambigue, nelle quali colpisce a volte la ricerca espressa dell’artificio, ma a volte anche l’audacia dell’invenzione spontanea tutta personale; 2) la lotta incessante fra la comunione umana e le meccanizzazioni (o azioni di massa) si esprime nella società nel conflitto — spesso tragico — fra il bisogno di creazione mitologica e la tirannia spirituale del razionalismo consequenziario, della verità strettamente rivelata o dimostrata, dell’uniformità confessionale, politica, morale e anche estetica.
Quanto al fatto di “credere” (a potenze soprannaturali, magiche, dèi, dèmoni, eccetera), esso non costituisce davvero una linea di separazione netta fra il primitivo e, per esempio, i miti di Platone o le storie che ci racconta Erodoto aggiungendo: “Credetene pure quel che vorrete” (ma se lui non ce le raccontasse non conosceremmo nemmeno la metà della realtà, della mentalità, dell’infrastruttura sociale greca o barbara di cui egli è riuscito a trasmetterci 1’” immagine viva”). Il mito è fin dalle origini una rappresentazione, e soprattutto una comunicazione di “cose che non esistono, eppure sono”.
Mi spiego. Per il solo fatto di esser messo in forma di racconto o di simbolo, il mito esclude dall’esistenza nel mondo gli esseri, gli eventi, le norme di condotta, le possibilità di successo, le catastrofi, eccetera, che costituiscono il suo contenuto: son tutte cose che sono accadute nel mondo “quando io non esistevo”, o che accadono in un mondo diverso da quello nel quale “io esisto”. Tuttavia, io ne partecipo, voglio e devo parteciparne, ma secondo modalità assai diverse da quelle dell’azione o dell’” impegno” in virtù del quale peno per sussistere, coopero (o litigo) con i miei simili, lotto contro la natura, e via discorrendo. Si è detto giustamente che il terreno del mito è il terreno del sacro: ora, il sacro è necessariamente fuori dalla mia portata, inaccessibile, incomprensibile (ossia, ricordandosi del significato primo di comprehendere: non afferrabile in senso fisico), ineffabile, in quanto il linguaggio è uno strumento utilitario d’intesa immediata e precisa. Tutto lo sforzo del mito — inseparabile dalla magia e dalla mistica attiva e passiva — è di toccare, rendere presente (o constatare come presente), simboleggiare (“simbolo” era all’origine un mezzo di riconoscimento e d’alleanza) l’ineffabile con la parola, l’inesistente con affermazioni quali “c’era una volta” o “c’è, in una terra che sta a sette mari e trentanove terre da noi…”. Il paradosso è che senza questo “inesistente” l’esistenza non avrebbe un significato umano e senza l’ineffabile il linguaggio umano si distinguerebbe appena dalle manifestazioni vocali degli animali.
Si è voluta limitare l’”età mitologica” arguendo che l’ossessione del sacro e lo spirito di partecipazione non esisterebbero che fra i primitivi, mentre l’uomo civilizzato si difende dall’intrusione dei sogni, pensa e agisce secondo i dati “critici” dell’esperienza e della logica, e insomma vive in un universo desacralizzato. Ma è esatto? Io non credo che il più intellettuale degli uomini sia capace di eliminare ogni coefficiente emotivo — e quindi ogni spirito di partecipazione — dalle sue esperienze quotidiane e dai suoi rapporti con le cose e le persone. Ci sono certo differenze, e si possono ricondurre a diversità di situazioni nell’ingranaggio sociale. In un ambiente primitivo, gli stati di torpore sono, come fra gli animali, passività vera e oblio dell’esistenza, mentre la stessa routine del cacciatore, dell’agricoltore o dell’artigiano esige una continua presenza di fattori di fortuna e di sfortuna, l’osservazione di “segni” nell’ambiente e nelle cose, nonché presentimenti e precauzioni d’ordine magico. Per converso, il lavoro a catena, l’obbedienza passiva del soldato, l’attività del burocrate, la “febbre degli affari” comportano un torpore dello spirito in piena esistenza produttiva. Qui è il senso vero della maledizione biblica: “Mangerai il pane col sudore della tua fronte”; ossia, nell’oblio forzato delle realtà non esistenziali. In secondo luogo, la solitudine o il disorientamento fra uomini e eventi che mi sono totalmente estranei sono eccezione rarissima nella vita dei primitivi, mentre costituiscono quasi la regola nelle agglomerazioni civilizzate; allora l’esperienza mitologica, pur persistendo assai virulenta in fondo alla coscienza, è costretta a interiorizzarsi e a corazzarsi di pudore, comunicandosi di rado e con estrema difficoltà, si da prendere forme assai vicine all’alienazione mentale.
Fra mitologia integrale e mitologia differenziata c’è un’altra differenza. Parlando delle pitture neolitiche, Roger Fry diceva che quella sorprendente facoltà di “vedere” il mammuth o il bisonte in un volume vivo fuori di ogni costruzione di prospettiva, di proporzioni, di dettagli, si è perduta nel momento in cui l’uomo è diventato geometra, ossia capace di misurare e dissociare ciò che vedeva; e questo sarebbe accaduto già nel periodo neolitico. Sembra d’altra parte che i bambini abbiano una visione delle cose che consiste nell’abbracciarle tutte in un solo colpo d’occhio, ma che appena apprendono a scomporre le lettere una per una perdono tale facoltà. Questo fa pensare che, nel deplorare l’invenzione della scrittura, Platone si riferiva non già all’effetto visivo delle lettere, ma alla desacralizzazione del linguaggio che la scrittura opera attraverso l’illusione che una parola indichi una volta per tutte un identico oggetto e che la si possa adoperare dunque come uno strumento o un simbolo esatto. Dal linguaggio parlato alla scrittura c’è una transizione analoga a quella del disegno che da istintivo diventa ragionato: non c’è dubbio che il linguaggio degli illetterati è in perpetua creazione mentre la scrittura fissa sia la forma che il significato di ciascuna parola; la tradizione orale, calda di ispirazione immediata e di varianti improvvisate, è ben altrimenti vitale che la tradizione affidata al Libro.
Ora, potrebbe darsi che la credibilità, la verosimiglianza, l’asserzione della verità storica di ciò che si racconta e si rappresenta e si raffigura costituiscano un grande sforzo per risalire la china dell’evoluzione e stabilire una distinzione fra “verità” e “menzogna” di cui, in fondo, il primitivo si disinteressa. Ciò corrisponde a una preoccupazione di stabilità e di sicurezza (previdenza economica e difesa militare organizzata) che certe tribù primitive sembrano ignorare. I rapporti fra i numeri e la regolarità del corso degli astri sono stati dei punti di appoggio per dare certezza e anche “luogo” (topos) a miti già sviluppati. Ma integrando il mito alla realtà cosmica e storica lo si “disumanizzava”: il libero slancio dell’immaginazione e il Lust zu fabulieren venivano cioè a trovarsi inibiti dal terrore di un potere così alto e così implacabilmente regolato, mentre d’altra parte l’elemento di gioco spensierato proprio del mythologhein era paralizzato dall’intensità stessa delle angosce e delle speranze che suscitava “ciò che deve sicuramente accadere”.
Di qui il carattere alquanto tetro delle mitologie astrobiologiche (nelle quali, cioè, il corso degli eventi terrestri si suppone legato organicamente a quello degli eventi celesti) presso i Caldei e gli Aztechi. Su questo punto, il “miracolo greco” ha operato in pieno, svolgendo una chiara e meravigliosa scienza dei numeri libera da ogni pesantezza di materializzazione magica. L’intelligenza greca assimilò i numeri e gli astri ai ritmi, ai tipi e alle forme che nell’esistenza del mondo in cui siamo immersi sussistono solo come modelli eterni, luminosi, gratuiti, e cioè non ci impongono alcuna servitù, ma al contrario ci incitano alla libertà dello spirito. Quindi la vera realtà degli astri e dei numeri appartiene, secondo i Greci, a una regione situata del tutto fuori dalle nostre vicissitudini: la regione appunto del mito, che in questo caso la ragione, nonché dissolvere, riscopre e assicura. Onde la facilità con cui, in Platone, le sublimità matematiche si armonizzano con miti da lui inventati.
Lo sforzo verso la verità in arte, nella scienza, nei sentimenti (sincerità), nei rapporti sociali (giustizia), nonché indebolirla, da nuovo vigore alla creazione mitologica, mentre ogni dogmatizzazione della verità e ogni asservimento del vero a fini esistenziali uccidono il mito. Così il messianismo, e così anche il razionalismo utilitario. Il giudaismo è così povero di mitologia perché dopo la teocrazia istituita da Esdra esso si è esasperato nell’osservanza di una legge minuziosa e nell’attesa di una redenzione nel “mondo nel quale esistiamo”.
Nel cristianesimo, d’altra parte, la mitologia è quasi interamente eterodossa. Paolo di Tarso, con la sua insistenza fanatica sulla salvezza attraverso il miracolo della Croce, ha isterilito molti germi mitologici che esistevano nel Vangelo e nella prima comunità cristiana. Nella Divina Commedia si sente il contrasto fra il cattolico che crede all’esistenza “reale” (e in questo mondo che è il nostro) del Ciclo e dell’Inferno e il poeta il quale sa bene di non aver visto per grazia speciale i regni di Cristo e di Lucifero: una certa armonia fra i due non si stabilisce che nel Purgatorio, dove la ricca fioritura mitologica di reminiscenze antiche e di folklore italo-provenzale e una dogmatica addolcita dall’influenza dell’ellenismo plotiniano si fondono abbastanza bene. D’altra parte Michelangelo, malgrado l’assai vivo e nostalgico sentimento del mito antico e eroico dell’Uomo, si lasciò dominare dalla sete di una verità totale imperiosamente fondata dal Dio dei due Testamenti; e ciò potrebbe essere un riflesso del suo triste destino di solitario e quasi reietto dalla società. La Chiesa non ha mai tollerato che si meditasse troppo sui “misteri” che essa aveva accuratamente circoscritto col dogma. D’altro canto la debolezza dei calvinisti, dei quaccheri, dei metodisti, sta nella loro certezza di possedere una verità semplice e totale e d’esser quindi al riparo dalle tentazioni “pagane” del mito.
Aristotele era troppo intelligente, e troppo greco, per scartare l’alone mitico dalla conoscenza del mondo: la sua osservazione sulla verità superiore del poeta rispetto allo storico lo prova; ma il suo sistema, volendo spiegar tutto, ha certo favorito quella specie di DDT antimitologico che furono la scolastica in generale e il tomismo in particolare. Quasi il contrario, ma con risultato analogo, accade in Hegel, il quale credette di poter imprigionare ogni mitologia passata o avvenire nella rete della sua dialettica. La Justice di Proudhon è impregnata di autentica mitologia, nella nozione stessa di “giustizia”, in quella del contratto, dell’”uomo del popolo” e della “filosofia del popolo”. Invece Marx, nella sua volontà di cambiare a ogni costo e effettivamente il mondo qual è, ha ripudiato quasi con odio i motivi mitologici che pure, nel 18 Brumaio, egli aveva sfiorato. Così, Bergson ha voluto che la sua “ evoluzione creatrice “ fosse una realtà esistente e ha finito col deprezzarne il significato mitologico; mentre Sorci, parlando di “mito” a proposito dello sciopero generale, si è lasciato trascinare da Marx e da Bergson insieme a un’incomprensione totale del contrasto fra mito e fede messianica.
Perché — mi si potrebbe domandare — insistere a chiamare “mitologia” quello che tutti conoscono sotto il nome di linguaggio, letteratura, arte, religione, filosofia, scienza? Non sarebbe un semplice sinonimo di quella che i marxisti chiamano “ideologia”?
Risponderò per cominciare che, se c’è un sostrato comune a tutte le attività dello spirito e alle loro creazioni differenziate, un termine che indichi questo comune denominatore può essere utile. Ma c’è ben altro. Nel linguaggio, nei costumi e superstizioni, nella vita religiosa, in tutte le arti, nella filosofia e nelle scienze c’è una gran parte di manifestazioni che sono al di qua del mito: tutto ciò che è utilitario, determinato dai bisogni dell’esistenza dell’individuo nella società. Nell’arte, nella religione, nella ricerca della verità esatta, nelle antinomie della coscienza morale, ci sono d’altro canto dei momenti che sono certamente “al di là” di ogni mito: per esempio, il Nirvana, la follia della Croce, la perfezione di un certo verso di Dante o di una certa frase di Bach, talune forme di santità o d’eroismo. Il campo proprio della mitologia, secondo me, è quella specie di comunione umana che io chiamo “società per eccellenza”: lì la persona umana può sentirsi libera da ogni impegno, non tenuta a rispettare nessun obbligo e a temere nessuna sanzione, e capace anche di dominare ogni angoscia accettando come realtà (non fosse che momentaneamente) delle forme le quali importa poco che corrispondano o no a qualcosa nel mondo nel quale io esisto. Questa società è in pericolo perpetuo, e oggi più che mai, di esser schiacciata dall’organizzazione economica, dallo Stato, dalle masse e via dicendo. Queste oppressioni schiacciano, snaturano, falsificano anche la mitologia, sostituendola con degli Ersatz.
Ma certo, anche questa mia idea della società, per quanto io mi sforzi di ragionarla e corroborarla con esempi tratti dalla storia, potrebb’essere un mito…
Frazer e Lévy-Bruhl riferiscono con un certo compiacimento che, avendo un etnologo domandato a un indigeno australiano il quale gli aveva raccontato un mito abbastanza complicato sul fuoco, portato agli uomini da un uccello-totem-antenato: “Ma insomma, era un uccello o un essere umano?”, l’indigeno “lo guardò senza capire”. Per conto mio, credo piuttosto che l’australiano stesse dicendo fra sé e sé che a quel bianco non c’era proprio verso di far entrare qualcosa in testa.
Per capire il mito bisogna prendere l’equivoco “essere-esistere”, “menzogna-verità”, attraverso tutta la nostra esistenza nel mondo, unitamente alla coscienza di tale equivoco e allo sforzo disperato o entusiasta per uscirne e quindi alla volontà di esistere “fuori dal mondo” (o, che è lo stesso, fuori dall’esistenza effimera e mutevole), come dei dati irremovibili del la condizione umana. Ma questa condizione comprende il fatto non meno equivoco e non meno misterioso della comunione fra esseri umani. Esiste una connessione primordiale e inestricabile fra ciò che necessariamente attingiamo alla vita in comune con i nostri simili, l’irrequietezza inappagabile dell’intelligenza e la coscienza di un destino assurdo fatto di malattia, vecchiaia, morte, passioni distruttive, ma anche di aperture illimitate verso la felicità, l’eroismo, la santità e la saggezza. “La ragione diventa dissennatezza i benefizi flagelli” dice un famoso apoftegma tedesco in cui si vuoi riassumere una certa dialettica della storia. Per esprimere il rapporto fra l’esistenza sociale e le esperienze intime che danno vita al mito (sia nella sua forma primitiva e indifferenziata che in quella evoluta e differenziata), io sarei tentato di invertire i termini e dire che, li, “la dissennatezza diventa ragione e i flagelli si trasformano in benefizi”. Il racconto favoloso che meraviglia il bambino o l’uomo semplice non è più una menzogna: è una catarsi liberatrice per colui che l’ha inventato (ma mai di sana pianta: gli elementi sono nella tradizione) o lo dice, un addolcimento dell’esistenza nella visione di un aldilà delle tribolazioni quotidiane per colui che l’ascolta.
L’eroe, dice all’incirca Roger Caillois, è “colui che io vorrei essere”. Sì, ma non è mai solo questo, e mai a lungo. Io so bene che non sono e non sarò mai un eroe, anche se, adolescente, sono posseduto dal desiderio di emulare l’eroe: nella mia ammirazione ci sarà sempre un overtone d’accompagnamento che dirà: “Non è cosa di questo mondo”; e tuttavia bisogna che degli eroi ci siano, che io possa pensarli, venerarli, amarli perché la vita sia qualcosa di più che realtà trita e opaco miscuglio; così come bisogna (ed è un altro caso di potere mitopoietico) che l’amore che provo e la persona che amo siano delle miracolose eccezioni a tutto ciò che esiste normalmente. A ciò bisognerebbe aggiungere da una parte gli effluvi magici per cui gli eroi o i santi son concepiti come dei protettori reali, dall’altra la riduzione dei modelli eroici a proporzioni accessibili e “realistiche” le quali permettono all’individuo di coltivare ambizioni plutarchesche (ma in queste c’è già una certa degradazione del mito).
La giustizia non è certo un mito, e ancor meno un’astrazione della ragione ragionante; ma senza una trama multipla di creazioni mitologiche che vanno dai proverbi e dalle favole fino ai discorsi dei sofisti, alle lamentazioni di Giobbe, alle parabole evangeliche, alla visione di Er l’armeno in Platone, le norme e le antinomie del giusto e dell’ingiusto non potrebbero essere sempre presenti, attive, contrariate, violate, vendicate, in ogni transazione sociale e nell’infrastruttura di ogni società.
Il mito è dunque un fermento attivo che determina i rapporti fra individui nella società (e i rapporti di produzione come gli altri), ma solo nella misura in cui tali rapporti sono impregnati di spontaneità e, direi, di “buona salute” umana. La paura e il bisogno possono essere degli stimolanti della creazione mitologica, ma è evidente che la fame abbrutente e il terrore paralizzante spezzano gli stimoli e aboliscono ogni discernimento. Il fatto essenziale è la meccanizzazione dei rapporti umani, sicché ogni riflessione su quel che si fa e ogni curiosità per l’ambiente vengono represse o obnubilate, e la società non è più che un gregge ben organizzato. Allora, naturalmente, le forze economiche continuano ad agire, ma l’assurdo e la sofferenza senza riscatto riempiono l’esistenza.
La disputa fra Marx, i comunisti sinceri e Sartre da una parte, e dall’altra Platone, Proudhon e Tolstoi riguarda appunto l’uomo che una comunità disgregata ha privato di costumi e di miti. La polis degenerata, il regno dello “speculatore di borsa”, la civiltà delle macchine e del daffare febbrile sembrano ai secondi mostruosità omicide da cui bisognerebbe a ogni costo allontanarsi per rifarsi (anche a prezzo di rinunzie ascetiche) un’anima viva e dei legami sociali fondati sulla giustizia. Mentre, al contrario, per Marx il proletario è tanto più vicino alla redenzione quanto più “non ha niente da perdere tranne le sue catene”, e fra le “catene” si denunziano in primo luogo tutti i residui di creazioni mitologiche, qualificati di “alienazioni”; bisogna annientare definitivamente tutti questi pregiudizi e queste chimere che frenano ancora la rivolta totale: allora un uomo nuovo, nudo, guidato dalla sola ragione (pragmatica), edificherà una società nuova nella quale l’esistenza sarà governata dalla conoscenza della realtà, di tutta la realtà e di nient’altro che la realtà.
Questa concezione non manca certo di grandezza apocalittica: è la sublimazione dello stato di rivolta in sé e per sé. Ma credo che Sartre si sia sbagliato quando ha indicato come “essenza” della condizione del proletario in rivolta il “materialismo” (ossia una dottrina positiva che si pretende fondata sulle conclusioni delle scienze esatte, ma in realtà deriva dalle costruzioni metafisiche di Feuerbach). Io penso che Sartre avrebbe dovuto dire l”‘ateismo “.
Io penso infatti che sia dalla quasi frenetica negazione della divina provvidenza iniziata da Bayle e continuata in forme più proletarie nel Testament du Curé Meslier che comincia realmente la guerra senza quartiere contro l’ordine stabilito, la monarchia di diritto divino, le Chiese, i privilegi della nascita, del denaro e perfino della cultura. Dalla Fable des abeilles di Mandeville a Candide, questa critica non lascerà pietra su pietra delle istituzioni e delle superstizioni tradizionali. “E con le budella dell’ultimo prete strangoleremo l’ultimo re, “ si cantava alle cene della buona società. E nelle canzoni bacchiche del XVIII secolo si trovano accenti di una violenza ancor più volgare, mentre il diario di Barbier riferisce attentati sacrileghi (assai grossolani) perpetrati di notte nelle chiese dagli operai esasperati del Faubourg Saint Antoine. In Inghilterra, questi sentimenti di negazione furente non si diffusero, malgrado una miseria ancor più atroce, perché le congregazioni metodiste riuscirono a persuadere i proletari che essi non erano totalmente esclusi dalla comunità e dai meriti della respectability.
E tuttavia Robespierre aveva ragione di dire che l’ateismo era aristocratico. Questa negazione radicale, infatti, si mantiene (e cioè evita di cadere nell’abbrutimento dell’ubbriaco o nel risentimento sfrenato del fuorilegge) solo grazie a un esercizio assiduo della vita intellettuale e a qualche possibilità d’esistenza indipendente, sia pure nelle file della bohème. Anche i nihilisti russi del 1860 erano degli aristocratici. Nel momento in cui i saint-simoniani e i nobili penitenti russi del 1870 cercavano di operare una conversione romantica a un qualche sistema di valori spirituali, e ciò sembrava la china naturale di una riscoperta del problema sociale, il marxismo trasformò “dialetticamente” in dottrina positiva i princìpi dell’ateismo negatore. A questo, il materialismo come dottrina metafisica non s’è mescolato che accidentalmente.
La vera questione sarebbe se la rivolta può mai esser altra cosa che una fase passeggera: l’idea di “rivoluzione permanente” potrebbe essere stata suggerita a Trotsky da una ripugnanza istintiva dell’intelletto per l’ottimismo imbecille (e mistificatore) di cui in seguito così abbondantemente si sarebbe servito il potere bolscevico. Ma insomma, è possibile riedificare la società con uomini i quali, avvezzi a non concepire remora alcuna nella lotta a oltranza, hanno deliberatamente ripudiato gli elementi sostanziali di ogni comunione sociale: l’umanità dei costumi, gli slanci del cuore, quel limite intrinseco allo scatenamento della volontà efficiente proprio dell’impulso mitologico?
L’infallibilità dell’istinto negli animali, specie inferiori, è stata certo esagerata: comunque, non conosciamo che i casi di successo, visto che il difetto ha generalmente per conseguenza la sparizione del soggetto. Gli sforzi coronati da successi così sensazionali del taylorismo e di altre razionalizzazioni mostrano abbastanza chiaramente come neppure le leggi di bronzo del determinismo tecnico-economico eran riuscite a far trionfare la praxis sui capricci psicologici che sono all’origine dei gesti gratuiti. Siccome è probabile che molti movimenti “inutili” e ritmi spensierati, nel corso del lavoro produttivo, abbiano origine in pregiudizi magici, abitudini rituali e altre simili fantasie, ecco di nuovo la facoltà mitologica, gran responsabile del disordine che s’insinua là dove dovrebbero regnare l’ordine assoluto e la più rigorosa coordinazione. Lo stakhanovista è a due passi dal Kapò e dalla SS dell’universo concentrazionario. E taylorista, stakhanovista e SS erano già prefigurati nel mito antico del consiglio dato a Periandro o a Tarquinio col gesto di decapitare con un colpo di bastone i papaveri che avevano l’insolenza di sorpassare il livello collettivo dell’erba. Negli eserciti moderni come nell’esecuzione del piano quinquennale, l’errore è proibito. È pur vero che tale rigore è compensato, in questi tipi d’organizzazione, dalla larghezza con la quale si tollera la “dispersione” di bombe destinate a distruggere un ponte sui bambini delle scuole o sugli affreschi di Mantegna; o dai metodi approssimativi con i quali corti marziali e tribunali rivoluzionari fanno fucilare centinaia d’innocenti… pour encourager les autres. Ma l’impulso mitologico introduce precisamente in tutto il tessuto della vita collettiva, sempre di nuovo, le ragioni d’errore e di disordine; le illusioni, le chimere, l’attaccamento irragionevole alle tradizioni e alle superstizioni, onde continuamente il superfluo si amalgama al necessario, il gesto gratuito all’azione razionale, il caso alla meccanica regolata. Per non sentirsi schiacciato, sembra che l’uomo — e una collettività veramente umana — abbia bisogno di dirsi che “forse quello che deve accadere non accadrà” e che, fino all’ultimo istante, un coup de dés potrà mutar l’ordine dei timori e delle speranze. E questi errori, queste chimere, queste assurde speranze, nella misura in cui son lasciate esistere, sono il vero cemento di una società sana.
Prima di passare all’attacco, i Boscimani tengono un consiglio di guerra in cui ogni guerriero ha il diritto di esporre le sue idee sul modo di condurre le operazioni. Questo non è molto diverso dai tumultuosi dibattiti nel campo degli Achei nel corso dei quali Ulisse provò la durezza del suo bastone d’avorio sul cranio puntuto di Tersile; e forse senza quel colpo perentorio Troia non sarebbe mai stata presa. Così, la vittoria di Salamina sembra essere dipesa dal famoso: “Batti, ma ascolta”; dove è da notare che la frase di Temistocle, che da ventitré secoli tutti gli scolari hanno appreso come un fatto, è invece probabilmente una just so story, un mito autentico.
Presso un’altra tribù africana, quando gli uomini partono per la guerra, il posto più alto nella gerarchia militare è tenuto da un personaggio detto “conservatore del fuoco”, il quale marcia alla testa delle truppe tenendo in mano una torcia accesa; se la torcia si spegne, è un segno infausto e l’esercito batte immediatamente in ritirata e torna ai suoi focolari. Questo ci offre forse la chiave per capire la “ colonna di fuoco” al cui seguito marciavano gli Israeliti durante l’esodo. Un illustre vescovo anglicano del settecento interpretava tuttavia quest’ultima come un fotòforo perfezionato messo in opera dall’astuto Mosè senza rivelarne il segreto al popolo.
Ebbene, eccoci qui di fronte a tre strati sovrapposti di mitologia: la significazione magica che la torcia accesa davanti all’esercito poteva avere per i primitivi Israeliti in marcia nel deserto; l’interpretazione “jehovista” o “elohista” che ne diede il redattore del libro dell’Esodo; le idee del vescovo Burnel su Mosè quale archetipo di un illuminato discepolo di Newton pronto a difendere gli interessi della High Church con trucchi alquanto discutibili. E a questi tre strati, perché non aggiungere il quarto: quello dell’oscuro epistolografo di Toulouse che non esita a supporre un’affinità di credenze fra gli Owambo d’Africa e il popolo eletto, quando non sappiamo neppure in modo certo se gli Ebrei son veramente stati tenuti in cattività dal Faraone e se la storia della loro emigrazione clandestina nella terra di Canaan corrisponde a verità? Quel che è certo è che quando si considerano le vicissitudini delle collettività umane da questo punto di vista, sembra impossibile ignorare la “presenza reale” dell’invenzione mitologica (più o meno rispettosa del vero o anche del “compossibile”) in tutti i modi di essere, intenzioni, decisioni, buone e cattive fortune delle persone coscienti che vivano in comunione spontanea con i propri simili. E sembra anche che la solenne asserzione di Marx: “L’umanità si pone soltanto gli scopi che essa è capace di realizzare”, sia un’insigne sciocchezza.
Certo, l’homo sapiens è prima di tutto homo faber. La conquista del fuoco e l’invenzione degli strumenti ha realmente staccato l’umanità dalla condizione animale, e il progresso umano non è concepibile senza il perfezionamento e la complicazione dei mezzi di produzione. Noterò che già Platone, e Esiodo prima di lui, esponevano chiaramente quest’ascensione dell’umanità primitiva, e che esistono presso tutti i popoli miti sulle invenzioni benefiche prima delle quali gli uomini vivevano una vita miserabile. Tuttavia, l’idea di un progresso indefinito sembra estranea ai Greci: per loro, il perfezionamento dell’intelligenza umana non si confonde in nessun modo col perfezionamento delle technai e dei meccanismi sociali; mentre la perfezione (che essa sia o no cosa di questo mondo) implica necessariamente un punto d’arrivo. Il quale, beninteso, non è mai per i Greci un punto morto di stabilizzazione, ma è concepito a immagine dell’eterno, armonioso e luminoso moto degli astri in un cielo immateriale o composto di una materia tutta diversa da quella del mondo sublunare.
Comunque, le società in seno alle quali le tecniche produttive e i rapporti di divisione del lavoro (e dei suoi frutti) che esse prescrivono rimasero stagnanti sono per definizione dei popoli senza storia, al disotto del livello della civiltà.
Sì. E tuttavia anche qui si presentano alcune obiezioni. Il fatto che durante i centomila anni almeno dacché esistono delle collettività umane, dei periodi così lunghi e un così gran numero di società si sian mantenuti in un equilibrio di vita materiale forse precaria, ma anche di giustizia, di contentezza e di pace che le masse delle grandi civiltà avrebbero ragione d’invidiare, un tal fatto si spiega male dicendo che gli inizi sono lunghi e difficili o —come vorrebbe il professor Toynbee— che occorre la frusta di catastrofi o di challenges eccezionali per far avanzare le civiltà. Giacché i primi passi — il fuoco, gli utensili, ma anche i riti, gli ornamenti, i miti, i culti, la magia e la mistica — sembrano esser stati percorsi molto presto e universalmente. Mentre se d’altra parte si considerano le catastrofi della storia (quelle, per esempio, che han determinato spostamenti massicci come quelli degli Unni e dei Mongoli) sembra che il loro bilancio si chiuda piuttosto in passivo, con più distruzioni di vite umane e di valori civili che progressi. Quando la vittoria (dei nomadi sui sedentari, dei Romani sul mondo ellenistico, di Pizarro sugli Incas) non era il semplice effetto della forza bruta, del numero e dell’improvviso scoraggiamento, essa aveva certo la sua ragione in una tecnica superiore degli armamenti e dell’organizzazione militare; ma le tecniche che dal punto di vista dell’economia e della complessità dell’organizzazione sociale sembrano aver maggiore importanza — in particolare le arti e i mestieri — erano più sviluppate presso i vinti, e subivano quasi sempre un’irrimediabile decadenza. Il marxista dirà forse che questa economia superiore era giunta al punto critico a causa dei contrasti sociali suscitati dalla sua “ dialettica immanente “, e quindi avrebbe dovuto rinnovarsi o perire anche senza l’urto esteriore. Oppure i barbari e i civilizzati saranno considerati come elementi di un medesimo sistema e la lotta fra i “sazi” degenerati e gli invasori famelici diventerà una specie di lotta di classe. Ma queste mi sembrano costruzioni artificiose.
Inoltre, se i popoli che (per ottusità metafisica?) non hanno voluto mutare il loro modo di vivere durante millenni vanno esclusi dalla storia — concepita come il cammino ininterrotto, o una serie di capitomboli, verso il “salto finale” nel regno della libertà — la storia finisce col non esser più conoscenza obbiettiva del nostro passato, ma una caricatura razionalizzata, simile a quella per cui, nella Naturphilosophie, Hegel delineava l’”ordine gerarchico” delle piante e spiegava dialetticamente la crescita del grano dal seme, negato nello stelo e aufgehoben nella spiga. I popoli senza storia hanno vissuto, la loro presenza — che non sempre si limita a una parte passiva — negli avvenimenti e nei sistemi economici delle epoche più memorabili della storia non può essere ignorata: i clienti sciti del commercio ateniese, i Germani di Tacito, i negri delle piantagioni erano davvero “popoli senza storia”? Il ricordo tangibile, il peso di un passato la cui accumulazione non può non aver determinato il nostro presente, ne sussiste non solo nei paesaggi terrestri, ma in tutta una eredità fisiologica e psicologica che portiamo, volere o no, ancora in noi: “Israele abomina Noab che cuoce l’agnello nel latte di sua madre, ed ecco perché mangiamo ancora di magro il venerdì…” dice Voltaire; ovvero si legga, in Su Ma Tsien, la storia dei dibattiti alla corte di Cina sull’arte di cavalcare degli Unni e come si finì con l’adottarla.
Sarebbe ridicolo voler contestare o sminuire la soggezione dell’uomo e della comunità alle condizioni materiali della loro esistenza. È evidenza elementare che il corpo e l’anima del marinaio, del fabbro, del contadino, del minatore — e anche del burocrate, del guerriero, del danzatore professionale — sono in qualche modo plasmati dalle occupazioni abituali e obbligatorie dalle quali traggono la loro sussistenza. Che la divisione del lavoro (nella quale vanno incluse le funzioni del capo, dello stregone, del prete, della cortigiana, del mimo, dell’aedo, del buffone, eccetera) ingenera e perpetua situazioni d’esistenza sempre più diversificate, con le gerarchie, caste, classi e tutti i conflitti d’interessi che possono produrvisi, è una constatazione che lo scriba egizio (nei “consigli a suo figlio”) faceva ancor prima di Esiodo e dei profeti d’Israele.
Nell’Europa occidentale del X secolo, una agricoltura dal rendimento assai mediocre, un’attrezzatura in cui il legno teneva un posto preponderante, una popolazione sparsa assillata dalle incursioni di Ungari, Normanni e Saraceni, l’assenza di mezzi di comunicazione e di scambio appena regolari, le relative frequenti carestie, la sotto-alimentazione cronica della gran maggioranza del popolo, la fortissima mortalità infantile, l’impossibilità di difendersi contro le epidemie e quindi una vita media breve accompagnata da vecchiaia precoce, più l’abitudine a sopportare infermità incurabili, tutto questo contribuiva a fare dell’esistenza un affare assai precario e triste. Donde l’instabilità di sentimenti e il nervosismo così caratteristici del primo periodo dell’età feudale; donde anche gli spiriti morbidamente attenti a ogni specie di segni, di sogni e d’allucinazioni; le macerazioni e le repressioni negli ambienti monastici; ma anche i furori, le disperazioni brusche, i colpi di testa frequenti negli ambienti laici.
Ma se ci si vogliono fare delle idee un po’ chiare sulla costituzione dei legami di “fedeltà e d’omaggio” che formarono la trama del feudalismo, sulla teologia di Cluny, sullo sviluppo dell’architettura e della scultura romaniche, sulle avventure di Ottone di Germania o di Alfredo d’Inghilterra, bisogna prendere in esame una quantità di fatti che sarebbe difficile ridurre in termini di materialità biologica o economica. I rapporti fra l’uomo e le cose, se non ci si contenta di esaminarli a volo d’uccello, costituiscono una trama assai fitta di eventi constatabili e di esperienze intime che dobbiamo necessariamente rappresentarci per via di supposizioni: ossia, alla fine, di “miti”. E non dobbiamo neppure dimenticare la verità lapalissiana che i fili che noi sbrogliamo uno a uno nel discorso rimangono inestricabilmente intrecciati nell’esistenza reale.
Lévy-Bruhl ha insistito (e non è stato il primo) sull’importanza che ha nella mentalità collettiva e nell’equilibrio vitale delle tribù australiane il “luogo” al quale sono connessi i riti periodici, le leggende genealogiche e cosmologiche, le interdizioni e gli statuti di ciascun clan. Ogni uomo del gruppo si sente in stato di partecipazione con le colline fra le quali è nato e anche con i punti cardinali secondo i quali è disegnata la topografia del suo villaggio, e così pure con gli animali e le piante che egli assimila ai suoi parenti e antenati. Quindi l’espulsione di una tribù dal suo “luogo” per assegnarla a un altro distretto, cosa che sembrava innocua all’amministrazione britannica, aveva invece per effetto una vera e propria disintegrazione della comunità: l’abbandono dei riti e delle norme di condotta, l’abbrutimento in una specie di disperazione collettiva. I medici spagnoli hanno studiato una malattia mentale che sembra non attaccare che i Galiziani della costa limitrofa al Portogallo: il Gallego emigrato è colto da una specie di nostalgia così violenta da deperire rapidamente, e spesso morire. Non s’è potuta trovare nessuna causa fisiologica di questo male, e esso appare tanto più sorprendente in quanto questi Galiziani son gente molto intraprendente e capace negli affari. La stessa cosa ho sentito raccontare di certi montanari del Caucaso.
Altra categoria di fatti: le evocazioni di paesaggi sacri sono fra le cose più belle dei cori di Sofocle e d’Euripide, e si sente chiaramente che l’incanto del luogo in se stesso non arriverebbe mai a provocare una tale emozione evocatrice se al luogo non fosse connesso un mito, un santuario, un sentimento di partecipazione vivissima fra un orizzonte molto preciso e ciò che v’è d’immortale nella polis.
Dire che tutto questo (e quel che significa il mare per il marinaio, la steppa per il cosacco, la montagna per il montanaro) è un semplice epifenomeno di abitudini inveterate, debolezza sentimentale di primitivi che si lasciano dominare dalla natura invece di dominarla, sarebbe una grossolanità e nulla più. Perché non ammettere, accanto alle strutture psicologiche e intellettuali che accompagnano i rapporti utili-tari con la natura, un piano mitologico percepito e vissuto fin dalle origini con intensità non minore, e altrettanto indispensabile delle forze produttive al mantenimento della coesione e della continuità sociale?
E parliamo un poco delle forze produttive esse stesse. Per cominciare, le tecniche che procurano all’uomo il suo pane quotidiano. Il Melanesiano che si è costruito un canotto con un’esperienza consumata dei minimi dettagli nella scelta dell’albero, l’essiccazione del legno, la forma interna ed esterna, l’esatta misura delle attrezzature, non crederà mai che il suo dominio sulla materia così trasformata basti a garantire che la imbarcazione tenga il mare; occorre anche che il manna agisca in senso favorevole, poiché negli alberi che egli ha abbattuto, negli attrezzi di cui s’è servito, nelle forme stesse che una lunga tradizione gli ha insegnato a dare allo scafo, e inoltre nella resistenza dell’acqua, senza parlare dei venti e delle tempeste, c’è una quantità di Dinge an sich capaci di ostilità come di benevolenza, e che dunque conviene cercar di propiziarsi con appositi riti. E questi riti non saranno per lui meno produttivi delle ore di lavoro incorporate nell’oggetto utile. Partendo per una crociera, questo navigatore non mancherà mai, nel manovrare la sua barca, di conformarsi a usi che il razionalismo economico condanna come puri sprechi. Ma non mancherà mai neppure, nella manovra, di attenersi strettamente a ciò che la tradizione e l’esperienza gli hanno appreso quanto all’arte del navigare.
Fin dalla prima pietra tagliata, la prima lancia o la prima freccia utilizzata per aumentare il rendimento giornaliero in cacciagione, le cose fabbricate hanno sollecitato l’attenzione dell’uomo, la sua prudenza, i suoi timori e i suoi calcoli di successo per il loro aspetto metafisico non meno che per la loro destinazione utilitaria. Se si guarda a quella che fu la conquista incomparabilmente più decisiva: la scienza di accendere il fuoco, si vedrà subito che il lato sacro del fenomeno, le preoccupazioni mistiche, magiche, mitologiche che suscitava assorbirono lo spirito umano e “le opere e i giorni” della collettività ben oltre l’età primitiva: fino agli altari delle Vestali o dei maghi zoroastriani, ai ceri della Pasqua cristiana, ai fuochi d’artificio inventati dai cinesi. Si dirà che questi brancolamenti della coscienza dei produttori mostrano soltanto quantae molis erat l’ascensione dell’umanità dall’ascia neolitica al ciclotrone, o la presa di coscienza da parte di un’apposita classe del vero significato di questo progresso fatale e dialettico?
Ma allora, ecco il meccanico che dice: “Si comincia col manovrare la macchina e si finisce per esserne manovrati.” Più un elettricista, un automobilista, un aviatore è esperto, più forte è in lui il sentimento che i meccanismi complicati che egli governa, e dei quali conosce a fondo tutti gl’ingranaggi, hanno malgrado tutto una specie di vita propria, sicché è altrettanto necessario saperli comandare quanto, talvolta, saperli ubbidire; mentre, per ridicolo che sembri crederci, il gioco perfido dei casi favorevoli e sfavorevoli ha una sua strana realtà.
D’altro canto, l’atteggiamento dell’ufficiale, del funzionario, del sacerdos in aeternum verso quei grandi meccanismi (tecnicamente assai complessi) che sono l’Esercito, l’Amministrazione, la Chiesa, è anch’esso dominato dalla convinzione più o meno cosciente che questi istituti hanno un valore esistenziale che sorpassa ogni finalità utilitaria: sono perché sono.
E ancora: bisognava essere Benedetto Croce, astratto nell’ammirazione della quadripartita e circolare attività dello Spirito, per credere che l’opera d’arte sia tutta quanta nello spirito del singolo artista come l’homunculus nello sperma secondo gli embriologi del XVII secolo. C’è la natura della materia, su cui 1’”ultima parola” non sarà mai detta: marmo, bronzo, colori, ma anche suoni e linguaggio (con i suoi sedimenti secolari di fonèmi e morfèmi); c’è l’azione dei “modelli” e delle tradizioni, per imprimere ai quali la sua impronta originale bisognerà pure che l’individuo artista abbia intravisto in qualche parte delle indicazioni di “possibilità” inedite, e sarà alla fine il “fondo mitologico” dell’esperienza collettiva, il quale ai più appare semplicemente come linguaggio ordinario, ma all’occhio penetrante rivelerà significati nuovi e profondi. Il romanticismo ha molto esagerato la funzione della “pura soggettività” nella creazione artistica.
Naturalmente, l’operaio al nastro di montaggio, il cui lavoro è accompagnato unicamente da una noia infernale, potrebbe difficilmente proiettare un alone mitologico intorno alla sua bisogna. Qui siamo ai limiti dell’universo perfettamente organizzato dei campi di concentramento. Ma le conseguenze possibili di una tale situazione non sono ancora state viste con lucidità. Già nel 1913, quel perspicace “filosofo del popolo” che era Alfred Merrheim notava la decadenza della Confédération générale du travail e dello slancio rivoluzionario nella classe operaia francese, e la spiegava col fatto che nelle condizioni attuali del lavoro industriale l’operaio perde il gusto del lavoro e ogni interesse a che il lavoro stesso sia fatto bene o male: quindi non desidera altro che il vantaggio (o il minor male) immediato; lavorare il meno possibile per un salario più alto possibile diventa il fine ultimo, da ottenere con qualsiasi mezzo, non esclusa la protezione dello Stato. In queste condizioni, naturalmente, i miti marxisti o soreliani venivano a perdere ogni senso.
Se le cose stanno così (e certo la condizione attuale dell’operaio somiglia al quadro dipinto da Merrheim ancor più di quanto non gli somigliasse nel 1913), bisognerebbe certo concludere che non esiste più traccia di spirito mitologico nell’attività tecnico-economica delle società di massa moderne. Ma bisognerebbe al tempo stesso concludere che la tesi marxista secondo cui i rapporti sociali meccanicamente imposti dalla tecnica della grande industria, dalla concentrazione dei capitali, dalla riunione di migliaia di produttori sfruttati nella stessa officina, suscitano necessariamente la coscienza di classe e quindi la volontà collettiva del riscatto, bisognerebbe concludere, dico, che questa tesi è radicalmente sbagliata.
È quel che concludeva già prima della guerra Simone Weil. Rimarrebbe la rivolta elementare, puramente negativa, contro un’esistenza che non vale più la pena di esser vissuta.
Si noti, in ogni caso, che per ottenere il consenso entusiasta (o la semplice rassegnazione?) delle masse operaie al ritmo accelerato della produzione sia nel periodo del riarmo hitleriano che durante i piani quinquennali sovietici, si son dovuti inculcare dei tipici Ersatz di mitologia in cui delle vaghe prospettive di paradiso terrestre si mescolavano a stimoli di genere sportivo e all’appello a sentimenti più o meno bassi (“ci vendicheremo degli ebrei” o “sorpasseremo l’America”). Non è impossibile che alla base del sovietsmo adoratore di apparecchi, e perfino in fondo al nazismo, al fascismo e al militarismo giapponese, si trovino degli elementi di mitologia autentica. Ma la creazione e l’esperienza mitologica sono intrinsecamente irreggimentate, intorpidite da una unanimità obbligatoria. Perfino il Dieu le veult delle orde riunite da Pierre l’Ermete non ebbe altro risultato che dei pogroms caotici e lo sbandamento finale dinanzi ai Turchi. La barbarie si definisce per la povertà di vita mitologica, e la barbarie sapiente, intenzionale, moderna (quella durch Wissenschaft bösartig geworden di cui parlava Heine pensando ai prussiani) è caratterizzata dalla volontà di ridurre la mitologia (quest’attività fra tutte gratuita) a surrogato per usi abietti.
Motivi mitologici sembrano dunque intrecciarsi intimamente alle invenzioni tecniche, e non possono essere assenti dagli effetti economici e sociali di queste conquiste nella “lotta per il dominio della natura”. Ma il fatto è che si possono trovare segni premonitori evidenti di mitologie persine nel campo che Marx ha studiato con più competenza: la rivoluzione industriale cui il capitalismo moderno deve il suo sviluppo.
L’èra del macchinismo non comincia prima del 1730. Per lo sviluppo degli strumenti tecnici nell’epoca precedente, un breve capitolo del primo volume del Capitale contiene un’idea molto interessante, ma non sviluppata: le tappe successive dello sviluppo tecnico potrebbero essere esposte in una serie che somiglierebbe molto alla filiazione delle specie secondo Darwin. Un utensile più adatto sostituirebbe per selezione naturale il precedente, pur conservando una certa parentela con esso. Questa potrebbe apparire come la prova trionfale di uno sviluppo quasi automatico, determinato unicamente da una dialettica inerente agli oggetti materiali. Senonché., l’osservazione è fatta a posteriori, esclusivamente sulla base dei risultati finali, e lascia fuori il fatto importante che in ogni tappa di questo processo c’è stato l’intervento della riflessione e della volontà dell’uomo che fabbricava lo strumento: ossia il fatto dell’abilità e dell’inventiva individuale; e alla base di questo fatto s’incontrano esperienze e impulsi d’ordine mitologico analoghi a quelli che presiedono alla fabbricazione degli strumenti “primitivi”.
Da Leonardo da Vinci in poi, c’è negli uomini come un’ossessione dei meccanismi complicati e possibilmente mossi da forze naturali, la quale s’esprime in numerosi disegni fantastici di artisti e in opere mezzo scientifiche mezzo utopistiche. Il giovane Pascal inventa macchine. Tutta la scienza dopo Galileo — con l’introduzione dei concetti di massa e d’accelerazione — fa dell’Universo una “macchina materiale”. Descartes vedrà negli animali delle macchine. Quando consideriamo macchine gl’ingegnosi epicicli i Eudosso e di Tolomeo, abbiamo torto. Per gli antichi, agli occhi dei quali le nozioni di forza e d’inerzia da vincere non potevano entrare in campo quando si trattava di corpi celesti, quelle figure erano semplice parto del virtuosismo geometrico, la cui eleganza “eterea” non ammetteva complicazione di movimenti, questi dovendo essere per definizione uniformi, eterni e armonizzati. Né andava diversamente dopo Galileo e Kepler, e soprattutto dopo Newton senza dimenticare i “vortici” di Descartes, anch’essi materiali). Notiamo anche che gli orologi (i quali non sono dei mezzi di produzione), la ricerca del perpetuum mobile, gli automi divertenti (molto prima di quelli che resero celebre Vaucanson) hanno assorbito ‘attenzione degli inventori prima ancora che essi penassero a ordigni di rendimento industriale.
Il marxista replicherà che si trattava già della coscienza di classe del capitalismo nascente che operava iella direzione voluta perché potesse attuarsi la presa li possesso degli strumenti di produzione. Ma bisognerebbe comunque precisare i nessi causali tra questa ipostasi del genio capitalista che spingeva i borghesi a arricchirsi col commercio o l’acquisto di cariche presso il Re Sole (Colbert dovette impiegare la coercizione per persuaderli a investire i loro capitali nelle manifatture) e gl’intellettuali a sognare meccanismi che avrebbero sboccato nell’inondazione dei mercati con la paccottiglia da una parte e, dall’altra, le vicissitudini individuali di un Leonardo, di un Huyghens, di un Biringuccio, di un Newton.
Torniamo dunque al mito delle macchine su cui s’orientavano insieme il pensiero di Galileo, di Descartes, di Leibniz e i sentimenti più o meno intensi e più o meno distinti dei loro contemporanei. Situiamoli nel loro ambiente culturale, in pieno stile barocco, fra le guerre di religione e le guerre di successione, fra la teologia del Concilio di Trento e le dispute per sapere se gli in folio dell’Augustinus di Giansenio contenessero o no quattordici o cento-quaranta proposizioni incriminabili, fra il cerimoniale compassato dell’Escoriai e la pompa di Versailles. Ricordiamo il gusto del sovraccarico, del complicato, dell’intricato, del “macchinoso” nell’arte dell’epoca; le macchine che si moltiplicavano nelle rappresentazioni di opere, divertimento tipico del XVII secolo, e tratti analoghi nei romanzi allora in voga, come il Grand Cyrus, senza dimenticare che qualcosa di simile si riscontra anche nel Don Quixote.
Il termine di “macchina” può legittimamente applicarsi a costruzioni che non sono né di ferro né di legno. Saint Simon chiama naturalmente machine royale il funzionamento regolare della Corte così numerosa, così scrupolosamente gerarchizzata, così minuziosamente applicata a ripetere i medesimi gesti. La gloriosa fanteria spagnola, l’esercito di Wallenstein, l’organizzazione militare creata da Louvois e da Vauban sono certamente dei meccanismi. Così pure la burocrazia dei grandi Stati centralizzati e autocratici. E la Chiesa romana cristallizzata dalla Controriforma. E, all’interno di questa Chiesa, la disciplina implacabile della Compagnia di Gesù, che scende fin nelle latebre della coscienza per regolarne il funzionamento “a maggior gloria di Dio”. Sarebbe difficile dimostrare che tutto questo s’è modellato teologicamente sul sistema delle manifatture. Ma nell’ordine della vita economica operava — e con una forza di movimento altrettanto incessante e inderogabile di quella che avrebbero potuto mettere in opera i vortici cartesiani — un sistema superlativamente razionale e automatico: la circolazione del denaro, che determinava gli alti e bassi di ogni esistenza individuale come della fortuna delle nazioni.
È diventato un luogo comune stabilire una connessione fra il regno del denaro, grazie al quale una ricchezza mobile e astratta (poiché consiste nel possedere la controparte generale di tutti i beni, di tutti i godimenti, di tutti i prestigi possibili), indefinitamente aumentabile e trasformabile, diventa il nerbo della guerra… e della pace per essere alla fine la sola misura dell’uomo, e l’individualismo, la Realpolitik, una concezione del mondo che riduce ogni qualità a formule quantitative con la tendenza sempre più accentuata al relativismo che l’accompagna. Un’espressione veemente di questi modi di sentire, di pensare, di vivere, la si trova nei drammi elisabettiani. Tuttavia io andrei ancora più indietro.
L’antichità ha conosciuto sia l’onnipotenza del danaro sia le grandi macchine dello Stato assoluto, come pure le ebbrezze e le angosce dell’individualismo e del relativismo, il razionalismo scientifico, forme d’arte barocche e un certo gusto per i meccanismi. Michelet malediva Alessandro per aver imposto al mondo civile il peso della machine royale. Il Macedone ha difatti imposto questa agli Elleni, che non son più riusciti a sbarazzarsene. E tuttavia non l’ha inventata, dato che gli elementi essenziali di essa esistevano già nella monarchia degli Achemenidi quale ce la descrive Erodoto. E Ciro e Bario hanno certamente anch’essi avuto dei modelli da copiare e da perfezionare: per la meccanica militare, l’Assiria; per l’amministrazione e le finanze, forse le satrapie meglio organizzate, cioè quelle che avevano in precedenza formato il regno lidio di Creso. I racconti del “padre della storia” hanno reso banale l’associazione di questo nome con un tesoro quasi inesauribile e delle fastose distribuzioni di “potere d’acquisto”; mentre d’altra parte è ai Lidi che si attribuisce l’invenzione della moneta sonante.
A sua volta, la conquista d’Alessandro ebbe come principale effetto quello di gettare in circolazione le migliaia di talenti d’oro e d’argento tesaurizzati a Persepoli, a Susa, a Ecbatana. Lo stabilirsi delle autocrazie ellenistiche (delle quali l’impero dei Cesari non sarà che la continuazione con procedimenti più brutali) ha per corollario uno stile di vita e dei gusti estetici che gli storici dell’arte hanno spesso paragonato all’arte e alle mode barocche. Certo, la passione degli europei del XVII e del XVIII secolo per una opera come il Laocoonte mostra delle affinità significative. E, dall’Alexandra di Licofrone alle Pharsalia di Lucano, quanti concettismi, quante solenni gonfiezze e artificiosi chiaroscuri di cui Maurice Scève e gli eufuisti, Camoens e il Tasso, Gongora e il cavalier Marino ci han dato l’equivalente… Michelet considera Pirrone, col suo dubbio troppo radicale per poter dar vita a un “metodo”, come un sussulto di rivolta disperata del pensiero greco contro l’opera di Alessandro. Il cosmopolitismo di Zenone e l’allontanamento da ogni partecipazione alla grandezza e servitù della cosa pubblica predicato da Epicuro sono reazioni non meno pertinenti. Da Eratostene a Ipparco, la scienza alessandrina ricorda irresistibilmente il progresso delle conoscenze esatte, e anche i rapporti fra scienziati e principi, durante il secolo che va da Bacone a Newton. Le formidabili macchine d’assedio inventate dagli ingegneri al servizio di Demetrio Poliorcete, la costruzione di galere in cui il numero dei ponti e di file sovrapposte di rematori aumentavano fino all’assurdo, le celebri lenti incendiarie di Archimede, sono esempi chiari di meccanizzazione tecnica durante il primo periodo ellenistico.
Il parallelo con l’epoca barocca non va, naturalmente, spinto troppo oltre: l’ho delineato unicamente per illustrare la mia idea di un mito delle macchine di cui quello che si constata in Europa a partire dal secolo XVII non è il primo esempio. Ma, naturalmente, la storia europea prese una tutt’altra direzione da quella dei regni ellenistici e dell’impero romano. D’altra parte, per ben definire i meccanismi il cui gioco s’esprime nel regno del denaro, nell’individualismo, nella politica di potenza degli Stati centralizzati, nei conflitti di metafisiche e di morali che cercano il loro fondamento nella ragione pragmatica e in determinazioni quantitative, bisognerebbe risalire fino alle prime ripercussioni di queste invenzioni tecniche sulla vita collettiva dei popoli civili e sugli stati di coscienza degli uomini che si usa chiamare “rappresentativi” perché han lasciato delle opere personali. Si potrebbe allora chiarire la differenza fra “mitologia spontanea” (legata ai costumi e alle tradizioni), “mitologia in evoluzione” (propria dell’ambiente che io chiamo “società”), “falsa mitologia” (con la ragion di Stato come motivo propulsore), e, infine, “mitologia degradata” (nello sconforto causato dalle catastrofi, dalla barbarie, dall’oppressione).

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