Semplicemente, Europa

di Paolo Repetto, 30 gennaio 2019

C’è un libretto esile, che si legge in mezz’ora scarsa, dal titolo: “Una certa idea d’Europa”. In quelle poche pagine George Steiner identifica ciò che ha fatto (e in certa misura fa ancora) della civiltà europea qualcosa di totalmente diverso da ogni altra nel mondo, riconducendone l’essenza a cinque peculiarità, che lui definisce “assiomi”. È una lettura piacevole e sorprendente, che fornisce inaspettate argomentazioni contro il rifiuto della comune appartenenza culturale predicato da populisti, sovranisti e opportunisti di passaggio. Si ha l’impressione di sfogliare un album di schizzi, dietro i quali si intravede l’affresco di una intera civiltà, ma dai quali emergono anche i dubbi sulla sua sopravvivenza (i viaggiatori del Gran Tour, che appunto compilavano quegli album, rappresentavano soprattutto rovine).

Steiner riassume così i cinque “assiomi”:

  • il Caffè, inteso come luogo-simbolo di confronto, di discussione;
  • un paesaggio su scala umana (e percorribile a piedi);
  • l’intitolazione di strade e quartieri a statisti, scienziati, artisti e letterati;
  • la duplice matrice culturale (Atene e Gerusalemme);
  • la consapevolezza di vivere un capitolo “conclusivo”, una “stanchezza della storia”: tratto che è proprio solo della cultura europea.

Da essi fa discendere tutte le caratteristiche culturali e storiche del continente. Aggiunge anche due corollari problematici, costituiti uno dal persistere dei particolarismi, linguistici, etnici o culturali, l’altro dal peso dell’impronta cristiana, e in particolare dal nodo mai risolto dell’antisemitismo.

Individua infine alcuni fattori di apparente debolezza, che potrebbero però essere sfruttati in positivo:

  • il ritardo scientifico, o perlomeno il gap che si sta creando nel campo della ricerca rispetto agli USA (e oggi anche alla Cina), che va recuperato indirizzando la ricerca stessa in altre direzioni;
  • il ritardo economico, che potrebbe indurre o almeno facilitare scelte di modelli produttivi in totale controtendenza;
  • il progressivo allontanamento degli europei dalla religione, l’agnosticismo diffuso, che possono impedire o rallentare i processi di radicalizzazione fondamentalista (in atto invece nel mondo islamico, nella società americana e un po’ in tutte le aree del pianeta), sempre che non aprano la strada ad una religione del mercato e del consumo.

 

Può lasciare perplessi la totale assenza di riferimenti a sistemi istituzionali, idealità o ideologie politiche, modi di produzione, a tutto ciò insomma che ci si aspetta di trovare indicato a fondamento o carattere specifico di una civiltà. Ma ci si rende conto subito, procedendo nella lettura, che i riferimenti sono impliciti, e discendono per via naturale dalle scelte operate da Steiner. In realtà il libretto è letteralmente un pretesto, qualcosa che precede il discorso “profondo”, lo apre e lo stimola. Va gustato come un aperitivo, o meglio ancora come un antipasto, che non deve saziare, ma, al contrario, dovrebbe risvegliare l’appetito. Io mi muoverò all’interno di questo pretesto, senza avere naturalmente la presunzione di mettermi a confronto con Steiner. Intendo solo sviluppare alcuni punti del suo discorso per come li ho colti io, con le riflessioni che mi hanno suggerito (mescolandole magari a quelle scaturite dalla recente rilettura de “La ribellione delle masse” di Ortega y Gasset e degli scritti di Andrea Caffi e di Denis de Rougemont), ipotizzando per queste pagine un uditorio giovanile, al quale le cose che andrò a dire non appaiano scontate. Vorrei verificare se le peculiarità individuate da Steiner sussistono ancora, se ancora siano identificative della civiltà europea e, in caso di riscontro positivo, come possano essere declinate nella situazione attuale. Per farlo procedo nell’ordine che Steiner ha dettato.

 

 

  1. a) Cominciamo dal Caffè. Come abitudine alimentare è stata introdotta dalle scoperte geografiche del ‘500, quindi è un prodotto tipico della modernità. Come consuetudine di frequentazione sociale ha rappresentato per un paio di secoli il luogo per eccellenza di ritrovo degli intellettuali, dai letterati agli avvocati, la sede di uno scambio culturale che avviene al di fuori delle sedi istituzionali. Tale consuetudine si è sviluppata soprattutto nel periodo illuministico, fino a far diventare il Caffè un riferimento d’obbligo per il nuovo ceto borghese, in alternativa al salotto aristocratico e alla bettola plebea. Non a caso la bevanda eletta a simbolo è un eccitante: tiene svegli, al contrario del vino o della birra, aiuta a fare e a pensare, anziché a stordirsi e a dimenticare. In Italia è stato Goldoni a certificarne il ruolo (La bottega del caffè), mentre i fratelli Verri gli hanno significativamente intitolata la loro rivista. Ed è altrettanto significativo che i poteri costituiti abbiano sempre avuto i Caffè in sospetto, tanto che già Carlo II aveva tentato, invano, di far chiudere quelli inglesi. Almeno fino alla metà del secolo scorso la loro immagine è rimasta ben distinta rispetto a quella di altri locali pubblici, del pub, o del bar, soprattutto di quello americano, caratterizzandosi per un’atmosfera fortemente “attiva” e per un livello “alto” di socializzazione, laddove in quelli gli ingredienti (l’alcool, ad esempio, ma più recentemente anche la musica onnipresente) inducono piuttosto all’isolamento o a una conversazione futile nella sostanza e primitiva nei modi (non a caso si distingue lessicalmente tra le chiacchiere da bar e i discorsi da Caffè)

Il Caffè è dunque associabile a una tradizione di libero dibattito che spazia in ogni ambito, politico, intellettuale, artistico o filosofico, e dal quale ha origine quella che oggi chiamiamo “opinione pubblica”: ma soprattutto al ceto sociale che quella tradizione l’ha inventata. L’indicazione di Steiner sottintende l’esistenza e l’importanza in Europa di una classe sociale inesistente altrove, che ha impostato le istituzioni e le relazioni in una maniera sua caratteristica. Si parla di borghesia, di spirito borghese, e quindi di “valori” borghesi.

Steiner sembra non avere dubbi sul fatto che questi valori davvero esistano. Io qualche domanda in proposito me la sono posta, tanto tempo fa, arrivando alla conclusione che “un’ambiguità di fondo ha da sempre segnato la concezione “borghese”: mentre da un lato essa propugnava l’emancipazione dell’individuo, attraverso la costruzione del sistema dei diritti, a salvaguardia delle libertà personali, dall’altro mirava alla affermazione di una economia di mercato, e conseguentemente di una società industriale, il cui libero sviluppo doveva essere svincolato da tutte le pastoie tradizionali e nella quale l’individuo trovava spazio eminentemente, o soltanto, in qualità di produttore […] Le esigenze economiche hanno finito per prevalere sulle istanze sociali. E così di fatto la società dei diritti ha tranquillamente negato il diritto di appartenenza al genere umano a gran parte dell’umanità, reintroducendo proprio nel XVII e nel XVIII secolo la schiavitù, salvo poi abolirla non appena ha iniziato ad essere meno remunerativa rispetto alle nuove e più universali forme di sfruttamento introdotte dal modo di produzione industriale. L’etica del lavoro si è tradotta in giustificazione morale dello sfruttamento, e il trionfo dell’economia di mercato ha di volta in volta suggerito le risposte aggressive o difensive del nazionalismo. Allo stesso modo, la ribellione contro l’arbitrarietà del potere è in fondo approdata, nella sostanza, solo alla finzione della partecipazione democratica, e per di più in un ambito politico che nel frattempo andava demandando ogni reale funzione decisionale ai nuovi poteri forti, quelli economici. […]

Per quanto possa sembrare paradossale (dal momento che proprio al trionfo dello spirito borghese viene in genere associato il primato dell’etica rispetto alla morale), la borghesia non è stata in grado di produrre né un’etica (sistema di valori) né un’etichetta (stili di comportamento). […] O meglio, lo ha fatto, almeno nella fase di attacco, quando attraverso l’illuminismo ha elaborato il sistema del diritto borghese (fondato sulle libertà individuali – ivi comprese quelle alla proprietà, al commercio e all’imprenditoria) e il quadro delle istituzioni che lo regolamentano e che su esso si reggono (lo stato), ha creato un nuovo contesto politico e culturale di riferimento (la nazione) e prodotto strumenti extra-istituzionali di salvaguardia e di pressione (l’opinione pubblica), ed ha infine affidato al lavoro-dovere, al lavoro-realizzazione e alle realizzazioni – tecnologiche e capitalistiche – del lavoro il riscatto (attraverso l’idea di progresso) della perdita di senso dell’esistenza individuale e collettiva – della vita e della storia. Ma questi valori – libertà, nazione, stato, lavoro, progresso – che possono apparire quanto mai “forti”, si sono prestati da sempre ad interpretazioni ambigue e contraddittorie, e pur tutte legittimate da una intrinseca debolezza e duttilità, dal relativismo scaturente dal loro carattere convenzionale: così da poter essere piegati di volta in volta a rispondere alle trasformazioni indotte dal modo di produzione capitalistico.

 

Sottoscriverei ancora oggi queste parole, almeno per quanto concerne le “idee forti” di stato, di progresso, di nazione, e in parte anche i concetti di libertà, di democrazia e di lavoro-dovere: ma aggiungendo come postilla un’altra citazione, molto più sintetica, da Alain Touraine (La fine della modernità), perché coglie assai bene lo spirito di quanto affermato da Steiner. Recita così: “Pur con tutte le connotazioni negative che sono andate ad accumularsi dietro al termine borghesia, va riconosciuto che la società borghese è stata alla base dei movimenti rivoluzionari del XVII e del XVIII secolo e che ha finalmente legittimato l’espressione dei sentimenti nella vita personale, familiare e pubblica. È in questa società borghese – scientifica e razionale, insomma laica – che abbiamo vissuto. Ed è a questo modello di società che ci siamo riferiti nella battaglia contro le ingiustizie sociali, l’arbitrarietà del potere, il nazionalismo aggressivo e il colonialismo oppressivo.”

Ovvero, per dirla in altri termini: i valori, per quanto passibili di ambiguità e interpretazioni arbitrarie, quella società li ha espressi, e il fatto che siano poi stati declinati in maniera distorta non ne inficia la validità. Oggi i Caffè tradizionali sono quasi del tutto scomparsi, e lo sa benissimo anche Steiner. Così come è scomparsa o è diventata tutt’altra cosa la borghesia cui si riferisce. Ma questo non significa abbiano perso senso la razionalità, il laicismo, l’egualitarismo, la libertà individuale, per citare solo i valori più importanti, e risultino obsoleti quelli che sono stati i loro veicoli, il dibattito, il confronto, la rappresentanza. Per cui dobbiamo ancora fare riferimento ad essi, visto che nel frattempo non risulta ne siano stati proposti di altrettanto validi: e dobbiamo semmai vigilare e spingere per una loro reinterpretazione più genuina, e difenderne la corretta applicazione nei rapporti sociali.

 

Per tornare allo specifico dell’indicazione di Steiner, direi allora che uno degli slogan attorno ai quali riaggregarsi potrebbe essere proprio “riprendiamoci il Caffè”: ritroviamo cioè il piacere di incontrarci fisicamente, di guardarci in faccia anziché comunicare via twitter o “faccine”, e di riassaporare quindi il gusto di un confronto leale. Ciò che significa, ad esempio, rifiutare categoricamente lo squallore al quale i dibattiti maleducati e fasulli inscenati in televisione danno legittimità, o la demenza irresponsabile e aggressiva che dilaga sui social. Recuperare la misura nelle modalità del confronto, l’urbanità della discussione, potrebbe sembrare solo un problema di forma, di etichetta, ma in realtà va a toccare e a determinare anche la sostanza (ovvero l’etica conseguente). Si urla e si insulta solo per mascherare una assoluta mancanza di idee: perché le idee non si scontrano, ma si confrontano.

È ancora possibile questo recupero? Ne dubito. Temo che lo sfascio sia irrimediabile. Ma penso che qualcosa occorra comunque fare. La butto lì, a mo’ di esempio: qualche preoccupato ripensamento potrebbe produrlo una campagna di boicottaggio, allargata a livello internazionale, delle emittenti e dei social network che non applicano alcun codice etico, da attuarsi con le modalità innovative dettate dalla natura stessa degli obiettivi. Avrebbe quanto meno il risultato di far discutere seriamente sul problema, creando un immenso Caffè virtuale governato dalle regole della decenza. Non sto parlando ovviamente di censura: la decantazione avverrebbe in maniera spontanea, e il ritrovare o il conoscere per la prima volta forme di dibattito più nobili e responsabilizzanti potrebbe funzionare da volano per rimettere in circolo anche i valori.

Sono gesti minimi, probabilmente inutili: ma se vogliamo poter continuare a guardare negli occhi coloro che verranno dopo di noi ed esigere anche da loro una qualche responsabilizzazione, vanno almeno tentati.

 

  1. b) Il paesaggio “camminabile”. L’Europa è l’unica area del mondo nella quale si può andare dall’estremo occidentale a quello orientale, e da nord a sud, incontrando sempre un villaggio o una città entro una giornata di cammino, che si viaggi in diagonale, diritto o a zig zag. È un tessuto dalle maglie decisamente strette. Lo spazio europeo è tutto culturalmente caratterizzato, organizzato, disciplinato. Ciò ha due conseguenze: da un lato, in assenza di soluzioni spaziali di continuità (non ci sono deserti, la catene montuose sono facilmente superabili e hanno costituito un ostacolo molto relativo ai traffici di ogni tipo) l’interscambio tra culture è sempre stato fittissimo, e ha prodotto una crescita che nelle grandi linee è stata uniforme. “Il fatto è che per questi popoli chiamati europei vivere ha sempre significato muoversi e agire in uno spazio, o ambito, comune. E cioè per ogni popolo vivere equivaleva a convivere con gli altri” scrive Ortega y Gasset. Dall’altro lato, il confronto con una natura addomesticata non ha suscitato particolari terrori metafisici, e ha favorito invece nei riguardi di quest’ultima un’attitudine molto “laica”, desacralizzante.

Per quanto concerne la prima conseguenza, Steiner sottolinea soprattutto le componenti etimologicamente “pedestri” della cultura europea, di quella che si ritrova ad esempio nei ritmi poetici (non a caso la figura retorica di base della ritmica latina è il piede); o la stretta connessione da sempre percepita tra il camminare e il pensare (dai peripatetici a Kant, dai poeti romantici a Nietzsche). Un paesaggio così fittamente antropizzato, percorribile (e fino all’altro ieri percorso) ai ritmi lenti della camminata, sfuma necessariamente le differenze, a partire da quelle idiomatiche fino a quelle di costume, crea una consuetudine con la presenza “straniera”, che proprio per questo non è più sentita come completamente tale, e favorisce influenze reciproche continuative.

Quanto alla seconda conseguenza, nei quattro o cinque secoli della “modernità” l’atteggiamento disincantato nei confronti della natura è cresciuto sino ad andare troppo oltre, facendo presumere agli europei di avere il potere e il diritto di disporre di quest’ultima a piacimento, e non solo nel proprio continente. Di conseguenza il paesaggio, che nel sette-ottocento ancora era avvertito come rassicurante, (a dispetto della tendenza romantica a coglierne gli aspetti misteriosi e minacciosi) sta diventando sempre più inquietante, per l’eccesso di sovrapposizione di una “seconda natura”, quella artificialmente costruita dall’uomo, e per la constatazione della sua incompatibilità di fondo con i fenomeni non governabili della natura reale. Ma la situazione di allarme determinata dai cambiamenti climatici e dalla sempre maggiore fragilità di un territorio attaccato e sfruttato in maniera dissennata potrebbe avere un risvolto positivo, se si traducesse finalmente in una responsabile consapevolezza. Se si recuperasse cioè quello che per i Greci era il “senso del limite”.

I maggiori corsi d’acqua europei attraversano o lambiscono diversi paesi. Ogni refolo d’aria leggermente più forte diffonde l’inquinamento atmosferico da una regione all’altra. Le correnti sballottano allegramente da un litorale all’altro le schifezze scaricate a mare. La terra, forzata a colture intensive e concorrenziali, si impoverisce e si ribella. Insomma, tutta la natura che ci circonda concorre a dirci che senza una politica comune di salvaguardia ambientale siamo destinati a lasciare ai nostri nipoti lande davvero desolate e inabitabili.

 

Recuperare un’etica e un’estetica del paesaggio non significa però predicare il ritorno alla wilderness: non può tradursi in un integralismo ambientalista di natura puramente emozionale e irrazionale, assolutamente incompatibile con la situazione storicamente determinata di cui parla Steiner, e nella sostanza inconcludente. Si tratta invece di rendere la presenza umana compatibile, risanando quello che è stato guastato e trovando in questo ripristino anche l’occasione per inaugurare scelte economiche e produttive diverse.

 

Anche rispetto a questo argomento è difficile dare indicazioni operative concrete. Ma visto che da qualcosa occorre pur iniziare, partirei dal recupero di un minimo di conoscenza geografica e dalla conseguente consapevolezza che il problema va affrontato su scala almeno continentale, in attesa e nella speranza che venga avvertito e riconosciuto anche su quella planetaria, e che l’esempio europeo possa diventare trainante. Il paradosso contemporaneo è che mai come oggi c’è stata tanta informazione geografica, quella che passa attraverso le immagini e il racconto documentaristico, e mai come oggi, proprio per la natura di questa informazione, che si presta ad un consumo facile, rapido e passivo, c’è stata in realtà tanta ignoranza, alimentata anche dalla politica scolastica di liquidazione dell’argomento come disciplina specifica. Una foscoliana esortazione alle geografie dovrebbe dunque essere formulata di concerto da tutti gli intellettuali europei, ma essere poi accolta, diffusa e praticata da un corpo docente che soprattutto in Italia sembra rassegnarsi a subire passivamente le riforme più peregrine e insensate (ispirate in genere da oltreoceano, da un mondo cioè nel quale l’ignoranza geografica e storica è quasi un vanto nazionale).

 

  1. c) La storia sui muri. La quotidianità del rapporto e del legame con una cultura ben specifica non riguarda infatti solo gli spazi (quindi i luoghi della sua elaborazione e il paesaggio che la esprime), ma anche i tempi. Come sottolinea Steiner, nelle nostre città ogni via, ogni piazza, ci ricordano un momento, un evento, un protagonista. L’Europa è il luogo dell’onnipresente memoria, fissata nella toponomastica stradale oppure nei cartelli, nelle targhe, nelle lapidi che segnalano edifici di rilevanza storica, teatri di vicende particolari, residenze di personaggi della cultura o della politica, con corredo di date e di altre informazioni essenziali. Non è così altrove. Negli Stati Uniti, ad esempio, che pure rientrano nell’area della cultura “occidentale”, le strade, sia quelle cittadine che le extraurbane, non sono intitolate, ma numerate. Quando si va oltre la semplice numerazione, i riferimenti rimangono vagamente naturalistici (via dei cipressi, ecc) o, nelle regioni di antica colonizzazione iberica, religiosi. Lo stesso vale per la toponomastica in estremo oriente. In Giappone la maggior parte delle strade non hanno una intitolazione: negli indirizzi vengono indicati il numero di distretto, quello del blocco e quello dell’edificio specifico. In Cina i nomi delle strade sono connessi alla prossimità con un sito facilmente identificabile (ad esempio, Viale lungo il fiume, Viale dietro la Porta) o al loro rapporto coi punti cardinali (viale occidentale, viale settentrionale, ecc …).

Insomma, la “storicizzazione” toponomastica è solo europea. Sino a poco tempo fa in Europa chi percorreva uno spazio urbano compiva anche una immersione nella profondità del tempo. Assimilava l’idea che la cultura europea è frutto della sedimentazione plurisecolare di innumerevoli frammenti: cioè di una storia, e di una storia “umana”. E coltivava un fortissimo senso del passato, la coscienza dell’importanza di ciò e di chi lo aveva preceduto. Steiner arriva a dire che la ragnatela dei riferimenti è sin troppo soffocante, e questo in qualche modo è a volte anche un ostacolo per gli europei ad aprirsi al futuro, a immaginarlo nel segno della speranza (mentre gli americani sono totalmente immersi nel presente).

 

Credo lo sarà ancora per poco: perché la tendenza odierna è invece a cancellare la storia, a frammentarla in memorie particolaristiche, a negarne una qualsivoglia “oggettività”, e quindi esemplarità. Di fatto, l’impressione è che di questo fardello gli europei vadano liberandosi velocemente. Le trasformazioni nella toponomastica stradale rispecchiano molto bene il cambiamento dei tempi. Ai personaggi storici sono sempre più frequentemente sostituiti i protagonisti dell’effimero (un paio d’anni fa c’erano in Italia una quarantina tra vie e piazze dedicate a Fabrizio de Andrè, e non una intitolata a Camillo Berneri), oppure è preferita la neutralità di riferimenti pseudo-ambientali (via delle mimose, viale delle ginestre, ecc). La memoria si cancella proprio a partire dalle strade, con la complicità anche delle nuove modalità di spostamento, che richiedono di semplificare al massimo gli elementi identificativi, di uniformarli su scala globale e di governarli attraverso algoritmi matematici. Le autostrade europee, ad esempio, non sono già più contraddistinte da un nome (anche se spesso, soprattutto in Italia, vengono caratterizzate da specificazioni ambientali o simboliche del sole, dei fiori, dei trafori, …), ma da un numero. Ma agiscono anche altri fattori. La gran parte dei nostri ragazzi, dopo anni di tragitto in auto da casa alle successive sedi scolastiche, non saprebbe ricostruire il percorso su una carta stradale e non ha mai avuto occasione di chiedersi chi fossero i personaggi citati nelle lapidi poste all’ingresso di ogni via.

 

Il primo argine a questa cancellazione potrebbe alzarlo ancora una volta, come per la geografia, la scuola. Ma la rivalorizzazione della storia come disciplina scolastica, pur assolutamente necessaria, non è sufficiente. Occorre anche chiarire come e cosa andrebbe insegnato. Tre millenni di civiltà europea sono stati sottoposti nell’ultimo mezzo secolo non ad una sacrosanta rilettura critica, ma ad una aprioristica interpretazione in negativo, in nome di una malintesa “correttezza politica” o della riduzione del lavoro storico ad ermeneutica. Detto in altre parole, lo studio delle intenzioni, vere o presunte, ha avuto la meglio su quello dei fatti. Steiner cita la lapidaria liquidazione proferita da Henry Ford: “La storia è una sciocchezza”, che è tipica di chi la storia vuole azzerarla perché intende scriverne una totalmente nuova. Ma venendo da Ford, figlio di gente che alla storia europea ha voluto sottrarsi e quella indigena l’ha letteralmente cancellata, può starci. Per gli europei il discorso è diverso, molto più complesso: la storia non è stata liquidata come una sciocchezza, ma denunciata come una colossale millenaria menzogna, costruita e alimentata nei secoli per ridurre l’umanità a strumento della ragione economica. Hegel letto alla rovescia ma applicato alla lettera. Questa “decostruzione” è partita dall’ambiente intellettuale più progressista, come reazione allo scacco dei grandi progetti utopistici novecenteschi, ed è stata immediatamente fatta propria da un sistema ormai totalmente auto-referenziale, che nella cancellazione della storia trova la giustificazione a violare qualsiasi regola. Distruggere o screditare il passato è il primo passo per mettere le mani sul futuro, per obbligarne gli sbocchi, negando la ricchezza di possibilità che il passato ha creato. Penso che neppure Marx pensasse di poter essere preso così alla lettera, quando affermava che l’unico vero motore del mondo è l’economia: oggi sembra senz’altro essere così, e non con la complicità della storia, ma attraverso la sua negazione.

 

Si torna dunque sempre allo stesso punto. Per frenare questa deriva sarebbe necessario ripartire dalla scuola, da una riforma radicale che conduca a modelli di istruzione unificati in tutto il continente, e capaci di avviare e alimentare al loro interno uno scambio reale, tanto di allievi che di conoscenze. É una condizione essenziale perché dal confronto delle tante storie particolari si arrivi (forse dovrei dire, si torni) a intravedere quella che per oltre due millenni ci ha uniti: e che potrebbe suggerire qualcosa per il domani. È l’unica, e probabilmente ultima, chanche.

 

  1. d) Atene e Gerusalemme. La prima elementare coscienza storica da recuperare è quella della doppia eredità. Siamo tutti figli dei greci, ma siamo anche tutti discendenti dagli ebrei. Dalla grecità ci arrivano la musica, la matematica, la metafisica, in un ordine consequenziale (ma anche i modelli estetici, le scienze naturali, il lessico fondamentale di ogni disciplina o attività). Sono discipline che per loro stessa natura, o se vogliamo per la natura dei loro linguaggi, inducono il superamento dei confini linguistici. Già alla fine del Seicento un musicista come Georg Muffat poteva scrivere due Suites orchestrali nelle quali venivano presentati brani alla francese, all’inglese, alla tedesca, all’italiana, alla spagnola, addirittura all’ olandese, pescando nei repertori, nelle differenze e nelle tipicità di ciascuna scuola, e unificando antologicamente il tutto nelle mani di una sola orchestra. E scriveva, lui di origine tedesca, in un momento in cui la Francia e l’impero erano in conflitto, che la musica poteva andare oltre le meschine e contingenti conflittualità politiche, ed esprimere uno spirito europeo fondamentalmente unico. Così come fa la matematica, che con la musica è in diretta simbiosi (rapporto tra numeri interi e toni diversi della scala, divisione ritmica del metro musicale espressa in frazioni, altezza, intensità e ampiezze dei suoni, intervalli di frequenze, ecc …).

Anche se non è originaria dell’Europa, la scienza dei numeri ha trovato nella cultura europea la sua espressione più pura. Tanto la matematica egizia, poi diffusa in tutto il vicino oriente, che quelle indiana e cinese si limitavano all’esecuzione di calcoli aritmetici anche complessi ma finalizzati a scopi essenzialmente pratici (misurazioni di lunghezze, determinazioni di peso, ecc ). La matematica come teoria generale dei numeri e scienza geometrica teoreticamente fondata è invece opera dei Pitagorici. I Greci sottraggono i problemi matematico-geometrici alle finalità pratiche e li elevano a un livello speculativo puro. E questo vale anche per le scienze che con la matematica hanno una diretta connessione e ne traducono i principi in termini di conoscenze operative, come l’astronomia e la fisica.

La speculazione matematica pura apre a sua volta le porte alla metafisica, all’indagine su ciò che non è immediatamente percepibile e non è fisicamente rappresentabile. Come dice splendidamente Steiner, la fuga dei numeri primi verso l’infinito ci rivela la convergenza tra matematica e filosofia (ma anche con la musica).

 

Questo per l’eredità di Atene. Da Gerusalemme ci arrivano invece l’autocoscienza e la percezione delle vicende umane entro un quadro storico, il dialogo con la trascendenza, l’idea di un Libro supremo, di una Legge sulla quale si fonda la morale. Si potrebbe dire che mentre dai Greci discende il senso dell’essere, dagli Ebrei arriva quello del divenire (il tempo che non si ripete neutro e uniforme, ma si carica di significato, di aspettativa e quindi di senso: da cui il cristianesimo e l’idea di progresso, lo storicismo messianico e il socialismo utopistico).

Ne L’uno e il diverso (1970), altro libricino aureo, Denis de Rougemont (un pensatore svizzero famoso soprattutto per L’amore e l’Occidente, ma che andrebbe riletto per intero) scriveva che il cristianesimo “porta la contraddizione nel cuore dell’essere, e la traduce nell’enunciato dei suoi dogmi fondamentali. (…) La Trinità trasferisce in Dio stesso il paradosso dell’uno e del diverso, mentre l’Incarnazione porta all’estremo la coesistenza dei contrari, nell’inconcepibile definizione della persona di Gesù Cristo come “vero Dio e vero uomo”, nello st esso tempo”. Anche prescindendo dalla fede che si può loro accordare o meno, “è innegabile che questi dogmi abbiano finito col tempo per sedimentare tra i popoli d’Europa delle relazioni di natura essenzialmente dialettica. L’Europa è la “patria della diversità. È nella tensione tra i diversi, talora persino contrari e contradditori, che si configura il portato politico-culturale più alto dell’avventura europea-occidentale: il ‘pluralismo’, da intendersi in un senso dinamico e di tensione permanente, e il cui l’esito finale è quello di un equilibrio tanto fragile quanto prezioso.”

Le radici cristiane sono dunque uno dei tratti fondamentali dell’identità europea, non perché abbiano creato dei valori indiscutibili e statici, ma perché hanno connotato l’esistenza occidentale in senso “drammatico”, dinamico, all’insegna dell’agonismo Questo spiega anche la pulsione costante verso l’altrove, verso l’utopia, verso cioè sempre nuovi spazi di rigenerazione. “L’Europa – scrive ancora Rougemont -, è stata e può ancora senz’altro essere la patria delle antinomie inseparabili: autorità e libertà, persona e comunità, tradizione e innovazione, destra e sinistra, nord e sud, evangelismo e ritualismo, riformismo e rivoluzione, mito e scienza, eresia creatrice e sana dottrina, bisogno di sicurezza e gusto per il rischio, conformismo che mantiene i valori e originalità che li contesta e li rinnova”.

L’ibridazione tra i due corredi genetici (quella tentata già in origine da Paolo di Tarso) non è mai completamente riuscita. Tutta la storia culturale, politica, sociale dell’occidente vede l’alternarsi del prevalere dell’una o dell’altra concezione (rinascimento pagano, puritanesimo ebraico, illuminismo e romanticismo come situazioni di compromesso) e il permanere della tensione tra le due (razionalismo storico-scientifico versus fideismo e rivelazione). Nella società europea tuttavia questa doppia polarità, al di là delle scintille che ha costantemente prodotte, ha funzionato anche da motore, ha assolto ad una funzione insieme stimolante ed equilibratrice. Di essa sembrano rimanere oggi solo i cascami, e tra questi Steiner evidenzia il particolarismo, come frutto della mappa assurdamente frammentata dello spirito europeo, e l’antisemitismo, come portato atavico del gene cristiano.

 

Più di ottant’anni fa Ortega Y Gasset spiegava così la persistenza dei particolarismi: “Questo sciame di popoli occidentali, che ha cominciato a volare sulla storia partendo dalle rovine del mondo antico, è sempre stato caratterizzato da una duplice forma di vita. È successo questo: man mano che ciascun popolo costruiva il proprio genio peculiare, fra loro, o sopra di loro, si andava creando un repertorio comune di idee, di maniere, di entusiasmi. Non basta. Il destino che li rendeva, in egual misura, progressivamente omogenei e progressivamente diversi, va inteso nella sua forma più paradossale. Perché in essi l’omogeneità non è stata senza effetti sulla diversità. Al contrario: ogni nuovo principio di uniformità fecondava le differenze nazionali. L’idea cristiana genera le chiese nazionali, il ricordo dell’Imperium romano ispira le diverse forme dello stato; la “restaurazione delle lettere” del secolo XV dà slancio a letterature divergenti: la scienza e il principio unitario dell’uomo come “ragion pura” creano stili intellettuali che modellano in modo differenziato anche le astrazioni ultime del lavoro matematico. Infine, e per colmo: persino la stravagante idea del XVIII secolo, secondo la quale tutti i popoli devono avere una costituzione identica, produce l’effetto di destare romanticamente la coscienza differenziale delle nazionalità, che viene ad essere un incitamento a ogni popolo verso la propria particolare vocazione.” Ortega rivendicava la positività di questa contraddizione a fronte della “spaventosa omogeneità di situazioni in cui sta cadendo tutto l’Occidente”, di una sensazione opprimente di asfissia indotta come causa immediata dal trionfo o dall’avanzata dei fascismi in tutti i paesi europei, ma prima ancora dall’irruzione quasi improvvisa nella politica e nella cultura tutta dell’uomo-massa. Tutto questo comunque non lo induceva ad avversare l’idea di una unità, anche statale, dell’Europa. La dava anzi per necessaria e scontata (e lo dimostrano le pagine che andrò ad allegare a questo scritto).

 

Steiner propone considerazioni quasi simili. Da linguista qual è ritiene che “Per l’Europa la minaccia più radicale – quella che colpisce alla radice – è la marea detergente, esponenziale dell’anglo-americano, sono i valori globalizzati e l’immagine del mondo che questo vorace esperanto porta con sé. Il computer, la cultura del populismo e il mercato di massa parlano americano”. E quindi, non c’è dubbio: “L’Europa morirà se non combatte per difendere le sue lingue, le sue tradizioni locali, le sue autonomie sociali.” Questo non significa, beninteso, dare corda agli egoismi localistici, ai sovranismi. Tutt’altro. “Odi etnici, nazionalismi sciovinistici, pretese regionali sono stati l’incubo dell’Europa.” L’unica cosa da mutuare dal modello americano è “un federalismo che unisce territori immensi e climi così diversi”. In sostanza, per Steiner come per Ortega il problema non è rappresentato dal sussistere delle particolarità, ma dal loro tradursi in particolarismi, sotto la spinta di motivazioni ed emozioni che hanno poco o nulla a che vedere con l’eredità storica e sono invece innescate e manovrate ad arte da squallidi interessi egoistici molto attuali. Entrambi ci dicono che le differenze, le tradizioni, le autonomie sono in realtà tutelate molto meglio, o addirittura soltanto, laddove esista l’ombrello di una organizzazione sopranazionale capace di mantenere gli equilibri e al tempo stesso non interessata (e comunque tecnicamente impossibilitata) ad interferire oltre una certa misura.

Va aggiunto, rispetto a queste considerazioni, che oggi le cose sono complicate da una ulteriore ibridazione di ritorno. Il confronto non è infatti più solo con la ramificazione culturale americana, che si è sviluppata in modo autonomo dal ceppo europeo, ma anche col modello asiatico, cinese e non solo, che ha una propria matrice tradizionale ma è stato contaminato dal duplice colonialismo culturale occidentale, quello capitalistico e quello collettivistico. In questo caso non si tratta di una aggressione linguistica, come quella paventata da Steiner nei confronti della cultura anglo-americana, ma dell’invasione di un culto delle merci, degli oggetti, che pervade in maniera più o meno pacifica la nostra quotidianità e veicola modelli comportamentali non meno devastanti e uniformanti di quelli dell’american style of life.

 

Quanto all’antisemitismo, il tema meriterebbe un discorso a parte: è troppo complesso per poter essere svolto in questa sede. Steiner stesso lo accenna appena, solo per ribadire che il movente originario è religioso, è connesso a un rancore rimasto per duemila anni nel bagaglio del cristianesimo, senza essere sostanzialmente mai rinnegato, fino a trasmigrare poi nelle fedi secolari che del cristianesimo hanno raccolto l’eredità (tanto il progressismo socialista quanto il conservatorismo fascista). Questo spiega il persistere e la periodica recrudescenza del fenomeno in una Europa che ospita ormai minoranze ebraiche numericamente insignificanti ed economicamente irrilevanti. È l’ebraismo in sé, come modo d’essere e di pensare, l’oggetto dell’odio: gli ebrei ne sono solo le vittime concrete. Per questo la scomparsa della “differenza” ebraica rappresenta una perdita irrimediabile, che va al di là dell’orrore concreto e dell’enorme peso simbolico della tragedia che l’ha determinata: perché con la sua stessa presenza l’ebreo riusciva destabilizzante rispetto all’ordine tradizionale, la sua voce era svincolata dalle obbedienze e dai culti tradizionali, critica rispetto ad ogni forma di potere e portata per natura all’innovazione,

Il risultato è un appiattimento e al tempo stesso una accelerazione della scomparsa dell’identità europea, ormai sempre più diluita nel mare della globalizzazione.

 

  1. e) Il tramonto dell’Occidente. Di fronte a questa prospettiva si danno due possibilità: ci si può rifugiare in una rassegnata impotenza, o addirittura nell’assoluta indifferenza, oppure si può pensare che qualcosa di quella identità vada salvaguardato. Il primo di questi atteggiamenti potrebbe essere confuso con la “consapevolezza escatologica” di cui parla Steiner. È vero infatti che la cultura europea è stata caratterizzata dalla costante presenza di profezie di apocalisse, di catastrofe incombente. Gli europei hanno sempre mostrato coscienza del fatto che ogni civiltà, ogni cultura, hanno una scadenza, influenzati probabilmente anche dal paradigma scientifico che andavano sviluppando, all’interno del quale il senso della fine trovava piena conferma (le leggi dell’entropia). L’attesa di uno sconvolgimento finale non è però monopolio degli europei. Anche altre civiltà, e non solo i Maya, l’hanno condivisa. La peculiarità europea consiste semmai nel fatto che la catastrofe era concepita come esito di un declino le cui origini e motivazioni erano intrinseche alla civiltà stessa, e non come un evento catastrofico generato dall’esterno. Steiner parla di “stanchezza della storia”. Forse si potrebbe dire che è una stanchezza originata proprio dalla consapevolezza storica, dal fatto che nessuna civiltà come quella occidentale ha raccolto e conservato e interpretato le tracce e le testimonianze del proprio percorso. Il racconto della decadenza degli imperi è rimasto un bestseller assoluto nella letteratura storica, prima e dopo Gibbon.

L’atteggiamento nei confronti del “tramonto” non è comunque sempre stato lo stesso, e ancora oggi si diversifica. Fino alla metà dell’800 era viva una volontà di resistenza, la speranza di una rinascita. Poi, a partire da De Gobineau, il pessimismo ha prevalso, e questa disposizione si è acutizzata dopo il primo conflitto mondiale (Spengler, Zweig, …), in concomitanza proprio con il dissolversi degli ultimi grandi imperi continentali. Una pausa di vent’anni, e il secondo conflitto e la fine di altri imperi, quelli coloniali, sono arrivati a certificare che in futuro le civiltà protagoniste della storia sarebbero state altre.

La riflessione sulla propria storia, sul proprio destino, sulle proprie responsabilità che è scaturita dal confronto con gli orrori delle due grandi guerre è sconosciuta a tutte le altre civiltà. Il collasso europeo è stato vissuto da una parte della cultura, quella di “sinistra”, quasi con voluttà, dando origine a quello che Pascal Brukner ha ironicamente definito “il singhiozzo dell’uomo bianco”. Alla cultura occidentale, e a quella europea in particolare, sono stati imputati tutti i mali del mondo odierno. Dall’altra parte, a “destra”, la resistenza al collasso convive con una quasi rassegnazione (e qui vien fuori l’eredità greca, filtrata attraverso la filosofia di Nietzsche) e in alcuni casi con l’attesa di una catastrofe totale, ma rigenerante, che illuminerebbe di senso il tutto.

 

Che fare? Mentre ripercorre il passato dell’Europa Steiner butta ogni tanto anche uno sguardo al futuro, segnalando le urgenze più immediate. La prima, improrogabile, è il recupero di dignità alla cultura. Una cultura dovrebbe essere in grado di difendere la propria dignità da sola, ma come abbiamo già visto oggi quella europea è sotto attacco da più fronti, e con le finalità più svariate: politiche, economiche e, soprattutto, di rivalsa sociale. Questo la porta a configgere anche con la democrazia, o almeno con quella versione che si identifica nell’assioma populista dell’ “uno vale uno”. “Con la cultura non si mangia” è l’equivalente solo un po’ più becero dell’affermazione di Henry Ford rispetto alla storia.

A delegittimare il ruolo sociale, politico ed economico della cultura è in primo luogo il fatto che essa non appare più indispensabile per una “realizzazione” individuale, dal momento che tale realizzazione viene misurata sul parametro del “successo”, ovvero della visibilità e del potere d’acquisto. L’ammirazione e il rispetto (ma anche l’invidia) un tempo riservati a chi deteneva particolari saperi si sono spostati, all’interno della logica consumistica, verso chi arriva alla ribalta, sia pure per un attimo, per vie che non comportano alcuno sforzo di conoscenza particolare: ciò che consente a chiunque di identificarsi e di nutrire ambizioni a impegno zero. Se mai c’è stato un annullamento, sia pure solo virtuale, delle differenze, bisogna riconoscere che è quello prodotto dalla società dello spettacolo. Lo si è ottenuto azzerando quelli che sino a ieri erano considerati valori, livellando le aspettative solo verso il basso.

Steiner parla invece della necessità di tornare a riconoscere il ruolo delle “aristocrazie dello spirito”. Facendo scendere lo spirito di qualche gradino possiamo ricondurre il discorso al tema della “rivolta delle élites”, o meglio ancora di quella “contro le élites”. Le élites, europee e non, e segnatamente quelle progressiste (la cosiddetta sinistra), sono oggi accusate di aver perso il contatto con gli umori, i desideri, le difficoltà di un “popolo” disorientato dall’automazione, dal trionfo del virtuale e dalla globalizzazione, ma anche dagli spazi di opinione e di potere che apparentemente gli sono stati spalancati. L’imputazione di “tradimento” è mossa perché, in nome di un’idea di ‘progresso’ che ha preso le sembianze di un crescita soprattutto materiale, sono stati promossi tutti quei caratteri della modernità che hanno distrutto i vecchi collanti sociali, le sicurezze derivanti dallo spirito comunitario, dalle appartenenze identitarie, dal senso della famiglia, dalla codificazione dei ruoli di genere. Avrebbero cioè rotto quel patto di coesistenza tra élite e popolo che è alla base delle democrazie moderne (sono i temi dei saggi di Christopher Lasch, il più famoso dei quali si intitola proprio La ribellione delle élites).

Ora, questa percezione, l’idea cioè che i circoli elitari dall’alto di una condizione privilegiata e garantita guardino alla realtà in una prospettiva totalmente autoreferenziale, e se la raccontino tra di loro, è quotidianamente confermata da ciò che passa in televisione o si legge sui giornali. Ma occorre distinguere. Da un lato c’è una realtà di fatto: le pur assolutamente condivisibili battaglie per i diritti civili e per le tutele delle più disparate minoranze sono state condotte dando ormai per scontata l’affermazione di un diritto fondamentale, quello alla sopravvivenza dignitosa, che le crisi ormai ricorrenti mettono invece costantemente in forse, e ignorando un sentire comune che ancora non si è liberato dal bisogno di puntelli storicamente consolidati (la famiglia, ad esempio). Dall’altro c’è che la repentina conversione di massa alla religione del consumo, frutto della martellante predicazione dei media e avvenuta senza il filtro di una minima educazione alla scelta critica, ha indotto una percezione distorta della povertà, del disagio e delle diseguaglianze. In tutto questo c’è senz’altro una responsabilità degli intellettuali, che di fronte alla prospettiva di essere sostituiti quali guide spirituali dai nuovi astri emergenti, dello sport, dello spettacolo, della moda, si sono velocemente adeguati ai modelli comunicativi imposti dai media, illudendosi nel migliore dei casi di poter sfruttare quegli stessi media per veicolare contenuti alti, e piegandosi nel peggiore alla venalità e alla smania di protagonismo. Questo ha ridotto il dibattito a spettacolo, lo ha degradato a rissa e ha banalizzato qualsiasi idea. In questo modo la gran parte dell’élite intellettuale ha screditato se stessa, e nel contempo ha portato a termine la demolizione d’ogni principio e idealità, alimentando la convinzione che tutte le conoscenze in fondo si equivalgano, e nessuna offra certezze.

Il risultato è il disconoscimento della necessità di competenze specifiche per trattare ogni tipo di problema di interesse pubblico, ciò che sul piano politico si traduce ad esempio nella richiesta del passaggio ad una fantomatica e fumosa democrazia diretta, quella in cui appunto l’uno vale uno.

 

Una risposta lucida a queste accuse l’aveva però già data ottanta anni fa Ortega y Gasset: “Il fatto caratteristico del momento è che l’anima volgare, riconoscendosi volgare, ha l’audacia di affermare il diritto della volgarità e lo impone dovunque […] Ebbene: esistono nella società operazioni, attività, funzioni dei più diversi ordini che sono, per la loro stessa indole, speciali, e di conseguenza non possono essere eseguite senza qualità anch’esse speciali. Ad esempio: […] le funzioni di governare o di giudicare politicamente sugli affari pubblici. Prima queste attività speciali erano esercitate da minoranze qualificate – o che presumevano di essere tali. La massa non pretendeva di intervenire in esse: si rendeva conto che per farlo avrebbe dovuto effettivamente acquisire quelle doti e cessare di essere massa.”

È difficile sintetizzare in maniera più efficace il processo in corso. Naturalmente Ortega non intendeva difendere posizioni cristallizzate di privilegio: “Quando si parla di minoranze elette (élites, appunto) il consueto malcostume è solito equivocare il senso di questa espressione, fingendo di ignorare che l’uomo selezionato non è il petulante che si crede superiore agli altri, ma colui che esige più degli altri… e accumula sopra se stesso difficoltà e doveri.” Col che il termine aristocrazia torna al significato originario, il “tradimento” assume un altro significato e le élites telegeniche sono estromesse da ogni discorso serio,

 

Per Steiner il compito attuale delle aristocrazie europee dello spirito (che esistono ancora, a dispetto di tutto) dovrebbe essere di tentare le “audacie dell’anima”, impossibili dove l’imperativo unico (secondo il modello americano ma oggi anche asiatico-americano) è diventato fare soldi e riempire con quelli l’esistenza di beni materiali. L’audacia sta nell’anteporre la ricerca disinteressata della verità, la realizzazione della conoscenza e la creazione della bellezza al perseguimento dell’utile immediato. Insomma, il loro ruolo rimane sostanzialmente invariato: a mutare è la concezione di “progresso” della quale dovrebbero farsi portatrici.

Può sembrare un appello persino un po’ patetico, un rifugiarsi nell’utopia di fronte alla desolante consapevolezza di una situazione di non ritorno. È la prima obiezione che viene mossa ad ogni tentativo di indicare soluzioni controcorrente. Ma Steiner non vive affatto sulle nuvole, e prova anche a suggerire, sia pure in maniera molto vaga, scenari alternativi. Parte comunque dall’unica consapevolezza inconfutabile, quella per cui proseguendo lungo la strada attuale l’Europa non può che andare a perdersi totalmente, sotto ogni profilo. Tanto vale, allora, avere il coraggio di sognare “fuori”, partendo comunque dalla realtà.

Il ritardo economico che l’Europa sta cumulando, ad esempio, potrebbe tradursi in una opportunità proprio perché forse consente ancora, almeno in una certa misura, di fare marcia indietro. “Chissà, in una maniera che è difficile prevedere l’Europa darà il via ad una rivoluzione contro-industriale, pur avendo essa stessa dato inizio alla prima rivoluzione industriale” scrive Steiner. Per creare questa possibilità è però necessario prima di tutto sottrarre i nostri migliori talenti alle sirene non solo economiche che cantano da oriente e da occidente, trattenere o richiamare quei cervelli in fuga che vanno ad alimentare fuori d’Europa una ricerca tutta indirizzata al profitto o alle strategie egemoniche. Bisogna offrire loro prospettive reali di mettere a frutto, in ogni senso, capacità e interessi. Occorre quindi riformare le istituzioni universitarie, le agenzie di ricerca, e più in generale tutto il sistema dell’educazione secondaria.

Riformare ha senso però se si ha in mente un progetto di grande respiro, che vada a toccare ogni aspetto della futura società. In cosa potrebbe consistere questa “rivoluzione contro-industriale” è difficile a dirsi, ma non impossibile. Potrebbe ad esempio avere a che fare con un uso diverso del territorio (a partire da una contro-rivoluzione agricola, nel senso di una razionalizzazione produttiva che governi il mercato, e non ne sia governata), con lo studio e la sperimentazione di nuovi materiali per le costruzioni e per gli imballaggi, con sistemi di riciclaggio integrale, con l’applicazione di tecnologie ad impatto reversibile, con modelli produttivi, abitativi e di locomozione a basso consumo energetico: insomma, con investimenti in conoscenza destinati a diventare strategici di fronte al degrado che il sistema attuale sta creando. Il risultato non riguarderebbe solo le merci, i prodotti, ma prima di tutti i produttori e i consumatori: si tratta di modificare l’etica del consumo, e l’estetica che lo induce. Un aumento generalizzato di conoscenza, e soprattutto il recupero almeno parziale di dominio sugli oggetti che questa consente, ci emanciperebbe dalla schiavitù che si sta invece creando nei loro confronti, e fornirebbe un conforto spirituale la cui mancanza viene invece oggi compensata con la corsa a quelli materiali. Un livello qualitativamente e quantitativamente più alto di istruzione è l’unica arma per affrontare una diminuzione del benessere materiale. In questo senso il ritardo economico cumulato dall’Europa potrebbe rivelarsi alla lunga lo stimolo per un drastico cambiamento di rotta: è ciò che si chiama fare di necessità virtù.

 

Quanto infine al progressivo allontanamento dalla religione, e alla possibilità di darne una lettura positiva, sarei meno ottimista di Steiner. L’impressione è che in assenza di una solida corazza culturale, e nella prospettiva che saranno sempre meno quelli intenzionati a costruirsela, il vuoto lasciato dalle certezze e dalle consolazioni religiose venga comunque riempito con tutta la paccottiglia che l’industria del condizionamento al consumo è in grado di gettare sul mercato. Le nuove forme di religiosità profana le abbiamo sotto gli occhi, le possibilità di una loro radicalizzazione sono testimoniate dagli integralismi alimentari o animalistici come dal tifo calcistico. E laddove non ci siano neppure queste, rimane comunque trionfante la religione del possesso e del consumo velocissimo di beni, che ha già elaborato le sue liturgie (il pellegrinaggio all’outlet), le sue festività (i saldi, i lanci delle versioni più innovative di un prodotto), i suoi ministri con relative gerarchie (dallo stilista al testimonial al commesso di boutique). Magari non si sgozzerà nessuno per motivi religiosi, ma già si uccide senza tanti problemi per un telefonino o per un paio di scarpe firmate.

L’europeismo non deve dunque diventare un surrogato della fede religiosa. È una idealità strumentale, il percorso obbligato per garantire a mezzo miliardo di persone una vita all’insegna della pace, della libertà e di opportunità equamente distribuite. Come tale deve essere assunto e praticato in immediata connessione con la sua finalità.

Considerazioni finali. L’intento originario di questo scritto non era di formulare ipotesi su una possibile nuova configurazione istituzionale dell’unione europea, ma di verificare se oggi, in un contesto mondiale globalizzato sotto tutti gli aspetti, ha ancora senso pensare ad una realtà europea storicamente e culturalmente autonoma, e se mai lo ha avuto. E tale intende rimanere, anche se è evidente che dal tipo stesso di analisi condotta discendono ipotesi su come potrebbe essere per il futuro.

I destinatari dichiarati sono gli attuali ventenni. Non per una forma ipocrita di giovanilismo, un atteggiamento che detesto dal più profondo del cuore, ma perché per naturale avvicendamento saranno loro a vedersela domani con le scelte di oggi, e saranno ancora loro e quelli che verranno dopo di loro a pagarle, se errate. Mi sembra doveroso, nei limiti mie modeste possibilità, fornire un minimo di informazione e qualche stimolo alla riflessione.

Credo che questi ragazzi stiano pagando un dazio molto più alto di quello che solitamente grava sui travasi generazionali delle idealità. Le transizioni non sono mai state indolori, molto andava perso, molto veniva rifiutato: ma alla fine qualcosa rimaneva. Oggi l’eredità trasmessa è il nulla, anzi, quella confezione patinata del nulla che distoglie dal desiderare il vero. Un pensiero debole che prometteva il ritorno all’autenticità originaria, una volta venuto al dunque rivela tutta la sua inconsistenza, e spinge per reazione i giovani ad abbracciare “idee forti”, o presunte tali.

Negli anni Venti del secolo scorso un letterato francese, Ramòn Fernandez, descriveva così una gioventù scombussolata dalle trasformazioni dell’immediato dopoguerra, insofferente delle lezioni del passato e alla ricerca di nuovi vessilli da issare: “Strana generazione, che in nome di una libertà incondizionata sta preparando servitù di inaudito rigore.” Una considerazione che avrebbe potuto valere anche in altre epoche e per molti altri passaggi generazionali, ma che in quel frangente si rivelò quanto mai lucida.

Ho l’inquietante sensazione che la cosa stia nuovamente accadendo, che sia già in atto. La storia non si ripete, ma spesso fa rima.

 

La domanda che arriva al termine di questo estemporaneo excursus è dunque: si arriverà finalmente alla costituzione di un’unione politica europea? Leggendo le pagine di Ortega y Gasset riportate in calce a questo scritto si dovrebbe essere confortati rispetto alla sua ineluttabilità. Ma al tempo stesso tremano i polsi, perché queste pagine sono state scritte nel 1938, alla vigilia della guerra più devastante che l’Europa e il mondo intero abbiano mai conosciuto. L’impressione è che ci sia bisogno di tragedie ricorrenti per alimentare questa fede, e il modo semplicistico col quale i problemi dei rapporti interni al continente vengono oggi affrontati, la miopia collettiva rispetto ai pericoli di colonizzazione che arrivano dall’esterno, la violenza, non più solo verbale, che sembra animare ogni tipo di confronto non lasciano affatto sperare bene.

 

Non credo dunque all’ineluttabilità di cui parla Ortega, tanto più avendo presente ciò che accaduto negli ottant’anni che ci separano. Che il tentativo di unificazione sia sostanzialmente fallito, anche se ha comunque garantito al continente una stabilità quale mai aveva conosciuta nella sua storia, è evidente già solo per il fatto che stiamo qui a parlare della eventualità di una chiusura dell’esperimento europeista e a cercare di scongiurarla. Il modo migliore per evitare che questo fallimento trascini con sé tutte le idealità e le speranze che hanno alimentato da secoli il pensiero e l’azione degli europei più consapevoli è quello di guardare bene in faccia la realtà, e di separare l’immagine fallimentare che abbiamo davanti da quella coltivata nei propositi.

Quali fossero i propositi, un secolo fa, nell’immediato primo dopoguerra, lo testimoniano le parole di un pensatore, Andrea Caffi, che quanto ad aristocrazia spirituale ne aveva da vendere, e infatti è stato praticamente rimosso), e che sulla necessità che fosse questa aristocrazia a guidare una auspicabile unificazione la pensava esattamente come Steiner. Quelle riportate in appendice sono solo un brevissimo stralcio di una riflessione portata avanti per decenni, in mezzo all’indifferenza o addirittura all’insofferenza generale.

Quanto allo stato reale dell’europeismo col quale ci confrontiamo oggi, è benissimo fotografato da H. M. Enzensberger in un libello violentemente polemico (Il mostro buono di Bruxelles, 2011) nel quale attacca l’establishment europeo, denunciandone la totale autoreferenzialità. È stato accusato naturalmente di antieuropeismo, ma l’accusa potrebbe riguardare al più i toni, non certo la sostanza della sua denuncia, che va anzi assunta in blocco se si vuole seriamente ripensare l’opportunità di una unione che davvero rispecchi le idealità.

Riporto dunque in appendice anche un’intervista rilasciata dallo stesso Enzensberger in occasione della pubblicazione in Italia del suo pamphlet: ma voglio anticiparne qui poche righe, affidando ad esse la conclusione, perché mi sembrano tradurre in una esperienza immediata e concreta tutto ciò sin qui ho cercato di dire. “Io diventai europeo abbandonando l’Europa. Con mio grande stupore scoprii, ogni volta che tornavo dalla Siberia, dall’America Latina, dall’Est asiatico o dalla California, un sentimento sconosciuto: i piaceri del patriottismo. Ovunque atterrassi – fosse Budapest, Roma, Amsterdam, Madrid o Copenhagen – ero sopraffatto dal sentimento sicuro di essere arrivato a casa. Ciò che vissi in questo modo non era affatto un pensiero, non era un’idea platonica. Era per un verso una certezza sensibile, distinta e inconfondibile come un odore familiare, e per l’altro una trama sottile e fitta di realtà sociali.

 

Appendice 1

 (Aggiunta fuori testo)

 

Sin dal primo approccio col libretto di Steiner mi sono chiesto come mai l’autore non avesse inserito tra i suoi “assiomi” il concetto occidentale di amore, che mi sembra avere in effetti tutte le caratteristiche per costituire una peculiarità della cultura europea, se non addirittura per esserne fondamento. Mi riferisco a quella nascita dell’amore-passione di cui Denis de Rougemont parla ne L’Amore e l’Occidente, rintracciandone la prima compiuta espressione letteraria nella storia di Tristano e Isotta. Secondo de Rougemont il mito di Tristano esprime un amore fine a se stesso, l’amore per l’amore, e non per l’altra persona coinvolta nel rapporto. Si tratta quindi di un sentimento narcisistico, che pone l’enfasi più sulla crescita spirituale dell’amante che sulla relazione con la persona amata. Questa crescita avviene attraverso l’ interposizione masochistica di sempre nuovi ostacoli al raggiungimento dell’oggetto del desiderio (la distanza dall’amata, le convenzioni, le leggi dell’onore, ecc …), dietro la quale non c’è alcuna reale determinazione al superamento. Il vero amore, l’amore perfetto, quello che nel De amore Andrea Cappellano chiama fin’amor, ha come unico scopo non la realizzazione, il congiungimento fisico e spirituale, ma il perfezionamento morale dell’amante. Guinizelli dirà che “medesmo amor per lei rafina meglio”, e Dante ne farà il centro della sua poetica, dalla Vita Nova al canto V dell’Inferno, addossando la responsabilità (o il merito?) di una trasgressione proprio al romanzo di Tristano e Isotta. È dunque un amore-martirio che non ha nulla di sensuale (mentre è decisamente erotico), destinato per volere stesso dell’amante all’infelicità.

De Rougemont considera lo sviluppo del mito della passione (cioè, letteralmente, dell’amore-sofferenza) come origine di un travisamento radicale e di una mortificazione delle forze in gioco nella sfera amorosa. Parla di un “‘amore senza amore”, mosso dal timore di innamorarsi in un modo semplice e diretto, di cedere alla tentazione materiale, le cui origini sono da ricercarsi nella religiosità catara (che a sua volta avrebbe radici nel manicheismo, e prima ancora nel dualismo gnostico). E fa discendere da questo mito ogni possibile conseguenza nefasta: dal disprezzo nei confronti del matrimonio alla più universale violenza che la passione, in quanto desiderio deviato, necessariamente genera. Una volta che l’amore è stato pervertito in amore di sé e in costante ricerca di ostacoli, questa ricerca non tollera più limiti: la violenza crescente delle guerre, da ultime quelle coloniali e quelle mondiali, e le stragi conseguenti, ne danno a suo parere la terrificante testimonianza.

Ora, senza seguire De Rougemont nella sua catastrofica analisi, e indipendentemente dal fatto che venga letta in una luce positiva o in negativo, questa concezione dell’amore è data unanimemente per originale. Io la riassumerei così: l’amore che nasce con i trovatori (l’amor cortese) non è amore per la donna, ma amore per se stessi.- la donna è in fondo solo lo specchio nel quale spiamo la nostra immagine – e si sostanzia di ostacoli, di separazioni, di rinunce che agiscono sulla nostra condizione interiore. A differenza di quanto accade per il sentire diffuso nelle civiltà non europee, e in parte anche in quella europea pre-cristiana, nelle quali i parametri sono la stima e l’ammirazione altrui, l’europeo si confronta sempre con se stesso. Questa continua operazione di autoanalisi e di autocontrollo conduce dritti dritti, per un percorso lungo e complesso, che non è qui il caso di ricostruire ma che mi sembra abbastanza intuitivo, all’etica, e quindi all’imperativo categorico kantiano: l’uomo libero risponde prima di tutto a se stesso. Si potrebbe obiettare che una concezione analoga è rintracciabile anche in alcune culture orientali, ad esempio in quella buddista: ma in quel caso la liberazione è ottenuta attraverso progressive sottrazioni, mentre nella concezione occidentale è frutto di un esercizio interiore accrescitivo.

Non so perché Steiner non abbia preso in considerazione questo elemento peculiare e fortemente caratterizzante della civiltà europea, ma non posso credere che non lo avesse ben presente. Forse, anzi, lo aveva talmente presente da rendersi conto delle ambiguità interpretative cui si presta (De Rougemont ne è un esempio lampante), che possono dar luogo tanto ad una presunzione di superiorità della cultura occidentale quanto ad una sua demonizzazione (quella in effetti operata, più ancora che da De Rougemont, da tutto il pensiero post-moderno). Forse, intelligentemente, ha preferito non cacciarsi in un inutile ginepraio. E credo sarà meglio anche per me seguirne l’esempio.

Appendice 2

Andrea Caffi

Sul tramonto della civiltà europea

in “La Vita delle Nazioni”, I, n. 6-7, 15 ottobre 1925

 

[…] O si riconosce che la guerra mondiale ha provocato tali convulsioni nel corpo sociale, da rendere inevitabile “un’era di disfacimento, di torpore tedioso, di sterilità degradante; oppure si deve lavorare per raccogliere le forze e combattere il ‘male’: una gravissima crisi dalla quale uno sforzo d’intelligente volontà ed il non estinto amore della vita ci possono salvare

L’Unione degli Stati dell’Europa in un superiore ‘corpo politico’ giuridicamente definito e provvisto di organi e mezzi per governare effettivamente, d’un tratto farebbe svanire l’incubo della ‘mala guerra’ e subito (cioè fino dalla prima fase – molto lontana dalla trasformazione in veri “Stati Uniti’ – e quando la famigerata sovranità dei singoli membri della Confederazione sarebbe appena intaccata) abolirebbe le questioni stesse che oggi sono atri d ‘uragani: il ‘corridoio polacco’, la necessità d’uno sbocco al mare […], il trattamento delle minoranze nazionali, […] ma soprattutto ogni distinzione fra vincitori e vinti del 1918 […]. Ad un momento ulteriore è presumibile attribuire la totale unificazione del mercato interno europeo e una soluzione del problema coloniale […]

Se vogliamo sul serio salvare la società dalle guerre, dai governi totalitari e da tutte le bestialità che questi due aspetti d’un medesimo fenomeno implicano […] bisogna abbattere al più presto l’idolo della nazione; in particolare l’Europa sarà ridotta allo stato di ‘giungla’ (terreno per tigri e grossi cacciatori) se non si rinuncia radicalmente alle ‘sovranità nazionali’, agli orgogli e ‘sacri egoismi’ patriottici, alla superstizione della solidarietà etnica in nome della quale bisogna uccidere e morire.

La nazione come patrimonio culturale (lingua, “memorie comuni”, costumi, nella misura della nostra vita planetaria) si deve dissociare da qualsiasi formazione politica, privare completamente d’ogni mezzo di coercizione e suoi “membri” – che tali saranno unicamente per spontanea e revocabile adesione. Se non si secolarizza la nazione (oggi adorata e satollata di vittime umane come qualsiasi Moloch o Geova) secondo le stesse linee con cui il liberalismo ha assicurato la libertà di coscienza ed il libero esercizio di tutti i culti, è inutile voler edificare – nel quadro dello Stato nazionale essenzialmente barbaro – un regime di libertà e di giustizia sociale. E naturalmente le Nazioni Unite sono una tragica buffonata purtroppo peggiore – perché fatta con più evidente malafede – che la defunta Società delle Nazioni. La tesi dell’internazionale socialista è stata sempre l’abolizione delle frontiere e della nozione stessa di ‘straniero’. Se per ragioni ovvie conviene che ogni regione abbia un suo autonomo governo, bisogna stabilire fra i vari ‘paesi’ patti non di semplice “amicizia, non aggressione” etc. – ma di completa “simpolitia” (usando un vocabolo che definiva l’unione per esempio fra Atene e Samo) per cui cioè, senza formalità alcuna, il ‘cittadino’ d’un paese trasferendosi in un altro vi godrà degli identici diritti che gli ‘indigeni’ di quello”. È implicito che ciò comporti un mutamento radicale di tutto l’apparecchio giuridico, poliziesco, amministrativo (quello militare dovendo semplicemente scomparire) che si riassume ora nello “Stato”.

 

 

Appendice 3

José Ortega y Gasset

da La ribellione delle masse (1929)

il testo è tratto dal Prologo per i francesi premesso all’edizione del 1937

 

Da secoli, e con intensità crescente, esiste un’opinione pubblica europea – e anche una tecnica per influenzarla. Per questo motivo raccomando al lettore di risparmiarsi il sorriso maligno quando vedrà che negli ultimi capitoli di questo volume, con qualche audacia, di contro alla tendenza opposta che inducono le apparenze attuali, si afferma come possibile, come probabile, l’unità statale dell’Europa. Non nego che gli Stati Uniti d’Europa siano una delle fantasie più a buon mercato che esistano e non mi sento solidale con quello che altri hanno pensato sulla traccia di questi segni verbali. Ma d’altra parte è sommamente improbabile che una società, una collettività così matura come quella che già adesso formano i popoli europei sia lontana dal crearsi un qualche suo meccanismo statale che formalizzi l’esercizio del potere pubblico europeo già esistente. Non è dunque un cedimento alle sollecitazioni della fantasia né la propensione ad un idealismo che detesto, e contro il quale ho combattuto per tutta la mia vita, ciò che mi induce a pensare in questo modo. È il realismo storico che mi ha insegnato a vedere che l’unità d’Europa come società non è un “ideale”, ma un fatto di antica quotidianità. Così, una volta considerato tutto ciò, la probabilità di uno Stato generale europeo si impone necessariamente. […]

La figura di questo stato sopranazionale, sarà, è evidente, molto diversa da quella consueta […] Occorre rendersi conto che da molti secoli – e consapevolmente da quattro secoli – tutti i popoli europei vivono soggetti a un potere pubblico che per la sua stessa purezza dinamica non tollera altra denominazione che quella tratta dalla scienza meccanica: l’ “equilibrio europeo”, o balance of power.

Questo è l’autentico governo europeo, che nel suo volo attraverso la storia regola lo sciame di popoli Reattivi e battaglieri come api, scampati alle rovine del mondo antico. L’unità d’Europa non è una fantasia, ma la realtà stessa, e la fantasia è precisamente l’altra. È il credere che la Francia, la Germania, l’Italia o la Spagna siano realtà sostanziali e indipendenti.

È comprensibile nondimeno che non tutti percepiscano con evidenza la realtà dell’Europa, perché l’Europa non è una “cosa” ma un equilibrio. Già nel settecento lo storiografo Robertson chiamò l’equilibrio europeo the great secret of modern politics.

Un segreto grande e paradossale, non c’è dubbio. Perché l’equilibrio, o la bilancia dei poteri, è una realtà che consiste essenzialmente nell’esistenza di una pluralità. Se questa pluralità si perdesse, quella unità dinamica svanirebbe. L’Europa è effettivamente uno sciame: molte api e un solo volo.

Tale carattere unitario nella magnifica pluralità europea è ciò che io chiamerei la buona omogeneità, quella che è feconda e auspicabile, quella che già faceva dire a Montesquieu: l’Europe n’est qu’une nation composée de plusieurs, quella che induceva Balzac, più romanticamente, a parlare della grande famille continenntale, dont tous les effort tendent à je ne sais quel mystère de civilisation.

 

 

Appendice 4

Hans Magnus Enzensberger

Il mostro buono di Bruxelles (2011)

intervista rilasciata a Luigi Mascheroni per Il giornale, in occasione dell’edizione italiana (2013)

 

Quando l’idea di Europa mi raggiunse per la prima volta, avevo vent’anni. Le macerie non erano ancora state rimosse, qua e là si avvertiva ancora l’odore di bruciato della Seconda guerra mondiale. Quello che allora in Germania si chiamava il pensiero europeo mi apparve subito sospetto, come un trucco dall’arsenale dei borsaneristi. La prontezza con cui ci si apprestava a scambiare l’uniforme dell’orribile tedesco con la giacca dell’europeo mi sembrava assolutamente sinistra. Inoltre, il tessuto col quale era confezionato l’abito era vecchio e logoro: odorava di storia dello Spirito. Tutto sommato, un travestimento piuttosto ingenuo, tanto più che dietro l’idealismo consunto si celavano interessi consistenti.

L’idea di Europa negli anni Cinquanta serviva ad addolcire la pillola amara del riarmo e a mascherare la continuità dei grandi affari: si issava la bandiera europea, si distribuivano premi Karl, si tenevano comizi domenicali e ci si appellava, come se nulla fosse accaduto, all’umanesimo.

Io diventai europeo abbandonando l’Europa. Con mio grande stupore scoprii, ogni volta che tornavo dalla Siberia, dall’America Latina, dall’Est asiatico o dalla California, un sentimento sconosciuto: i piaceri del patriottismo. Ovunque atterrassi – fosse Budapest, Roma, Amsterdam, Madrid o Copenhagen – ero sopraffatto dal sentimento sicuro di essere arrivato a casa. Ciò che vissi in questo modo non era affatto un pensiero, non era un’idea platonica. Era per un verso una certezza sensibile, distinta e inconfondibile come un odore familiare, e per l’altro una trama sottile e fitta di realtà sociali. Non voglio derubricare questa esperienza sotto il concetto di cultura; mi risulta troppo ambiguo; perché la certezza di cui parlo aveva poco a che fare con l’Acropoli, con le lezioni di Hegel o con la Cappella Sistina. Non dipendeva dai monumenti. Ciò che intendo è più modesto e si spinge più in profondità di qualsiasi guida turistica. Si può trovare nella piccola locanda dietro l’angolo, al mercato, ai bordi di un sentiero di campagna, sul tram, alle manifestazioni, dagli antiquari, vicino ai tavoli di cucina; e lo ritrovo nei gesti e nelle abitudini, nella proteste e nei desideri quotidiani della gente che vive qui. Non è necessario ricordare che queste particolarità non implicano superiorità. Fossi stato un musulmano a ogni atterraggio ad Algeri o a Karachi avrei fatto di sicuro una scoperta analoga.

Col patriottismo che ho in mente non si può fare nessuno Stato, e non serve a sgravarci dall’eredità specifica che ognuno si porta dietro. È da decenni che mi sorprendono certi predicatori erranti che non si stancano mai di lagnarsi del declino della cultura europea. In Occidente, dicono, saremmo minacciati da un’inarrestabile americanizzazione. A fornirne una prova sarebbero le bibite rinfrescanti, i giocattoli e le pietanze di carne tritata. Nell’Europa dell’Est sarebbe addirittura comparsa una nuova razza, l’uomo sovietico. Mi chiedo se questi autori abbiano mai attraversato una strada in Europa, e per me rimane un enigma dove vivano. Propongo a questi pensatori una scommessa semplice semplice: mi si bendino gli occhi e mi si porti in una qualsiasi città europea. Scommetto che non confonderei nessun luogo, tra Lisbona e Cracovia, con Novosibirsk o Indianapolis.

Naturalmente, alle particolarità di cui parlo si può dare questo o quel nome. Non sono un nemico delle teorie, anche se spesso la scelta tra teorie mi risulta difficile. Tutt’al più, vorrei riallacciarmi alla tradizione filosofica inglese e scozzese, e designare il fenomeno di cui ci stiamo occupando col vecchio nome di civil society, di società civile europea. È lei che finora, dilaniata, fiaccata, oppressa, continuamente travolta dalle contraddizioni, è sempre sopravvissuta, ed è lei che l’Europa deve ringraziare per ciò che negli anni Quaranta nessuno avrebbe considerato possibile: una vita dopo la morte – dopo quella catastrofe morale, politica ed economica, apparentemente totale, che i tedeschi avevano inflitto a questo continente.

In ogni caso, tutte le tesi che è possibile costruire sull’Europa vanno a cozzare contro un limite che è nella natura dell’oggetto. Questa resistenza peculiare emerge molto nettamente se confrontiamo il nostro continente con i grandi imperi del presente: gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e la Cina. Al contrario di questi grandi regni, l’Europa non è mai stata una nazione, mai uno Stato, e non è un fatto solo politico, religioso e linguistico, ma anche una circostanza che caratterizza la nostra cultura e la nostra coscienza.

Tentativi di assoggettare il continente a un unico dominio, dai Cesari romani fino a Napoleone e infine a Hitler, non sono certo mancati. Ma non può essere un caso che questi tentativi siano tutti falliti. Ogni centralismo è antieuropeo o, per dirla con le parole del grande storico Jacob Burckhardt: «Una sola cosa è sempre stata letale per l’Europa: lo schiacciante monopolio di potere di uno Stato, proveniente dall’interno come dall’esterno. Ogni tendenza livellatrice, sia essa politica, religiosa o sociale, è mortalmente pericolosa per il nostro continente. Ciò che ci minaccia è l’unità imposta; ciò che ci salva è la nostra molteplicità». Chi non sa o non vuole rispettare questa eterogeneità – e ciò significa anche l’autonomia del singolo rispetto al tutto – è un cattivo europeo. Questo vale anche per la politica interna, ed è valido a tutt’oggi. Come si può riconoscere nell’esempio irlandese, basco, transilvano o kosovaro.

In questo senso, ciò che viene definito il declino dell’Europa nella politica mondiale è un colpo di fortuna che permette al continente di ritrovare finalmente se stesso. Da più di quarant’anni ormai non vengono sollevate pretese territoriali sul suolo d’Europa. La guerra per i confini è diventata impensabile. Nella nostra storia, questo non si verificava dai tempi di Carlo V, e si può spiegare solo con il fatto che i nostri sogni di grande potenza si sono dileguati. Quasi tutti i popoli europei, nel corso dell’ultimo millennio, a un certo punto si sono abbandonati al delirio imperiale, non solo gli inglesi e i francesi, ma anche i portoghesi, i danesi, gli olandesi, gli svedesi, per non parlare proprio degli eterni latecomers, i tedeschi, la cui furia omicida è stata solo l’ultima e più sanguinosa serie di assalti per conquistare il primo posto. Con la sconfitta di simili illusioni viene a e inevitabile che ogni ambizione imperiale porta con sé. Per dare il colpo di grazia a questa stupidità, è forse consigliabile considerare il continente nell’ottica non delle grandi nazioni, ma di quelle piccole; non del centro, ma della periferia. A chi sceglie una prospettiva del genere risulterà più facile capire dove conduce il viaggio.

Naturalmente, non si dovrebbe sopravvalutare la capacità di apprendimento dei potenti. Tra noi sono ancora abbastanza le persone che continuano ad abbandonarsi ai vecchi sogni e a trincerarsi dietro al progetto europeo per attuare le loro ambizioni megalomani. La loro mania è la grande tecnologia, e cioè viaggi nello spazio, armamenti, frenesia nucleare: bigness as usual. Ci vogliono assolutamente saldare insieme perché solo uniti siamo grandi e forti. L’ideale che inseguono consiste nel renderci come i giapponesi, una premura alla quale, credo, non si possano accordare grandi prospettive. Infatti, se proprio dovessi azzardare una tesi sulla condizione dell’Europa, sarebbe questa: la società civile europea è molto più avanti dei suoi governi, dei suoi apparati politici, partiti e istituzioni. Ho capito quali chance possiede, e queste chance sono ovunque, tranne che nel diventare un mammut tra i mammut.

Connessa alla sproporzione tra la società civile europea e la classe politica che la rappresenta è anche una certa delusione, diffusa tra gli abitanti del continente. Questo malumore si rivolge soprattutto alle condizioni della Comunità Europea. Non so se i politici avvertano chiaramente con quanto sdegno oggi la maggioranza degli europei occidentali reagiscano alla parola “Bruxelles”. Le commissioni, i consigli e i comitati si gingillano allegramente nei loro palazzi di vetro, e non sembra disturbarli il fatto che la loro attività sia considerata sempre più un manicomio dispendioso. Nell’ombra della sua miseria, sembrano dileguarsi anche i successi incontestati della Comunità, come lo smantellamento delle barriere commerciali, gli accordi valutari, la pianificazione industriale, le norme di sicurezza per i voli aerei o le dimensioni delle viti. Nessuno ha da ridire su queste prestazioni. Ma le istituzioni europee accampano la pretesa di essere più di semplici organi amministrativi. In effetti, operano scelte politiche di vasta portata ma, in quest’ottica, trent’anni dopo i Patti di Roma, si deve constatare che il progetto della Comunità è fallito.

Le rituali lagnanze sull’egoismo nazionale degli stati membri, che ci tocca ascoltare da allora, non bastano a spiegare la sconfitta: infatti, la composizione degli interessi, il compromesso, il tanto denunciato traffico illecito fanno parte della normalità politica di ogni società aperta. Le condizioni avvilenti delle istituzioni europee hanno una causa molto più semplice, così elementare da restare sempre inosservata: a queste istituzioni manca la legittimazione democratica. Sono rimaste disperatamente indietro rispetto alla consapevolezza politica degli europei, e la loro arretratezza si può facilmente quantificare: risulta di circa centocinquant’anni.

La Comunità si trova in uno stato precostituzionale, come se l’Europa vivesse ancora nell’anno di grazia 1848. In questa Comunità, chi ha qualcosa da dire non è eletto, e chi è eletto non ha niente da dire. La Commissione non è responsabile di fronte al Parlamento europeo, non può essere destituita e la Comunità si sottrae a un diretto controllo democratico. Questo naturalmente risulta molto comodo per la classe politica.

Finalmente ha un’istituzione in cui i popoli non possono mettere becco, e dalla quale non si può essere dimessi! Un sogno semiassolutistico! Questo stato di cose spiega senz’altro gli innumerevoli aspetti mafiosi della cosiddetta integrazione europea, l’incontrollato sperpero di risorse che viene praticato a Bruxelles e la scandalosa politica agraria e ambientale della Comunità.

Un’Europa predemocratica come giocattolo delle lobby: come ce lo siamo meritato? E, viceversa, quanto deve essere solido il nostro sodalizio per non crollare sotto questo antico fardello? Penso che i problemi che il nostro continente ha di fronte – dalla spaccatura Est-Ovest alla disoccupazione, dall’irrisolta questione della difesa alla distruzione delle nostre risorse vitali – siano così difficili che non possiamo permetterci, ancora per molto tempo, il sabotaggio dell’Europa da parte delle istituzioni europee.

 

 

Bibliografia essenziale

CAFFI, Andrea – Critica della violenza – Bompiani, 1966

CAFFI, Andrea – Semplici riflessioni sulla situazione europea ( in Giustizia e Libertà e il socialismo liberale) – M&B Publishing, 1999

CAFFI, Andrea – Scritti politici – La Nuova Italia, 1970

CAFFI, Andrea – Politica e cultura – Rubettino, 2014

DE ROUGEMONT, Dènis – L’amore e l’Occidente – Rizzoli, 1977

DE ROUGEMONT, Dènis – L’uno e il diverso – Il Lavoro, 1995

DE ROUGEMONT, Dènis – L’avvenire è nelle nostre mani – Paoline, 1974

DE ROUGEMONT, Dènis – Vita o morte dell’Europa – Comunità, 1949

ENZENSBERGER, Hans Magnus – Il mostro buono di Bruxelles – Einaudi, 2011

ORTEGA Y GASSET, Josè – La ribellione delle masse – SE, 2001

STEINER, George – Una certa idea di Europa – Garzanti, 2006

 

Sull’argine

Meditazioni di un passeggiatore solitario

Paolo Repetto, 13 gennaio 2019

Nulla è più indicato per una buona “seduta” di autoanalisi di una camminata sugli argini tra Tanaro e Bormida. Tranne che in giornate di eccezionale nitidezza (ce ne sono due o tre in un inverno, quest’anno qualcuna in più), nelle quali si scorgono a nord-ovest le Alpi, dal Monviso al Rosa, il paesaggio è di un piattume tale da non invogliare alcuna distrazione. I campi sterminati della parte interna cambiano colore due volte l’anno, in occasione delle arature autunnali e primaverili, per il resto offrono infinite repliche dello stesso spettacolo, frumento e mais, mais e frumento. I fiumi, se non sono in piena, sussurrano appena dietro la cortina di piante cresciute lungo le sponde. La cosa più emozionante che può capitare in un paio d’ore di passeggiata è un leprotto che attraversa il sentiero. Quindi, se non si è di quelli che contano i passi o monitorano costantemente le pulsazioni, non resta che pensare.
È quello che mi accingo a fare anche oggi (Cartesio non sarebbe d’accordo. Sosteneva che si medita bene solo seduti).

I primi passi li dedico a trovare il ritmo giusto, a mettere d’accordo il cervello con i piedi. La sincronia dovrebbe essere automatica, e probabilmente lo è per molti, ma non per me. Forse ho un carico eccessivo di memoria per i ritmi, come del resto per tutte le altre cose, e il cervello non accetta ancora la sacrosanta ritrosia delle gambe: sta di fatto che ogni volta mi interrogo sulla falcata e sulla velocità da tenere. Non essendo attrezzato di contapassi o rilevatori della velocità, della distanza e della frequenza cardiaca, non manco di dare un’occhiata all’orologio, per avere un’idea almeno approssimativa del tempo che impiegherò. Dovrebbe consentirmi di fare dei confronti, di tenermi in qualche modo sotto controllo, perché il percorso rimane sempre lo stesso (non potrebbe essere altrimenti: l’unica alternativa è percorrere l’anello in senso inverso, o ripeterlo). In realtà ogni volta dimentico di verificare il tempo alla fine, oppure ho scordato quelli delle performances precedenti, per cui il confronto va a farsi benedire. E forse è meglio così.
Il problema del ritmo si risolve comunque da solo appena comincio a scartare con la testa dalla linea retta del sentiero. In genere arrivo sugli argini cinque minuti dopo aver staccato gli occhi dal monitor del computer o da un libro, e mi viene naturale richiamare subito alla memoria le pagine appena lette, per rifletterci su, o quelle appena scritte per revisionarle mentalmente. Dopo trenta secondi non ho più idea di velocità e di frequenze. Quello del ritmo non è però un problema banale. Ogni camminatore ha il suo, e questo spiega perché la preferenza vada di norma alle passeggiate solitarie. È difficile trovare la giusta misura tra due camminate diverse, e conviene muoversi in compagnia solo quando il piacere che ci attendiamo da quest’ultima è superiore a quello offerto dal semplice macinare della strada (cioè raramente). Un tempo ero molto insofferente nei confronti di chi mi costringeva a rallentare e mi imponeva così una fatica doppia. In più di una occasione credo di essermi comportato da vero cafone. Poi ho fatto di necessità virtù, quando ho cominciato ad avere qualche difficoltà a tenere il ritmo degli altri e a capire come dovevano sentirsi coloro che ricattavo con i miei sbuffi e e con l’impazienza ostentata nelle soste. Adesso posso dire di aver trovato il ritmo universale, quello che si accorda immediatamente al passo altrui e trae piacere dalla compagnia e dalla conversazione. Cosa che comunque non avviene sugli argini. Qui vengo per rimanere solo. E per pensare.
Appena sento la ghiaia sotto i piedi la mente entra in ebollizione. Salta tutt’attorno come un cane liberato in un prato. In un ambiente così aperto è impossibile concentrarsi su un solo oggetto, sia pure mentale. Anche in assenza di distrazioni esterne il pensiero tende a scappare da ogni parte, e quando provi a richiamarlo si ferma per un istante, ma poi riparte per i fatti suoi. In questo momento, mentre ne scrivo a posteriori, mi riesce difficile trovare un filo che tenga assieme tutto quello che mi è passato per il cervello nel pomeriggio, e probabilmente quel filo nemmeno c’è, o è tanto sottile da apparire giustamente invisibile. Ricostruirò a braccio quella che mi sembra essere stata oggi la successione: ma è chiaro che l’ordine può non essere stato rispettato. Riassumo dunque il tutto in tre o quattro meditazioni.

  1. 1a meditazione. Riguarda la montagna di impegni che ho assunto ultimamente e alla quale non riesco a stare dietro. Sulla precedenza di questo pensiero non ho dubbi, perché me lo porto sempre dietro, fa ormai da sfondo sul desktop della mia mente. Mi accade per gli impegni lo stesso che per i viaggi. Appena ne assumo uno cominciano i dubbi: sarò all’altezza, avrò tempo, ma soprattutto, ne avevo davvero così voglia? Di positivo c’è che tendo a mantenerli (così come i viaggi finivo per farli), sono uno di quelli che ancora credono alla sacralità della parola data: di negativo c’è invece che essendo un entusiasta (anche se non si direbbe) continuo ad assumerne altri, e quindi sono in costante affanno per tener dietro a tutti.
    La cosa davvero importante, quella su cui mi trovo a meditare oggi, è che comunque questi impegni mi costringono ad approfondire ciò che altrimenti affronterei con eccessiva superficialità, perdendomi tutte le sorprese e i retroscena che balzano fuori appena vai a scavare un po’ più sotto. Col risultato che quasi sempre un argomento o un problema toccato su sollecitazione altrui prende una strada tutta sua, che con l’impegno originario ha più ben poco a che vedere. Il processo è naturalmente caotico, perché i rimandi si inseguono vertiginosamente, e alla fine nemmeno ricordo più da dove ero partito e come sono arrivato a percorrere certe strade: ma non fa nulla, al caos sono abituato, ne ho anzi bisogno, per dar sfogo alla mia sindrome del dio ordinatore. Comunque, tanto per scendere nel concreto: in questo preciso istante (quello in cui pensavo sull’argine ma anche questo in cui trascrivo) ho attive cinque o sei linee principali, sulle quali viaggiano i seguenti progetti:
    a) una certa idea d’Europa, da proporre ai ragazzi delle ultime classi delle superiori. Si avvicina la scadenza delle elezioni europee e di questo passo rischiamo di mandare a Bruxelles gente ancora più idiota di quella che abbiamo eletta sinora, che farà affondare definitivamente la barca. Questi incontri non hanno finalità politica, non vogliono fornire indicazioni di voto, ma almeno risvegliare un po’ di interesse e di curiosità per l’antico progetto continentale in una generazione che dà tutto per scontato, e quindi conosce ben poco
    b) la lettera aperta (mai spedita) a Cacciari. Doveva essere la bozza di una piattaforma comune da sottoporre ai circoli europeisti, per evitare di muoverci come al solito in ordine sparso. Per come siamo messi ho la sgradevole impressione che non si arriverà a nulla, lo spettacolo offerto dalla sinistra, che dovrebbe promuovere lo spirito europeista, è nauseante: ma a questo punto mi piacerebbe trasformare la bozza in un vero e proprio programma, a mia personalissima edificazione
    c) la raccolta degli scritti di Camilla e di Marcello (ma forse anche di altri) per la rivista “Settanta”. Una cosa da farsi bene, perché è in linea col mio recente interesse per Chiaromonte, Caffi e la sinistra libertaria tra le due guerre e nell’ultimo dopoguerra, e apre a un discorso più ampio su ciò che è stato rimosso dall’ establishment culturale italiano dell’ultimo mezzo secolo
    d) L’ennesima ristrutturazione del sito dei Viandanti, con apertura di un paio di nuove finestre. Una potrebbe essere intitolata ai Maestri, e ospitare appunto materiali sparsi e difficili da reperire degli e sugli intellettuali libertari. Si comincia naturalmente con Caffi, che scopro ogni giorno di più essere totalmente sconosciuto
    e) La catalogazione di un settore della mia biblioteca, quello dei libri di viaggio. È imposta dal numero sempre più alto di doppioni che mi sto portando a casa dai mercatini (nel dubbio, prendo tutto), ma anche dalla necessità di avere almeno una sezione, quella percentualmente più ricca, consultabile con un po’ d’ordine

2a meditazione. Ci arrivo dopo aver percorso il cavalcavia che supera la tangenziale. Lì sotto i camion e le auto sfrecciano come fossero tallonati dalla polizia, davanti ho la grande distesa che spazia sino a Tanaro e al lungo viadotto autostradale. Quest’ultimo per un attimo mi ricorda l’acquedotto romano di Cesarea: viene istintivo considerare che quello è ancora là oggi, dopo duemila anni, mentre le autostrade già stanno cadendo a pezzi. Non siamo nemmeno nani sulle spalle dei giganti. Siamo solo forfora.
Da tempo lavoro su autori e opere e vicende concentrati nei due periodi di maggior fervore culturale del ‘900: quello tra le due guerre, gli anni venti-trenta, e quello tra due rivoluzioni, la studentesca degli anni sessanta e quella informatica di fine anni settanta. È lì che mi portano i miei interessi, ma ho l’impressione che non sia solo questo. Rileggendo Il mondo di ieri, di Zweig, ho cominciato a rivedere la mia convinzione di aver vissuto il momento migliore di tutta la storia della civiltà occidentale. Forse di questo momento rimarrà ben poco, come delle autostrade.

3a meditazione. Catalogazione mentale dei volumi recentemente acquisiti. Lungo il rettilineo che mena a Bormida provo a riordinare mentalmente gli innumerevoli libri entrati in casa nel periodo natalizio (un’esagerazione!), ai quali ora devo trovare una sistemazione degna. Parte immediato un progetto per la costruzione di due nuovi scaffali, che potrei affiancare alla ribaltina in corridoio. Il passaggio è stretto, ma per fortuna nessuno in famiglia è ancora così voluminoso da incontrare problemi. Gli scaffali saranno visibili anche di fianco, quindi esigono una lavorazione particolarmente accurata. Visualizzo il risultato e comincio a fare calcoli a mente (è la mia unica abilità matematica). Per rimanere in linea con le cornici delle porte non posso superare i due metri e venti, il che significa otto ripiani utili per scaffale. In totale, potrebbe ospitare tra i seicento e i seicentocinquanta volumi. Mi pongo anche il problema di quali libri metterci. Trattandosi di un punto di passaggio, devo mettere solo libri che non ho bisogno di tenere in vista quando lavoro. Propendo per la narrativa, quella contemporanea e quella di genere: classici del poliziesco e del noir, fantascienza, umoristi, ecc …

4a meditazione. Stamane la prima notizia del primo telegiornale della prima mattinata era: Rabbia e paura a Catania. Scossa di 4,2 punti della scala Mercalli. Cavolo, pensi, sono talmente impegnati ad arrabbiarsi che la paura passa in secondo piano. Ero curioso di sapere perché la rabbia, e poi ho capito. Lamentavano di non essere stati avvertiti in tempo dalla protezione civile. Ma, uno si chiede, avvertiti di che? le scosse andavano avanti da quattro giorni: nessuno se n’era accorto? Sulle prime viene da pensare che sia la stessa solfa del meteo: per sapere se piove o meno non ci si affaccia più alla finestra, ma si attendono le previsioni in tivù, o si consultano quelle sullo smartphone. Poi però si un pensiero maligno: non è che qualunque cosa accada, smottamenti, alluvioni nevicate, eruzioni, “convenga” immediatamente arrabbiarsi, per identificare dei responsabili e cavarci magari un po’ di rimborsi? Erano arrabbiati anche gli investitori delle banche venete, che avevano comprato titoli a rischio per lucrare qualche punto in più di interessi: invece di essere presi a calci nel sedere saranno rimborsati. Sono arrabbiati i tifosi di calcio, perché la polizia invece di lasciare che si scannino tra di loro, e abbattere poi i superstiti, tenta di separarli. Schiumano di rabbia i commercianti e i professionisti che devono emettere fatturazione elettronica, perché si pretende che imparino le quattro operazioni necessarie (a detta di un amico che la esegue da anni, una competenza da seconda elementare), ma soprattutto che la fattura la emettano. Rabbia ovunque, a comando, insensata o, peggio, interessata. Devo effettuare un cambio di corsia mentale, altrimenti mi arrabbio anch’io. Per fortuna da dietro arriva a distrarmi un ”salve!”

5a meditazione. Gli incontri. In giornate come questa, decisamente fredda malgrado un sole pallido, nel corso della passeggiata si possono incontrare una decina di persone. In primavera il numero cresce di cinque o sei volte. Alcuni sono degli habitués, e dopo un po’ si scambiano anche rapidi segni di saluto. Ma in genere non si va oltre. La volta che mi sono lasciato agganciare da un tizio che andava nella mia stessa direzione, e che sulle prime era parso simpatico, ho dovuto poi inventarmi la più improbabile delle deviazioni per filarmela. I camminanti rientrano in svariate tipologie, ma sono equamente ripartiti per genere, un po’ meno per classi di età. La media di quest’ultima è piuttosto alta – ma questo dipende forse dal mio orario abituale, che per i non pensionati e i non disoccupati è lavorativo. La maggior parte sembra mossa da ragioni salutistiche, mantiene una camminata da allenamento, alcuni corrono; c’è anche qualcuno che la prende più bassa, ma ad essere sincero nessuno mi pare davvero del tutto rilassato. Vien da chiedermi come appaio io ai loro occhi.
Ho inquadrato alcuni personaggi. Una signora matura ma molto giovanile è la “donna elettrica”. Fila veloce come una spia, sempre con la testa bassa e una frequenza di passo impressionante. Capita di incrociarla anche più volte, perché nel tempo che impiego per un percorso completo lei ne macina almeno uno e mezzo. Dopo un anno di incontri ho cominciato a salutarla, mi riusciva strano e paradossale questo ripetuto sfiorarci senza guardarci in faccia, una consuetudine che non si traduceva in conoscenza. Adesso risponde, anzi, saluta lei per prima, ma non siamo andati oltre. Del resto, dove?
Un signore anziano (insomma, certamente più anziano di me) si fa tutti gli argini di corsa, e viaggia piegato su un fianco come gli atleti della maratona quando sono completamente scoppiati. Sembra sul punto di esalare l’ultimo respiro, ma risponde al saluto con voce squillante e senza affanno. Non mi sembra patetico, anzi, lo invidio persino un po’, perché immagino corra per puro piacere.
Una ragazza molto giovane e piuttosto in carne è entrata a far parte nell’ultimo anno degli assidui. Penso abbia iniziato per i soliti motivi di linea, e che poi, anche quando si è accorta che su quel fronte i risultati erano scarsi, abbia scoperto il fascino discreto e fine a se stesso del camminare. È simpatica, quando saluta ha un sorriso sincero, sembra orgogliosa di appartenere ormai al club.
La rassegna potrebbe ancora andare avanti a lungo. Ce n’è per tutti i gusti, e straordinariamente non una sola impressione negativa. Forse per far funzionare bene una società bisognerebbe ridurre al minimo i contatti: nessuno, nei tempi ridottissimi di un incontro itinerante, riesce a dare il peggio di sé.

A questo punto comincio a desiderare una sigaretta: segno che la fase propulsiva e propositiva è esaurita, adesso si va avanti per inerzia. Quando torno in vista del cavalcavia accelero. Non è un soprassalto di tentazione del rush finale, ma la fretta di arrivare per trascrivere quel poco che mi è rimasto in testa. È impossibile fermare i pensieri. Se i pensieri avessero una consistenza fisica i bordi del sentiero sarebbero un’ininterrotta discarica, come quelli delle strade meridionali o la luna sulla quale atterra Astolfo. A quanto racconta lui stesso, Nietzsche ogni tanto si fermava e raccoglieva la produzione ambulante su un taccuino, o la dettava a un suo accompagnatore. Ma mi sembra una cosa poco naturale. C’è il rischio di forzarsi a pensare solo per poter trascrivere
Riesco invece adesso, mentre scrivo tranquillamente seduto a tavolino, a ripescare anche alcune immagini che mi sono transitate rapidissime per la mente, tra una meditazione e l’altra: la marcia su Roma (compatibile forse con un cambiamento di ritmo), una ragazza conosciuta tantissimi anni fa (questa per nulla compatibile, perché ne ho un ricordo molto statico), due messaggi cui non ho ancora risposto e uno cui avrei fatto meglio a non rispondere, un simpaticissimo white terrier (white piuttosto sporco) randagio, incontrato ieri, che si muoveva come fosse il padrone di Saluzzo. Un’icona del perfetto anarchico. Forse solo certi cani riescono ad essere dei perfetti anarchici.
Non so naturalmente da dove arrivassero queste immagini, e nemmeno provo a capirlo. È meglio così, rimane tutto più genuino. La passeggiata mi ha trasmesso un senso di sicurezza e di continuità. A meno di un’alluvione eccezionale, troverò gli argini per tutti gli anni in cui sarò ancora in grado di camminare e di pensare. Il club dei camminatori degli argini esiste davvero, forse dovrei superare l’obiezione di coscienza e iscrivermi.

Per giustificare queste divagazioni a ruota libera ho parlato in apertura di autoanalisi. Adesso, a freddo, realizzo che da un resoconto di questo tipo è difficile ricavare qualcosa. Va bene, è chiaro che sono un po’ malato, o un po’ tanto: ma lo era anche prima. E comunque, è ciò che si capisce da quello che c’è. Forse però ciò che davvero importa si capisce meglio da quello che non c’è. Non ci sono preoccupazioni di salute, e va bene così. Non ci sono preoccupazioni sentimentali, e questo non è detto debba essere per forza positivo. Non ci sono preoccupazioni di ordine famigliare, il che può voler dire tante cose: che sono un superficiale, o molto più semplicemente che ho imparato che la vita gli altri devono viversela un po’ come meglio credono. Non ho neppure preoccupazioni finanziarie, non perché nuoti nell’oro, ma perché sono cresciuto senza dare eccessivo valore al denaro, visto che comunque non ce n’era, e anche oggi non ho sogni che il denaro possa aiutarmi a realizzare. Riesco persino a convivere pacificamente con la mia età.
Sarà l’effetto delle endorfine, ma non trovo proprio nulla di cui lamentarmi. Per cui indignarmi, invece, si. E mi accorgo di avere già pronto un tema per la prossima meditazione. Agli appelli all’indignazione arrivati negli ultimi tempi un po’ da tutte le parti, la “gente” ha risposto con la lamentazione. Ha capito quel che le faceva comodo. Occorre fare attenzione all’uso delle parole, a come possono essere interpretate e travisate. Andrebbe promossa una campagna per il silenzio, ma non oso pensare a quali cretinate mediatiche darebbe spunto.
Guardo fuori, e ho la sensazione che domani il cielo sarà ancora sereno. Se ne riparla. Ma se fa brutto, mi arrabbio.


Su Andrea Caffi

Scritti di Enzo Bettiza, Nicola Chiaromonte, Alberto Moravia, Gino Bianco, Carlo Vallauri

a cura di Paolo Repetto, 30 ottobre 2018

su Andrea CaffiSalva diversa indicazione, tutti gli scritti riportati nella presente raccolta sono tratti dal sito http://www.bibliotecaginobianco.it

Enzo Bettiza – La parabola di un socialista

Nicola Chiaromonte – Andrea Caffi, Critica della violenza, Bompiani, 1966

Andrea Caffi 24 – La “Critica della violenza”

Pietro Polito – Critica della violenza

Un umanista moderno:  Andrea Caffi. Critica della violenza

Un menscevico a Tolosa

Alberto Moravia – La sua discrezione, la sua povertà

Leo Valiani – Un italiano fra i bolscevichi

Gino Bianco – Prefazione a “Sul corporativismo e su una certa tecnica”

Carlo Vallauri – Il socialismo umanitario di Andrea Caffi

Le due anime

Enzo Bettiza 

La parabola di un socialista

Corriere della Sera, 22 maggio 1971

Sembrano diverse le ragioni che hanno tenuto finora lontana una parte del pubblico colto da Andrea Caffi. Una è d’ordine pratico. La frammentarietà dei suoi scritti, sparsi per l’Europa, e riordinati a poco a poco con affettuosa pazienza da amici ed estimatori quali Nicola Chìaromonte, Aldo Garosci, Lamberto Borghi, Gino Bianco, consente a chi non conobbe personalmente l’uomo di poterne afferrare solo per gradi la complessità e l’originalità del pensiero: un pensiero, del resto, che non essendo mai fuori ma sempre dentro la vita e che avendo della vita anche una certa frammentaria enigmatica indefinitezza, costituzionalmente si negava all’imbalsamazione accademica.

Ora, dopo i saggi storico-filosoiici di Caffi, curati da Chiaromonte su Tempo Presente e poi pubblicati da Bompiani nel 1966 con il titolo Critica delia violenza, seguono presso i’editrice Nuova Italia, presentati da Gino Bianco i preannunciati Scritti politici che ne sono il completamento. Si definisce così meglio la fisionomia geniale di un outsider dello spirito che, per chiarezza di stile, rettitudine morale, novità d’analisi, velocità di riflessi culturali, lascia ad ogni pagina convinto e insieme turbato il lettore. Leggere Caffi, oggi, è un’operazione profilattica contro le epidemie pseudofilosofiche che inquinano l’aria che respiriamo più della nafta e dei detriti industriali.

Per un quarto veneto, per un altro russo e per la restante metà cittadino del mondo, Andrea Caffi presentava un modello biografico in perfetta sintonia con la sua cultura: entrambi irrequieti, mobilissimi, plurinazionali, poliglotti aperti al relativo e ai rischi di libertà che corrono i pensieri e le vite senza dimora fissa in luogo anagrafico e ideologico. Prezzolini, che ebbe Caffi fra i collaboratori alla Voce, lo descriveva così venticinquenne: “Arrivava all’improvviso, non si sapeva da che parte del mondo, con gli abiti sgualciti e l’aria di avere un grande appetito. Scompariva allo stesso modo, senza che si sapesse perché né per dove. Da per tutto portava la sua gentilezza, un’aria d’innocenza, un enorme fascio di erudizione che slegava e da cui traeva regali a qualunque richiesta”.

Nato a Pietroburgo nel 1887, divenne, ancora adolescente, socialista e nella clandestinità lavorò al fianco di Kalinin e di Molotov. Diciottenne prese parte alla rivoluzione del 1905, conobbe le carceri dello zar. Partecipò alla grande guerra sui fronti francese e italiano, rimanendo ferito due volte. Tornato nella Russia dei Soviet, si mise in contatto con la sinistra menscevica di Martov, fu imprigionato alla Lubianka e all’ultimo momento sottratto da Angelica Balabanoff ad un plotone d’esecuzione bolscevico. Poi, di nuovo in Italia, collaborò nello stesso tempo al Quarto Stato di Pietro Nenni e di Carlo Rosselli e alle Ricerche religiose di Ernesto Buonaiuti. La sera andava alla russa al popolo, nei vecchi quartieri romani, parlando di storia greca e conquistando proseliti alla causa del socialismo. Nel 1926 si stabilì in Francia dove divenne membro simultaneo dell’emigrazione socialista russa e di quella italiana. A partire dal 1936 iniziava a frequentare Modigliani, Saragat, Tasca e Faravelli. La sua collaborazione con Angelo Tasca segnava anche un’adesione alle posizioni politiche che quel gruppo, il più lucido e spregiudicato dell’emigrazione antifascista, esprimeva: le riserve nei confronti dell’ambigua unità d’azione con i comunisti nei fronti popolari, il rifiuto dello stalinismo e delle alleanze di vertice con esso, la battaglia per l’autonomia del movimento socialista. Sempre visse in condizioni di povertà volontaria, in certi momenti di miseria, fino alla morte avvenuta il 22 luglio 1955 all’ospedale parigino della Salpetrière.

In Andrea Caffi, definito di volta in volta “spirito arcangelo”, “strano tipo”, “povero e prodigo”, si combinavano sotto la superficie cosmopolitica due grandi tradizioni di verità: quella del pensatore socratico, che si donava parlando più che scrivendo, e quella del narodnik russo del diciannovesimo secolo, animato da un’ansia pedagogica e di redenzione sociale intollerante d’ogni barriera tra la privacy dell’uomo di pensiero e il tumulto del mondo. L’idea di “società”, nel senso quasi più religioso che laico che l’intelligencija populista dava al termine, era preminente in lui. Il nucleo esistenziale della sua personalità fu quello di un filosofo peripatetico che aveva dialogato con Herzen, che aveva trasformato in Peritato la Russia e l’Europa intera e che era disposto, fra la malafede intellettuale e la cicuta, a scegliere sempre quest’ultima. Fu qui il vero significato etico della sua socievole solitudine e della sua programmata e francescana nudità nella vita quotidiana.

Vorremmo soffermarci soprattutto sul saggio che apre gli Scritti politici, La Rivoluzione russa e l’Europa, di cui Pero Gobetti disse che era il più importante e serio scritto che fosse apparso in quegli anni sull’argomento. “Quegli anni” erano il 1918: scritto datato, dunque, ma che colpisce subito per la sua illuminante attualità. Mentre Gramsci e Bordiga divulgavano una loro immagine di maniera del Bolscevismo, Caffi sezionandolo dall’interno, anticipava già con una impressionante esattezza analitica tre anni prima della deliberazione “antifrazionistica” imposta da Lenin al X congresso del partito, certe conclusioni sul fenomeno russo alle quali la più sofisticata sovietologia doveva arrivare molto più tardi.

Caffi non aveva nessuna simpatia per l’élite bolscevica impadronitasi del potere. Faceva anzi una distinzione sociologica e psicologica fra gli idealisti che avevano alimentato il movimento socialdemocratico russo e i personaggi avventurosi, pragmatici, spesso del tutto insensibili alle idee, assetati di comando, che erano stati affascinati dalle proposte rivoluzionarie aristocratiche e temerarie di Lenin. Egli, che aveva conosciuto bene i capi bolscevichi come militante socialista, non si faceva illusioni: fino dal 1905 aveva intuito la rottura che Lenin doveva, anzi voleva rappresentare, nella tradizione del socialismo non solo russo ma europeo. Con Chiaromonte, la cui forte e appartata opera di pensatore s’è nutrita ai dialoghi caffiani, potremmo dire che Caffi vide subito nel leninismo trionfante l’evento che sconfigge l’idea. La sua critica non era però partigiana, andava al fondo della questione e coinvolgeva, con il bolscevismo, anche il mito burocratico e il marxismo-hegelismo statolocratico del capostipite dei “partiti moderni”, la socialdemocrazia tedesca: fra Ebert e Noske che aprono il fuoco sugli operai di Berlino, e Lenin e Trotckij che “tirano ai fagiani” di Kronstadt, egli scorgeva la stessa parabola di una idea sconfitta dalla ragione di Stato. Ma, nel medesimo tempo, scorgeva, con acutissima oggettività, le ragioni e l’inevitabilità del successo bolscevico. Anche Caffi, come Vojtinskij e come Ashub, usava quella serenità di giudizio del menscevico perdente nei confronti del bolscevismo che i bolscevichi vincenti non useranno mai, neppure mezzo secolo dopo la rivoluzione, nei confronti del menscevismo. Già allora egli notava la straordinaria “capacità dimostrata dai bolscevichi nel dare un centro intelligente alla sfrenatezza delle masse russe”.

L’inerte vuoto di potere, apertosi fra il 5 e il 17 novembre 1917, mentre l’iniziale trionfo dei socialrivoluzionari finiva nel burlesco con Kerenskij in fuga travestito da donna, poteva essere occupato in quel momento solo dalla specifica tradizione culturale, politica e organizzativa del gruppo d’azione leninista. Soltanto chi come Lenin in quel frangente seppe mettersi in sintonia con “la sfrenatezza delle masse anarchiche e pacifiste, optando per una “utilizzazione quasi cinica delle contingenze”, poté sostituire il proprio gruppo organizzato e inesorabile al potere vacante. Lo spazio e il tempo preconizzati dal gradualismo menscevico s’erano violentemente contratti. I Girondini della rivoluzione russa apparivano sconfitti quasi prima d’averla incominciata. Nel momento supremo dell’anarchia, dello sfacelo dei resti del Governo Provvisorio, non erano né gli ideali socialisti né le analisi marxiste che potevano servire a Lenin per dominare la situazione: gli servivano benissimo invece la spietata demagogia giacobina, il pragmatismo blanquista, sommandosi alle tradizioni del libertarismo russo di Bakunin e di Lavrov.

Ma la verità viene tanto meglio fuori dal discorso di Caffi quanto esso è meno ideologizzato. La grande forza culturale e anche filosofica dello scrittore è di parlare dei fatti attraverso i fatti: essi, nella sua analisi, vivono liberi, dilatati, enigmatici e tuttavia inevitabili come la vita stessa. E’ questa visione della storia, o meglio questa percezione immediata della storia nell’ambiguità dell’evento, che conferisce ancora oggi una rara potenza interpretativa ed evocativa al dramma russo colto da Caffi sul vivo, nel 1918.

 

 

Nicola Chiaromonte 

Andrea Caffi, Critica della violenza, Bompiani, 1966

 

 Introduzione

Parlo di Andrea Caffi come dell”‘uomo migliore, e inoltre il più savio e il più giusto” che nel mio tempo io abbia conosciuto. Ne parlo per essergli stato amico durante ventitré anni, dal maggio 1932 quando, a Parigi, Alberto Moravia me lo fece incontrare, al luglio 1955, quando morì nella stessa città, e perché alla sua amicizia devo quel che di meglio posso aver acquistato nel corso della mia vita; ne parlo perché penso che le poche tracce scritte della sua personalità che si sono potute conservare o recuperare meritano di essere conosciute, ma d’altra parte hanno bisogno di essere accompagnate da qualche notizia.

Ma, come sono relativamente pochi, anzi pochissimi, nella gran quantità di schede, note e quaderni da lui lasciati, gli scritti di Caffi abbastanza compiuti per poter essere offerti in lettura a chi non lo conobbe, così sono singolarmente poche e frammentarie le notizie che della sua vita, pur ricchissima di peripezie, d’incontri, di sodalizi, d’amicizie, si possono dare come “obbiettive”. Quelle che ho, le ho raccolte quasi tutte dai suoi discorsi, ma sempre a proposito d’altre cose, mai parlando di sé e dei propri fatti, argomento che egli considerava fastidioso e indiscreto.

Mi trovo dunque, da una parte con gli scritti che qui si pubblicano e con alcune notizie frammentarie, dall’altra con un’immagine prodigiosamente viva dell’uomo: tanto viva da scoraggiare la descrizione, poiché essa ha della vita la caratteristica essenziale, che è il non finito, l’indeciso, l’elusivo.

Come si vedrà in queste pagine, se c’era nella mente di Caffi un’idea centrale attorno alla quale tutte le altre si ordinavano naturalmente, questa era l’idea di socievolezza: la philìa aristotelica, fondamento della vita associata. Ma la socievolezza non era solo un’idea, per Caffi, era anche il tratto saliente della sua personalità.

La socievolezza spontanea e continuamente traboccante, accompagnata da una prodigalità illimitata nel dono di sé, dava all’esistenza di Andrea Caffi una pluralità d’aspetti che finiva per diventare innumerevole. C’era, per esempio, come io lo conobbi, il Caffi italiano amico di Gaetano Salvernini come di Umberto Zanotti-Bianco, di G. A. Borgese e di Giuseppe Ungaretti come di Alberto Moravia, di Umberto Morrà, di Vincenzo Torraca, di Giuseppe Fancello, come poi di Carlo Rosselli e di molti altri uomini dell’emigrazione antifascista a Parigi. Insieme a questo, c’era il Caffi intimamente legato a gruppi e persone della diaspora intellettuale, letteraria e politica russa, e non era certo meno reale dell’italiano. C’era poi il Caffi francese d’elezione, con amicizie e impegni in molti circoli della vita politica e intellettuale francese. Ci fu persino, fra il 1950 e il 1955, attraverso l’incontro con Paolo Emilio Comes, Mario Pedrosa e i loro amici, un Caffi brasiliano.

Ma c’era poi anche il Caffi eretico di tutti questi gruppi, intellettuale la cui visione non si adattava a nessuna prospettiva comunemente accettata e verso il quale solo alcuni pochi individui isolati, o comunque insoddisfatti dei gruppi esistenti e delle idee correnti, potevano sentirsi attratti; e di questi, pochissimi a lungo, perché i sentieri per i quali Caffi trascinava chi lo seguiva erano dav-vero Holzwege, sentieri non tracciati in anticipo e di cui non si sapeva dove conducessero; dunque stancanti. Dietro questo Caffi eretico e irrequieto c’era lo spirito solitario, assorto in un mondo di pensieri segreti e di operazioni intellettuali addirittura misteriose nel quale raramente, anche nei momenti di maggiore confidenza, si apriva qualche spiraglio.

C’era infine, a riunire e confondere di continuo queste parti diverse, Caffi al naturale, per così dire: uomo dal tratto quanto mai affabile e amabile, egualmente a suo agio nella compagnia delle persone più diverse, purché non appartenessero alla specie odiata dei mediocri soddisfatti. Era, questo, un uomo che più delicato e nobile è difficile immaginare, e certamente rarissimo trovarne: un uomo che tutte le qualità della mente e dell’animo dicevano fatto per essere accolto e onorato nei luoghi più eccelsi di una società ideale, e particolarmente fra gli uomini di pensiero e di cultura; e il quale invece sceglieva deliberatamente la solitudine e l’oscurità, incapace com’era di fare la più piccola concessione quando si trattava non dico della sua integrità morale o delle sue idee, che sarebbe un parlare solenne, ma semplicemente della sua sensibilità. Ogni tentativo, anche il meglio intenzionato, di procurargli una via d’uscita da tale isolamento, e dalle angustie che comportava, rimase inutile fino all’ultimo. Sicché era evidente che non si trattava tanto di riluttanza al compromesso, quanto della volontà di non “inserirsi” in alcun modo in una società che gli dispiaceva profondamente.

Questa pluralità di esistenze, il vivere alla ventura nella più completa noncuranza non solo di ogni carriera, ma di ogni vantaggio personale, l’incoercibile irrequietezza dello spirito spiegano almeno in parte le immagini così diverse, frammentarie e incerte che rimangono di Caffi. In tutte, anche in quelle dei testimoni meno perspicaci, la sua natura eccezionale è presente, e più particolarmente sono presenti di lui la generosità spensierata e la stupefacente cultura. Ma in nessuna la sua immagine è chiara e rilevata. In tutte rimane l’enigma di chi fosse in realtà lo “spirito arcangelo” così vivo nel ricordo di Antonio Banfi, lo “strano tipo” di cui ha sentito il bisogno di scrivere Giuseppe Prezzolini riducendone tuttavia la figura a quella di un amabile scombinato, il “personaggio socratico” di cui serba memoria ammirata Alberto Spaini, facendone d’altro canto un mazziniano (cosa che egli certamente non era) e un fautore degli Stati Uniti d’Europa, cosa certamente vera, di lui, ma insieme a molte altre alquanto più importanti (v. Il Messaggero di Roma — 5 ottobre 1959).

La diversità, frammentarietà e incertezza delle testimonianze su Caffi (fra le quali è da ricordare quella di Gaetano Salvemini, che ne parlava come dell’ uomo più straordinario e dello spirito più eletto che egli avesse conosciuto, e anche, scherzando sulla piena strabocchevole delle sue cognizioni, come del “caos prima della creazione”), si riflette nell’incompletezza dei dati più elementari della sua biografia, la quale, per essere in qualche modo completa, avrebbe dovuto essere redatta già molti anni fa, andando a consultare in giro per il mondo le molte persone che l’avevano conosciuto e gli erano state amiche, il numero delle quali è ormai irreparabilmente assottigliato. Io dunque dirò, per quanto posso in ordine, quello che so di sicuro.

Andrea Caffi era nato a Pietroburgo il 1° maggio 1887, da genitori italiani. Originario di Belluno, suo padre era nipote del pittore e patriota garibaldino Ippolito Caffi. Il quale, essendo stato scenografo dei teatri imperiali, aveva aperto al nipote la via di un impiego nell’amministrazione dei teatri medesimi.

Considerato dai maestri un ragazzo di doti eccezionali, il padre lo iscrisse a quella che era allora la migliore scuola di Pietroburgo, e una delle migliori d’Europa: il Liceo Internazionale. Di quell’insegnamento e di quell’ambiente egli serbava memoria grata e affettuosa, come si può vedere da quel che ne dice nello scritto “Società e gerarchia”, pubblicato in questo volume.

A quattordici anni, Andrea Caffi era già socialista d’idee: diceva che la sua scelta risaliva al raccapriccio provato per le condizioni di lavoro degli operai industriali durante una visita alle officine Putilov, dove era stato condotto, insieme alla sua classe, da un professore probabilmente socialista egli stesso. A sedici anni, egli fu tra gli organizzatori del primo sindacato dei tipografi di Pietroburgo, dei quali si vantava di aver contribuito a fare dei socialisti senza mai parlar loro di marxismo, ma solo di storia, di letteratura e di filosofia. In questo lavoro clandestino, egli ebbe compagni Kalinin (che doveva diventare il primo Presidente dell’Unione delle Repubbliche Sovietiche) e Molotov, destinato alla fama come ministro degli esteri di Stalin.

Seguendo questa via, a diciotto anni Caffi prese parte alla rivoluzione del 1905, nelle file dei menscevichi. Arrestato e condannato a tre anni di carcere, fu liberato nel 1907 per intervento dell’ambasciatore d’Italia. Andò allora in Germania per compiervi gli studi universitari. A Berlino, ebbe maestro particolarmente amato Georg Simmel, del cui pensiero si trova più di una traccia nei suoi scritti. Fra i suoi compagni di studi c’era Antonio Banfi, il futuro docente di filosofia all’Università di Milano e senatore comunista, il quale lo ha ricordato con queste parole: “M’era compagno lo spirito più arcangelo e più vivo che mai conobbi, Andrea Caffi, fuggitivo dalla prigionia per i moti del 1905-’06, un umanitario ribelle, raffinato e semplice insieme di vita, poliglotta e colto all’estremo, arguto e entusiasta, con cui scrivemmo pagine e pagine sulla cultura europea contemporanea. Dove sia quel manoscritto non so, so che da lui ebbi un vero fiotto di vita e di entusiasmo” (v. Aut Aut, 1958, n. 43-44 ). Al che voglio aggiungere che il Frammento politico del 1910 di Antonio Banfi, pubblicato da Fulvio Papi nel 1961, porta per me l’impronta inconfondibile di Caffi quando, senza il soccorso di un appunto, tracciava a viva voce vasti panorami di storia delle idee, e l’ascoltatore cercava di notarne l’essenziale, trovandosi alla fine fra le mani il disegno suggestivo di un’opera originale che solo Caffi avrebbe potuto condurre a termine.

Mentre proseguiva gli studi e continuava a militare nel movimento socialista, Caffi viaggiava per tutta l’Europa. Soggiornò a lungo a Firenze, dove frequentò il gruppo della Voce. Amico di Scipio Slataper e di Alberto Spaini, strinse anche rapporti amichevoli con Giuseppe Prezzolini, e collaborò alla rivista con uno scritto firmato insieme a Antonio Banfi e Confucio Cotti. Nel presentare una lettera di lui pubblicata nel volume Testimonianze (Longanesi, 1960), Prezzolini così lo descrive:

Arrivava all’improvviso, non si sapeva da che parte del mondo, con gli abiti sgualciti e l’aria di avere un grande appetito… e scompariva allo stesso modo, senza che si sapesse perché né per dove. Da per tutto portava la sua gentilezza, un’aria d’innocenza, un enorme fascio d’erudizione che slegava e da cui traeva regali a qualunque richiesta…

In un articolo dello stesso Prezzolini, pubblicato nel giornale Il Tempo di Roma il 15 agosto 1959 e intitolato “Uno strano tipo”, si trovano ricordati altri tratti della personalità di Caffi:

Siccome era di un’estrema delicatezza e indipendenza di spirito, non ci si accorgeva delle sue ristrettezze altro che dagli abiti e dallo sguardo con il quale di traverso guardava una tavola apparecchiata quando lo si invitava… Aveva un modo di sfuggire ogni curiosità e indagine sulla sua persona che lo rendeva molto simile a quei personaggi dei romanzi russi che rispondono con frasi svagate e allusive alla polizia degli zar… Il suo ingegno era vivace, la sua memoria potentissima. Era curioso che un uomo sapesse tante cose senza avere accanto una biblioteca personale. Se in una conversazione usciva qualche frase contenente un’inesattezza, si poteva esser sicuri che il giorno dopo si riceveva una lettera di lunghe correzioni e prove. Da giovane, mi accadde di dire qualche corbelleria intorno all’Ucraina, e credo di conservare ancora una lettera di trenta pagine nella quale mi faceva tutta la storia della lingua, della letteratura e della nazione ucraina. Tutto questo, certamente, senza consultare un libro, senza chiedere il parere di nessuno…

Tale era il Caffi venticinquenne. Non molto diverso dal Caffi adulto, a giudicare da questo ritratto. Direi che i lineamenti esteriori Prezzolini li vede molto bene; quelli morali e intellettuali, invece, in una luce curiosamente opaca, quasi nello sforzo di non lasciare la figura di questo “strano tipo” invadere la coscienza con le domande di cui è portatrice, ma ridurla invece entro i limiti del pittoresco: sforzo che mi sembra caratteristico della guicciardiniana “saviezza” di Giuseppe Prezzolini.

“Enorme fascio d’erudizione”, “memoria potentissima”, “ingegno vivace”: sembra uno di quei terzetti d’aggettivi in scala discendente che Proust nota comicamente nei discorsi di Madame de Cambremer.

Enorme era certo, l’erudizione di Caffi; ed è più giusto, nel suo caso, parlare di erudizione che di cultura, perché le sue conoscenze storiche (e ogni nozione si ordinava secondo storia, ossia secondo la dimensione del tempo, nella sua mente), illimitate come sembravano, erano quelle di un conoscitore profondo e minuzioso il quale accresceva, riordinava, riesaminava e ristudiava ogni giorno quel che sapeva. Di questo sono prova la gran quantità di schede, fogli e quaderni da lui lasciati (ma la massima parte è andata perduta) in cui si trova annotato ciò che egli veniva di continuo apprendendo e riapprendendo.

Ma l’”enormità” stessa delle sue conoscenze era motivo di una meraviglia che non poteva fermarsi alla constatazione della “memoria potentissima”, né dell’“ingegno vivace”. Giacché da una parte la memoria di Caffi, portentosa com’era, non aveva niente di acrobatico, era spontanea, palpitante di vita e d’intelligenza; dall’altra, il suo ingegno si manifestava nella prodigiosa sicurezza con cui, quale che fosse l’argomento, egli andava al vivo della questione senza cura di opinioni stabilite, idoli o tabu di sorta. C’era in questo assai più che della “vivacità”: una libertà di giudizio e di pensiero di cui non ho conosciuto l’eguale in nessun intellettuale dei tempi nostri; ed era in primo luogo una conquista morale, il frutto, cioè, di una coerenza di vita eccezionale.

Riprendendo il filo della cronologia, dirò che terminati gli studi universitari (compiuti peregrinando per tutte le università tedesche, come permetteva la disciplina degli studi superiori in Germania), Caffi si stabilì a Parigi, o almeno a Parigi dimorava la maggior parte del tempo. Erano gli anni delle famose lezioni di Bergson al College de France, dei Cahiers de la Quinzaine di Péguy, del socialismo di Jaurès, della polemica di Sorci, del fiorire della nuova letteratura, della nuova pittura, della nuova musica: inizio splendido di un secolo destinato alla tragedia. A quegli anni risale il legame d’amicizia con Giuseppe Ungaretti, rimasto affettuoso fino all’ultimo.

Con un gruppo di amici francesi, russi, tedeschi e, credo, anche inglesi, che s’era dato nome La Jeune Europe, Caffi concepì allora il progetto di un’“enciclopedia” in cui fosse steso il bilancio della situazione della cultura europea all’inizio del secolo. L’impresa fu stroncata dalla guerra: dispersi fra i paesi belligeranti, gli amici non dovevano più ritrovarsi.

Il 2 agosto 1914, Caffi si arruolò volontario nell’esercito francese. Non so se, da parte di un socialista come lui, tale decisione meravigliasse i suoi amici. Meravigliò me quando l’appresi, perché il suo giudizio sul comportamento dei partiti socialisti europei, arresisi quasi tutti al principio dell’interesse nazionale e dell’union sacrée, era quanto mai severo, non distinguendosi sostanzialmente da quello di Lenin e di Trotzki. Ma egli spiegò candidamente che, in primo luogo, non gli era stato possibile non desiderare la sconfitta del militarismo tedesco e la vittoria della Francia; in secondo luogo, vedendo partire tanti amici incontro alla morte la sola scelta personale ammissibile gli era parsa quella di condividerne il destino; in terzo luogo, di fronte a una guerra che lui, come molti altri in Europa, aveva sentito approssimarsi fatalmente fin dal 1911, e della quale si poteva esser certi che avrebbe messo a ferro e fuoco l’intero continente, non gli era sembrato possibile invocare delle ragioni di principio. La catastrofe era avvenuta, non c’era che da subirla. Il che, d’altra parte, non significava mutare il proprio giudizio sull’avvenimento e sulle sue probabili conseguenze.

Caffi, insomma, fu nell’agosto 1914 fra i numerosi intellettuali europei, che, per oscuro che paresse loro l’avvenire, credettero tuttavia che dalla sconfitta della Germania imperiale dipendessero le sorti della democrazia e del socialismo. Le sue speranze andavano allora nel senso di un’Europa federata sulla base dei principi mazziniani.

Ferito quasi subito nei combattimenti delle Argonne, nel 1915 fu mobilitato in Italia. Ferito di nuovo sul fronte del Trentino, fu addetto presso il comando della IV Armata. Di lì, nel 1917, passò con G. A. Borgese a Zurigo, nell’ufficio speciale da questi creato per la propaganda fra le nazionalità oppresse dell’Impero absburgico.

Nel 1919, Caffi diede vita in Italia a due riviste il cui scopo era di contribuire, con un’informazione seria sui problemi lasciati dalla guerra, a influenzare ragionevolmente le decisioni che si stavano per prendere a Versailles sul nuovo assetto dell’Europa: la prima fu La Vita delle Nazioni; la seconda (pubblicata in collaborazione con Umberto Zanotti-Bianco) La Giovane Europa. Il primo scritto seriamente informativo sulla rivoluzione russa e i suoi capi apparso in Europa occidentale fu un lungo saggio di Caffi ne La Vita delle Nazioni. Si sa peraltro che cosa avvenne a Versailles dell’ideale di una pace giusta cui queste pubblicazioni intendevano giovare.

A pace conclusa, amici comuni intervennero presso Luigi Albertini perché il Corriere della Sera si valesse delle conoscenze e dell’esperienza di Caffi mandandolo in Russia come inviato speciale. Arrivato a Costantinopoli, egli mandò (a quanto scrive in una lettera inviata da lì a Prezzolini) otto articoli. Di questi, uno solo fu pubblicato, suscitando l’ammirazione di molti lettori. Si può pensare che la ragione per cui gli altri articoli di Caffi rimasero inediti fosse l’indignazione che in essi si esprimeva (e della quale si trovano tracce vibranti in un’altra lettera a Prezzolini) per la condotta brutale degli Alleati nei territori dell’ex Impero ottomano.

Comunque, arrivato a Odessa, Caffi terminò bruscamente le sue mansioni d’inviato speciale. L’idea di attraversare la Russia devastata dalle epidemie, dalla fame e dalla guerra civile in veste di giornalista gli parve insopportabile.  Invece di continuare il suo servizio, si aggregò alla missione internazionale di soccorso organizzata e diretta dal norvegese Fridtjof  Nansen, proseguendo così il viaggio verso Mosca.

Per i capi bolscevichi al potere, Caffi, che li aveva ben conosciuti come militante socialista, non aveva alcuna simpatia. Egli rimaneva naturalmente solidale con i menscevichi e i socialisti rivoluzionari ora perseguitati. È da notare tuttavia che già nell’articolo sopracitato egli aveva esposto con molta chiarezza le loro ragioni e mostratone la forza e la fondatezza. Ma nel trionfo dei bolscevichi egli vide, con uno scoramento simile a quello provato allo scoppio della guerra, la sconfitta di quanto c’era stato di più schiettamente libertario e socialista, e anche di più europeo, nella tradizione rivoluzionaria russa quale si era iniziata nel dicembre 1825. Ciò che lo rese una volta per sempre avverso ai bolscevichi fu il loro autoritarismo implacabile, nel quale tuttavia non mancava di riconoscere la fonte principale della loro forza. D’altra parte, gli fu anche chiaro che l’aggressione anglo-francese contro la rivoluzione russa aveva reso irreparabile lo scisma fra la nuova Russia e l’Europa, contribuendo a irrigidire la situazione interna e a fare del terrore un’istituzione permanente del nuovo regime.

Un’idea di quale fosse il comportamento di Caffi a Mosca in quegli anni la si potrà avere leggendo quello che egli stesso narra nel corso delle sue considerazioni su “Stato, Nazione e Cultura” della “monelleria” perpetrata da lui e dai suoi giovani compagni quando, lavorando negli uffici della Terza Internazionale, si divertivano a inserire nel bollettino da essi redatto notizie sgradite in alto loco.

Fu come “controrivoluzionario”, sotto l’accusa (infondata) di essersi adoperato a dissuadere i socialisti italiani venuti a Mosca con G. M. Serrati dall’aderire alla Terza Internazionale, che la Ceka lo arrestò. Rinchiuso nella prigione della Lubianka, dove ogni notte le porte delle celle si aprivano per l’appello dei condannati a morte (“fatto piuttosto a casaccio”, ricordava Caffi), fu liberato dopo alcune settimane grazie all’intervento di Angelica Balabanoff.

Rimasto a Mosca, quando vi giunse la prima missione diplomatica italiana gli fu chiesto di assumervi le funzioni di segretario. Le quali egli si vantava scherzosamente di aver sfruttato per fabbricare un cospicuo numero di falsi cittadini italiani, rilasciando passaporti a persone che volevano fuggire dalla Russia.

Ma ebbe anche da fare altro. Poco dopo la “marcia su Roma”, giunse alla missione di Mosca, direttamente da Mussolini nella sua qualità di ministro degli esteri, la richiesta di un rapporto sul costo in vite umane della rivoluzione russa, fra terrore bolscevico, guerra civile, fame e flagelli concomitanti. Fu Caffi a fare le ricerche e a redigere il documento. Il quale non potè essere d’alcuna utilità a Mussolini, visto che il motivo che l’aveva spinto a chiederlo era di poter affermare (come più tardi in un discorso non si peritò di fare) che la rivoluzione fascista era stata un fatto altrettanto importante della rivoluzione francese e di quella russa perché altrettanto e più sanguinoso.

Noterò qui in parentesi che, prima di lasciare la Russia, Caffi ebbe cura di depositare alla biblioteca centrale di Mosca (poi Biblioteca Lenin) un pacco di scritti e di documenti da lui raccolti, nel quale per parte mia son certo che lo storico futuro troverà materia importante di studio.

Tornato in Italia nel 1923, l’impiego avuto in Russia gliene valse uno al ministero degli esteri, a Roma. Fu incaricato della redazione di un notiziario per le ambasciate. Lontano com’era stato dall’Italia fin dal 1920, non sapeva quasi nulla del fascismo. Non tardò a farsene un’idea, e un giorno uscì dall’ufficio per non più tornarvi. Ma non senza prima aver ripetuto una “monelleria” del genere di quella perpetrata a Mosca: a guisa di commiato dalle sue mansioni ufficiali, aveva scritto e regolarmente spedito alle ambasciate nei vari paesi un ultimo bollettino, contenente un resoconto burlesco del famoso ricevimento offerto a Palazzo Venezia in onore dei neo-nobili del regime, dove Mussolini era insignito del titolo di “duca del Manganello”. Quale fosse dopo di allora il suo modo di vita a Roma, ne dà un’idea l’episodio raccontatomi da Vincenzo Torraca.

Un giorno, i suoi amici seppero che Caffi non aveva un domicilio e che, con la complicità di un guardiano, passava le notti su un giaciglio improvvisato nei locali della Biblioteca Vittorio Emanuele. Si provvide subito a trovargli un alloggio meno aleatorio. Per qualche tempo, parve che egli avesse consentito ad avere una dimora convenzionale. Ma dopo un po’ si seppe che dormiva di nuovo fra i libri. È’ un piccolo esempio di quanto fosse inutile cercare di persuadere Caffi ad avere un’esistenza “normale”.

A Roma, legato com’era all’ambiente intellettuale antifascista, e particolarmente a uomini come Umberto Zanotti-Bianco, Gaetano Salvemini, Emilio Lussu, Giuseppe Fancello, Umberto Morra, Vincenzo Torraca, partecipò alle vicissitudini della crisi Matteotti e dell’Aventino, con ciò che seguì. Collaborò con articoli politici a Volontà di Roberto Marvasi e al Quarto Stato di Pietro Nenni e Carlo Rosselli. Al tempo stesso, ebbe rapporti di cordiale, reciproca stima con Ernesto Buonaiuti e scrisse un articolo per la sua rivista Ricerche religiose. Risale a quegli anni l’amicizia con Alberto Moravia, allora giovanissimo e sconosciuto.

A titolo d’azione antifascista, tentò d’impiantare a Roma i metodi di cospirazione che aveva praticato in Russia. Frequentava perciò gli operai del vecchio quartiere dietro piazza Venezia, poi demolito per far largo a Via dell’Impero. In quell’ambiente, faceva propaganda sovversiva a suo modo, parlando della Russia e del socialismo, ma anche di storia e letteratura greca, senza cercar mai di far proseliti per una determinata parte politica o di farsi campione di un’ideologia particolare.

Per questa specie di attività sovversiva, nel 1926 fu minacciato d’arresto. Avvertito in tempo, partì per la Francia, dove fu per tre anni, a Versailles, precettore dei figli del principe Caetani, nonché segretario di redazione di Commerce, la rivista letteraria internazionale fondata da Margherita Caetani per suggerimento di Paul Valéry.

Stabilitosi nel 1929 a Parigi, in un albergo del quartiere della Convention dove aveva abitato anche prima della guerra, cominciò per Caffi un’esistenza molto diversa da quella che egli aveva condotto fino ad allora. Non che mutasse il suo stile di vita, ma venne, fra l’altro, a mancargli il modo di continuare l’esistenza errante e spensierata che aveva condotto da giovane.

Ma il passaggio dalla vita nomade a quella sedentaria non era che l’aspetto esteriore di un mutamento più profondo, indotto dall’esperienza della guerra e della rivoluzione russa.

Il 2 agosto 1914, come Caffi ripeteva ogni volta che ne aveva occasione, aveva segnato per lui non solo la fine della gioventù, ma il crollo di tutto un mondo d’idee e di speranze. Dopo la guerra, e dopo i tentativi che fece, insieme a qualche “uomo di buona volontà”, per rendersi utile alla causa di un’Europa più giusta, si formò in lui la convinzione che le nazioni europee erano ormai avviate sulla strada di crisi sempre più radicali che rendevano futile ogni idea di “restaurazione” della democrazia e del socialismo quali li si era concepiti prima del 1914. Tali crisi investivano naturalmente anche i “valori culturali” e il posto che essi avevano avuto nella società all’inizio del secolo. L’esito della rivoluzione russa, il sorgere del fascismo e delle altre specie di regimi autoritari confermavano questa convinzione, come la confermavano d’altra parte le tendenze che si manifestavano nel campo della cultura.

Non si trattava, come sarebbe troppo facile interpretare, di “disillusione” o di “pessimismo”, bensì di un rivolgimento profondo il quale sboccò nella convinzione ragionata che fra il culto dei veri valori umani e la società qual era, e ancor più quale si avviava a essere, non sussisteva alcuna possibilità di compromesso: la cultura, intesa come asserzione intransigente dei valori di verità e di giustizia, diventava un culto segreto, praticabile soltanto in piccoli gruppi eretici.

Ma, naturalmente, il principio di una tale convinzione era già nella personalità di Caffi giovane. Ciò si trova indicato con sufficiente chiarezza in una lettera cui il destinatario, Giuseppe Prezzolini, pubblicandola nel già citato volume Testimonianze, assegna la data probabile del novembre 1913. Parlando della sorte di “coloro che nell’epoca nostra seriamente ‘vogliono volere’ e sentono il bisogno di soluzioni nuove senza però essere in grado di precisare concretamente questa ‘nuova terra’ verso la quale navighiamo”, a un certo punto Caffi così scrive di se stesso:

“Sento un isolamento morale forse più grave di ogni altro, oggi come oggi ho la certezza assoluta che nessuno di quelli che conosco vorrebbe prendermi a collaboratore, diventarmi compagno di ricerche. Non è perché presuntuosamente io creda di arrampicarmi su vette più difficili degli altri. È semplicemente il gioco delle combinazioni create dall’esistenza fatta finora da me: non posso entrare in un campo perché ne conosco altri che con questo non hanno né avranno mai punti di contatto. E la sintesi può interessare, appassionare, imporsi come indispensabile a me solo. Le assicuro che niente è così amaro come la coscienza di un ‘residuo’ incomunicabile nei propri sentimenti, nei propri pensieri ogni volta che si avvicina con simpatia, con grande desiderio d’intendersi, uno che combatte in fin dei conti per la stessa mèta: la liberazione spirituale degli uomini, il rinnovamento della nostra civiltà tutta…”

In queste righe è già delineata la disposizione d’animo che dopo la guerra doveva portare Caffi alla decisione di appartarsi dal “secolo”, senza tuttavia separarsene. Cessando di essere nomade, la sua esistenza personale divenne quella di un “eremita socievole”. La porta della sua stanza, nell’hotel meublé dove abitava, rimaneva sempre aperta, all’uso russo, a chiunque venisse a fargli visita e a conversare; ed egli accoglieva tutti come se il suo tempo fosse a loro disposizione; i soli sui quali cadeva un pesante silenzio oppure, anche peggio, un seguito di monosillabiche imbarazzate risposte, erano le persone “importanti” che venivano talvolta a intervistarlo o, come lui diceva, a tentare di “ripescarlo” per riportarlo nella vita normale.

La sua vita, cioè la sua attività giornaliera, rimase sempre più fermamente dedicata alla causa che nella lettera a Prezzolini indicava con parole ingenue e fiere insieme: la liberazione spirituale degli uomini e il rinnovamento della nostra civiltà. La sua solitudine era decisione di non avere altra società che quella da lui scelta: non aveva niente di ascetico, esprimeva semplicemente la libertà di una natura incapace di adattarsi alle ragioni del mondo e risoluta a rimaner fedele al non serviam pronunciato in gioventù. In sostanza, quella di Andrea Caffi era la vita di un “filosofo” nel senso antico della parola: di un uomo, cioè, unicamente devoto alla ricerca del vero e del giusto e convinto che tale ricerca diventava un affare equivoco non appena vi si mescolassero preoccupazioni di successo mondano o di carriera.

A Parigi, dopo il 1929, egli visse di traduzioni e di lavori da “negro”; e so, a questo proposito, di più di un personaggio eminente che deve a lui i suoi successi accademici o letterari. Pochi erano infatti quelli che, come Gaetano Salvemini, riconoscevano apertamente il contributo dato da Caffi alle loro ricerche. I più lo consideravano uno scombinato fornito di grande cultura al quale essi, dietro compenso, davano almeno l’occasione di far uso delle sue conoscenze. Si tendeva, anzi, a ignorare, o addirittura a disconoscere, ciò che gli si doveva tanto più quanto più gli si doveva: ad appropriarsi, cioè, puramente e semplicemente delle sue idee per farne quel qualsiasi uso che conveniva. Né egli era uomo da accettare per un solo momento il concetto che esistesse qualcosa come la proprietà privata delle cose dell’intelletto.

Visse così in una povertà che troppo spesso era miseria. Una miseria prodiga e sdegnosa del sia pur minimo calcolo. Come preferiva non mangiare piuttosto che sedersi a una di quelle mense a prezzo fisso delle quali noi suoi amici eravamo clienti non troppo difficili, così per lui il cosiddetto superfluo veniva sempre prima del necessario, e i primi acquisti, quando aveva qualche franco in tasca, erano di saponi, dentifrici e acqua di Colonia. Né d’altra parte esitava un momento a vuotarsi letteralmente le tasche se s’imbatteva in qualcuno che avesse comunque bisogno d’aiuto. Vivergli vicino era una gran lezione di generosità e di nobiltà.

Povero com’era, egli aveva d’altronde in sé una ricchezza inesauribile: la capacità del dono di sé nell’amicizia. Il dono era, a dir vero, la sola forma di commercio umano che per parte sua egli riconoscesse e praticasse. Non c’è nessuno, fra quelli che gli sono stati amici, o anche che lo han conosciuto un po’ da vicino, che non abbia ricevuto da lui infinitamente più di quello che abbia potuto dargli. Ciò valse, a lui solitario e misconosciuto, di essere sempre attorniato da amici tanto più devoti e ammirati quanto più erano giovani. Ad essi, egli offriva senza risparmio i doni di una mente che (contrariamente al precetto dantesco), non stava mai contenta al quia, di un animo delicatissimo e, soprattutto, l’esempio di che cosa volesse dire vivere come un uomo libero in un mondo, come quello contemporaneo, servo dell’utile, del successo e della forza.

A Parigi, fino al 1935, Caffi fu collaboratore dei Quaderni e del settimanale di Giustizia e Libertà. Dei suoi rapporti con Carlo Rosselli e col suo gruppo si trova ampia notizia nella Vita di Carlo Rosselli di Aldo Garosci.

Molto ci sarebbe da notare sull’argomento. Ma la sede più adatta a questo sarà il volume degli scritti politici di Caffi, che dovrebbe seguire a poca distanza la pubblicazione della presente raccolta. Qui basti dire che la collaborazione di Caffi ai Quaderni e al settimanale di Giustizia e Libertà fu dovuta alla simpatia per quel gruppo, che gli parve il più vivace e spregiudicato dell’emigrazione antifascista, e non a un’adesione politica che del resto non gli fu mai chiesta. Quanto alle critiche che egli contemporaneamente non risparmiava alle idee e ai criteri ispiratori del “movimento”, esse erano dovute al desiderio che l’antifascismo italiano, almeno nella sua parte più giovane e intellettualmente più avvertita, si sollevasse dal terreno della polemica spicciola e della propaganda antimussoliniana per attingere al livello di movimento europeo e contribuire in modo positivo al rinnovamento della tradizione socialista e libertaria.

Fra i fuorusciti italiani, oltre che con Carlo Rosselli e i suoi compagni, Caffi ebbe rapporti di amicizia e di collaborazione con Salvemini, Tasca, Lussu, Saragat, Giuseppe Faravelli, G.E. Modigliani; senza dimenticare il vecchio sindacalista di Parma Giovanni Faraboli, che egli conobbe a Toulouse nel 1940 e aiutò a tenere in piedi un’impresa di solidarietà e mutua assistenza fra gli operai italiani emigrati della regione. Sia lecito infine ricordare, fra i suoi più giovani amici di allora, oltre il sottoscritto, Mario Levi e Renzo Giua, quest’ultimo caduto in Spagna nel 1937.

Ma, come si è già accennato, la cerchia delle amicizie di Caffi era singolarmente larga e diversa. Partecipò assiduamente alla vita di molti gruppi d’emigrati russi, fra i quali aveva amici particolarmente cari. Fu attivo in vari ambienti politici e intellettuali francesi, essendo molto vicino, fra gli altri, a Paul Langevin, il fisico illustre.

A Toulouse, Caffi rimase dal luglio 1940 al febbraio 1948. Nel periodo dell’occupazione tedesca prese parte all’attività di gruppi di resistenza sia italiani che spagnoli e francesi. Per questo, nel 1944, fu imprigionato.

Tornato a Parigi, non mancò di attirarsi nuovi amici. Fra questi fu Albert Camus, il quale, pensando che un tale lavoro avrebbe potuto aprirgli la strada verso mansioni meno modeste, gli procurò un lavoro di lettore presso Gallimard. Infatti, le schede di lettura da lui compilate attirarono subito l’attenzione. Ma il gradimento dei letterati non era stimolo che potesse vincere la ritrosia di Caffi; ed era d’altra parte impensabile, per chi lo conosceva, che egli potesse fare un passo qualsiasi, avvicinare una persona o scrivere una riga, per un motivo d’utilità personale.

Con l’avanzare degli anni, la sua vita rimase quella che era sempre stata: povera e prodiga. Nel frattempo, gli stenti e i disagi in cui aveva vissuto da anni, e che erano stati particolarmente duri negli anni della guerra, cominciarono a mostrare i loro effetti sulla sua costituzione fisica, che pure era molto vigorosa. Fra il 1954 e il 1955 la sua salute declinò rapidamente. Colpito da un male che probabilmente lo minava da tempo, mori il 22 luglio 1955 all’ospedale della Salpétrière. Le sue ceneri sono deposte al cimitero del Pére Lachaise.

Scritti di Andrea Caffi sono sparsi in riviste e giornali italiani, russi e americani. Nelle biblioteche italiane si trova un volume di Paolo Orsi, Le chiese basiliane della Calabria, pubblicato da Vallecchi, a Firenze, nel 1929, con una lunga appendice storica di Caffi intitolata Santi e guerrieri di Bisanzio nell’Italia meridionale. Nell’Enciclopedia Italiana, alcuni articoli di storia bizantina sono suoi. In questo campo, infatti, le sue conoscenze erano particolarmente sicure e profonde. Si era laureato con una tesi di storia bizantina e da allora lo studio della civiltà bizantina, legato a un più vasto interesse per la storia dell’ellenismo, era rimasto la sua passione particolare. Ma, come si è detto, la sua cultura era enciclopedica nel senso più forte della parola: talmente vasta da dar l’impressione di essere propriamente sconfinata, essa rimaneva mirabilmente precisa su ogni punto. C’era, in questo, qualcosa come la luce di un dono incomparabile.

È nello scambio amichevole d’idee, oltre che nell’esempio di libertà e di disinteresse che offriva giorno per giorno la sua esistenza, che Andrea Caffi dava il meglio di sé, irradiando quello “spirito arcangelo” di cui parlava Antonio Banfi. Ciò che di più somigliante, direi, rimane di lui si trova nelle lunghe lettere agli amici e nelle lunghe note che egli usava fare ai loro scritti o per chiarire opinioni espresse conversando.

Quelli ai quali nel presente volume si è data forma di saggi sono dunque propriamente brani e frammenti del bel discorso che fu, considerata dal punto di vista del commercio intellettuale, la sua vita. Sono brani e frammenti estratti dalle lettere e note di lui che chi scrive è riuscito a preservare. Molto, purtroppo, è andato perduto. Tuttavia, non solo si tratta di una minima parte di ciò che a Caffi accadde di scrivere, ma anche di una piccola parte di ciò che è stato conservato. Per non parlare, infatti, di ciò che hanno potuto conservare di lui gli amici russi e francesi, e a parte i manoscritti lasciati alla biblioteca Lenin di Mosca, esistono scritti e documenti di Caffi nell’archivio del Grande Oriente di Francia e in quelli di altre logge massoniche francesi e russe. Come alla causa del socialismo abbracciata in gioventù, egli era infatti rimasto fedele all’ideale massonico, al quale era stato iniziato adolescente in Russia.

Veramente e doppiamente frammenti, dunque, gli scritti che qui si pubblicano. Note e lettere non sono infatti, a loro volta, che brani di quella lunga lezione d’umanità che fu per il sottoscritto l’amicizia con Andrea Caffi.

Troverà il lettore in questi brani quel “principio filosofico” o quella “idea centrale” che, dopo averne letto alcuni nella rivista Tempo presente (dove la massima parte di essi è stata pubblicata) Giuseppe Prezzolini non ci ha trovato, e ha tenuto a dirlo in un articolo dedicato a Caffi e intitolato “Uno strano tipo”, che si può leggere nel Tempo di Roma del 5 agosto 1959?

In un certo senso è da sperare che no, che non li trovi, questo “principio filosofico” e questa “idea centrale”. Giacché nulla era più contrario al modo di vedere di Caffi dell’idea che il sapere e l’esperienza dell’uomo potessero o dovessero organizzarsi secondo un principio unico. Si potrebbe anzi dire che tutti i suoi discorsi tendevano a minare nell’interlocutore ogni certezza, o presunzione, di questo tipo; e la ragione principale, forse, per cui un uomo così straordinariamente dotato e erudito non produsse l’opera che pure avrebbe certamente potuto lasciare è la diffidenza per ogni “idea centrale” e per ogni “principio filosofico” applicabile per via di deduzione ai fatti umani. Tale diffidenza andava unita a una grande ambizione di ritrovare nel tessuto vivo della storia delle costanti secondo cui i fatti potessero ordinarsi senza nulla perdere della loro individualità. Ma lo scetticismo non perdeva i suoi diritti quando si trattava delle sue proprie idee. Molte volte gli capitava di accennare alla possibilità che, per esempio, i grandi sistemi di pensiero fossero apparsi nella storia a un ritmo determinato, o che un ritmo analogo si potesse scoprire nella durata dei grandi imperi. Ma si fermava subito, trattando simili speculazioni come dei giochi, e rimanendo sempre altrettanto guardingo nelle affermazioni quanto era preciso e sottile nella critica.

Si può dunque dire che la conoscenza storica gli serviva allo scopo eminentemente socratico di mostrare quanto poco sapessero in realtà gli storici e gli storiografi che avanzavano (come gli hegeliani e i neohegeliani) tesi categoriche sull’“idea” che ispirava questo o quel periodo della storia umana, sui parallelismi “morfologici” fra civiltà diverse e non comunicanti (come Spengler), ovvero (come Toynbee) sulle leggi che regolano la genesi, la crescita e la morte delle civiltà.

A tali “idee centrali”, Caffi rispondeva in un solo metodico modo: adducendo i singoli inconfutabili fatti che tagliavan loro, per dir così, l’erba sotto i piedi. Ma poiché consisteva nel rammentare tutto ciò che, in un dato evento o seguito di eventi, sfuggiva al particolare tentativo d’“inquadramento” di cui si trattava, la dimostrazione assumeva naturalmente un carattere positivo. Sicché, come dall’interrogazione socratica, così dalla critica di Caffi finiva per sprigionarsi la luce di una rivelazione: quella del fatto stesso nella sua vivezza e libertà, scevro delle sovrastrutture di cui volevano ricoprirlo i pregiudizi di chiesa, di setta o d’accademia.

Questo era il dono che si riceveva continuamente da Caffi: la visione del fenomeno “salvo” dai rigori della presunzione intellettuale e del dogmatismo. Se non bastava a fondare una filosofia della storia, l’esperienza ripetuta di una tale visione finiva per costituire qualcosa di più prezioso: il sentimento di ciò che vi è di sacro nei fatti umani e fa tutt’uno con la loro verità viva o, si potrebbe dire, la loro “essenza”. E tale sentimento era accompagnato dall’impossibilità ormai di dimenticare questa realtà, o comunque farne astrazione.

Giacché l’originalità profonda del pensiero di Andrea Caffi, e la grande lezione in esso implicita, era di concepire l’essenza, la verità viva, la sostanza sacra dei fatti umani come una realtà concreta, non come un’idea astratta, un principio ideologico o un precetto morale.

Tale realtà concreta non era altro che il tessuto intimo dei rapporti sociali. Questo tessuto cominciava secondo Caffi con la facoltà mitopoietica (da lui definita come “quel senso della situazione dell’uomo nell’universo, della persona nella società, della norma di una giustizia imprescrittibile… che unisce e connette come dal profondo i membri di una società, e grazie al quale essi comunicano in una visione armonica del significato dell’esistenza”) per continuarsi e articolarsi nei costumi, nella cultura e in tutte le forme di rapporti che noi chiamiamo “umani” per indicare che sono una conquista dell’uomo sull’informità e la brutalità, maniere non di subire la “natura”, ma di darle un senso e una forma.

Se il lettore di queste pagine non si preoccuperà troppo di sapere in anticipo dove -a quali conclusioni d’ordine generale- lo conduca il discorso di Caffi, è da credere che egli scoprirà presto come esso sia tutto ispirato da una sola e medesima idea e passione: quella di suscitare (o risuscitare) nella nostra epoca di inerzia massiccia e d’indifferenza il sentimento di quella realtà alla quale Aristotele dava il nome di philia, e la metteva a base del legame sociale, che Leopardi chiamava l’“umana compagnia” e che Caffi amava indicare col termine “società”, dando ad esso un significato particolare che egli spiega e esemplifica molto chiaramente.

Che cos’è la “società” di cui è continuamente questione nel discorso di Caffi? “È” egli dice, “l’insieme di quei rapporti umani che si possono definire spontanei e in certo qual modo gratuiti, nel senso che hanno almeno l’apparenza della libertà.

La definizione non potrebb’essere più piana e modesta. Essa tuttavia contiene al tempo stesso un sentimento della storia assai profondo e un ideale d’umanità assai alto. È infatti nel permanere di tali rapporti “che hanno almeno l’apparenza della libertà” attraverso le tormente della storia, nella loro capacità di resistere e sussistere malgrado le violenze, le deformazioni e gli stenti cui le assoggetta la volontà di potenza, nel loro riaffermarsi e dar frutto non appena le circostanze si facciano meno avverse, è in questa alterna e sempre tragica vicenda dell’“umana compagnia”, che Caffi scorgeva l’unico “senso” intelligibile della Storia.

Questo è il tema fondamentale del discorso molto coerente, anche se frammentario, che si svolge in queste pagine sia a proposito del rapporto fra violenza organizzata e ideale socialista o di quello fra Stato, nazione e società, sia che si trattino argomenti in apparenza disparati come il mito, la nozione di borghesia o la situazione della cultura nel mondo attuale.

È un discorso, quello di Caffi, che riflette una piena, pienamente sofferta e quanto mai ricca esperienza delle vicissitudini sia della storia che della cultura europea fra gl’inizi del secolo e i giorni nostri. Esso è anzitutto, per dirla con Montaigne, un discorso di buona fede. Aggiungerò che io, per parte mia, non ne conosco di più “attuale”, nel senso che, mentre la sua intenzione profonda è di salvare ciò che ha di prezioso la tradizione umanistica europea, esso rimane nel contempo interamente proteso verso “il rinnovamento della nostra civiltà tutta”.

È anche un discorso chiaro, e non esige ulteriore chiosa. Domanda soltanto quella disposizione ad ascoltare che non tardava a nascere in quelli che avvicinavano Caffi e che fra i più giovani si mutava subito in desiderio di conoscere il seguito delle sue idee; o forse meglio si direbbe: del suo racconto.

Ho dato a questa raccolta un titolo, Critica della violenza, che, se è ben lontano dall’indicarne la ricchezza, ne esprime però abbastanza bene l’intenzione complessiva. Giacché, in un’epoca in cui non solo legioni d’intellettuali si son gloriati di essere affiliati al partito della violenza, ma si son trovati filosofi per introdurre la violenza nella natura stessa del pensiero, Andrea Caffi opponeva alla violenza in ogni sua forma un rifiuto radicale. Quale che ne sia il punto di partenza, si può ben dire che il suo discorso è sempre diretto a opporre le ragioni dell’uomo all’urgenza delle forze che lo assillano, e talvolta lo sopraffanno.

 

Andrea Caffi

La “Critica della violenza”

Pubblicato da Radicali Anarchici

In forma un poco abbreviata, questo scritto fu pubblicato per la prima volta nel numero di gennaio 1947 della rivista Politics di New York, diretta da Dwight Macdonald, nella quale apparvero in seguito anche altri scritti di Caffi, tratti dall’amichevole corrispondenza che egli intrattenne con Macdonald Come saprete, Andrea Caffi fu un importante esponente del socialismo libertario. Già menscevico, nel secondo dopoguerra aderì al partito saragattiano.

La mia tesi è che un “movimento” il quale abbia per scopo di assicurare agli uomini il pane, la libertà e la pace, e quindi di abolire il salariato, la subordinazione della società agli apparati coercitivi dello Stato (o del Super Stato), la separazione degli uomini in “classi” come pure in nazioni straniere (e potenzialmente ostili) l’una all’altra, deve rinunciare a considerare come utili, o anche possibili, i mezzi della violenza organizzata, e cioè: a) l’insurrezione armata; b) la guerra civile; e) la guerra internazionale (sia pure contro Hitler, o… Stalin); d) un regime di dittatura e di terrore per “consolidare” l’ordine nuovo.

La ragione prima -tratta dall’esperienza e dal semplice buon senso- è che tali mezzi sono inefficaci, e anzi conducono a risultati opposti a quelli che ci si proponevano. A tale argomento -”utilitario”, se si vuole- se ne aggiungono parecchi altri: gli uni confermati dai pensieri e sentimenti unanimemente nutriti sin da quando gli uomini cominciarono a riflettere sulla condizione umana, gli altri imposti dalla situazione senza precedenti in cui si trovano i due miliardi di abitanti del pianeta Terra alla metà del secolo ventesimo.

Il disgusto (o l’orrore) della violenza è forse altrettanto antico quanto la violenza medesima, mentre l’esaltazione di questa è sicuramente un prodotto abbastanza recente di stati d’animo che abbiamo seri motivi di considerare artificiali, o anche morbosi. Io credo che Simone Weil abbia ragione di scorgere in fondo all’Iliade e ai tragici greci l’orrore per la violenza. Il buddismo non sarebbe riuscito a conquistare un cosi gran numero di proseliti se non ci fosse stata una corrispondenza intima fra i suoi precetti e un sentimento diffuso fra le masse popolari. Si hanno buone ragioni di supporre che durante l’età neolitica (durata forse più di cento secoli) una profonda pace regnasse fra quelle comunità sedentarie: dei selvaggi invasori armati di bronzo, e poi di ferro, vennero in seguito a riempire il mondo di carneficine e di gloria guerriera, diffondendo quell’ebbrezza di cui i Re d’Assiria e i Khan mongoli segnano i più tipici parossismi.

Nel corso dell’ultimo lungo secolo, dai coscritti dell’Anno II agli SS hitleriani, ai marescialli staliniani e ai generali del tipo Patton, l’umanità occidentale (senza parlare del Giappone, e della Cina “novatrice e guerriera”) ha sperimentato in tutte le sue forme la febbre e il culto della violenza: esasperazione patriottica, romanticismo rivoluzionario, “fardello dell’uomo bianco”, affermazione del superuomo al di là del bene e del male, riflessioni soreliane sulla violenza, terrore giacobino, fascista, bolscevico, eccetera.

Di fronte a questa marea, il pacifismo, che sembrava aver guadagnato non poco terreno nel XVIII secolo, ha non solo indietreggiato, ma s’è lasciato andare a una sorta di mimetismo pusillanime cercando una via d’uscita (provvidenziale o “dialettica”) sul terreno stesso sul quale il suo avversario andava di trionfo in trionfo (o di catastrofe in catastrofe). Il pacifismo razionalista dei liberali faceva troppe concessioni alla patria, e anche alla ragion di Stato; quello di un Robert Owen, di un Saint-Simon oppure di un Proudhon (il quale si opponeva soprattutto all’idea della “violenza rivoluzionaria”), l’evangelismo dei quaccheri e poi di Leone Tolstoi, erano ammirati o irrisi come sogni di spiriti ingenui. Le speranze “ragionevoli”, condivise da grandi masse d’uomini, riguardavano una “lotta finale” dopo la quale l’umanità si sarebbe trovata riunita nell’Internazionale; oppure una “guerra finale” (quella del 1914!) o, ancora più meccanicamente, l’effetto terrificante dei congegni omicidi, così devastatori che non si sarebbe osato servirsene. Tutta l’azione di Jaurès per la pace era minata alla base dal riconoscimento di una “sovranità nazionale” da difendere a ogni costo; l’antimilitarismo degli anarchici e dei sindacalisti francesi (spinto fino all’idea di uno sciopero generale dei mobilitati) mancava di prestigio morale in quanto, mentre ripudiavano la guerra fra nazioni, quegli uomini preconizzavano l’uso della violenza nella lotta di classe.

Guardiamo ora da vicino ai motivi dell’avversione dell’uomo civile per la violenza. Per semplificare il discorso, prendiamo come punto di partenza la seguente frase di Condorcet, che esprime la convinzione di un gran numero di suoi contemporanei: “Più la civiltà si diffonderà sulla terra, e più spariranno la guerra e le conquiste, in uno con la schiavitù e la miseria.”

La civilisation (parola nuova, nel XVIII secolo: non la si trova in nessun libro francese prima del 1765, e il dottor Johnson rifiutava ancora di ammetterla nel suo dizionario) era concepita dallo scozzese Millar come “‘ cette politesse des moeurs qui devient une suite naturelle de l’abondance et de la sécurité”. (Remarques sur les commencements de la société, seconda edizione francese, Amsterdam, 1773.) Nel 1780, l’abate Girard definiva la politesse asserendo che essa “ ajoute à la simple civilité ce que la dévotion ajoute a l’exercice du culte public: les moyens d’une humanité plus affectueuse, plus occupée des autres, plus recherchée”; il che suppone “une culture plus suivie, des qualités naturelles, ou l’art difficile de les feindre”. E fin dal 1736, nell’epistola dedicatoria di Zaïre, Voltaire aveva precisato che la politesse non è “une chose arbitraire comme ce qu’on appelle civilité: c’est une loi de la nature que… les Français depuis le règne d’Anne d’Autriche ont heureusement plus cultivé que les autres peuples”‘, divenendo, grazie a ciò, “le peuple le plus sociable de la terre”. Al che conviene aggiungere il tratto caratteristico, e così spesso reiterato, che Duclos formula opponendo i selvaggi, presso i quali “la force fait la noblesse et la distinction”, ai paesi civili, dove “la distinction réelle et personnelle la plus reconnue vieni de l’esprit”.

Si tratta dunque di “costumi”, di “cultura” di “umanità”, e non di principi metafisici o di precetti religiosi. Dall’ateniese che trattava umanamente il suo schiavo alla signora inglese che apostrofava il carrettiere che maltrattava il suo cavallo, la politesse, o refinement, consiste essenzialmente nel bandire ogni violenza. In nome di che? Del “rispetto di sé”, impossibile senza il rispetto degli altri; di una socievolezza che, estendendosi dall’uno all’altro, finisce logicamente col comprendere tutti gli esseri viventi. Alla superficie, si tratta di buona educazione e di “costumi civili”; in profondo, c’è in primo luogo la coscienza della “società” come fatto e come valore, e dunque immancabilmente della “giustizia” nei rapporti sociali, una nozione che -lo si vorrà ammettere- è più fondamentale di qualsiasi dogma religioso o morale.

Ma a ciò si aggiunge necessariamente il desiderio (poco importa se utilitario, come pensava Bentham, oppure ispirato dalla bontà divina) della felicità di tutti, senza la quale io stesso non potrei essere felice (“cette idée du bonheur, si neuve en Europe” dirà Saint-Just, e farà tagliar teste per affrettarne l’avvento). Insistiamo: la giustizia implica l’eguaglianza, la felicità esclude ogni oppressione. V’è dunque contrasto irriducibile fra l’aspirazione alla socievolezza e la volontà di potenza. Ogni violenza è, per definizione, antisociale. Ma la barbarie antisociale esiste in noi, nell’istinto di possesso, nel rancore, nella crudeltà nativa, nella paura, nell’ignoranza; e attorno a noi, visto che la civiltà, la politesse, la coltivata socievolezza son rimaste finora privilegio di una minoranza di persone in un numero limitato di luoghi. Donde, attraverso i millenni, il predominio quasi costante della barbarie, e specie della barbarie coperta da una vernice di civilité, per usare il termine dell’abate Girard. Le antinomie permangono. Sempre di nuovo, per preservare l’esistenza, si devono sacrificare le vivendi causas. Il compromesso è riuscito più o meno bene attraverso i secoli, giacché un certo numero di avversari sinceri d’ogni violenza è riuscito a sopravvivere, sia abbandonandosi di quando in quando alla violenza, sia cedendo ai suoi comandi. Ma oggi, a che punto siamo?Platone affidava la difesa della sua Repubblica a guerrieri espressamente allenati alla carneficina, come “cani da caccia”. Ma -importa notarlo- si trattava unicamente di guerra difensiva, visto che ogni ingrandimento territoriale avrebbe segnato la rovina della Città ideale. Importa anche notare che la casta degli armati è ancora più rigorosamente lontana dalla saggezza -fine essenziale della Città platonica- che non il popolo degli artigiani, confinato anch’esso in funzioni subalterne, ma non senza che si sian scelti nella sua progenie gl’individui suscettibili di essere avviati, attraverso un’educazione appropriata, ai gradi superiori. Si può inoltre intravedere che, nello Stato concepito da Piatone, la socievolezza e i costumi del popolo saranno umanizzati, mentre per i guerrieri è prescritta una disumanità rigorosa. Il problema che Platone cerca di risolvere è come si possa concepire una società capace di attingere a un grado supremo di civiltà e, al tempo stesso, di difendersi contro un ambiente barbaro. Il filosofo immagina quindi la sua Città: 1) come un’isola nell’oceano di un’umanità imperfetta, con la quale essa non avrà che dei contatti occasionali; 2) come un luogo dove si sarà una volta per tutte regolato il male inevitabile relegando una parte della popolazione nell’esercizio della violenza, mentre i lavoratori da una parte, i filosofi dall’altra, potranno godere i benefici di un’esistenza pacifica e di costumi gentili. Una tal situazione, e una tal divisione, non hanno nulla di utopico: rappresentano, in sostanza, quella che è stata la condizione di un buon numero di società civilizzate quando la lotta fra le classi non vi s’inaspriva fino a prendervi forme violente. E questo è appunto il pericolo che Platone pensa di aver eliminato dalla sua Repubblica.

Durante il diciottesimo secolo, e buona parte del diciannovesimo, malgrado la coscrizione universale decretata dalla Rivoluzione francese, la violenza non si esercitava che in momenti eccezionali o in zone limitate: era in genere l’affare di professionisti, e si credeva da molti che le sue forze tendessero ad attenuarsi e ad umanizzarsi. È solo dopo il 1914 che si è entrati nell’era della violenza totale, indiscriminata e senza tregua. Sappiamo bene quel che son diventati la civiltà, i costumi e la politesse sotto un tale regime. Che si creda o no in una qualsiasi religione, sia pure la “religione del progresso” o del più vago umanismo, il dilemma formulato da Dwight Macdonald in Politics s’impone a tutti: o ci liberiamo (noi e tutto il patrimonio della nostra cultura, con le idee di civiltà, giustizia, felicità che danno un senso alla nostra vita) dell’apparato di coercizione violenta che sembra aver fatto tornare l’esistenza sociale a quello stato di paura endemica che, secondo Hobbes, precede la formazione della società organizzata, oppure ne saremo stritolati.

È possibile vincere la violenza con la violenza? La questione, in realtà, ne nasconde due molto diverse. La prima è d’ordine empirico: quale probabilità c’è che un’organizzazione di refrattari, uomini liberi e pienamente coscienti dello scopo da raggiungere, disponga delle armi, dell’equipaggiamento, delle capacità tecniche per affrontare gli attuali padroni del mondo con una ragionevole prospettiva di successo? Ma la questione decisiva è l’altra: anche supponendo che si riesca a inquadrare le masse (ribelli, oppure repentinamente convertite a un ideale altamente illuminato della società e della civiltà), a strappare la bomba atomica ai suoi attuali detentori, e infine a impegnare la battaglia, è seriamente credibile che si possa evitare una ricaduta, in circostanze quanto si voglia “rivoluzionarie”, in quelle abitudini barbare, in quegli eccessi della volontà di potenza, e infine nella divisione fra un gregge docile e dei capi imperiosi che l’impiego organizzato della violenza inesorabilmente genera? E allora, come in Francia dopo Termidoro, come nel 1918-’19 un po’ dappertutto in Europa, come sotto Stalin in Russia, non sarà forse legittimo chiedersi: “Questi fiumi di sangue, perché son stati sparsi? Queste miriadi di giovani vite, a quale idolo sanguinoso sono state immolate?” E quale risposta si può dare a tali domande se non si condivide il culto della forza e del sacrificio eroico?

Chi era più devoto di Robespierre e di Saint-Just alla causa del popolo, al disegno di condurre l’umanità a governarsi da sé secondo la libertà, l’eguaglianza e la fratellanza? Nessuno certo ha perseguito con vigore più ostinato di Lenin e di Trotski la lotta per la unione dell’umanità in una federazione di collettività socialiste. E tuttavia furono Robespierre e Saint-Just a stroncare ogni slancio spontaneo del popolo di Parigi, demoralizzandolo col terrore e riducendo i clubs a sedute ufficiali frequentate da funzionari impauriti; e furono ancora essi a centralizzare e militarizzare la Francia (il che comportava il consolidarsi di una nuova casta dirigente di burocrati, di generali, di grandi fornitori dello Stato), sicché il paese fu maturo per il despotismo napoleonico e l’oligarchia dei notables. D’altro canto, furono proprio i due grandi capi bolscevichi a sopprimere i Soviet, a instaurare il regno della Ceka, a sottomettere i lavoratori alla gerarchia poliziesca dei sindacati di Stato, a moltiplicare i poteri arbitrari, i controlli soffocanti, e insomma a preparare il terreno per l’autocrazia di Stalin.

Né traditori né pusillanimi, i giacobini e i bolscevichi arrivarono a tali risultati seguendo la logica della “violenza rivoluzionaria”; e nel modo in cui applicarono tale violenza, come nelle azioni cui furono condotti da tale logica, essi rivelarono la loro mentalità essenzialmente “antisociale”. I giacobini francesi e i bolscevichi russi concepivano la realtà unicamente in termini di instaurazione di determinati rapporti di potenza e di “organizzazione” del governo e dell’economia pianificata nel nome del popolo o del proletariato, mentre non intendevano che in astratto, considerandoli come un sottoprodotto (o una “sovrastruttura”), quei costumi, quella socievolezza, quel bisogno di giustizia e di felicità che costituiscono il “contenuto immediato” dell’esistenza e la sostanza stessa della libertà delle masse popolari, se si vuole che esse formino effettivamente una società.

L’opinione che la storia non insegna mai nulla a nessuno è molto plausibile. Tuttavia, se si esaminano le esperienze di rivoluzioni e controrivoluzioni che si son susseguite dopo la ribellione delle colonie americane contro la Corona britannica, quel che colpisce è la regolarità con la quale si son ripetute talune serie di conseguenze. Conveniamo anzitutto di chiamare “società” l’insieme di quei rapporti umani che si possono definire spontanei, e in certo qual modo gratuiti, nel senso che hanno almeno l’apparenza della libertà nella scelta delle relazioni, nella loro durata e nella loro rottura: le pressioni non vi si esercitano che con mezzi “morali”, mentre i moventi utilitari sono o realmente subordinati, oppure mascherati dalla politesse, dal piacere che si ha a trovarsi in mezzo ai propri simili, dalla solidarietà affettiva che si stabilisce naturalmente fra i membri di un medesimo gruppo. Intesa in questo senso, la “società” esclude per principio ogni costrizione, e soprattutto ogni violenza. Apparirà allora chiaro che la forza, la continuità, i successi almeno parziali (giacché le forze oppressive possono certo essere schiaccianti) di un movimento d’emancipazione umana saranno in funzione diretta del grado di sviluppo e di consistenza della “società”, mentre nessuna organizzazione armata potrà aumentare le chances, né tanto meno i progressi reali di un tale movimento.

I tredici Stati americani erano, ben più che delle formazioni politiche o militari, delle comunità dal tessuto sociale assai vigoroso: i costumi puritani vi erano certo angusti e tirannici, ma erano anche accettati in piena libertà dalla stragrande maggioranza. E così -quasi all’altro estremo- l’anarchia della szlachta (la piccola nobiltà terriera polacca), che comportava una socievolezza vivacissima unita al sentimento permaloso dell’indipendenza personale, spiega la straordinaria resistenza dei polacchi a oppressori strapotenti per un così lungo periodo di tempo, nonostante la povertà economica del paese e la lamentevole politica dei governi “nazionali” (nel 1830 come nel 1930). È perché erano, secondo la parola di Voltaire, “il popolo più socievole d’Europa” che i francesi son rimasti fino al 1871 alla testa del movimento rivoluzionario. E, quanto alla Russia, la formidabile energia della Rivoluzione d’Ottobre non si capisce se non si tiene conto dell’azione parallela, durante tutto un secolo, delle sètte religiose (che erano comunistiche e, quasi tutte, tenacemente pacifiste) da una parte e, dall’altra, dell’intellighentsia umanitaria, accompagnata dal fiorire della “società” a Mosca e a Pietroburgo. Nel 1848, la socievolezza relativamente superiore di Vienna rispetto a Berlino, l’indigenza della “società” in Italia (con gradazioni alla cui cima si troverebbe Venezia, dove la vita sociale rimase, almeno fino alla fine del secolo XVIII, più animata che altrove) coincidono con le peripezie più o meno energiche, più o meno sfortunate, dei tentativi di liberazione. In Spagna, alle forze antisociali che dominarono il paese dopo la Controriforma e Filippo II, si oppose non già la tradizione centralista e autoritaria della Castiglia, ma la “coesione sociale” che ebbe i suoi focolai a Barcellona, nelle tendenze separatiste catalane e nelle forme di “solidarietà anarchica” diffuse in tutta la penisola.

L’altisonante apoftegma di Marx, “la violenza è la levatrice della storia”, manca di sottigliezza. Le emorragie causate dal forcipe storico possono essere più o meno gravi, l’operazione riuscire più o meno bene, e anche fallire. Vi sono le insurrezioni causate dalla disperazione o dal fanatismo, e annegate nel sangue: la violenza vi prorompe fino alla dismisura e, dopo l’assassinio del feto, la paziente -la “civiltà”- si trova indebolita al punto da non potersi più sollevare. Vi sono poi i colpi di Stato che chiamiamo “reazionari”, in quanto generalmente bloccano o “prevengono” un movimento di popolo. Essi cominciano sempre con un uso efficace della forza e, durante un periodo più o meno lungo, impiegano su larga scala la violenza per reprimere, o anche sopprimere, ogni spontaneità sociale al fine di estendere e consolidare al massimo il potere d’imperio di uno Stato, di un partito, di un capo, di un “ordine” inventato ad arbitrio. E vi sono infine le rivoluzioni “ liberatrici”, risultato della convergenza fra le aspirazioni lungamente maturate in vasti strati del popolo e le idee elaborate in seno alla “società”. Da qui l’atmosfera di gioia, di speranza radiosa, di riavvicinamento fraterno degli uomini che avvolge queste “albe di una nuova èra”. La violenza che segna il trionfo di un tale movimento è altrettanto repentina che breve, e come simbolica. La presa della Bastiglia, le giornate del luglio 1830 e del febbraio 1848 a Parigi, del marzo 1848 a Berlino come a Vienna, a Napoli, a Milano, costarono un numero di vittime insignificante; inoltre -particolare non trascurabile- una generosità caratteristica dei vincitori di tali battaglie ha sovente attenuato la crudeltà della lotta: i russi nel marzo 1917 e gli spagnoli nell’aprile 1931 poterono perfino congratularsi di aver conquistato la libertà senza spargimento di sangue. Sappiamo, tuttavia, che il sogno sognato in tali giorni non ha domani. Il primo trionfo di un moto popolare è immancabilmente seguito dalla tragedia; o, per esser precisi, da due fasi tragiche.

È che, da una parte, il quasi-razionalismo nato nel Rinascimento non ha soltanto bonificato le paludi della superstizione, ma ha anche inaridito quella che si potrebbe chiamare la facoltà “mitologica”: quel senso della situazione dell’uomo nell’universo, della persona nella società, della norma di una giustizia imprescrittibile e quasi ineffabile, che unisce e connette come dal profondo e dall’intimo i membri di una data società, e grazie al quale essi comunicano in una visione armonica del significato dell’esistenza. Gli occidentali si sono abituati a considerare le istituzioni, le leggi, la polizia (1) come delle realtà più conseguenti, e più maneggevoli, che non i costumi, i legami non-organizzati, la mentalità, le credenze vive di un ambiente sociale. D’altro canto, pochissimi, specie nel popolo, son quelli che hanno la percezione chiara di come il mutamento sostanziale che una rivoluzione consacra e promulga nelle tavole della sua legge è, in parte, già avvenuto molto prima delle “storiche giornate”, le quali altrimenti avvenute non sarebbero (così gli spostamenti di ricchezza, influenza e primato culturale di una classe sull’altra), mentre in parte non potrà realizzarsi che per tappe, in un avvenire che si prolungherà forse per parecchie generazioni (così i nuovi modi di vita, le vie aperte a nuovi “strati”, la caduta definitiva delle credenze esautorate). Si è al tempo stesso impazienti di un rinnovamento totale e preoccupati di non rimanere un sol giorno senza l’apparato che garantisce la continuità dell’ordine. Si è quindi delusi di vedere che plus ça change, plus c’est la même chose, e scandalizzati perché il “levati di là che mi ci metto io” profitta non già a tutti, ma solo ad alcuni, e non ai migliori.

Mani inesperte scuotono allora la macchina per rimetterla in movimento: le misure affrettate, e spesso contraddittorie, che si prendono hanno per scopo un impossibile “pronto ritorno alla normalità” piuttosto che un previdente adattamento a “torbidi” che potrebbero non essere infecondi. La diffidenza che s’insinua tra i capi e le masse, un’apprensione diffusa del “dove si va a finire?”, la resistenza subdola o insolente degli spodestati, la vertigine delle responsabilità e della “salute pubblica” aumentano il disordine; il quale può aggravarsi fino alla guerra civile, e penetra comunque nei meandri della vita sociale producendovi effetti contrari. Si vedono intensificarsi i legami di cameratismo, rivelarsi altruismi sublimi, ma al tempo stesso si scatenano lo spirito di conservazione esasperato, le rabbie gregarie, gli appetiti più brutali. Allora la violenza erompe da ogni parte e decide il corso degli eventi.

V’è stato sempre, o quasi sempre, un gruppo, o dei gruppi concorrenti, che il disordine non spaventava e che furon capaci di organizzarne lo sfruttamento. Ma assai raramente (nel solo caso della Rivoluzione americana, mi sembra, e fu un’insurrezione con scopi limitati, senza alcuna complicazione sociale, dunque un’eccezione assoluta) quelli che avevano preso la testa del movimento sono rimasti alla sua testa fino alla pacificazione finale. La “conquista giacobina” prevenne i piani tortuosi della reazione monarchica; i bolscevichi annientarono il tentativo prematuro di Kornilov; nel 1848, a sbarrar la strada al bonapartismo, non ci furono che dei “montagnardi” indecisi; in Spagna, Gil Robles prima, Franco poi, ebbero in mano delle carte che né la FAI, insidiosamente assillata dagli staliniani, né Negrin poterono controbattere.

Così si giunge alla terza fase della rivoluzione, il trionfo di una violenza dittatoriale che “consacra le conquiste del popolo” o “restaura” l’antico regime, ma che, nell’un caso come nell’altro, rafforza gli organi di coercizione a spese della società e della civiltà. Fino a oggi, i partigiani convinti della violenza rivoluzionaria hanno sempre sperato che si potesse “far meglio la prossima volta”. Oggi, però, sarebbe un rischio assurdo impegnare la battaglia contro un potere i cui mezzi e i cui sistemi abbiamo visto “illustrati” in sei anni di guerra totale, per vederla poi finire… come è sempre finita, e ritrovarci sottoposti sul serio e per lungo tempo a un apparato di dominio controllato magari dai capi che noi stessi avremo scelto come i soli capaci di tener testa all’avversario.

Bisogna evidentemente cercare mezzi più sicuri, e soprattutto più conformi ai fini. E se è vero che la situazione attuale non ha precedenti nella storia, sarà pure ragionevole preconizzare l’invenzione di una “strategia” e di una “tattica” ancora mai tentate, e delle quali l’esperienza del passato non offre che accenni suggestivi.

Sicché, alla domanda: su quali princìpi può fondarsi un’“azione di resistenza” da cui sia escluso l’impiego della violenza organizzata, io risponderei in questi termini: a) la violenza è incompatibile con i valori di civiltà e d’umanità socievole che noi vogliamo appunto preservare dagli attentati distruttori dei violenti; usando la violenza, noi rinneghiamo necessariamente i valori che sono la nostra ragione di vivere e ne ritardiamo indefinitamente la propagazione e la fioritura; b) le risorse meccaniche e i sistemi d’organizzazione massiccia (eserciti e polizia, Ceka e Gestapo, campi di concentramento, regime russo nei paesi satelliti) che vengono attualmente impiegati nella lotta fra gruppi umani hanno raggiunto un tale grado d’atroce efficienza che la distruzione completa della società civile, se non del genere umano, è diventata una possibilità effettiva. Non è affar nostro provocare l’Armageddon.

E i partiti socialisti? Nel suo libro Travaux, Georges Navel, operaio di officina, racconta la sua vita: “Verso i quindici anni -egli scrive- ne avevo abbastanza della vita di fabbrica e della sua disciplina. Quel che volevo era, subito, una vita più nobile e degna, una vita in cui non fossi più un operaio, in un paese dove non ci fosse che dello spazio, e niente industria.” La disperazione si fa così cupa che, una sera, l’adolescente scavalca un ponte sul Rodano: non ci guadagna che un bagno d’acqua sporca, dopo il quale ritorna alla catena di montaggio. Gli altri tentativi di evadere dalla propria condizione, o di costruirsi una vita a parte dal lavoro quotidiano, non riescono meglio. “Otto ore d’officina bastano per esaurire le energie di un uomo. Quel che egli da al lavoro è la sua vita, il meglio delle sue forze. Anche se il lavoro non lo ha avvilito, se non si è sentito sopraffatto dalla noia e dalla fatica, ne esce esausto, diminuito, con l’immaginazione inaridita… Al mattino, non mi svegliavo che quando arrivavo nel frastuono dell’officina, e quando ne uscivo il frastuono mi perseguitava dovunque. Mi sentivo ridotto a un pezzo di officina, per l’eternità.” All’ultima pagina del suo libro, Georges Navel conclude: “C’è una tristezza dell’operaio per cui non c’è altra medicina che l’azione politica”.

Socialisti e comunisti trovano una tal conclusione perfetta: per loro, essa indica una “coscienza proletaria” ben matura. Quanto a me, non posso fare a meno di notare due cose: la prima è che una tale adesione al “movimento di classe” (e dunque di massa), lungi dal costituire di per sé il raggiungimento di una pienezza vitale in cui si adempiono le aspirazioni profonde dell’individuo, rappresenta piuttosto lo sbocco e la chiarificazione di un risentimento. Sono due cose molto diverse. D’altra parte, un uomo così sincero, il cui essere è stato ferito in modo così irrimediabile, non potrà mai trovare nell’azione politica quel pieno riscatto che cerca. L’organizzazione di partito, i comizi e le sfilate in massa, gli slogans della propaganda, le campagne elettorali, e persine la cospirazione e l’insurrezione armata, possono essere mezzi ottimi e necessari nel pensiero utilitario dei dirigenti, ma non mai esaurire il significato della sua esperienza. In fin dei conti, sono dei surrogati. E questo spiega, fra l’altro, la sproporzione penosa fra i sublimi sacrifici degli “elementi di base” e i risultati che si propongono, o riescono a ottenere, i capi.

Qui, la politica appare come un surrogato -spesso irrisorio- del sociale, ossia di quella comunione spontanea fra uomini coscienti del proprio destino la cui realtà sostanziale nozioni come “civiltà”, “dignità”, “eguaglianza”, “fratellanza”, “gentilezza di costumi” non fanno che indicare approssimativamente.

Ora, si vorrà pure ammettere che nell’idea di “socialismo” c’è l’idea di “società”. Fin dai suoi primordi, nelle concezioni dei grandi pensatori come nel sentimento delle comunità oppresse, “socialismo” ha significato anzitutto annettere un’importanza preminente all’uomo che vive in una trama di rapporti sociali spontanei, egualitari, “civili”: solo per un tale uomo, infatti, i problemi della giustizia e della felicità hanno un senso. Le istituzioni, le attività governative, le lotte di fazione che costringono, e spesso soffocano, la società, sono sempre apparse ai veri socialisti o come escrescenze maligne da eliminare, oppure come un male necessario da limitare e circoscrivere al massimo.

È d’altra parte evidente che non c’è società la quale non sia “completata”, sostenuta, o schiacciata, da una struttura politica, e per la quale quindi le questioni di governo come quella della guerra e della pace non abbiano un’importanza vitale. Una fusione completa del “sociale”, del “politico” e del “religioso” fu realizzata solo nella città greca e, forse con minore armonia, nelle città fenicie, etrusche, latine. Mentre, in Occidente, il Comune medievale s’è costituito come unione essenzialmente sociale e laica, e non ha raggiunto che in prosieguo di tempo, e solo in una minoranza di casi, la forma di corpo politico (Repubblica). Ed è anche la preminenza del fenomeno “sociale” nel carattere personale del rapporto fra signore e vassallo che distingue, tra il secolo IX e l’XI, il feudalismo occidentale da formazioni molto più “politiche”, o anche “teocratiche”, che s’usano designare con lo stesso termine: da una struttura sociale come quella del Giappone, per esempio. Platone ha naturalmente adattato la sua visione di una società “perfetta” alla forma di una città ellenica; diciamo pure che, di tali forme, egli adottò il tipo “laconizzante”, conforme a certi pregiudizi degli ambienti aristocratici da cui proveniva. Ciò gli ha valso, fra le altre, le severe ramanzine del professor Arnold J. Toynbee. Ma ci deve pur essere un malinteso, quando si arriva a immaginare il maestro dell’Accademia come una specie di conservatore terrorizzato che avrebbe concepito il poco intelligente progetto di fissare una volta per sempre la vita dello Stato e della società, imponendole la tetraggine di una disciplina immutabile.

Si può discutere se Platone abbia avuto ragione o torto di diffidare della felice concordanza fra la socievolezza più libera, più civile e più umana da una parte e, dall’altra, il regime democratico ateniese quale lo elogia Pericle nel suo famoso discorso. Comunque, dopo le terribili prove e il disastroso bilancio della guerra detta del Peloponneso, non era certo irragionevole pensare che il fiorire della società attica era troppo legato all’espansione imperialista e ai contrasti di ricchezza che avevano provocato sia i massacri di Corcira e d’Argo sia il regime di terrore instaurato da Crizia ad Atene. Ora, la preoccupazione che anima la Repubblica (il cui tema, non dimentichiamolo, è la “giustizia”) è come si possa preservare la civiltà ellenica dai funesti effetti della volontà di potenza, della sete di guadagni, della troppa ricchezza e della troppa povertà. Ma prospettive ancor più vaste e minacciose assillavano la mente di Platone: sotto i suoi occhi, la polis si disgregava; i costumi, le istituzioni politiche, la vita spirituale non si accordavano più che a gran pena; gli interessi particolari si opponevano al bene comune; l’alta cultura filosofica perdeva il contatto con le credenze popolari. In un passo della famosa VII Lettera, Platone poteva scrivere: “La legislazione e i costumi erano a tal punto corrotti che io, che dapprima ero stato pieno d’ardore e di desiderio di lavorare al bene pubblico, riflettendo sulla situazione e vedendo come tutto andava alla deriva, finii col rimanere come stordito… Alla fine, compresi che gli attuali Stati sono tutti mal governati, e che il male di cui soffrono le loro leggi non si può guarire senza il soccorso di circostanze fortunate, ora imprevedibili”. Nell’attesa di tempi migliori -o peggiori- l’élite della società greca e la quintessenza della sua civiltà avrebbero dovuto conservarsi in piccole “città-modello” d’ispirazione filosofica, così come, più tardi, si conserverà nei conventi il culto, e lo studio, delle antiche lettere.

Fino a quale punto Platone sperasse di veder effettivamente sorgere rifugi di questo genere, nessuno può dire. Forse il filosofo presentiva che la nostalgia di una società più umana si sarebbe mantenuta e tramandata e perpetuata solo attraverso la influenza della cultura ellenica su “scuole”, cenacoli, sètte. Che è, di fatto, ciò che avvenne: noi troviamo, fra l’altro, motivi indubbiamente “platonizzanti” nel Cristianesimo, nell’Isiam, e in molti movimenti ereticali del Medio Evo; né è da trascurare la tesi di Simone Weil sulle origini greche della predicazione evangelica.

Quel che è certo, in ogni caso, è che Platone fu condotto a immaginare la Città dove “tutto sarebbe messo in comune” dal disgusto per la politica: non solo per la politica tirannica dei Trenta, alla quale si era trovato mescolato a causa dei suoi legami di famiglia, ma per quella dei loro successori “democratici”, responsabili della morte di Socrate. L’esempio di Platone suggerisce che ci sono momenti, nella storia, in cui è ragionevole e lungimirante abbandonare ogni speranza di risultati immediati e massicci.

Quanto agli altri rappresentanti della tradizione socialista, già prima di toccar con mano le realtà della politica come Cancelliere d’Inghilterra, Thomas Moore aveva in ben poca stima i governanti del suo tempo, sotto la cui egida egli aveva visto ridurre i contadini alla condizione di bestie perseguitate, nelle enclosures. La sua Isola d’Utopia era un giardino dove le facoltà dell’uomo pacifico e socievole non avrebbero subito alcuna costrizione da parte di autorità costituite. E la Città del Sole apparve a Campanella dopo che il fallimento catastrofico del complotto di Calabria e la prigione lo ebbero allontanato dalla politica attiva.

Le società giuste e felici immaginate da More e da Campanella eran basate sull’ideale di un governo all’antica, più o meno stilizzato. Mentre, nel Medio Evo, le vampate di comunismo messianico di Fra Dolcino e dei Fratelli Moravi avevano per modello le città libere e i “cantoni” di contadini affrancati su cui poco pesava l’autorità lontana del re o dell’imperatore. Giovanni di Leyden o gli estremisti del puritanesimo anglo-scozzese eran mossi da archetipi tratti dal Vecchio Testamento. Nel Seicento e nel Settecento -come già sotto le monarchie ellenistiche- i riformatori speravano che un “despota illuminato” avrebbe fondato o protetto delle comunità ideali. Gli anabattisti e i quaccheri non si curarono mai di questioni istituzionali. In tutti questi casi, i mezzi si possono discutere, ma il fine è sempre una “società” più umana. E il raggiungimento di un tal fine è concepito possibile solo fuori delle istituzioni esistenti.

Nei tempi moderni, la prima opera di Saint-Simon (Lettres d’un habitant de Genève) denuncia l’errore commesso dalla Rivoluzione quando aveva voluto applicare un rimedio politico a un disordine che era essenzialmente sociale. Robert Owen non prese parte alcuna nel fermento radicale del 1820 né, più tardi, nell’agitazione cartista. Proudhon, nel febbraio 1848, andò sulle barricate, ma non credeva che il popolo potesse ottenere un beneficio qualsiasi da una rivoluzione politica, e riteneva futile “organizzare la Repubblica” quando il problema era “organizzare la società”. Al tempo stesso, sia Saint-Simon che Robert Owen e Proudhon pensavano che un regime autenticamente liberale avrebbe favorito i loro piani di riorganizzazione della società. Per contro, Babeuf, Blanqui, Louis Blanc, e senza dubbio anche Karl Marx, videro nel Comitato di Salute Pubblica un primo e riuscito abbozzo di quella “dittatura del proletariato” che avrebbe garantito il trionfo del socialismo. Non si può certo dire che tali mezzi non siano stati applicati a fondo nel nostro tempo.

Venne poi la Seconda Internazionale e consacrò l’amalgama socialismo-democrazia. Per democrazia, qui s’intendeva un’amministrazione statale fortemente centralizzata, fortemente armata, alimentata da un grosso bilancio, e in cui lo “spirito nazionale” fa funzione d’anima. Un tale meccanismo è sottoposto alla sorveglianza, se non proprio alla direzione, degli eletti del suffragio universale; questi, a loro volta, si suppone che siano controllati dall’“ opinione pubblica” (identificata in genere col “popolo”) grazie a una completa libertà di stampa, di riunione e d’associazione e alla concorrenza fra partiti organizzati. Tutto questo, naturalmente, era fondato sull’ipotesi che la complessità della macchina stessa, e il margine da lasciare alla competenza speciale dei tecnici civili e militari, non rendesse il “controllo” puramente illusorio.

In ogni caso, il socialismo avrebbe dovuto servirsi astutamente di un tal poderoso mezzo, eliminandone i difetti e preservandone i vantaggi. Ciò che accadde a questa utopia -la più macchinosa di tutte- è già storia antica. A causa del rapido successo della propaganda socialista fra le masse, l’azione politica dei partiti socialisti passò ben presto dall’intransigenza alla riforma, e dalla riforma alla collaborazione effettiva con lo Stato “borghese”. A maggior gloria dello Stato nazionale e della sua “grandezza”. Le riforme ottenute per via di lotta o di compromesso avrebbero dovuto servire a far partecipare sempre di più le classi lavoratrici alla direzione della cosa pubblica. Ma esse consistevano poi essenzialmente in vantaggi economici (che ci si credeva in diritto eo ipso di qualificare “sociali”) garantiti dalla legge a quelli che fin allora “non avevano (avuto) nulla da perdere”. Il risultato era un innegabile miglioramento delle condizioni materiali del popolo, ma anche inevitabilmente un aumento delle risorse, dei mezzi d’azione, del numero dei funzionari al servizio dell’apparato sovrano dello Stato. Senza quasi avvedersene, il movimento socialista impegnò tutte le sue forze nell’azione “democratica”, non riservando al “socialismo” (cioè alla civiltà, alla società, alla giustizia) che una funzione di parata nelle manifestazioni ideologiche. E fu sempre meno questione di società, sempre più di “Stato socialista”, o di socialismo di Stato.

Si arrivò così al 1914, l’anno in cui i partiti affiliati alla Seconda Internazionale abbandonarono l’atteggiamento intransigente statuito dal congresso di Amsterdam del 1904 partecipando a dei governi di difesa, ma fatalmente anche di “conquista”, nazionale. Ora, è precisamente nel 1914 che le grandi democrazie moderne si avviarono verso la forma (e il contenuto) dello Stato “totalitario”, il quale consiste essenzialmente nella soppressione totale della società, e nella noncuranza egualmente totale per i valori di socievolezza e di civiltà.

Mi sembra inutile insistere sui progressi irresistibili del sistema totalitario nei tempi più recenti. Basti ricordare un fatto culminante: nel paese meno affetto dal cancro dell’onnipotenza statale, negli Stati Uniti, a Oak Ridge, centoventimila operai hanno potuto essere impiegati per lunghi mesi senza che avessero la minima idea dell’oggetto del loro lavoro. E l’oggetto del loro lavoro era un congegno capace di annientare in pochi minuti trecentomila vite umane (2). A questo punto, è chiaro che la macchina democratica ha bisogno di riparazioni.

“Tutto nello Stato, niente fuori dallo Stato, niente contro lo Stato.” Sotto Innocenzo III, era la Chiesa che si arrogava diritti totali sulla società, in un mondo relativamente piccolo e con mezzi di coercizione rudimentali. Oggi, su un tale principio, sono d’accordo praticamente tutte le “Nazioni unite” (o disunite). Alla società come l’intendeva il socialismo si sostituisce la “civiltà di massa” (della massa in quanto tale), i cui Anacreonti e Tirtei occupano le stazioni-radio, dirigono e sfruttano la produzione cinematografica, perfezionano dovunque i sistemi di produzione e i metodi pubblicitari.

Ci sembra dunque difficile mettere in dubbio che l’idea dell’azione di massa con la parola d’ordine “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”, nella prospettiva grandiosa del “salto dal regno della necessità nel mondo della libertà” è oggi completamente esaurita. Dove potremmo trovare il coraggio di ricominciare da capo, dai piccoli gruppi organizzati ai grandi e ben disciplinati partiti di massa? I fatti ci dicono che: 1) le basi, gli scopi e il significato di una “politica di classe” sono completamente mutati; 2) la “democrazia” quale funziona oggi nei grandi Stati moderni non può più esser considerata terreno naturalmente propizio ai progressi del socialismo: in ogni caso, non si può avere nella sua “evoluzione” la fiducia che poteva esser legittima nel 1889; 3) l’obbiettivo essenziale di una politica socialista, oggi, non potrebbe essere che la lotta tenace contro la “macchina” dello Stato nazionale, che è diventato l’agente principale, se non unico, dell’oppressione sociale.

Ci vorrebbe un volume dell’importanza del Capitale per esporre i mutamenti che la tecnica e l’economia (ma anche quelle che i marxisti credono di poter chiamare “soprastrutture”: i costumi, il regime politico, la cultura) hanno determinato nelle situazioni sociali e nei rapporti fra le classi durante gli ultimi cinquant’anni. Quel che sembra modificare nel modo più radicale l’orizzonte di un socialista il quale voglia avere un quadro chiaro di ciò che impedisce oggi il cammino verso la giustizia, è che, oggi, bisogna considerare tutto il pianeta come un’unità.

In questa unità globale, al contrasto semplicista fra borghesi e proletari in ciascun paese isolatamente preso si è sostituita una scala in cui hanno un posto ben determinato l’indigeno sfruttato in condizioni prossime alla schiavitù, l’“uomo di colore” segregato da certi impieghi e situazioni, l’operaio privilegiato, il proletario parassita, il piccolo imprenditore tiranneggiato dai “monopoli”, gli intermediari sempre più numerosi, i funzionari dello Stato direttamente o indirettamente coinvolti negli “affari”, le turbe di politicanti, giuristi, scienziati, agenti di pubblicità, tecnici del divertimento e delle “comunicazioni” di massa; e, al vertice, il piccolo numero dei veri potenti. Ma, al tempo stesso, costoro dipendono tutti gli uni dagli altri, al dilà delle frontiere nazionali e delle categorie ufficiali della “ divisione del lavoro”. La lotta di classe è molto più accanita di una volta, ma anche molto più confusa. Ci sono classi e frazioni di classi che, pur essendo oppresse, s’oppongono ferocemente all’emancipazione di certe altre; c’è una massa di gente che sostiene passivamente lo stato di cose attuale per il profitto indiretto che ne ricava: burocrati statali e non statali, intellettuali e professionisti corrotti o semicorrotti, domestici grandi e piccoli dei potenti. Nessun partito può diventare “partito di massa” se non si adatta a questa “base” fangosa. I socialisti non possono più ignorare questo ingranaggio complesso, continuando a esigere (a parole a spese dei capitalisti, ma in realtà sul bilancio dello Stato) “pane e cinematografo” per i salariati delle fabbriche.

Che cosa rimane?

Pochi individui dispersi, e piccoli gruppi isolati, capaci, al tempo stesso, di un pessimismo risoluto quanto all’avvenire immediato e di non disperare dell’“eterna buona causa” dell’uomo.

Marx e Engels hanno scritto, e i signori Thorez e Togliatti lo vanno ripetendo con unzione, che il socialismo s’identifica con l’umanismo. Quanto a me, temo che i padri del socialismo scientifico pensassero soprattutto alla filologia e alla filosofia che fiorivano così prospere, al loro tempo, nelle Università tedesche, e i cui lumi, insieme a quelli della “Scienza” in generale, avrebbero dovuto aiutare i proletari a prender coscienza della loro missione storica: l’erudizione più la dialettica…

Ma l’importanza dell’umanismo nella nostra civiltà non è consistita principalmente nella “rinascita delle lettere e delle arti”, né in quelle “umanità” di cui i gesuiti han mostrato come potessero anche, e molto bene, essere utilizzate ad asservire gli spiriti. Il grande impulso dato dalla reviviscenza dello spirito greco si manifestò -attraverso sconfitte ed eclissi, ma anche con un “progresso” irresistibile- nel fiorire di una socievolezza che era “libera” soprattutto nel senso che gli uomini sceglievano liberamente i loro “simili” al di là delle barriere di casta, di nazionalità, di confessione religiosa. E in questa socievolezza, rapporti di autentica politesse, ossia basati sull’eguaglianza e la reciproca fiducia, sostituivano i cerimoniosi e sospettosi artifici del “rispetto gerarchico”.

Oggi, il moltiplicarsi di gruppi d’amici partecipi delle medesime ansie e uniti dal rispetto per i medesimi valori avrebbe più importanza di qualsiasi macchina di propaganda. Tali gruppi non avrebbero bisogno di regole obbligatorie né di ortodossie ideologiche; non fiderebbero sull’azione collettiva, ma piuttosto sull’iniziativa individuale e sulla solidarietà che può esistere fra amici che si conoscono bene e dei quali nessuno persegue fini di potenza. Il Cristianesimo fece le sue più stupefacenti conquiste quando era diviso in un gran numero di chiese autonome, collegate fra loro dalla “comunione”, senza una gerarchia episcopale ben definita, né autorità “ecumenica” di sinodi o di patriarchi. Nel XVIII secolo, i cenacoli di libertini e di enciclopedisti, le piccole “società di atei” di cui parlano volentieri Fielding e Smollett, le Logge massoniche e i “salotti dove si conversava” svolsero una propaganda irresistibile, mettendo in contatto gli spiriti liberi da un capo all’altro d’Europa. Quegli uomini non avevano alcun bisogno di un’organizzazione centrale che prendesse decisioni e applicasse sanzioni in loro nome. Il loro scopo era di trasformare i modi di pensare e i costumi piuttosto che le cose, e perciò la loro opera portò nel mondo un cambiamento reale.

(1) “J’appelle police les loix et ordonnances qu’on a de tout temps publiées dans le Estats bien ordonnez pour régler l’oeconomie des vivres, retrancher les abus et les monopoles du commerce et des arts, empêcher la corruption des moeurs, retrancher le luxe et bannir des villes les jeux illicites” (LE BRET, Traité de la Souveraineté du Roy, 1700 – Livre IV, Chapître XV).

“On prend quelquefois [le mot police] pour le gouvernement général de tous les Estats, et dans ce sens il se divise en Monarchie, Aristocratie, Démocratie… D’autres fois il signifie le gouvernement de chaque Estat en particulier et alors il se divise en police ecclésiastique, police civile et police militaire… [Mais] ordinairement et dans un sens plus limité, police se prend pour l’ordre public de chaque ville, et l’usage l’a tellement attaché à cette signification que toutes les fois qu’il est prononcé absolument et sans suite, il n’est entendu que dans ce dernier sens” (DELAMARE, Traité de la Police, 1713 -Livre I, Titre I).

(2) Valutazioni più recenti del numero delle vittime di Hiroshima hanno ridotto a un terzo questa cifra. L’enormità della strage rimane.

Pietro Polito

Critica della violenza

 Claudio Pavone nel classico Una guerra civile (Bollati Boringhieri, Torino, 1991, p. 419) indica come particolarmente significativa la posizione di Andrea Caffi (1887-1955), un intellettuale che, dopo avere attraversato tutti gli sconvolgimenti del ‘900, dalla Rivoluzione russa alla Resistenza vissuta in Francia, nel 1946 giunge alla conclusione che “la violenza organizzata è sempre negativa, in qualsiasi guerra, sia pure contro Hitler … o Stalin”.

A Caffi, si deve uno dei più importanti contributi della critica italiana della violenza. Mi riferisco al saggio Critica della violenza, apparso nel gennaio 1946 nella rivista “Politics” (New York), riproposto da Nicola Chiaromonte in A. Caffi, Scritti politici, Bompiani, Milano 1966, e ripreso da Gino Bianco nella collana “Piccola Biblioteca Morale”, presso le edizioni e/o nel 1995 (da cui cito)

Di seguito riprendo cinque domande che emergono dal discorso di Caffi e che si possono considerare i primi frammenti di una critica della violenza: 1. Bisogna bandire la violenza. “In nome di che?”; 2. È possibile vincere la violenza con la violenza?; 3. La violenza è la levatrice della storia?; 4. Su quali principi può fondarsi un’azione di resistenza, da cui sia escluso l’impiego della violenza organizzata?; 5. Che cosa rimane?.

  1. Bisogna bandire la violenza. “In nome di che?”.

In nome “del rispetto di sè “ – risponde Caffi –, che è “impossibile senza il rispetto degli altri”; in nome “di una socievolezza che, estendendosi dall’ uno all’altro, finisce logicamente col comprendere tutti gli esseri viventi”. Il rifiuto della violenza in Caffi, a differenza di un autore come Aldo Capitini, non implica alcuna considerazione di carattere religioso: egli non fa appello a valori trascendenti ma, puramente e semplicementre alla “coscienza della società come fatto e come valore e dunque immancabilmente alla giustizia”: questa gli appare come “una nozione che – lo si vorrà ammettere – è più fondamentale di qualsiasi dogma religioso o morale”. Se il fine della società è la giustizia tra gli associati e la felicità degli associati, continua Caffi, “la giustizia implica l’eguaglianza” e “la felicità esclude ogni oppressione”. Bisogna bandire la violenza, dunque, perchè “fra l’aspirazione alla socievolezza e la volontà di potenza” il contrasto è irriducibile: “Ogni violenza è per definizione antisociale” (p. 67).

  1. È possibile vincere la violenza con la violenza?

Contro la tesi che alla violenza occorre rispondere con la violenza, Caffi muove, realisticamente, una obiezione di “ordine empirico”. Tra la violenza di cui dispone il potere e quella di cui potrebbe disporre un eventuale contropotere non c’è alcun paragone: in tali condizioni – ecco la domanda – sarebbe possibile “affrontare gli attuali padroni del mondo con una ragionevole prospettiva di successo?”. Ma la questione decisiva è un’altra. Supponiamo pure che i due eserciti, quello degli oppressori e quello dei liberatori, dispongano di pari forza, che, anzi, l’esercito dei liberatori sia riuscito addirittura “a strappare la bomba atomica ai suoi attuali detentori”, quale sarebbe l’esito finale della guerra? Una liberazione o, a lungo andare, l’instaurazione di una nuova oppressione? “È seriamente credibile – domanda ancora Caffi – che si possa evitare una ricaduta, in circostanze quanto si voglia rivoluzionarie, in quelle abitudini barbare, in quegli eccessi della volontà di potenza, e infine nella divisione fra un gregge docile e dei capi imperiosi che l’impiego organizzato della violenza inesorabilmente genera?”. Se si guarda alle esperienze storiche da Robespierre e Saint Just a Lenin e Trotski – conclude Caffi – si può constatare a quali risultati si arriva “seguendo la logica della violenza rivoluzionaria (pp. 70-71).

  1. La violenza è la levatrice delta storia?

Per Caffi “l’altisonante apoftegma di Marx [ … ] manca di sottigliezza” (p. 73). Tuttavia Caffi si guarda bene dallo sposare una massima opposta, che sarebbe altrettanto memorabile ma anche altrettanto priva di sottigliezza storica, che suonerebbe così: «La violenza è la levatrice dell’antistoria». Storicamente la violenza non è sempre stata foriera di distruzioni e catastrofi. C’è violenza e violenza, sembra dire Caffi, che distingue tre tipi principali di violenza politica: a) le insurrezioni; b) i colpi di stato; c) le rivoluzioni liberatrici.

II giudizio è negativo per quanto riguarda le insurrezioni e i colpi di stato: le prime – le insurrezioni – sono “causate dalla disperazione o dal fanatismo, e annegate nel sangue: la violenza vi prorompe fino alla dismisura e, dopo l’assassinio del feto, la paziente – la civiltà – si trova indebolita al punto da non potersi più sollevare”; i secondi – i colpi di stato – sono reazionari (anche quando sono realizzati da movimenti di sinistra) sia perchè “generalmente bloccano o prevengono un movimento del popolo” sia perchè di solito sono diretti a “reprimere, o anche sopprimere, ogni spontaneità sociale al fine di estendere e consolidare al massimo il potere d’imperio di uno Stato, di un partito, di un capo, di un ordine inventato ad arbitrio”. Al contrario la violenza che si manifesta nelle rivoluzioni liberatrici ha avuto una funzione positiva, perché esse sono “il risultato della convergenza fra le aspirazioni lungamente maturate in vasti strati del popolo e le idee elaborate in seno alla società”.

Ciò spiega “l’atmosfera di gioia, di speranza radiosa, di riavvicinamento fraterno degli uomini che avvolge queste albe di una nuova era”. E spiega anche perchè “la violenza che segna il trionfo di un tale movimento è altrettanto repentina che breve, e come simbolica”. Per spiegare che cosa intende, Caffi fa alcuni esempi storici: la presa della Bastiglia, le giornate del luglio 1830 e del febbraio 1848 a Parigi, del marzo 1848 a Berlino come a Vienna e a Napoli, a Milano, i fatti russi del marzo 1917 e quelli spagnoli dell’aprile 1931, che sono avvenuti quasi “senza spargimento di sangue”.

Ma, come si è già visto, anche la violenza rivoluzionaria, quasi per una sua stessa logica interna si converte nel suo contrario – la violenza reazionaria – e si avvolge a lungo andare in una spirale negativa: “Sappiamo, tuttavia,  osserva Caffi – che il sogno sognato in tali giorni non ha domani. Il primo trionfo di un moto popolare è immancabilmente seguito dalla tragedia” (pp. 73-75). Qui mi sono soffermato sui mezzi della violenza politica, ma tra i mezzi della violenza organizzata a cui bisogna rinunciare Caffi pone anche e soprattutto la guerra internazionale. (Se ne occupa in I socialisti, la guerra, la pace del 1941, È la guerra rivoluzionaria una contraddizione in termini? del 1946, La pace, condizione naturale del 1947, che si possono vedere nella raccolta Scritti politici).

  1. Su quali principi può fondarsi un’azione di resistenza, da cui sia escluso l’impiego della violenza organizzata?

Se dall’analisi del passato si passa all’indagine rivolta al futuro, Caffi non ha dubbi: “Bisogna evidentemente cercare mezzi più sicuri, e soprattutto più conformi ai fini. E se è vero che la situazione attuale non ha precedenti nella storia, sarà pure ragionevole preconizzare l’invenzione di una strategia e di una tattica ancora mai tentate, delle quali l’esperienza del passato non offre che accenni suggestivi” (p. 77). Le intuizioni di Caffi sono di grande interesse sul piano della diagnosi meno su quello della prognosi. Riguardo ai “mezzi d’azione”, occorre dire, che si tratta di una debolezza che investe la cultura contemporanea e di una delusione non completamente fugata dalle analisi successive. Quanto a Caffi, che comunque non avrebbe condiviso una posizione di nonviolenza integrale, egli è una delle espressioni più alte della “lucida ricerca di una coerenza tra fini da conseguire e mezzi da impiegare” (Carlo Vallauri).

Nel suo pensiero troviamo chiaramente delineate tre questioni fondamentali: a) l’affermazione senza mezzi termini di un principio che giova ripetere: Bisogna evidentemente cercare mezzi più sicuri, e soprattutto più conformi ai fini, un principio difeso con argomenti tratti sia dall’esperienza storica sia dalla riflessione filosofica; b) l’esigenza di un allargamento dei confini dello spazio dell’impegno per l’emancipazione dell’individuo – che per Caffi – si identifica con una politica socialista; c) l’abbozzo di una riflessione circa “i mezzi d’azione” della politica socialista, cui segue una proposta di impegno che alla prova dei fatti si rivela certamente impari nel contrasto con gli antichi e attuali detentori del potere, ma che, a mio avviso conserva intatti il suo fascino e la sua carica suggestiva.

Per quanto riguarda il principio, non si poteva esprimere meglio – in modo tanto semplice quanto efficace, senza alcuna retorica – la ripulsa totale, direi radicale, della violenza: “La violenza è incompatibile con i valori di civiltà e d’umanità socievole che noi vogliamo preservare dagli attentati distruttori dei violenti; usando la violenza, noi rinneghiamo necessariamente i valori che sono la nostra ragione di vivere e ne ritardiamo indefinitamente la propaganda e la fioritura” (pp. 77-78).

Per Caffi, “fin dai suoi primordi, nelle concezioni dei grandi pensatori come nel sentimento delle comunità oppresse, socialismo ha significato anzitutto annettere un’importanza preliminare all’uomo che vive in una trama di rapporti sociali spontanei, egualitari, civili “ (pp. 79-80). In questo senso il socialismo è quel movimento di pensiero ed azione diretto ad avvicinare la società reale, materialmente intessuta di interessi, egoismi, prevaricazioni, alla società ideale intesa come “l’insieme di quei rapporti umani che si possono definire spontanei” come il piacere che si ha a “trovarsi in mezzo ai propri simili” e la solidarietà affettiva “che si stabilisce naturalmente tra i membri di un medesimo gruppo”. Ne consegue che “nessuna organizzazione armata potrà aumentare le chances, nè tanto meno progressi reali di un tale movimento”. Sviluppando il pensiero di Caffi, forse oltre le sue stesse premesse, si può dire che l’elemento che caratterizza un effettivo movimento di liberazione sia la liberazione dalla violenza.

  1. Che cosa rimane?

“Che cosa rimane – domanda Caffi – dopo 1’esaurimento dei tradizionali mezzi d’azione adottati dai movimenti per la liberazione spirituale dell’uomo?”. E ancora: “Dove potremmo trovare il coraggio di ricominciare da capo dai piccoli gruppi organizzati ai grandi e ben disciplinati partiti di massa?”. Ai suoi occhi, sembrano diventate improponibili sia la via della rivoluzione sia la via delle riforme. Da un lato “è oggi completamente esaurita 1’idea dell’azione di massa [ …] nella prospettiva grandiosa del salto dal regno della necessità al regno della libertà “; dall’altro appare in crisi anche la concezione del socialismo come sviluppo della democrazia: “la democrazia quale funziona oggi nei grandi Stati moderni non può più essere considerata terreno naturalmente propizio ai progressi del socialismo (p. 87)”.

“Che cosa rimane, dunque?”.

Rimangono “pochi individui dispersi, e piccoli gruppi isolati, capaci al tempo stesso, di un pessimismo risoluto quanto all’avvenire immediato e di non disperare dell’eterna buona causa dell’uomo” (pp. 88-89). Caffi ebbe un vero e proprio culto dell’amicizia. Egli riteneva insufficiente la fratellanza come base del vincolo sociale e politico: mentre la fratellanza unisce attraverso il sentimento della compassione, l’amicizia si fonda sulla scelta e pertanto è maggiormente compatibile con la dinamica cooperativa e conflittuale delle società moderne. La proposta d’azione da lui formulata nel ‘46 sembra quasi discendere dalla natura stessa dell’uomo Caffi, oltre che dalla consapevolezza “che ci sono momenti nella storia, in cui è ragionevole e lungimirante abbandonare ogni speranza di risultati immediati e massici” (p. 83).

Nella Francia tornata libera dopo l’umiliazione dell’occupazione nazista, nell’Italia riscattatasi attraverso una guerra di liberazione nazionale che fu anche una guerra tra italiani, in una Europa che tornava lentamente ad avere “una sfera di sicurezza, di continuità, di norme spontaneamente accettate dalla ragione e dal sentimento: una sfera di pace”, gli sembrò che “il moltiplicarsi di gruppi d’amici partecipi delle medesime ansie e uniti dal rispetto per i medesimi valori avrebbe [avuto] più importanza di qualsiasi macchina di propaganda”. Le caratteristiche del “gruppo d’amici” vagheggiato da Caffi sono la libertà e lo spirito critico, l’individualità e la solidarietà, si potrebbe dire: l’etica del dialogo contrapposta all’etica della potenza.

II modello di Caffi è impraticabile da noi che abbiamo attraversato settant’anni di civiltà dei consumi. Forse, però, anche oggi, come probabilmente in ogni tempo è auspicabile “il moltiplicarsi di gruppi d’amici”, che a partire da se stessi operano per “trasformare i modi di pensare e i costumi piuttosto che le cose” (p. 90).

 

Un umanista moderno:
Andrea Caffi. Critica della violenza

Otto anni fa i pochi amici superstiti di Andrea Caffi si rallegrarono perché finalmente di questo raro personaggio si incominciava a parlare: il merito maggiore fu di Nicola Chiaromonte, il più fedele degli amici e fortunato destinatario di molte e belle lettere e attento collezionista dei pochi scritti che Andrea Caffi aveva lasciato di sé. E un lungo articolo gli dedicò Giuseppe Prezzolini, prendendo lo spunto da un libretto dedicato al Caffi da Nika Tucci, a cura dell’Istituto italiano di cultura di Nuova York. Oggi, in un bellissimo volume di Bompiani gli scritti raccolti e salvati dal Chiaromonte vedono finalmente la luce con un titolo impegnativo: «Critica della violenza» e dallo stesso Chiaromonte si annuncia un secondo volume contenente studi storici. Esce cosi dall’ombra un uomo di cultura e uno scrittore, Andrea Caffi, il cui nome alla totalità dei lettori italiani strapperà una domanda: «Chi era costui?»

Otto anni fa i pochi amici superstiti di Andrea Caffi si rallegrarono perché finalmente di questo raro personaggio si incominciava a parlare: il merito maggiore fu di Nicola Chiaromonte, il più fedele degli amici e fortunato destinatario di molte e belle lettere e attento collezionista dei pochi scritti che Andrea Caffi aveva lasciato di sé. E un lungo articolo gli dedicò Giuseppe Prezzolini, prendendo lo spunto da un libretto dedicato al Caffi da Nika Tucci, a cura dell’Istituto italiano di cultura di Nuova York. Oggi, in un bellissimo volume di Bompiani gli scritti raccolti e salvati dal Chiaromonte vedono finalmente la luce con un titolo impegnativo: «Critica della violenza» e dallo stesso Chiaromonte si annuncia un secondo volume contenente studi storici. Esce cosi dall’ombra un uomo di cultura e uno scrittore, Andrea Caffi, il cui nome alla totalità dei lettori italiani strapperà una domanda: «Chi era costui?»

Un uomo che per grande amore dell’umanità trascorse tutta la vita in solitudine; un uomo che aveva innumerevoli amici ai quali lo univano i più labili legami: stretto a gruppi russi, italiani, francesi, brasiliani, con tutti curava un intenso scambio di idee che restava solitamente al punto della conversazione: spesso a una serata di discussioni seguiva una lettera riassuntiva, trenta o quaranta pagine, che il più delle volte andava perduta. Il suo ricordo è affidato solo alla memoria di questi amici, che non possono più essere numerosi, visto che Andrea Caffi quando nel luglio del ‘55 morì alla Salpètriere di Parigi aveva quasi settant’anni; e i suoi amici più fedeli erano stati gli amici di gioventù; e

i pochi suoi articoli sparsi in giornali e riviste di mezzo mondo non sono andati del tutto perduti solo grazie all’amore del Chiaromonte. La sola caratteristica, che del Caffi, tutti d’accordo, coloro che l’hanno conosciuto possono dare, è questa: uno squisito amico, dalla conversazione affascinante, un carattere limpidissimo, ma ingenuo e schietto nella sua purezza, tanto che difficilmente standogli accanto si sarebbe potuto formulare quello che senza dubbio è stato il suo più alto valore, l’incapacità di fare la minima concessione a quello che non credeva, non giudicava giusto e buono. Visto dall’esterno, del Caffi non rimane forse altro che quello che ricorda Giuseppe Prezzolini: “Uno strano tipo” destinato a vivere in miseria e morire in ospedale. Antonio Banfi che fu suo compagno all’Università di Berlino lo dice «lo spirito più arcangelo e più vivo che mai conobbi» e Nicola Chiaromonte incomincia la sua studiata «Introduzione» a questo volume con le parole: «L’uomo migliore e inoltre più savio e il più giusto che io abbia conosciuto».

Si potrebbe dunque pensare che si tratti prima di tutto di un grande carattere, chiuso in leggi morali che divenivano per lui inibizioni, sì da spiegare il giudizio non del tutto favorevole alla sua opera che dà Giuseppe Prezzolini: «Nessuna traccia di pensiero dominante e nemmeno di studi diretti su manoscritti inediti». Ma il volume che il Chiaromonte ci mette davanti smentisce questo giudizio troppo sommario; ché gli studi sui manoscritti inediti non si vedono, poiché Caffi evitava la monografia dotta, la considerava solo come preparazione a uno studio più complesso e sintetico di avvenimenti o di periodi storici; in quanto al pensiero dominante, nel volume del Chiaromonte c’è, e come! Non forse solo come «critica della violenza», allo stesso modo come «Non ammazzare» non contiene tutti e dieci i Comandamenti; ma come proiezione di una società umana fatta di cultura, di equilibrio sociale, di giustizia. Che questa società si sia raramente realizzata, che accanto al fiorire dello spirito vi sia sempre stato un prevalere di violenza, di inganno, di tirannia, questo Andrea Caffi lo sa e lo ripete: nei momenti più belli della storia umana vi sono i momenti negativi; ma quello che conta è cogliere quei momenti più belli e riviverli, e farli rivivere. Questo è quello che noi ignoriamo di Andrea Caffi, la sua opera missionaria per far conoscere ai suoi amici i tesori dello spirito umano che la sua eccezionale intelligenza, la sua ferrea memoria, la sua calda parola sapevano trasmettere.

La vita di Caffi fu, fino ai quarant’anni, avventurosissima. Nato in Russia incominciò ad agire giovanissimo fra i socialisti e a diciott’anni fu nelle prime file della rivoluzione del 1905. Eppure egli raccontava con un misterioso sorriso di aver convertito al socialismo operai tipografi e librai di Varsavia senza mai nominare Marx, ma parlando loro solo di storia, di letteratura e di filosofia; e questo perché, con evidenza, egli aveva un pensiero dominante. Forse questo pensiero si potrebbe chiamare «umanesimo» non solo per la sublime altezza alla quale egli colloca il pensiero umano, ma perché concepisce la quintessenza della storia come un rapporto coltivato, civile, cordiale fra gli uomini. La storia è fatta da «socialità» tanto più perfette quanto più liberi e spontanei sono i rapporti fra gli esseri che le compongono; e la sua maggiore ambizione è stata sempre quella di raccontare di queste società, delle idee e degli ideali che le hanno animate.

Un esempio -il primo e più vicino al suo animo- di questa «società» egli lo trova in quella «scuola riformata» di Pietroburgo nella quale fu educato; ed è interessante che questo piccolo capolavoro di umanesimo sia fiorito proprio negli ultimi decenni di quell’impero zarista che nel placido secolo decimonono fu un’esecrabile manifestazione di violenza e di tirannia; ma appunto nell’«idea centrale» di Caffi le vette dello spirito non coincidono affatto con i regimi politici, affetti, ciascuno, da mali imperdonabili. Questa scuola riformata raccoglieva insegnanti di tutte le classi sociali e di tutti i paesi d’Europa, figli di miliardari e ragazzi che si mantenevano da sé dando lezioni; ma attraverso le incredibili vicissitudini del nostro secolo, racconta Caffi, «sempre bastò un primo riconoscimento perché subito una specie di confidenza e di linguaggio particolare si stabilisse fra noi e ogni diversità di opinioni, di genere d’esistenza eccetera apparisse meno essenziale (ma soprattutto meno preziosa per l’animo) di un certo fondo comune di mentalità, la traccia indelebile di qualche cosa per cui non trovo nome migliore di ‘umanesimo’».

Queste poche righe, intese nella loro intensità e sincerità, possono dare il primo abbozzo di un ritratto di Caffi. Tutta la sua vita dedicata alla fraternità umana, a un quadro di stati uniti d’Europa e del mondo, in cui l’unità nascesse da parentela dello spirito, l’azione politica svolta in margine e fuori dei partiti (perseguitato e imprigionato da tutti, bolscevichi e fascisti e nei suoi tardi anni persino le SS) aveva questo solo scopo, elevare l’animo umano, incominciando dai suoi vicini per arrivare non importa quanto lontano. Che importanza possono avere questi particolari biografici in un uomo che visse solo per le sue idee? Nika Tucci che amò il suo spirito raro scrive che fra cinquant’anni nessuno forse ricorderà più il nome di Andrea Caffi, ma più probabilmente lo vedremo risuscitare su una piazza, in un monumento. Dipende da come si vedono le cose: intanto, in questi dieci anni, la sua bibliografia, che sembrava inesistente, incomincia a presentarsi ricca di scritti e senza dubbio anche di lettori. Non si può mai sapere.

Vi sono precedenti non trascurabili sull’argomento: quando Socrate bevve la cicuta lo prendevano sul serio solo alcuni scriteriati e i cittadini di Atene lo consideravano semplicemente uno stravagante, uno «strano tipo», come dice Prezzolini di Caffi. E poco più che uno strano tipo è Socrate nelle pagine di Senofonte che lo ammira senza comprenderlo. Ma in Platone Socrate diviene il fondatore di una religione che dopo venticinque secoli è ancora la nostra religione. Forse gli insegnamenti teorici di Socrate (senza il ripensamento di Piatone) non erano molto importanti e non contenevano un’idea centrale, un pensiero dominante, meno che meno uno studio condotto su fonti inedite. La storia dello spirito privato che suggeriva a Socrate idee balzane come quella di- lasciarsi uccidere (o, nel caso di Caffi, di morire di fame) non avrebbe fatto impressione sui suoi giovani discepoli se non l’avessero avuto compagno d’armi, lui quasi quarantenne, a Potidea, e ad Anfipoli vicino ai cinquanta, canuto, pelato, panciuto, duro e forte come un vecchio ciocco. Se Alcibiade non avesse sentito per tutta la vita il passo strascicato di Socrate che lo portava quasi esanime fuori del campo di battaglia, non avrebbe dato un senso particolare alle sue parole, quel senso che gli amici scoprivano nelle parole di Caffi, quando dietro la sua facciona e i suoi occhi pungenti intravvedevano il condannato a morte dai tribunali zaristi e il mutilato delle Argonne e di Val Lagarina, che teneva gelosamente segrete a tutti la sua condanna e la sua mutilazione. C’è insomma un certo spirito socratico nel nostro Caffi, e questa idea che abbiamo sempre avuto di lui ci è splendidamente confermata da questo volume della cui pubblicazione saranno infinitamente grati a Nicola Chiaromonte non solo i pochi vecchi amici di Caffi, ma tutti coloro che scopriranno un raro spirito.

Alberto Spaini

“Il secolo IXX”, 12 ottobre 1966

Un menscevico a Tolosa

 Note su Andrea Caffi in occasione dell’uscita di «Cosa sperare?». Il carteggio tra Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte: un dialogo sulla rivoluzione (1932-1955)

 

Come prima conseguenza dell’imminente avvento delle bande di Hitler al potere in Germania si aspettano “colpi di mano” sul “corridoio polacco” e su Memel con la conseguenza, semplicemente, d’una seconda guerra europea 1.

Così scriveva Andrea Caffi in un articolo datato 1932. Sembrano parole profetiche, ma non è difficile l’affermazione oracolare per questo autore in cui l’analisi si fonde con l’intuizione e l’intento morale. In un altro articolo – uscito tre mesi prima – scriveva:

Per riconquistare gli animi “traviati” dal comunismo (o anche dalla demagogia fascista) bisogna offrire loro un alimento spirituale […] Per poter dare utili  consigli ai Russi bisogna che prima diamo loro esempi d’irresistibile efficacia. Quando nella repubblica spagnola, nell’Italia liberata dal fascismo, nell’Europa costituita a libera confederazione sarà sorta una organizzazione politica e sociale superiore a quella che vige in Russia, allora la democrazia ed il socialismo acquisteranno un significato positivo e s’ imporranno anche alle menti aperte del proletariato russo 2.

Sarebbe una forzatura trovare un calco negli eventi storici, ma risalta da queste parole il nucleo della concezione caffiana: il primato della visione etica nella trasformazione della società.

Nelle note accluse al sommario dei dodici «Quaderni di “Giustizia e Libertà”» ristampati nel 1959, troviamo una biografia (a cura di Manlio Magini) molto sintetica ma capace di trasmetterci l’idea di un testimone decisamente cosmopolita del proprio tempo:

Nato a Pietroburgo nel 1887 da genitori italiani, militò giovanissimo nel movimento socialista. Partecipò alla rivoluzione del 1905 nelle file dei menscevichi. Condannato a tre anni di carcere, appena liberato andò in Germania […] Nel 1914 si arruolò volontario nell’esercito francese. Richiamato in Italia nel 1915, rimase al fronte fino al 1917, quando andò […] a Zurigo, per lavorare alla propaganda fra le nazionalità oppresse dall’Impero asburgico […] Nel 1920 andò in Russia, dove conobbe le  prigioni bolsceviche, e vi rimase fino al 1923. Tornato in Italia, partecipò alla lotta antifascista a Roma. Emigrato in Francia, per sfuggire all’arresto, nel 1926, quando Rosselli, evaso da Lipari, giunse a Parigi, si mise subito in rapporto con lui e fu collaboratore assiduo dei «Quaderni» e del settimanale «Giustizia e Libertà». Nel 1944 fu imprigionato per la sua attività nella Resistenza. Morì il 22 luglio 1955 all’ospedale della Salpetrière3.

Di Andrea Caffi si è occupato Marco Bresciani in La rivoluzione perduta: Andrea Caffi nell’Europa del Novecento (il Mulino, Bologna 2009), e da ultimo con la pubblicazione – nella collana della Scuola superiore di studi di storia contemporanea promossa dall’ Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia – del carteggio, in traduzione e testo originale dacché le lettere sono in massima parte in lingua francese, intrattenuto con l’amico e discepolo Nicola Chiaromonte fra il 1932 e il 19554.

I due si erano conosciuti a Parigi proprio nel 1932, grazie ad Alberto Moravia, e collaborarono attivamente a Giustizia e Libertà. Su un punto, però, vennero a trovarsi in forte contrasto con le posizioni di Carlo Rosselli: il giudizio sul Risorgimento.

Il 29 marzo 1935, Caffi pubblica su «Giustizia e Libertà» gli Appunti su Mazzini, in cui afferma:

Credo che non si possa pensare niente di veramente chiaro e profondo riguardo all’Italia di domani se non si è spietati col mito alquanto ufficiale e scolastico del Risorgimento 5.

L’articolo demolisce il mito risorgimentale del mazzinianesimo, una prospettiva che l’autore considera angusta e provinciale rispetto all’ elaborazione culturale europea del diciannovesimo secolo:

Mantenendosi nell’orizzonte fissato da Mazzini […] come mai l’Italia avrebbe potuto associarsi agli ardimenti dell’Ottocento per esempio nel campo dell’arte, da Keats a Baudelaire, da Stendhal ai Goncourt, da Poe a Dostoevskij, da Daumier a Manet? 6

Non solo Mazzini, chiuso nel suo concetto di «stato-nazione» e nell’ arcaica formula «Dio e popolo» non sa cogliere «il nuovo sostrato economico che additavano tanto Proudhon quanto Marx», ma nell’intera vicenda risorgimentale «prevalgono elementi ai quali i nostri avversari hanno più ragione di attingere che non noialtri», poiché:

Il Risorgimento italiano è stato in definitiva un movimento addomesticato, deviato, confiscato da profittatori equivoci. Il suo esito ha determinato un disagio sociale e un marasma della vita intellettuale in Italia, che hanno avuto per sbocco (tutt’altro che inaspettato) il fascismo 7.

 

Gli Appunti sono esplicitamente polemici nei confronti della dirigenza di Giustizia e Libertà, che nel Risorgimento – o meglio in quello che Carlo Rosselli chiama «Risorgimento popolare», contrapponendolo a quello «neoguelfo, poi sabaudo, e sempre moderato, che prende il sopravvento con l’entrata in campo del Piemonte e la liquidazione del moto popolare» 8 – trova un fondamentale punto di riferimento, come sintetizza la nota massima «Insorgere-Risorgere».

Nella temperie del dibattito che ne segue, con la partecipazione delle più importanti figure di Giustizia e Libertà, Nicola Chiaromonte si farà appassionato sostenitore delle tesi caffiane.

Non è solo una consonanza di vedute politiche, tuttavia, quella che

lega i due uomini di cultura. Nel carteggio raccolto da Bresciani, quello che salta agli occhi è l’affetto profondo da entrambi condiviso, così come l’ ammirazione di Nicola che in Andrea vede un autentico  mentore.

Intellettuale raffinato – fu, tra l’altro, un esperto di storia bizantina –, Caffi si dimostra prodigo di incoraggiamenti, lo attestano numerosi passaggi della corrispondenza, come questo, tratto da una lettera di Andrea datata 18 febbraio (si presume del 1933, quindi un paio d’anni prima degli articoli sopraccitati):

La sua carriera ha infinitamente più importanza per l’ampiezza delle prospettive che si offrono alla sua giovinezza e anche in ragione delle rare qualità morali, del serio vigore, del vero e proprio ardore per la verità che ho imparato ad apprezzare e ad amare in lei. Bisogna che lei sfondi, che passo a passo conquisti un posto ben determinato nel nostro “mondo intellettuale” 9.

Chiaromonte appare quasi dipendente dal giudizio dell’amico che, a sua volta, gli dà consigli di metodo, lo sprona a sviluppare i suoi studi e gli trasmette sincero apprezzamento per le sue doti.

C’è tra lei e me una distanza di età, purtroppo, molto marcata; ma nessuna altra gradazione – se ne voglia persuadere per bene – la sua vita intellettuale, la sua capacità critica, la sua forza di pensiero ecc. ecc. vanno almeno tanto lontano quanto quelle che possiedo. io10

Quasi come un romanzo epistolare il carteggio descrive un movimento di affetti e vicende personali che viaggia su un sempre presente flusso di storia, con lo sviluppo di intensi momenti e, il car di analisi che, col tempo, portano ad emersione differenze sempre più profonde. Tanto spazio è occupato dagli elementi che descrivono la concreta solidarietà manifestata nel dopoguerra da Chiaromonte – integrato allora nell’ intellighenzia progressista newyorchese – verso un Caffi relegato a Tolosa in disperate difficoltà economiche.

Torniamo a cose veramente razionali. Mi scusi di non averle annunciato che il I luglio, come il I agosto e il I settembre, ho ricevuto sempre la somma di 26.000 fr. E ho appena ricevuto un pacco da lei (data di spedizione: 30 luglio) in cui ci sono duecento sigarette: cosa che mi appaga e delizia11.

Quel parlare di pacchi ricevuti, di attese e di ammanchi, di tassi di cambio tra dollaro e franco, di stanze in affitto, di prodotti necessari e commerciabili è un documento di vita nell’Europa devastata dal conflitto, così come del rapporto non sempre facile fra un discepolo preoccupato e un (suo malgrado) maestro talvolta capriccioso ma sempre grato.

Sarà la guerra fredda, con lo slittamento apertamente atlantista di

Chiaromonte, a guastare il rapporto. La corrispondenza si interrompe e riprende con lunghe analisi politiche non prive di accenti polemici, in un dibattito aperto di estremo interesse per il lettore.

Caffi non condivise la svolta del suo amico: lui che aveva conosciuto la prigione in Unione Sovietica era pur sempre un menscevico e un socialista libertario.

Nella sua visione il superamento delle barriere e dei nazionalismi aveva un ruolo centrale: in largo anticipo sulla redazione del Manifesto di Ventotene di Rossi e Spinelli, si dichiarava fautore dell’unità europea, unica garanzia contro la guerra e crogiuolo di cultura e sviluppo.

L’unione degli Stati dell’Europa in un superiore «corpo politico» giuridicamente definito e provvisto di organi e mezzi per governare effettivamente, d’un tratto farebbe svanire l’incubo della «mala guerra» e subito […] abolirebbe le questioni stesse che oggi sono atri d’uragani […] Risparmiando i mezzi che attualmente si sprecano nelle rivalità fra nazioni europee ed avendo di molto aumentata la capacità di credito con la solidarietà finanziaria fra i membri della nuova unione, sarà praticamente possibile impiegare milioni di braccia in opere di «utilità europea» […] che anche se non redditizie subito, assicureranno un più alto livello di generale benessere, mentre l’ aumentata capacità di consumo rianimerà tutte le altre attività produttive12.

L’«idolo della nazione», sosteneva Caffi, aveva pervertito gli scopi delle grandi rivoluzioni, soffocando le «aspirazioni verso l’ emancipazione sociale»: ne dava dimostrazione la Russia ma anche l’aveva data, un secolo e mezzo prima, la Francia. In un caso con il «generalissimo Stalin e lo stuolo di marescialli, poliziotti, segretissimi diplomatici e santi metropoliti», lo Stato era divenuto «più capace di espansione imperialista di quanto mai fosse stata prima la monarchia dei Romanov», nell’ altro dopo che i giacobini avevano «sacrificato alla potenza dello Stato nazionale tutte le libertà», Napoleone aveva «ripreso i sogni di grandezza d’un Luigi XIV» 13.

Partigiano di un umanesimo socialista capace di armonizzare uguaglianza e libertà individuali, Caffi, pur non dichiarandosi marxista, replicando a Chiaromonte – il quale considerava «falsa» o «essenzialmente equivoca» 14 la nozione di lotta di classe –, affermava:

Confesso che il tono assertivo, la “scortesia” tutta tedesca di questi due grandi uomini dabbene, Marx e Engels, mi ha spesso urtato; ma il vigore molto consapevole delle loro analisi non poteva essere confutato senza malafede (non c’è una sola critica del marxismo che abbia trovato al tempo stesso intelligente e onesta) 15.

E vigorosa è anche l’analisi di Caffi sia quando il discorso si muove sul piano politico (storico, filosofico), sia quando si sposta su quello psicologico e personale. Scrive in un altro passaggio della stessa lettera:

Non posso leggere – nel giornale di questa mattina – che le aziende delle miniere di diamanti nell’Africa Equatoriale Francese hanno istituito fabbriche-prigione per impedire ai negri di rubare le pietre preziose che estraggono dalla loro ganga [e non li lasciano uscire che dopo averli «setacciati» – immagini la scena filantropica delle ricerche in… tutti gli orifizi naturali – e quando hanno speso il salario di sei mesi in otto giorni (questi proletari sono sempre dei gaudenti spudorati) «ritornano spontaneamente» nella fabbrica-prigione], non lo posso leggere senza provare una rabbia accecante, un desiderio di carneficina, sì! Vedo questi onorevoli capitalisti sottomessi ad un trattamento peggiore di quello di Auschwitz o Kolyma! […] Insomma grazie alle circostanze – e ad esse soltanto – sono diventato un essere pieno di risentimenti, probabilmente molto esecrabili, e di «desiderio di rissa». Non c’è qui nessuna «scelta» ragionevole e bisogna o accettarmi come sono o sopprimermi 16.

In questo incontro dinamico di personale e politico possiamo forse riscontrare un altro elemento premonitore, e certamente Caffi, se non fosse stato lasciato cadere nell’oblio, avrebbe potuto essere apprezzato dai giovani contestatori degli anni Sessanta e Settanta. Non è troppo azzardato vederlo, infatti, come una sorta di soixante-huitard in grande anticipo sui tempi: lo stesso Alberto Moravia, che ne fu amico ed estimatore, lo definì – nell’introduzione al libro di Gino Bianco Un socialista irregolare: Andrea Caffi, intellettuale e politico d’avanguardia (Lerici, Cosenza 1977)17 – «un hippy ante litteram».

E se Moravia motivava la sua affermazione soprattutto per l’ anticonvenzionalità dello stile di vita (aveva, dice, come Rimbaud «les semelles faites de vent»), per l’idealismo che ancora traspariva nell’ironia del sorriso non del tutto piegato dalle delusioni, c’è nella weltanschauung (tutt’altro che sistematica ma capace di filtrare dagli scritti e di comporsi con una certa chiarezza) di Caffi l’anticipazione di quella sprovincializzazione che l’Italia avrebbe intravisto solo col manifestarsi sulla scena della storia delle generazioni degli anni Quaranta e Cinquanta.

V’è una concezione internazionalista nella quale cultura, etica e socialismo sono elementi indisgiungibili in una prospettiva evolutiva del genere umano, e la coscienza che l’infelicità è tutt’uno con la schiavitù economica, con l’alienante dominio della merce e del denaro:

Deve pur esservi una ragione ben fondata […] per cui tanti miti – a cominciare dalla cacciata di Adamo dal paradiso o dalle descrizioni del regno di Saturno – hanno immaginato la vera felicità dell’uomo come possibile unicamente in un mondo senza “sistema economico”, senza governo, senza fasti e nefasti della storia 18.

Alessandro Magherini

NOTE

1 Onofrio (A. Caffi), Il problema europeo, «Quaderni di “Giustizia e Libertà”», giugno 1932, n. 3, p. 53 (ristampa fototipica autorizzata, Bottega d’Erasmo, Torino 1959).

2 Onofrio (A. Caffi), Opinioni sulla rivoluzione russa, «Quaderni di “Giustizia e Libertà”», marzo 1932, n. 2, p. 102 (ristampa fototipica autorizzata, Bottega d’Erasmo, Torino 1959). Il testo è stato pubblicato anche in A. Caffi, Scritti scelti di un socialista libertario (a cura di S. Spreafico), Biblion edizioni, Milano 2009, pp. 68-100 (cit. pp. 97-8).

3 «Quaderni di “Giustizia e Libertà”», con prefazione di A. Tarchiani, Bottega d’Erasmo, Torino 1959, Note biografiche sui collaboratori ai Quaderni, p. 20.

4 M. Bresciani (a cura di), «Cosa sperare?». Il carteggio tra Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte: un dialogo sulla rivoluzione (1932-1955), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2012.

5 Andrea (A. Caffi), Appunti su Mazzini, «Giustizia e Libertà», 29 marzo 1935, in A. Caffi, U. Calosso et al., L’Unità d’Italia: pro e contro il Risorgimento (a cura di A. Castelli), Edizioni e/o, Roma 1997, p. 23.

6 Ivi, p. 25.

7 Ivi, pp. 26-7.

8 Curzio (C. Rosselli), Discussione sul Risorgimento, «Giustizia e Libertà», 26 aprile 1935, in Caffi, Calosso et al., L’Unità d’Italia, cit., p. 41.

9 Bresciani (a cura di), «Cosa sperare?», cit., pp. 85-6.

10 Ivi, 11 gennaio 1934, p. 123.

11 Ivi, 15 settembre 1946, p. 329.

12 Onofrio (Caffi), Il problema europeo, cit., p. 60.

13 A. Caffi, Riflessioni sul Socialismo, «Critica Sociale», 1949, in Id., Socialismo libertario (a cura di G. Bianco), Edizioni Azione Comune, Milano 1964, pp. 40-1.

14 Bresciani (a cura di), «Cosa sperare?», cit., 19 settembre 1951, p. 510.

15 Ivi, s.d. 1951, p. 536.

16 Ivi, p. 537.

17 Il testo di Moravia compare anche nella ristampa del libro di Bianco, dal titolo Socialismo e libertà: l’avventura umana di Andrea Caffi (Jouvence, Roma 2006). È stato inoltre pubblicato su «Night Italia», ottobre 2007, e in rete: sul sito della Biblioteca Gino Bianco (http://www.bibliotecaginobianco.it/?p=26&t=alberto-moravia) e, non integralmente,  su «Una città» (http://www.unacitta.it/newsite/articolo.asp?id=119).

18 A. Caffi, Individuo e società, in Id., Critica della violenza, Edizioni e/o, Roma, 1995, pp. 48-9.

Alberto Moravia

La sua discrezione, la sua povertà…

 introduzione a: Gino Bianco, Un socialista “irregolare”: Andrea Caffi, intellettuale e politico d’avanguardia, edizioni Lerici, 1977.

 «Nella nostra vita noi moriamo più volte e più volte resuscitiamo, ogni volta con una personalità diversa. Il mio ricordo di Andrea Caffi appartiene alla persona che ero quando avevo quindici anni, una persona che secondo me non ha niente a che fare con la persona che sono oggi, più di mezzo secolo dopo. Per questo ho voluto lasciare a questi ricordi il carattere orale, discontinuo e frammentario, che debbono al mezzo del magnetofono di cui ci si è serviti per registrarli. Il magnetofono non ha accorgimenti di stile; ma così pure il discorso di qualcuno che parla di una persona scomparsa, o di cui sa poco o niente».

Ho conosciuto Andrea Caffi in circostanze piuttosto curiose. Era il 1923, io avevo quindici anni e tornavo dalla villeggiatura in Alto Adige, in treno insieme alla mia famiglia. Incontrai un individuo che si disse russo, e infatti lo era e mi informò di essere andato via dalla Russia per portarsi volontario nella guerra di Mussolini contro la Grecia, per l’incidente di Corfù. In quei giorni però l’incidente di Corfù era già sbollito, perciò questo russo veniva in Italia per niente. Aveva un passaporto col nome di Marco Cenerini, ma in realtà si chiamava Popof (che vuol dire figlio di pope) ed aveva ottenuto il passaporto per venire in Italia precisamente da Andrea Caffi, il quale appunto si trovava addetto all’Ambasciata italiana a Mosca e aveva cercato di dare più passaporti che si poteva a gente che scappava dalla Russia per la fame, per il terrore, la paura, per le condizioni spaventose che c’erano appunto nell’inverno del 1922-23. Ora io ero ragazzino, avevo quindici anni e diedi il mio indirizzo a questo Marco Cenerini il quale poi riuscì tuttavia a portarsi ugualmente volontario nell’aviazione italiana; infatti un bel giorno me lo vidi capitare a casa vestito da aviere, nella divisa azzurra dell’aviazione di Mussolini. Mi disse: io ho un amico russo qui a Roma, molto simpatico, che è un intellettuale. Questo Cenerini era un bestione, ora che è morto non c’è nessun male a dirlo, lui stesso non si riteneva un intellettuale, diventò poi un avventuriero. Dall’Italia passò al Belgio, poi si arruolò nella società Alberta che sfruttava la gomma nel Congo. Andò nel Congo con quella società e vi rimase 4 anni. Dopodiché tornò in Europa e si stabilì in Spagna con Franco, perché amava molto i dittatori di destra come tutti gli avventurieri di questo mondo e lì fece dei mestieri che non ho mai saputo chiarire. Forse stampava delle pubblicazioni allegre, riviste di donnine, cose di questo genere: Non so, so che a un certo puinto se ne andò a San Domingo dal dittatore Trujllo e si attaccò alla dittatura di Trullo come prima si era attaccato alla dittatura di Franco. A un certo punto Trujillo fu assassinato e coloro che assassinarono Trujillo gli diedero un pestaggio talmente selvaggio che dopo due anni è morto. Allora era un giovanotto di belle speranze, molto forte, molto alto. Mi disse: io conosco questo intellettuale, che si chiama Andrea Caffi, lui abita in Via Lombardia, gli ho parlato di te, gli ho detto che sei uno scrittore (infatti io mi professavo scrittore anche se non avevo pubblicato niente) e lui vuole conoscerti. Un bel giorno andai con Cenerini a trovare Caffi. Lui avvertì Caffi, poi se ne andò e mi lasciò davanti al portone in via Lombardia. Salii su da Caffi che abitava in una camera ammobiliata, presso una famiglia, una camera senza neanche l’ingresso libero, in fondo al corridoio. Appena entrai mi venne incontro e mi abbracciò come se ci fossimo sempre conosciuti. Mi fece una strana impressione. Era un uomo altissimo, con una testa tutta arruffata, i capelli grigi, e un viso con i tratti molto marcati; occhi grifagni e un po’ sbarrati, nasone pronunciato, grande bocca ironica e un’espressione tra ispirata e ironica. C’era in lui insomma il senso dell’uomo romantico, che ha avuto e ha tuttora degli ideali e al tempo stesso un’espressione delusa, ironica, amara e lungimirante con la quale sembrava dire: c’era da aspettarselo. Si trattava davvero di una strana mescolanza. Caffi fin da allora era vestito alla maniera che poi gli ho sempre visto, pantaloni sbrindellati, giacche informi, salvo quando doveva andare nel mondo, perché allora si metteva un vestito blu, abbastanza corretto, ma come insolito, che stranamente gli dava un aspetto di operaio indomenicato. Così vestito a festa aveva una grande eleganza naturale, quell’eleganza che appunto hanno gli intellettuali e gli operai. Non aveva nulla di borghese Caffi, proprio nulla, neanche un po’. Sempre emanava da lui un fortissimo odore di acqua di colonia, tant’è vero che quando mi ha abbracciato mi ha avvolto in una nube olezzante, cosa che mi colpì molto perché quando si è giovani si è colpiti dalle sensazioni e poi perché per me era una cosa estremamente insolita. Insomma non conoscevo nessuno che si mettesse tanta acqua di colonia addosso.

Caffi era un grande conversatore, anzi dirò di più, era un conversatore delizioso ed estremamente comunicativo ed espressivo, e molto intelligente naturalmente e coltissimo. Tutto questo però in maniera reticente e proprio da grande signore della cultura, senza mai alcuno sfoggio didascalico e di vanità anzi tenendosi per sé il più. Era un iceberg di cultura da cui emergeva soltanto una punta mentre tutto il resto restava sotto. Non era facile farlo venire fuori, ma si sentiva tutto il tempo questa cultura e questa sua esperienza di vita, anche quella di cui non parlava mai. Si sapeva più o meno che Caffi era stato dappertutto, che era stato quello che i tedeschi chiamano un uccello migrante, che aveva girato tutta l’Europa, che era un grande camminatore, che andava sempre a piedi, che aveva un certo disdegno aristocratico contro il progresso meccanico, e questo era già abbastanza strano in un mondo che rotolava già verso il consumismo e la comodità. parlavamo spesso di letteratura e si parlava molto di Dostojeski del quale avevo letto soltanto Delitto e Castigo.

Era stato mio cugino Carlo Rosselli a regalarmelo, insieme all’Alcyone di D’Annunzio, quando avevo 10 anni ed ero, come sempre in quegli anni, malato, perché avevo la tubercolosi ossea e stavo tutto il giorno a letto. Carlo Rosselli che era un giovanotto già laureato mi regalò questi due libri perché vedeva ch’io leggevo molto. Lessi appunto Delitto e Castigo che mi fece un’impressione colossale, terribile, enorme, all’età in cui di solito si legge Salgari, e quando vedevo Caffi gli rivolgevo molte domande su Dostojevski. Caffi che aveva in fondo una maniera di parlare sarcastica, nel caso di Dostojevski non nascondeva un’estrema considerazione e forse anche ammirazione: dico forse perché in Caffi non si capiva mai se ammirasse veramente qualche cosa.

In quel periodo vidi Caffi varie volte e poi mi ammalai molto gravemente, una ricaduta della tubercolosi ossea con dolori spaventosi, tant’è vero che il medico mi ordinò delle punture di morfina. Diventai un mezzo morfinomane, stavo sempre a letto e avevo sempre la febbre molto alta. Ricordo benissimo che un giorno venne a trovarmi Caffi, entrò nella mia camera portando in mano l’Idiota di Dostojevski (la prima traduzione francese del visconte di Vögué apparsa in Occidente), con una dedica di Caffi scritta con una calligrafia che sembrava fatta di note di musica, una calligrafia che volava, molto evanescente, come ineffabile, perché lui era un po’ quello che si dice di Rimbaud, aveva “les sevuelles faites de vent” (le suole fatte di vento) e si spostava con incredibile rapidità, partiva senza sapere per dove, perché così era Caffi.

Era prima di tutto un erudito, un intenditore, ed aveva una grande e diretta conoscenza storica, estetica delle cose, dell’arte, e poi aveva un grande gusto. Insieme andammo al Louvre a vedere le sculture egiziane che sono le più belle del mondo.

L’arte è incominciata con la rivoluzione integrale del corpo umano. La scultura è una copia del corpo umano, perciò gli antichi erano scultori insuperabili come i preistorici. Infatti, le più belle sculture per me sono quelle egiziane, quelle hittite, certe sculture ciclopiche, africane: tutto ciò in cui c’è una sintesi fulminea. Caffi guardava a tutto questo non soltanto con l’occhio del conoscitore storico ma anche dell’uomo di gusto, giacché aveva girato tutt’Europa e aveva conosciuto moltissimi artisti.

Soprattutto credo che Caffi avesse avuto una diretta conoscenza dell’avanguardia russa che è adesso dispersa, sono tutti morti. Ma negli anni in cui Caffi era in Russia erano tutti operanti e sono sicuro che li ha conosciuti tutti, artisti che erano all’avanguardia non soltanto di nome, ma di fatto all’avanguardia di tutta l’arte in Europa. Basta pensare a Chagall, a Malevich, a Kandinski.

Mi portò la copia dell’Idiota, io mi ammalai ancora di più e dopo quella volta, per un po’ di tempo, non lo vidi più, non so perché ma forse Caffi non era a Roma. Stetti ancora a Roma una quindicina di giorni, poi mio padre mi portò in treno fino a Calalzo, poi in automobile fino a Cortina d’Ampezzo dove c’era il sanatorio. Stetti lì in sanatorio dal marzo del 1924 fino all’ottobre del 1925, circa un anno e mezzo e guarii. Non ebbi più notizie di Caffi, posso soltanto aggiungere che mio cugino Carlo Rosselli venne a trovarmi nel ‘24 a Cortina d’Ampezzo durante l’affare Matteotti. Mi disse testualmente: “Mussolini in Corte d’Assise in ottobre”. Come si vede nessuno è profeta. Io stetti a Cortina fino all’ottobre del ‘25. Alla fine di ottobre andai a Bressanone in un altro sanatorio e prima di compiere diciassette anni cominciai a scrivere Gli Indifferenti.

Questi sono dettagli ma sono connessi con Caffi, non so perché. Andai a Bolzano, in libreria e comprai due libri di Cocteau, uno di Proust e poi nella stesso anno, nel 1925, andai a Firenze e comprai l’Ulisse di Joyce, edizione del 1922.

Tornai a Roma alla fine del ‘25 e andai a trovare Caffi che allora abitava ancora in via Lombardia ma si apprestava ad andarsene perché l’aria era diventata irrespirabile in Italia (bisogna ricordarsi che il 5 gennaio 1925 c’era stato il discorso di Mussolini che praticamente aboliva tutte le libertà). Perciò alla fine del ‘25 Caffi stava per partire. Avvenne una cosa molto kafkiana, anzi caffiana… Caffi, che era uno storico, un erudito, un saggista (tra l’altro era enorme la sua conoscenza del mondo bizantino), quando gli si chiedeva un articolo, per esempio sull’ultimo imperatore bizantino, una vicenda che durò venti anni, cominciava con delle schede e risaliva sino all’origine dell’umanità. Poi ad un certo punto, tutto questo immenso lavoro di schedatura finiva nel nulla. Dopo aver preparato quest’opera gigantesca, la lasciava. Allora quando lui dovette Partire mi disse: “Guardi che io ho molte note, molte cose scritte ma non voglio, non posso portarle a Parigi. Del resto credo che tornerò presto”. Anche lui pensava che il fascismo sarebbe caduto presto; lo pensavano tutti allora, persino i fascisti. Gli dissi: “Va bene, se vuole posso metterli in casa mia e poi lei ci penserà su”. Ricordo che andai a via Veneto, presi una carrozzella, i taxi allora erano molto rari, e andai in via Lombardia, di fronte al portone dove abitava Caffi. Cominciò il trasporto di tutte queste casse di carte e la carrozzella si riempì fino all’orlo e poi si mosse tirata da un cavallo scalcagnato con Caffi e me dentro e ogni tanto dei libri e delle carte cascavano per terra per cui ogni tanto dovevamo fermare la carrozza, raccogliere queste carte cadute e rimetterle dentro. Insomma, bene o male, arrivammo in via Donizetti, dove allora io abitavo con la mia famiglia, in un villino a due piani che aveva un seminterrato-scantinato. C’era un grande studio che mio padre aveva utilizzato nel passato, durante l’estate, perché era più fresco e lì c’erano delle casse vuote e ci mettemmo tutte queste carte. Poi io ci misi anche i miei manoscritti. Tutte queste carte sono poi scomparse, è scomparso anche il manoscritto degli Indifferenti, tutto scomparso. Caffi non aveva mai richiesto le sue carte ed io ero in un periodo di assoluta noncuranza per le mie cose, c’erano due, tre manoscritti miei e parecchia corrispondenza, poi c’erano almeno tre casse di carte di Caffi e io non ho mai saputo dove siano andate a finire. Dopodiché passarono alcuni anni e nel 1928, dopo aver fatto battere a macchina il manoscritto de Gli Indifferenti, andai a Parigi. Caffi era precettore a Versailles in casa della principessa di Bassiano e naturalmente lo rividi e lui mi presentò alla principessa alla quale diede da leggere il mio manoscritto che era stato già accettato dalla casa editrice Alpes, che dopo un mese dall’accettazione mi aveva chiesto formalmente di pagare la prima edizione, allora andai da mio padre e mi feci dare 5.000 lire, questo era il prezzo della prima edizione. Feci leggere il romanzo a Caffi e quel che accadde è un caso specifico del suo modo di essere. Caffi disse: “Lei è diventato un vero scrittore”, ma lo disse con una voce di delusione e di rammarico perché in fondo per lui diventare uno scrittore non era una cosa importante. Si vede che lui aveva apprezzato in me un personaggio di quei tempi, vivente.

Probabilmente lui vedeva in me un rappresentante tipico delle nuove generazioni e ho sempre avuto l’impressione che Caffi, forse perché aveva una grande comunicatività di tipo socratico, non apprezzava più le forme di creazione artistica scritta o dipinta, che pure conosceva bene e aveva molto goduto. Questa fu in ogni caso la mia impressione, perché il tono di delusione, di leggerissima delusione con cui mi disse “lei è diventato uno scrittore”, è dopotutto abbastanza strano. Fu tuttavia molto amichevole e passò il romanzo alla principessa di Bassiano. La principessa aveva avuto un grande successo con la rivista letteraria Commerce, e ventilò per un bel po’ di pubblicare Gli Indifferenti inedito in Commerce. Poi non se ne fece più nulla, secondo me per ragioni moralistiche. Caffi mi presentò molti scrittori che frequentavano il circolo di Commerce, insomma la Parigi “déco”. Caffi era anche lì molto anomalo: era tutta gente ben vestita, perché l’intellettuale francese aveva allora un aspetto borghese mentre Caffi era uno straccione. Per le occasioni si metteva il famoso vestito blu, con la cravatta di traverso, ma normalmente aveva l’aspetto di uno straccione. Era un hippy ante litteram, in lui c’era un’anticipazione di molte cose che poi sono diventte comuni negli anni 60 e 70. Una cosa curiosa che posso dire di Caffi è che non prendeva mai né il metro né gli autobus; una volta si trovava a Montmartre e io gli diedi appuntamento a Montparnasse e attraversò tutta Parigi a piedi, e arrivò a Montparnasse sempre a piedi con il suo passo slogato di cammello. Era un uomo molto alto, aveva un corpo come disossato, appunto come un cammello, dondolante, con gambe infaticabili dove non si sapeva dove stesse la forza, dentro pantaloni che erano fatti così: il ginocchio dei pantaloni stava all’altezza dello stinco, la coscia stava all’altezza del ginocchio e degli enormi scarponi neri.

Io restai a Parigi un anno intero e nel 1931 a Roma conobbi Nicola Chiaromonte. Nicola Chiaromonte era un giovane lucano povero, antifascista, molto serio, passava le giornate steso sul letto a leggere Platone. Più tardi si mise a leggere Husserl e Heidegger, ma insomma le letture erano quelle e diventammo molto amici. L’amicizia, almeno nella mia gioventù era questa: nel vedere giorno e notte l’amico, ci vedevamo al pomeriggio, alla sera e poi ci telefonavamo e questo era un rapporto intellettuale, culturale fondato su una reale comunanza di interessi.

Andammo avanti così per parecchio tempo e una volta andai a Parigi e rividi Caffi ma di sfuggita. Poi avvenne che nel 1934 andai alle “decadi” di Pontigny insieme a Nicola Chiaromonte; c’erano molte persone tra cui Roger Martin du Garde, Desjardins, Fernandez. Questa sessione delle decadi era dedicata all’intolleranza. Eravamo in pieno fascismo con Hitler già al potere da un anno e ci si può immaginare cosa fosse per me l’intolleranza e infatti si parlò molto di Hitler, di Mussolini e del fascismo e io parlai naturalmente contro il fascismo e il nazismo e Nicola Chiaromonte fece anche lui una comunicazione sull’intolleranza. Il tono generale, però, devo dire la verità, era quello di una grande distanza dalla realtà, c’era un tono ancora molto letterario in altre parole era un po’ un ambiente di letterati che non si rendevano ancora conto che stava avvicinandosi un’enorme tempesta, nessuno se ne rendeva conto e di intolleranza se ne parlava a fior di bocca. Io venivo da Roma, sapevo cos’era il fascismo, e così ebbi l’impressione se non proprio di superficialità, come ho detto, di grande distacco: in fondo c’era, si può dire, inesperienza, nel senso doloroso della parola. A un certo punto Chiaromonte mi disse: “Io non voglio più ritornare in Italia, che ne dici?” e io gli dissi che l’approvavo tanto più che lui in Italia non combinava gran che e, sia detto qui per inciso, non riusciva a guadagnare, aveva molte difficoltà a guadagnare perché era antifascista, inoltre era un tipo molto austero, inabbordabile, perciò non aveva le qualità che ci vogliono per farsi largo in una società come quella italiana di allora, alienata e servile. Io lo presentai alla Stampa e riuscii ad ottenere per lui un anticipo di denaro, una piccola somma, dall’editore Barabba per una vita di Michelangelo, una monografia, e lui si mise a lavorare. Questa vita di Michelangelo ebbe una sorte estremamente sfortunata e quasi caffiana perché lui ci lavorò molto e poi quando i tedeschi invasero la Francia lui scappò in situazioni estremamente disagiate e si perse il manoscritto per strada, e questa fu la fine del mio aiuto editoriale a Chiaromonte. Incoraggiai Chiaromonte ad abbandonare l’Italia, del resto a lui non piaceva nulla di quanto avveniva in Italia e così Chiaromonte andò a Parigi e mi chiese se conoscevo qualcuno. Mi sembrò giusto presentarlo a Caffi al quale inviai, tramite Chiaromonte, una lettera insieme ad una piccola somma di denaro perché sapevo che era in condizioni disagiate, non aveva niente e ricevetti poi una lettera di Caffi, nella quale diceva che Chiaromonte era andato da lui, una delle poche lettere che Caffi mi scrisse, mi diceva: “Caro amico, grazie mille, mille volte grazie per avermi mandato il delizioso amico Nicola Chiaromonte”. Poi Chiaromonte, Mario Levi il fratello di Natalia Ginzburg e di Paola Olivetti fecero una grande amicizia. Io scherzosamente dico che passarono alcuni anni chiusi in una camera a parlare di politica. Siccome Chiaromonte e Caffi erano un po’ della stessa scuola, cioè erano socratici e avevano tutti e due una grande inclinazione a comunicare attraverso la parola anziché attraverso gli scritti, tutti e due avrebbero potuto scrivere più di quanto non avevano pubblicato e scritto; ma tutti e due hanno avuto un peso non indifferente nella cultura dell’epoca, sia in Francia che in America. Caffi, Chiaromonte e Mario Levi si legarono di un’amicizia che durò praticamente fino all’invasione tedesca.

Chiaromonte scappò in condizioni tremende con la compagna Anny Pohl verso la Francia meridionale che non era ancora stata occupata e Caffi andò a Tolosa nelle circostanze che questa biografia su Caffi racconta e fu poi arrestato e torturato dalla Gestapo. Dopo molti anni, nel dopo-guerra, probabilmente nel 1950-51 mi recai a Parigi e andai a trovare Caffi che abitava all’Hotel Grands Hommes; si saliva una scaletta a chiocciola del ‘700, c’era una camera per piano e in una cameretta assolutamente minuscola, me lo ricordo ancora, c’era un letto su cui stava Caffi e questo letto aveva tre piedi e il quarto piede era fatto di libri della Nouvelle Revue Française perché era diventato lettore della Nouvelle Revue Française e lui faceva le schede. Stava seduto sul letto, con il busto fuori, in camicia, completamente a suo agio, circondato da quattro, cinque giovani francesi con cui aveva un’animata conversazione. Io non lo avevo più visto da dieci anni e lui con un à propos stupefacente con una naturalezza perfetta disse: “Ecco Moravia che può confermare le vostre opinioni su questo argomento”.

Caffi stava bene a Parigi. Dalla Russia vi portava una nota che i francesi non hanno, aristocratica e barbarica, il vento della steppa. Questa cosa si sentiva, però si sentiva anche che a Saint Germain e a Montparnasse, sempre con un codazzo di giovani dietro di lui, ci stava bene, era nel suo elemento. Io distinguo gli uomini in due categorie, quelli che diventano adulti e quelli che non lo diventano mai. La maggior parte degli uomini diventano adulti, cioè si integrano nella società. Caffi non era integrato e questo lo rendeva un eterno giovane. Aveva soltanto dei rapporti umani, non dei rapporti gerarchici, accademici o del tipo che esistono tra il professore e l’alunno. I suoi erano soltanto dei rapporti di amicizia, forse perché c’era in lui, bisogna pur dirlo, il sottofondo dell’omosessualità.

Dalla società russa rivoluzionaria debellata dai comunisti è passato a far parte della bohème montparnassiana, segnata dalla vita di caffè e di strada, studentesca e sradicata. Forse si potrebbe definire Caffi un eterno studente nel senso che voleva sempre imparare qualche cosa. Il suo fascino vero era questa curiosità, freschezza, un grande desiderio di voler sempre vedere cosa c’era nei giovani.

Caffi era un intellettuale francese, però con un’ascendenza slava, moscovita, pietrogradesca, il che è poi nella tradizione della Russia prima del comunismo, perché appunto l’antica classe dirigente russa pensava e parlava in francese, come si può vedere nei romanzi di Tolstoi. Il francese era la seconda lingua e la Russia aveva dei rapporti molto stretti con la Francia, forse ancora di più che con la Germania. In Caffi comunque direi che c’era più l’influenza della cultura francese che di quella tedesca, nonostante conoscesse benissimo il tedesco e la letteratura tedesca. Aveva studiato nelle università tedesche però restava il russo francesizzato che era andato a studiare a Berlino. Questa è veramente l’impressione che Caffi dava, di un russo alla maniera di Turgheniev insomma non di un russo germanizzato come ve ne sono stati tanti, per esempio Pasternak che aveva anche lui studiato in Germania, aveva scritto un saggio sul neo-kantismo e massacrava il francese in una maniera orrenda.

Dico che in Caffi c’è un’ascendenza francese perché secondo me era un illuminista. Era un illuminista nel senso di un intellettuale che si pone di fronte ai problemi con l’idea di spiegarli non di servirsene, cioè era alieno dall’idea di Marx di far scendere il pensiero dal cielo sulla terra per cambiare il mondo. Caffi il mondo voleva soprattutto spiegarlo e voleva capirlo, ma si rendeva conto che per capirlo occorre ammettere una quantità di ipotesi, e che le ipotesi più conosciute, più diffuse sono non soltanto le più semplici, ma spesso anche le più false, le meno comprensive di tutta l’immensa varietà della realtà. C’era in lui un dubbio quasi sistematico, che era però il prodotto di una deluisione più che di una mente veramente armata di dubbio. Caffi dava l’impressione di un uomo deluso che ha avuto in gioventù degli entusiasmi abbastanza giustificati per cose che lui ha poi cercato di approfondire, di capire, e perciò di intellettualizzare, di spostare sul piano del dubbio. Questi dubbi, questa delusione venivano secondo me non dal fatto che lui fosse un uomo che si era ricreduto ma dal fatto che lui era quello che si chiama volgarmente, non filosoficamente, un idealista.

Dall’illuminismo francese aveva tratto l’aspirazione alla liberazione senza limiti dell’individuo, una liberazione che proveniva dalla tradizione rivoluzionaria dell’illuminismo individualista e borghese, se si vuole ma altresì demoniaca e distruttiva. Ma questa tensione verso la liberazione dell’individuo che in Francia non ha avuto limiti (si pensi a Rimbaud), in Caffi era frenata dalla sua formazione culturale russa che era eminentemente sociale, non individualistica; e di lì venivano il suo fallimento, la sua delusione. Perché in un certo senso in una civiltà come quella francese, un uomo, un intellettuale può arrivare in fondo alle cose, come dimostra per esempio l’esperienza dei surrealisti. Questo è possibile perché in Francia, dopo la rivoluzione che aveva distrutto tutto un assetto sociale che durava da dieci secoli, fondato sul diritto divino e la società feudale, non vi è stata poi nonostante Napoleone, una restaurazione dell’assolutismo, c’è stata semmai un’esplosione individualistica, per lo meno sul piano culturale. Invece in Russia c’è stata subito un’affrettatissima ricostruzione dello stato autoritario sia pure su basi socialiste. Sotto questo profilo, le due rivoluzioni, quella francese e quella russa, sono molte diverse.

Cioè il primo momento della rivoluzione russa è eversivo ma subito dopo lo Stato è risorto con Stalin con una forza forsennata, terribile. E i russi in fondo hanno visto l’esplosione demoniaca della Rivoluzione Francese come qualcosa di negativo. Basta pensare a Dostojkevski e alla sua condanna dell’individualismo europeo.

Questo era il dualismo di Caffi. Se fosse stato solamente francese il suo romanticismo ed idealismo avrebbe trovato un terreno favorevole, invece – come dimostra il suo saggio “Individuo e Società” – ad un certo punto si intimidisce e pensa, secondo la tradizione culturale russa, che la società sia molto importante, più importante dell’individuo. In Caffi c’era una certa timidezza di fronte alla possibilità della distruzione dell’ordine sociale di fronte alla totale negazione dello Stato. In lui v’era altresì una va ammirazione per la civiltà: sapeva che era un oggetto molto fragile e gli dispiaceva che fosse distrutta. Questa timidezza non è illuminista, è russa, socialista in fondo, persino marxista in un certo senso.

Caffi faceva parte di una generazione contemporanea di Lenin, che criticò il leninismo fin dai primi anni della rivoluzione – penso per esempio a Pannekock, Gorter, Rosa Luxemburg. Essi avevano capito fin dal principio che in Russia c’era uno Stato burocratico quale nessun capitalismo avrebbe mai potuto sperare di avere e dove gli operai, privati del diritto di sciopero, devono lavorare per forza. Testimoni della rivoluzione russa, videro molto presto che il bolscevismo mirava ad uno stato totalitario e attaccarono da sinistra la degenerazione sovietica. Questo Caffi lo ha capito subito perché era molto intelligente, aveva una grande cultura e aveva fatto una esperienza politica in qualche modo completa.

Erede della tradizione populista russa aveva vissuto la tragedia delle aspirazioni libertarie del movimento rivoluzionario, cioè di tutta una generazione che si espresse nel 1905, e poi nella Duma e nei tentativi di importare in Russia una democrazia socialista. Di qui anche l’irriducibilità di questa generazione che i bolscevichi distrussero. Caffi era della stessa stoffa dell’èlite rivoluzionaria che fu poi tutta sterminata da Stalin. Per questo era un uomo amaro, come segnato dall’esperienza di un evento terribile. Inoltre Caffi ha vissuto in un’epoca, quella intorno al 1914, che è stata – bisogna pur dirlo – la più grande orgia di bugie, di falsità, di ipocrisie che ci siano mai state nella storia. Al paragone, nella seconda guerra mondiale tutto era molto più chiaro. Nell’orgia del 1914 Caffi vedeva chiaro, e questo è stato il suo privilegio ma anche la sua condanna, perché ha visto mentre gli altri non vedevano. Trovatosi in mezzo all’esplosione di passioni cretine – il trattato di Versailles da una parte, il nazionalismo, l’imperialismo francese ed inglese ancora in piedi, tutte cose spaventose che dopo pochi anni sarebbero crollate miseramente – Caffi tutte queste cose le aveva viste e sentite, era nell’occhio del tifone. Per questo la sua esperienza, insieme a quella di un certo numero di persone, ha arricchito l’Europa, più precisamente quella tradizione europea che si riallaccia alla Rivoluzione francese. La posizione da lui tenuta con grande sacrificio della sua esistenza fisica, rifiutando ricchezze e sistemi di pensiero comuni e accettati dai più, ha altresì contribuito ad arricchire la tradizione del socialismo libertario europeo.

Prodotto di una cultura aristocratica molto raffinata, la sua discrezione, la sua povertà, il suo rifiuto di “integrarsi” sono state una testimonianza di vita di cui io non conosco un altro esempio.

Leo Valiani

Un italiano fra i bolscevichi

L’Espresso, 11 aprile 1971

La gioventù odierna non conosce il nome di Andrea Caffi. Eppure, nel suo rifiuto dei compromessi che tanto i partiti socialdemocratici, quanto i partiti comunisti hanno via via accettato, Caffi ha anticipato, sin dal primo dopoguerra, alcuni dei motivi ideali che animano l’opposizione libertaria dei giovani socialisti e comunisti alle dirigenze e agli apparati in cui non si riconoscono più. La ristampa, a cura di Gino Bianco, che vi ha premesso un breve, ma suggestivo profilo di Caffi, dei suoi scritti politici(*), apparsi fra il 1918 e il 1949, giunge forse in un momento adatto alla loro rivalutazione.

Nato a Pietroburgo nel 1887, Caffi era ancora un adolescente quando aderì al movimento socialista russo. Al momento della scissione fra bolscevichi e menscevichi, si schierò con quest’ultimi, aderendo però alla loro frazione di sinistra che più degli stessi seguaci di Lenin rappresentava un’avanguardia operaia. Organizzatore de! sindacato dei tipografi, Caffi partecipò alla rivoluzione del 1905 e, dopo la sconfitta, fu condannato a tre anni di carcere. Scontata la pena si trasferì nella patria di origine della sua famiglia, l’Italia. Un paio d’anni dopo la rivoluzione sovietica tornò in Russia. Prese di nuovo posizione per la sinistra menscevica, che aveva solidarizzato coi bolscevichi nella resistenza armata alla controrivoluzione e all’intervento imperialistico delle grandi potenze, rna, finita la guerra civile, reclamava il ritorno alla democrazia operaia, il ripristino dei diritti d’effettivo controllo dei consigli operai. Imprigionato nel 1920, Caffi fu liberato su insistenza di Angelica Balabanoff, che l’aveva conosciuto nel movimento socialista italiano. L’ex-segretaria della Terza Internazionale era ancora ascoltata, in casi del genere, da Lenin, dal quale poco dopo si sarebbe irrimediabilmente staccata.

Lo scritto di Caffi sulla rivoluzione russa, che apre questo volume, è del febbraio 1919. A tanta distanza di tempo colpisce la straordinaria esattezza della sua analisi. Le sorti della guerra civile erano ancora incerte, le armate “bianche” minacciavano anzi i centri del potere sovietico. Mentre s’augura ardentemente che il proletariato russo esca vittorioso dal cimento, Caffi non esita a mettere a nudo l’involuzione che già caratterizza la dittatura bolscevica. Trotzki, osserva Caffi, individuando con notevole anticipo sugli eventi quella che sarà la ragione di fondo della successiva caduta, nella lotta con Stalin, del fondatore dell’esercito russo, crede nella permanente continuità del miracolo rivoluzionario, dell’eroismo invincibile degli operai che costituiscono legioni di combattenti per il socialismo; Lenin sa invece che lo spaventoso dissesto dell’economia russa ha disgregato la classe operaia, che gli operai più istruiti sono all’opposizione nei confronti del nuovo ceto dirigente dittatoriale, formato in larga misura da avventurieri della rivoluzione, assetati di potere, e in parte anche da elementi della vecchia burocrazia, che puntano sul cavallo probabilmente vincente. Ma, nonostante la sua acutissima, realistica conoscenza delle cose e degli uomini, Lenin procede imperterrito sul cammino che conduce alla trasformazione della dittatura del proletariato in dittatura poliziesca d’un partito che, soppressa ogni voce dissenziente, s’isola anche dalle masse del popolo nel cui nome pure combatte e governa. Tutta la storia del partito bolscevico, che Caffi ricostruisce in modo conciso, ma illuminante, mettendo in rilievo com’esso incarnasse, più degli altri partiti socialisti russi, maggiormente legati a schemi ideologici, tutt’insieme il fanatismo e l’estrema spregiudicatezza della tradizione dei cospiratori, lo porta a cercare, con cinica risolutezza, il potere per il potere. D’altra parte, le masse -la cui esplosione libertaria ed egualitaria spazzò via il vecchio regime e, dopo il fallimento della parentesi democratica nel 1917, diede la vittoria ai bolscevichi- nella loro maggioranza, che in Russia è contadina, non parteggiano più per il governo sovietico, che requisisce i prodotti del loro lavoro, praticamente senza compensi. Nella dissoluzione della società, vince o la controrivoluzione o la dittatura burocratica del partito comunista.

Questo dilemma, che Caffi scorge nitidamente nella Russia dei primi del ‘19, caratterizzerà gran parte dell’Europa fra le due guerre mondiali. Nelle controrivoluzioni del primo dopoguerra sono già presenti il fascismo e il nazismo, nell’accantonamento delia democrazia operaia da parte dei bolscevichi è già presente il totalitarismo staliniano. Da fuorusclto italiano antifascista, Caffi esamina passo a passo l’emergere d questi tristi fenomeni. La vittoria della coalizione antifascista nel 1945 non lo rassicura. Lo stalinismo non è affatto migliorato e anche le potenze sedicenti democratiche, con le quali le socialdemocrazie solidarizzano acriticamente, non sono veramente migliorate. S’impone una profonda rimeditazione dei principii del socialismo e della democrazia e ad essa è dedicato il travaglio intellettuale di Caffi.

(*) Andrea Caffi, Scritti politici, prefazione di Gino Bianco, La Nuova Italia, 1970

 

Gino Bianco

Prefazione a “Sul corporativismo e su una certa tecnica”

Tratto da Miscellanea Storica Ligure, anno V, n. 1  1969

Il socialismo di Andrea Caffi di cui vi è testimonianza anche in questo suo scritto del 1935 sul corporativismo e qui per la prima volta pubblicato -un socialismo certo non riducibile ad una definizione e neppure ad una dottrina o sistema di pensiero, e dovendo indicare un motivo centrale si potrebbe piuttosto parlare di una riscoperta del socialismo attraverso una certa idea della «società»- esprime un’esigenza di rigenerazione totale che investe da cima a fondo la società tutta quanta: «Si vorrà pure ammettere che nell’idea di socialismo c’è l’idea di società. Fin dai suoi primordi, nelle concezioni dei grandi pensatori come nel sentimento delle comunità oppresse, socialismo ha significato anzitutto annettere un’importanza preminente all’uomo che vive in una trama di rapporti sociali spontanei, egualitari, «civili»; solo per un tale uomo, infatti, i problemi della giustizia e della felicità hanno un senso. Le istituzioni, le attività governative, le lotte di frazione che costringono e spesso soffocano la società, sono sempre apparse ai veri socialisti o come escrescenze maligne da eliminare, oppure come un male necessario da limitare e circoscrivere al massimo»(1).

Il socialismo di Andrea Caffi è una diretta filiazione dell’intellighentia rivoluzionaria russa del secolo scorso e di quella tradizione il pensiero e la vita di Caffi hanno il tratto inconfondibile. Anche nel carattere volutamente frammentario, non concluso dei suoi scritti così come nell’insistente ritorno al momento autobiografico e gli anni giovanili come esperienze decisive, vi è un segno distintivo della tradizione rivoluzionaria russa. Nato a Pietroburgo nel 1887, a 14 anni Caffi era già socialista. A 16 anni fu tra gli organizzatori del primo sindacato dei tipografi di Pietroburgo e poco tempo dopo, per aver preso parte alla rivoluzione del 1905 nelle file dei menscevichi fu arrestato e condannato a tre anni. Il problema della Russia, le vicende e il destino della rivoluzione bolscevica resteranno un punto di riferimento costante dell’esperienza intellettuale e politica di Caffi. Nonostante si rendesse conto molto bene delle ragioni che stavano dalla parte dei bolscevichi -come del resto egli stesso le aveva esposte nel saggio del 1919 «La Rivoluzione russa e l’Europa» pubblicato nella Voce dei Popoli (e sia detto qui tra parentesi, il più importante e serio scritto -secondo Piero Gobetti- che fosse fino a quel momento apparso sulla rivoluzione russa), nel trionfo dei bolscevichi egli vide «con un accoramento simile a quello provato alla scoppio della guerra, la sconfitta di quanto c’era stato di più schiettamente libertario e socialista, e anche di più europeo, nella tradizione rivoluzionaria russa quale si era iniziata nel dicembre 1825»(2).

Tornato a Mosca nel 1920 si schierò dalla parte della rivoluzione e aderì alle posizioni politiche della sinistra menscevica di Martov, fautrice di un governo rivoluzionario dì coalizione dei tre partiti sovietici (social-rivoluzionari, menscevichi e bolscevichi). Non tardò ad accorgersi che la gestione del potere da parte dei soli bolscevichi portava in sé il germe dell’involuzione autoritaria del sistema sovietico e che perseguitando e costringendo all’esilio i socialisti rivoluzionari, i menscevichi e i libertari, la «dittatura proletaria» avrebbe messo capo ad un’autocrazia che era l’esatto contrario di quella società di «liberi ed eguali» in nome della quale la rivoluzione era stata compiuta.

Accusato di essere in contatto con elementi dell’opposizione menscevica e di aver dissuaso i socialisti italiani venuti a Mosca con G. M. Serrati dall’aderire alla Terza Internazionale, fu arrestato e rischiò la condanna a morte. Fu liberato grazie all’intervento di Angelica Balabanov che molto tempo dopo, rievocando quegli anni moscoviti, ha scritto di Caffi con grande calore di simpatia e ammirazione.

Più tardi, negli anni trenta, consolidatosi il potere personale e assolutistico di Stalin con quei tratti di fosca e torbida barbarie che l’uccisione di Kirov e l’ondata di terrore indiscriminato che ne seguì preannunciavano (come Caffi in una nota del settimanale Giustizia e Libertà(3) fu tra i primissimi a rilevare), dell’esperienza cui era approdata la rivoluzione sovietica e il comunismo della terza internazionale, Caffi insistentemente ripeteva che si trattava della via opposta a quella che conduce alla democrazia e al socialismo, perché «nessun raggiro dialettico può nella realtà dei fatti condurre alla libertà attraverso il dispotismo totalitario e alla comunità sociale fondata sull’uguaglianza attraverso complicate gerarchie tecnocratiche».

Vi è una continuità nel pensiero e negli scritti di Caffi (dalle collaborazioni alla «Voce dei Popoli», a Quarto Stato, ai quaderni e al settimanale di Giustizia e Libertà e poi nelle file dei socialisti italiani durante gli anni della lotta al fascismo e della Resistenza europea): nonché ad una certa idea del socialismo Caffi ritorna sempre nei suoi scritti al tema della grande crisi della società contemporanea. Nell’immediato dopoguerra aderisce alla Giovane Europa, il movimento nato soprattutto per iniziativa di Umberto Zanotti Bianco, Salvemini, Stuparich, Borgese e condivide quei generosi progetti che animarono il movimento, fondati sull’idea che dalla devastazione e dalla crisi prodotta dalla guerra sarebbero maturate le condizioni per la creazione di una nuova società internazionale, profondamente rinnovata sulla base della libertà, dell’uguaglianza, dell’autodecisione dei popoli. Il presupposto, naturalmente, era che vi fossero ancora in Europa -malgrado tutto- uomini e forze politiche capaci di «lavorare pazientemente a correggere gli errori di Versailles e ad avviare i popoli verso quella pace che non s’era ottenuta nel 1919». Ma insieme a questo vi è anche negli scritti di Caffi sulla Voce dei Popoli o in Quarto Stato, di Pietro Nenni e Carlo Rosselli, il sentimento che un mondo intero di credenze e di valori stava andando alla deriva. La crisi era quella apertasi con la prima guerra mondiale, accresciuta dalla consapevolezza che da quel momento in poi una «civiltà» era andata perduta. Gli anni a venire, col dilagare del totalitarismo in Europa e poi la violenza di una nuova guerra senza precedenti, non ne avrebbero che confermato la profondità e vastità. E nel 1925, sulla Vita delle Nazioni, una rivista di politica estera ch’egli aveva fondato-, in un editoriale dal titolo significativo «Sul tramonto della civiltà europea», scriveva: «La guerra e il dopoguerra, dopo averlo accelerato in modo fittizio, hanno interrotto e disorganizzato quel processo di ravvicinamento reciproco, che a tappe prolungate avrebbe forse condotto a una nuova produttiva coesione fra classe politica, élite intellettuale ed il popolo delle democrazie moderne. In questo consiste probabilmente almeno uno dei momenti essenziali di quel che noi risentiamo come crisi della nostra civiltà».

Legato d’amicizia con Umberto Zanotti Bianco, Salvemini, Amendola, Vincenzo Torraca, Francesco Fancello, Emilio Lussu e molti altri intellettuali antifascisti, si battè contro il regime mussoliniano prima e dopo il delitto Matteotti. Nel lungo articolo «Cronache di dieci giornate» pubblicato su Volontà di Vincenzo Torraca (la rivista che secondo Leo Valiani rappresentò «un incunabolo del partito d’azione nell’altro dopoguerra»), Caffi documentava con estremo rigore la diretta responsabilità di Mussolini nell’assassinio di Giacomo Matteotti.

In pericolo di essere arrestato per propaganda sovversiva lasciò l’Italia nel 1926 e si trasferì a Parigi. Nell’emigrazione antifascista riannodò i contatti con vecchi e nuovi compagni e particolarmente, dopo l’arrivo di Carlo Rosselli a Parigi, con il gruppo di Giustizia e Libertà.

Nel pensiero di Caffi vi è un modo originale di intendere la politica e la «società» che coinvolge i temi sulla funzione e il ruolo degli intellettuali, del rapporto tra élites e rivoluzione, tra minoranze e apparati politici. Nelle sue collaborazioni ai Quaderni e al settimanale di Giustizia e Libertà, Caffi sviluppa l’analisi sulla società moderna, sulla natura del totalitarismo (e in una serie di articoli che ebbero molta influenza su Rosselli, del distacco tra le generazioni democratiche e le giovani generazioni totalitarie), sulla struttura e le funzioni dello Stato. Caffi spinge la critica oltre ogni superficialità e riconduce l’analisi del totalitarismo fascista a fenomeni più complessi e in primo luogo alla disgregazione sociale, morale, politica ed economica dell’Europa. Fu Caffi -ha potuto scrivere Aldo Garosci- «che primo indusse Rosselli ad andare oltre quello che di troppo superficialmente entusiastico, di eredità mazziniana nel senso meno buono c’era in «socialismo liberale», ad accentuare la polemica contro i vecchi partiti non limitandola alla loro inerzia solo rispetto al fascismo, ma estendendola al carattere antiquato, fisso e accademico delle loro dottrine»(4). Nello scritto «In margine a due lettere dall’Italia»(5), Caffi sottolineava un’antitesi irriducibile tra rivoluzione e «società» (realtà infinitamente più ricca della politica). Tale antitesi tra rivoluzione e «società» era esemplificata negli eventi della rivoluzione francese e di quella russa: né gli agenti del Comitato di salute Pubblica appartenevano all’elite impersonata precedentemente dai D’Alembert, Diderot, Voltaire, né i commissari dell’esercito rosso o della GPU possono confondersi con la élite intellettuale russa. Nei due casi l’elite ha creato le idee, rovesciato «scale di valori», suscitato un modo nuovo di sentire e di comprendere i nuovi doveri verso l’umanità. Residui volgarizzati ed irrigiditi di questi ordinamenti intellettuali e morali sono penetrati nelle «teste quadre» dove un unico pensiero si trasfonde in volontà indomabile. Ma tra gli uomini dei circoli degli Enciclopedisti e quelli dei clubs dei giacobini, come tra quelli della società russa dell’Ottocento e i «rivoluzionari di professione» bolscevichi, rimaneva, nella filiazione, «l’abisso scavato dal modo diverso di intendere e valutare l’insieme di esperienze intime e di tradizioni accettate e amate che noi chiamiamo «cultura» o al modo latino «umanità». Per il politico, anche quando sta sistemando le conquiste immediate di una rivoluzione, la cultura è qualcosa che serve la vita, per la élite essa è qualcosa che fa la vita». E tuttavia, la considerazione dell’elemento inumano della rivoluzione, dell’enorme distanza che sempre separa il mondo dei generosi e nobili progetti di sovversione radicale dalla «nuda realtà» che si è pur contribuito a creare, e addirittura la considerazione della sorte stessa riservata alle élites culturali che avevano preparato la rivoluzione dai loro successori ed esecutori pratici («mancherebbe una suprema consacrazione alla élite se non fosse suo destino di essere divorata dagli elementi che pure è precipua sua missione di scatenare») non dovrebbe impedire agli intellettuali di « capire la fatalità quasi provvidenziale di siffatti inumani eccessi, finché le rivoluzioni, simili in tutto alle guerre, sono l’unico mezzo per portare rimedio (o solo un giusto compenso?) alle molto più turpi, prolungate, silenziose atrocità che ingenera quotidianamente l’ineguaglianza sociale».

Nonostante culturalmente e politicamente il movimento di Giustizia e Libertà rappresenti quanto di più avanzato abbia espresso l’antifascismo italiano di quell’epoca vi è pure una generica atmosfera volontaristica e idealistica di GL dopotutto abbastanza poco moderna perché scontava negli anni trenta certo banale idealismo dei primi del secolo. Certo, sia i Quaderni che il settimanale di GL volevano essere lo strumento politico e culturale di una battaglia in atto e non intesero rappresentare -come ha scritto Garosci- «lo sviluppo sistematico di un pensiero coerente». E tuttavia non si potrà non riconoscere che su molti problemi fondamentali sia politici che culturali le soluzioni indicate dal «Movimento» non erano abbastanza chiare e approfondite. Era contro una singolare mescolanza di entusiasmo mazziniano e di spregiudicato realismo, di generica atmosfera volontaristica idealistica e di atteggiamenti pragmatistici, di radicalismo rivoluzionario e di tendenze liberali non facilmente mediabili, che Caffi appuntava le sue critiche. Ma quelle critiche che Caffi non risparmiava alle idee e ai criteri ispiratori del Movimento di G.L. erano soprattutto dovute -come ha ricordato Nicola Chiaromonte- «al desiderio che l’antifascismo italiano, almeno nella sua parte più giovane e intellettualmente più avvertita, si sollevasse dal terreno della polemica spicciola e della propaganda antimussoliniana per attingere al livello di movimento europeo e contribuire in modo positivo al rinnovamento della tradizione socialista e libertaria»(6), e furono, per l’essenziale, la povertà di idee dell’antifascismo e il suo rifiuto tenace di «portare la critica alle radici» a determinare la cosiddetta «crisi con i novatori»(7).

Caffi militò nelle file dei socialisti italiani esuli in Francia ed ebbe rapporti di amicizia e collaborazione particolarmente con Saragat, G. E. Modigliani, Tasca e Faravelli (quest’ultimo responsabile del lavoro clandestino in Italia). La collaborazione di Caffi con Tasca e Faravelli costituì anche un’adesione alle posizioni politiche che quel gruppo esprimeva: le riserve nei confronti dell’unità d’azione tra socialisti e comunisti e delle ambiguità dei «fronti popolari», il fermo atteggiamento nei confronti dello stalinismo, il rifiuto delle alleanze di vertice, la lotta per il rinnovamento del movimento socialista(8).

Contrapponendo Proudhon a Marx, Caffi indica una maniera diversa di concepire la società umana e quindi quelle sue funzioni che sono la libertà e la giustizia. Del resto -insisteva Caffi- il socialismo deriva dal suo stesso nome, la sua gloriosa pretesa alla qualifica di neo-umanesimo proprio dal fatto che si è eretto a difesa della società contro gli inumani congegni dell’«ordinamento statale». La costituzione politica, risultato del movimento liberale del secolo XIX, doveva essere portata a compimento mediante la «costituzione sociale» limitando le prerogative e le funzioni dell’apparecchio statale, costringendolo a compenetrarsi esso stesso di «diritto sociale», si potrà giungere al complesso di varie autonomie che costituiranno la «democrazia industriale». I partiti operai invece si rivolgono unicamente al «cittadino», al fittizio «ente giuridico» che è il cittadino in tempi normali, e il sindacato si preoccupa unicamente del materiale, impersonale adattamento della «forza lavoro» nel sistema tecnico economico e quindi in definitiva di una sua integrazione nel sistema.

Al di là dei giudizi acuti, delle intuizioni talvolta geniali sull’evoluzione in corso della politica europea, sull’avvento del totalitarismo, sulla crisi delle società moderne, sui regimi di massa, sulla degenerazione della rivoluzione sovietica e così via, vi sono spunti, idee, e soprattutto un modo di pensare di sostanziale importanza e attualità nel discorso caffiano sul socialismo, di un socialismo cioè che non può accettare la rivoluzione industriale rinunziando alla rivoluzione sociale, come ancora accade nei sistemi, pur contrapposti, americano e sovietico.

Si potrà far rivivere un umanesimo socialista? E’ questo in definitiva l’interrogativo nel discorso caffiano. L’avversione nei confronti delle ideologie, l’immensa cultura e la padronanza dei grandi fenomeni storici dell’antichità e del mondo moderno insieme al senso religioso della giustizia e alla capacità di «concepire l’essenza, la verità viva, la sostanza sacra dei fatti umani come una realtà concreta, non come un’idea astratta, un principio ideologico o un precetto morale», spiegano l’originalità del socialismo di Caffi e la profondità della sua analisi. L’esecrato capitale -ripeteva Caffi- che nella tradizione socialista si incolpava di tutte le sciagure, è appena identificabile oggi fra i giganteschi congegni di pressione politica, sociale e psicologica che stritolano gli uomini e li gettano nell’informe magma della «massa». I centri del potere economico e politico dai quali dipende la produzione e la distribuzione, dispongono oggi di tali mezzi ed apparati di repressione, di informazione e di distribuzione ed in pari tempo hanno acquistato una potenza così decisiva e «razionalizzata» da fare sembrare poca cosa il minuzioso ordinamento del vecchio dispotismo napoleonico. La preminenza di questi « apparati » politici, economici, militari, di informazione, ecc. rappresenta -seppure in forme diverse- il tratto saliente (l’Herrschaft des Apparats, secondo la definizione di Jaspers) tanto dei paesi occidentali a capitalismo privato quanto di quelli a capitalismo di Stato, ed è un attributo necessario del «regime delle masse». Ma qual é la qualità più evidente di tali masse? «L’inerzia» -rispondeva Caffi. La giunzione dinamica fra i formidabili mezzi di produzione e la collettività umana che sola può farli funzionare non s’è prodotta: la «massa» dei lavoratori sente istintivamente che, in quanto «collettività massiccia», essa è incapace di «possedere» sia i mezzi materiali di produzione sia gli ingranaggi complicatissimi di un’amministrazione economica. Sentendosi «incapace» la massa subisce. Che fare? Accettare la rigidità spietata di una burocrazia onnipotente? Sottoporsi a quella tecnocrazia che sembra essere nella direzione dello «sviluppo storico»? Per un socialista, una volta rifiutata sia la tirranide tecnocratica nuda che quella ammantata di ideologia del comunismo sovietico, una strada, mi pare, rimane: quella che la «massa» riuscisse ad abolirsi in quanto massa; a sich aufhe-ben, per usare quel linguaggio della dialettica hegeliana che il giovane Marx maneggiava con tanto vigore nei suoi scritti del 1844-1848. E il senso sarebbe che dalla massa bisogna pure che gli individui finiscano per uscire; bisogna pure che in seno alla massa si formino delle comunità autentiche, dei gruppi di «eguali» capaci di pensare e di agire con piena intelligenza dei fini e dei mezzi. Utopia o no, io non vedo altra strada verso un’emancipazione reale(10)».

Del resto -osservava Caffi- la democrazia politica europea con i principi dell’89 non aveva potuto trionfare, ed in modo molto imperfetto e precario, che dopo lotte violente e sanguinose, e dopo sforzi accaniti di parecchie generazioni in tutti i campi della «cultura», dell’organizzazione economica, dell’emancipazione dalle Chiese. Ed anche la rivoluzione sovietica (sebbene arenata in un «ricorso» di tirannide) ha richiesto un secolo di «lavorio sotterraneo». Per la verità, poi, quel lento e faticoso processo di democratizzazione della società europea, fu arrestato dall’emergenza del totalitarismo e di sempre più accentuate tendenze autoritarie non senza che a ciò vi contribuisse il mito dell’efficienza alimentato dall’impetuoso sviluppo tecnologico.

E tuttavia, nonostante la «razionalizzazione totalitaria» e la prospettiva per dirla con Zbigniew Brzezinski -di una «età tecnotronica», vi sono pure resistenze, realtà irriducibili, fenomeni che non si lasciano integrare e che potrebbero anche fare ben augurare per le sorti di una società più civile e ragionevole.

Quanto alla nota sul corporativismo ritrovata tra le carte caffiane e finora inedita, essa fu redatta da Caffi nel 1935 in occasione del numero speciale della rivista francese Esprit dedicata al corporativismo. L’argomentazione principale sviluppatavi da Caffi è che se il processo di accentramento e di crescente intervento dello Stato era già in atto verso la fine del secolo scorso con intensità eccezionale e indipendentemente dai diversi regimi costituzionali e politici, l’avvento dell’economia di guerra, della «mobilitazione industriale» e di tutto quell’insieme di bardature (ivi compresa tutta la gamma di «quelle metamorfosi del diritto civile, nella loro accelerazione e nei loro molteplici significati»)(11) ne rappresentò il culmine. Sicché alle idee di Ugo Spirito e dei suoi amici (i «sanculotti» del fascismo -come li chiamava Bottai) quali erano state formulate soprattutto al Congresso di Ferrara nel maggio 1932 (e per il loro carattere radicale e popolusta quanto al diritto di proprietà, mai attuate nella realtà del regime fascista) Caffi vi vedeva più ancora che una filiazione del socialismo di Stato (Wagner, Schaeffle, Sombart) uno strumento tecnico dello Stato totalitario nelle moderne società industriali di massa.

Di fronte alla crisi delle democrazie parlamentari e all’avvento della società di massa; al carattere sempre più astratto che per il popolo veniva ad assumere la vicenda politica in conseguenza dell’accresciuta complessità dei meccanismi sociali; all’enorme ed informe «crescita» delle funzioni dello Stato, le corporazioni -scrive Caffi- «sono una risorsa tutt’altro che stupida (e non saprei dire se proprio inattuabile) dello Stato trionfante sulle rovine di ogni umana comunità ».

(1) Cfr. Andrea Caffi, Critica della Violenza, Bompiani 1966, pag. 94.

(2) Vedi l’introduzione di Nicola Chiaromonte a Critica della Violenza, op. cit. pag. 13

(3) Giustizia e Libertà (settimanale) del 4 Gennaio 1935.

(4) Cfr. Aldo Garosci, La vita di Carlo Rosselli, Edizioni U, 1945, pag. 73 (vol. 2°)

(5) In Quaderni di G.L:, n.11, Giugno 1934 (II Serie).

(6) Introduzione di N.C., già cit., pag. 19.

(7) Per questo aspetto di G.L., Cfr. soprattutto L. Salvatorelli e G. Mira, Storia del Fascismo; l’Italia dal 1919 al 1945, Roma 1952, e anco ra, di L. Salvatorelli, L’Opposizione democratica durante il fascismo, II Secondo Risorgimento, Roma 1955. Molto interessante lo studio di Claudio Pavone, Le idee della Resistenza, in Passato e Presente, n. 7, 1959, pag. 884. Per la separazione dal movimento di G.L. di Caffi, Chiaromonte, Levi e Giua, vedi Aldo Garosci, La vita ecc., op. cit. voi. II, pp. 97-102, ed anche G.B., Crisi con i

  1. 7, 5 aprile 1963.(8) Sull’attività svolta dal Centro interno del PSI, Cfr. soprattutto Stefano Merli in Annali Feltrinelli 1963 e le Tesi di Tolosa (I socialisti, la guerra e la pace) redatte da Caffi in Quaderni del Gobetti, Genova, 1958.

(9) Per alcune notizie sulla posizione di Caffi, cfr. anche Lamberto Borghi, Educazione e autorità nell’Italia moderna, Firenze 1951, pagg_ 316-323.

(10) «Borghesia e ordine borghese» in Critica ecc., op. cit., pag. 233-234.

(11) Secondo l’espressione di Rene Salvatier. Per una visione molto ricca e articolata della realtà dei rapporti giuridici contro l’esclusivo sistema del diritto individuale e ancor più contro il preteso «interesse generale» dello Stato, Caffi riprendeva l’analisi e gli spunti di George Gurvitch che in Idèe du Droit Social (Sirey, 1932) rielabora e svolge portandole alle loro ultime conseguenze le teorie di Fichte, Gierke, Krause e soprattutto di Proudhon sul pluralismo giuridico e sull’antitesi società-stato.

Carlo Vallauri

Il socialismo umanitario di Andrea Caffi

Tratto da Storia e politica, A. XII. fasc. II, Giugno 1973

II contributo che Andrea Caffi ha recato all’azione politica e culturale in difesa dei valori della libertà non ha trovato sinora riconoscimenti adeguati.

Già la stessa natura dell’uomo, semplice e modesto, la sua ritrosia a mettere in mostra pensieri lungamente meditati, la sua insofferenza per moduli scontati e per partiti abbarbicati a mantenere accesi fuochi ormai spenti dalla realtà, la sua dura polemica da un lato contro la borghesia colta asservita ai grandi interessi economici, dall’altro contro lo stalinismo i suoi esaltatori ed epigoni, l’incapacità ad incapsularsi in formule e riti, la sua denuncia di metodi politici strumentali e di confusioni culturali alla moda hanno reso impossibile sia una classificazione in quei filoni impegnati ai quali arride il successo per un concorso di cause legate alle attualità sia il concentrarsi dell’attenzione verso scritti scottanti per l’amarezza delle verità testimoniate.

D’altronde anche in vita Caffi cercò di evitare collocazioni che annullassero, con un generico nominalismo, la sostanza di un pensiero critico, continuamente teso alla ricerca di posizioni dialettiche, opponendo egli in ogni occasione al dogma il confronto.

Legato a profonde aspirazioni democratiche e libertarie, frutto di una esperienza che lo aveva visto giovanissimo impegnato -quale figlio di un italiano che lavorava a Pietroburgo- nella rivoluzione russa del 1905 quale sostenitore della linea menscevica, egli aveva maturato nella Parigi dell’emigrazione un habitus mentale cosmopolita nell’approfondimento dei motivi che rendevano travagliata la vita dell’Europa post-ottocentesca, nelle contraddizioni tra militarismo ed esigenze pacifiste, tra imperialismo ed individualismo, tra spinte politiche collettivistiche e miti letterari superomistici. Si comprende allora come all’indomani del primo conflitto le sue speranze per una collaborazione tra i popoli del continente si riveleranno pallide utopie. Mentre egli cerca di individuare gli elementi caratterizzanti del potere bolscevico e di spiegarne origini e strutture, la caduta dell’Italia sotto un governo dittatoriale conferma in lui le recondite ragioni del progressivo esaurirsi dell’anelito alla libertà.

L’avvento dell’era della massa lo trova attento indagatore di questioni attorno alle quali si era da giovane cimentato quale allievo di Simmel all’Università di Berlino.

E quando il terribile gioco è consumato con il trionfo hitleriano e con i processi di Mosca, Caffi tenta di rielaborare in sé e per sé i motivi di un crollo di ideali, di valori, di regimi ; le sue convinzioni lo condurranno a posizioni di isolamento, restio com’egli è a parlare per luoghi comuni, frasi di deteriore buonsenso, menzogne convenzionali.

La stessa partecipazione all’antifascismo militante lo trova sì schierato su un fronte nettamente individuato ma senza nessuna concessione alle ripetizioni pedisseque di modelli battuti dalla storia. Non a caso sarà proprio Caffi ad iniziare su Giustizia e libertà di Rosselli il dibattito sulla crisi di coscienza della gioventù fascista, a guardare a coloro che in Italia operano all’interno delle organizzazioni del regime imperante come a possibili interlocutori, per riprendere un discorso necessitato dall’eterno fluire degli eventi e che nessuna imposizione avrebbe potuto impedire. Ma proprio di quegli anni è il suo distacco dai gruppi ufficiali dell’antifascismo, il suo rinchiudersi in un ripensamento profondo sulle cause del tramonto della democrazia, della crisi del socialismo.

Il divampare del turbine nazista nell’Europa ce lo farà ritrovare quale infaticabile organizzatore clandestino nella Francia occupata; ma anche adesso che il suo rinnovato impegno socialista si sostanzia in un’azione comune con altri compagni ed altre forze politiche affiora la distanza che lo separa dai fautori della politique d’abord. Certo il suo disegno di presentare ai vincitori un movimento politico italiano autonomo dagli Alleati risponde ad un senso di dignità caratteristico del suo temperamento: ma è anche vero che il rincorrersi degli avvenimenti non consente di porsi al di sopra della mischia con la somma delle proprie speranze e dei propri orgogli. Urgono scelte precise, e la scelta di Nenni e di Saragat -in dissenso con Caffi- è per la ricerca di un fronte comune delle forze popolari italiane accanto agli Alleati.

I «distinguo», giustissimi in teoria, cedono di fronte all’incalzare delle necessità belliche. E d’altronde è sin troppo evidente come le riserve di Caffi non riguardino tanto l’atteggiamento su un singolo fatto quanto il suo modo di porsi di fronte all’azione politica, che è il tipico modo di atteggiarsi di un intellettuale, con tutti i difetti che questa classficazione comporta. A differenza di altri uomini di cultura, però, che sostituiscono al rammarico per non vedere accolte le proprie tesi nel travaglio della fucina politica l’accomodante sistemazione accanto ai politici tout court, Caffi preferisce mantenere un comportamento schivo da riconoscimenti e matura le proprie illusioni attorno al suo stesso tribolo personaie, in una volontaria rinuncia che non è ascesi, ma riflessione, che non è atto di superbia, ma consapevole ripensamento di esperienze.

Gli ultimi anni di una vita intensa saranno consumati ad approfondire i temi dell’impegno culturale, a cercare di afferrare il significato di prassi politiche troppo scostatesi dalla filosofia da cui traggono ispirazione.

Quando Nicola Chiaromonte, che di Andrea Caffi fu amico fedele, ebbe nel 1966 a raccogliere per l’editore Bompiani una serie di suoi saggi, scelse come titolo indicativo del volume Critica della violenza. Indicazione questa senz’altro appropriata perché sottolineava uno degli elementi più caratteristici della personalità di Caffi. Negli ultimi anni della sua vita egli scrisse per Tempo presente, la significativa testimonianza culturale di Silone e Chiaromonte, e per il periodico di New York «politics», diretto da Dwight Mac Donald. E proprio su quest’ultima rivista era apparso nel ‘46 lo scritto di Caffi che reca il titolo utilizzato per il libro.

Occorre però a questo punto chiedersi quale è la filosofia politica da cui Caffi muove, quali i fini del suo impegno, quali gli ideali della sua azione.

Il socialismo al quale Caffi si è nutrito è di tipo «umanitario» e non ha lo stampo marxista.

Da Marx lo separa quella che egli considera una pretesa scientifica assoluta: «la strana presunzione propria del marxismo è che tutti i fatti storici che potremo mai scoprire (quando al tempo di Marx non si sapeva nulla della storia di Creta, degli Ittiti, dei popoli dell’Estremo Oriente e la conoscenza del Medioevo, di Bisanzio, dell’Isiam era affatto superficiale) dovranno confermare lo schema stabilito nella prefazione alla «Critica dell’economia politica», a condizione che li si consideri secondo il metodo del «materialismo dialettico» (1). E chiama a suo soccorso l’autorità di Marc Bloch, riconoscendo comunque l’arricchimento prodigioso della nostra conoscenza del passato ottenuto attraverso l’influenza e le «ipotesi di lavoro» di Marx.

Contrario per formazione mentale ai facili schematismi, ritiene l’ortodossia classica marxista una «rigidità dottrinale» che nel momento stesso in cui impone ai partiti socialisti il culto per la classe operaia si chiude alla comprensione di quel che avviene in una cerchia più vasta dei salariati delle officine moderne. Ed anzi questa «chiusura» -spesso non scevra da insincerità ed opportunismo- porta poi all’improvviso esplodere di situazioni nelle quali proprio i partiti operai si rendono protagonisti di politiche di union sacrée, rinnegando i propri postulati e creando quindi un generale disorientamento nel movimento dei lavoratori.

Caffi non nega che nell’Ottocento la configurazione concreta della realtà risponda all’antagonismo dualistico indicato da Marx -ma non da Marx solo (vengono richiamati Saint Simon e Owen, Sismondi e Proudhon)-; considera tuttavia che la borghesia è stata piena padrona del meccanismo capitalista, secondo la geniale analisi marxiana, soltanto in un periodo determinato nel tempo e limitato nello spazio. Cioè a dire egli vede l’oppressione economica, sociale e politica come un fatto costante delle società organizzate, dipendente dalla complessità dei rapporti che si stabiliscono nelle società progredite, ma sottolinea che è altrettanto costante la protesta e la lotta contro l’oppressione.

Il socialismo appunto è allora la lotta contro ogni forma ed ogni tipo di oppressione, contro lo sfruttamento, contro le subordinazioni materiali

o morali imposti all’uomo: e contro questi fenomeni il socialismo lotta, non solamente in nome del lavoro e del proletariato contro il capitale e la borghesia.

Emerge chiaramente una concezione del socialismo, dilatata al di là delle realtà storiche nelle quali essa si è incarnata -come punto di riferimento socio-politico nella classe operaia quale antagonista allo sfruttamento del capitale-, una concezione che per le stesse dimensioni che assume mal si adatta alle vesti concrete, alla tipologia classica del movimento operante nell’Europa dell’Ottocento ad oggi, anche se naturalmente essendo questo socialismo protagonista d’una dura lotta per l’affrancazione dell’uomo dalla schiavitù economica, Caffi non rifiuta di far propri i motivi di lotta del movimento operaio. Egli non ritiene però che il socialismo debba esaurirsi nell’aspirazione ad una trasformazione dei rapporti economici, in quanto vanno valutati, a suo avviso, pericoli che sull’uomo, sul lavoratore, possono continuare a gravare per effetto di altre forme di oppressione.

Certamente il punto discriminante per la sua analisi è l’esperienza bolscevica russa, esperienza che egli cerca di giudicare con obiettività. I suoi scritti del 1918 -anteriori quindi al suo soggiorno nella neonata Repubblica sovietica- cercano di spiegare le ragioni della prevalenza leninista.

«Lenin, fino dai primordi della sua azione politica, non si è mai fatto illusioni sull’immenso divario che separa l’ordine ideale dei rapporti umani quali li concepisce il socialismo, dagli elementi concreti con cui si fanno le rivoluzioni: miseria, ignoranza, inerzia, vampata vendicativa delle masse, gli uomini di avanguardia raramente competenti e non sempre sicuri; la mole poderosa del capitalismo e dei governi armati» (2). L’utilizzazione di tutti i mezzi possibili è richiesta dal fine della «liberazione dell’umanità». A differenza di altri rivoluzionari-idealisti, Lenin non ha inibizioni di fronte agli opportunismi pratici: egli non crede che le formule astratte possano creare un fatto, crede invece nella «volontà organizzata dei rivoluzionari che devono valersi di tutto per mantenere ed accrescere il loro campo d’azione».

La guerra ha generato masse di uomini in grado di usare le armi e il movimento rivoluzionario comunista russo è l’espressione di un popolo, sconvolto da profondi turbamenti, in cerca di soluzioni per risolvere i propri problemi, e la forza dei bolscevichi -a suo avviso- fu proprio la capacità di interpretare antiche aspirazioni popolari, canalizzandole verso azioni concrete. «Nella capacità dimostrata dai bolscevichi di dare un’Idea, un centro intelligente alla sfrenatezza delle masse russe, scrollando le artificiali «sovrastrutture» di una burocrazia e di un capitalismo fondamentalmente stranieri, sta la differenza specifica, in grazie alla quale il massimalismo non è un semplice episodio di sommosse senili, ma il principio di un’epoca nella storia della Russia e forse del mondo».

E precisa Caffi: «La praticità di Lenin non si manifesta punto negli atti legislativi, per mezzo dei quali egli sembra volere mutare la società, ma sta nella fedele audacia con cui egli ha sempre consigliato di calcolare e di affrettare le conseguenze estreme del necessario corso degli eventi, senza mai attenuare o complicare lo scopo univoco imposto al suo partito: conquista del potere per metterlo al servizio degli interessi immediati, concreti della classe finora sfruttata. Arrischiare tutto per tutto; nulla sacrificare a «pregiudizi ideologici»; l’intenzione più violenta nella propaganda, nella agitazione, nella tattica del partito, una utilizzazione quasi cinica delle contingenze, purché vi si trovi un espediente per dominare la situazione» (3).

La valutazione attenta della tattica attraverso la quale i bolscevichi conquistano il potere, delle ragioni di fondo del loro insediamento del potere, quali eredi di una tradizione culturale della società russa, nonché dei motivi di novità rappresentati dalla politica verso le nazionalità, non gli impediscono di diventare severo critico di una organizzazione che non riesce ad espungere dal suo seno le tossine pericolose della Statocrazia.

Gli avvenimenti degli anni trenta inducono Caffi a distinguere tra esperimento sovietico -nel quale cerca di individuare elementi che per il progresso dell’emancipazione proletaria e per l’edificazione del socialismo hanno un significato positivo- e metodi persecutori e falsificatori messi in atto da Stalin. Certo, in quel periodo, malgrado l’obiettività di una simile distinzione, il solo fatto di «dire male di Stalin» non gli procurerà soverchie simpatie nel campo comunista. D’altronde il suo impegno di militante socialista, anche se al di fuori degli schemi di partito, non gli può consentire di passare sotto silenzio le tecniche repressive realizzate in Urss -e le sue pagine sui processi di Mosca (4) restano esemplari. Il suo distanziamento dal modello comunista russo si riconnette ad una visione socialista che cerca di indicare le potenzialità esistenti in quel sistema senza nasconderne i lati negativi.

La presenza di meccanismi repressivi -anche se operanti in nome del «socialismo»- non possono non trovarlo intransigente difensore dei diritti dell’uomo. La sua posizione critica riguarda lo Stato nel complesso dei suoi strumenti operativi, e quindi non solo lo Stato poliziesco e vessatorio, quanto lo Stato che interviene nella vita degli individui, con la pesantezza dei suoi procedimenti, per regolare sin nei minimi particolari il processo economico. Non a caso egli aveva visto quale fattore positivo dell’azione leninista la lotta per il disarcionamento della macchina governativo-statale e l’appello alle organizzazioni dei lavoratori. Un socialismo quindi che si richiama a Proudhon e non a Marx e che non riconosce come proprie le soluzioni staliniste.

Se, in una maturata valutazione di fatti, si comprende come il «mito russo» abbia operato nel movimento socialista internazionale quale punto di riferimento contro i trionfi della reazione in gran parte d’Europa, non per questo Caffi è disposto ad accettare acriticamente la qualifica di «socialista» per una serie di comportamenti delle classi dirigenti del-l’Urss e delle democrazie popolari.

Il socialismo di Caffi è un socialismo che rifiuta l’organizzazione di massa della società contemporanea. Egli ritiene -e non sarà solo in questo giudizio- che le forme assunte dalla organizzazione sovietica siano conseguenza di un insieme di svolgimenti politici, attraverso i quali l’economia russa è divenuta una economia militarizzata.

«Nei mostruosi ingranaggi della moderna “civiltà di massa” qualsiasi cosciente aspirazione e decisione dell’uomo perde ogni ragione di essere, e qualuque sia l’esito del giogo di detti ingranaggi, nulla ne può risultare di valutabile in termini di significati umani, di felicità personale o di socievolezza. L’assoluta intransigente opposizione a questi ingranaggi, la resistenza in tutti i modi e con tutti i mezzi alla loro stretta, è la condizione prima di un “ritorno alla misura umana” d’una coerente “politica del popolo”» (5).

Va ricordato peraltro come l’analisi di Caffi individui nell’esperienza socialdemocratica tedesca attorno al 1900 l’origine della «massificazione» del socialismo, che portò alla faciloneria, all’opportunismo, all’ipocrisia, alla pusillanimità.«I socialisti non sembrano aver avuto la chiara percezione dell’efficacia con cui l’istituzione degli eserciti permanenti, l’agglomerazione nelle “città tentacolari”, la standardizzazione di tutti i particolari dell’esistenza materiale al livello d’una deprimente bruttezza e volgarità, le gigantesche officine di Krupp o di Ford con l’abbrutimento del “lavoro a catena” contribuivano a ridurre il popolo, ed anzi tutto il proletariato, ad una “massa” dove l’individuo diventa sempre più sperduto, insignificante, costretto a meccanica imitazione dei suoi “simili” che sempre più gli diventano indifferenti».

La ricostituzione di uno Stato accentrato e onnipotente rappresentano, afferma Caffi, la negazione dei valori del socialismo.

«Bisogna ricominciare da capo» (6) egli scrive nel 1949. Gli «errori colposi tanto del comunismo che della socialdemocrazia» si collegano ad una « assenza di base» a cui il movimento socialista deve rispondere sostituendo alla «mentalità gregaria» delle masse, all’adorazione della forza e del successo, al gusto di essere comandato dal duce di turno, la capacità d’una critica rigorosamente razionale esplicata dalla facoltà di giudizio dell’individuo, la solidarietà profonda tra uomini che si sono compresi non superficialmente.

«La funesta sorte del movimento socialista fu di vedersi costretto dagli avvenimenti ad assumere quasi all’improvviso nello Stato e nella vita nazionale una parte che implicava la rinuncia alle sue essenziali funzioni sociali e alla pratica applicazione dei suoi principi di pacifismo integrale e internazionalismo».

La pace diviene per Caffi uno dei principali punti di riferimento per un’azione politica che non voglia essere generica. Egli contesta la tesi secondo la quale la violenza sia una «necessità fatale» e la guerra «una esigenza delle società organizzate». Né crede sia possibile «vincere la violenza con la violenza». La violenza -scrive infatti- «è incompatibile con i valori di civiltà e di umanità socievole che noi vogliamo appunto preservare dagli attentati distruttori dei violenti» e aggiunge «usando la violenza noi rinneghiamo necessariamente i valori che sono la nostra ragione di vivere e ne ritardiamo indefinitamente la preparazione e la fioritura»(7).

Caffi pone perciò un problema di coerenza tra fini e mezzi, che costituisce il fondamento di un’azione politica fondata su una precisa impostazione etica.

Certo egli ha presente l’esempio delle polizie politiche, alle quali fa espressamente richiamo, le esperienze di uno Stato dei lavoratori in cui mancano adeguate garanzie di salvaguardia dei diritti dei lavoratori stessi, di una organizzazione economica che ha derivato dall’economia di guerra la struttura burocratica, i casi di subordinazione cieca al «superiore interesse del partito», alla «linea generale», indicativi di una mentalità che negli stessi anni Jean Paul Sartre bollerà con il sarcasmo della sua vena artistica oltreché filosofica.

Ma d’altro canto vi è un modo efficace per opporsi alla bruta violenza dominatrice diverso da una violenza sia pure a servizio di una causa giusta?

Il punto discriminante è proprio qui: e la risposta di Caffi è fortemente intrisa di cristianesimo tolstoiano. La validità del suo assunto è incontestabile sul piano dei principii, ma le ragioni stesse dei valori che Caffi ha testimoniato con la sua vita non sono state forse affermate mediante una forza che si è opposta a quella temporaneamente dominante in Europa, la sua stessa possibilità di riprendere il discorso critico sul crollo della democrazia, sulla crisi del socialismo, sulla necessità della non-violenza, non poggia forse sul trionfo militare di una forza ben precisa?

Si ha l’impressione che l’alta predicazione di valori morali prescinda dalla concreta valutazione della realtà.

«Se il socialismo ha da essere una vera liberazione dell’uomo, dobbiamo cominciare col respingere come la maggiore delle assurdità ogni nozione di guerra fatta dai socialisti, o da Stati diretti in nome dei socialisti»(8). Naturalmente questa asserzione non è valida, neppure per uno Stato diretto dai socialisti, quando si tratti di guerra difensiva. Ma le polemiche sulle teorie cattoliche relative all’argomento dimostrano la difficoltà di discriminanti basate su classificazioni siffatte.

L’affiorare, nella sua visione della vita politica, di una sorta di idealismo socialistico ed umanitario se ha un significato di denuncia del «collettivismo burocratico» e del metodo della violenza messo in atto anche in nome del socialismo, rende la posizione di Caffi più quella di un predicatore solitario -retto da una forte tensione morale, corroborata dalla testimonianza sofferta di tutta una vita spesa disinteressatamente al servizio di ideali- che non di un pensatore politico capace di promuovere attorno a sé una corrente d’azione concreta.

D’altronde se si ha presente il suo modo di intendere il problema delle classi ci si avvede come, negando il dualismo marxiano, egli in sostanza ritenga operabile un’attività che prescinda dagli interessi economici, dalla conflittualità latente nella società. Egli non si pone ad osservare le «masse» sulla base del concetto di «classe» o di «coscienza di classe» e rileva invece nella massa tre strati, il primo «il sottosuolo della civiltà moderna», capace di fornire -attraverso i bassifondi- il personale per le atrocità di progrom e dei vari squadrismi; in secondo luogo le folle atone, rese indifferenti dalle guerre e dai regimi d’oppressione, soddisfatte di aver acquistato un minimo per l’esistenza materiale; in terzo luogo una massa di uomini semplici, sensibili all’esigenza di una reale comunità del «sentire umanamente» ma, per fatalità economica, immersi appunto nella massa. E gli odierni partiti si basano su questo tipo d’uomo, per i quali i principi di reciproca tolleranza, di libertà di giudizio, di scelta individuale non hanno più significato.

Una posizione quindi sostanzialmente pessimistica sulla condizione reale dell’uomo e nello stesso tempo ottimista circa la sua possibilità di salvarsi con un atto individuale.

In tale contraddizione è il dramma di Caffi, uomo e pensatore, indicatore di valori da tutelare, di obiettivi da perseguire, di metodi da usare, intransigente difensore di una coerenza che egli ha personalmente testimoniato.

La profondità dei suoi studi, l’attenzione che egli presta anche a fenomeni che hanno rappresentato il disinganno della sua stessa esistenza, la perseveranza con la quale continua a battersi per gli ideali professati, svolgendo un’opera intensa di chiarimento e di illuminazione, la puntuale differenziazione che egli rimarca tra il socialismo come fattore di progresso nella società, stimolo potente e fruttificatore per migliorare la condizione dell’uomo e salvaguardarlo da istinti oppressivi che si esprimono attraverso la macchina statale ma che hanno radice nella collocazione dell’individuo all’interno di una massa non consapevole dei propri destini e forme di organizzazione statuale che non garantiscono il rispetto della libertà altrui, della libertà di pensiero nell’ambito del socialismo, secondo l’insegnamento della Luxembourg, fanno indubbiamente di Caffi una personalità significativa dell’esperienza politica democratica e socialista dell’Europa.I motivi ai quali egli pone attenzione, gli occhi disincantati con i quali guarda ai fenomeni di una società gerarchizzata e massificata, la rivendicazione della facoltà di scelta, lo avvicinano ad altri pensatori che hanno vissuto il dramma di un socialismo spesso incapace di imporsi con mezzi coerenti al fine di una elevazione morale e materiale dell’uomo: e sotto questo riguardo possiamo trovare echi ed assonanze con il pensiero e gli scritti di Zino Zini, del quale recentemente è stato pubblicato il diario, di cui già Storia e Politica aveva dato i primi estratti (9), di Giacomo Noventa, al quale Augusto Del Noce dedica approfonditi studi saggistici (10), di Giacomo Perticone, la cui opera ha arricchito la nostra cultura politica contemporanea con la illuminante analisi dell’uomo, e del regime di massa, in anticipazioni sociologiche, in parte misconosciute perché non afferrate nel loro vero significato nel momento in cui vennero esposte ma che trovano sempre maggiore verifica man mano che l’incontro tra storia e sociologia si appalesa come una esigenza fondamentale di una accurata valutazione degli eventi che ci circondano. Sono tutti uomini che, anche di fronte alle pesanti esperienze del mondo contemporaneo, non hanno perduto la fiducia nei valori della logica, nella convinzione fondata sui ragionamenti, in una morale non scritta a cui mantenersi fedeli.

(1) A. Caffi, Intorno a Marx e al marxismo, in Critica della violenza, Milano, 1966, p. 235.

(2) A. Caffi, La rivoluzione russa e l’Europa, in Scritti politici. La Nuova Italia, Firenze, 1970, pag. 1 e seg.

(3) Ibidem.

(4) Tragedia moscovita, in Giustizia e Libertà, Parigi, 4 gennaio 1935.(5) Ibidem

(6) II socialismo e la crisi mondiale, in Scritti politici, op. cit., p. 373.(7) Critica delia violenza, in libro omonimo, Milano, 1966, p. 77 e seg.

(8) E’ la guerra rivoluzionaria una contraddizione in termini? Cfr. Scritti, p. 319.(9) Z. Zini, La tragedia del proletariato, Ed. Riuniti, Roma, 1973.

(10) G. Noventa, Tre parole sulla Resistenza, con saggio introduttivo di A. Del Noce, II ripensamento della storia italiana in Giacomo Noventa, Firenze, 1973.

Intervista a Nicola Del Corno e Sara Spreafico realizzata da Carlo De Maria

Le due anime

Per Andrea Caffi il socialismo era uguaglianza, libertà, diritti, ma anche felicità; un uomo vissuto tra due secoli e tra tanti paesi, forgiato dalla cultura dell’illuminismo francese, ma anche dal populismo russo, in cui il razionalismo conviveva con la solidarietà per gli umili. Intervista a Nicola Del Corno e Sara Spreafico.

Sara Spreafico, saggista e giornalista radiofonica, ha curato recentemente l’antologia Andrea Caffi, Scritti scelti di un socialista libertario, pubblicata dalle edizioni Biblion di Milano (www.biblionedizioni.it), con una prefazione di Nicola Del Corno, storico dellUniversità di Milano e condirettore della giovane collana editoriale Storia, politica, società”, che ospita l’antologia.

\r

\r Andrea Caffi considerava il socialismo come la realizzazione più alta nella storia dell’umanità, e mi sembra significativo il fatto che si pensi di ripubblicarlo e di rileggerlo proprio in un periodo (politico e culturale) nel quale tutta la tradizione socialista pare dimenticata e rimossa. Parliamo, allora, sia di inattualità di Caffi che di un ritorno a Caffi?

\r Del Corno. Di Caffi mi ha colpito soprattutto una cosa, la sua spiegazione del socialismo. Caffi afferma che il socialismo è uguaglianza, libertà, diritti per tutti, ma poi dice anche che il socialismo è felicità. Ecco, questa dimensione prettamente esistenziale della felicità è ciò che mi ha spinto a interessarmi a Caffi, ad avvicinarmi a lui, a considerarlo un grandissimo autore che, in qualche modo, dovrebbe essere riletto, ristudiato, rivisto, ripreso in considerazione anche dai nostri partiti della sinistra.

\r Credo, infatti, debba esistere una sorta di -chiamiamolo così- diritto (propensione o volontà) alla felicità. E felicità, oggi, cosa significa?

\r A mio modo di vedere che ciascuno possa autodeterminare la propria vita come meglio crede, che un giovane possa trovare un lavoro dignitoso, con un salario e con tutele sufficienti, per riuscire a gestire la propria esistenza. E quindi andare a vivere con chi vuole, appartenga oppure no allo stesso sesso; trovare una casa e poterla mantenere, non ridursi a essere un “bamboccione” fino all’età in cui non si deve più esserlo.

\r La felicità, dunque, è qui intesa come possibilità di scegliere in modo libero e responsabile la traiettoria della propria vita. Il socialismo deve far proprio questo diritto ad autodeterminare la propria esistenza, cambiandola, modificandola e così via.

\r Ecco, Caffi insiste su questo argomento, per tale ragione, a mio parere, se egli è inattuale per tantissimi aspetti (forse soprattutto per la carica utopica, visto che le utopie non godono di buona salute ai giorni nostri), però è attualissimo quando rivendica questa possibilità, che ciascuno di noi ha, di essere felice.

\r Spreafico. Devo dire che non condivido il termine “inattuale”. Proprio negli ultimi tempi, ad esempio, il principio dell’autodeterminazione è stato ribadito da alcune persone, e in particolare mi riferisco al caso di Eluana Englaro, al padre di Eluana, dove invece una forza, il governo, ha cercato di negare ad un individuo la legittima possibilità di scegliere per sé. Ho trovato in Caffi un monito importante: quello di ricordare a tutti che le persone -e lo ripeto spesso nell’introduzione- vanno considerate a tutto tondo, nella pienezza della loro umanità. Per questioni anagrafiche (ho 26 anni) ho cominciato solo recentemente a interessarmi al dibattito politico e mi sono, comunque, resa conto che Caffi è in grado di dare delle parole, delle chiavi di lettura, molto interessanti, attualissime, per interpretare quanto accade oggi.

\r Questa mattina, mentre camminavo per venire qui, sono passata in Piazza Duomo, dove proprio in quel momento transitava una camionetta dell’esercito. Caffi, ispirandosi a Platone, sosteneva che nella società ideale la forza pubblica (che egli comunque riteneva necessaria) doveva essere relegata fuori dalla città.

\r La presenza dei militari dentro la città sta, chiaramente, a significare che la società non funziona, che essa si deve difendere da se stessa, poiché crede di aver trovato un nemico dentro di sé.

\r Riflettendo, poi, sulle questioni economiche, Caffi metteva in guardia sul dirigismo dello Stato e sul crescente interventismo nei tempi di crisi. Viviamo anche noi, in questo momento, una crisi economica che dicono sia molto forte, e cominciano già a delinearsi alcuni interventi dei governi che tendono a influenzare sempre più la vita dei singoli. Caffi mi ha aiutato a capire che non devo -io, come persona formata, autonoma, indipendente- per forza accettare la logica secondo la quale c’è sempre qualcuno o qualcosa di più autorevole di me su di me, ma che è giusto rivendicare il diritto, mio e di ognuno, a non farsi muovere, spostare da altri come pedine. Per me, dunque, Caffi è attualissimo; l’inattualità è nell’utopia, ma in qualunque epoca l’utopia è inattuale perché lontana, difficilissima da costruire.

\r Per certi versi, Andrea Caffi sembra un uomo dell’Ottocento, mi riferisco in particolare a una formazione culturale che credeva ancora possibile l’enciclopedismo (Caffi è filosofo, storico, sociologo e molte altre cose), nello stesso tempo è un uomo pienamente immerso nel suo secolo, nel Novecento: ne vive le guerre, le rivoluzioni, le fughe, gli esilii…

\r Spreafico. Oltre a essere un uomo tra due secoli, è un uomo tra più nazioni, è italiano, ma è anche russo, vive in Francia e in Germania. Nasce, nel 1887, a San Pietroburgo da genitori italiani. In quella città, dove frequenta la scuola riformata, avviene la sua prima formazione culturale. Fin da giovanissimo comincia a conoscere il “sottosuolo rivoluzionario” dell’epoca (come lo ama definire), incontra i menscevichi, che lui ritiene essere la parte migliore dei rivoluzionari, più umani e meno inquadrati dei bolscevichi. Più tardi, dopo aver trascorso alcuni mesi in carcere, è il 1907, Caffi scappa dalla Russia e raggiunge la Germania, dove incontra altri italiani, frequenta l’università di Berlino alla scuola di Georg Simmel. Dalla Germania comincia, poi, letteralmente, a camminare per l’Europa: i suoi amici lo ricordano così, Caffi è proprio un camminatore. Cammina molto e si sposta spesso camminando: torna in Italia, nella Firenze della “Voce” di Prezzolini, va in Francia, attraversa quasi tutta l’Europa: è un flâneur.

\r A Parigi lo coglie lo scoppio della Prima guerra mondiale e fra lo stupore dei suoi conoscenti decide di arruolarsi. Terminata la guerra, il “Corriere della Sera” gli offre l’incarico di corrispondente da Costantinopoli. Per lui è soprattutto l’occasione di tornare verso Est. E quando giunge a Costantinopoli, decide di fare ritorno in Russia, per l’attrazione e per l’amore che ha nei confronti di quel paese, dove però sta prendendo forma la dittatura di Stalin.

\r Trova un impiego presso il ministero degli esteri, dove però comincia a fare cose poco ortodosse per non dire illegali, come produrre dei documenti per chi vuole fuggire dal regime. Rimandato in Italia, è il 1923, incappa nel fascismo e non può anche qui fare a meno di impegnarsi nella propaganda contro il regime nascente: diffonde materiale a stampa sarcastico, critico. Mussolini è “lo sparafucile romagnolo”. E’ ancora in Italia nei mesi dell’omicidio Matteotti, ma più tardi è costretto a lasciare il paese -perché sotto minaccia di arresto- e a riparare in Francia.

\r A Parigi conosce Rosselli e il gruppo di “Giustizia e Libertà”, con i quali comincia a collaborare pur non approvandone, in tutto e per tutto, le modalità di azione antifascista. Ritiene, infatti, che Rosselli abbia un’idea vecchia di antifascismo, nella quale gli sembra di cogliere dei residui culturali che risalgono alla democrazia liberale dell’Italia giolittiana.

\r Mentre scrive di antifascismo con l’obiettivo di svecchiarlo e di liberarlo da certa retorica risorgimentale, lavora in maniera occasionale, collaborando a riviste e vivendo -come racconta chi l’ha conosciuto- in modo decisamente strano. Caffi dà l’impressione di lavorare giusto quanto basta per guadagnare quello che gli serve per mangiare. Spesso altrimenti ripudia il lavoro.

\r Nel 1940, da Parigi scende verso il Sud della Francia e raggiunge gli anarchici a Toulouse, dove viene torturato dal regime di Vichy, finché un clochard suo amico lo scagiona di fronte alle milizie francesi. Muore a Parigi di una malattia incurabile il 22 luglio del 1955. E’ sepolto a Père-Lachaise.

\r Del Corno. A questo ritratto posso aggiungere una riflessione che non è mia, ma di Alberto Moravia, che la svolge nell’introduzione alla prima biografia di Caffi, quella scritta da Gino Bianco.

\r Moravia parla di un uomo di due secoli, con diverse culture, diversi “padri spirituali”, e coglie bene nel segno quando dice che delle due anime caffiane, una era quella illuminista francese, seguendo la quale cercava di spiegare il mondo partendo sempre e comunque dal dubbio, e l’altra era quella del populismo russo, che lo conduceva, invece, a solidarizzare in ogni modo coi ceti subalterni. Moravia ha ragione quando puntualizza questa duplice ispirazione nel pensiero e nell’azione di Caffi. Uomo dell’Ottocento, ma direi quasi del tardo Settecento, vista la derivazione illuminista e la costante propensione a studiare, a investigare, a conservare l’approccio enciclopedico di cui parlavi.

\r Il suo razionalismo convive, però, con la costante solidarietà per gli umili e per gli oppressi, che lo porterà a conoscere, ad esempio, il clochard che gli salvò la vita. Essere amico degli ultimi, come vedi, può servire anche nella vita di tutti i giorni!

\r La produzione scritta di Caffi non è esorbitante (tanti intellettuali impegnati hanno scritto molto più di Caffi), ma quello che risulta estremamente interessante è la persona di Caffi, il camminatore, il girovago. È molto azzeccata una osservazione di Gino Bianco che sottolineò come di Caffi convenga parlare come persona, dal punto di vista biografico, ancora prima che come autore. Cosa ne pensate?

\r Spreafico. Bianco ha ragione quando dice che bisogna parlare di Caffi come persona. Del resto, serve poco teorizzare il socialismo, se non lo si pratica, e la vita di Caffi è la testimonianza di un vero socialista, che ha vissuto la sua esistenza a tutto tondo. Caffi è quello che parla coi clochard, che cammina per l’Europa, che studia di tutto.

\r Del Corno. C’è un altro tema rilevante messo in luce da Bianco, quello della “filia”, dell’amicizia, dell’empatia e della solidarietà reciproca. Infatti il socialismo di Caffi è da intendersi in senso etimologico: viene dalla società. Come ha messo in luce Sara, non sono tanto le letture, i classici del marxismo, o dei revisori di Marx, degli ortodossi o degli eterodossi del marxismo a creare il suo socialismo. Il suo socialismo nasce sul campo, dai rapporti di empatia e “filia” che lui riesce a creare con chi si trova di fronte.

\r Ancora una volta mi vengono in mente le pagine di Moravia che ricorda il suo incontro con Caffi e di come viene conquistato da questa stranissima figura (stranissima anche da un punto di vista fisico). Moravia fa una descrizione molto divertente di come si presentava il personaggio Caffi, una figura che destava subito simpatia al primo incontro, capace di mettere sempre a proprio agio gli interlocutori.

\r Spreafico. Una nota di colore. Caffi lasciava straniti i suoi interlocutori anche per un altro aspetto: si presentava di solito in abiti molto trasandati, ma con acqua di colonia spruzzata in ogni dove. Pare non avesse mai una lira, ma quei due soldi che aveva li usava, evidentemente, per comprarsi l’acqua di colonia!

\r Per lungo tempo, se si esclude la rivista “Tempo presente” di Chiaromonte e Silone, quasi nessuno ha parlato di Caffi. Negli ultimi vent’anni, invece, la sua figura è ricomparsa nel dibattito culturale, anche se non ancora sufficientemente…

\r Del Corno. Lo stesso Rosselli fino a qualche anno fa non è che se lo filassero poi molto!

\r In generale, si nota una riscoperta di percorsi politici e biografici di intellettuali critici, collocati fuori oppure ai margini dei partiti tradizionali, che del resto sono crollati …

\r Del Corno. La tua osservazione è sicuramente sensata, molto giusta. Fino a poco tempo fa non c’era spazio per gli eretici e anche lo stesso Rosselli era stato posto nel dimenticatoio. È tornato in auge agli inizi del Duemila perché un bel giorno Veltroni ha scoperto che c’era anche Rosselli, salvo poi dimenticarsene quando è comparso Obama!

\r E’ davvero così, agli inizi del Duemila sembrava fossimo tutti rosselliani, così come intorno alla metà degli anni Novanta eravamo tutti tocquevilliani. Un centro studi dei Ds era intitolato a Tocqueville, che era sicuramente un liberale ma anche un conservatore. Insomma, la cosa mi sembrò eccessiva. Per tornare al punto dell’intervista, se -per usare un brutto termine- verranno sdoganati gli “eretici”, sarà solo un bene. A mio parere, in realtà, la scomparsa dei partiti di massa è un aspetto negativo, perché toglie il coinvolgimento della politica, basta vedere come sono strutturati, oggi, i due principali schieramenti politici: manca una classe dirigente locale, manca una formazione politica e, così, pochi leader tengono in pugno tutto il potere decisionale. Questo è un fatto negativo. Ma se tale cambiamento porterà, come è auspicabile che porti, anche all’emergere degli “eretici” e alla fine dei legami tra interessi partitici e studi di storia politica (per cui, fino a poco tempo fa, ciascuno studiava solo la storia dei propri partiti), allora si sarà raggiunto almeno un risultato positivo.

\r Certo, pensare che Caffi diventerà protagonista del dibattito politico degli anni a venire mi sembra azzardato. Vediamo come andrà a finire, speriamo che i leader della sinistra si rileggano Caffi, lo studino, lo facciano conoscere, ma temo invece che saremo sempre in pochi a leggerlo!

\r Spreafico. E’ difficile che Caffi possa influenzare un partito, un movimento, però può influenzare le persone e, ad esempio, gli studenti di Nicola che lo leggono per preparare un esame. Possono nascere delle idee, delle buone indicazioni, che aiutino a formare le coscienze.

\r Del Corno.

\r La nota di Sara sulle possibili suggestioni di Caffi è vera. Ho notato, infatti, che quando a lezione leggo Caffi, Rosselli, Gobetti, Berneri, vedo che da parte degli studenti c’è ricezione, li vedo partecipi, prendono appunti, agli esami rimangono colpiti da ciò che leggono, dicono: “Ah beh, però settant’anni fa c’era qualcuno che diceva queste cose!”. Li sentono molto attuali e suscitano in loro una serie di riflessioni, poi magari vengono a chiedermi la tesi su uno di questi intellettuali. Speriamo che queste riflessioni non siano contingenti agli esami, alla tesi, ma che rimanga qualcosa, per cui a distanza di dieci, venti, trent’anni, di fronte a particolari eventi della vita, si ricorderanno: ah ma io per quell’esame ho studiato Caffi, che diceva queste cose e non aveva torto… Avremmo vinto, se così fosse, la missione e la scommessa di aver riproposto Caffi.

r Credo che autori come Caffi oggi possano dirci due cose. Primo, regalarci una lezione di autonomia e di indipendenza rispetto a partiti e “chiese”. Secondo, ricordarci che un tempo, tra Otto e Novecento, la cultura della sinistra era molto più creativa, varia e plurale di quella prevalentemente autoritaria e statalista che poi si è affermata nel corso del XX secolo.

\r Del Corno. Sì, c’erano tanti socialismi, tante sinistre, c’era una discussione più aperta, più libera, più franca, più colta probabilmente. Non c’era quella ricerca spasmodica del consenso per cui si tende a unificare, a trovare slogan, parole d’ordine, con tentativi esasperati di sintesi, per cui chi è eretico, ovviamente, rimane fuori ed escluso dalle formule preconfezionate.

\r (a cura di Carlo De Maria)

da:  http://www.unacitta.it/newsite/

Andrea Caffi. Scritti scelti di un socialista libertario

a cura di Paolo Repetto, 30 ottobre 2018

Andrea Caffi Scritti scelti di un socialista libertarioTutti gli scritti riportati nella presente raccolta sono tratti dal sito http://www.bibliotecaginobianco.it

Critica della violenza

“Homo faber” e “homo sapiens”

Divagazione sugli intellettuali

Riflessioni sul socialismo

Individuo e società (1)

Individuo e società (2)

Popolo, massa e cultura

Sull’educazione

Mito e mitologia

Critica della violenza

In forma un poco abbreviata, questo scritto fu pubblicato per la prima volta nel numero di gennaio 1947 della rivista politics di New York, diretta da Dwight Macdonald, nella quale apparvero in seguito anche altri scritti di Caffi, tratti dall’amichevole corrispondenza che egli intrattenne con Macdonald.

La mia tesi è che un “movimento” il quale abbia per scopo di assicurare agli uomini il pane, la libertà e la pace, e quindi di abolire il salariato, la subordinazione della società agli apparati coercitivi dello Stato (o del Super Stato), la separazione degli uomini in “classi” come pure in nazioni straniere (e potenzialmente ostili) l’una all’altra, deve rinunciare a considerare come utili, o anche possibili, i mezzi della violenza organizzata, e cioè: a) l’insurrezione armata; b) la guerra civile; e) la guerra internazionale (sia pure contro Hitler, o… Stalin); d) un regime di dittatura e di terrore per “consolidare” l’ordine nuovo.

La ragione prima -tratta dall’esperienza e dal semplice buon senso- è che tali mezzi sono inefficaci, e anzi conducono a risultati opposti a quelli che ci si proponevano. A tale argomento -”utilitario”, se si vuole- se ne aggiungono parecchi altri: gli uni confermati dai pensieri e sentimenti unanimemente nutriti sin da quando gli uomini cominciarono a riflettere sulla condizione umana, gli altri imposti dalla situazione senza precedenti in cui si trovano i due miliardi di abitanti del pianeta Terra alla metà del secolo ventesimo.

Il disgusto (o l’orrore) della violenza è forse altrettanto antico quanto la violenza medesima, mentre l’esaltazione di questa è sicuramente un prodotto abbastanza recente di stati d’animo che abbiamo seri motivi di considerare artificiali, o anche morbosi. Io credo che Simone Weil abbia ragione di scorgere in fondo all’Iliade e ai tragici greci l’orrore per la violenza. Il buddismo non sarebbe riuscito a conquistare un cosi gran numero di proseliti se non ci fosse stata una corrispondenza intima fra i suoi precetti e un sentimento diffuso fra le masse popolari. Si hanno buone ragioni di supporre che durante l’età neolitica (durata forse più di cento secoli) una profonda pace regnasse fra quelle comunità sedentarie: dei selvaggi invasori armati di bronzo, e poi di ferro, vennero in seguito a riempire il mondo di carneficine e di gloria guerriera, diffondendo quell’ebbrezza di cui i Re d’Assiria e i Khan mongoli segnano i più tipici parossismi.

Nel corso dell’ultimo lungo secolo, dai coscritti dell’Anno II agli SS hitleriani, ai marescialli staliniani e ai generali del tipo Patton, l’umanità occidentale (senza parlare del Giappone, e della Cina “novatrice e guerriera”) ha sperimentato in tutte le sue forme la febbre e il culto della violenza: esasperazione patriottica, romanticismo rivoluzionario, “fardello dell’uomo bianco”, affermazione del superuomo al dilà del bene e del male, riflessioni soreliane sulla violenza, terrore giacobino, fascista, bolscevico, eccetera

Di fronte a questa marea, il pacifismo, che sembrava aver guadagnato non poco terreno nel XVIII secolo, ha non solo indietreggiato, ma s’è lasciato andare a una sorta di mimetismo pusillanime cercando una via d’uscita (provvidenziale o “dialettica”) sul terreno stesso sul quale il suo avversario andava di trionfo in trionfo (o di catastrofe in catastrofe). Il pacifismo razionalista dei liberali faceva troppe concessioni alla patria, e anche alla ragion di Stato; quello di un Robert Owen, di un Saint-Simon oppure di un Proudhon (il quale si opponeva soprattutto all’idea della “violenza rivoluzionaria”), l’evangelismo dei quaccheri e poi di Leone Tolstoi, erano ammirati o irrisi come sogni di spiriti ingenui. Le speranze “ragionevoli”, condivise da grandi masse d’uomini, riguardavano una “lotta finale” dopo la quale l’umanità si sarebbe trovata riunita nell’Internazionale; oppure una “guerra finale” (quella del 1914!) o, ancora più meccanicamente, l’effetto terrificante dei congegni omicidi, così devastatori che non si sarebbe osato servirsene. Tutta l’azione di Jaurès per la pace era minata alla base dal riconoscimento di una “sovranità nazionale” da difendere a ogni costo; l’antimilitarismo degli anarchici e dei sindacalisti francesi (spinto fino all’idea di uno sciopero generale dei mobilitati) mancava di prestigio morale in quanto, mentre ripudiavano la guerra fra nazioni, quegli uomini preconizzavano l’uso della violenza nella lotta di classe.

Guardiamo ora da vicino ai motivi dell’avversione dell’uomo civile per la violenza. Per semplificare il discorso, prendiamo come punto di partenza la seguente frase di Condorcet, che esprime la convinzione di un gran numero di suoi contemporanei: “Più la civiltà si diffonderà sulla terra, e più spariranno la guerra e le conquiste, in uno con la schiavitù e la miseria.”

La civilisation (parola nuova, nel XVIII secolo: non la si trova in nessun libro francese prima del 1765, e il dottor Johnson rifiutava ancora di ammetterla nel suo dizionario) era concepita dallo scozzese Millar come “‘ cette politesse des moeurs qui devient une suite naturelle de l’abondance et de la sécurité”. (Remarques sur les commencements de la société, seconda edizione francese, Amsterdam, 1773.) Nel 1780, l’abate Girard definiva la politesse asserendo che essa “ ajoute à la simple civilité ce que la dévotion ajoute a l’exercice du culte public: les moyens d’une humanité plus affectueuse, plus occupée des autres, plus recherchée”; il che suppone “une culture plus suivie, des qualités naturelles, ou l’art difficile de les feindre”. E fin dal 1736, nell’epistola dedicatoria di Zaïre, Voltaire aveva precisato che la politesse non è “une chose arbitraire comme ce qu’on appelle civilité: c’est une loi de la nature que… les Français depuis le règne d’Anne d’Autriche ont heureusement plus cultivé que les autres peuples”‘, divenendo, grazie a ciò, “le peuple le plus sociable de la terre”. Al che conviene aggiungere il tratto caratteristico, e così spesso reiterato, che Duclos formula opponendo i selvaggi, presso i quali “la force fait la noblesse et la distinction”, ai paesi civili, dove “la distinction réelle et personnelle la plus reconnue vieni de l’esprit”.

Si tratta dunque di “costumi”, di “cultura” di “umanità”, e non di principi metafisici o di precetti religiosi. Dall’ateniese che trattava umanamente il suo schiavo alla signora inglese che apostrofava il carrettiere che maltrattava il suo cavallo, la politesse, o refinement, consiste essenzialmente nel bandire ogni violenza. In nome di che? Del “rispetto di sé”, impossibile senza il rispetto degli altri; di una socievolezza che, estendendosi dall’uno all’altro, finisce logicamente col comprendere tutti gli esseri viventi. Alla superficie, si tratta di buona educazione e di “costumi civili”; in profondo, c’è in primo luogo la coscienza della “società” come fatto e come valore, e dunque immancabilmente della “giustizia” nei rapporti sociali, una nozione che -lo si vorrà ammettere- è più fondamentale di qualsiasi dogma religioso o morale.

Ma a ciò si aggiunge necessariamente il desiderio (poco importa se utilitario, come pensava Bentham, oppure ispirato dalla bontà divina) della felicità di tutti, senza la quale io stesso non potrei essere felice (“cette idée du bonheur, si neuve en Europe” dirà Saint-Just, e farà tagliar teste per affrettarne l’avvento). Insistiamo: la giustizia implica l’eguaglianza, la felicità esclude ogni oppressione. V’è dunque contrasto irriducibile fra l’aspirazione alla socievolezza e la volontà di potenza. Ogni violenza è, per definizione, antisociale. Ma la barbarie antisociale esiste in noi, nell’istinto di possesso, nel rancore, nella crudeltà nativa, nella paura, nell’ignoranza; e attorno a noi, visto che la civiltà, la politesse, la coltivata socievolezza son rimaste finora privilegio di una minoranza di persone in un numero limitato di luoghi. Donde, attraverso i millenni, il predominio quasi costante della barbarie, e specie della barbarie coperta da una vernice di civilité, per usare il termine dell’abate Girard. Le antinomie permangono. Sempre di nuovo, per preservare l’esistenza, si devono sacrificare le vivendi causas. Il compromesso è riuscito più o meno bene attraverso i secoli, giacché un certo numero di avversari sinceri d’ogni violenza è riuscito a sopravvivere, sia abbandonandosi di quando in quando alla violenza, sia cedendo ai suoi comandi. Ma oggi, a che punto siamo?Platone affidava la difesa della sua Repubblica a guerrieri espressamente allenati alla carneficina, come “cani da caccia”. Ma -importa notarlo- si trattava unicamente di guerra difensiva, visto che ogni ingrandimento territoriale avrebbe segnato la rovina della Città ideale. Importa anche notare che la casta degli armati è ancora più rigorosamente lontana dalla saggezza -fine essenziale della Città platonica- che non il popolo degli artigiani, confinato anch’esso in funzioni subalterne, ma non senza che si sian scelti nella sua progenie gl’individui suscettibili di essere avviati, attraverso un’educazione appropriata, ai gradi superiori. Si può inoltre intravedere che, nello Stato concepito da Piatone, la socievolezza e i costumi del popolo saranno umanizzati, mentre per i guerrieri è prescritta una disumanità rigorosa. Il problema che Platone cerca di risolvere è come si possa concepire una società capace di attingere a un grado supremo di civiltà e, al tempo stesso, di difendersi contro un ambiente barbaro. Il filosofo immagina quindi la sua Città: 1) come un’isola nell’oceano di un’umanità imperfetta, con la quale essa non avrà che dei contatti occasionali; 2) come un luogo dove si sarà una volta per tutte regolato il male inevitabile relegando una parte della popolazione nell’esercizio della violenza, mentre i lavoratori da una parte, i filosofi dall’altra, potranno godere i benefici di un’esistenza pacifica e di costumi gentili. Una tal situazione, e una tal divisione, non hanno nulla di utopico: rappresentano, in sostanza, quella che è stata la condizione di un buon numero di società civilizzate quando la lotta fra le classi non vi s’inaspriva fino a prendervi forme violente. E questo è appunto il pericolo che Platone pensa di aver eliminato dalla sua Repubblica.

Durante il diciottesimo secolo, e buona parte del diciannovesimo, malgrado la coscrizione universale decretata dalla Rivoluzione francese, la violenza non si esercitava che in momenti eccezionali o in zone limitate: era in genere l’affare di professionisti, e si credeva da molti che le sue forze tendessero ad attenuarsi e ad umanizzarsi. È solo dopo il 1914 che si è entrati nell’era della violenza totale, indiscriminata e senza tregua. Sappiamo bene quel che son diventati la civiltà, i costumi e la politesse sotto un tale regime. Che si creda o no in una qualsiasi religione, sia pure la “religione del progresso” o del più vago umanismo, il dilemma formulato da Dwight Macdonald in Politics s’impone a tutti: o ci liberiamo (noi e tutto il patrimonio della nostra cultura, con le idee di civiltà, giustizia, felicità che danno un senso alla nostra vita) dell’apparato di coercizione violenta che sembra aver fatto tornare l’esistenza sociale a quello stato di paura endemica che, secondo Hobbes, precede la formazione della società organizzata, oppure ne saremo stritolati.

È possibile vincere la violenza con la violenza? La questione, in realtà, ne nasconde due molto diverse. La prima è d’ordine empirico: quale probabilità c’è che un’organizzazione di refrattari, uomini liberi e pienamente coscienti dello scopo da raggiungere, disponga delle armi, dell’equipaggiamento, delle capacità tecniche per affrontare gli attuali padroni del mondo con una ragionevole prospettiva di successo? Ma la questione decisiva è l’altra: anche supponendo che si riesca a inquadrare le masse (ribelli, oppure repentinamente convertite a un ideale altamente illuminato della società e della civiltà), a strappare la bomba atomica ai suoi attuali detentori, e infine a impegnare la battaglia, è seriamente credibile che si possa evitare una ricaduta, in circostanze quanto si voglia “rivoluzionarie”, in quelle abitudini barbare, in quegli eccessi della volontà di potenza, e infine nella divisione fra un gregge docile e dei capi imperiosi che l’impiego organizzato della violenza inesorabilmente genera? E allora, come in Francia dopo Termidoro, come nel 1918-’19 un po’ dappertutto in Europa, come sotto Stalin in Russia, non sarà forse legittimo chiedersi: “Questi fiumi di sangue, perché son stati sparsi? Queste miriadi di giovani vite, a quale idolo sanguinoso sono state immolate?” E quale risposta si può dare a tali domande se non si condivide il culto della forza e del sacrificio eroico?

Chi era più devoto di Robespierre e di Saint-Just alla causa del popolo, al disegno di condurre l’umanità a governarsi da sé secondo la libertà, l’eguaglianza e la fratellanza? Nessuno certo ha perseguito con vigore più ostinato di Lenin e di Trotski la lotta per la unione dell’umanità in una federazione di collettività socialiste. E tuttavia furono Robespierre e Saint-Just a stroncare ogni slancio spontaneo del popolo di Parigi, demoralizzandolo col terrore e riducendo i clubs a sedute ufficiali frequentate da funzionari impauriti; e furono ancora essi a centralizzare e militarizzare la Francia (il che comportava il consolidarsi di una nuova casta dirigente di burocrati, di generali, di grandi fornitori dello Stato), sicché il paese fu maturo per il despotismo napoleonico e l’oligarchia dei notables. D’altro canto, furono proprio i due grandi capi bolscevichi a sopprimere i Soviet, a instaurare il regno della Ceka, a sottomettere i lavoratori alla gerarchia poliziesca dei sindacati di Stato, a moltiplicare i poteri arbitrari, i controlli soffocanti, e insomma a preparare il terreno per l’autocrazia di Stalin.

Né traditori né pusillanimi, i giacobini e i bolscevichi arrivarono a tali risultati seguendo la logica della “violenza rivoluzionaria”; e nel modo in cui applicarono tale violenza, come nelle azioni cui furono condotti da tale logica, essi rivelarono la loro mentalità essenzialmente “antisociale”. I giacobini francesi e i bolscevichi russi concepivano la realtà unicamente in termini di instaurazione di determinati rapporti di potenza e di “organizzazione” del governo e dell’economia pianificata nel nome del popolo o del proletariato, mentre non intendevano che in astratto, considerandoli come un sottoprodotto (o una “sovrastruttura”), quei costumi, quella socievolezza, quel bisogno di giustizia e di felicità che costituiscono il “contenuto immediato” dell’esistenza e la sostanza stessa della libertà delle masse popolari, se si vuole che esse formino effettivamente una società.

L’opinione che la storia non insegna mai nulla a nessuno è molto plausibile. Tuttavia, se si esaminano le esperienze di rivoluzioni e controrivoluzioni che si son susseguite dopo la ribellione delle colonie americane contro la Corona britannica, quel che colpisce è la regolarità con la quale si son ripetute talune serie di conseguenze. Conveniamo anzitutto di chiamare “società” l’insieme di quei rapporti umani che si possono definire spontanei, e in certo qual modo gratuiti, nel senso che hanno almeno l’apparenza della libertà nella scelta delle relazioni, nella loro durata e nella loro rottura: le pressioni non vi si esercitano che con mezzi “morali”, mentre i moventi utilitari sono o realmente subordinati, oppure mascherati dalla politesse, dal piacere che si ha a trovarsi in mezzo ai propri simili, dalla solidarietà affettiva che si stabilisce naturalmente fra i membri di un medesimo gruppo. Intesa in questo senso, la “società” esclude per principio ogni costrizione, e soprattutto ogni violenza. Apparirà allora chiaro che la forza, la continuità, i successi almeno parziali (giacché le forze oppressive possono certo essere schiaccianti) di un movimento d’emancipazione umana saranno in funzione diretta del grado di sviluppo e di consistenza della “società”, mentre nessuna organizzazione armata potrà aumentare le chances, né tanto meno i progressi reali di un tale movimento.

I tredici Stati americani erano, ben più che delle formazioni politiche o militari, delle comunità dal tessuto sociale assai vigoroso: i costumi puritani vi erano certo angusti e tirannici, ma erano anche accettati in piena libertà dalla stragrande maggioranza. E così -quasi all’altro estremo- l’anarchia della szlachta (la piccola nobiltà terriera polacca), che comportava una socievolezza vivacissima unita al sentimento permaloso dell’indipendenza personale, spiega la straordinaria resistenza dei polacchi a oppressori strapotenti per un così lungo periodo di tempo, nonostante la povertà economica del paese e la lamentevole politica dei governi “nazionali” (nel 1830 come nel 1930). È perché erano, secondo la parola di Voltaire, “il popolo più socievole d’Europa” che i francesi son rimasti fino al 1871 alla testa del movimento rivoluzionario. E, quanto alla Russia, la formidabile energia della Rivoluzione d’Ottobre non si capisce se non si tiene conto dell’azione parallela, durante tutto un secolo, delle sètte religiose (che erano comunistiche e, quasi tutte, tenacemente pacifiste) da una parte e, dall’altra, dell’intellighentsia umanitaria, accompagnata dal fiorire della “società” a Mosca e a Pietroburgo. Nel 1848, la socievolezza relativamente superiore di Vienna rispetto a Berlino, l’indigenza della “società” in Italia (con gradazioni alla cui cima si troverebbe Venezia, dove la vita sociale rimase, almeno fino alla fine del secolo XVIII, più animata che altrove) coincidono con le peripezie più o meno energiche, più o meno sfortunate, dei tentativi di liberazione. In Spagna, alle forze antisociali che dominarono il paese dopo la Controriforma e Filippo II, si oppose non già la tradizione centralista e autoritaria della Castiglia, ma la “coesione sociale” che ebbe i suoi focolai a Barcellona, nelle tendenze separatiste catalane e nelle forme di “solidarietà anarchica” diffuse in tutta la penisola.

L’altisonante apoftegma di Marx, “la violenza è la levatrice della storia”, manca di sottigliezza. Le emorragie causate dal forcipe storico possono essere più o meno gravi, l’operazione riuscire più o meno bene, e anche fallire. Vi sono le insurrezioni causate dalla disperazione o dal fanatismo, e annegate nel sangue: la violenza vi prorompe fino alla dismisura e, dopo l’assassinio del feto, la paziente -la “civiltà”- si trova indebolita al punto da non potersi più sollevare. Vi sono poi i colpi di Stato che chiamiamo “reazionari”, in quanto generalmente bloccano o “prevengono” un movimento di popolo. Essi cominciano sempre con un uso efficace della forza e, durante un periodo più o meno lungo, impiegano su larga scala la violenza per reprimere, o anche sopprimere, ogni spontaneità sociale al fine di estendere e consolidare al massimo il potere d’imperio di uno Stato, di un partito, di un capo, di un “ordine” inventato ad arbitrio. E vi sono infine le rivoluzioni “ liberatrici”, risultato della convergenza fra le aspirazioni lungamente maturate in vasti strati del popolo e le idee elaborate in seno alla “società”. Da qui l’atmosfera di gioia, di speranza radiosa, di riavvicinamento fraterno degli uomini che avvolge queste “albe di una nuova èra”. La violenza che segna il trionfo di un tale movimento è altrettanto repentina che breve, e come simbolica. La presa della Bastiglia, le giornate del luglio 1830 e del febbraio 1848 a Parigi, del marzo 1848 a Berlino come a Vienna, a Napoli, a Milano, costarono un numero di vittime insignificante; inoltre -particolare non trascurabile- una generosità caratteristica dei vincitori di tali battaglie ha sovente attenuato la crudeltà della lotta: i russi nel marzo 1917 e gli spagnoli nell’aprile 1931 poterono perfino congratularsi di aver conquistato la libertà senza spargimento di sangue. Sappiamo, tuttavia, che il sogno sognato in tali giorni non ha domani. Il primo trionfo di un moto popolare è immancabilmente seguito dalla tragedia; o, per esser precisi, da due fasi tragiche.

È che, da una parte, il quasi-razionalismo nato nel Rinascimento non ha soltanto bonificato le paludi della superstizione, ma ha anche inaridito quella che si potrebbe chiamare la facoltà “mitologica”: quel senso della situazione dell’uomo nell’universo, della persona nella società, della norma di una giustizia imprescrittibile e quasi ineffabile, che unisce e connette come dal profondo e dall’intimo i membri di una data società, e grazie al quale essi comunicano in una visione armonica del significato dell’esistenza. Gli occidentali si sono abituati a considerare le istituzioni, le leggi, la polizia (1) come delle realtà più conseguenti, e più maneggevoli, che non i costumi, i legami non-organizzati, la mentalità, le credenze vive di un ambiente sociale. D’altro canto, pochissimi, specie nel popolo, son quelli che hanno la percezione chiara di come il mutamento sostanziale che una rivoluzione consacra e promulga nelle tavole della sua legge è, in parte, già avvenuto molto prima delle “storiche giornate”, le quali altrimenti avvenute non sarebbero (così gli spostamenti di ricchezza, influenza e primato culturale di una classe sull’altra), mentre in parte non potrà realizzarsi che per tappe, in un avvenire che si prolungherà forse per parecchie generazioni (così i nuovi modi di vita, le vie aperte a nuovi “strati”, la caduta definitiva delle credenze esautorate). Si è al tempo stesso impazienti di un rinnovamento totale e preoccupati di non rimanere un sol giorno senza l’apparato che garantisce la continuità dell’ordine. Si è quindi delusi di vedere che plus ça change, plus c’est la même chose, e scandalizzati perché il “levati di là che mi ci metto io” profitta non già a tutti, ma solo ad alcuni, e non ai migliori.

Mani inesperte scuotono allora la macchina per rimetterla in movimento: le misure affrettate, e spesso contraddittorie, che si prendono hanno per scopo un impossibile “pronto ritorno alla normalità” piuttosto che un previdente adattamento a “torbidi” che potrebbero non essere infecondi. La diffidenza che s’insinua tra i capi e le masse, un’apprensione diffusa del “dove si va a finire?”, la resistenza subdola o insolente degli spodestati, la vertigine delle responsabilità e della “salute pubblica” aumentano il disordine; il quale può aggravarsi fino alla guerra civile, e penetra comunque nei meandri della vita sociale producendovi effetti contrari. Si vedono intensificarsi i legami di cameratismo, rivelarsi altruismi sublimi, ma al tempo stesso si scatenano lo spirito di conservazione esasperato, le rabbie gregarie, gli appetiti più brutali. Allora la violenza erompe da ogni parte e decide il corso degli eventi.

V’è stato sempre, o quasi sempre, un gruppo, o dei gruppi concorrenti, che il disordine non spaventava e che furon capaci di organizzarne lo sfruttamento. Ma assai raramente (nel solo caso della Rivoluzione americana, mi sembra, e fu un’insurrezione con scopi limitati, senza alcuna complicazione sociale, dunque un’eccezione assoluta) quelli che avevano preso la testa del movimento sono rimasti alla sua testa fino alla pacificazione finale. La “conquista giacobina” prevenne i piani tortuosi della reazione monarchica; i bolscevichi annientarono il tentativo prematuro di Kornilov; nel 1848, a sbarrar la strada al bonapartismo, non ci furono che dei “montagnardi” indecisi; in Spagna, Gil Robles prima, Franco poi, ebbero in mano delle carte che né la FAI, insidiosamente assillata dagli staliniani, né Negrin poterono controbattere.

Così si giunge alla terza fase della rivoluzione, il trionfo di una violenza dittatoriale che “consacra le conquiste del popolo” o “restaura” l’antico regime, ma che, nell’un caso come nell’altro, rafforza gli organi di coercizione a spese della società e della civiltà. Fino a oggi, i partigiani convinti della violenza rivoluzionaria hanno sempre sperato che si potesse “far meglio la prossima volta”. Oggi, però, sarebbe un rischio assurdo impegnare la battaglia contro un potere i cui mezzi e i cui sistemi abbiamo visto “illustrati” in sei anni di guerra totale, per vederla poi finire… come è sempre finita, e ritrovarci sottoposti sul serio e per lungo tempo a un apparato di dominio controllato magari dai capi che noi stessi avremo scelto come i soli capaci di tener testa all’avversario.

Bisogna evidentemente cercare mezzi più sicuri, e soprattutto più conformi ai fini. E se è vero che la situazione attuale non ha precedenti nella storia, sarà pure ragionevole preconizzare l’invenzione di una “strategia” e di una “tattica” ancora mai tentate, e delle quali l’esperienza del passato non offre che accenni suggestivi.

Sicché, alla domanda: su quali princìpi può fondarsi un’”azione di resistenza” da cui sia escluso l’impiego della violenza organizzata, io risponderei in questi termini: a) la violenza è incompatibile con i valori di civiltà e d’umanità socievole che noi vogliamo appunto preservare dagli attentati distruttori dei violenti; usando la violenza, noi rinneghiamo necessariamente i valori che sono la nostra ragione di vivere e ne ritardiamo indefinitamente la propagazione e la fioritura; b) le risorse meccaniche e i sistemi d’organizzazione massiccia (eserciti e polizia, Ceka e Gestapo, campi di concentramento, regime russo nei paesi satelliti) che vengono attualmente impiegati nella lotta fra gruppi umani hanno raggiunto un tale grado d’atroce efficienza che la distruzione completa della società civile, se non del genere umano, è diventata una possibilità effettiva. Non è affar nostro provocare l’Armageddon.

E i partiti socialisti? Nel suo libro Travaux, Georges Navel, operaio di officina, racconta la sua vita: “Verso i quindici anni -egli scrive- ne avevo abbastanza della vita di fabbrica e della sua disciplina. Quel che volevo era, subito, una vita più nobile e degna, una vita in cui non fossi più un operaio, in un paese dove non ci fosse che dello spazio, e niente industria.” La disperazione si fa così cupa che, una sera, l’adolescente scavalca un ponte sul Rodano: non ci guadagna che un bagno d’acqua sporca, dopo il quale ritorna alla catena di montaggio. Gli altri tentativi di evadere dalla propria condizione, o di costruirsi una vita a parte dal lavoro quotidiano, non riescono meglio. “Otto ore d’officina bastano per esaurire le energie di un uomo. Quel che egli da al lavoro è la sua vita, il meglio delle sue forze. Anche se il lavoro non lo ha avvilito, se non si è sentito sopraffatto dalla noia e dalla fatica, ne esce esausto, diminuito, con l’immaginazione inaridita… Al mattino, non mi svegliavo che quando arrivavo nel frastuono dell’officina, e quando ne uscivo il frastuono mi perseguitava dovunque. Mi sentivo ridotto a un pezzo di officina, per l’eternità.” All’ultima pagina del suo libro, Georges Navel conclude: “C’è una tristezza dell’operaio per cui non c’è altra medicina che l’azione politica”.

Socialisti e comunisti trovano una tal conclusione perfetta: per loro, essa indica una “coscienza proletaria” ben matura. Quanto a me, non posso fare a meno di notare due cose: la prima è che una tale adesione al “movimento di classe” (e dunque di massa), lungi dal costituire di per sé il raggiungimento di una pienezza vitale in cui si adempiono le aspirazioni profonde dell’individuo, rappresenta piuttosto lo sbocco e la chiarificazione di un risentimento. Sono due cose molto diverse. D’altra parte, un uomo così sincero, il cui essere è stato ferito in modo così irrimediabile, non potrà mai trovare nell’azione politica quel pieno riscatto che cerca. L’organizzazione di partito, i comizi e le sfilate in massa, gli slogans della propaganda, le campagne elettorali, e persine la cospirazione e l’insurrezione armata, possono essere mezzi ottimi e necessari nel pensiero utilitario dei dirigenti, ma non mai esaurire il significato della sua esperienza. In fin dei conti, sono dei surrogati. E questo spiega, fra l’altro, la sproporzione penosa fra i sublimi sacrifici degli “elementi di base” e i risultati che si propongono, o riescono a ottenere, i capi.

Qui, la politica appare come un surrogato -spesso irrisorio- del sociale, ossia di quella comunione spontanea fra uomini coscienti del proprio destino la cui realtà sostanziale nozioni come “civiltà”, “dignità”, “eguaglianza”, “fratellanza”, “gentilezza di costumi” non fanno che indicare approssimativamente.

Ora, si vorrà pure ammettere che nell’idea di “socialismo” c’è l’idea di “società”. Fin dai suoi primordi, nelle concezioni dei grandi pensatori come nel sentimento delle comunità oppresse, “socialismo” ha significato anzitutto annettere un’importanza preminente all’uomo che vive in una trama di rapporti sociali spontanei, egualitari, “civili”: solo per un tale uomo, infatti, i problemi della giustizia e della felicità hanno un senso. Le istituzioni, le attività governative, le lotte di fazione che costringono, e spesso soffocano, la società, sono sempre apparse ai veri socialisti o come escrescenze maligne da eliminare, oppure come un male necessario da limitare e circoscrivere al massimo.

È d’altra parte evidente che non c’è società la quale non sia “completata”, sostenuta, o schiacciata, da una struttura politica, e per la quale quindi le questioni di governo come quella della guerra e della pace non abbiano un’importanza vitale. Una fusione completa del “sociale”, del “politico” e del “religioso” fu realizzata solo nella città greca e, forse con minore armonia, nelle città fenicie, etrusche, latine. Mentre, in Occidente, il Comune medievale s’è costituito come unione essenzialmente sociale e laica, e non ha raggiunto che in prosieguo di tempo, e solo in una minoranza di casi, la forma di corpo politico (Repubblica). Ed è anche la preminenza del fenomeno “sociale” nel carattere personale del rapporto fra signore e vassallo che distingue, tra il secolo IX e l’XI, il feudalismo occidentale da formazioni molto più “politiche”, o anche “teocratiche”, che s’usano designare con lo stesso termine: da una struttura sociale come quella del Giappone, per esempio. Platone ha naturalmente adattato la sua visione di una società “perfetta” alla forma di una città ellenica; diciamo pure che, di tali forme, egli adottò il tipo “laconizzante”, conforme a certi pregiudizi degli ambienti aristocratici da cui proveniva. Ciò gli ha valso, fra le altre, le severe ramanzine del professor Arnold J. Toynbee. Ma ci deve pur essere un malinteso, quando si arriva a immaginare il maestro dell’Accademia come una specie di conservatore terrorizzato che avrebbe concepito il poco intelligente progetto di fissare una volta per sempre la vita dello Stato e della società, imponendole la tetraggine di una disciplina immutabile.

Si può discutere se Platone abbia avuto ragione o torto di diffidare della felice concordanza fra la socievolezza più libera, più civile e più umana da una parte e, dall’altra, il regime democratico ateniese quale lo elogia Pericle nel suo famoso discorso. Comunque, dopo le terribili prove e il disastroso bilancio della guerra detta del Peloponneso, non era certo irragionevole pensare che il fiorire della società attica era troppo legato all’espansione imperialista e ai contrasti di ricchezza che avevano provocato sia i massacri di Corcira e d’Argo sia il regime di terrore instaurato da Crizia ad Atene. Ora, la preoccupazione che anima la Repubblica (il cui tema, non dimentichiamolo, è la “giustizia”) è come si possa preservare la civiltà ellenica dai funesti effetti della volontà di potenza, della sete di guadagni, della troppa ricchezza e della troppa povertà. Ma prospettive ancor più vaste e minacciose assillavano la mente di Platone: sotto i suoi occhi, la polis si disgregava; i costumi, le istituzioni politiche, la vita spirituale non si accordavano più che a gran pena; gli interessi particolari si opponevano al bene comune; l’alta cultura filosofica perdeva il contatto con le credenze popolari. In un passo della famosa VII Lettera, Platone poteva scrivere: “La legislazione e i costumi erano a tal punto corrotti che io, che dapprima ero stato pieno d’ardore e di desiderio di lavorare al bene pubblico, riflettendo sulla situazione e vedendo come tutto andava alla deriva, finii col rimanere come stordito… Alla fine, compresi che gli attuali Stati sono tutti mal governati, e che il male di cui soffrono le loro leggi non si può guarire senza il soccorso di circostanze fortunate, ora imprevedibili”. Nell’attesa di tempi migliori -o peggiori- l’élite della società greca e la quintessenza della sua civiltà avrebbero dovuto conservarsi in piccole “città-modello” d’ispirazione filosofica, così come, più tardi, si conserverà nei conventi il culto, e lo studio, delle antiche lettere.

Fino a quale punto Platone sperasse di veder effettivamente sorgere rifugi di questo genere, nessuno può dire. Forse il filosofo presentiva che la nostalgia di una società più umana si sarebbe mantenuta e tramandata e perpetuata solo attraverso la influenza della cultura ellenica su “scuole”, cenacoli, sètte. Che è, di fatto, ciò che avvenne: noi troviamo, fra l’altro, motivi indubbiamente “platonizzanti” nel Cristianesimo, nell’Isiam, e in molti movimenti ereticali del Medio Evo; né è da trascurare la tesi di Simone Weil sulle origini greche della predicazione evangelica.

Quel che è certo, in ogni caso, è che Platone fu condotto a immaginare la Città dove “tutto sarebbe messo in comune” dal disgusto per la politica: non solo per la politica tirannica dei Trenta, alla quale si era trovato mescolato a causa dei suoi legami di famiglia, ma per quella dei loro successori “democratici”, responsabili della morte di Socrate. L’esempio di Platone suggerisce che ci sono momenti, nella storia, in cui è ragionevole e lungimirante abbandonare ogni speranza di risultati immediati e massicci.

Quanto agli altri rappresentanti della tradizione socialista, già prima di toccar con mano le realtà della politica come Cancelliere d’Inghilterra, Thomas Moore aveva in ben poca stima i governanti del suo tempo, sotto la cui egida egli aveva visto ridurre i contadini alla condizione di bestie perseguitate, nelle enclosures. La sua Isola d’Utopia era un giardino dove le facoltà dell’uomo pacifico e socievole non avrebbero subito alcuna costrizione da parte di autorità costituite. E la Città del Sole apparve a Campanella dopo che il fallimento catastrofico del complotto di Calabria e la prigione lo ebbero allontanato dalla politica attiva.

Le società giuste e felici immaginate da More e da Campanella eran basate sull’ideale di un governo all’antica, più o meno stilizzato. Mentre, nel Medio Evo, le vampate di comunismo messianico di Fra Dolcino e dei Fratelli Moravi avevano per modello le città libere e i “cantoni” di contadini affrancati su cui poco pesava l’autorità lontana del re o dell’imperatore. Giovanni di Leyden o gli estremisti del puritanesimo anglo-scozzese eran mossi da archetipi tratti dal Vecchio Testamento. Nel Seicento e nel Settecento -come già sotto le monarchie ellenistiche- i riformatori speravano che un “despota illuminato” avrebbe fondato o protetto delle comunità ideali. Gli anabattisti e i quaccheri non si curarono mai di questioni istituzionali. In tutti questi casi, i mezzi si possono discutere, ma il fine è sempre una “società” più umana. E il raggiungimento di un tal fine è concepito possibile solo fuori delle istituzioni esistenti.

Nei tempi moderni, la prima opera di Saint-Simon (Lettres d’un habitant de Genève) denuncia l’errore commesso dalla Rivoluzione quando aveva voluto applicare un rimedio politico a un disordine che era essenzialmente sociale. Robert Owen non prese parte alcuna nel fermento radicale del 1820 né, più tardi, nell’agitazione cartista. Proudhon, nel febbraio 1848, andò sulle barricate, ma non credeva che il popolo potesse ottenere un beneficio qualsiasi da una rivoluzione politica, e riteneva futile “organizzare la Repubblica” quando il problema era “organizzare la società”. Al tempo stesso, sia Saint-Simon che Robert Owen e Proudhon pensavano che un regime autenticamente liberale avrebbe favorito i loro piani di riorganizzazione della società. Per contro, Babeuf, Blanqui, Louis Blanc, e senza dubbio anche Karl Marx, videro nel Comitato di Salute Pubblica un primo e riuscito abbozzo di quella “dittatura del proletariato” che avrebbe garantito il trionfo del socialismo. Non si può certo dire che tali mezzi non siano stati applicati a fondo nel nostro tempo.

Venne poi la Seconda Internazionale e consacrò l’amalgama socialismo-democrazia. Per democrazia, qui s’intendeva un’amministrazione statale fortemente centralizzata, fortemente armata, alimentata da un grosso bilancio, e in cui lo “spirito nazionale” fa funzione d’anima. Un tale meccanismo è sottoposto alla sorveglianza, se non proprio alla direzione, degli eletti del suffragio universale; questi, a loro volta, si suppone che siano controllati dall’” opinione pubblica” (identificata in genere col “popolo”) grazie a una completa libertà di stampa, di riunione e d’associazione e alla concorrenza fra partiti organizzati. Tutto questo, naturalmente, era fondato sull’ipotesi che la complessità della macchina stessa, e il margine da lasciare alla competenza speciale dei tecnici civili e militari, non rendesse il “controllo” puramente illusorio. In ogni caso, il socialismo avrebbe dovuto servirsi astutamente di un tal poderoso mezzo, eliminandone i difetti e preservandone i vantaggi. Ciò che accadde a questa utopia -la più macchinosa di tutte- è già storia antica. A causa del rapido successo della propaganda socialista fra le masse, l’azione politica dei partiti socialisti passò ben presto dall’intransigenza alla riforma, e dalla riforma alla collaborazione effettiva con lo Stato “borghese”. A maggior gloria dello Stato nazionale e della sua “grandezza”. Le riforme ottenute per via di lotta o di compromesso avrebbero dovuto servire a far partecipare sempre di più le classi lavoratrici alla direzione della cosa pubblica. Ma esse consistevano poi essenzialmente in vantaggi economici (che ci si credeva in diritto eo ipso di qualificare “sociali”) garantiti dalla legge a quelli che fin allora “non avevano (avuto) nulla da perdere”. Il risultato era un innegabile miglioramento delle condizioni materiali del popolo, ma anche inevitabilmente un aumento delle risorse, dei mezzi d’azione, del numero dei funzionari al servizio dell’apparato sovrano dello Stato. Senza quasi avvedersene, il movimento socialista impegnò tutte le sue forze nell’azione “democratica”, non riservando al “socialismo” (cioè alla civiltà, alla società, alla giustizia) che una funzione di parata nelle manifestazioni ideologiche. E fu sempre meno questione di società, sempre più di “Stato socialista”, o di socialismo di Stato.

Si arrivò così al 1914, l’anno in cui i partiti affiliati alla Seconda Internazionale abbandonarono l’atteggiamento intransigente statuito dal congresso di Amsterdam del 1904 partecipando a dei governi di difesa, ma fatalmente anche di “conquista”, nazionale. Ora, è precisamente nel 1914 che le grandi democrazie moderne si avviarono verso la forma (e il contenuto) dello Stato “totalitario”, il quale consiste essenzialmente nella soppressione totale della società, e nella noncuranza egualmente totale per i valori di socievolezza e di civiltà.

Mi sembra inutile insistere sui progressi irresistibili del sistema totalitario nei tempi più recenti. Basti ricordare un fatto culminante: nel paese meno affetto dal cancro dell’onnipotenza statale, negli Stati Uniti, a Oak Ridge, centoventimila operai hanno potuto essere impiegati per lunghi mesi senza che avessero la minima idea dell’oggetto del loro lavoro. E l’oggetto del loro lavoro era un congegno capace di annientare in pochi minuti trecentomila vite umane (2). A questo punto, è chiaro che la macchina democratica ha bisogno di riparazioni.

“Tutto nello Stato, niente fuori dallo Stato, niente contro lo Stato.” Sotto Innocenzo III, era la Chiesa che si arrogava diritti totali sulla società, in un mondo relativamente piccolo e con mezzi di coercizione rudimentali. Oggi, su un tale principio, sono d’accordo praticamente tutte le “Nazioni unite” (o disunite). Alla società come l’intendeva il socialismo si sostituisce la “civiltà di massa” (della massa in quanto tale), i cui Anacreonti e Tirtei occupano le stazioni-radio, dirigono e sfruttano la produzione cinematografica, perfezionano dovunque i sistemi di produzione e i metodi pubblicitari.

Ci sembra dunque difficile mettere in dubbio che l’idea dell’azione di massa con la parola d’ordine “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”, nella prospettiva grandiosa del “salto dal regno della necessità nel mondo della libertà” è oggi completamente esaurita. Dove potremmo trovare il coraggio di ricominciare da capo, dai piccoli gruppi organizzati ai grandi e ben disciplinati partiti di massa? I fatti ci dicono che: 1) le basi, gli scopi e il significato di una “politica di classe” sono completamente mutati; 2) la “democrazia” quale funziona oggi nei grandi Stati moderni non può più esser considerata terreno naturalmente propizio ai progressi del socialismo: in ogni caso, non si può avere nella sua “evoluzione” la fiducia che poteva esser legittima nel 1889; 3) l’obbiettivo essenziale di una politica socialista, oggi, non potrebbe essere che la lotta tenace contro la “macchina” dello Stato nazionale, che è diventato l’agente principale, se non unico, dell’oppressione sociale.

Ci vorrebbe un volume dell’importanza del Capitale per esporre i mutamenti che la tecnica e l’economia (ma anche quelle che i marxisti credono di poter chiamare “soprastrutture”: i costumi, il regime politico, la cultura) hanno determinato nelle situazioni sociali e nei rapporti fra le classi durante gli ultimi cinquant’anni. Quel che sembra modificare nel modo più radicale l’orizzonte di un socialista il quale voglia avere un quadro chiaro di ciò che impedisce oggi il cammino verso la giustizia, è che, oggi, bisogna considerare tutto il pianeta come un’unità.

In questa unità globale, al contrasto semplicista fra borghesi e proletari in ciascun paese isolatamente preso si è sostituita una scala in cui hanno un posto ben determinato l’indigeno sfruttato in condizioni prossime alla schiavitù, l’”uomo di colore” segregato da certi impieghi e situazioni, l’operaio privilegiato, il proletario parassita, il piccolo imprenditore tiranneggiato dai “monopoli”, gli intermediari sempre più numerosi, i funzionari dello Stato direttamente o indirettamente coinvolti negli “affari”, le turbe di politicanti, giuristi, scienziati, agenti di pubblicità, tecnici del divertimento e delle “comunicazioni” di massa; e, al vertice, il piccolo numero dei veri potenti. Ma, al tempo stesso, costoro dipendono tutti gli uni dagli altri, al dilà delle frontiere nazionali e delle categorie ufficiali della “ divisione del lavoro”. La lotta di classe è molto più accanita di una volta, ma anche molto più confusa. Ci sono classi e frazioni di classi che, pur essendo oppresse, s’oppongono ferocemente all’emancipazione di certe altre; c’è una massa di gente che sostiene passivamente lo stato di cose attuale per il profitto indiretto che ne ricava: burocrati statali e non statali, intellettuali e professionisti corrotti o semicorrotti, domestici grandi e piccoli dei potenti. Nessun partito può diventare “partito di massa” se non si adatta a questa “base” fangosa. I socialisti non possono più ignorare questo ingranaggio complesso, continuando a esigere (a parole a spese dei capitalisti, ma in realtà sul bilancio dello Stato) “pane e cinematografo” per i salariati delle fabbriche.Che cosa rimane?

Pochi individui dispersi, e piccoli gruppi isolati, capaci, al tempo stesso, di un pessimismo risoluto quanto all’avvenire immediato e di non disperare dell’”eterna buona causa” dell’uomo.

Marx e Engels hanno scritto, e i signori Thorez e Togliatti lo vanno ripetendo con unzione, che il socialismo s’identifica con l’umanismo. Quanto a me, temo che i padri del socialismo scientifico pensassero soprattutto alla filologia e alla filosofia che fiorivano così prospere, al loro tempo, nelle Università tedesche, e i cui lumi, insieme a quelli della “Scienza” in generale, avrebbero dovuto aiutare i proletari a prender coscienza della loro missione storica: l’erudizione più la dialettica..Ma l’importanza dell’umanismo nella nostra civiltà non è consistita principalmente nella “rinascita delle lettere e delle arti”, né in quelle “umanità” di cui i gesuiti han mostrato come potessero anche, e molto bene, essere utilizzate ad asservire gli spiriti. Il grande impulso dato dalla reviviscenza dello spirito greco si manifestò -attraverso sconfitte ed eclissi, ma anche con un “progresso” irresistibile- nel fiorire di una socievolezza che era “libera” soprattutto nel senso che gli uomini sceglievano liberamente i loro “simili” al dilà delle barriere di casta, di nazionalità, di confessione religiosa. E in questa socievolezza, rapporti di autentica politesse, ossia basati sull’eguaglianza e la reciproca fiducia, sostituivano i cerimoniosi e sospettosi artifici del “rispetto gerarchico”.Oggi, il moltiplicarsi di gruppi d’amici partecipi delle medesime ansie e uniti dal rispetto per i medesimi valori avrebbe più importanza di qualsiasi macchina di propaganda. Tali gruppi non avrebbero bisogno di regole obbligatorie né di ortodossie ideologiche; non fiderebbero sull’azione collettiva, ma piuttosto sull’iniziativa individuale e sulla solidarietà che può esistere fra amici che si conoscono bene e dei quali nessuno persegue fini di potenza. Il Cristianesimo fece le sue più stupefacenti conquiste quando era diviso in un gran numero di chiese autonome, collegate fra loro dalla “comunione”, senza una gerarchia episcopale ben definita, né autorità “ecumenica” di sinodi o di patriarchi. Nel XVIII secolo, i cenacoli di libertini e di enciclopedisti, le piccole “società di atei” di cui parlano volentieri Fielding e Smollett, le Logge massoniche e i “salotti dove si conversava” svolsero una propaganda irresistibile, mettendo in contatto gli spiriti liberi da un capo all’altro d’Europa. Quegli uomini non avevano alcun bisogno di un’organizzazione centrale che prendesse decisioni e applicasse sanzioni in loro nome. Il loro scopo era di trasformare i modi di pensare e i costumi piuttosto che le cose, e perciò la loro opera portò nel mondo un cambiamento reale.

(1) “J’appelle police les loix et ordonnances qu’on a de tout temps publiées dans le Estats bien ordonnez pour régler l’oeconomie des vivres, retrancher les abus et les monopoles du commerce et des arts, empêcher la corruption des moeurs, retrancher le luxe et bannir des villes les jeux illicites” (LE BRET, Traité de la Souveraineté du Roy, 1700 – Livre IV, Chapître XV).

“On prend quelquefois [le mot police] pour le gouvernement général de tous les Estats, et dans ce sens il se divise en Monarchie, Aristocratie, Démocratie… D’autres fois il signifie le gouvernement de chaque Estat en particulier et alors il se divise en police ecclésiastique, police civile et police militaire… [Mais] ordinairement et dans un sens plus limité, police se prend pour l’ordre public de chaque ville, et l’usage l’a tellement attaché à cette signification que toutes les fois qu’il est prononcé absolument et sans suite, il n’est entendu que dans ce dernier sens” (DELAMARE, Traité de la Police, 1713 -Livre I, Titre I).

(2) Valutazioni più recenti del numero delle vittime di Hiroshima hanno ridotto a un terzo questa cifra. L’enormità della strage rimane.

 

 

“Homo faber” e “homo sapiens”

Andrea Caffi, 1945.

I

L’uomo, visto dal di fuori, è un organismo animale. La sua esistenza, la sua riproduzione, la sua morte, i suoi movimenti, le sue sensazioni, la sua fisiologia e patologia possono essere studiati come fenomeni biologici, con tutto ciò che questo implica d’interdipendenza con la natura, le influenze del clima, eccetera.

Il fatto che l’uomo sia un animale che vive in società non lo distingue in maniera essenziale da altre specie. E forse il linguaggio neppure. Ma è con la specificazione dell’homo sapiens (cosciente degli scopi del suo agire, e dunque capace di porsi il problema della propria condizione) e dell’homo faber (il quale estende per mezzo di strumenti le sue facoltà d’azione sulle cose che lo circondano) che si pone l’insieme delle questioni di cui si occupano sia la filosofia che la ricerca storica.

II

L’uomo si conosce: oppone il proprio io a tutto ciò che esiste attorno a lui, non solo nell’azione per sopravvivere, ma come “visione” (theoria) costante.

È per tale via che si viene progressivamente articolando la sua esperienza, si organizza la sua memoria, si costruisce una complicata gradazione d’irrealtà -previsioni, ricordi, immaginazioni- che s’intrecciano ai “dati” direttamente e materialmente subiti del mondo qual è (per i nostri sensi).

III

È attraverso questo seguito d’intenzioni coscienti, di scelte fra possibilità preconcepite, d’invenzioni piuttosto rare e d’imitazioni spesso ragionate, di sforzi più o meno coerenti per stabilire delle distinzioni e delle “partecipazioni” fra cose diverse e fra momenti distinti della durata temporale, che l’uomo diventa il creatore, o il “produttore”, della propria esistenza. La fatica quotidiana, il conforto del riposo, i giochi, i piaceri, le sofferenze, i progetti laboriosi, le fantasticherie, le sorprese, i terrori, gli stupori, i languori e le nostalgie, tutto ciò si compone in un’unità di significati che aderiscono per quanto è possibile a forme fisse il cui richiamo alla mente può dirsi “simbolo”, e cioè segno di riconoscimento, ovvero ritorno del “medesimo” nel flusso di mutamenti senza posa.

IV

Ma l’esistenza dell’essere umano non si realizza che nell’ambiente sociale. Non c’è, nella coscienza e in tutti gli atti della coscienza, momento — anche quando l’individuo è materialmente isolato -il quale non sia un’azione reciproca con i suoi simili. Nelle più piccole reazioni agli eventi del mondo esterno, come in ogni immagine evocata dalla mente e nei suoi progetti più singolari, il “tu”, il “noi” o il “loro” sono una presenza altrettanto reale quanto l’”io”. Allo stesso modo che tutto il corredo materiale dell’esistenza -alloggio, nutrimento, mezzi di protezione e di lotta -proviene dall’insegnamento e dalla cooperazione degli altri, così anche quello che si potrebbe chiamare il corredo della coscienza -e cioè non soltanto l’espressione per parole o gesti, ma la maniera stessa di sentire o di vedere- è con tutta evidenza frutto dell’educazione e della collaborazione incessante del gruppo sociale.

V

L’astratta chiarezza del “penso, dunque sono” non si acquista che a un certo livello di meditazione disinteressata, sufficientemente distaccata dalle contingenze per poter operare la connessione fra la nozione d’”essere” e quella di “esistere”. La maniera ordinaria di concepire l’equazione “io sono = io esisto” -ossia la coscienza dell’io nella realtà sociale- è una combinazione spesso confusa dei risultati (sempre soggetti a revisione) di esperienze che si continuano e si modificano per tutto il corso di un’esistenza e comprende:

  1. a) ciò che mi sembra di essere;
  2. b) ciò che spero di essere;
  3. c) ciò che temo di essere;
  4. d) ciò che mi piacerebbe di essere;
  5. e) ciò che so o credo di essere agli occhi degli altri;
  6. f) ciò che voglio apparire agli occhi degli altri, eccetera.

Questa creazione perpetua della persona, intrecciata a tante illusioni, a tanti inganni innocenti o perversi, ma anche a tanti apporti reali e nuovi di “scoperte in profondità,” di conversioni imprevedibili, di enigmi e contraddizioni senza uscita, deve la sua complessità unicamente al fatto di effettuarsi al tempo stesso sul teatro della vita sociale e nel segreto incomunicabile del foro interiore: i fatti compiuti che impegnano senza remissione non sono spesso che un’assurda violenza esercitata dal caso contro le vere intenzioni dell’individuo. Il problema che per tal modo si pone di una “conoscenza” dell’uomo non comporta che una risposta pratica già data (o imposta) dal conformismo sociale: in società, siamo quel che facciamo e quel che gli altri ci giudicano secondo i nostri atti e il nostro modo d’essere; e, per definirci in modo diverso, per far valere quel che di noi non appare nelle circostanze che ci son date, ci si definirà contro il giudizio corrente, che è sempre una maniera di dipendere da ciò che gli altri hanno deciso. Marx pretendeva di poter distinguere fra ciò che l’uomo è in realtà e ciò che egli crede di essere in un determinato ambiente sociale. Ma come paragonare due entità assolutamente inafferrabili? Il più presuntuoso (o il più ottuso) degli uomini non è mai sicuramente (o definitivamente, o interamente) convinto di essere quello che si crede, o che vorrebbe si credesse di lui; e la psicanalisi più rigorosa non riuscirà mai a esaurire la più semplice delle anime. Tuttavia, le convenienze della coabitazione sociale riescono molto bene a stampare sul volto di ognuno la sua maschera e a confinare ciascuno in una parte precisa. Per via di reciproco adattamento, l’individuo e l’opinione collettiva mettono in risalto le apparenze di un carattere o di una mentalità durevole, e… il resto è silenzio.

VI

Questo sarebbe uno dei risultati finali di quella che Marx chiama “la produzione sociale della loro esistenza” da parte degli uomini. Vi si constatano infatti dei rapporti “determinati e necessari”. Marx aggiunge “indipendenti dalla loro volontà”, il che sembrerebbe sottintendere una distinzione fra una facoltà di decisione assoluta, spontanea, della coscienza, che sola meriterebbe il nome di “volontà”, e le volontà disciplinate, canalizzate, coordinate che si manifestano regolarmente nell’attività degli uomini organizzati in società. Per rendere più precisa l’analisi, bisognerebbe forse distinguere in concreto, secondo propone Georges Gurvitch, fra rapporti di comunione, di comunità e di massa. Il panico o il furore aggressivo di un branco, il ritmo “unanimizzante” di un lavoro comune, la sottomissione o l’integrazione con esseri che si amano, si rispettano, si ammirano ovvero si temono, determinano delle costrizioni sociali differenti quanto a durata, intensità ed efficacia.

VII

D’altro canto come interpretare la nozione marxista, secondo la quale “i rapporti di produzione che costituiscono la struttura economica” sono “la base reale su cui s’innalza una sovrastruttura giuridica e politica”? Ammetteremo forse che questa “base” possa fare a meno della sovrastruttura, o che essa ha preceduto nel tempo la formazione delle sovrastrutture in questione? Ovvero che tali “rapporti determinati e necessari” che si affermano come istituzioni giuridiche, religiose, eccetera, hanno meno realtà che non la divisione del lavoro, la cooperazione, l’assimilazione o il perfezionamento di certe tecniche (quelle strettamente e utilitariamente produttive, ma non quelle della magia o dell’arte)?

Nella realtà storica quale noi possiamo conoscerla, non si vede una sola società la cui coesione, o struttura, non presenti almeno tre ordini di fatti che il nostro esame ragionato distingue, ma che, beninteso, s’intrecciano e si penetrano a vicenda nell’attività quotidiana degli individui associati:

  1. a) dei modi abituali, regolati, di procurarsi la sussistenza, di concepire e misurare il benessere materiale, di ripartire i compiti e i frutti degli sforzi più o meno organizzati;
  2. b) delle forme di comunicazione e d’accordo intimo costanti, incorporate nel linguaggio e (sempre e necessariamente) in una mitologia;
  3. c) delle norme di condotta esplicitamente formulate o osservate per intesa tradizionale, sostenute da una nozione del “sacro” (o mana, o tabù) la quale si riassume a sua volta nella nozione di “giustizia”.

VIII

Una concordanza intima fra la giustizia, la mitologia e la “struttura economica” non basterebbe a dimostrare che quest’ultima ha in qualche modo generato le due altre. Ma il fatto è che una simile concordanza non è mai esistita. Si è spesso notata la immoralità fondamentale delle mitologie, che “eroicizzano” le più flagranti violazioni della giustizia; ed è assurdo restringere il significato dei racconti sull’età dell’oro, il paese di Cuccagna, le ricchezze e l’onnipotenza ottenute grazie alla lampada d’Aladino o ad altri mezzi magici al punto da non vedervi altro che la rappresentazione di strutture economiche eccezionali di cui sognerebbe una classe oppressa, oppure una fazione reazionaria. Giacché è la condizione umana in sé e per sé che viene in tali favole trasfigurata in una prospettiva di assoluta perfezione e di eterna durata che sorpassa di gran lunga ogni concepibile vicissitudine storica.

Le nozioni della giustizia sono spesso rimaste in conflitto permanente con le finalità utilitarie dell’economia. Si potrebbe anzi vedere l’embrione di una antinomia insolubile fra le due nell’atteggiamento del cacciatore che, per nutrirsi, uccide il bisonte, ma procede in seguito a cerimonie magiche per placare lo spirito della sua vittima e, in un certo senso, espiare quell’uccisione motivata da scopi meramente utilitari. Dal capo-tribù che pratica lo spreco del potlach, emulazione in doni sontuosi da tribù a tribù (costume che Marcel Mauss ha denominato, nella sua celebre analisi, “economia del dono”), fino alle spese di prestigio del Re Sole, dei princìpi contrari a ogni calcolo economico possono scuotere dalle fondamenta la “struttura” che esigerebbe un rigoroso “rapporto delle forze produttive”.

A sua volta, l’azione delle forze economiche corrode i fatti normativi che una certa concezione del giusto e dell’ingiusto poneva alla base dell’ordine sociale: il cittadino romano ridotto alla condizione di proletario non cessava di esser considerato membro di pieno diritto di un corpo sovrano, e il paradosso di questo parassitismo di una plebe degradata ha finito col minare l’edificio di un Impero magnificamente organizzato. Per più di un secolo, le Repubbliche dell’America del Sud si sono ostinate nel gioco a volte burlesco e a volte tragico di Costituzioni nelle quali i diritti dell’uomo e la separazione dei poteri erano sanciti secondo la teoria più rigorosa, mentre un’economia composita, nella quale permanevano le forme più primitive a fianco di quelle ultramoderne, resisteva come poteva ai colpi di mano successivi di avventurieri politici esaltati dalla mitologia dei conquistadores.

IX

La teoria marxista ha cercato di spiegare in vari modi queste incongruenze.

C’è in primo luogo 1’”alienazione”: i fermenti ideologici che un sistema di rapporti tecnico-economici e l’opposizione d’interessi che esso implica hanno suscitato possono venir trasposti in termini “mistici”, i quali sono talvolta un mascheramento utile di iniqui privilegi accaparrati dalla classe dominante, talvolta l’espressione di speranze ancora timide, annebbiate dall’ignoranza e dalla superstizione, tra gli oppressi. In secondo luogo, le sovrastrutture possono essere prese in prestito: la Rivoluzione francese si drappeggia in atteggiamenti eroici modellati secondo Plutarco; i principi barbari adottano il cerimoniale bizantino per dar prestigio al loro dominio nei paesi longobardi o bulgari. Lo storico avvertito non ha difficoltà a far cadere questi orpelli per scoprire la realtà delle situazioni economiche e della lotta di classe.

Infine, le sovrastrutture e le ideologie sono in ritardo sull’evoluzione della struttura economica. I morti soffocano i vivi. Le norme giuridiche e le credenze che si adattavano a una fase antica e superata dell’economia vengono mantenute, non senza artificio, da una casta retrograda ancora accanita a difendere le sue ultime posizioni. I marxisti hanno molto lodato Hegel per aver questi visto che il tema dell’Antigone era il conflitto fra l’antico diritto gentilizio e il nuovo diritto politico in nome del quale Creonte si vede obbligato a infierire. Ciò non toglie che, per Sofocle e i suoi spettatori, il martirio della figlia di Edipo e la crudeltà della ragion di Stato invocata da suo zio erano fatti appassionatamente attuali e nient’affatto “superati” dal verdetto della Storia

Se il borghese Saint Just che dice: “II mondo è vuoto dal tempo dei Romani” e il borghese Guizot col suo famoso Enrichissez-vous, la mitologia plutarchesca di un David e quella di un Balzac e di un Daumier (col parapioggia di Luigi Filippo a guisa d’omphalos) vanno spiegati in base alla medesima struttura economica, allora il conflitto fra mito rivoluzionario e mito borghese, che si tradusse in alcune migliaia di morti violente, esige un supplemento di spiegazione. Giacché, infatti, un sottoprodotto artificiale della sola realtà che conta — l’ideologia del trinomio Liberté, Égalité, Fraternité rispetto al capitalismo trionfante — e persino un travestimento d’origine libresca hanno potuto trascinare un gran numero d’uomini a dimenticare ogni preoccupazione economica fino a sacrificare la loro vita (si ricordi la frase, registrata da Stendhal di quel generale di Napoleone il giorno del Sacre di Notre Dame: “Un million d’hommes sont morts pour qu’on ne revoie plus jamais cela”), è legittimo supporre che alla base della condizione umana ci siano dei motivi d’azione, degli stimoli della coscienza individuale o gregaria e dei fatti normativi singolarmente riottosi ai “rapporti necessari” determinati dalla fabbricazione e impiego produttivo di strumenti o dal progresso dei procedimenti tecnici.

X

Alcune indicazioni sommarie potranno servire a circoscrivere il problema.

1) Abbiamo accettato le definizioni homo sapiens e homo faber. È evidentemente impossibile concepire che l’uomo possa essere l’uno senza essere l’altro. Tuttavia ciascuna di queste due qualifiche ricopre un insieme di fatti e di valori molto diverso da quello che riassume l’altra. Ogni considerazione sulle società umane e la loro storia che subordini le molteplici manifestazioni della coscienza alle attività produttive rischia di dare un’immagine impoverita e artificialmente razionalizzata delle vicissitudini e esperienze realmente osservate.

2) Così pure l’”‘animale politico” non può essere identificato con l’homo oeconomicus. La socievolezza umana, e forse già quella di altre specie animali, produce dei motivi d’affetto, di comunione, di dedizione, di gelosia, eccetera, che complicano e possono perfino contrastare le finalità economiche della conservazione, della difesa e dell’espansione del gruppo. Il semplice fatto che si siano date e si diano situazioni, sia individuali che di gruppo, nelle quali, per riuscire a conservare puramente e semplicemente la vita, bisogna sacrificare le “ragioni di vivere” mostra quanto siano complessi i valori che gli uomini producono in comune e che si cristallizzano per ciascuno e per tutti in forma di interessi vitali.

3) II pedantismo quasi grammaticale delle due precedenti osservazioni dovrebbe servire a sottolineare la banalità della constatazione che siamo costretti a fare una volta che abbiamo ammesso che l’attività sociale degli uomini è un’integrazione di persone coscienti e non di cifre statistiche o di funzioni astratte: c’è un contrasto insormontabile fra l’evoluzione dell’esistenza sociale nella regolarità delle opere e dei giorni (come per un alveare o un formicaio) e la storia della medesima società considerata nella discontinuità degli eventi e delle avventure individuali, sempre irreversibili e imprevedibili, uniche e soggette all’impero multiforme del Caso. È altrettanto arbitrario erigere la prima serie al rango di “sostanza” (aristotelica) e ridurre la seconda a “accidente” quanto annettere importanza solo ai “grandi eventi storici” che si svolgerebbero sul fondo neutro dell’esistenza quotidiana di miriadi d’individui i quali, essendo individui privati e non statisti, generali o capipopolo, sarebbero meri soggetti passivi della Storia. Una tale dissociazione non appare, e non è possibile, se non nella prospettiva di un passato artificialmente ricostruito, mentre non soltanto l’esperienza attuale, ma anche una “ricerca del tempo perduto” che sappia aderire all’esperienza realmente vissuta, constaterà sempre, intimamente mescolati, il ritmo ininterrotto dei bisogni abituali e le sorprese memorabili che segnano le fasi di un destino individuale o collettivo.

4) Non c’è dubbio che i popoli, gli Stati, le istituzioni hanno il loro destino, punteggiato da “svolte storiche”, da epoche d’oro e da catastrofi più o meno grandiose. A guardar meglio, tuttavia, è solo per astrazione o metafora che si possono attribuire a delle formazioni collettive fasi di grandezza e fasi di decadenza: le tribolazioni sono sempre individuali, così come, secondo Platone, individuale sempre è la facoltà di ragionare. Quanto al cosiddetto “corpo sociale”, e cioè a quella rete di azioni reciproche, regolari, abituali che impegna e mantiene un maggiore o minor numero di esistenze personali nei binari di atti precisi, ripetuti indefinitamente e quasi automaticamente, certo, condizione del suo funzionamento normale è un grado notevole d’invariabilità. A cominciare dai popoli detti felici perché senza storia fino al gruppo d’amici che si ritrovano per trent’anni ogni giorno quasi alla stessa ora nello stesso caffè per la stessa partita a carte, quel che si constata è che la garanzia più efficace di una produzione — o riproduzione continua — dell’esistenza sociale è l’attenuazione fino ai limiti del possibile della “fuga del tempo” grazie all’immutabilità delle circostanze ambientali e dell’atteggiamento adottato dai personaggi in questione. L’individuo si preoccupa continuamente del passato e dell’avvenire e le sue aspirazioni s’innestano su ogni momento della sua azione e del suo pensiero. La società, al contrario, vive in certo modo in un presente indefinito. Il calendario è una creazione eminentemente sociale: esprime la perennità del medesimo ciclo di stagioni e dello stesso avvicendarsi delle classi d’età che si sostituiscono regolarmente l’una all’altra. Il che, fra l’altro, confermerebbe l’opinione che le metafore con le quali si attribuiscono a una società la gioventù o la vecchiaia sono quasi sempre prive di senso.

5) Non è affatto assurdo supporre l’azione normativa di un calendario fra gli animali: gli accoppiamenti, le migrazioni stagionali, il sonno invernale, le covate sono fissate in date precise dell’anno in maniera ancora più imperiosa che non le operazioni dell’economia umana. Ma sarebbe difficile scoprire nei calendari degli animali delle Feste, la cui importanza è viceversa così evidente in tutti i calendari degli uomini. Giacché la Festa rappresenta il successo più notevole dell’integrazione delle esigenze personali dell’uomo — della coscienza del passato e del futuro che da un senso alla sua vita — nella uniformità necessaria all’esistenza sociale, è un compromesso fecondo fra economia e mitologia, un’incorporazione dell’evento unico nella serie dei vertumnes ritornanti a data fissa.

Questo fatto merita una digressione. Ricordiamo, per cominciare, i molti motivi che giustificano la qualifica di “evento” applicata alla Festa. Le intenzioni magiche delle solennità che si ritrovano presso tutti i popoli primitivi — danze di primavera, feste del solstizio, della semina e della mietitura, eccetera — rivelano le inquietudini e le speranze suscitate dal fatto elementare per cui il passato e l’avvenire sono sempre “presenti” alla coscienza dell’uomo. Il ricordo delle siccità, delle carestie, delle epidemie, ma anche la tendenza (fondata sull’esperienza del tracciato univoco di ogni carriera umana fra la nascita e la morte) a “individualizzare” i fenomeni naturali, rende indispensabile l’intervento straordinario di sforzi ben coordinati e resi, grazie a simboli efficaci, ben rispondenti alla natura delle cose, per far risuscitare il sole, ottenere che la terra consenta a esser feconda, che la selvaggina abbondi e che le donne facciano molti figli. È, ogni volta, un “ricominciare dal principio”, un fatto straordinario.

Conviene anche tenere a mente l’effetto memorabile che ogni celebrazione festiva ha sull’animo di quelli che vi partecipano. Si sa che, nei riti d’iniziazione degli adolescenti, le prove (spesso dolorose) e le simulazioni terrificanti vengono moltiplicate a piacere, al fine d’imprimere un ricordo indelebile; ma anche le feste periodiche segnano delle date in ciascuna esistenza particolare, associandosi facilmente a un momento “unico” di gioia o di tristezza, di pienezza o d’angoscia, vissuto precisamente in occasione di questa o quella ricorrenza solenne.

Il significato “storico” -e cioè di elevazione al disopra del corso ordinario dell’esistenza- s’accentua quando la Festa “commemora” una gloria o un lutto di cui la comunità conserva e coltiva il ricordo per le generazioni future. Il culto degli eroi -con la creazione mitologica che le loro gesta fanno fiorire- si unisce naturalmente a un seguito tumultuoso di grandi avvenimenti, dei quali esempi egregi sono lo sciamare delle colonie greche intorno al Mediterraneo e probabilmente anche le invasioni ariane in India. Né occorre insistere sul significato di evento indimenticabile che aderisce a ogni gara olimpica, istmica o pitica, sulla risonanza del nome del vincitore per tutta l’Ellade, sulla gioia orgogliosa della sua città e i capolavori di lirica e di scultura che immortalavano la sua impresa. Così pure, a Atene, ogni Dionisiaca vedeva sbocciare tetralogie e commedie le cui vestigia ci meravigliano tuttora come un fatto “unico” negli annali del genere umano.

Dopo la guerra del Peloponneso, il teatro attico si svigorisce visibilmente: è l’epoca della quale tutti i testimoni attestano da una parte che il potere del danaro e l’aspra ricerca del profitto -la crematistica- vi si rafforzavano ogni giorno e, d’altra parte, che la lotta di classe -la divisione della città in due città: quella dei ricchi e quella dei poveri- minava la sicurezza dei costumi (ethos, mores) e corrompeva le norme della giustizia. Il che ci porta a esaminare un altro aspetto della Festa come istituzione sociale che offre all’uomo, al tempo stesso, un sentimento d’emancipazione dalle servitù dell’esistenza associata e una comunione più stretta e più spontanea con i suoi simili. Dalla licenza che i Saturnali accordavano agli schiavi al bacio fraterno che, il giorno di Pasqua, il basileus di Bisanzio o lo zar di Pietroburgo non hanno mai mancato di scambiare col più umile dei loro servitori, un gran numero di feste popolari statuivano esplicitamente o tolleravano senza riserve, insieme all’interruzione di ogni fatica produttiva, l’abolizione delle barriere fra le diverse condizioni sociali; già l’”abito da festa” e le vettovaglie prodigate in banchetti pubblici e privati significavano l’abbandono di ogni cura “economica”.

Ora, non c’è festa che se il popolo non solo vi partecipa, ma ne è l’animatore e il protagonista. I circenses concessi dal despota a masse prive di coesione (prive, cioè, della dignità che proviene da costumi -mores- ben assodati), la parata continua in cui si traduceva a Versailles il funzionamento della machine royale, la grande vie a cui degli oziosi possono darsi tutti i giorni e tutte le notti dell’anno, non hanno nulla del significato mitologico e delle virtù sociali che sono il proprio della Festa. I festeggiamenti “a porte chiuse” ai quali non hanno accesso che gli invitati di una certa casta o corporazione speciale, se non rimangono nei limiti di una modesta riunione intima, cadono facilmente nella presunzione o nella volgarità, hanno qualcosa di artificioso, di angusto, di meschino; neppure i tornei cavallereschi sfuggivano a quella rigidità e a quel gusto della rozzezza “professionale” che si ritroverà nelle cene d’ufficiali o nelle riunioni di birreria degli studenti tedeschi; e, a cominciare dal ballo in casa di Cèsar Birotteau, il ridicolo del “grande apparato” in un ambiente borghese ha fornito argomento di molti capitoli di romanzi realisti.

Perché la Festa meriti il suo nome e dispieghi tutto il suo valore nella vita sociale, bisogna che il popolo, sbarazzato delle sue cure quotidiane, possa ritrovarvisi intero. Ma importa ancora precisare: perché la celebrazione di una vera Festa sia possibile sotto un determinato regime, o in un determinato momento storico, occorre che il popolo, ossia l’insieme degli uomini che con la loro pena quotidiana assicurano la continuità dell’esistenza materiale e morale del “corpo sociale”, sia capace d’apprezzare e di praticare certi “rapporti reciproci” che costituiscono la società per eccellenza. Per il che intendo dei modi di socievolezza cordiale, di cortesia spontanea, di solidarietà senza obbligo né sanzione, di comunanza di gusti, di credenze e di maniere di cui i legami d’amicizia, i cameratismi solidi e provati, le riunioni “per il solo piacere di stare insieme”, i cenacoli di ferventi di un medesimo ideale, eccetera, offrono gli esempi più o meno raffinati. Basta che le necessità del lavoro di ciascuno e i “rapporti imposti dal sistema di produzione” lascino sussistere abbastanza serenità e abbastanza fiducia nei costumi tradizionali, abbastanza fiducia e comprensione reciproca nei riguardi dei propri vicini (e anche dei propri “superiori” e “inferiori”) perché, almeno negli intermezzi di rilassamento, la spensieratezza gioiosa possa darsi libero corso, il “calore comunicativo” trionfi di ogni impulso represso e nessuna distanza agghiacciante separi le classi sociali, o l’uomo dell’élite dall’uomo della strada. È uno spettacolo visto: si vorrebbe sperare di poter rivederlo. Se questo dovesse significare che la lotta di classe non è tutta la storia delle società umane, bisognerebbe rassegnarsi sospirando: “Amicus Marx, sed magis amica societas…”

I rapporti fra un fenomeno sociale così saturo di significati magici e mitologici come la Festa e il sistema di azioni reciproche obbligate che costituiscono la struttura economica non sono semplici. È evidente che le feste contadine (o quelle dei popoli cacciatori) sono strettamente legate alle cure produttive; ma, introducendo la magia fra le forze produttive, si esce evidentemente dai limiti del determinismo strettamente materiale dei “mezzi tecnici”. Ciò rende plausibile l’ipotesi che la nozione del sacro e le norme del fas et nefas sono dei fattori primordiali dell’esistenza sociale e non delle sovrastrutture della situazione economica governata dai procedimenti che vengono messi in opera per nutrirsi, alloggiarsi, vestirsi e difendersi.

La fusione del fattore economico con la Festa si ritrova nel caso assai frequente in cui la celebrazione gioiosa di dèi o di santi patroni coincide col traffico “rinforzato” delle fiere e mercati. Non si esiterà a riconoscervi una conseguenza importante e caratteristica del “capitalismo mercantile”; ma, a guardar le cose da vicino, si è colpiti da un certo numero di dubbi. C’è, in primo luogo, lo spettacolo di uno spreco che bisogna pur decidersi a chiamare “antieconomico” e che ha in tutti i tempi predominato nelle fiere, dove le folle accorse da una periferia più o meno vasta comprendevano sempre, insieme a un piccolo numero di uomini d’affari, una maggioranza di saltimbanchi, cantastorie e istrioni d’ogni specie, di gente venuta non per fare affari ma proprio per divertirsi dissipando in pochi giorni, se non in poche ore, i frutti di mesi e mesi di fatica. Il caso-limite è quello dei mercati che si organizzavano nei punti di partenza e d’arrivo dei cercatori d’oro o delle installazioni di mercanti che si spostavano al seguito di eserciti vittoriosi e carichi di bottino (quelle di Alessandro e dei suoi diadochi, per esempio). Lì, quello che era venuto da una parte se ne andava dall’altra: l’oro guadagnato in maniera facile o insperata si volatilizzava in orge frettolose, in consumi fastosi, acquisti di oggetti inutili, distruzioni giocose o sadiche. Dilapidazioni di tal sorta erano di regola nella maggior parte delle fiere, fino a quelle che si tenevano a Nijni-Novgorod sotto la protezione di San Macario. Ricordando che c’è stato un filologo tedesco che ha tradotto il termine aristotelico con lustvolle Entladung (scarica, o degurgitazione, gioiosa), possiamo pensare che si tratti di una catarsi periodica molto salutare per il progresso normale delle attività economiche: un po’ come il riposo domenicale è propizio al miglior rendimento della “forza di lavoro” (ma non è per poter lavorare che ci si riposa e ci si svaga: piuttosto per poter sopportare il lavoro). Quello che sembra molto debole è l’argomento col quale si pretende di vedere un incoraggiamento razionale alla circolazione delle ricchezze nel vortice di casi, di frodi, di parassitismi, di prostituzioni, di stravaganze il cui motivo principale e principale attrattiva è la liberazione momentanea da ogni “regolarità”, a cominciare da quelle dell’economia. Ci voleva lo spirito mercantile moderno, e in particolare quello americano, per commercializzare la Festa fino a ridurla a occasione di compere in massa. Ma bisogna dire che ciò è stato possibile solo perché lo spirito della Festa era già spento.

 

Divagazione sugli intellettuali

Andrea Caffi, 1950.

Anche in Tempo Presente, Vol. IV, n. 6, giugno 1959

A Jaurès che, trovandosi in compagnia di uomini politici, uscì a dire: “Qui, siamo tutti universitari,” si racconta che Briand, seduto accanto a lui, interrompendolo, sussurrasse soavemente: “Scusate, caro amico, sono forse di troppo?”

Eppure Briand era certo capace di “agitare idee”; ma non le rispettava “in quanto tali”. Al polo opposto, c’è il rispetto insincero, e spesso esagerato anche nella forma, per le “idee”: l’orrore ipocrita per il “materialismo sordido”; e cioè lo pseudo-intellettuale. Se Jaurès si fosse lanciato in una discussione della sua tesi sulla realtà del mondo sensibile, Briand, l’anti-intellettuale, si sarebbe gentilmente rifiutato di seguirlo su un tal terreno; mentre Raymond Poincaré, lo pseudo-intellettuale, avrebbe esposto autorevolmente la dottrina gnoseologica di Joseph Prudhomme.

Fra gli uomini politici inglesi, John Morley e Balfour erano degli intellettuali autentici; Lloyd George e i Chamberlain (sia il padre Joe che il figlio Neville) degli anti-intellettuali; mentre Gladstone e Ramsay Macdonald sarebbero da definire pseudo-intellettuali. Quanto a un Lord Halifax, come classificarlo?

Gli odi e i sospetti “di frontiera” fra queste categorie sono spesso violenti. Gli pseudo-intellettuali detestano (con l’aggravante e la complicazione di un sentimento d’inferiorità) sia gli intellettuali autentici che gli anti-intellettuali; mentre fra l’intellettuale e l’anti-intellettuale può esistere una stima reciproca. Per esempio, l’anti-intellettuale Giolitti rispettava Croce, ma disprezzava Nitti; il quale Nitti, a sua volta, nutriva risentimenti sia contro l’uno che contro l’altro. Stalin non poteva fare a meno di rispettare Gorki, mentre il suo odio per Trotski, Kamenev, Zinoviev, Bukharin era misto a una forte dose di disprezzo. Il grottesco di un Mussolini e di un Hitler viene dal fatto che essi stanno a mezza strada fra l’anti-intellettualismo e la pseudo-intellettualità. C’è anche il caso di apostasia clamorosa e vittoriosa: l’intellettuale autentico convertito per cinismo all’asservimento dei valori intellettuali alla volontà di potenza di una casta o di uno Stato. Federico di Prussia, il quale da principe illuminato e amico dei “filosofi” si trasforma nel conquistatore che dice: “Prima occupo una provincia, poi troverò sempre dei giuristi che dimostrino il mio buon diritto”, è uno di questi: la diatriba di Diderot contro di lui ha proprio il tono della diatriba contro un apostata. La frase di Disraeli: “E dire che abbiamo speso tesori d’eloquenza e d’intelligenza per salvare una mitologia consunta” (quella della Chiesa anglicana) è un altro esempio di tale cinismo. Io classificherei anche Lenin in questa categoria di “uomini forti” (diversi dagli anti-intellettuali per felice ignoranza, come Gambetta, Briand, Lloyd George), capaci di apprezzare i valori intellettuali e, nel contempo, di rinnegarli di fatto: il libro sull’empirio-criticismo, diretto contro Bogdanov, intellettuale autentico rimasto “chierico” anche dopo il trionfo della rivoluzione, è concepito come una denuncia di “sospetti” a un futuro tribunale rivoluzionario. Nell’apprezzamento dei fatti dello spirito, l’atteggiamento di Lenin coincide perfettamente con la frase attribuita a un giudice giacobino: “La rivoluzione non ha bisogno di scienziati.”

Prima del 1917, i bolscevichi sarebbero difficilmente stati ammessi in quell’”ordine” che era l’intellighentsia russa, mentre non si esitava a riconoscere che uomini come Kropotkin e Plekhanov vi appartenevano di pieno diritto. Un mio amico, che era stato corrispondente a Sofia durante la prima guerra balcanica, mi raccontava che fra i giornalisti c’era Trotski, inviato dalla Kievskaia Mysl; ma si teneva in disparte dagli altri (fra i quali c’erano uomini come Ossorghin e Nemirovich-Dancenko), e gli altri preferivano che così fosse: “Noi eravamo là per vedere e informare il meglio possibile, lui condiscendeva a fare quel mestiere; lo faceva, bisogna dirlo, in maniera brillante, ma teneva a rammentarci (e a rammentare ai suoi lettori) che la sua vera missione era ‘di cambiare il mondo, non di conoscerlo’.”

Questa formula marxista, come la dottrina di Auguste Comte, possono essere considerate dichiarazioni intellettuali di anti-intellettualismo. Marx e Comte erano intellettuali dei più autentici, ma la loro progenie intellettuale è stata composta soprattutto di pseudo-intellettuali, genia che pullulava nella socialdemocrazia, ma di cui d’altra parte anche un Maurras è esemplare abbastanza significativo. Così, il dogma cristiano ha soddisfatto più gli pseudo-intellettuali come Atanasio che non gl’intellettuali autentici: Origene, intellettuale se mai ve ne furono, finisce nell’eresia, come Tertulliano. I Padri di Cappadocia, Basilio, i due Gregori e Gerolamo si tengono in equilibrio sulla corda tesa dell’ortodossia, continuamente in pericolo di cadere; Gregorio rifugge con terrore dalle responsabilità dell’episcopato.

D’altra parte, gl’intellettuali al potere non hanno mai fatto una gran figura: l’esempio più vicino è Léon Blum, ma si ricordino Lamartine, Teofilo Braga in Portogallo nel 1910, Miliukov, il gruppo Kerenski e Tseretelli in Russia. Quanto a Salazar, lo si direbbe piuttosto uno pseudo-intellettuale sostenuto dalla Somma di san Tommaso e da quella di Auguste Comte; oppure, forse, un apostata.

Nel parlare d’intellettuali, si oscilla quasi sempre fra un significato abbastanza preciso e un’accezione assai larga e vaga. Dopo la diffusione del romanzo in Occidente, e soprattutto dopo l’affare Dreyfus, c’è la tendenza a considerare come quasi intercambiabili l’intellettuale quale l’han formato in Francia i cenacoli romantici, i diners Magny, l’École normale, le “torri d’avorio” del simbolismo da una parte, e l’intellighente russo dall’altra: Herzen, Nekrassov, gli slavofili, e poi i realisti, i nihilisti, i “nobili pentiti” eccetera. L’intellettuale francese si considera certamente investito della missione del “chierico” (laicizzato) secondo Benda; mentre l’intellighentsia russa proviene (come ho spesso cercato di spiegare) da un rovesciamento delle posizioni rispettive dello Stato e della società.

“All’ordine dello zar Pietro di andare a scuola, la nazione rispose cento anni dopo con Pushkin” ha detto un russo, e questo segna all’incirca il momento dell’inversione delle parti. Fin allora — e Pushkin lo sottolinea in alcuni celebri passi — i “lumi” erano stati appannaggio del governo, quindi tutti coloro che si curavano di valori intellettuali erano servitori dello Stato. Nicola I e la sua cerchia, pieni di paure e di timori controrivoluzionari, rompono con questa tradizione e trattano l’intellettualità in blocco pressappoco come Ceu Hoang Ti, imperatore Ts’inn, e il suo gran giudice Li Seu trattarono le lettere e i letterati. Risultato: l’emancipazione risoluta degli intellettuali da ogni legame con il regime e la formazione assai rapida di una classe di refrattari i quali si sentono investiti solidalmente della missione di tenere alta la fiaccola della Verità, della Giustizia, della Libertà, del Progresso eccetera

.La divergenza di atteggiamenti nei due tipi di intellettuale è evidente: il “chierico” secondo Benda proclama e coltiva la verità senza curarsi di quello che il “secolo” ne farà. L’”ordine” degli intellettuali russi, invece, si considera una milizia per il trionfo della verità nella vita sociale e per la “felicità di tutti gli uomini”: le sue speranze sono fondate sulle energie nascoste e oppresse del popolo che basterà svegliare e emancipare per contagio morale o anche attraverso un’azione di liberazione materiale perché spontaneamente si costituisca il nuovo ordine. Conviene sottolineare che in nessun momento della sua storia l’intellighentsia russa si è atteggiata a “classe dirigente di domani”: nel suo seno, il giacobinismo di un Netciaiev o di un Tkatciev si scontrò, più che a una critica ragionata, a una ripulsa istintiva e generale.

Fra le conseguenze di tale diversità tra le due posizioni iniziali degli intellettuali occidentali e di quelli russi si possono notare:

1) l’estrema riserva di piccoli cenacoli o di esistenze quasi eremitiche verso le questioni sociali da una parte, un’intensa effusione di socievolezza dall’altra;

2) la differenza evidente nell’apprezzamento delle convinzioni politiche: in Russia, questo era il punto dove cominciava l’intolleranza, mentre in Francia e in Inghilterra la politica era quasi un epifenomeno che (prima di conflitti come l’affare Dreyfus) non impediva a un legittimista e a un anarchico di incontrarsi sul terreno della cultura, di scambiare idee e di condividere le stesse dottrine estetiche o metafisiche;

3) l’alterazione dell’élite francese, soprattutto nel mondo universitario, ma anche nelle lettere e nelle arti, veniva dalla contraffazione: dall’adesione cioè di snob, di arrivisti, di dilettanti, e insomma della genia degli pseudo-intellettuali; mentre in Russia c’era piuttosto la difficoltà di stabilire un livello, di escludere dall’”ordine” i mezzi intellettuali e i quarti d’intellettuale, e si potrebbe addirittura dire i meticci, dato che si sognava l’estensione dell’ordine medesimo all’umanità intera; di qui un appesantirsi dell’intellettualità a causa dell’analfabetismo presuntuoso, invidioso, reso nevrastenico dai disinganni e dalle impotenze: è il mondo illustrato da Cechov, nel quale il più meschino telegrafista di paese si atteggia a intellettuale; ed è anche lo strato sociale nel quale la rivoluzione, all’indomani della sua vittoria, troverà nugoli di agenti servili e pieni di rancori da sfogare.

Nell’uscire dalla sua “torre d’avorio” l’intellettuale occidentale, incontrandosi con questo cugino barbaro, provò una curiosità assai viva, una simpatia un po’ torbida o una diffidenza inquieta verso quel turbolento parente. Con alcuni scarti genealogici, l’ascendenza comune era innegabile: il “chierico” poteva richiamarsi all’atteggiamento particolare di un D’Alembert, l’intellettuale russo all’agitazione generale, non esente da promiscuità, della cerchia dell’Enciclopedia; il “chierico” occidentale ha subito fortemente le tendenze della sinistra hegeliana, l’intellettuale russo è stato piuttosto sensibile alla reazione anti-hegeliana fondata sulle scienze naturali; sfumature analoghe si potrebbero rilevare nell’eredità intellettuale: romanticismo, saint-simonismo, Comte, Stuart Mill, Darwin, Spencer.

Date quelle che erano le circostanze verso la fine del secolo XIX (ascesa del movimento operaio, democratizzazione dei costumi e delle istituzioni, istruzione obbligatoria, grande stampa, importanza degli apporti tecnici, accessibili a tutti, nell’esistenza quotidiana), è la tendenza russa che alla fine ha trionfato. E uno dei risultati fu che l’intellettuale che aveva aderito alla Fabian Society o combattuto per la revisione del processo Dreyfus si sentì in dovere di avvicinarsi (come era avvenuto fin dal principio in Russia) alle “classi inferiori” non già del popolo medesimo, ma dei semi-intellettuali, autodidatti o falliti, che operavano già in gran numero nei partiti popolari, nei sindacati, nel giornalismo, nella scuola elementare eccetera.

A questo punto, a proposito di origini e tradizioni, bisogna rilevare una contaminazione che ha causato gli equivoci più perniciosi quanto alla funzione degli intellettuali (o piuttosto degli pseudo-intellettuali) negli Stati totalitari, e anche in partiti politici che pretendono di difendere la democrazia.

È stato detto che tanto il “chierico” moderno quanto l’intellettuale rivoltoso del tipo russo hanno la loro origine nel secolo XVIII. In quel tempo, si era ardentemente persuasi che “la ragione finirà con l’aver ragione”. Il “chierico” moderno, mentre rinunciava a un tale atto di fede e di speranza, si sentiva sempre più fortemente ancorato alla convinzione che la verità (e di conseguenza la “giustizia”, la “felicità” eccetera) non può essere imposta, né venire assimilata bell’e fatta, ma ha bisogno di una laboriosa gestazione in ogni coscienza individuale. L’intellighentsia russa, da parte sua, rimaneva molto più fedele alla dottrina primitiva degli enciclopedisti e professava in genere che, siccome l’assimilazione della verità era in armonia prestabilita con la natura dell’uomo, il compito era relativamente facile: bastava che gli occhi si aprissero e la “vera luce” avrebbe inondato la realtà esterna come quella intima. Quindi l’emancipazione intellettuale dell’uomo non poteva essere concepita che come un atto libero e individuale, di portata limitata all’orizzonte e alle capacità di ognuno.

Questa luce era di per sé un gran beneficio e una fonte di gioia, ma non un privilegio: certo, non era escluso che, per il loro stesso bene, si dovesse dare una buona scossa ai “ciechi”; l’idea di un despota illuminato si accompagnava alla previsione di costrizioni salutari. Ma la nozione di una luce naturale e dipendente interamente dallo sforzo individuale implicava in primo luogo un’assai larga tolleranza e, in secondo luogo, il riconoscimento che la competenza di ciascuno è necessariamente limitata e che non esiste nessuna istanza superiore la quale possa conoscere meglio di me quel che mi concerne più da vicino. Di qui le numerose idee sulla superiorità del selvaggio, del contadino, del tecnico (ivi compreso l’uomo di Stato) nel campo in cui egli è specializzato, accompagnate dalla diffidenza per le ingerenze regolatrici in nome di un qualche assoluto.

Ora, in seguito allo smarrimento proprio dell’epoca che seguì la rivoluzione francese, ma anche forse come trasposizione metafisica dell’immensa audacia del Comitato di salute pubblica, a tutto questo, in Europa, venne a sovrapporsi la sublimazione dell’Idea nella teologia hegeliana.

Attraverso la mostruosa identificazione dell’Idea con l’essere e con tutte le manifestazioni empiriche della realtà, si giunse a attribuire un potere sacerdotale e dispotico ai manipolatori e agli interpretatori d’idee, o meglio: di quell’informe complesso chiamato l’Idea, nella quale vengono a confondersi tutte le operazioni ideologiche. Con ciò, di colpo, ogni azione umana, ma soprattutto ogni azione di governo, fu “sacralizzata” come espressione dell’Idea. Da una parte si dichiarava che ogni valore intellettuale portava in sé un “valore di potenza” (e di responsabilità effettiva, essendo equiparato a un atto), dall’altra si promuoveva ogni atto di potenza alla dignità di “significato ideale”, di valore di verità e di giustizia (e quindi fonte d’obbligazione morale e di… terror sacro), la giustizia non essendo peraltro che la norma decretata da un potere effettivo. Così cominciò il vero “tradimento dei chierici”.

Riflessioni sul socialismo

primi anni del dopoguerra

Tratto da Gino Bianco (a cura di), Andrea Caffi, Socialismo libertario, Azione Comune, 1964

Anche, in forma parziale, in Critica Sociale, 1962

Se il socialismo oggigiorno non può essere altra cosa che un «apparato» d’azione politica (con stinte o tarlate coperture ideologiche) impegnato -assieme ad altri partiti- nel mesto compito di mantenere più l’apparenza che la sostanza di regimi «democratici» in una Europa sconquassata e imbarbarita, non vale proprio la pena di essere socialista piuttosto che radicale o liberale o magari democratico-cristiano; se invece intendiamo per socialismo la continuazione -con discesa nel popolo- delle grandiose ed audacissime speranze concepite nel Settecento, di attuare una completa emancipazione della ragione umana, sui principii della quale è unicamente possibile fondare la pace, la fraternità, la felicità per tutti -allora dobbiamo cominciare col riconoscere che tutti gli eventi dall’agosto 1914 in poi hanno calpestato, soffocato, deviato questo movimento- e che… bisogna ricominciare da capo. Spietato, prima di tutto, deve essere l’esame di coscienza giacché inavvedutezze e colpose facilonerie da parte nostra hanno contribuito certamente al così catastrofico generale collasso.

Per giustificare la mia frase: «ricominciare da capo» non è forse inutile fare qualche considerazione sulla storia del socialismo: a mio parere quella che speriamo iniziare sarà la quarta «ripresa» (o la quinta fase del movimento socialista):

1) La prima fase è sorta quasi assieme alla Rivoluzione francese, si esplicò nelle classiche «utopie» di Owen, Saint-Simon ecc., nonché di molti operai inglesi (culminanti nel «cartismo») e francesi (giornate di Lyon ecc.). Non solo il massacro del giugno 1848 a Parigi, ma la disfatta completa della rivoluzione europea – sembrò segnare la fine di ogni speranza, lo sbandamento delle schiere, il «rinsavimento» dei «sognatori» (tipico il voto di molti operai per Napoleone III con il passaggio dei saint-simonisti al culto della «efficacia capitalista» e anche statale).

2) Speranze, entusiasmi, combattività rinacquero nell’Internazionale (ed anche, contemporaneamente – nel tradeunionismo e nel movimento promosso da Lassalle). Ma di nuovo, ed assai presto, l’esito tragico della Comune di Parigi (come di quella spagnola di Cartagena e forse anche dell’«andata al popolo» dei bakuninisti russi) – riecheggiarono come campane a morte; provocarono diserzioni, ravvedimenti, scoraggianti pessimismi. Ma per poco.

3) Verso il 1884-85 la «spinta in avanti» è di nuovo manifesta: tenaci progressi della socialdemocrazia germanica, grandi scioperi a Londra, «Martiri di Chicago», nascita di «partiti operai» in molti paesi. Sarà la Seconda Internazionale «marxista» nei suoi più grossi contingenti, ma sarebbe ingiusto dimenticare sia il sindacalismo inglese, sia quello francese; l’attività cospicua di non pochi gruppi libertari ed il «fiancheggiamento» di correnti «intellettuali» (Ruskin, William Morris, i «fabiani», Tolstoi, Frederik van Eeden ecc.). A mio parere, la decadenza della Seconda Internazionale comincia con la disfatta della Rivoluzione russa (1905-1907) ed il generale restringimento ad una specie di «realpolitik» elettoralistica, parlamentare (e quindi forzatamente nazionale). Cosi gli eventi del 1914 non incontrarono nessun dinamismo di resistenza socialista.

4) L’epoca successiva è dominata indiscutibilmente dal «mito russo». Più tipico che l’adesione totale o «con riserve» al bolscevismo di tanti militanti che non erano tra i peggiori dell’«avanguardia operaia» – mi pare l’atteggiamento («complesso» di inferiorità o di colpevolezza) degli avversari del bolscevismo fra il 1919 ed il 1939. – Hanno usato di fraseologie a cui credevano «a fior di labbro», sono ricorsi a meschinissimi ripieghi e sofismi per camuffare compromessi d’ogni sorta, pigrizia nelle idee, sordidi vantaggi di «arrivismi» personali – (beninteso v’erano anche vestali candide attorno ad un fuoco spento).

Il distacco dal « mito russo » delle coscienze ancora deste (per es. dei veterani del sindacalismo francese che in gran numero avevano «creduto» alla rivoluzione nel 1919) cominciò fin dal 1924-25, agevolato dal dissidio fra Trotzky e Stalin. I processi di Mosca, l’effettiva liquidazione dell’autentico «bolscevismo», avrebbero dovuto avere effetti decisivi. Ma, da un lato, il minaccioso addensarsi della reazione -sotto forma fascista o «criptofascista», la necessità dei «fronti popolari» in Francia, Spagna ecc.- ritardavano, rendevano inopportuna la rottura; dall’altro lato -e questo mi pare il fatto determinante- non esisteva una alternativa al proletariato: al proletariato deluso da Mosca non s’offrivano che partiti screditati o «gruppi dissidenti» troppo insignificanti (e spesso settari). Così la guerra ha trovato le formazioni comuniste praticamente «senza rivali» e nella tremenda, devastatrice «semplificazione» di tutti i problemi (ridotti quasi all’unico di «sopravvivere») -è bastata Stalingrado per ridare sembianze di vita all’insepolto spettro- (quasi parodia del famoso spettro del «Manifesto»).

5) Ora, dopo quattro anni di continue rivelazioni sulla innegabile infamia delle «democrazie popolari», del totalitarismo xenofobo di Mosca ecc., solo la mole immensa della stupidità umana aiuta l’«apparato» (certo ben congegnato) del Kominform a mantenere «occhi che non vedono, orecchie che non odono». E tuttavia è assai probabile che l’atroce farsa di un «movimento rivoluzionario» per instaurare la schiavitù integrale – sia alle penultime battute. Se è così lento il processo, la colpa ne va attribuita (oltre che ad uno stato generale di «stanchezza » e demoralizzazione collettiva) alla mancanza d’una vera rinascita del socialismo: benché molte buone volontà si agitino in proposito, non si vede ancora una reale ripresa di «eroici furori». E’ che questa volta il compito è infinitamente più scabroso che non fosse nel 1880 o nel 1885: allora gli ostacoli da affrontare erano forze schiettamente, apertamente nemiche della classe operaia. Oggi si tratta di «superare» o liquidare non già un trionfo della reazione (dell’oppressione economica e politica), ma una doppia mostruosa falsificazione dello stesso socialismo: giacché non meno del totalitarismo comunista, sono stati deleteri gli effetti del nazionalismo socialdemocratico nato dalle «unioni sacre» del 1914 ed oggi impersonate nei Ramadier, Moch, Bevin, Saragat ed anche Schumacher (difensore anzitutto di un quarto Reich).

Fra le fasi successive che ho cercato di definire nei «150 anni di socialismo» non vi fu soluzione di continuità. Nella I Internazionale, Marx, Proudhon, Blanqui portavano esperienze anteriori al 1848; nella Seconda, Liebknecht e Bebel, Jules Guesde e Andrea Costa ecc., potevano dirsi formati nella Prima; a cominciare da Stalin, Cachin, Kolarov, ecc., lo stato maggiore del bolscevismo conta un buon numero di veterani dell’Internazionale socialista. Per la rinascita in cui speriamo oggi, si vorrebbe fare affidamento su forze giovanissime, spontaneamente creative. Ma (a parte certi dubbi sul livello d’educazione politica… ed anche sull’educazione generale della nuovissima generazione cresciuta nell’abominazione e desolazione dell’ultimo decennio), sarebbe strano ignorare il contributo delle «classi anziane» che naturalmente -se il movimento riprende vita davvero- dovranno rassegnarsi a che l’eredità da loro custodita non venga accolta se non con «beneficio d’inventario». Nessuno, credo, vorrà un semplice «ritorno» alle «buone tradizioni» di prima del 1914; il passato rivive solo in trasfigurazioni… che lo rendono irriconoscibile. Più che sui superstiti dell’epoca veramente preistorica in cui Lenin, Vandervelde e Prampolini si consideravano vicendevolmente «compagni», bisognerebbe poter contare su quelli – e sono numerosissimi – che sono passati per l’inferno stalinista e magari per il purgatorio trotzkista (usciti beninteso anche da quest’ultimo). Perché l’avere conosciuto dal «didentro» il serraglio bolscevico – mi sembra una garanzia (direi quasi una vaccinazione) più di tutte effettiva contro certe illusioni e certe ambiguità.

Senza spingersi ad esagerazioni di analogie (che applicate a momenti della storia sono sempre fallaci) – si può dire che oggi -come alla vigilia del «Manifesto Comunista», come prima della costituzione della Seconda Internazionale- vi è in Europa un numero impressionante di sparuti cenacoli e di «isolati», nei quali nonostante tutto vive la convinzione che «qualcosa bisogna fare» per combattere l’assurdità dell’attuale «condizione umana», per muovere le menti e le «volontà di vivere» verso la redenzione (che si desidera totale, anche se la si sa irraggiungibile). Vi è pure questo fatto a mio avviso abbastanza inquietante: che fra tutti coloro che si assumono il compito di governare le genti o di erudire la pubblica opinione non se ne trova uno che non voglia essere «anche lui socialista fino ad un certo punto» o «in un certo senso». Dal Papa al magnate di Wall Street, dal graziato gerarca dell’OVRA all’emerito agente del MVB (o NKVD o Ghepeù che dir si voglia) tutti caldeggiano una «organizzazione della società», collettivistiche coercizioni in nome della «maggior giustizia»… e della minor libertà possibile. Il fenomeno non è assolutamente nuovo: una parte del «Manifesto» di Marx ed Engels è destinata all’esame delle già allora numerose correnti socialiste, fra le quali certune qualificate come «reazionarie»; non ricordo più se sia stato Gladstone o un membro del suo gabinetto che verso il 1832 asseriva: «siamo tutti più o meno socialisti». Ma non regge il paragone quando si misurino le proporzioni gigantesche, mostruose che oggi presenta questa orgia di «ideologie anticapitalistiche», al pari di tante altre manifestazioni della nostra presunta «civiltà» planetaria e massiccia. Come le dimensioni degli Imperi, la micidialità delle guerre, la funzione ed i mezzi d’azione dello Stato, i parassitismi d’ogni grado, la brutalità dei metodi repressivi, ecc. ecc., cosi pure l’enunciazione e la diffusione di «parole d’ordine» e programmi demagogici hanno straripato da ogni «misura umana». Donde lo «scoraggiamento» a priori d’ogni iniziativa di sincerità e di buon senso.

Se il nostro compito di far rivivere il socialismo era già severamente ipotecato dalla pregiudiziale d’una critica a fondo (e s’intende «critica in atto») degli errori colposi tanto del comunismo che della socialdemocrazia, difficoltà ancora più gravi incontreremo nelle specifiche condizioni dell’ambiente di «massa» in cui dovremo operare. Non è più questione di «inerzia» delle masse che la propaganda, l’agitazione, il risveglio di «coscienze» e «solidarietà» poteva proporsi di vincere. Abbiamo ora le masse, la mentalità gregaria, l’affogamento nella volgarità (chiamata «civiltà di masse») in piena ed irruenta effervescenza. Il disprezzo per tutto ciò che non è immediatamente «efficace», adorazione della forza, del successo e quindi del «capo» (o duce), il gusto d’essere comandati e «messi al passo», l’oblio d’ogni dignità e d’ogni rispetto per l’altrui persona sono i caratteri più ovvii dell’«animo» coltivato ed esasperato in queste masse che gli eventi mondiali dal 1914 ad oggi, assieme all’accelerato progresso di tutte le tecniche, hanno messo in subbuglio e spinto «sul proscenio della storia».

Naturalmente la ragione prima di tutto il male è l’assenza di una base sia di popolo, sia di convinzioni chiare. Ed oserei dire che la prima manca perché genialità, audacia della ragion critica, sincerità di coscienza hanno fatto difetto per attuare la seconda.

Il socialismo in quanto: 1) capacità di concepire l’ambiente sociale alla luce d’una «critica» rigorosamente razionale esplicata dalla «facoltà di giudizio» dell’individuo; 2) solidarietà profonda fra individui che «si sono compresi» non superficialmente fra loro e si sono sentiti legati da un modo pressappoco identico di intendere (ma anche di sentire, giudicare) la realtà circostante – non può assolutamente adattarsi a una «organizzazione di masse». La massa è una forma di collegamento fra gli individui, in cui tutto il fondo di «essenza» caratteristica o di «esistenza» originale che costituisce «la persona» (unica, irriducibile a misurazioni quantitative o norme meccaniche) viene eliminato, e gli uomini ridotti a semplici «unità» sostituibili di un certo numero efficiente.

Al tipo di reciproci rapporti fra esseri umani che si esprime nella «massa» si oppongono i modi più complessi d’unione, che (seguendo le spiegazioni di Gurvich a mio parere assai convincenti) si definiscono come «comunità» o, – ad un grado di ancor maggior intensità, come «comunione» fra persone pienamente coscienti e del loro «io» e della loro integrazione in un «noi» (noi altri). Ora, la propaganda (la educazione, la conversione) socialista non è stata feconda che quando distaccava l’uomo (convertito a tutto un modo nuovo di capire quanto «succedeva intorno a lui») dalle meccaniche ingiunzioni della «massa» (inerte o animata da ciechi furori), quando creava nuove «comunioni» di stretti circoli o «comunità» – come quelle che sentivano nascere i partecipanti (per la prima volta) ad uno sciopero -con rischi gravissimi di fame e di persecuzione poliziesca- o ad una «manifestazione» che faceva scandalo agli occhi di un’immensa maggioranza di timorosi o «benpensanti». Il socialismo non poteva riuscire che con il continuo rinsaldamento e la proliferazione di simili associazioni schiette, spontanee, articolate con profondo riguardo per il più modesto degli individui che vi si erano aggregati: era una necessità, se si voleva redimere l’uomo da quella condizione di «elemento di massa» (oggetto e non soggetto) alla quale prima il sistema d’accentramento amministrativo delle monarchie assolute (corroborate dalla chiesa cattolica in seguito alla Controriforma, da chiese protestanti o «ortodosse» che avevano accettato in pieno la teoria «cristiana» della ragion di Stato come ultima «ratio») e poi il sistema economico del capitalismo l’avevano ridotto; in contrasto con l’illusoria «libertà» e la formale «uguaglianza» dell’«atomo» sociale della democrazia secondo i principi del 1789 (o della rivoluzione americana), il socialismo era tutto intento a ricreare la reale integrità della persona umana nella effettiva spontaneità di associazioni libere («senza potestà corruttiva né sanzioni coercitive»).

La prima organizzazione che deviò il socialismo verso l’azione di «massa» fu la socialdemocrazia tedesca verso il 1900: apparato amministrativo e relative gerarchie, interesse esclusivo per le manifestazioni massicce (elezioni – slogans «parole d’ordine» -semplificate e appoggiate con perfetta e più o meno « militare» disciplina- unità di dogmi ideologici, imposti per esempio dal concilio di Dresda nel 1903, stampa severamente controllata e perciò ridotta ad una mediocre uniformità). Lenin ha imparato molto dallo studio dell’«apparato» germanico del 1914 – Mussolini e anche Hitler si sono addestrati, prima a contatto con i metodi della socialdemocrazia «ortodossa marxista», poi osservando i metodi del bolscevismo che ha osato spingersi sulla stessa via fino a conseguenze che quella brava gente che erano tuttavia i Kautsky, Scheidemann, Ebert, avrebbero con orrore ripudiato.

E’ facile oggi con il senno di poi constatare come i successi della socialdemocrazia, apparentemente così fragorosi fra il 1890 ed il 1913, fossero illusori; giacché si scontarono con le ignominiose disfatte dell’agosto 1914, del 1919, del 1932-1933; ma ai tempi d’oro suscitavano una ammirazione ed una emulazione generale. I paesi di più radicata tradizione umanistica (ma anche di più concreti ricordi di una «libera» azione del popolo che è l’assoluto contrario d’una azione di «massa») come la Francia e l’Italia (in parte anche la Spagna, il Belgio, i paesi scandinavi) quasi si vergognavano di non poter uguagliare la disciplina «tedesca», eppure facevano nelle leghe cooperative italiane, nella C.G.T. di Fernard Pelloutier e della «Charte d’Amiens» – un socialismo molto più costruttivo, che realmente ingenerava «comunità» al posto di supini greggi umani. Così pure dagli stretti circoli «cospirativi», sindacati clandestini, cooperative mezzo tollerate di Russia e di Polonia, con la loro varietà di «ideologie» e di pratiche iniziative, emanò una potenza esplosiva di rinnovamento (malgrado che riunissero un’infima parte della popolazione, il che, fra l’altro, spiega l’impossibilità in cui dopo il 1917 si trovarono di potersi opporre a soluzioni «totalitarie») di cui la socialdemocrazia tedesca, coi suoi tanti milioni di elettori e tanta perfezione di gerarchie amministrative non ha mai posseduto la decima parte.

La «politica delle masse» è stata adottata e sempre più sviluppata – a scapito delle esigenze del socialismo – perché la faciloneria è sempre una tentazione vittoriosa e perché tutti gli opportunismi, tutte le pusillanimità, tutte le ipocrisie vi trovavano beneficio. Anche il popolo -come dimostra la «psicologia collettiva» prevalente negli Stati Uniti d’America- preferisce allo sforzo acerbo d’una reale redenzione, l’euforia di gregarie illusioni con divertimenti vari.

I socialisti (a cominciare da Engels colle sue ottimistiche previsioni nella prefazione del 1895 alla Lotta di classe in Francia sui benèfici effetti del servizio militare obbligatorio) non sembrano aver avuto la chiara percezione dell’efficacia (disastrosamente rapida) con cui l’istituzione degli eserciti permanenti (corruzione di giovani durante i due o tre anni di caserma pur denunciata in scritti come Les bons attes di L. Descaves fin dal 1887), l’agglomerazione nelle «città tentacolari» (dove «si vive l’uno accanto all’altro senza conoscersi»), la «standardizzazione» di tutti i particolari dell’esistenza materiale al livello d’una deprimente bruttezza e volgarità, le gigantesche officine di Krupp o Ford con l’abbruttimento del «lavoro a catena» – contribuivano a ridurre il popolo, ed anzi tutto il proletariato ad una «massa» dove l’individuo diventa sempre più sperduto, insignificante, costretto a meccanica imitazione dei suoi «simili» che sempre più gli diventano indifferenti.

La guerra del 1914-18 ha mostrato (con una certa sorpresa per gli stessi governanti, dapprima abbastanza preoccupati) quanto fosse facile maneggiare le masse e non solo spingerle all’ammazzatoio, ma «imbottirne i crani» (sicché «morivano soddisfatti»). E’ probabile che il cesarismo che in altre epoche si è valso del consenso di «masse» più o meno irreggimentate o stanche di trascinare un’esistenza oltreché misera, continuamente esposta a imprevedute tribolazioni – sia oggi giorno un disegno anacronistico – benché un De Gaulle sembri cullare ambizioni abbastanza affini a questo vetusto modello. Ma un acutissimo osservatore della realtà sociale moderna -Dickinson in un molto oxfordiano «symposium» scritto prima del 1914- affermava che i regimi moderni, abusivamente qualificati come «democratici», sono in realtà una combinazione di «ochlocrazia» (sovranità più apparente che reale di folle senza coesione) con la plutocrazia – regno effettivo delle grosse fortune. Con minime attenuazioni, il regime della grande repubblica americana potrebbe ancora nel 1948 benissimo corrispondere a tale definizione. Le esperienze europee hanno mostrato -dopo la guerra del 1914-18- che la stessa agitazione abilmente orchestrata di masse s’adatta al «totalitario» predominio burocratico militare, soprattutto se questi si corazza del fanatismo aizzatore ed intollerante d’una «ideocrazia».

Se si vuol capire qualcosa degli eventi del nostro tempo, bisogna lasciare da parte (o sotto beneficio di inventario), gli schemi astratti della «psicologia» (o coscienza) di classe e considerare, unicamente alla stregua di fatti osservati, il comportamento delle «masse» da un lato e quello dei dirigenti che hanno creduto di comandare dette masse ed hanno invariabilmente finito coll’essere trascinati assieme alle masse verso le troppo note catastrofi. La massa è tutt’altro che omogenea. In modo grossolano vi si possono distinguere almeno tre strati. Vi è anzitutto la schiuma di quell’inferno che forma un ampio sottosuolo della civiltà moderna. Troppi e notissimi fattori tanto fisiologici che economici saturano non solo i bassifondi (e perciò ogni riferimento al «Lumpenproletariat» non è che un goffo tentativo di «alibi» nelle spiegazioni marxiste), ma tutte le sfere della società moderna, fino alle più alte, di esseri mostruosi, squilibrati, degeneri o disperati; il personale per le atrocità di «pogrom» antisemiti o di vari «squadrismi», per l’attività zelante di Ceke, Gestapo, Ovra, per l’organizzazione così diligente e insistente dell’agonia di milioni di esseri umani nei campi di concentramento, si recluta con estrema facilità e abbondanza. Credo che sia stato un «nobile errore» degli umanitari -pieni di fervore ottimistico- l’avere trascurato questo coefficiente di efferatezza nei movimenti di «massa», e particolarmente nelle effervescenze «rivoluzionarie»; può darsi che il relativo successo di proselitismi che si possono dire reazionari in quanto diffondono la rassegnazione all’ordine esistente -come quello dei Wesleyani metodisti e anche quello dei cattolici «sociali»- si spieghi appunto con le cautele ispirate dalla dottrina del «peccato originale» la quale trovava un istintivo consenso in molti fra i migliori degli «umili e semplici» edotti per pratica esperienza di tante «inclinazioni perverse» nell’ambiente stesso in cui vivevano.

Vi è poi il numero preponderante di coloro che il depauperamento materiale e morale, il triste distacco dal «paese natio», cioè da un ambiente protettivo fornito di tradizioni, costumi, mitologie, «stile di esistenza », sia pure «primitiva»; la promiscuità dei tuguri e delle «vie senza gioia»; l’indifferenza se non l’odio per il genere di fatiche quotidiane con cui è ineluttabile necessità preservarsi dalla morte per fame – hanno ridotto al ristretto orizzonte mentale e soprattutto all’atonia morale che sono tipiche dell’ «uomo della massa». Questa gente è stata «logorata» da troppe delusioni (le guerre, i regimi d’oppressione, la lunga serie di disfatte sia del socialismo sia della «democrazia»; la serie altrettanto lunga e continua di successi -oltreché di impunità ostentati dai «pescicani» del 1920 come del 1945- e da tutte le forme di corruzione, d’egoismo spietato, di brutalità in genere), e d’altra parte ha trovato un certo equilibrio di esistenza materiale – acquistato al prezzo d’una sempre più ottusa indifferenza per i problemi di «verità», di «giustizia», di «dignità » e d’un adattamento agli «Ersatz» sempre piu volgari. Insomma un certo modo di mantenersi a galla non tanto differente dal «panem et circenses» di classica memoria. La «coscienza di classe» -in quanto suppone un senso vivo di «dignità» ed uno sforzo di giudizio critico- è (nella stragrande maggioranza) ridotta a fievoli riflessi, a velleità soffocate abbastanza facilmente dalla riflessione: «bisogna salvare la pelle» e «così fanno tutti».

Vi sono infine nella «massa» odierna, ed è questo un aspetto singolarmente tragico, quelli che si possono definire vittime (o «resistenti senza speranza») della trasformazione del «popolo» (con il qual termine intendo un aggregato di comunità «organiche» – ma il vocabolo è pericoloso in seguito a certe note dottrine sociologiche, appoggiantesi su rozze analogie biologiche nonché più o meno esplicite tendenze di «mistica» reazionaria) della trasformazione, dicevo, del «popolo» in «massa». Opponendo «organico» a «meccanico» si vorrebbe soltanto distinguere un sistema di collegamenti in profondità mercé il quale un consenso «senza coercizioni né sanzioni» su certi princìpi morali, l’osservanza di certi costumi, l’adesione ad una certa mitologia creano una viva, concreta «coscienza collettiva» dalla rete di rapporti superficiali, esteriori, brutalmente necessari in cui l’«uomo qualunque» si rassegna a convivere con i suoi simili. Uomini che per origine o educazione (per esempio contadini o artigiani «proletarizzati») hanno ancora la nostalgia d’una reale comunità, o uomini di superiore capacità nel «sentire umanamente», si trovano, per fatalità economica, immersi nella massa; se non cedono al totale scoraggiamento si appassionano per ogni possibilità di redenzione (di loro stessi ma anche di tutta quella misera umanità che li circonda). Più prevale in loro la semplice «bontà dei sentimenti» ed una «ingenua» intuizione di verità elementari, più sono disponibili alla ribellione semplicista e all’utopia.

I partiti di massa con scopi totalitari e metodi machiavellici devono appunto il loro successo allo sfruttamento di questa sete di «purezza» e di fede nella giustizia, che -nonostante tutto- con un entusiasmo di autentici «credenti» vive in questi uomini.

Può darsi che si presenti il bisogno per i socialisti di imparare e di porre in pratica una «tecnica dei rapporti sociali» a cui ben poca attenzione è stata finora concessa. Viviamo un po’ troppo sulle tradizioni che hanno preso consistenza nei tempi ormai lontani delle prime lotte per l’emancipazione delle classi lavoratrici. Allora la classe operaia era di fatto esclusa dalla compagine che pretendeva costituire la «nazione» o la «collettività civile»: il compito, non facile, ma di formulazione semplice, era di condurre il proletariato alla conquista di diritti politici, e di almeno un minimo di «facoltà economiche» che gli rendessero possibile di sentirsi l’eguale degli «uomini e cittadini» nei paesi inciviliti secondo i principi del 1789. Oggi questa fase della «lotta di classe» per l’integrazione nel «corpo nazionale» (della nazione-stato) può dirsi superata; al produttore, la cui «forza lavoro» continua ad essere sfruttata in modo più o meno iniquo sia da oligarchie plutocratiche sia da burocrazie dirigenti di Stati totalitari, non si nega più la capacità di elettore ed eleggibile, il diritto all’istruzione elementare e persino il diritto all’assistenza sotto vari aspetti; e tuttavia le forme di schiavitù che i campi di concentramento (ancora troppo numerosi), certe legislazioni sulla mano d’opera straniera e superstiti regimi coloniali impongono ancora a milioni di individui sono una minacciosa alternativa che purtroppo sarebbe incauto ottimismo sottovalutare. Ma nei paesi occidentali da più di una generazione, sembra acquisita la partecipazione di pieno diritto ed anche di fatto dei lavoratori nullatenenti alla medesima «vita pubblica» e su per giù al medesimo «tipo di civiltà» (dal modo di vestire agli svaghi detti «intellettuali») delle (ridotte e scompaginate) classi abbienti. Tale partecipazione finora ha forse comportato per la classe operaia, accanto a vantaggi (materiali e spesso decantati con eccessiva compiacenza) non pochi oneri e parecchio disorientamento morale. Il che facilmente si spiega con il fatto che i proletari sono stati accolti in un sistema di società e civiltà nel momento in cui i valori di questa ed i capisaldi (tanto politici che sociali) di quella erano già in piena crisi. L’uomo moderno ha strenuamente lottato per la libertà della persona come massimo pregio dell’esistenza. La libertà nel vivere sociale pareva assicurata, oltreché dal principio di reciproca tolleranza, dalla molteplicità di raggruppamenti distinti per i fini che conseguono e per gli statuti che ciascuno di essi si foggia, nei quali la medesima persona si trova in uno stesso tempo impegnata: la famiglia, la scuola, la confessione religiosa, la «cosa pubblica», il partito, l’attività professionale, l’affinità di idee o di gusti artistici e via dicendo.

Ma per essere effettivamente libero occorrevano due condizioni: che dipendesse dalla libera decisione di ogni uomo di contrarre come di sciogliere ogni legame per cui temporaneamente si aggregava a l’uno o l’altro consorzio, e che il senso critico e di responsabilità della persona fosse abbastanza sviluppato e vigile per non perdere la capacità di scelta e di eventuale svincolo, proprio il socialismo con la sua concezione dell’uomo e dei rapporti umani, doveva essere e spesso è stato guida efficace per un comportamento dignitoso ed intelligente in questo equilibrio sempre instabile dei «pluralistici» rapporti quali li comporta la nostra civiltà.

Nessuno negherà che durante gli ultimi trent’anni, in Europa ed in Italia particolarmente, sia i principi di reciproca tolleranza, sia la reale libertà di scelta fra i vincoli sociali abbiano avuto una quasi catastrofica degradazione. Per questo non è inutile insistere su questo problema dei rapporti sociali in una collettività degna di essere qualificata «libera» e quindi veramente «democratica» (nel senso che un «demos» composto di uomini liberi e non «masse» o «plebi» allucinate, irregimentate, «messe al passo», determina tanto il funzionamento delle istituzioni quanto i «costumi» della vita sociale quotidiana). Creare non solo l’atmosfera morale, ma anche le condizioni materiali -con i nuclei di cooperazione, federazione ecc. cui sopra è stato accennato- per un risorgimento delle abitudini e delle norme d’una vera libertà, è la meta di pazientissimi e perspicaci sforzi che si propone ai socialisti. Compito da esplicarsi nell’immediato ambiente ed in evidente coesione con la diffusione della «coltura popolare».

Il rischio di essere fraintesi consiglia di enunciare qui certe premesse, non di carattere dottrinale, ma riassuntive di un’esperienza della storia recente. Fino al 1914 né la partecipazione di socialisti al governo dello Stato «borghese» o «capitalista» (conservante quindi la sua attuale struttura economica, amministrativa, militare) né la presa del potere per instaurare il socialismo, erano problemi d’urgente attualità. Ed è «in sede» di dibattiti dottrinali, senza il controllo di pratiche esperienze, che hanno preso consistenza diverse formulazioni più o meno «programmatiche», dalla benigna previsione d’un graduale e pacifico progresso parallelo delle istituzioni democratiche e dell’organizzazione della classe operaia (sicché questa formante la maggioranza del popolo sovrano e animata da una «volontà generale» nettamente espressa un giorno avrebbe potuto assumere «tutti i poteri» quasi senza incontrare resistenza), fino alle nostalgie d’insurrezioni barricadiere o alla speranza in un colpo di forza come il partito di Lenin doveva effettuarlo nel 1917. Ammettiamo francamente che il concetto di «dittatura del proletariato» è sempre rimasto avvolto in oscurità; ed in particolare è stato appena adombrato (in certe polemiche di Plechanov, Trotzky, Rosa Luxemburg contro Lenin subito dopo la scissione del 1903) il problema (che tanto greve di conseguenze delusive doveva manifestarsi alla prova degli eventi) dei rapporti fra le «masse» popolari, un partito organizzato ed avocante a sé, pur essendo minoranza, il diritto di decidere in nome della «classe più numerosa», ed un comitato centrale (se non addirittura un duce) che in nome della necessità dell’azione rivoluzionaria avrebbe potuto e dovuto esigere anche dalle schiere del partito stesso un’obbedienza rigorosamente militare. Cosi pure le interminabili contese tra riformisti che non escludevano un supremo atto insurrezionale per il coronamento dell’opera di trasformazione, e rivoluzionari che non negavano l’utilità di riforme parziali e dell’azione parlamentare, non hanno mai approdato a «prese di posizioni» veramente scevre di equivoci: la fraseologia -avviluppata spesso in dottrinali «considerandi» che l’«uomo della strada» (e tali erano in fin dei conti, anche novantanove su cento dei nostri seguaci) difficilmente afferrava- chiariva male, se non occultava per «ragioni tattiche», sia il fondo delle questioni (rapporto fra società ed attuale congegno dello Stato, fra classe e «popolo», fra immediati e necessariamente limitati interessi di categorie bisognose ed il grandioso compito d’una reale emancipazione dell’uomo) sia gli effettivi sinceri propositi delle diverse «élites» dirigenti l’azione politica socialista, dal politico in buona fede integrato nel giuoco regolare delle vigenti istituzioni, al refrattario impaziente di totali e violentissime ribellioni e (perché non menzionarlo, se fu un fenomeno tutt’altro che infrequente) al demagogo che con torbide ambizioni confusamente mescolava vaste prospettive d’un rinnovamento politico e sociale.

E’ che sotto l’accettazione cosciente di una «ideologia» elaborata in sostanza attorno al 1848, vi era una quasi «subcosciente» aderenza dell’animo dei militanti socialisti in Europa Occidentale (e massime in Italia) alle realtà sociali del 1900. Questa realtà implicava che nonostante l’insperata rapidità dei progressi compiuti in due-tre decenni dalla propaganda e da tutte le forme di organizzazione operaia, le «conquiste» erano ancora superficiali e precariamente assicurate, immensi «terreni vergini» aspettavano di essere «dissodati» per mezzo di iniziative politiche, sindacali, cooperativistiche; e tanto questa espansione quanto il consolidamento necessario delle posizioni già tenute sembravano attuabili nel miglior modo se perdurava in quiete l’assetto dei regimi nazionali (certo non conformi alle nostre esigenze, ma tollerabili e perfezionabili) e dell’equilibrio pacifico sia pure fondato sulla «pace armata» (che si sperava gradualmente disarmare) nei rapporti internazionali. Donde una specie di avversione e quasi il rifiuto di soffermare la mente sui « grandi avvenimenti» in politica interna o mondiale. Nelle cordialissime accoglienze che i compagni «europei» facevano ai rivoluzionari russi spuntava in modo commovente e talvolta comico il loro disorientamento dinnanzi al fenomeno «esotico» quasi «romanzesco» della rivoluzione, della clandestinità, del terrore praticato da ambo le parti. Questa impreparazione psicologica (e tecnica) può spiegare in gran parte l’esito lamentevole e talvolta grottesco dei tentativi fatti nel 1918-20 in diversi paesi occidentali per «imitare la Russia», nonché, in seguito, la scarsa capacità di adattamento ai metodi del «sotterraneo illegale» nella lotta contro la dominazione fascista. Più gravi conseguenze ebbe l’incapacità dei partiti socialisti di dare effetti meno platonici che le rituali manifestazioni del primo maggio alla decisione presa al Congresso stesso nel 1889 ove si costituì la Seconda Internazionale, di «combattere con tutti i mezzi» il militarismo, la gara degli armamenti, gli imperialismi e di impedire ogni guerra fra nazioni. Qualcuno ricorderà forse ancora (come il sottoscritto) il profondo senso di avvilimento alla chiusura del Congresso internazionale di Stoccarda (nel 1907) quando risultò chiaramente che nessuna resistenza efficace sarebbe stata concordata contro la strage mondiale i cui prodromi già ottenebravano l’orizzonte.

Ma intanto (sempre in quel periodo che corre all’incirca tra il 1900 e il 1914) era indiscutibile una funzione dei partiti socialisti organizzati su base legale, rappresentati nei Parlamenti e per principio (espresso nella nota decisione del Congresso d’Amsterdam del 1904) contrari ad ogni «partecipazione» ai governi nel regime attuale; il che significava il divieto ad ogni membro iscritto al partito di vincolarsi sia assumendo responsabilità che inevitabilmente pongono la ragion di stato al di sopra di ogni criterio di giustizia, sia beneficiando del minimo vantaggio materiale e di prestigio connesso ad una carica «ufficiale». Salvo poche eccezioni (che si riducevano ad individui isolati piuttosto che a gruppi politici) il partito socialista in Italia come in parecchi altri paesi era ormai l’unico difensore conseguente ed insistente della democrazia, cioè dei diritti dell’uomo e del cittadino secondo le formule proclamate in America e poi in Francia alla fine del secolo XVIII.

Scartiamo nettamente l’assurda supposizione che «democrazia» debba significare «popolo governato dal popolo stesso» Nessuna adunata di popolo (e neppure alcuna assemblea tampoco numerosa) ha potuto mai effettivamente governare (esercitando cioè in concreto i «poteri» esecutivo, legislativo, giudiziario ecc.) neppure in una minuscola città greca o in quei due cantoni rurali della Svizzera famosi come esempi di democrazia diretta. E se si ammette la delega della «sovranità popolare» sia di un uomo, sia di un partito politico, i risultati tipici che offre sinora l’esperienza della storia sono da un lato il cesarismo plebiscitario, dall’altro quella vera (o «nuova») democrazia che rende ora felici i polacchi i bulgari gli jugoslavi. La realtà della democrazia s’afferma non con la fiducia negli eletti ma con la possibilità di manifestare efficacemente la propria sfiducia verso di loro, di controllarli ad ogni passo, di limitarli in funzioni strettamente definite. Anche la forza di un Parlamento si manifesta non nella nomina di un governo, ma nella facoltà di rovesciarlo, nel discutere e criticare le leggi (che non possono essere «creazione collettiva» ma sempre sono testi elaborati da pochi competenti); quando un comitato di Salute Pubblica si sovrappone alla convenzione nazionale, il regime parlamentare e la libertà ch’esso è chiamato a tutelare sono di fatto aboliti. La sostanza dell’ordinamento democratico sta nella difesa dell’incolumità personale d’ogni cittadino contro qualsiasi arbitrio o eccesso della «potestà coercitiva» e nel raggiungimento di un massimo d’uguaglianza nella facoltà riconosciuta ad ogni individuo di conoscere e verificare tutti gli atti dei pubblici poteri. Al principio del secolo XX i partiti socialisti hanno saputo agire con successo in questo senso negli stati che potevano dirsi «democrazie» solo con moltissime riserve (per causa di tutti gli elementi autoritari che vi perpetuavano le gerarchie militari, burocratiche e soprattutto plutocratiche); persino in paesi semi-autocratici come la Germania, l’Austria-Ungheria e la Russia (dopo il 1905) non pochi soprusi venivano frenati per paura «del chiasso che susciterebbero i socialisti». Questa azione di vigilanza e di pressione democratica diretta dai socialisti non solo con le campagne elettorali, ma con la stampa, i sindacati, il ricorso a scioperi generali politici ecc. guadagnava senza dubbio in efficacia per il fatto che i socialisti si mantenevano fuori dall’«ingranaggio governativo», si sottraevano alle omertà e relative sanzioni cui è soggetto il «personale dirigente» dello stato e davano al pubblico affidamento di incorruttibilità. Ma, ben inteso, questa stessa circostanza per cui tutto l’apparecchio ingente di risorse materiali e organizzazioni amministrative rimaneva in mano dei nostri avversari, segnava i limiti della forza socialista; tutt’al più si sarebbe potuto riporre serie speranze nell’azione «dissolvitrice» di nuclei socialisti nell’esercito e fra il proletariato.

Per non lasciare nell’ombra l’origine di incongruenze e di disagi che hanno assai pregiudicato lo sviluppo del partito in Italia, come pure in Francia e in Belgio, giova ricordare l’influsso di una certa rigidità dottrinale. L’«ortodossia» marxista voleva che non solo i socialisti fossero (come abbiamo effettivamente constatato) i soli autentici propugnatori della libertà e dell’uguaglianza democratiche, ma che la classe operaia fosse la sola a potere acquistare coscienza di tali principii e ad impegnarsi nella lotta per la loro attuazione. Ciò era esatto in seguito a particolari vicende della sua storia politica e sociale, per la Germania. Ma nei paesi dove ben prima dell’«industrializzazione» intensa, le Rivoluzioni del 1789, del 1830, del 1848 (e parecchi momenti del Risorgimento) avevano impresso in larghi strati della nazione un culto mai più interamente offuscato per i Diritti dell’Uomo, l’appello dei socialisti, in quanto continuatori evidenti dei menzionati «gloriosi moti» di emancipazione, trovava eco in una cerchia più vasta che quella dei salariati delle officine moderne. Sennonché la socialdemocrazia tedesca esercitava nella II Internazionale una specie di primato soprattutto in questioni di dottrina. L’interpretazione rigorosamente «classista» fu adottata dai socialisti di altri paesi ma in pratica dovette spesso piegarsi a situazioni contrastanti con lo schema ortodosso; donde sorsero certe apparenze di insincerità e di opportunismo che in seguito la propaganda comunista non poteva mancare di sfruttare.

La funesta sorte del movimento socialista fu di vedersi costretto dagli avvenimenti ad assumere quasi all’improvviso nello stato e nella vita nazionale una parte che implicava la rinuncia alle sue essenziali funzioni sociali ed alla pratica applicazione dei suoi principii di pacifismo integrale e di internazionalismo. Un’ironia del destino ha voluto che proprio l’opera feconda della propaganda socialista e dell’azione sindacale, elevando la classe operaia all’importanza di un «fattore politico ed economico» senza l’adesione del quale ogni sforzo unitario della nazione era ormai impensabile, abbia imposto al partito socialista la scelta fra uno sfacelo (di cui non era più possibile dire che i socialisti nulla tenenti vi avrebbero perduto soltanto le loro catene) ed una compromissione totale con uomini ed istituzioni che nella «difesa della Patria in pericolo» inglobavano la conservazione di tutti i congegni d’oppressione e di ineguaglianza sociale avversati da noi durante decenni.

I fatti sono presenti a tutti e nessuna apologia può infirmare la durissima realtà della decadenza sociale, morale (appoggiando sul senso di «mores», costumi, implicito in questo termine) e colturale dell’Europa di cui questi eventi furono le successive tappe: dislocazione dell’lnternazionale e adesione di partiti socialisti alle «unioni sacre» nazionaliste del 1914-1918; logoramento della socialdemocrazia tedesca (Ebert, Scheidemann, Noske) nell’ingrato compito di salvare «ad ogni costo» il Reich e porre al sicuro i mezzi d’una rivincita che si identificherà con il trionfo di Hitler; culminazione dell’esperienza MacDonald in quel «governo nazionale» d’Inghilterra a cui fra l’altro si dovrà la politica che condusse a Monaco; necessità in cui i laburisti Attlee e Bevin si trovano di marciare sulle orme del «sacro egoismo» imperialista in Palestina, in Grecia, nella lotta contro l’egemonia economica degli Stati Uniti o contro l’egemonia militare della Russia; il primo governo Blum (che dichiara: «sono anzitutto francese e solo in secondo luogo socialista») memorabile per il «non-intervento» in Spagna, l’intensificazione degli armamenti, la svalutazione del franco (certo non vantaggiosa per i salariati) ecc.; un nuovo governo Blum, dieci anni dopo, che s’inizia con la guerra coloniale contro il popolo annamita, di cui pochi giorni prima lo stesso venerando capo della SFIO riconosceva (in un articolo del Populaire) i diritti all’indipendenza. L’elenco è superficiale, ma in tutti i casi che conosciamo l’azione di governo è stata imperniata su una «situazione fallimentare dello Stato nazionale» in latente o aperto conflitto con potenze rivali. Lo stato d’animo collettivo (per non dire psicosi) che prorompe quando impende la minaccia di catastrofi o quando si è in guerra, e ancora quando il compito urgente è di «ricostruire» dopo una disfatta o una (spesso non meno rovinosa) vittoria, è agli antipodi di quella coscienza critica dei valori umani su cui si fonda l’osservanza dei principi democratici e l’edificazione del socialismo. Non esiste un modo socialista di armare eserciti, fare funzionare le corti marziali, eseguire scientifici massacri. Può darsi che per «salvare il salvabile» e per salvare l’avvenire sia imperioso dovere anche dei socialisti di assumere in tali momenti le più ingrate responsabilità. Ma l’impostura ingiustificabile sta nel volersi persuadere e volere persuadere le «masse» che queste tragiche emergenze ci avvicinano ad un trionfo della giustizia sociale, della civiltà democratica e della fratellanza fra i popoli.

Il più tipico esempio è quello della rivoluzione russa. Il crollo del regime zarista ha tratto seco un totale sfacelo dello Stato (che come altrove s’identificava con la «nazione»). La speranza di Lenin e Trotzky che il collasso dell’ordine fondato sui privilegi delle minoranze plutocratiche si sarebbe esteso almeno a tutta l’Europa e che da un moto liberatore i popoli avrebbero ricomposto una vasta comunità su basi completamente nuove, non si è avverata. Quindi tutte le forze del partito comunista e tutti i mezzi del paese già stremato bastarono appena alla difesa -condotta con mirabile tenacia- del potere di comando conquistato su un lembo del disfatto Impero.

Per resistere, consolidarsi, estendersi il bolscevismo dovette dedicarsi interamente ed unicamente alla ricostituzione dello Stato, fino a renderlo più accentrato, più potente agli occhi dei formidabili nemici, più capace d’espansione imperialista di quanto mai fosse stata prima la monarchia dei Romanov. Che il «collettivismo» di masse irregimentate fosse qualificato democrazia e l’apparato gigantesco dell’industrializzazione con scopi quasi esclusivamente bellici venisse glorificato come fondazione del socialismo è stato un utilissimo espediente demagogico per uso interno quanto esterno. Ma oggigiorno bisogna essere d’una incurabile ingenuità o accecati dal fanatismo, o molto lontani dalla buona fede per affermare che l’operaio dei «combinat» sovietici o il contadino proletario dei «kolchoz», l’uno e l’altro sottoposti a condizioni di lavoro assai analoghe alla servitù della gleba, e sottoposti altresì ad una «tutela spirituale» forse più rigorosa di quanto mai era riuscita a mettere in pratica l’Inquisizione cattolica di Spagna, rappresentino la fase più evoluta della democrazia e quasi la realizzazione del socialismo. Del resto il generalissimo Stalin e lo stuolo di marescialli, poliziotti, segretissimi diplomatici e santi metropoliti che stanno in adorazione attorno al suo trono, inneggiano ormai alla «grandezza della patria russa» con aperto disprezzo per tutto ciò che è «straniero» (il principale capo d’accusa contro gli scrittori, musicisti, scenaristi di films testé messi all’indice dal Comitato Centrale staliniano del Partito Comunista dell’URSS è stata la loro contaminazione da «mode straniere») e la disinvoltura con cui un Tito o un Gomulka sono trattati mostra in qual poco conto Mosca tenga le pedine «proletarie» d’Occidente nel suo giuoco. E’ molto dubbio che il più lontano rapporto possa ancora sussistere fra le vedute di Lenin e l’azione svolta dai Molotov, Viscinski ed altri Gromyko al servizio di Stalin. L’occupazione della Manciuria è stata celebrata non come un successo del socialismo, ma come gloriosa rivincita sul Giappone che cancella l’obbrobrio della disfatta degli eserciti imperiali russi nel 1904 (come Mussolini invadendo l’Etiopia voleva vendicare Adua). Dopo la caduta dello Zar, nella primavera del 1917 i bolscevichi erano stati i più accaniti a fomentare il furore del popolo contro il Ministro degli Esteri Paolo Miliukov perché questi reclamava un controllo russo sui Dardanelli; ora vediamo l’«egemone autocrate» del Kremlino esigere gli stessi Stretti, quasi vantandosi di seguire le orme dei suoi augusti predecessori la zarina Caterina II e lo zar Nicola I. Malgrado le molte differenze nell’origine e nelle circostanze fra la rivoluzione russa e quella francese di centocinquant’anni prima, un’innegabile analogia si scorge nel modo in cui l’idolo della «nazione» ha in ambedue i casi soffocato le aspirazioni verso l’emancipazione sociale; anche i giacobini hanno sacrificato alla potenza dello Stato nazionale tutte le libertà e Napoleone ha ripreso i sogni di grandezza d’un Luigi XIV.

Individuo e società (1)

1938-1942.

Anche in Tempo Presente, Vol. III, n. 12, dicembre 1958

I

L’individuo umano —la persona cosciente(1)— non è concepibile che come “essere sociale” integrato in una comunità, educato, provvisto di modi di pensiero e di espressione articolata da questa società in cui nasce cresce muore, e se ha la nozione della morte —privilegio umano, secondo Malraux— è unicamente perché l’esperienza sociale gliel’ha inculcata; altrettanto valga per le nozioni di “progresso” e “regresso”, gioventù e vecchiaia, salute e malattia, fortuna e miseria, libertà e dipendenza, eccetera.

Sembra evidente che non esiste “società” distinta dalla somma degli individui che la compongono. Non che la vita sociale e quel che chiamiamo forma di civiltà non comportino realtà “materiali” molto più durevoli che gli organismi umani e capaci di dominare, determinare, soffocare le stesse “coscienze” individuali. Le “cose” che gli uomini fabbricano sopravvivono ad essi e con il loro “essere” comandano al volere, sentire, pensare; il linguaggio e tutto ciò ch’esso accumula di passate esperienze e “potenziali sviluppi” nella materialità di suoni o di segni è patrimonio di tutti e di nessuno; le “norme artificiali” (dalla distribuzione del bottino d’una caccia al regolamento dei connubi “secondo il grado di parentela”), per cui le società umane si distinguono da quelle di altre specie di animali, sono pure “imperativi” materialmente sanciti contro ogni arbitrio di individuali desideri o giudizi. Ma tutte queste “reti” o “meccanismi” di realtà sociali, che sembrano sovrastare all’individuo e quasi tenerlo prigioniero, possono essere efficienti soltanto per un continuo gioco di azioni e reazioni alle quali non possiamo assegnare altra origine e altro arbitro che le stesse coscienze individuali. La realtà, che si vorrebbe dire “corporea”, del tessuto sociale consiste unicamente in un sistema di molteplici “azioni reciproche” fra individui, con infinite gradazioni di spontaneità e di automatismi, di “piena coscienza” e di “subcoscienza”, di “alienazioni” passivamente accettate e di affermazioni di perturbante “originalità”.

L’enunciazione di queste evidenze banali non sembra del tutto inutile se si intende scartare dalla discussione sull’individuo e la società: a) anzitutto ogni appello a “verità rivelate”, “valori spirituali” trascendenti, e simili dogmatiche premesse; b) ogni esercitazione retorica sul tema dell’”uovo e la gallina”, cioè se vi sia precedenza (se non di origine, di “dignità” o di “finalità”) dell’individuo sulla società o viceversa. Quando l’individuo sembra “trascendere” le norme della società in cui vive, o ribellarsi contro di esse, tali “atteggiamenti personali” sono determinati —nella sostanza come nelle forme— da situazioni, esperienze, “rapporti con uomini e con cose create da uomini” che solo l’esistenza sociale ha potuto creare e sviluppare. Né il destino di Achille che sa di dover morire giovane e condivide l’illusione di molti uomini sani che anche dopo la fine della giovinezza la vita valga la pena d’essere “goduta”, né il destino di Edipo che malgrado le sue rette intenzioni si trova coinvolto in orride catastrofi, né quello di Amieto che senza esservi preparato o sentirsi veramente colpevole deve affrontare un “mondo uscito dai cardini” si possono inserire nella razionalità di “carriere” assegnate dagli individui entro il normale decorso di una “vita collettiva”. Vi si manifesta un fato che riduce l’intero genere umano a poca cosa entro l’”ordine cosmico”.

[1940-’42]

(1) Se si ricorda che persona etimologicamente significa maschera —aspetto agli occhi altrui— nel dire “persona cosciente” si cerca di combinare (o condensare) due serie di fenomeni: tutto quello che l’individuo è solo a sapere della propria esistenza e tutto quello che egli —in gran parte a sua insaputa— significa “visto dall’esterno” dai suoi simili e come necessario elemento d’una catena di successive generazioni.

II

La tripartizione Governo-Società-Popolo, comunemente usata dai pubblicisti e dagli storici russi durante più di un secolo, non è forse così sempliciotta, dal punto di vista sociologico, quanto potrebbe parere ai seguaci del marxismo e dei criteri stabiliti da questa dottrina per distinguere le “classi” sociali.

Si ammetterà che, qualunque sia il sistema di produzione, qualunque la struttura, semplice o complicata, della gerarchia di caste, ordini, classi “sovrapposte” l’una all’altra secondo una scala di ricchezza, potenza, prestigio, grado di cultura eccetera, qualunque l’apparecchio di istituzioni e di forze coercitive che mantiene l’unità di una grande o piccola “nazione”, sempre si troverà alla base la stragrande maggioranza di detta collettività, costretta non solo a lavorare per vivere, ma a vivere unicamente per lavorare. Questa moltitudine è stata sempre chiamata “popolo”. Lo “spazio vitale” degli individui dotati di coscienza e di intelligenza che compongono questo popolo —cioè il chiuso orizzonte delle possibilità materiali e morali in cui si esaurisce, dalla nascita alla morte, la vita di un uomo del popolo— è stato definito in un celebre passo del discorso preliminare che Proudhon ha posto in capo alla Justice dans la Révolution et dans l’Eglise:

“Da quando l’umanità è entrata nel periodo storico della civiltà, e per quanto lontano si risalga nei ricordi del passato, il popolo —come diceva Paul Louis Courier— altro non fa che pagare e pregare.

Prega per i suoi principi, per i suoi magistrati, per i suoi sfruttatori ed i suoi parassiti;

prega come Gesù per i suoi carnefici;

prega persino per chi sarebbe in obbligo, data la qualità sua, di pregare per lui.

Poi, esso paga quelli stessi per cui ha pregato;

paga il governo, la giustizia, la polizia, la chiesa, la nobiltà, la corona, la rendita, il proprietario, le milizie;

paga per ogni sua pratica per poter andare e venire, comprare e vendere, bere, mangiare, respirare, scaldarsi al sole, nascere e morire;

paga persino per avere il permesso di lavorare.

E prega il ciclo che, benedicendo il suo lavoro, gli dia di che pagare sempre di più.

Il popolo non ha mai fatto altro che pagare e pregare”.

Questo è esattamente il “popolo” che successivamente scoprirono Alexandr Radiscev (deportato in Siberia da Caterina II per aver descritto, nel suo Viaggio da Pietroburgo a Mosca, la condizione dei contadini ascritti alla gleba), poi Ivan Turgheniev (nei Racconti di un cacciatore) e Alexandr Herzen, infine i “nobili penitenti” del 1870.

Nei paesi dell’Europa occidentale la scoperta del popolo da parte di spiriti irrequieti, appartenenti appunto a quella “società” di cui cercheremo di spiegare come e perché si sentisse distaccata dal popolo, eppure non legata ai “dirigenti” che lo sfruttavano, potrebbe datarsi dalle cupe imprecazioni nel Testamento del misterioso curato Meslier (testo che gli enciclopedisti conobbero ma non osarono pubblicare integralmente) e di parecchi generosi sfoghi nei romanzi di Henry Fielding(1).

In Francia un medico di Nantes, A. Guépin, poco dopo il 1830 descriveva esattamente la situazione fatta all’uomo del popolo, che allora lavorava nelle officine 14 ore al giorno: “Per lui vivere significa meramente non morire. In più del pezzo di pane che lo nutrirà, lui e la sua famiglia(2), in più della bottiglia di vino che potrà per un attimo togliergli la coscienza dei suoi strazi, egli non chiede nulla, non spera in nulla”. Una “petizione alla Camera dei deputati” di Charles Béranger, “proletario, operaio orologiaio”, che fu pubblicata dalla rivista Le Globe il 3 febbraio 1831, esprime molto bene nell’esordio che cosa si debba intendere per popolo: “Ici j’entends par le peuple tout ce qui travaille, tout ce qui n’a pas d’existence sociale, tout ce qui ne possedè rien; vous savez qui je veux dire: les prolétaires… Dans les premières semaines du mois d’aoùt 1830(3) on en a dit du bien: Vous etes le premier peuple du monde. Ah messieurs, ils ont cru cela, les bonnes gens!…”

Nel marzo 1843 compariva dinanzi ai giudici del Lancaster Richard Pilling, tessitore, accusato di aver fomentato uno sciopero: “Signori giurati”, disse l’imputato, “ho 43 anni. L’altra sera mi si chiese se non avevo varcato la sessantina. Ma, fossi io stato trattato come certi altri, invece di sembrare sessantenne mi si darebbero probabilmente non più di 36 anni. Sono stato dall’età di dieci anni, durante venti anni, tessitore alla mano e poi ho lavorato dieci anni in una fabbrica e, salvo l’anno in cui i padroni di Stockport mi hanno rifiutato l’impiego, posso senza esitazione dichiarare che ogni giorno ho lavorato durante 12 ore. E più lavoravo, più era dura la fatica, e sempre più povero mi trovavo di anno in anno, sicché infine eccomi qui quasi esausto. Se i padroni avessero ancora una volta ridotto i salari del 25%, credo che avrei posto fine alla mia vita piuttosto che continuare… Eppure non sono uno di quegli irlandesi che tirano innanzi nutrendosi di patate fradice, né un servo russo venduto insieme alla terra ch’egli coltiva…”

È molto probabile che oggi milioni di operai giapponesi, cinesi, indiani, indocinesi potrebbero raccontare a un tribunale una storia non dissimile; ma anche altrove, dall’Andalusia alla Polonia, e dalla Basilicata agli Urali, una tale condizione dell’uomo e della “massa del popolo” non sarebbe da considerare eccezionale. Proprio in quest’anno 1940 si applica con rigore alla maggioranza della popolazione del globo ciò che Martin Nadaud, egli stesso operaio muratore, dice (nei Mémoires de Léonard) dei suoi compagni di fatica e di miseria nella Parigi del 1840: “Le peuple était pris comme dans un étau, ou comme un honnéte homme dans un cercle d’assassins”.

Al popolo s’oppongono direttamente i “principi, magistrati, sfruttatori, carnefici” ch’esso paga e per i quali prega. Il governo di uno Stato, di un esercito, di un’officina, di un’impresa di commercio o di credito, è un’occupazione appassionante, responsabile, provvidenziale. Gli uomini che detengono e maneggiano queste “leve di comando” non hanno tempo né voglia di pensare ad altro che al pieno successo del compito assunto: sicurezza, vittoria, egemonia, aumento di produzione, guadagno, costruzione di “piramidi” o di edifici utilitari, battaglia del grano o battaglia di colonne motorizzate. Per il ferocissimo Assarhaddon, re d’Assur, come per il mansueto Neville Chamberlain, la devastazione dell’Egitto o della Polonia, centomila morti o un milione di esistenze infrante significano unicamente una “circostanza” lieta o incresciosa in quanto riguarda o agevola il raggiungimento di uno scopo prefisso. Come per il capitano d’industria o lo speculatore in borsa, le carestie e le inondazioni, la lunghezza della giornata di lavoro, l’impiego dei bambini nelle fabbriche, il trattamento dei negri nelle piantagioni, la rovina del tenant irlandese o del rabassaire catalano, sono da “valutare” in funzione di certe cifre di profitti o di perdite a fine esercizio.

Geniali o mediocri, magnanimi o sordidi, gli uomini che governano (purché non siano dei malcapitati indegni del loro posto agli occhi di tutti i loro colleghi, superiori e inferiori) devono pensare ed agire esclusivamente in vista di una sempre più salda, efficiente, spieiata “dominazione” su uomini e cose. Il che non implica affatto una nozione grettamente egoistica del dominio; anzi, la quasi ascetica dedizione al fine “obbiettivo” di una più o meno splendida sistemazione di masse umane, e persino di una generica “felicità” di dette masse (oggi, domani, o fra un secolo) è negli uomini di governo piuttosto la regola che l’eccezione. Ma, nel fervore dell’azione, sarebbe debolezza colpevole cedere a considerazioni di semplice “umanità”. La “grandezza” di Pietro il Grande o di Lenin sta appunto in diretta proporzione con la loro assenza di sensibilità per tutto quel che riguarda le umili gioie e le umili sofferenze degli uomini governati.

Navigare non significa tuttavia affrontare continuamente burrasche e cicloni. Persino nell’econonomia capitalistica, fra le crisi e i booms vi sono intervalli di calmo andazzo; e la leggenda vuole che vi siano stati “popoli senza storia”, cioè non esposti a eroici parossismi di pagamento e di preci(4). Nei momenti di relativa quiete, quando non solo l’ordine e la sicurezza, ma anche il pane quotidiano si ottiene con sforzi abitudinari e perciò meno gravosi, i governanti possono distrarsi dalle loro nobili funzioni e anche il popolo può permettersi qualche rilassatezza, sia nei redditizi sudori che nei rituali gesti di adorazione. Nascono allora quelle oasi di “ozio” in cui Aristotele ha ravvisato le origini d’ogni “cultura dello spirito”.

L’osservazione del filosofo greco comporta qualche ovvio complemento. Aristotele pensava soltanto ai figli di ricche famiglie, i quali invece di aumentare il loro patrimonio con negozi o di partecipare al governo della città, si erano dedicati agli studi e alla meditazione filosofica. Ma la superiorità della “società” ateniese su quella di molte regioni elleniche, dove non mancava un’oligarchia opulenta e “oziosa”, sembra dimostrare l’importanza decisiva (per l’”umanizzazione” e l’affinamento dei rapporti sociali fuori dalle cure quotidiane imposte dal lavoro “produttivo” o “governativo”) di quel più largo respiro assicurato al popolo prima dalla legislazione di Solone, che liberava i contadini da molte servitù, poi dal sistema delle “liturgie” imposto ai ricchi e dei “tre oboli” pagati al cittadino povero affinchè frequentasse l’Assemblea e sedesse nei tribunali.

La civiltà attica comincia a illanguidire dopo che per dieci anni la “guerra di Decelea” ha rovinato i campicelli, vigne, frutteti sul modesto provento dei quali poggiavano tante esistenze modeste ma non tribolate, le giornate di fatica essendovi “spaziate” dalle numerose feste in cui nacquero la Tragedia e la Commedia. Alla completa decadenza di Atene contribuì certamente la reazione oligarchica sotto il protettorato macedone, che abolì l’”immorale” sussidio al minuto popolo; così questi fu guarito dall’insolenzà di voler ragionare, discorrere e ridere spensieratamente. Importa assai ricordare che effetti simili a quelli di Atene si ottengono soltanto se il lieve aiuto materiale rafforza, anziché abbassare, la “dignità” del popolo. Il pane e i rozzi divertimenti offerti dagli ottimati alla plebe romana (come ai nostri giorni il sussidio-elemosina ai disoccupati) inculcavano al popolo la coscienza della sua obbrobriosa e definitiva inferiorità; mentre il “triobolario” si sentiva confermato nei suoi sovrani diritti di “uomo ateniese”, modello di superiore umanità rispetto non solo ai barbari ma a tutti i greci.

Si aggiunga, per memoria, ancora una condizione senza la quale è poco probabile che il popolo possa contribuire alla fioritura di una vita di società: Socrate non aveva da sostenere grandi spese di vestiario, veicoli, mance per frequentare i convivi dove cingeva la corona di fiori freschi accanto agli uomini più illustri e più ricchi della Repubblica; l’inventario delle suppellettili di Alcibiade vendute all’asta mostra pure come il misero manovale del Pireo non corresse il rischio di essere umiliato, o avvelenato da invidioso livore, imbattendosi nelle vie della sua città in qualcosa che somigliasse allo sfarzo d’un Crasso portato in lettiga fra lo stuolo di clienti e di servitori, o alla visione, attraverso i grandi vetri illuminati, di una cena d’apparato all’Hotel Savoy o allo spettacolo d’un film rappresentante i sollazzi dei miliardari. Così, in Russia, l’intellettuale democratico riuscì a introdurre la sua “camicia alla contadina” e i suoi modi volutamente irriverenti in non pochi salotti aristocratici e convegni solenni. Per l’Occidente, si noterà che un letterato, un inventore, o semplicemente un “uomo piacevole” visibilmente squattrinato poteva sentirsi a suo agio alla tavola di un signore del Settecento, mentre faceva cosa savia rifiutando un invito in casa di un grande borghese dell’Ottocento.

Gli “interessi” e i rapporti che si sviluppano nelle ore di distacco dalle obbligatorie fatiche produttive o governative formano la trama di una “vita di società”. E, se la prosperità dura alquanto, si differenzia un ceto emancipato dalla necessità di lavorare (e quindi dalla voglia di pregare) e, almeno fino a un certo punto, attaccato alle seduzioni della vita privata, e talvolta anche a quelle della “vita interiore” ed emancipato dall’ambizione di dominare.

Quest’ambizione può non essere soppressa, ma deviata verso mete di carattere particolare: la ricchezza, il lusso, e tutto quel che può intendersi per “successo mondano”. Occorre tuttavia rammentare che solo nell’ambito della società, quale qui l’intendiamo, l’avaro, l’intrigante, il vanesio, il tiranno domestico, il dissoluto sono condannati dall’opinione e sbeffeggiati dalla satira come tipi nettamente “negativi”, “inumani” (o “troppo umani”), e quindi “antisociali”. Nel popolo, gli stessi vizi, o hanno troppo scarso campo di applicazione, o diventano addirittura una forza, per cui l’usuraio di villaggio, il prepotente, il furbo, il ruffiano si elevano a “condizione superiore”, conculcando i già compagni di miseria. Nella figura dell’”uomo di governo” tratti consimili saranno “inessenziali”, purché non intralcino l’azione con la quale si confonde il suo destino e che “sola importa al giudizio del pubblico”.

Potrà sembrare un lezioso concettismo il ravvicinamento dell’epiteto di “inumano”, applicabile agli eccessi dell’egoismo, a quello di “troppo umano”, che pure è d’uso comune per le “debolezze morali” della persona, soprattutto in quanto si riferisce all’adempimento dei “doveri verso il prossimo”. Ma volevo accennare in ogni modo al fatto che la ripugnanza per ogni eccesso, l’apollineo “nulla di troppo”, come la tesi dell’Etica a Nicomaco che “la virtù sta nel mezzo”, sono esigenze tipiche del sistema di rapporti proprio alla società secondo la definizione qui convenuta. La società prova disagio non solo di fronte a tutto ciò che sta al disotto d’un certo livello di dignità umana, ma anche al cospetto del “sovrumano”: il santo e l’eroe sono poco socievoli. Il teatro greco non sopportava atti di violenza in scena, e il teatro elisabettiano conveniva ai gusti di un popolo, piuttosto che a quelli di una società. La “società” russa non ha mai potuto accettare Dostoevskij senza riserve spesso ingenue per la sua “inutile crudeltà”. L’ingiustificata fiducia della “società” nella moderazione dell’uomo cosciente può pure spiegare la sua incapacità a difendersi contro ogni assalto di barbarie; non si tratta di vigliaccheria o “effeminatezza” di costumi: i selvaggi sono molto più proclivi alla pusillanimità e al panico, i barbari molto più attirati dalle voluttà sfibranti. Si tratta della circostanza che l’attaccamento a certi “modi di essere” ha preso il sopravvento sul semplice istinto di conservazione.

Il ceto intermedio, insinuatosi tra i governanti e il popolo e libero dalla necessità materiale, è stato chiamato “società” per antonomasia. Non può identificarsi né con una classe economica (distinta cioè secondo la parte che le spetta nel “ sistema di produzione”) né con la “classe politica” o l’elite di Pareto, e meno che mai con il comodo limbo delle “classi medie”.

Nell’Italia della Controriforma evocata da G. A. Borgese nel suo “Goliath” le classi medie (piccoli possidenti, mercanti, artigiani, legulei, medici, professori, eccetera) continuavano ad esistere ma non potevano certo pretendere a quella “rispettabilità universalmente riconosciuta” che, secondo la teoria liberale, fa del “terzo stato” o del “popolo grasso” il più stabile sostegno dell’edificio sociale. Perché, da un lato, le cure casalinghe e professionali tenevano queste classi chine sul solco quasi come il servo della gleba, e dall’altra esse si trovavano irretite in un esoso, sospettoso, pettegolo sistema di governo, nel quale la delazione e la sorveglianza del vicino di casa erano elementi non meno importanti che il prete e lo sbirro.

Abbastanza curiosa —per capire certi aspetti della “società”— è la quasi esclusione da essa del bottegaio, anche facoltoso(5). Il mondo dei mercanti russi, raffigurato nel dramma di Ostrovski, veniva opposto come “regno delle tenebre” all’altra minoranza elevatasi al disopra del popolo (e non incorporata nel ceto governativo) che aspirava alla cultura, all’emancipazione della persona, alla riforma dei costumi e delle istituzioni nel senso di una sempre più comprensiva umanità. La storia di César Birotteau mostra, punita con la rovina dell’azienda (al governo della quale fino allora faceva capo tutta la vita della famiglia, confinata nel retrobottega), l’imprudente ambizione di lanciarsi nelle pompe e negli imbrogli della “vita di società”. In “Dombey and Son” la gestione della grande ditta, l’orgoglioso feticismo del successo commerciale assorbono e deformano tutto l’animo di un uomo non malvagio per natura, al punto da renderlo inumano e infelice nei rapporti con la moglie, i figli, i veri amici; e solo dopo il fallimento dell’impresa, Dombey padre può conoscere la gioia degli affetti spontanei e delle buone azioni “gratuite”; per contrasto Dickens, nello stesso romanzo, fa sbocciare la sagace ingenuità dei migliori sentimenti umani e la più delicata tolleranza verso il prossimo nel negozio del “Guardiamarina di stagno” dove, nel corso di due settimane, non sono entrati che tre avventori, e non han comprato nulla.

In un’operetta “libertina” e piuttosto mediocre di quel secolo XVIII, che in Francia segnò l’apogeo della “vita di società” (il Colporteur di Chévrier), si racconta di una marchesa: “Il y a longtemps que, retirée du grand monde, ette s’est mise dans le commerce”. E vi si spiega come si possano distinguere “quatre sortes de réformes que les femmes qui ont vécu embrassent quand elles veulent faire une fin”: il mecenatismo, la devozione, la gerenza di una bisca e il mestiere di “intrigante a Corte”, mestiere il quale comporta “il traffico di vescovadi, abbazie, magistrature, gradi dell’esercito, pensioni, appalti, grazie sovrane”. Si noterà che queste quattro “posizioni sociali” —lucrose per l’anima o per il corpo— esistevano certamente anche in Italia e in Spagna alla stessa epoca senza che per ciò la società di questi paesi potesse paragonarsi a quella francese.

Un altro tratto caratteristico è l’importanza dei contatti con “elementi stranieri” (quindi dei viaggi, dell’assimilazione di mode estere, eccetera) per lo sviluppo della “società”. Dal liberale trattamento dei metechi ad Atene all’animazione cosmopolita di Parigi e di Pietroburgo, dal giovane Ippocrate che viene a svegliare Socrate prima dell’alba per annunziargli l’arrivo di Protagora, alle accoglienze che “tutta Mosca” fa a Madame de Stael(6), dalle fiere di Troyes, di Lione e di Bruges, dove tanti italiani del Tre e Quattrocento acquistarono una “visione europea” dei fatti sociali, alla continua circolazione di “novità” e di notizie su cose lontane lungo i consueti itinerari di pellegrini, fraticelli, scolari d’università, “compagnons du Tour de France”, giocolieri, compagnie d’attori, compagnie di ventura: sempre l’incontro di gente di diversa origine e almeno temporaneamente distaccata da “fisse” occupazioni si è manifestato fecondo per una solidarietà umana fuori dalle norme utilitarie o giuridiche. Mentre il rigido spirito di casta, il nazionalismo xenofobo, il provincialismo condannano al torpore ogni vita di società.

In “Mein Kampf” appare in modo chiaro come l’aspetto dell’ebraismo che più faceva andare in bestia il tristo imbianchino, capitato dalla natia Braunau nella babilonia viennese, fosse la “ spudorata petulanza” di questa gente socievole nei caffè, salotti, sale di redazione, corridoi del parlamento, eccetera. Si è detto peraltro che i signori della Rinascenza e, molto prima di essi, i tiranni greci “favorivano la licenza dei costumi” per consolare i sudditi delle perdute libertà politiche. Così qualcuno sostiene oggi che, sotto un regime totalitario, il vile borghese può beatamente rannicchiarsi nella “vita privata”. Il che non è molto evidente né a Mosca né a Berlino, dove a nessuna ora del giorno o della notte anche il più pacifico cittadino è proprio sicuro di non ricevere l’intempestiva visita della Gestapo o dell’ex-Ghepeù, o il brusco avviso di cambiar professione, trasportarsi in campagna, non bere più caffè, o bere il “té genuinamente germanico” (a base di buon nordico fieno), e così via. Il punto importante, tuttavia, è che l’”autonomia” della vita privata non consiste affatto in quei gesti e quelle cure con cui poteva soddisfarsi anche lo schiavo romano nell’ergastolo (contubernio, peculio, pettegolezzo, superstiziosi riti). L’agricoltore, l’artigiano, il medico, il pedagogo si sentono rispettabili e membri di una società civile solo se, attorno alle necessità quotidiane (lavoro, famiglia, mangiare, bere, dormire), esiste una sfera di esperienze intime e di rapporti con i simili dove si possono dimenticare ogni assillo di scopi economici e ogni costrizione connessa alla “gerarchia” politico-sociale. È una sfera di sicurezza, di continuità, di norme spontaneamente accettate dalla ragione e dal sentimento: una sfera di pace.

E’ quello che in tutto questo ragionamento cerchiamo di identificare con la “società”. Le norme che or ora abbiamo menzionato sono quelle dei “costumi” (mores) e quindi della “dignità” umana. Se esiste questa sfera di vita, si sopportano (e anzi si giustificano idealmente) le due sfere liminari: quella del “sudore della fronte” e quella del “date a Cesare”. Ma deve pur esservi una ragione ben fondata nella coscienza umana per cui tanti miti —a cominciare dalla cacciata di Adamo dal paradiso o dalle descrizioni del regno di Saturno— hanno immaginato la vera felicità dell’uomo come possibile unicamente in un mondo senza “sistema economico”, senza governo, senza fasti e nefasti della storia.

Nessuna meraviglia quindi che nell’Italia del Seicento non si manifestassero che ben misere vestigia d’una vita di società. “O delizie italiane —esclamava il Serlio, ricordando le feste date da Alfonso di Napoli a Poggioreale— come per la discordia nostra siete estinte…”

Senonché la prosperità e la sicurezza di tenere un rango “rispettabile” tra le alte sfere e il basso popolo non bastano neppure per fare della “classe media” il focolaio d’una civile socievolezza come qui l’intendiamo. I romanzi di Jane Austen al principio dell’Ottocento ritraevano la “vita moderna” nell’ambiente della upper middle class britannica, orgogliosa delle sue libertà costituzionali e cosciente della forza che le conferivano le fortune ogni giorno aumentate dal progresso industriale, dalle spoglie dell’India, dal dominio dei mari. Eppure si ha l’impressione di un modo di vivere privo di spontaneità e spesso caricaturale; c’è un sussiego stucchevolenell’imitazione di abitudini nobiliari, ma più ancora la goffaggine e la meschinità appaiono nell’adattamento ai precetti di un arcigno e sospettoso “moralismo” delle maniere, dei gusti, dei divertimenti, delle forme di gentilezza o di disinvoltura, che la gentry descritta due generazioni prima nei romanzi di Smollett e di Fielding praticava con schietto, esuberante (e talvolta rozzo) slancio di vitalità.

La ricca borghesia inglese si iniziava alle seduzioni del “vivere spensierato”, conservando intatto un senso di invidiosa venerazione per le gerarchle stabilite e l’orrore per il minimo strappo ai rigidi tabù della pudicizia (o dell’ipocrisia) cristiana. Mentre, alla stessa epoca, i nuovi ricchi sotto il Direttorio in Francia cercavano di tornare ai piaceri e alle eleganze del secolo di Luigi XV con accentuato “impudore” e noncuranza nei riguardi di ogni promiscuità(7). Trent’anni dopo, commentando l’insurrezione parigina di luglio, il grande organo liberale (benthamista) inglese, il “Morning Chronicle” (3 agosto 1830) osservava: “Si può affermare che gli avvenimenti di Parigi hanno recato un colpo decisivo alla superstizione; e ciò perché questo male in Francia non è, come in Inghilterra, radicato nel popolo medesimo. I francesi non sono proni come gli inglesi all’influenza di un tetro fanatismo. Là basta che il governo rinunci a imporre per forza la supremazia clericale. Da noi è tutt’altra cosa…”

Questo sogno di una “vita facile” è il vero peccato originale contro il quale da Catone il Vecchio fino a certe lugubri radiofonie dell’estate 1940 non hanno cessato di inveire i precettori di una umanità laboriosa ed eroicamente rassegnata al suo destino. Il quale destino consisterebbe nel vivere e soprattutto nel morire per “grandi cose”: splendore di sovranità, miracoli di obbedienza, durevoli incatenamenti di masse, ricchezze possibilmente agglomerate in un luogo e perpetuate nel possesso di pochi padroni, eccidi memorabili. Quando Paolo di Tarso o gli apostoli del manicheismo o gli anabattisti, sorti dal popolo stesso, persuadevano questi a rinunciare alla cattiva, bassa, illusoria “facilità” (offerta sotto forma di godimenti assai rozzi ai più scaltri, in un sistema economico e politico dove i vicendevoli agguati e lo sfruttamento del “prossimo” sono laregola); quando persuadevano il popolo a sopportare pazientemente le fatiche e anche —secondo l’Epistola ai Romani— ogni signoria, almeno gli promettevano come ricompensa il prossimo avvento del millennio, e immediatamente l’esaltazione intima della purificazione, la gioia liberatrice di essere tra i veggenti, l’effusione di fraterno amore fra gli “eletti”. Ma esortazioni quasi identiche, e magari appoggiate sulla medesima “divina rivelazione”, in bocca a coloro che governano (e che sono ben decisi a mantenersi nei loro diritti e doveri di governanti) non possono avere che un significato: ridurre, se non sopprimere addirittura la “società” per svincolare da ogni paralizzante riguardo gli atti di comando e allontanare dal popolo la tentazione di voler fare altro che lavorare, prolificare, umiliarsi nelle devozioni prescritte.

Comunque, è un fatto che, dove sono rigorosamente osservate le leggi di Licurgo o domina la santità delle milizie cromwelliane o l’incorruttibile Massimiliano intende imporre il regno della virtù, non v’è posto per i modi di vita in cui si manifesta la “società”.

La “douceur de vivre” che ricordava Talleyrand aveva allietato l’epoca in cui la monarchia assoluta s’impersonava nell’innocente Luigi XVI e le pubbliche finanze erano gestite con amabile (o spudorata) noncuranza da un Calonne. Ma fu pure allora che si videro i privilegiati plaudire sinceramente alle diatribe di Figaro contro i privilegi e le migliori intelligenze abbandonarsi senza ritegno a “generose illusioni”, scontate poi in modo ben triste col rapido crollo di quel sistema di governo “mansueto” che la Costituente e la Legislativa avevano creduto di poter imbastire per la nazione rigenerata. Lo scopo delle riforme promulgate sotto la rubrica dei “Diritti dell’uomo” era evidentemente di estendere il “dolce vivere” —e anzitutto una giusta comprensione di ciò che rende la vita degna di essere assaporata— anche ai contadini di Bretagna e di Alvernia, ai proletari del Faubourg Saint Antoine e di Lione, i quali non devono aver figurato con molto rilievo nel ricordo del vescovo di Autun, divenuto principe di Benevento.

L’ardimento degli uomini del 1789 (s’intendono i più sinceri e bene intenzionati, il fatto significativo essendo tuttavia che con il sentimento loro coincideva la moda intellettuale, il contagio spirituale dell’epoca) era sostenuto dalla convinzione che fosse possibile fare dello Stato e dei suoi mezzi di coercizione uno strumento per la “comune felicità”, purché se ne dirigessero e controllassero con oculatezza i congegni raddrizzati. Così come il socialismo crederà di assicurare l’instaurazione di rapporti equi e fraterni fra gli uomini, cioè il trionfo di un vero e perpetuo “Stato di società”, con l’adeguato governo del lavoro produttivo e della distribuzione dei beni prodotti. In qualche modo la società avrebbe dovuto o fondersi con lo Stato, o trasformarsi essa stessa in una potenza capace di imporre la sua “volontà collettiva” tanto al singolo “particolare” quanto all’intero groviglio di “istituzioni”. Con ciò da un lato queste istituzioni riassumevano un carattere sacro (di cui sarebbe stato blasfemo porre in dubbio la “legittimità”) e d’altra parte la massa del popolo come tale, cioè come gregge che “lavora e che prega”, veniva d’un tratto inclusa (almeno virtualmente) nella “società”(8).

Ora il paradosso di quell’insieme di sentimenti, di reciproci rapporti tra gli uomini, di “costumi”, di discorsi e giudizi che tentiamo di riassumere nella nozione di “società” fu di concludere nell’obbligo della passione politica (“Nessun uomo retto può esimersi dai doveri del pubblico servizio”) e quindi nel desiderio di partecipare al governo nonché di sentirsi strettamente uniti all’intero popolo, partendo da una avversione profonda, spesso “cinica” sia per tutte le faccende governative sia per le “plebi” abbrutite dalle fatiche e dalle superstizioni.

L’ironia è un fattore essenziale di ogni emancipazione umana. Alimentata dai contrasti enormi che presenta una civiltà molto elaborata, cioè un ordinamento di grandi masse umane per mezzo di convenzioni complicate e contraddittorie (essendosi esse accumulate nel succedersi di necessità o pretesti dimenticati), l’ironia si esercita in aiuto di una molto seria e quasi paurosa difesa dell’individuo e della sua privata esistenza fra la Scilla e la Cariddi di armatissimi potenti e di turbe pericolosamente frenate. È ovvio allora l’aguzzarsi estremo del sarcasmo…

Un altro periodo, durante il quale la “vita sociale” ha potuto dilatarsi in Francia con innegabile “lietezza” di modi e di sentimenti, rimane connesso al regime che un celebre pamphlet di Robert De Jouvenel ha definito la République des camarades, sottolineando con appena qualche esagerazione il prevalere dei rapporti di amicizia su ogni razionale criterio di strenua amministrazione e di “rendimento” economico. Ma quei tempi sono forse ancora meglio qualificati dall’effervescenza della pubblica opinione per il processo del capitano Dreyfus: nessun rispetto delle istituzioni, nessuna ragion di Stato, e in molti casi neppure gli interessi di famiglia, di carriera, di professione poterono allora controbilanciare l’indignazione per l’ingiustizia patita da un solo uomo.

Se la società ha tendenza a ignorare i sistemi di subordinazione e coordinazione su cui poggiano la “salute pubblica”, la maestà dello Stato, i gloriosi meriti degli uomini di azione, il buon andamento degli affari, essa mostra pure uno scarso rispetto di ogni valore “sacro”. È quasi sempre un segno di progredita socievolezza la riduzione delle cerimonie a forme discrete, la “secolarizzazione” dei miti nell’arte.

[1938]

(1) Penso in particolare alla History of the Life of the late Mr. ]onathan Wild the Great (che è del 1743) dove questo passo apparirà, spero, abbastanza esplicito: “It is well said of us, the higher order of mortals, that we are born only to devour the fruits of the earth; and it may be as well said of the lower class that they are born only to produce them for us. Is not the battle gained by the sweat and danger of the common soldier? Are not the honour and fruits of the victory the general’s who paid thè scheme? Is not the house built by the labour of the carpenter and the bricklayer? It is not built for the profit only of the architect and for the use of the inhabitants who would not easily have placed one brick upon another? Is not the cloth or the silk wrought into its form and variegated with all the beauty of its colours by those who are forced to content themselves with the coarsest and vilest part of their work while the profit and enjoyment of their labours fall to the share of the others?…” [Si dice giustamente di noi, specie superiore fra i mortali, che siamo nati solo per consumare i frutti della terra; e si potrebbe altrettanto giustamente dire della classe inferiore che son nati solo per produrli per noi. Non è grazie al sudore e ai rischi del semplice soldato che si vincono le battaglie? E l’onore e i frutti della vittoria non vanno forse al generale che escogitò il piano? Non è con la fatica del carpentiere e del muratore che si costruisce la casa? E non la si costruisce forse unicamente per il profitto dell’architetto e per l’uso degli abitanti, i quali sarebbero stati a mala pena capaci di mettere un mattone sull’altro? Non sono il panno e la seta lavorati nella loro forma e variegati in tutta la bellezza dei loro colori da quelli che son costretti a contentarsi della più rozza e vile parte del loro lavoro, mentre il profitto e il godimento delle loro fatiche vanno agli altri?]

(2) A una famiglia operaia composta di 4-5 persone, 196 franchi dovevano bastare per cibarsi tutto l’anno; pur privandosi all’estremo, essi non potevano spendere meno di 150 franchi per il solo pane; rimanevano quindi 46 franchi per il sale, il burro, un po’ di cavoli e un po’ di patate. [A. Guépin: Nantes au XIX siècle, 1835].

Cento anni dopo, nel 1935, inchieste sulle condizioni degli operai nell’URSS “socialista”, studi estremamente “oggettivi” corredati da abbondanti statistiche sui disoccupati in Gran Bretagna e negli Stati Uniti d’America, e anche molte rivelazioni sui salari percepiti da certe categorie di lavoratori (specie lavoratori a domicilio) in Francia alla vigilia degli scioperi del maggio-giugno 1936, hanno mostrato come per diecine di milioni di uomini, donne, bambini del popolo continuasse a sussistere lo stesso livello d’un “vivere che equivale soltanto al non morire”.

(3) È noto che, per rovesciare Carlo X e il regime aristocratico, i fabbricanti di Lione chiusero tutte le officine e che i mercanti setaioli mandarono i loro impiegati dagli artigiani con l’ordine (sotto pena di vedersi rifiutare ogni lavoro nell’avvenire) di recarsi in piazza e di battersi contro le regie truppe. [O. Festy: Le mouvement ouvrier au début de la Monarchie de Juillet entre 1830 et 1834, Parigi, 1908].

(4) Forse non è pura leggenda. Le deduzioni abbastanza probabili che gli archeologi hanno creduto di poter trarre dall’esplorazione degli abitati dell’età “neolitica” e soprattutto la constatazione d’una straordinaria, ininterrotta stabilità dei villaggi allora popolati e dei campi allora dissodati e delimitati (stabilità bene illustrata da Gaston Roupnel: Histoire de la campagne francaise) tenderebbero a farci credere che durante sessanta o ottanta secoli l’Europa occidentale ha vissuto in condizioni di “pace perpetua” in piccole comunità collegate da rapporti di buon vicinato e di traffico lento, senza eroiche commozioni degne “di passare alla storia”.

(5) L’ostracismo del mercante sicuramente si connette al preconcetto “classico” così esposto da Montesquieu [“Esprit des lois”, libro V]: “Enfin tout commerce était infame chez les Grecs. Il aurait fallu qu’un citoyen eùt rendu des services à un esclave, à un locataire, à un étranger: cette idée choquait l’esprit de la liberté grecque. Aussi Platon veut-il dans ses lois qu’on punisse un citoyen qui ferait le commerce”. Ancora nel 1835 Lord Melbourne, Primo Ministro, scriveva al suo collega Lord John Russell: “Is it certainly true that I always admitted a man’s being a trader to be an objection to his becoming a Magistrate… after all Country Gentlemen have held and do hold a higher character than Master Manufacturers”. [“È certamente vero che io ho sempre ammesso che il fatto che un cittadino fosse un commerciante costituiva un’obbiezione al suo divenire magistrato… dopo tutto il nobile proprietario di terre ha occupato e occupa un rango superiore a quello del fabbricante”.] Al che Lord John Russell rispondeva: “The landed gentry are very respectable and I have always found them kind and humane, but they are certainly the class in this country most ignorant, prejudiced and narrow-minded of any. The uneducated labourers beat them hollow in intelligence”. [“La nobiltà terriera è molto rispettabile, e io l’ho sempre trovata gentile e umana, ma è certo la classe più ignorante, più piena di pregiudizi, più stretta di mente che ci sia in Inghilterra: i contadini ineducati la superano di molto, quanto a intelligenza”.]

I fuori-classe (déclassés) hanno perpetuato non poche fisime dell’orgoglio aristocratico. Tuttavia una giustificazione più umana (o più schiettamente “sociale”) può essere data alla ripugnanza per una cortesia interessata, utilitaria, stereotipata verso un “pubblico” indifferente, mentre ogni vera gentilezza di modi significa riguardo per la persona altrui senz’altro scopo che quello di un “commercio” fra animi tutto diverso dagli scambi lucrosi designati con lo stesso vocabolo.

(6) Descritte da Pushkin nel frammento di un romanzo in prosa sulla società russa nel 1812, rimasto appena abbozzato. Potrebbe riuscire curioso un paragone con i modi impacciati della “società provinciale” di Weimar, che si intravedono nei ricordi di Goethe (Annalen oder Tags-und Jahreshefte) sul soggiorno di Madame de Stael e di Benjamin Constant a quella corte nell’inverno 1803-’04.

(7) Per capire il fascino esercitato da Parigi su tutti gli uomini che nelle cinque parti del mondo sentivano l’oppressione del provincialismo e la nostalgia di una socievolezza “senza obblighi né sanzioni” conviene ricordare come in Francia —fin dai tempi della Reggenza, ma soprattutto in quel periodo tra il 1796 e il 1830 di cui qui si discorre— ai modi di vivere e soprattutto di gustare la vita che sono il proprio della “società” si sia sentito capace di aspirare anche un largo ceto, l’equivalente inglese del quale doveva rimanere, quasi fino al termine dell’età vittoriana, dominato dal severo conformismo d’osservanza presbiteriana, metodista, eccetera. L’epicureismo sfacciato ma “senza pretese” della minuta gente, cosi come lo esprimevano le canzoni di Béranger o i romanzi di Pigault-Lebrun e di Paul de Kock, ha creato un alone di “allegria generale” in una molto ampia “democratica” periferia della società francese: pur sprezzando il vile livello di colali “popolarizzazioni” dei “lumi del Settecento”, pochi hanno potuto resistere all’immediato contagio dell’atmosfera di libertà, di facilità, di bonaria petulanza, che questa espansione della società ha suscitato.

(8) L’avvertire i pericoli di questa incorporazione automatica sarà uno dei meriti del sindacalismo francese, un secolo più tardi. Fra molte dichiarazioni caratteristiche si può ricordare questo passo di una relazione di Trévennec (rappresentante della “Borsa del lavoro” di Lorient) al congresso di Marsiglia nel 1908: “II faut des hommes libres. Si prompt et énergique qu’aurait pu étre le geste de suprème révolte collective, rien ne prouve que les hommes auxquels on devra ce geste seront capables de rendre viable la société nouvelle. Une organisation créée dans l’ardeur révolutionnaire, dans l’enthousiasme de l’action réformatrice n’est pas assurge d’étre durable”.

III

Presso i popoli detti “primitivi”, la comunità poco numerosa (in cui l’individuo si “integra” quasi completamente, invece di sentirsi “coordinato” e “subordinato”) ci appare costituita in modo da combinare intimamente —in gesti che hanno tutti un significato magico— le funzioni “produttive”, quelle “governative”, e anche certi atti, interessi, svaghi che, nelle collettività “complicate”, si differenziano come dominio proprio di quel che abbiamo chiamato la “società”. La famiglia e le “classi d’età”, la caccia o la guerra, il lavoro e le feste sono regolati secondo gli stessi criteri, sotto la direzione dei medesimi anziani, e per di più sono sfere d’attività a cui tutti i membri della tribù partecipano con identica comprensione. A ciò corrisponde quella “mentalità pre-logica” studiata da Lévy-Bruhl, tratto significativo della quale è la non-distinzione, o fusione, di quel che noi siamo soliti separare come esperienza religiosa, emozione artistica, cognizione intellettuale, senso morale, e che si condensa nella forma genuina del “mito”.

Questo stato d’equilibrio, o piuttosto d’integrazione, di tutti gli atti abituali che concorrono a soddisfare i vari bisogni di una collettività primitiva (ed è verosimile che tale equilibrio si rispecchi nella coscienza come nozione di una Giustizia cosmica) basterebbe a spiegare il fatto che i popoli primitivi, se risparmiati da brutali interventi d’una forza esterna, tendono a non mutar mai nulla nel loro modo d’esistenza, e in particolare avversano qualunque innovazione “tecnica”.

Evidente è invece come lo squilibrio spinga a un dinamico progresso (o regresso) perché, alle mutate condizioni d’una sfera dell’esistenza sociale, devono adattarsi tutte le altre manifestazioni della medesima collettività. Il marxista non esiterà ad affermare che, in ogni caso, convien cercare l’inizio dello spostamento in una invenzione, o in un perfezionamento notevole, o in una decadenza della “tecnica produttiva” o di certe risorse: materie prime, fertilità del suolo, vie di commercio; ne risultano rapporti nuovi fra le persone che sono impegnate nel “processo produttivo”, e a questi mutati rapporti si devono necessariamente adattare le “sovrastrutture” giuridiche e ideologiche. Vi possono essere, anzi sono press’a poco inevitabili, ritardi di qualche parte del sistema nel mettersi al passo con la “linea generale” inesorabilmente prescritta dalla “dialettica” del movimento storico; donde vari disagi, conflitti, rivolte e, anzitutto, la “lotta di classe”, potente incentivo di ulteriori “progressi”. Un discepolo di Proudhon potrà sostenere che le alterazioni d’un sistema economico, ma soprattutto la “dismisura” dei potenti nel conseguire immediati profitti e nell’affermare la loro autorità, suscitano un generale disordine e un diffuso sgomento morale: la “dignità” di molta gente essendo calpestata, il popolo non riesce più a vivere secondo il “buon costume”; le nozioni del giusto e dell’ingiusto si confondono, e ci vuole uno sforzo eroico per ritrovare e restaurare la Giustizia, senza la quale nessun consorzio può realmente sussistere.

Comunque, le differenziazioni (“divisione del lavoro”) e le più o meno violente dissidenze entro un gruppo costretto a vivere insieme ingenerano due serie di conseguenze che, per comodità teorica, si possono considerare separatamente. L’una si riferisce alla situazione dell’individuo rispetto alla collettività (e agli organi che esprimono o pretendono di esprimere la “volontà generale”). Storici e sociologi hanno dimostrato con abbondanza di documenti come la disgregazione della famiglia patriarcale, della gens, della fratria, della tribù, e in altri casi la decadenza e lo scioglimento delle corporazioni di mestiere, abbiano liberato l’individuo dalla tutela di un ambiente ristretto e, si può dire, “intimo”, ma sempre in modo da rinforzare la dipendenza dello stesso individuo da istanze più alte, più impersonali, più inflessibilmente regolate e regolanti: lo Stato, l’anonima direzione d’una grande officina, la legge della domanda e dell’offerta sul mercato, gli imperativi della pubblica opinione.

È stato ripetuto a sazietà il parallelo tra lo schiavo che, bene o male trattato, è sicuro di trovare sempre il pane quotidiano e un giaciglio nella casa a cui appartiene, e il salariato “libero” di morire sul lastrico senza che nessuno ne risenta responsabilità. Così pure, è abbastanza trito il tema dell’isolamento senza reale indipendenza di un uomo vivente in mezzo alla moltitudine d’una grande città e astretto a modi di vestire, di mangiare, di abitare, di divertirsi, di pensare da cui è esclusa la minima possibilità d’invenzione, di scelta, di fantasia personale. Sorgono in queste circostanze tutti i problemi e i paradossi dell’”individualismo”: la famosa opposizione fra libertà esteriore di atti e discorsi e libertà interiore della coscienza; l’esame delle virtù contrarie a una leale e lieta adesione alle norme vigenti, alla “fede dei nostri padri”, al comune buon senso e d’un più o meno arduo e pericoloso uso del rigore “critico”, della “sincerità” o dell’”originalità” nelle opere e nei sentimenti; la controversia sui limiti e sul valore dell’”azione individuale”, in quanto può più o meno pesare sulle sorti della collettività o addirittura sul “corso della storia”.

Ma l’essenziale è che, sotto forma di ragionamento chiaro o di confuso sentimento, l’uomo diventa un problema di fronte a se stesso. Quando s’accorge d’essere “governato” per fini che non riesce a conoscere e d’essere trascurato, non appoggiato, non capito, nelle circostanze che più gli premono, gli viene naturale di chiedersi: “E che ci sto a fare io, qui?”. In troppi casi, egli vede la “folla sconosciuta” vivere e arrangiarsi come se lui, il singolo Tal dei Tali, non esistesse affatto; quasi per ritorsione, egli penserà che una parte della sua vita —e non la meno stimabile— può svolgersi come se “gli altri”, la comunità di cui è pur membro, non vi fossero. Già non vi è più coincidenza fra l’universo naturale e quello sociale, fra la mitologica Giustizia del cosmo e l’apparecchio di giustizia che regola i rapporti sociali. L’individualismo diventa un atteggiamento ben definito (e, per connessioni solo in apparenza paradossali, diventa anche una “forza sociale”) quando l’Io si pone direttamente in faccia al Tutto (l’Essere, Dio, la Natura, l’Intelligibile, il Bene assoluto) ignorando —o superando— le istanze intermedie. Se, emancipandosi dalla famiglia, l’individuo veniva a diretto contatto con lo Stato, da una “piccola patria” passava a una più grande, eccetera, adesso, al dilà di tutti i consorzi “transitori”, crede di vedere la più stabile realtà del “genere umano”; e questo, a sua volta, sembra offrirgli un appoggio che nei rapporti sociali concreti non sempre si trova: l’idea dell’Umanità aiuta a vivere, investendo l’individuo delle sovrane prerogative e responsabilità dell’homo sum.

L’altra serie di effetti prodotti dallo sviluppo del “corpo sociale”, nel senso d’una sempre maggiore “articolazione”, è l’”estraneità” reciproca dei compartimenti nei quali si “specializzano” le varie forme d’attività che pure concorrono tutte a mantenere unito e capace di durare lo stesso gruppo: città, nazione o impero. Da un lato, fra il contadino e l’operaio industriale, l’ingegnere e il banchiere, il mercante e l’artista, e così pure fra l’imprenditore e il manovale, il proprietario e il colono, l’ufficiale e il soldato, l’alto funzionario e lo sgherro, eccetera, si nota una “distanza” tale nel modo di vivere, di vestire, di pensare e parlare, di concepire il bene e il male, che la “reciproca comprensione” si limita a certi gesti utilitari (obbedienza di comandi, scambi di servizi o di beni). D’altra parte, l’uomo finisce col non sentirsi “lo stesso” (tenuto a un diverso contegno e a diversa disposizione dell’animo) secondo che è in casa, a scuola, al reggimento, sul luogo di lavoro, in “società”, eccetera; sorge la questione se mai l’uomo possa dirsi veramente “sincero”, manifestare il suo intimo essere e non “rappresentare” un convenzionale personaggio nella “commedia umana”.

Antistene e Diogene, Rousseau e Tolstoi rispondono che il bene dell’uomo consiste nel manifestare pienamente la propria natura: ora, tutte le forme del galateo sociale sono esteriori a tale “natura”, e quindi un male; conviene “vivere nella società di se medesimo” e ridurre al minimo tutti i rapporti ai quali ci obbliga l’assurda ricerca della ricchezza, degli onori, del potere, della “raffinata civiltà”. Invece Necker(1) o Jeremiah Bentham, o anche Benedetto Croce (con più complicate prospettive) ci spiegano come la realtà dell’essere umano consista tutta nella varietà e nel “progresso” di attuali vicissitudini, nelle opere che producono “risultati concreti” d’ogni specie, nel sempre migliore accomodamento della vita interiore (“ragione” o “spirito” che sia) alla forte e prospera esistenza di organizzati consorzi: insomma l’essere s’identifica con l’operare e il significato di un’esistenza consiste nella sua “storia”. Alla giustificazione (dinanzi al “foro intimo”) degli atti e comportamenti prescritti da una data posizione nel sistema sociale, nella quale ci si trova senza averla potuta scegliere, può pure servire l’imperativo “Fa’ bene qualunque cosa ti capiti di fare”, fondato su una certa degradazione utilitaria della dottrina stoica o cristiana, per cui si applica all’adempimento di obblighi professionali, familiari o politici la stessa norma che valeva nella sfera puramente religiosa o filosofica.

[1940-’42]

(1) B. Groethuysen (Introduction à la vie bourgeoise) cita questo caratteristico testo del finanziere ginevrino: “Tout s’anime autour de l’homme, et tout se rapporte à ses désirs et a ses besoins… Tranquilles au sein de l’asile, et sous l’abri tutélaire que chacun de nous a choisi, nous y jouissons en paix de cette multitude de biens qui, par une affinité merveilleuse, s’allient à tous nos goùts et à tous les sentiments dont nous avons été doués”.

 

 

 

Individuo e società (2)

Andrea Caffi, 1949.

Sembra evidente che, ponendo il problema “l’individuo e la società”, l’intenzione sia di considerare i due termini, e cioè l’uomo in quanto persona singola, anzi unica, e la collettività umana, come in qualche modo opposti l’uno all’altra. Esame, quindi, di incompatibilità e conflitti, ricerca di una “sintesi” d’armonia superiore o di un compromesso.

Nessuno pretenderà di poter conoscere, o anche solo immaginare, un autentico individuo umano, la cui essenziale qualità è d’essere capace di linguaggio articolato (senza di che non potrebbe esservi articolazione della memoria, della riflessione, della conoscenza di se stesso, dell’intelligenza, insomma) all’infuori d’ogni vita sociale. D’altra parte, fuori degli individui che vivono insieme e agiscono in rapporti reciproci, non vi è nessuna realtà concreta in quel complesso fenomeno che s’usa riassumere nella parola “società”.

Vi sono tuttavia almeno due modi di concepire la condizione umana che giustificano e illustrano un insuperabile contrasto fra l’individuo umano e le norme, le attuazioni, la storia delle collettività umane.

La prima di queste si fonda sulla maggior realtà (o “naturalezza”, o immutabilità) dei fatti biologici rispetto alle mutevoli convenzioni che regolano le vicende sociali: sul primato, se così si può dire, della natura animale rispetto alla seconda, acquisita, natura dell’”animale politico”. È un luogo comune denunciare le abitudini di civiltà e di educato comportamento come una tenue “vernice” che si screpola non appena le circostanze permettono o stimolano lo sfogo dei permanenti, atavici, e più o meno feroci, “istinti”.

Dal conseguente materialismo cui si ispira Hobbes per spiegare le origini e gli sviluppi del consorzio politico fino a tutte le deduzioni operate da Freud a partire dalla scoperta del subcosciente, il rapporto fra individuo e società appare come una continua, necessaria, e forse salutare, repressione del primo da parte della seconda. Sarebbe in sostanza una costante repressione dell’irreprimibile; il mantenimento, con la violenza e con l’astuzia, di un certo ordine artificioso, arbitrario, e per giunta mutevole, contro una spontaneità vitale che rinasce in ogni neonato sempre con gli stessi primitivi, fisiologici e profondamente antisociali appetiti e impulsi.

Senza inoltrarci in una critica della scelta di certi fatti che conducono alla suddetta interpretazione del rapporto fra individuo e collettività umana e del modo di connetterli fra loro (non senza petizioni di principio) vogliamo limitarci a due osservazioni.

1) II contrasto fra esigenze “naturali” dell’uomo e “artifici”, corruttele, mostruosità delle istituzioni sociali ha suscitato —a partire dagli antichi filosofi cinici fino alle correnti dell’individualismo anarchico che ancora sussistono— non pochi movimenti di protesta contro l’oppressione dello Stato, del conformismo sociale, e talvolta addirittura contro la civiltà in genere.

Il paradosso è che tali movimenti -e parliamo soltanto di quelli che ripudiavano ogni mistica e insistevano sull’empirismo razionale delle loro affermazioni- si siano quasi sempre attuati nella stretta solidarietà e disciplina di un gruppo di consenzienti, e cioè in un’esperienza e formazione spiccatamente “sociali” e nient’affatto “biologiche”. Per quanto le loro aspirazioni fossero violentemente distruttive e negatrici di ogni ordine stabilito nelle leggi, nei costumi, nell’economia stessa, la conclusione programmatica era quasi sempre l’instaurazione di un ordine sociale più perfetto, nel senso di una più intensa, più pacifica, più lieta vita in comune del più largo possibile numero di individui, e spesso anzi l’unificazione armoniosa dell’intero genere umano.

2) Le diverse dottrine che (partendo spesso da acute, ardite, competenti vedute d’insieme sul comportamento fisiologico e psicologico dell’animale bipede implume) considerano la vita dell’organismo individuale e della sua “psiche” come una realtà indipendente e quasi eterogenea rispetto alle strutture e vicende della società, cadono in un impaccio caratteristico allorché tentano di spiegare, con rigore di metodo scientifico, la diversa serie di fatti reali ingenerata dall’esistenza stessa, dalle norme, dalle istituzioni, dalla continuità storica delle società umane.

Dal punto di vista di una scienza effettivamente informata e attenta a non pascersi di ipotesi affermando solo fatti ben accertati, le supposizioni di Freud sull’origine dei “totem e tabù”, o le prolisse e eruditissime disquisizioni di un’intera scuola di etnografi psicanalisti (come Geza Roheim o Gregory Bateson) i quali deducono da certi “complessi” le caratteristiche dell’economia, della mitologia, della morale di tribù malesi o siberiane, valgono assai meno del mito razionalista di un primordiale “contratto sociale” che, da Hobbes a Rousseau, ebbe tanta voga. In quest’ultimo caso, l’artificio consiste nel supporre che gli individui, a un dato momento, avessero la libera scelta d’integrarsi o no in una collettività ordinata, e allora resta inspiegabile come mai, non ancora integrati, possedessero un idioma comune per discutere e approvare le clausole del contratto.

Lacuna nel testo

II fatto è che bisogna pur ammettere come due regioni distinte (ma non separate) dell’esistenza quella della coscienza individuale e quella della vita associata. Ci sono certo nell’individuo prospettive estranee, se non addirittura contrarie, a quelle dell’esistenza sociale. Nel fatto che la Messa in Si bemolle sommuove e rischiara l’intima coscienza di chi non crede affatto al dogma della Redenzione, che si può compenetrarsi della visione di un tempio greco senza alcuna partecipazione all’ambiente religioso e politico da cui esso è sorto, che la bellezza intrinseca di fiabe o di sculture primitive venga sentita da uomini completamente impegnati nella civiltà industriale, si trova la conferma di esperienze umane eminentemente personali che in qualche modo si emanciperebbero dalle contingenze dell’immediata realtà sociale. E lo stesso appare nell’unicità di ogni amore profondo e d’ogni imperativo morale.

Ma è lecito riassumere tutto ciò nel “mistero” di quel che chiamiamo “vita”. Come la vita naturale è proliferazione di organismi vegetali e animali, così la vita sociale -attività di organismi coscienti- è tutta esuberanza, sperpero, fecondità smisurata continuamente corretta da massicce distruzioni.

La civiltà comincia con il superfluo, con la produzione “in aumento”, e cioè al dilà dell’immediato bisogno, con le disponibilità per l’ingordigia, per il fasto, per lo spreco.

Huizinga ha scritto un libro sull’importanza del gioco in ogni creazione culturale. “La cultura non nasce dal gioco come frutto vivo che si svincoli dal corpo materno, ma si sviluppa nel gioco e come gioco”, egli scrive; e cita il noto testo di Platone (Leggi II – 653-54) secondo il quale “le creature giovani non sanno tenere in riposo il corpo e la voce, devono far movimento e rumore, saltare, ballare di gioia e emettere ogni sorta di suoni. Ma, mentre gli animali in tutto ciò non conoscono distinzione fra ordine e disordine, agli esseri umani gli dei hanno conferito la felice facoltà di osservare ritmo e armonia”.

Lo storico olandese insiste sulle molteplici connessioni fra il dominio del gioco e quello del sacro: feste, danze rituali, rappresentazioni drammatiche, simboli, gare d’ogni specie (dal potlatch all’agon). In un campo come nell’altro, il mondo immaginato, inventato, agisce in due direzioni: da un lato circoscrive in forme convenute, dall’altro espande verso l’infinito e l’inconoscibile i dati della realtà quotidiana: “II culto sorse e crebbe in gioco sacro. La poesia nacque in gioco e continuò a vivere di forme ludiche”.

Potrebbe a tal proposito venire in mente una formula di Mallarmé ripresa da Valéry: “L’homme a inventé le pouvoir des choses absentes, par quoi il s’est rendu puissant et misérable”.

Meno chiaramente ha Huizinga indagato la necessaria correlazione fra tutte le forme di coscienza collettiva che si attuano in “azioni ludiche” o “sacre” e un ordine fisso sia della divisione del lavoro sia del governo tanto economico che politico, per cui le brutali necessità del lavoro per sussistere e dell’obbedienza ad autorità provviste di mezzi coercitivi vengano completate (o “compensate”) da momenti di spontanea, gratuita, lieta, egualitaria “socievolezza”. Si tratta, insomma, di ritmo e armonia ad ampie cadenze nell’esistenza stessa di una comunità alla quale il singolo individuo si integra.

 

 

Popolo, massa e cultura

Tratto da Tempo Presente, Vol. IV, n. 2, febbraio 1959

Queste considerazioni furono scritte in forma di note marginali a due articoli apparsi nella rivista newyorkese Politics nel febbraio 1944: A Theory of Popular Culture di Dwight Macdonald e The Breadline and the Movies di Melvin Lasky. Una versione succinta di queste note fu pubblicata nel numero di Politics del novembre 1946, con lo pseudonimo di European.

Nel suo interessante articolo, Dwight Macdonald distingue: 1) una high culture, che egli inclina a identificare con 1’”avanguardia” in tutte le sue forme; 2) una popular culture for the élite, che prenderebbe la forma dell’”accademismo”; 3) una folk art, che sarebbe “l’istituzione propria del popolo” (ed è abbastanza sintomatico che a questo proposito si parli soltanto dell’arte, e non di tutto il campo della cultura: filosofia, nozioni scientifiche, norme morali, riti di socialità); e, infine, il vero problema: 4) la popular culture per le “masse”, la quale sarebbe in primo luogo passabilmente “degradata” e in secondo luogo “strumento di dominio sociale”, ma pur sempre “cultura”, ossia una forma d’educazione della sensibilità e dell’intelligenza.

Ora, a me pare che una tale costruzione trascuri taluni dati essenziali:

1) “Popolo” e “massa” sono due realtà assai diverse. Si può accettare lo schema di Georges Gurvitch il quale, nel distinguere la “comunione”, la “comunità” e la “massa” come tre forme diverse del rapporto sociale, sostiene che, nella massa, quel che importa non è il numero degli individui, bensì un certo modo di stare insieme nel quale la personalità dell’altro è totalmente ignorata e il problema sociale si riduce a quello di coordinare meccanicamente i propri movimenti a quelli degli altri: una socialità, cioè, così elementare e, al tempo stesso, così poco umana da obliterare praticamente la coscienza critica e la facoltà di scelta. Il “popolo”, invece, presuppone necessariamente il permanere di una “comunità” e delle possibilità effettive di “comunione” nei riti, nelle feste, nei momenti sia di pericolo che di trionfo della comunità.

2) La massa in quanto tale, e trattata come tale da sfruttatori o da demagoghi, non è suscettibile di alcuna “cultura”, in quanto la cultura esige una certa autonomia di colui che “si coltiva” o accetta di “venir coltivato”. La massa non può che subire degli chocs psicologici (i quali si traducono per lo più in isteria collettiva) o degli stimoli imperiosi che la riducono alla passività totale, all’automatismo del soldato, al panico (che può anche non esser violento) e all’atonia senza rimpianti e senza speranza della bestia da soma.

3) II dressage prussiano o fascista è il contrario di una “educazione”. La deformazione di un’anima secondo i metodi della pedagogia gesuita o calvinista rappresenta il pervertimento di ciò che intendiamo per opera “educativa” o “culturale”. Esiste dunque -nell’ambito delle possibilità sociali- un fatto che si può chiamare “anti-cultura”. E c’è anche la “incultura”, quando manchi un ambiente proprio a generare uno stato di “comunità” o di “comunione”. Gli eschimesi hanno una cultura; invece ciò che si racconta dei miseri abitanti della Terra del Fuoco ci fa dubitare che esistano, fra di loro, le basi elementari di una vita religiosa, estetica, o politica in senso lato. Forse non senza esagerazione, Giovenale ci mostra una plebe romana caduta preda della “incultura”. Le SS e gli aguzzini di Auschwitz o di Dachau erano radicalmente immunizzati contro ogni germe di “cultura”.

4) Ora, la rivoluzione industriale data in Inghilterra dal 1750 circa, ed è fra il 1840 e il 1850 che Friedrich Engels e Herman Melville ne constateranno gli effetti sulla popolazione operaia delle grandi città. Il meno che si possa dire è che questi uomini e queste donne vivevano da due o tre generazioni segregati da tutto ciò che può nutrire una “cultura”: incatenati dall’età di sei anni all’inferno dell’officina, per quattordici o sedici ore su ventiquattro, non potevano conservare alcuna memoria di una folk art e di uno “stile d’esistenza” comunitario. Lo stesso fenomeno si è riprodotto dovunque s’è impiantato il capitalismo industriale. Si vedano per la Germania I tessitori di Hauptmann, per la Polonia I minatori di Tetmagr, per la Russia I costumi della via Rasteriajeva di Glieb Uspenski; e infine, per la Cina, le descrizioni delle fabbriche di tessuti di Sciangai. Parigi e Lione sembrano aver resistito meglio: nel secolo diciannovesimo, si sviluppò in queste città una vera “cultura popolare”. Ma abbiamo documenti sull’Alsazia, su Nantes, sulla regione Lille-Roubaix dal 1830 al 1860, altrettanto atroci di quelli sull’Inghilterra. Si prenda, d’altra parte, il livello d’educazione individuale e sociale di moltissimi degli emigranti che arrivavano in America dopo avere (anch’essi per diverse generazioni) stagnato in villaggi e ghetti nei quali gli effetti di un pauperismo spinto a estremi inimmaginabili (Manda, Andalusia, Italia meridionale, Galizia) avevano progressivamente spogliato gli uomini di ogni vestigio d’umanità. E non si dimentichino gli schiavi negri liberati, gl’indigeni delle colonie abbrutiti dal cattivo alcool e dal lavoro forzato (o dalla caccia all’uomo), le bidon-villes dell’Algeria e del Marocco. In tutti questi casi, non c’era nessuna folk culture da reprimere o corrompere per far posto alla “cultura”, all’Ersatz di cultura o all’incultura sistematica che il capitalismo gettava sul mercato insieme agli altri articoli di “consumo corrente”. Si operava in certo senso su una tabula rasa, e tuttavia non su delle anime nuove, fresche, ingenue, bensì su esseri anemizzati, cagionevoli, viziati, “svuotati”. La pianta umana ha resistito, e quando si è portata un po’ d’aria in quei campi di morte non tanto lenta che erano i sobborghi operai, e a forza di sommosse e di scioperi i salariati hanno ottenuto qualche ozio, un po’ d’igiene, delle scuole, la gioia di vivere, e persino la bellezza fisica, quella pianta ha potuto rifiorire. Ma i gusti, gli appetiti, i sogni, la mitologia non avevano radici né in una tradizione, né in una natura propria di questo popolo sradicato. Tutti gli oggetti e tutti i valori di cui essi potevano avere la conoscenza e l’uso erano “fabbricati”, e fabbricati in serie.

5) Ma chi erano i fabbricanti? Ed è lecito vedere nella “cultura volgarizzata” il disegno di una “ideocrazia” borghese paragonabile a quello messo in opera assai più brutalmente dagli Stati totalitari del nostro tempo? Un fatto abbastanza sorprendente è che la classe che arrivò al potere in Francia sotto Luigi Filippo e che in Inghilterra s’è infiltrata più lentamente in tutti i posti un tempo occupaci dalla gentry non ebbe mai una cultura veramente conforme alle sue convinzioni intime e ai suoi gusti spontanei. Quei parvenus si sono installati — non senza un sentimento d’imbarazzo — nelle proprietà dei loro predecessori e non sono mai riusciti a farne veramente la loro home: hanno accettato le “umanità” e il “progresso della scienza”, le nozioni di cortesia e di fasto, le norme consacrate dell’onore (cavalleresco), della gloria (soprattutto guerriera), della virtù (ascetica), ma senza mai poter veramente dirigere la gestione di questo patrimonio talvolta ingombrante, né potersi mai liberare da una diffidenza (repressa con vergogna o grossolanamente ostentata) verso gli artisti, gli scienziati, gli “ideologi”. La cultura s’è spesso creata contro di loro (persino Adam Smith disprezza i mercanti, speculatori eccetera): i borghesi si sono sentiti più spesso allarmati o scandalizzati dalle nuove creazioni che orgogliosi di averle indirettamente ispirate come modelli o come finanziatori. È innegabile che, parallelamente a ciò, le antiche aristocrazie venivano perdendo quella familiarità con l’alta cultura e quel “diritto d’intervento” di cui avevano un tempo goduto grazie al mecenatismo, alla vivacità dei salotti, alla facilità del dilettantismo enciclopedico. Paragonati alla brillante aristocrazia russa del 1820 (nella quale un Pushkin poteva trovarsi gomito a gomito con i principi e conti “decabristi”), i cortigiani di Nicola II, i suoi “marescialli della nobiltà”, i suoi governatori eccetera, che fossero amici o avversari di Rasputin, facevano figura di deplorevoli cretini. Intorno a Francesco Giuseppe, ai tempi del suo declinare, si sarebbero invano cercati uomini di cultura così compiuta e disinvolta come un Kaunitz, un Metternich, e persino un Von Gentz. Fra gli Junker ai quali Guglielmo II distribuiva cariche, non ce n’era forse uno solo che fosse al livello dei Von Stein, Von Hardenberg, York eccetera, capaci, ai loro tempi, di apprezzare Goethe e Hegel.

Il malessere caratteristico — ma anche il singolare dinamismo — del secolo XIX furono causati appunto dal fatto che l’alta cultura si trovò isolata dalle classi dirigenti non meno che dal popolo (in parte già sparito, perché trasformato in “massa”). E talvolta la vita dello spirito si è completamente staccata dalla vita sociale: con un Rimbaud, per esempio, l’artista diventava un individuo nettamente “asociale”.

Alle distinzioni di Macdonald si potrebbe dunque sostituire la classificazione seguente:

  1. A) Un’arte — o una cultura — popolare, creazione spontanea di un “ambiente popolare”, facilmente particolarista e persino regionale. Quest’autentica cultura del popolo è in parte schiacciata dal capitalismo (il quale vi sostituisce il deserto della massa e dell’anti-cultura); in parte sbiadita dall’uniformità cosmopolita che il progresso tecnico, le comunicazioni rapide eccetera hanno reso inevitabile; in parte infine raccolta e integrata nell’alta cultura, in modi vari che possono andare dagli studi etnografici all’adozione della musica negra e della plastica del Benin da parte di artisti d’avanguardia.
  2. B) L’”alta cultura” è sempre stata appannaggio di un’élite ristretta. Nei secoli passati, tale élite s’è spesso confusa con una parte dell’aristocrazia o della casta sacerdotale (Kshatria o bramini, monaci e troubadours, eccetera). Dopo l’avvento della borghesia e i limiti imposti al potere delle Chiese, l’élite intellettuale (e culturale in genere) è venuta a trovarsi nella situazione ambigua di una aristocrazia decaduta, di “chierici” non consacrati, di refrattari che evadono in spirito da un sistema di rapporti sociali al quale restano in pratica sottomessi.
  3. C) Le molteplici varietà di semi-cultura, ossia miscugli in dosi variabili di cultura (attività dello spirito) e d’incultura (inerzia conformista, esistenza senza personalità, senza problemi, senza comunione viva coi propri simili). È in tali surrogati di una cultura autentica che si rinchiudono tutti i padroni e dirigenti del mondo attuale, insieme alle loro fedeli clientele. Questa è, in certo senso, la zona della “cattiva coscienza” e del “cattivo gusto” spesso cosciente della propria deficienza, come pure del lavoro frettoloso di artigiani disonesti e di tutte le forme d’insincerità: Kitsch, camelote, trompe-l’oeil, eccitazione artificiosa dell’ottimismo ufficiale, noia paludata, e insomma tutto quello che Flaubert intendeva con pignouflisme.
  4. D) L’anti-cultura, aggressiva e distruttiva. Si tratta di una forza di primo piano: barbarie motorizzata, mille volte più nefasta dei cavalieri di Tamerlano, dopo il passaggio dei quali l’erba non cresceva più, essa dispone di tutte le risorse delle scienze applicate e al tempo stesso della capacità di “razionalizzare” tutti i più bassi appetiti della bestia umana. Oltre la grande impresa già menzionata — la condizione degli operai a Manchester nel 1842, e in mille altri luoghi nel corso del secolo — l’offensiva dell’anti-cultura può vantare, come realizzazioni pienamente riuscite: il militarismo moderno, imposto indistintamente a tutti, senza i motivi culturali — onore del cavaliere, vocazione del lanzichenecco — che determinavano in altri tempi la scelta della carriera delle armi, e oggi perfezionato fino alla bomba atomica; gli ergastoli di bambini, come la scuola descritta da Dickens in Nicholas Nickleby, o gli “internati” napoleonici, che Maxime du Camp non poteva ricordare senza rabbia anche quando ebbe settantanni; lo sterminio di numerose popolazioni nelle colonie (da notare che la semplice barbarie degli spagnoli non c’era riuscita); infine, lo Stato totalitario di Hitler o di Stalin, senza pregiudizio di quelli semi-totalitari, o avviati a diventarlo. Nel campo propriamente culturale, l’anti-cultura si manifesta con la sottomissione di ogni facoltà intellettuale ai “bisogni della propaganda” attraverso l’unità del comando, la negazione teorica e pratica della persona umana e della sua dignità, l’esaltazione della dismisura e della volontà di potenza.
  5. E) Per le masse in quanto masse, lo ripeto, nessuna cultura è possibile. Riunirle in un circo, a un match di foot-ball, in un comizio a base di altoparlanti o in una sala di cinema, far legger loro lo stesso slogan nella stampa o propinarglielo per radio, non significa “coltivarle”, ma solo comandarle. C’è tuttavia la possibilità di comunità popolari che si liberino dal magma della massa: i sindacati operai, le mutue, talune sètte religiose, le cooperative, le Internazionali socialiste vi hanno contribuito; ma non bisogna dimenticare delle formazioni meno appariscenti come quei “gruppi d’amici” nei sobborghi operai che un giovane sociologo francese si proponeva di studiare. Per tali gruppi, vi sono possibilità di cultura disparate e fortunose. Come nel consumo delle derrate e dei beni d’uso, l’esiguità del “potere d’acquisto” e la onestà relativa del bottegaio determinano la qualità e la quantità di tali alimenti spirituali. È evidente che la cianfrusaglia e l’Ersatz della semi-cultura, e i veleni dell’anti-cultura, sono quelli che predominano sul mercato. Senza nessuna intenzione machiavellica prestabilita, i trusts e i mercanti profittano naturalmente dell’inesperienza del compratore. L’uomo del popolo e le comunità popolari avrebbero dunque bisogno di consigli, di guida amichevole o di organizzazioni analoghe alle cooperative. Bisogna pur dire che il socialismo marxista ha lamentevolmente trascurato questo lavoro educativo, ripetendo macchinalmente la giaculatoria della “coscienza di classe”.

Dwight Macdonald passa poi a parlare delle immense possibilità aperte dai mezzi moderni di comunicazione e diffusione alla cultura delle masse, come pure del contributo enorme che l’industria e la tecnologia moderne possono dare al conforto materiale delle masse medesime. Macdonald dice in particolare che “il progresso tecnologico ha reso possibile la produzione a buon mercato di libri, periodici, riproduzioni fotografiche, musica e architettura.” L’argomento è, per così dire, classico fra coloro che hanno a cuore un’interpretazione ottimistica del mondo moderno, oppure — come lo stesso Macdonald — temono di non rendergli sufficiente giustizia.

Cominciamo dall’architettura. I Propilei e i Fori imperiali, il Partenone e Santa Sofia, tutte le cattedrali romaniche e gotiche, come pure le terme, gli acquedotti, i caravanserragli fondati dai califfi e dai sultani, sembrano aver avuto per scopo la soddisfazione dei bisogni e dei gusti del popolo. Anche i giardini di Versailles furono costruiti ad intenzione di un “popolo” di cortigiani e di bighelloni che potevano andare a contemplare il re mentre pranzava. Goethe si meraviglia che a Vicenza e a Verona il popolo consideri i portici costruiti dal Palladio come luoghi di sua proprietà dove esso può fare il proprio comodo di giorno e di notte. Non si vede che la tecnologia moderna sia riuscita a costruire, per il popolo, luoghi altrettanto maestosi o brulicanti di vita spontanea. E, per parlare di architettura più intimamente utilitaria, le Fachhäuser di Hildesheim, certe isbe della Russia del Nord, certe case contadine dell’Italia del Nord e del Sud sembrano conservare una certa superiorità sulla desolazione dei sobborghi popolari di Londra e di Parigi, sulle “case popolari” moderne dove lo spazio è misurato al centimetro e il comfort di qualità infima. Dall’inizio del capitalismo a oggi, l’età moderna non sembra essersi preoccupata di architettura quanto di “macchine per abitare” più o meno efficienti (a seconda del prezzo). E forse anche gli architetti più moderni, con tutte le loro buone intenzioni, rimangono essenzialmente schiavi delle idee d’utilità e d’efficienza, dalle quali non sembra facile passare a un vero culto della bellezza e della dignità: dell’”inutile”.

Quanto ai libri e alle immagini, vorrei ricordare che fin dall’invenzione della stampa i “mercati” (e in particolare le numerose “fiere”) hanno saputo soddisfare una vasta clientela popolare con almanacchi, Volksbücher (storia del Dottor Faust e dei Reali di Francia), incisioni, stampe eccetera. La proletarizzazione e i tuguri dell’era industriale, diminuendo il potere d’acquisto, hanno determinato la decadenza di questa produzione di articoli di cultura popolare. Il poeta Nekrassov poteva ancora, in una delle sue tirate demofile, esprimere il voto che “al ritorno dalla fiera il contadino portasse a casa non già l’almanacco (astrologico) di Bruce o la storia idiota del ‘Milord inglese’, ma le opere di Bielinski e di Gogol”. Certo, oggi si stampa enormemente. Ma, in questa marea di stampati, bisognerebbe considerare in primo luogo la proporzione fra cultura e anti-cultura e, in secondo luogo, la graduatoria delle opere e pubblicazioni varie cui va il favore del pubblico.

Macdonald menziona poi la radio e il cinema. Ma il teatro di Dioniso, l’Ippodromo di Costantinopoli, le piazze sulle quali si celebravano i “misteri” nel Medioevo, le impalcature su cui s’installavano all’aria aperta gli attori spagnoli che recitavano Lope de Vega, erano pur destinati e adatti a pubblici imponenti. E qual era il paese o anche il paesetto di Francia, d’Italia, di Germania dove, dal secolo XV al XVIII, non facesse la sua apparizione una qualche troupe di mimi, giocolieri, prestigiatori, di attori della commedia dell’arte o dei drammi shakespeariani (conosciuti in tutta la Germania prima del 1648 grazie a “attori inglesi”)? Quel che c’è di nuovo oggi è che si può andare al cinema o al caffè fra due incombenze di lavoro o d’affari, senza vestirsi, senza “perder tempo”, senza la preparazione psicologica a un godimento fuori serie. È la nozione e il sentimento della “festa” che la civiltà moderna tende a distruggere. Questo è il fenomeno peculiare dei tempi moderni.

Macdonald passa quindi a parlare della “separazione fra cultura popolare e alta cultura” come di un fatto costante nella storia. Ora, una tale separazione fra i gusti dell’aristocrazia e quelli del popolo non è esistita che in certi periodi, quando: 1) l’aristocrazia si è rinchiusa in un’esistenza procul negotiis; 2) il popolo è stato ridotto all’atonia dal pauperismo o dall’oppressione poliziesca, militare o ecclesiastica. Aristofane è certamente della folk art al tempo stesso che della high culture. Ma cento anni dopo, in un’Atene umiliata, privata della sua esuberanza democratica, le commedie di Menandro sembrano riservate a un “bel mondo” di ricchi oziosi protetti dalla machine royale del despota macedone. Così, il teatro di Shakespeare e di Marlowe faceva vibrare, se non all’unisono certo con eguale intensità, le anime di Lords e d’artigiani londinesi; mentre il Catone di Addison è riservato al rispettabile pubblico dei profittatori della Glorious Revolution del 1688. Molière e Goldoni sono passati per gradi dal teatro popolare ai salotti mondani d’alta cultura. Ma evidentemente la gente del quartiere Saint Antoine non poteva andare ad applaudire Bérénice. La Chiesa prescriveva ai pittori d’insegnare le verità della religione agli analfabeti, ma più di un aristocratico era, a quei tempi, incapace di tracciare la propria firma. Tutti i capolavori italiani e fiamminghi del secolo XV sono altrettanto accessibili al popolo che ai chierici più addottrinati. C’è poi un’arte per umanisti e per gente educata secondo il Cortegiano del Castiglione. Ma i pittori olandesi non elevavano certo alcuna barriera fra “arte per il popolo” e “arte aristocratica”. E la musica di Bach era senz’alcun dubbio accessibile ai fedeli della chiesa di San Tomaso a Lipsia, mentre le arie di Haydn e di Mozart si diffondevano nei quartieri più umili di Vienna. “Questa folla di Siviglia che freme, trema, si esalta, sviene, s’inebria di quel dramma di sangue e di lacrime che è la Passione, e nel quale essa ritrova i propri tormenti, i propri dolori, s’identifica con il Crocifisso, con la Madre trafitta, con i santi bruciati sulla graticola, attanagliati, squartati, suppliziati sulla ruota, scorticati vivi, che portano i loro occhi o la loro testa su un piatto, con tutti i martiri di cui essa rinnova il supplizio con una crudeltà e un sadismo che rinascono ogni anno. Giacché tale folla è insieme la vittima e il carnefice, piange e applaude, e il dramma si svolge sia in essa che a causa di essa”.

L’analogia che viene alla mente leggendo questo brano descrittivo dovuto alla penna di Georges Pillement, sono le processioni fastose e sanguinose, intramezzate di giochi scenici e di scontri violenti, con le quali gli “sciiti” persiani (e anche quelli di Bakù) commemoravano il martirio di Hosein il giorno della festa dell’Asciura. È la stessa esplosio-ne di frenesia fanatica e di pathos profondo, in una folla composta di miserabili, abitualmente immersi in un’apatia passabilmente cinica. Ora, i paesi dell’Islam, e in particolare la Persia, presentano, dopo i Selgiuchidi (nel secolo XI) tutte le vicende — a volte lente, a volte accelerate, ma sempre a senso unico — di una disintegrazione dei centri di cultura, di una accumulazione di rovine e di pidocchiume, d’abbandono delle masse alla brutalità di effimere dominazioni militari, alla direzione spirituale di un clero (dervisci compresi) sempre più ignaro, e infine alle magre risorse di un’economia sempre più retrograda.

Salvo il parere di persone più competenti di me, in una manifestazione di cultura religiosa popolare, come nella grande festa dell’Asciura, mi sembra di poter individuare tre strati confusi e mescolati più che sovrapposti. C’è, per cominciare, una mistica assai sottile e sapiente (“alta cultura”) che il mistero dell’Iman invisibile, il sufismo (impregnato di Plotino), la dottrina segreta degli Ismaeliti hanno sviluppato durante i secoli d’ascensione intellettuale del mondo musulmano; c’è poi un fondo evidentemente indistruttibile di culti orgiastici (Dioniso o Siva-Kali) che costituisce un elemento primordiale di ogni cultura popolare; infine gli orpelli inventati espressamente — come gli scenari barocchi e tutti gli eccitanti pubblicitari moderni — per una folla rozza nella quale la sensibilità e la gravita di un popolo autentico hanno ceduto di fronte ai risentimenti (abitualmente repressi) della “massa”, o promiscuità di rifiuti umani.

A Siviglia, nella settimana della Passione, non si ritrovano forse gli stessi ingredienti? La descrizione già citata continua così: “I pasos sono dei totem e dei feticci, feticci mostruosi e splendidi, i portafortuna della città: fanno piovere, portano la prosperità, sono segni di riconoscimento, parole d’ordine, intercessori. Il ‘Cristo del Gran Potere’ di Montanes, la ‘Santa Veronica’ di Zurcillo saranno presenti quando un membro della loro confraternita arriverà alle porte del Cielo… Signori accigliati e monaci estatici circondati da contadini che guadagnano appena il loro sostentamento con un duro lavoro, sostenuti dalla speranza di vedere un giorno il Cristo e la Vergine e tutti questi santi che sono per loro delle entità viventi”.

Evocare tutto ciò a proposito di una discussione sulla qualità dei libri, dei film, dei programmi radiofonici citati da Macdonald come ingredienti della popular culture a New York, Londra e Parigi, parrà specioso. Ma mi sembra che il problema debba essere esaminato in tutta la sua ampiezza, esplorando a fondo sia il campo della “cultura” sia le inclinazioni, patenti o dissimulate, del “popolo” per il quale questa cultura sarà in parte un “regno ritrovato”: costumi, senso estetico, gioia di vivere, gusto della saggezza eccetera, obliterati nello stato di “massificazione”; e bisognerà a maggior ragione esaminare l’invito a uno sforzo oltremodo complicato di liberazione spirituale insito nella cultura. Per accedere alla cultura autentica, la personalità deve emanciparsi da un assai spesso e assai pesante amalgama di terrori, di diffidenze, di ferocie, d’inclinazioni a “perdersi per ritrovarsi”; e la comunità deve ricostituirsi in modo non superficiale e astratto, mettersi al diapason di tutte le nozioni attualmente accertate quanto all’universo, la condizione umana, le molle fisiologiche e psicologiche, le possibilità, i pericoli, le paurose “aporie” della scienza tecnica.

Cercherò, se non di spiegarmi, almeno di indicare la direzione dei miei pensieri, con alcuni esempi deplorevolmente frammentari tratti da note che son venuto ammucchiando e da articoli che mi son capitati sotto gli occhi in questi giorni piuttosto desolanti dell’inverno 1945-’46, in questa città di Toulouse dove la maggior parte della gente — e io con essa — è costretta a spendere la maggior parte del tempo a difendersi dalle urgenze delle necessità materiali, e dove dunque la serenità indispensabile ai “buoni studi” è difficilmente raggiunta e presto interrotta.

Comincerò da una citazione di Roger Vailland, tratta dal settimanale Action del 26 ottobre 1945: “Ditemi quali sono i vostri piaceri — scrive Vailland — e vi dirò chi siete. Quando si pensa al ‘volto’ di una civiltà o di un’epoca, quel che viene per primo alla mente sono i suoi piaceri. E questa non è ‘leggerezza francese’. Una società in cui l’uomo consacrasse interamente la sua attività a soddisfare i suoi bisogni elementari — mangiare, dormire e ripararsi — non si definirebbe in alcun modo come ‘civiltà’: sarebbe priva di ‘volto’. Civiltà significa maniera di vivere; ma l’accento è su ‘maniera’. Un sedile non diventa oggetto di civiltà se non è qualcosa di più d’un oggetto che serve a sedersi: ciò comporta, se non degli ornamenti, perlomeno la ricerca di una linea destinata a dar piacere all’occhio. Lo stesso pensiero è un lusso… l’affamato non ha un pensiero sistematico”.

Da questa considerazione, che mi sembra quanto mai giusta, passerò di nuovo all’articolo di Georges Pillement sulla Settimana Santa di Siviglia, nel quale trovo scritto: “I pasos, con le loro membra articolate, i loro costumi d’apparato, le loro parrucche e barbe di veri capelli, i loro occhi di vetro, sembrano segnare la decadenza dell’arte barocca. Ma, al contrario, ne sono lo sbocco logico e glorioso, la manifestazione più espressiva e più spirituale”.

Insieme agli autodafé, alle feste come quelle di San Gennaro a Napoli e di Sant’Agata a Catania, insieme alle corridas, la cui voga sembra essersi molto accresciuta nel secolo XVIII (quando si cominciarono a bruciare meno eretici), gli spettacoli della Settimana Santa a Siviglia hanno “coltivato” (ossia aiutato a far accettare) non già una brutale degradazione del popolo da parte della rivoluzione industriale, ma la sua stagnazione indefinita nel pauperismo totale.

Il mito del Grande Inquisitore di Dostoevskij evoca la Controriforma e i suoi effetti sul popolo “che paga e che prega” delle regioni mediterranee. L’Inquisizione, i gesuiti, l’installarsi di un torpore sia economico e sociale che dell’intelligenza e della coscienza morale non hanno potuto trionfare senza che si facesse appello a un fondo di disperazione orgiastica e di voluttà nei tormenti, nonché a quell’ossessione del peccato (ossia della disfatta nella volontà di vivere) che conduce ad aborrire la felicità insieme a qualsiasi audacia innovatrice. A volte in maniera squisita (Santa Teresa d’Avila), o soave (i chemins de velours della casuistica e il quietismo), spingendo l’immaginazione fino all’esaurimento (il concettismo, il gongorismo, Bernini, l’opera), l’arte del barocco, con la concezione dell’uomo e della grandezza umana che vi si esprime, hanno distillato 1’”oppio del popolo”. Nessuna meraviglia quindi se il barocco è sopravvissuto come Ersatz dell’arte popolare vera.

D’altra parte, non si potrebbe emettere il minimo giudizio valido sulla “cultura del popolo” senza un esame molto attento di fenomeni come quelli di cui (a quanto m’informa un’ottima recensione letta in una rivista inglese) tratta Herbert Hewitt Stroup in un libro consacrato alla sètta dei “testimoni di Jehova”. Questa lugubre sètta, che (a quanto afferma l’autore) “domina i cuori di vari milioni (?) di credenti inglesi e americani”, ha antecedenti e correnti parallele così numerosi e singolari che bisogna pur riconoscervi uno dei fattori decisivi di una certa educazione delle “masse” alla disperante docilità che le ha persuase ad accettare la schiavitù in tutte le sue forme, la rassegnazione al tugurio (slum), lo scivolamento verso la disumanizzazione totalitaria. Mi sembra che la predicazione di Wesley e tutte le mutazioni successive del metodismo hanno operato in questo senso. È in ogni caso significativo che il wesleyanismo abbia tanto contribuito a distogliere le folle proletarizzate da ogni velleità di rivolta all’epoca stessa in cui la macchina a vapore consacrava il trionfo del capitalismo. In questo campo, gli americani sono naturalmente blasés, avendo visto proliferare sul loro territorio tante sètte strane. Ma lo stesso fenomeno ha caratterizzato la Russia dalla violenta europeizzazione del 1700 (quella che Herzen chiamava “pietrograndismo”) fino ai prodromi del movimento emancipatore (1861-1905). Ma bisognerebbe scrutare molti particolari di simili riduzioni del cristianesimo alla “mentalità pre-logica” e di messianismi così poveri d’invenzione per scoprirne gli effetti sociali. Allora ci si potrebbe domandare se anche le ideologie di “fuga” (come i Mormoni in America e i Duchobori in Russia) non abbiano contribuito a facilitare il trionfo dell’oppressione economica e dell’anti-cultura, così utile (in quanto stabilizza il basso livello mentale delle masse) alla meccanizzazione totalitaria.

L’Europa contava troppe vecchie comunità “intellettualizzate” (ossia impregnate di princìpi razionali e di ricordi storici inestirpabili) per cedere nel secolo XIX (come sembra aver ceduto nel XIV, al momento dei “flagellanti”) a tali revivals di orge spirituali primitive. Tuttavia, per esempio, un certo culto di Sant’Antonio (di cui s’è molto occupato André Thérive) è fiorito nel Belgio, paese di proletarizzazione quanto mai intensa e spietata, proprio nel momento in cui la pittura di Van Gogh esprimeva un’indicibile angoscia sulla “materialità” della condizione umana (vedi “I mangiatori di patate”). Arriverei fino a domandarmi se, dopo i piani quinquennali, in Russia — ma soprattutto, in questo buio anno 1945, nell’Europa coperta di rovine — la religione staliniana non obbedisca a una tendenza dello stesso tipo: quel che si predica alle masse è appunto la docilità assoluta e il sacrificio totale in vista di un “millennio”; nell’attesa, non cerchino di capire… In paragone, il Grande Inquisitore di Dostoevskij appare puerilmente imbarazzato da pregiudizi di “alta cultura”, ormai inutili.

Una delle manifestazioni primordiali dell’arte popolare genuina sono, fin da tempi antichissimi, i giocolieri e gli acrobati. Non c’è dubbio alcuno sul fatto che questi giochi di destrezza e di prestidigitazione si collegano alla magia e alle sue operazioni di maggior apparato. La loro voga nella Creta minoica è documentata; i caldei, gl’indiani, i siri, gli etruschi vi hanno eccelso. E attraverso i secoli, fino a oggi, i baracconi da fiera, coi loro giocolieri, imbonitori e acrobati girovaghi, rimangono il più tipico ed abituale divertimento del popolo.

Ora, non manca d’interesse rintracciare i ravvicinamenti e allontanamenti sporadici fra questa folk art così primitiva e certe creazioni abbastanza coerenti dell’”alta cultura”. In religioni molto sviluppate, e che implicano esperienze mistiche raffinate e complicate, si conserva un posto abbastanza difficile da definire ai dervisci e ai fachiri; può anche darsi che la pia leggenda del Jongleur de Notre Dame non sia soltanto un aneddoto che illustra la semplicità di spirito di un umile fratello laico: se si obbiettasse la serie ininterrotta d’anatemi con cui la Chiesa — in Oriente come in Occidente — non ha cessato di perseguitare i giocolieri, si potrebbe replicare che la religione cristiana ha sempre conservato dei misteriosi rifugi — d’origine forse manichea — dove si son nascoste delle concessioni conturbanti al satanismo: i saturnali del carnevale o della “festa dei pazzi” celebrati nel nartece o addirittura all’interno dei santuari, le pratiche talvolta assai strane dell’esorcismo, la venerazione dei “pazzi di Cristo”, nonché certe interpretazioni dell’oportet ut scandala eveniant del Vangelo, che scivolavano sul cammino dell’eterodossia fino a quella dottrina del peccato necessario alla salvezza attribuita alla setta dei flagellanti e a Rasputin.

I giochi dei saltimbanchi hanno un posto importante nei drammi indù (di livello letterario così alto) come nella Commedia dell’Arte, e potrebbe darsi che questi divertimenti più o meno acrobatici facessero anche parte dei “giochi di satiri” che terminavano le tetralogie di Eschilo e di Sofocle; in ogni caso, li ritroviamo nei clowns di Shakespeare e nel gracioso dei drammi di Lope de Vega e d’altri spagnoli. Sono, questi, sintomi sufficienti di un adattamento tenace dell’arte popolare più triviale all’arte più aristocratica. Un’interpretazione intellettualmente raffinata dell’estetica del circo (e in particolare del circo Medrano) ha prodotto opere letterarie come Les frères Zemganno e parecchi capolavori della pittura moderna — da Seurat a Picasso — che si ricollegano curiosamente agli affreschi di Cnosso, come pure molte splendide composizioni di artisti giapponesi.

I contatti fra popolo e alta cultura si potrebbe andarli a cercare persine nella medicina. L’omeopatia, per esempio, non è una teoria così assurda che non meriti di esser discussa dai più gravi membri della Facoltà di medicina. Raspail aveva del genio, e non era certo un ciarlatano, malgrado le bizzarrie della sua Médecine populaire. Ma quanti ciarlatani e inventori di cure meravigliose, la cui mentalità e le cui nozioni di fisiologia non sorpassavano quelle di un medicine-man botocudo o zulù, hanno goduto di una voga immensa nelle capitali d’Europa durante il secolo della scienza, e quante droghe assolutamente bislacche hanno procurato milioni e miliardi ai loro fabbricanti!… Il mesmerismo, lo spiritismo, la Christian Science hanno trovato miriadi di adepti ferventi nella migliore società. Nel suo dramma I frutti dell’istruzione (o dell’alta cultura, o delle lumières) Tolstoi ha voluto mostrare quello che la scienza di Pasteur e di Koch diventava quando passava nelle teste vuote della gente di mondo. E Tolstoi medesimo, con la sua diffidenza di contadino verso gli “uomini dell’arte” e i loro satanici ritrovati rendeva (secondo la testimonianza del dottor Elpatievski) assai penoso il compito dei medici curanti: non è forse egli stesso un esempio della giustapposizione di una cultura eccezionalmente alta e di pregiudizi “primitivi”?

Vengo ora all’interessante tema trattato da Melvin Lasky nel suo articolo. Esso fa sorgere parecchie questioni:

1) II pane distribuito a Roma dall’annona imperiale non potrebbe paragonarsi al dole dei disoccupati inglesi e d’altri luoghi? Nelle misure di razionamento così largamente praticate dagli Stati dopo il 1914 (mantenute in Russia fino al 1935-’36, riprese in Germania molto prima della guerra del 1939) non potrebbe vedersi qualcosa come il principio di un’imitazione del sistema cesareo? Il ministro Pleven ha giorni fa deciso che lo Stato pagherà un certo numero di miliardi ai produttori per colmare la differenza fra il prezzo di costo e il prezzo di vendita al dettaglio di varie derrate. La vendita del pane a buon mercato ha continuato a costare grosse somme al Tesoro in Francia come in Italia per un tratto di tempo abbastanza lungo, dopo la pace del 1919. Nell’URSS, le derrate distribuite a basso prezzo nelle cantine riservate agli operai dello Stato costavano soprattutto lo sforzo delle requisizioni ai contadini, eseguite spesso manu militari; ma l’Egitto, quando era il granaio di Roma, era anch’esso sottoposto a un regime speciale che toccava la requisizione e la spoliazione del fellah.

2) Si può veramente affermare che il cinema è l’equivalente odierno dei circenses romani? Se si pensa al Dopolavoro, alla Kraft durch Freude, alle esibizioni paracadutistiche domenicali di Mosca, ai terreni di foot-ball organizzati per gli operai dal governo Baldwin, si propenderebbe piuttosto a considerare equivalenti agli spettacoli del Circo e dell’Ippodromo certe esibizioni sportive e certe manifestazioni di massa a base spettacolare.

3) È evidente che la distribuzione quotidiana o ebdomadaria di farina e d’olio mantiene l’uomo in una dipendenza più diretta, e soprattutto più umiliante, dei famosi tre oboli che il cittadino povero di Atene riceveva per deliberare sullo Pnyx o per sedere come giurato. Ai nostri giorni, i sussidi ai disoccupati sono accompagnati da controlli che fanno ben sentire al beneficato la sua degradazione. Il fatto che le classi dirigenti preferiscono accordare (sul reddito dello Stato) dei crediti considerevoli per procurare ai poveri pane (o anche alloggi) a prezzo ridotto, anziché aumentare la loro capacità d’acquisto con aumenti di salario, si spiega facilmente. Il sistema delle tessere alimentari di cui Vichy, per esempio, minacciava di privare quelli che avessero disobbedito a questa o a quella ordinanza di polizia, è uno strumento di controllo e di pressione così comodo che si capisce come lo Stato sia tentato di prolungarne l’uso oltre lo stretto necessario.

4) Prima del principato, le distribuzioni di grano e i giochi del circo erano spese obbligate di ogni candidato a un’alta magistratura (edile, pretore, console). Si trattava, insomma, della remunerazione di una clientela elettorale; tutte le magistrature essendo divenute monopolio dell’imperatore, il corpo elettorale tutto intero divenne automaticamente clientela dei Cesari. Ancora a Costantinopoli, i demi che formavano gli aficionados dell’Ippodromo non erano senza influenza politica, e i basileis preferivano non mettere a repentaglio la stabilità del trono scontentandoli. È a una simile preoccupazione di combinazioni elettorali che si pensa quando, in questa bonne ville de Toulouse dove vivo e dove non esistono fognature, si vedono gli eletti socialisti costruire stadi abbastanza lussuosi; ovvero quando si constata l’emulazione fra socialisti, comunisti e cattolici per organizzare il maggior numero possibile di competizioni sportive (mentre le vecchie barbe del partito radicale si attengono alle forme più arcaiche e individualiste delle mance e bustarelle, o della concessione di appalti, tabaccherie e piccole sinecure).

5) È evidente che ci si preoccupa di nutrire e di divertire i poveri solo quando sono assembrati in numero cospicuo in prossimità dei ricchi, sicché potrebbero succedere guai se il lusso degli uni contrastasse senza attenuazioni con la miseria degli altri. In tutti gli Imperi, si son lasciati tranquillamente i contadini morir di fame a seguito di siccità o inondazioni (vedi, per esempio, le carestie sotto Luigi XIV); ma Napoleone diceva di sentirsi meno minacciato da una sconfitta dei suoi eserciti che dal fatto che Parigi mancasse di pane per due giorni. Dai tempi del libello di Swift fino all’atroce carestia del 1847, nessun governo britannico ha pensato a qualcosa come il dole per impedire a milioni d’irlandesi di morir di miseria. Analogamente, il programma del buon re Bomba: “Feste, farina, forca” non si applicava ai contadini di Basilicata, i quali vivevano peggio delle bestie, ma ai “lazzaroni” di Napoli, al cui umore il regime non poteva essere indifferente.

6) Tutto questo ci rammenta che l’”oclocrazia” è quasi sempre complemento inevitabile della “plutocrazia”. I rozzi spettacoli del circo erano al livello di un ochlos (plebe), mentre il teatro di Dioniso corrispondeva alle esigenze estetiche di un demos. Gli antichi giochi olimpici — con le odi di Pindaro e le statue elevate ai vincitori — erano un elemento sostanziale della cultura aristocratica cui seppe elevarsi una democrazia come l’ateniese. Gli atleti professionisti dell’epoca ellenistica e romana si esibirono per i plutocrati e per l’ochlos (plebe). Da Shakespeare e Lope de Vega al melodramma romantico, il teatro ha certamente contribuito a una certa educazione delle élites popolari. Diremo che il cinema è fatto per l’ochlos? o forse la radio? o gli sport più o meno industrializzati? o tutte queste cose insieme?… C’è forse dell’altro. C’è un torpore spirituale che l’uomo moderno, dai capitani d’industria al più umile operaio moderno, dal pilota di alta velocità al non-combattente che s’aspetta da un momento all’altro una bomba atomica in testa, non può fisiologicamente evitare. Dopo la giornata di lavoro moderna, il fracasso delle macchine, l’asfissia nella metropolitana, la sequela di tensioni e d’attenzioni infime che comporta la vita in una grande città, l’individuo non ha più l’energia di concedersi emozioni attive o sforzi di immaginazione. Non c’è posto per la ricettività artistica, per la riflessione, per la contemplazione placida, per il gusto delle forme “immobili”. Il vantaggio dei movies è di risparmiare a un tale uomo ogni tensione della fantasia saturandolo d’immagini bell’e fatte e che “passano presto”. Per conto loro, la radio come il giornale a titoli sensazionali, si sforzano di liberarlo d’ogni stimolo a pensare. Gli sport si ritmano sul dinamismo brutale della “febbre di velocità”. Può darsi che l’economia capitalista sia all’origine di tutto ciò. Ma quel che è certo è che a trame il massimo profitto sono i regimi totalitari e le tendenze autoritario-burocrati-che immanenti in tutte le società dette moderne.

7) Ora, sono appunto i rapporti fra plutocrazia, oclocrazia e Stato totalitario che costituiscono il problema sul quale la critica socialista (ossia marxista, visto che a Marx si è rimasti) inciampa da una ventina d’anni a questa parte quando cerca di spiegare l’evoluzione del capitalismo “liberale” verso il capitalismo di Stato e la deviazione della “volontà generale” delle masse verso regimi autoritari. È il problema del fascismo, e non è detto che sia finito con la fine di un paio di dittatori.

8) Che la si designi con i termini empirici di trust, di “feudalità finanziaria”, delle “duecento famiglie” francesi, delle duemila di cui parlava un tribuno dell’antica Roma o degli upper ten thousand. americani, la plutocrazia sembra facile da definire. Inoltre, si direbbe che aggiungere kratos a ploutos è un pleonasmo. I più ricchi sono sempre stati i più forti, che si trattasse dei grandi sacerdoti di Ammone, proprietari di centinaia di migliaia di ettari e di eserciti di servi, o della Chiesa di Innocenzo III, grassa di benefici e di decime; dei satrapi persiani o dei “signori della guerra” cinesi; dei proprietari terrieri di Tessaglia o dei grandi feudatari francesi che Joinville chiama les riches hommes; degli armatori e negozianti che governavano Corinto o Venezia, eccetera. Ma, perché un regime possa esser qualificato di autentica plutocrazia, occorre che talune altre condizioni siano interamente soddisfatte: il danaro accumulato — il danaro che non olet — non deve più trovare alcun ostacolo a poter tutto comprare, dalle terre alle magistrature, dai tesori di Golconda alle coscienze e all’onore degli uomini. Si veda l’ossessione del danaro e della sua potenza nei drammi elisabettiani e già in certi lirici greci del VI secolo, quando il fatto era ancora una novità. Bisogna anche che un razionalismo diffuso dall’alto al basso della piramide sociale abbia ridotto a ombre vane, a pregiudizi inoperanti, a una “mascherata” tutti i valori che consacravano il prestigio della regalità, della nascita, della stessa rispettabilità (“timocrazia”). E bisogna soprattutto che l’arricchimento e l’impiego delle ricchezze si effettui in modi evidenti di rapina e di quella che in tedesco è chiamata Raubbau (economia depredatrice): l’usura su scala smisurata, il saccheggio delle colonie o dei paesi asserviti, gli armamenti e la guerra, l’utilizzazione del meccanismo fiscale per assicurare dei redditi parassitari a se stessi e a una numerosa clientela di parassiti subalterni. Si riconoscerà qui la dominazione degli ottimati romani durante i due ultimi secoli della Repubblica; e si riconoscerà anche la “degenerazione imperialista” del capitalismo moderno, a partire soprattutto dal 1920.

Quanto all’ochlos, o plebe, o massa, esso si situa al polo opposto del “popolo”. È il popolo sradicato dalle sue comunità, dimentico dei “costumi” senza più altra mitologia che dei brandelli inerti e scoloriti di superstizione. L’ochlos antico era composto dei contadini cacciati dai loro campicelli ancestrali, di tutti i rifiuti umani che non hanno cessato di brulicare nei porti del Levante, e anche delle masse di schiavi mescolati e dispersi all’epoca in cui a Belo si mettevano all’incanto diecimila capi di bestiame umano. L’ochlos moderno, dal canto suo, non è composto che in parte (ed è, a mio parere, la parte meno importante) da quello che i marxisti chiamano Lumpenproletariat. Il grosso è costituito da elementi per i quali il marxismo stesso non ha che il vocabolario elastico e abusato all’infinito di “piccola borghesia”. Ma come applicare un tal termine a quella che vediamo essere la massa moderna, la quale ci sembra a volte comprendere l’enorme maggioranza della popolazione, con al margine una esigua élite e un ormai quasi introvabile “popolo”? Riscattare dall’incultura di cui è preda una simile massa con i mirabili mezzi di comunicazione e di diffusione che la tecnologia moderna mette a servizio della massa appunto, sembra un’utopia: non è dall’alto e a macchina che si costituisce una cultura.

Sull’educazione

Andrea Caffi,1950.

Ai programmi d’educazione obbligatoria e inesorabilmente razionale che Platone ha esposto nella Repubblica e nelle Leggi si fa risalire tutto il sistema occidentale delle scuole pubbliche, cioè controllate e dirette secondo certi criteri d’ideale convenienza per fornire sia un ben addestrato personale di governo sia dei cittadini (o sudditi) ben pensanti. Si suppone, cioè, che l’esempio dell’Accademia avrebbe indicato allo Stato (laico o ecclesiastico) il mezzo di dominare anche le coscienze.

Qui, per cominciare, si dimentica che, per rigorosa che fosse la disciplina immaginata da Platone nel suo Stato ideale, la nozione della rigidità di un dogma qualsiasi è del tutto assente dalla sua filosofia. Basti, a ciò indicare, il passo del Politico (294b) dove Platone dice: “La diversità che si avverte negli uomini e nelle loro azioni, l’assenza completa d’immobilità nelle cose umane, sottraggono queste a qualsiasi regola semplice, applicabile a tutti i casi e valida per tutti i tempi; ogni arte umana ha da fare con cose mutevoli e varie, quindi procede tenendo assai minor conto delle regole generali che d’ingegnosi adattamenti alle circostanze.” Lo sforzo da fare, per capire Platone, è sempre quello di tener pensieri simili in non minor conto di quelli nei quali si esprime il rigore del filosofo deciso a svolgere fino in fondo un certo ordine di riflessioni, per opporlo alle incertezze velleitarie del comune discorso.

Ma il vero paradosso è che la formazione dell’uomo e del cittadino ideata nell’Accademia, e variamente poi praticata dalle altre scuole filosofiche, mirava anzitutto a risvegliare, a rendere coscienti e efficienti le migliori capacità dell’animo, naturalmente implicite, ma che non potevano spontaneamente esplicarsi nell’ambiente corrotto dalla polis in decadenza, e tanto meno in quello delle monarchie ellenistiche o barbare, e perciò esigevano di essere coltivate in qualche giardino sottratto a ogni ingerenza delle autorità costituite. La conseguenza anche più paradossale era che la politeia alla quale si preparavano i discepoli di queste scuole e verso la quale puntavano le loro positive aspirazioni non poteva assolutamente identificarsi con nessuno Stato esistente, anzi si ergeva spesso di fronte a questi come un punto di appoggio per una critica risoluta.

Ora, quest’autonomia di un consorzio ideale, e l’ascendente che la sua mera affermazione esercitava sulla società reale (contribuendo anche a mantenere vivo il senso di un “diritto naturale” al disopra e al difuori di ogni legislazione coercitiva) non ha mai potuto essere soppressa o addomesticata dai poteri costituiti: i Senati, gli imperatori, i re hanno potuto chiudere scuole, proscrivere in massa i “filosofi”; ma non appena si decidevano a fare un posto alla vita intellettuale, costretti a convincersi che senza questa non avrebbero neppure avuto le risorse e il decoro della civiltà dovevano poi ineluttabilmente lasciarla perseverare in libertà nelle sue proprie vie.

Decisiva fu la determinazione della Chiesa cattolica — dopo parecchie esitazioni e reazioni — di fare una parte congrua a questa eredità del paganesimo: altrimenti non si sarebbe potuta mantenere la preminenza dell’elemento ecclesiastico fra la popolazione di antiche città; tanto più che, la parte più attiva del clero reclutandosi nel ceto colto delle medesime città, non si vede neppure come si sarebbe costituita una gerarchia veramente cattolica, o “ecumenica”, senza un compromesso fra le “regole” di una setta, sostenute dalla coercizione, e le “norme” prive d’ogni sanzione che caratterizzano una società civile distinta dallo Stato. Non pare assurdo vedere in ciò un merito dell’imperatore Giuliano, che gli storici hanno forse torto di compatire tanto per le “romantiche chimere” cui sarebbe andato dietro: con l’aver posto in chiara luce i valori propri della tradizione ellenica e invitato i “nazareni” a rinunciarvi se volevano essere coerenti (nel decreto che chiudeva ai cristiani l’accesso alle cattedre di eloquenza, poesia, filosofia), è probabile che Giuliano suscitasse un generale ravvedimento quanto all’insostituibile prestigio dell’alta cultura ellenica, contribuendo così a far nascere l’avido zelo con cui vediamo i Padri Cappadoci da un lato, e Girolamo, Ambrogio, Agostino dall’altro, incorporare quanto più potessero di pensiero greco al patrimonio della civiltà cristiana.

Le Scuole, del cui tipo Oxford e Cambridge conservano oggi gli ultimi vestigi, furono fulcri della teologia ortodossa, ma anche focolai del pensiero critico che doveva confondere la teologia medesima; sostegni della Civitas Dei, ma foggiami pure i princìpi e le norme di una giurisprudenza laica ad uso imperiale; infervorate di Platone e d’Aristotele non meno che della Sacra Scrittura; cosmopolite per l’universale latino adoperato nell’insegnamento e per il nesso, che si potrebbe dire federativo, stabilito fra

le varie “nazioni” di studenti; fautrici di eguaglianza sociale nel reclutamento di scolari e maestri; cumulanti privilegi del Papa, dei prìncipi, dei Comuni e gelosissime di un’autonomia spesso riottosa. Tali Scuole hanno largamente fruito per secoli del particolare sistema medievale secondo il quale ogni “ordine” sociale costituito a comunità o “università” diventava uno “stato” relativamente libero entro lo Stato.

“Lo ‘stato’ (ordo) — dice Huizinga — è una realtà voluta da Dio… Questo modo di concepire la società come divisa in ordini penetra fino al midollo ogni considerazione teologica o politica.” Si potrebbe rilevare che l’università del medioevo, disponendo (a differenza delle scuole filosofiche di Atene, o d’Alessandria) di poteri coercitivi quali una polizia e dei tribunali nei riguardi dei suoi membri, rappresentava una formazione intermedia fra la semplice comunità e il consorzio politico. Giustamente uno storico inglese (nella Cambridge History of the Middle Ages) connette la fondazione e lo sviluppo delle università al fatto che “il secolo XII fu un periodo durante il quale un grande movimento verso ogni specie di associazione si veniva manifestando in tutta l’Europa”.

Gli ulteriori destini della “pubblica istruzione” in Europa e la maggior parte delle caratteristiche questioni che oggi ancora sono attuali in questa sfera si possono ricollegare alla serie di “scissioni” che vediamo effettuarsi nella società europea agli inizi dell’epoca moderna: divisione del mondo cristiano in cattolici e protestanti e divisione in Stati nazionali con relative culture “nazionali”; separazione sempre più grande fra capitale e lavoro parallela all’enorme distanza frapposta fra governi e sudditi nelle monarchie assolute (con l’aggiunta opposizione fra la Cour e la Ville); infine il fosso che l’umanesimo ha contribuito a scavare fra la vita spirituale del popolo e l’ambiente intellettuale dei ceti facoltosi.

Il “chierico” poteva essere “vagante”, mendicante, di modi plebei, senza che ciò diminuisse la sua intrinseca superiorità (così come, per quanto riguarda l’antichità, la condizione giuridica dello schiavo non impedisce che sian giunti fino a noi i nomi di schiavi ammessi alle grandi scuole di filosofia). Invece l’honnête homme difficilmente poteva formarsi, e soprattutto riuscire, se nel tenore di vita, nelle maniere, nel linguaggio non si assimilava alla classe dirigente. Cominciava quella che Aldous Huxley chiama the Age of Respectability, e finirà nei “dottori” e “professori” del nostro tempo, sicuri della loro posizione sociale e della loro carriera, ma non altrettanto del loro rapporto con una cultura viva e dell’influenza della cultura medesima sulla società. Notiamo di sfuggita che il clerc di Julien Benda somiglia assai più a un honnête homme provvisto di rendite e perciò procul negotiis che a un filosofo cinico o a un eresiarca.

Contro questi motivi di disunione, una resistenza efficace fu opposta fin da principio dall’attiva comunanza sovranazionale e sovraconfessionale che la cultura classica e la scienza mantennero nel campo degli studi, parallelamente alla pressione irresistibile del commercio e del progresso tecnico, per cui diventava sempre più uniforme e solidale la vita economica delle nazioni.

In sostanza, nei paesi protestanti le università create durante il medioevo hanno attinto un vigore nuovo, combinando l’umanesimo con il libero esame (libero, intendiamoci, entro limiti talvolta assai angusti) dei problemi della fede. In conseguenza, la scuola (collegi come Eton, o ginnasi come Schulp-forta) si modellarono sulle università e servirono di preparazione a queste. Una differenza essenziale fu dovuta a circostanze particolari: la classe dirigente inglese, che sapeva organizzare i suoi interessi al difuori dello Stato, e imporre a questo le sue “leggi non scritte”, ha fatto dell’alta cultura un monopolio di casta, accentuandone i lati “educativi”; e la barriera non è stata spezzata che ai giorni nostri. Nel Settecento, l’istruzione superiore, in Inghilterra, veniva dispensata da due tipi di istituzioni: l’aristocrazia mandava i suoi figli nelle public schools e nelle università, lige a tutte le tradizioni nonché alla Chiesa stabilita; le Academies dei non conformisti accoglievano invece molti ragazzi del ceto mercantile e industriale, ed è da queste alte scuole di dissenters che sono usciti uomini come Daniel Defoe, Richard Price, Godwin, Hazlitt, Priestley.

In Germania, invece, la grettezza degli staterelli e la rozza sufficienza dei baroni, degli Junker eccetera, ha lasciato le scienze e le lettere in uso e consumo a un’umile (e soprattutto umiliata) classe media. L’università fu, in terra tedesca, vivaio di pastori, medici, funzionari, Hauslehrer, dai modi goffi e per lo più servili, isolati dal popolo e rassegnati a ossequiare ogni signoria, i quali talvolta potevano ritrovare libertà (“ideale”) e dignità nelle stramberie della pura erudizione, nelle polverose penombre di faustiani laboratori, nell’incontrollabile gergo di monografie in numerosi volumi in-folio.

Nei paesi dove vinse la Controriforma, la Chiesa romana (e talvolta anche il principe autocrate) ebbero a loro mercé i cadaveri delle antiche università, sprofondate nel conformismo e nell’astio ringhioso contro ogni novità scientifica o letteraria. L’istituzione che con più successo ha sopperito a questa eclissi di già gloriosi centri d’istruzione è stata il collegio dei gesuiti: una scuola che noi diremmo “secondaria”, ma che doveva bastare a sé, nel senso che la maggior parte degli alunni, uscendo di lì, non intendeva avviarsi a studi superiori.

Potrebbe sembrare pacifico che in tal modo la cultura si trovasse asservita in modo completo a una autorità d’indole totalitaria. È tuttavia notorio che la volontà gesuita di dominio sulle anime (e sui corpi) si è sempre valsa di metodi affatto contrari a quelli di cui i totalitarismi comunista, fascista e hitleriano ci hanno offerto gli esempi. La pedagogia, come la politica, dei figli di Sant’Ignazio ha saputo pazientemente valersi del compromesso: les chemins de velours.

La Compagnia di Gesù non identificava gli scopi da essa perseguiti né con la fortuna di una dinastia, né con la supremazia di una nazione sulle altre, né con gli interessi specifici di una classe dominante; persine entro la Chiesa, teneva a preservare una certa linea propria che alla Santa Sede, al clero secolare, agli ordini monastici rivali non sempre garbava. Si trattava di religiosi che preparavano scrupolosamente i giovani alla vita di Corte e alla carriera delle armi. La vita del collegio, l’aver passato cioè una parte dell’adolescenza in un quasi claustrale distacco dalla famiglia e dal “secolo”, poteva anche favorire, negli allievi non istupiditi dalla fredda disciplina dei Padri, il formarsi di una facoltà di giudizio più complessa di quanto i Padri medesimi non desiderassero. Ma soprattutto, se nulla s’opponeva a che i gesuiti distillassero nell’insegnamento i loro narcotici morali e alterassero la realtà inculcando nozioni speciose, non era in loro potere la determinazione del fondo e dei limiti della cultura generale di cui dovevano nutrire le menti se non volevano perdere la loro distinta clientela.

Fuori dalle serre dove essi intendevano far crescere la “pianta uomo” a modo loro, esuberava una vegetazione che né la Chiesa né le polizie di Stato erano in grado di contenere: la “repubblica delle lettere” (strettamente legata, nei secoli XVII e XVIII, al movimento scientifico), alla quale mezzi d’espansione così esigui come il libro letto da trecento persone, il salotto e il teatro bastavano per diffondere una concezione liberale dei diritti della ragione in una società molto sensibile alla paura di apparire “barbara”. Comunque, facendo leggere Plutarco e addestrando alla discussione coerente, smorzando gli orgogli di casta mentre volentieri stimolavano ambizioni letterarie, i gesuiti hanno potuto educare… Descartes, Voltaire e la generazione dell’Enciclopedia.

Quel che importa ritenere di questi esempi è che lo Stato della monarchia assoluta, le tendenze abbastanza eterogenee degli ambienti sociali dove sono sorti i collegi per l’aristocrazia inglese, le fucine di dotti in Germania e le scuole dei gesuiti destinate a formare un mondo benpensante dai gentili costumi non hanno impedito a tutte queste istituzioni di perpetuare una cultura che né per il contenuto né per le forme aderiva direttamente a preoccupazioni e opportunità del momento. Ma furono da una parte la concezione nient’affatto totalitaria, anche se angusta, della cultura, dall’altra l’esistenza di una società ristretta ma capace di elaborare liberamente i frutti della medesima, a permettere quel risveglio progressivo della vita intellettuale dal sonno teologico che doveva diventare impetuoso e travolgente nel secolo decimonono.

Mito e mitologia

Andrea Caffi, 1946.

Tutti sembrano d’accordo nel chiamare “miti” quei prodotti della mentalità collettiva che si esprimono in “racconti”, ma anche in danze, rappresentazioni rituali e simboli di ogni specie nelle società cosiddette primitive. Si è detto che questi prodotti contengono allo stato di abbozzi indifferenziati tutti gli elementi che più tardi si distingueranno in esperienze religiose, teorie metafisiche, creazioni artistiche “pure”, scienza prima magica e poi razionale, e forse anche in sistemi di morale, di diritto, di disciplina politica o ecclesiastica. Secondo Roger Caillois (e forse Frazer e Lévy-Bruhl sarebbero stati d’accordo con lui), il mito muore, perdendo la sua realtà (ossia la sua efficacia rituale, magica, normativa), nella letteratura: per Caillois i miti di Platone sono già letteratura.

Ora, a me sembra che, lungi dal morire, il mito si complica e esercita un’influenza più vasta sulle coscienze individuali e nella comunione sociale quando: 1) le forme differenziate dell’arte, del dogma religioso, della filosofia, della scienza gli offrono una molteplicità di “maschere” ambigue, nelle quali colpisce a volte la ricerca espressa dell’artificio, ma a volte anche l’audacia dell’invenzione spontanea tutta personale; 2) la lotta incessante fra la comunione umana e le meccanizzazioni (o azioni di massa) si esprime nella società nel conflitto — spesso tragico — fra il bisogno di creazione mitologica e la tirannia spirituale del razionalismo consequenziario, della verità strettamente rivelata o dimostrata, dell’uniformità confessionale, politica, morale e anche estetica.

Quanto al fatto di “credere” (a potenze soprannaturali, magiche, dèi, dèmoni, eccetera), esso non costituisce davvero una linea di separazione netta fra il primitivo e, per esempio, i miti di Platone o le storie che ci racconta Erodoto aggiungendo: “Credetene pure quel che vorrete” (ma se lui non ce le raccontasse non conosceremmo nemmeno la metà della realtà, della mentalità, dell’infrastruttura sociale greca o barbara di cui egli è riuscito a trasmetterci 1’” immagine viva”). Il mito è fin dalle origini una rappresentazione, e soprattutto una comunicazione di “cose che non esistono, eppure sono”.

Mi spiego. Per il solo fatto di esser messo in forma di racconto o di simbolo, il mito esclude dall’esistenza nel mondo gli esseri, gli eventi, le norme di condotta, le possibilità di successo, le catastrofi, eccetera, che costituiscono il suo contenuto: son tutte cose che sono accadute nel mondo “quando io non esistevo”, o che accadono in un mondo diverso da quello nel quale “io esisto”. Tuttavia, io ne partecipo, voglio e devo parteciparne, ma secondo modalità assai diverse da quelle dell’azione o dell’” impegno” in virtù del quale peno per sussistere, coopero (o litigo) con i miei simili, lotto contro la natura, e via discorrendo. Si è detto giustamente che il terreno del mito è il terreno del sacro: ora, il sacro è necessariamente fuori dalla mia portata, inaccessibile, incomprensibile (ossia, ricordandosi del significato primo di comprehendere: non afferrabile in senso fisico), ineffabile, in quanto il linguaggio è uno strumento utilitario d’intesa immediata e precisa. Tutto lo sforzo del mito — inseparabile dalla magia e dalla mistica attiva e passiva — è di toccare, rendere presente (o constatare come presente), simboleggiare (“simbolo” era all’origine un mezzo di riconoscimento e d’alleanza) l’ineffabile con la parola, l’inesistente con affermazioni quali “c’era una volta” o “c’è, in una terra che sta a sette mari e trentanove terre da noi…”. Il paradosso è che senza questo “inesistente” l’esistenza non avrebbe un significato umano e senza l’ineffabile il linguaggio umano si distinguerebbe appena dalle manifestazioni vocali degli animali.

Si è voluta limitare l’”età mitologica” arguendo che l’ossessione del sacro e lo spirito di partecipazione non esisterebbero che fra i primitivi, mentre l’uomo civilizzato si difende dall’intrusione dei sogni, pensa e agisce secondo i dati “critici” dell’esperienza e della logica, e insomma vive in un universo desacralizzato. Ma è esatto? Io non credo che il più intellettuale degli uomini sia capace di eliminare ogni coefficiente emotivo — e quindi ogni spirito di partecipazione — dalle sue esperienze quotidiane e dai suoi rapporti con le cose e le persone. Ci sono certo differenze, e si possono ricondurre a diversità di situazioni nell’ingranaggio sociale. In un ambiente primitivo, gli stati di torpore sono, come fra gli animali, passività vera e oblio dell’esistenza, mentre la stessa routine del cacciatore, dell’agricoltore o dell’artigiano esige una continua presenza di fattori di fortuna e di sfortuna, l’osservazione di “segni” nell’ambiente e nelle cose, nonché presentimenti e precauzioni d’ordine magico. Per converso, il lavoro a catena, l’obbedienza passiva del soldato, l’attività del burocrate, la “febbre degli affari” comportano un torpore dello spirito in piena esistenza produttiva. Qui è il senso vero della maledizione biblica: “Mangerai il pane col sudore della tua fronte”; ossia, nell’oblio forzato delle realtà non esistenziali. In secondo luogo, la solitudine o il disorientamento fra uomini e eventi che mi sono totalmente estranei sono eccezione rarissima nella vita dei primitivi, mentre costituiscono quasi la regola nelle agglomerazioni civilizzate; allora l’esperienza mitologica, pur persistendo assai virulenta in fondo alla coscienza, è costretta a interiorizzarsi e a corazzarsi di pudore, comunicandosi di rado e con estrema difficoltà, si da prendere forme assai vicine all’alienazione mentale.

Fra mitologia integrale e mitologia differenziata c’è un’altra differenza. Parlando delle pitture neolitiche, Roger Fry diceva che quella sorprendente facoltà di “vedere” il mammuth o il bisonte in un volume vivo fuori di ogni costruzione di prospettiva, di proporzioni, di dettagli, si è perduta nel momento in cui l’uomo è diventato geometra, ossia capace di misurare e dissociare ciò che vedeva; e questo sarebbe accaduto già nel periodo neolitico. Sembra d’altra parte che i bambini abbiano una visione delle cose che consiste nell’abbracciarle tutte in un solo colpo d’occhio, ma che appena apprendono a scomporre le lettere una per una perdono tale facoltà. Questo fa pensare che, nel deplorare l’invenzione della scrittura, Platone si riferiva non già all’effetto visivo delle lettere, ma alla desacralizzazione del linguaggio che la scrittura opera attraverso l’illusione che una parola indichi una volta per tutte un identico oggetto e che la si possa adoperare dunque come uno strumento o un simbolo esatto. Dal linguaggio parlato alla scrittura c’è una transizione analoga a quella del disegno che da istintivo diventa ragionato: non c’è dubbio che il linguaggio degli illetterati è in perpetua creazione mentre la scrittura fissa sia la forma che il significato di ciascuna parola; la tradizione orale, calda di ispirazione immediata e di varianti improvvisate, è ben altrimenti vitale che la tradizione affidata al Libro.

Ora, potrebbe darsi che la credibilità, la verosimiglianza, l’asserzione della verità storica di ciò che si racconta e si rappresenta e si raffigura costituiscano un grande sforzo per risalire la china dell’evoluzione e stabilire una distinzione fra “verità” e “menzogna” di cui, in fondo, il primitivo si disinteressa. Ciò corrisponde a una preoccupazione di stabilità e di sicurezza (previdenza economica e difesa militare organizzata) che certe tribù primitive sembrano ignorare. I rapporti fra i numeri e la regolarità del corso degli astri sono stati dei punti di appoggio per dare certezza e anche “luogo” (topos) a miti già sviluppati. Ma integrando il mito alla realtà cosmica e storica lo si “disumanizzava”: il libero slancio dell’immaginazione e il Lust zu fabulieren venivano cioè a trovarsi inibiti dal terrore di un potere così alto e così implacabilmente regolato, mentre d’altra parte l’elemento di gioco spensierato proprio del mythologhein era paralizzato dall’intensità stessa delle angosce e delle speranze che suscitava “ciò che deve sicuramente accadere”.

Di qui il carattere alquanto tetro delle mitologie astrobiologiche (nelle quali, cioè, il corso degli eventi terrestri si suppone legato organicamente a quello degli eventi celesti) presso i Caldei e gli Aztechi. Su questo punto, il “miracolo greco” ha operato in pieno, svolgendo una chiara e meravigliosa scienza dei numeri libera da ogni pesantezza di materializzazione magica. L’intelligenza greca assimilò i numeri e gli astri ai ritmi, ai tipi e alle forme che nell’esistenza del mondo in cui siamo immersi sussistono solo come modelli eterni, luminosi, gratuiti, e cioè non ci impongono alcuna servitù, ma al contrario ci incitano alla libertà dello spirito. Quindi la vera realtà degli astri e dei numeri appartiene, secondo i Greci, a una regione situata del tutto fuori dalle nostre vicissitudini: la regione appunto del mito, che in questo caso la ragione, nonché dissolvere, riscopre e assicura. Onde la facilità con cui, in Platone, le sublimità matematiche si armonizzano con miti da lui inventati.

Lo sforzo verso la verità in arte, nella scienza, nei sentimenti (sincerità), nei rapporti sociali (giustizia), nonché indebolirla, da nuovo vigore alla creazione mitologica, mentre ogni dogmatizzazione della verità e ogni asservimento del vero a fini esistenziali uccidono il mito. Così il messianismo, e così anche il razionalismo utilitario. Il giudaismo è così povero di mitologia perché dopo la teocrazia istituita da Esdra esso si è esasperato nell’osservanza di una legge minuziosa e nell’attesa di una redenzione nel “mondo nel quale esistiamo”.

Nel cristianesimo, d’altra parte, la mitologia è quasi interamente eterodossa. Paolo di Tarso, con la sua insistenza fanatica sulla salvezza attraverso il miracolo della Croce, ha isterilito molti germi mitologici che esistevano nel Vangelo e nella prima comunità cristiana. Nella Divina Commedia si sente il contrasto fra il cattolico che crede all’esistenza “reale” (e in questo mondo che è il nostro) del Ciclo e dell’Inferno e il poeta il quale sa bene di non aver visto per grazia speciale i regni di Cristo e di Lucifero: una certa armonia fra i due non si stabilisce che nel Purgatorio, dove la ricca fioritura mitologica di reminiscenze antiche e di folklore italo-provenzale e una dogmatica addolcita dall’influenza dell’ellenismo plotiniano si fondono abbastanza bene. D’altra parte Michelangelo, malgrado l’assai vivo e nostalgico sentimento del mito antico e eroico dell’Uomo, si lasciò dominare dalla sete di una verità totale imperiosamente fondata dal Dio dei due Testamenti; e ciò potrebbe essere un riflesso del suo triste destino di solitario e quasi reietto dalla società. La Chiesa non ha mai tollerato che si meditasse troppo sui “misteri” che essa aveva accuratamente circoscritto col dogma. D’altro canto la debolezza dei calvinisti, dei quaccheri, dei metodisti, sta nella loro certezza di possedere una verità semplice e totale e d’esser quindi al riparo dalle tentazioni “pagane” del mito.

Aristotele era troppo intelligente, e troppo greco, per scartare l’alone mitico dalla conoscenza del mondo: la sua osservazione sulla verità superiore del poeta rispetto allo storico lo prova; ma il suo sistema, volendo spiegar tutto, ha certo favorito quella specie di DDT antimitologico che furono la scolastica in generale e il tomismo in particolare. Quasi il contrario, ma con risultato analogo, accade in Hegel, il quale credette di poter imprigionare ogni mitologia passata o avvenire nella rete della sua dialettica. La Justice di Proudhon è impregnata di autentica mitologia, nella nozione stessa di “giustizia”, in quella del contratto, dell’”uomo del popolo” e della “filosofia del popolo”. Invece Marx, nella sua volontà di cambiare a ogni costo e effettivamente il mondo qual è, ha ripudiato quasi con odio i motivi mitologici che pure, nel 18 Brumaio, egli aveva sfiorato. Così, Bergson ha voluto che la sua “ evoluzione creatrice “ fosse una realtà esistente e ha finito col deprezzarne il significato mitologico; mentre Sorci, parlando di “mito” a proposito dello sciopero generale, si è lasciato trascinare da Marx e da Bergson insieme a un’incomprensione totale del contrasto fra mito e fede messianica.

Perché — mi si potrebbe domandare — insistere a chiamare “mitologia” quello che tutti conoscono sotto il nome di linguaggio, letteratura, arte, religione, filosofia, scienza? Non sarebbe un semplice sinonimo di quella che i marxisti chiamano “ideologia”?

Risponderò per cominciare che, se c’è un sostrato comune a tutte le attività dello spirito e alle loro creazioni differenziate, un termine che indichi questo comune denominatore può essere utile. Ma c’è ben altro. Nel linguaggio, nei costumi e superstizioni, nella vita religiosa, in tutte le arti, nella filosofia e nelle scienze c’è una gran parte di manifestazioni che sono al di qua del mito: tutto ciò che è utilitario, determinato dai bisogni dell’esistenza dell’individuo nella società. Nell’arte, nella religione, nella ricerca della verità esatta, nelle antinomie della coscienza morale, ci sono d’altro canto dei momenti che sono certamente “al di là” di ogni mito: per esempio, il Nirvana, la follia della Croce, la perfezione di un certo verso di Dante o di una certa frase di Bach, talune forme di santità o d’eroismo. Il campo proprio della mitologia, secondo me, è quella specie di comunione umana che io chiamo “società per eccellenza”: lì la persona umana può sentirsi libera da ogni impegno, non tenuta a rispettare nessun obbligo e a temere nessuna sanzione, e capace anche di dominare ogni angoscia accettando come realtà (non fosse che momentaneamente) delle forme le quali importa poco che corrispondano o no a qualcosa nel mondo nel quale io esisto. Questa società è in pericolo perpetuo, e oggi più che mai, di esser schiacciata dall’organizzazione economica, dallo Stato, dalle masse e via dicendo. Queste oppressioni schiacciano, snaturano, falsificano anche la mitologia, sostituendola con degli Ersatz.

Ma certo, anche questa mia idea della società, per quanto io mi sforzi di ragionarla e corroborarla con esempi tratti dalla storia, potrebb’essere un mito…

Frazer e Lévy-Bruhl riferiscono con un certo compiacimento che, avendo un etnologo domandato a un indigeno australiano il quale gli aveva raccontato un mito abbastanza complicato sul fuoco, portato agli uomini da un uccello-totem-antenato: “Ma insomma, era un uccello o un essere umano?”, l’indigeno “lo guardò senza capire”. Per conto mio, credo piuttosto che l’australiano stesse dicendo fra sé e sé che a quel bianco non c’era proprio verso di far entrare qualcosa in testa.

Per capire il mito bisogna prendere l’equivoco “essere-esistere”, “menzogna-verità”, attraverso tutta la nostra esistenza nel mondo, unitamente alla coscienza di tale equivoco e allo sforzo disperato o entusiasta per uscirne e quindi alla volontà di esistere “fuori dal mondo” (o, che è lo stesso, fuori dall’esistenza effimera e mutevole), come dei dati irremovibili del la condizione umana. Ma questa condizione comprende il fatto non meno equivoco e non meno misterioso della comunione fra esseri umani. Esiste una connessione primordiale e inestricabile fra ciò che necessariamente attingiamo alla vita in comune con i nostri simili, l’irrequietezza inappagabile dell’intelligenza e la coscienza di un destino assurdo fatto di malattia, vecchiaia, morte, passioni distruttive, ma anche di aperture illimitate verso la felicità, l’eroismo, la santità e la saggezza. “La ragione diventa dissennatezza i benefizi flagelli” dice un famoso apoftegma tedesco in cui si vuoi riassumere una certa dialettica della storia. Per esprimere il rapporto fra l’esistenza sociale e le esperienze intime che danno vita al mito (sia nella sua forma primitiva e indifferenziata che in quella evoluta e differenziata), io sarei tentato di invertire i termini e dire che, li, “la dissennatezza diventa ragione e i flagelli si trasformano in benefizi”. Il racconto favoloso che meraviglia il bambino o l’uomo semplice non è più una menzogna: è una catarsi liberatrice per colui che l’ha inventato (ma mai di sana pianta: gli elementi sono nella tradizione) o lo dice, un addolcimento dell’esistenza nella visione di un aldilà delle tribolazioni quotidiane per colui che l’ascolta.

L’eroe, dice all’incirca Roger Caillois, è “colui che io vorrei essere”. Sì, ma non è mai solo questo, e mai a lungo. Io so bene che non sono e non sarò mai un eroe, anche se, adolescente, sono posseduto dal desiderio di emulare l’eroe: nella mia ammirazione ci sarà sempre un overtone d’accompagnamento che dirà: “Non è cosa di questo mondo”; e tuttavia bisogna che degli eroi ci siano, che io possa pensarli, venerarli, amarli perché la vita sia qualcosa di più che realtà trita e opaco miscuglio; così come bisogna (ed è un altro caso di potere mitopoietico) che l’amore che provo e la persona che amo siano delle miracolose eccezioni a tutto ciò che esiste normalmente. A ciò bisognerebbe aggiungere da una parte gli effluvi magici per cui gli eroi o i santi son concepiti come dei protettori reali, dall’altra la riduzione dei modelli eroici a proporzioni accessibili e “realistiche” le quali permettono all’individuo di coltivare ambizioni plutarchesche (ma in queste c’è già una certa degradazione del mito).

La giustizia non è certo un mito, e ancor meno un’astrazione della ragione ragionante; ma senza una trama multipla di creazioni mitologiche che vanno dai proverbi e dalle favole fino ai discorsi dei sofisti, alle lamentazioni di Giobbe, alle parabole evangeliche, alla visione di Er l’armeno in Platone, le norme e le antinomie del giusto e dell’ingiusto non potrebbero essere sempre presenti, attive, contrariate, violate, vendicate, in ogni transazione sociale e nell’infrastruttura di ogni società.

Il mito è dunque un fermento attivo che determina i rapporti fra individui nella società (e i rapporti di produzione come gli altri), ma solo nella misura in cui tali rapporti sono impregnati di spontaneità e, direi, di “buona salute” umana. La paura e il bisogno possono essere degli stimolanti della creazione mitologica, ma è evidente che la fame abbrutente e il terrore paralizzante spezzano gli stimoli e aboliscono ogni discernimento. Il fatto essenziale è la meccanizzazione dei rapporti umani, sicché ogni riflessione su quel che si fa e ogni curiosità per l’ambiente vengono represse o obnubilate, e la società non è più che un gregge ben organizzato. Allora, naturalmente, le forze economiche continuano ad agire, ma l’assurdo e la sofferenza senza riscatto riempiono l’esistenza.

La disputa fra Marx, i comunisti sinceri e Sartre da una parte, e dall’altra Platone, Proudhon e Tolstoi riguarda appunto l’uomo che una comunità disgregata ha privato di costumi e di miti. La polis degenerata, il regno dello “speculatore di borsa”, la civiltà delle macchine e del daffare febbrile sembrano ai secondi mostruosità omicide da cui bisognerebbe a ogni costo allontanarsi per rifarsi (anche a prezzo di rinunzie ascetiche) un’anima viva e dei legami sociali fondati sulla giustizia. Mentre, al contrario, per Marx il proletario è tanto più vicino alla redenzione quanto più “non ha niente da perdere tranne le sue catene”, e fra le “catene” si denunziano in primo luogo tutti i residui di creazioni mitologiche, qualificati di “alienazioni”; bisogna annientare definitivamente tutti questi pregiudizi e queste chimere che frenano ancora la rivolta totale: allora un uomo nuovo, nudo, guidato dalla sola ragione (pragmatica), edificherà una società nuova nella quale l’esistenza sarà governata dalla conoscenza della realtà, di tutta la realtà e di nient’altro che la realtà.

Questa concezione non manca certo di grandezza apocalittica: è la sublimazione dello stato di rivolta in sé e per sé. Ma credo che Sartre si sia sbagliato quando ha indicato come “essenza” della condizione del proletario in rivolta il “materialismo” (ossia una dottrina positiva che si pretende fondata sulle conclusioni delle scienze esatte, ma in realtà deriva dalle costruzioni metafisiche di Feuerbach). Io penso che Sartre avrebbe dovuto dire l”‘ateismo “.

Io penso infatti che sia dalla quasi frenetica negazione della divina provvidenza iniziata da Bayle e continuata in forme più proletarie nel Testament du Curé Meslier che comincia realmente la guerra senza quartiere contro l’ordine stabilito, la monarchia di diritto divino, le Chiese, i privilegi della nascita, del denaro e perfino della cultura. Dalla Fable des abeilles di Mandeville a Candide, questa critica non lascerà pietra su pietra delle istituzioni e delle superstizioni tradizionali. “E con le budella dell’ultimo prete strangoleremo l’ultimo re, “ si cantava alle cene della buona società. E nelle canzoni bacchiche del XVIII secolo si trovano accenti di una violenza ancor più volgare, mentre il diario di Barbier riferisce attentati sacrileghi (assai grossolani) perpetrati di notte nelle chiese dagli operai esasperati del Faubourg Saint Antoine. In Inghilterra, questi sentimenti di negazione furente non si diffusero, malgrado una miseria ancor più atroce, perché le congregazioni metodiste riuscirono a persuadere i proletari che essi non erano totalmente esclusi dalla comunità e dai meriti della respectability.

E tuttavia Robespierre aveva ragione di dire che l’ateismo era aristocratico. Questa negazione radicale, infatti, si mantiene (e cioè evita di cadere nell’abbrutimento dell’ubbriaco o nel risentimento sfrenato del fuorilegge) solo grazie a un esercizio assiduo della vita intellettuale e a qualche possibilità d’esistenza indipendente, sia pure nelle file della bohème. Anche i nihilisti russi del 1860 erano degli aristocratici. Nel momento in cui i saint-simoniani e i nobili penitenti russi del 1870 cercavano di operare una conversione romantica a un qualche sistema di valori spirituali, e ciò sembrava la china naturale di una riscoperta del problema sociale, il marxismo trasformò “dialetticamente” in dottrina positiva i princìpi dell’ateismo negatore. A questo, il materialismo come dottrina metafisica non s’è mescolato che accidentalmente.

La vera questione sarebbe se la rivolta può mai esser altra cosa che una fase passeggera: l’idea di “rivoluzione permanente” potrebbe essere stata suggerita a Trotsky da una ripugnanza istintiva dell’intelletto per l’ottimismo imbecille (e mistificatore) di cui in seguito così abbondantemente si sarebbe servito il potere bolscevico. Ma insomma, è possibile riedificare la società con uomini i quali, avvezzi a non concepire remora alcuna nella lotta a oltranza, hanno deliberatamente ripudiato gli elementi sostanziali di ogni comunione sociale: l’umanità dei costumi, gli slanci del cuore, quel limite intrinseco allo scatenamento della volontà efficiente proprio dell’impulso mitologico?

L’infallibilità dell’istinto negli animali, specie inferiori, è stata certo esagerata: comunque, non conosciamo che i casi di successo, visto che il difetto ha generalmente per conseguenza la sparizione del soggetto. Gli sforzi coronati da successi così sensazionali del taylorismo e di altre razionalizzazioni mostrano abbastanza chiaramente come neppure le leggi di bronzo del determinismo tecnico-economico eran riuscite a far trionfare la praxis sui capricci psicologici che sono all’origine dei gesti gratuiti. Siccome è probabile che molti movimenti “inutili” e ritmi spensierati, nel corso del lavoro produttivo, abbiano origine in pregiudizi magici, abitudini rituali e altre simili fantasie, ecco di nuovo la facoltà mitologica, gran responsabile del disordine che s’insinua là dove dovrebbero regnare l’ordine assoluto e la più rigorosa coordinazione. Lo stakhanovista è a due passi dal Kapò e dalla SS dell’universo concentrazionario. E taylorista, stakhanovista e SS erano già prefigurati nel mito antico del consiglio dato a Periandro o a Tarquinio col gesto di decapitare con un colpo di bastone i papaveri che avevano l’insolenza di sorpassare il livello collettivo dell’erba. Negli eserciti moderni come nell’esecuzione del piano quinquennale, l’errore è proibito. È pur vero che tale rigore è compensato, in questi tipi d’organizzazione, dalla larghezza con la quale si tollera la “dispersione” di bombe destinate a distruggere un ponte sui bambini delle scuole o sugli affreschi di Mantegna; o dai metodi approssimativi con i quali corti marziali e tribunali rivoluzionari fanno fucilare centinaia d’innocenti… pour encourager les autres. Ma l’impulso mitologico introduce precisamente in tutto il tessuto della vita collettiva, sempre di nuovo, le ragioni d’errore e di disordine; le illusioni, le chimere, l’attaccamento irragionevole alle tradizioni e alle superstizioni, onde continuamente il superfluo si amalgama al necessario, il gesto gratuito all’azione razionale, il caso alla meccanica regolata. Per non sentirsi schiacciato, sembra che l’uomo — e una collettività veramente umana — abbia bisogno di dirsi che “forse quello che deve accadere non accadrà” e che, fino all’ultimo istante, un coup de dés potrà mutar l’ordine dei timori e delle speranze. E questi errori, queste chimere, queste assurde speranze, nella misura in cui son lasciate esistere, sono il vero cemento di una società sana.

Prima di passare all’attacco, i Boscimani tengono un consiglio di guerra in cui ogni guerriero ha il diritto di esporre le sue idee sul modo di condurre le operazioni. Questo non è molto diverso dai tumultuosi dibattiti nel campo degli Achei nel corso dei quali Ulisse provò la durezza del suo bastone d’avorio sul cranio puntuto di Tersile; e forse senza quel colpo perentorio Troia non sarebbe mai stata presa. Così, la vittoria di Salamina sembra essere dipesa dal famoso: “Batti, ma ascolta”; dove è da notare che la frase di Temistocle, che da ventitré secoli tutti gli scolari hanno appreso come un fatto, è invece probabilmente una just so story, un mito autentico.

Presso un’altra tribù africana, quando gli uomini partono per la guerra, il posto più alto nella gerarchia militare è tenuto da un personaggio detto “conservatore del fuoco”, il quale marcia alla testa delle truppe tenendo in mano una torcia accesa; se la torcia si spegne, è un segno infausto e l’esercito batte immediatamente in ritirata e torna ai suoi focolari. Questo ci offre forse la chiave per capire la “ colonna di fuoco” al cui seguito marciavano gli Israeliti durante l’esodo. Un illustre vescovo anglicano del settecento interpretava tuttavia quest’ultima come un fotòforo perfezionato messo in opera dall’astuto Mosè senza rivelarne il segreto al popolo.

Ebbene, eccoci qui di fronte a tre strati sovrapposti di mitologia: la significazione magica che la torcia accesa davanti all’esercito poteva avere per i primitivi Israeliti in marcia nel deserto; l’interpretazione “jehovista” o “elohista” che ne diede il redattore del libro dell’Esodo; le idee del vescovo Burnel su Mosè quale archetipo di un illuminato discepolo di Newton pronto a difendere gli interessi della High Church con trucchi alquanto discutibili. E a questi tre strati, perché non aggiungere il quarto: quello dell’oscuro epistolografo di Toulouse che non esita a supporre un’affinità di credenze fra gli Owambo d’Africa e il popolo eletto, quando non sappiamo neppure in modo certo se gli Ebrei son veramente stati tenuti in cattività dal Faraone e se la storia della loro emigrazione clandestina nella terra di Canaan corrisponde a verità? Quel che è certo è che quando si considerano le vicissitudini delle collettività umane da questo punto di vista, sembra impossibile ignorare la “presenza reale” dell’invenzione mitologica (più o meno rispettosa del vero o anche del “compossibile”) in tutti i modi di essere, intenzioni, decisioni, buone e cattive fortune delle persone coscienti che vivano in comunione spontanea con i propri simili. E sembra anche che la solenne asserzione di Marx: “L’umanità si pone soltanto gli scopi che essa è capace di realizzare”, sia un’insigne sciocchezza.

Certo, l’homo sapiens è prima di tutto homo faber. La conquista del fuoco e l’invenzione degli strumenti ha realmente staccato l’umanità dalla condizione animale, e il progresso umano non è concepibile senza il perfezionamento e la complicazione dei mezzi di produzione. Noterò che già Platone, e Esiodo prima di lui, esponevano chiaramente quest’ascensione dell’umanità primitiva, e che esistono presso tutti i popoli miti sulle invenzioni benefiche prima delle quali gli uomini vivevano una vita miserabile. Tuttavia, l’idea di un progresso indefinito sembra estranea ai Greci: per loro, il perfezionamento dell’intelligenza umana non si confonde in nessun modo col perfezionamento delle technai e dei meccanismi sociali; mentre la perfezione (che essa sia o no cosa di questo mondo) implica necessariamente un punto d’arrivo. Il quale, beninteso, non è mai per i Greci un punto morto di stabilizzazione, ma è concepito a immagine dell’eterno, armonioso e luminoso moto degli astri in un cielo immateriale o composto di una materia tutta diversa da quella del mondo sublunare.

Comunque, le società in seno alle quali le tecniche produttive e i rapporti di divisione del lavoro (e dei suoi frutti) che esse prescrivono rimasero stagnanti sono per definizione dei popoli senza storia, al disotto del livello della civiltà.

Sì. E tuttavia anche qui si presentano alcune obiezioni. Il fatto che durante i centomila anni almeno dacché esistono delle collettività umane, dei periodi così lunghi e un così gran numero di società si sian mantenuti in un equilibrio di vita materiale forse precaria, ma anche di giustizia, di contentezza e di pace che le masse delle grandi civiltà avrebbero ragione d’invidiare, un tal fatto si spiega male dicendo che gli inizi sono lunghi e difficili o —come vorrebbe il professor Toynbee— che occorre la frusta di catastrofi o di challenges eccezionali per far avanzare le civiltà. Giacché i primi passi — il fuoco, gli utensili, ma anche i riti, gli ornamenti, i miti, i culti, la magia e la mistica — sembrano esser stati percorsi molto presto e universalmente. Mentre se d’altra parte si considerano le catastrofi della storia (quelle, per esempio, che han determinato spostamenti massicci come quelli degli Unni e dei Mongoli) sembra che il loro bilancio si chiuda piuttosto in passivo, con più distruzioni di vite umane e di valori civili che progressi. Quando la vittoria (dei nomadi sui sedentari, dei Romani sul mondo ellenistico, di Pizarro sugli Incas) non era il semplice effetto della forza bruta, del numero e dell’improvviso scoraggiamento, essa aveva certo la sua ragione in una tecnica superiore degli armamenti e dell’organizzazione militare; ma le tecniche che dal punto di vista dell’economia e della complessità dell’organizzazione sociale sembrano aver maggiore importanza — in particolare le arti e i mestieri — erano più sviluppate presso i vinti, e subivano quasi sempre un’irrimediabile decadenza. Il marxista dirà forse che questa economia superiore era giunta al punto critico a causa dei contrasti sociali suscitati dalla sua “ dialettica immanente “, e quindi avrebbe dovuto rinnovarsi o perire anche senza l’urto esteriore. Oppure i barbari e i civilizzati saranno considerati come elementi di un medesimo sistema e la lotta fra i “sazi” degenerati e gli invasori famelici diventerà una specie di lotta di classe. Ma queste mi sembrano costruzioni artificiose.

Inoltre, se i popoli che (per ottusità metafisica?) non hanno voluto mutare il loro modo di vivere durante millenni vanno esclusi dalla storia — concepita come il cammino ininterrotto, o una serie di capitomboli, verso il “salto finale” nel regno della libertà — la storia finisce col non esser più conoscenza obbiettiva del nostro passato, ma una caricatura razionalizzata, simile a quella per cui, nella Naturphilosophie, Hegel delineava l’”ordine gerarchico” delle piante e spiegava dialetticamente la crescita del grano dal seme, negato nello stelo e aufgehoben nella spiga. I popoli senza storia hanno vissuto, la loro presenza — che non sempre si limita a una parte passiva — negli avvenimenti e nei sistemi economici delle epoche più memorabili della storia non può essere ignorata: i clienti sciti del commercio ateniese, i Germani di Tacito, i negri delle piantagioni erano davvero “popoli senza storia”? Il ricordo tangibile, il peso di un passato la cui accumulazione non può non aver determinato il nostro presente, ne sussiste non solo nei paesaggi terrestri, ma in tutta una eredità fisiologica e psicologica che portiamo, volere o no, ancora in noi: “Israele abomina Noab che cuoce l’agnello nel latte di sua madre, ed ecco perché mangiamo ancora di magro il venerdì…” dice Voltaire; ovvero si legga, in Su Ma Tsien, la storia dei dibattiti alla corte di Cina sull’arte di cavalcare degli Unni e come si finì con l’adottarla.

Sarebbe ridicolo voler contestare o sminuire la soggezione dell’uomo e della comunità alle condizioni materiali della loro esistenza. È evidenza elementare che il corpo e l’anima del marinaio, del fabbro, del contadino, del minatore — e anche del burocrate, del guerriero, del danzatore professionale — sono in qualche modo plasmati dalle occupazioni abituali e obbligatorie dalle quali traggono la loro sussistenza. Che la divisione del lavoro (nella quale vanno incluse le funzioni del capo, dello stregone, del prete, della cortigiana, del mimo, dell’aedo, del buffone, eccetera) ingenera e perpetua situazioni d’esistenza sempre più diversificate, con le gerarchie, caste, classi e tutti i conflitti d’interessi che possono produrvisi, è una constatazione che lo scriba egizio (nei “consigli a suo figlio”) faceva ancor prima di Esiodo e dei profeti d’Israele.

Nell’Europa occidentale del X secolo, una agricoltura dal rendimento assai mediocre, un’attrezzatura in cui il legno teneva un posto preponderante, una popolazione sparsa assillata dalle incursioni di Ungari, Normanni e Saraceni, l’assenza di mezzi di comunicazione e di scambio appena regolari, le relative frequenti carestie, la sotto-alimentazione cronica della gran maggioranza del popolo, la fortissima mortalità infantile, l’impossibilità di difendersi contro le epidemie e quindi una vita media breve accompagnata da vecchiaia precoce, più l’abitudine a sopportare infermità incurabili, tutto questo contribuiva a fare dell’esistenza un affare assai precario e triste. Donde l’instabilità di sentimenti e il nervosismo così caratteristici del primo periodo dell’età feudale; donde anche gli spiriti morbidamente attenti a ogni specie di segni, di sogni e d’allucinazioni; le macerazioni e le repressioni negli ambienti monastici; ma anche i furori, le disperazioni brusche, i colpi di testa frequenti negli ambienti laici.

Ma se ci si vogliono fare delle idee un po’ chiare sulla costituzione dei legami di “fedeltà e d’omaggio” che formarono la trama del feudalismo, sulla teologia di Cluny, sullo sviluppo dell’architettura e della scultura romaniche, sulle avventure di Ottone di Germania o di Alfredo d’Inghilterra, bisogna prendere in esame una quantità di fatti che sarebbe difficile ridurre in termini di materialità biologica o economica. I rapporti fra l’uomo e le cose, se non ci si contenta di esaminarli a volo d’uccello, costituiscono una trama assai fitta di eventi constatabili e di esperienze intime che dobbiamo necessariamente rappresentarci per via di supposizioni: ossia, alla fine, di “miti”. E non dobbiamo neppure dimenticare la verità lapalissiana che i fili che noi sbrogliamo uno a uno nel discorso rimangono inestricabilmente intrecciati nell’esistenza reale.

Lévy-Bruhl ha insistito (e non è stato il primo) sull’importanza che ha nella mentalità collettiva e nell’equilibrio vitale delle tribù australiane il “luogo” al quale sono connessi i riti periodici, le leggende genealogiche e cosmologiche, le interdizioni e gli statuti di ciascun clan. Ogni uomo del gruppo si sente in stato di partecipazione con le colline fra le quali è nato e anche con i punti cardinali secondo i quali è disegnata la topografia del suo villaggio, e così pure con gli animali e le piante che egli assimila ai suoi parenti e antenati. Quindi l’espulsione di una tribù dal suo “luogo” per assegnarla a un altro distretto, cosa che sembrava innocua all’amministrazione britannica, aveva invece per effetto una vera e propria disintegrazione della comunità: l’abbandono dei riti e delle norme di condotta, l’abbrutimento in una specie di disperazione collettiva. I medici spagnoli hanno studiato una malattia mentale che sembra non attaccare che i Galiziani della costa limitrofa al Portogallo: il Gallego emigrato è colto da una specie di nostalgia così violenta da deperire rapidamente, e spesso morire. Non s’è potuta trovare nessuna causa fisiologica di questo male, e esso appare tanto più sorprendente in quanto questi Galiziani son gente molto intraprendente e capace negli affari. La stessa cosa ho sentito raccontare di certi montanari del Caucaso.

Altra categoria di fatti: le evocazioni di paesaggi sacri sono fra le cose più belle dei cori di Sofocle e d’Euripide, e si sente chiaramente che l’incanto del luogo in se stesso non arriverebbe mai a provocare una tale emozione evocatrice se al luogo non fosse connesso un mito, un santuario, un sentimento di partecipazione vivissima fra un orizzonte molto preciso e ciò che v’è d’immortale nella polis.

Dire che tutto questo (e quel che significa il mare per il marinaio, la steppa per il cosacco, la montagna per il montanaro) è un semplice epifenomeno di abitudini inveterate, debolezza sentimentale di primitivi che si lasciano dominare dalla natura invece di dominarla, sarebbe una grossolanità e nulla più. Perché non ammettere, accanto alle strutture psicologiche e intellettuali che accompagnano i rapporti utili-tari con la natura, un piano mitologico percepito e vissuto fin dalle origini con intensità non minore, e altrettanto indispensabile delle forze produttive al mantenimento della coesione e della continuità sociale?

E parliamo un poco delle forze produttive esse stesse. Per cominciare, le tecniche che procurano all’uomo il suo pane quotidiano. Il Melanesiano che si è costruito un canotto con un’esperienza consumata dei minimi dettagli nella scelta dell’albero, l’essiccazione del legno, la forma interna ed esterna, l’esatta misura delle attrezzature, non crederà mai che il suo dominio sulla materia così trasformata basti a garantire che la imbarcazione tenga il mare; occorre anche che il manna agisca in senso favorevole, poiché negli alberi che egli ha abbattuto, negli attrezzi di cui s’è servito, nelle forme stesse che una lunga tradizione gli ha insegnato a dare allo scafo, e inoltre nella resistenza dell’acqua, senza parlare dei venti e delle tempeste, c’è una quantità di Dinge an sich capaci di ostilità come di benevolenza, e che dunque conviene cercar di propiziarsi con appositi riti. E questi riti non saranno per lui meno produttivi delle ore di lavoro incorporate nell’oggetto utile. Partendo per una crociera, questo navigatore non mancherà mai, nel manovrare la sua barca, di conformarsi a usi che il razionalismo economico condanna come puri sprechi. Ma non mancherà mai neppure, nella manovra, di attenersi strettamente a ciò che la tradizione e l’esperienza gli hanno appreso quanto all’arte del navigare.

Fin dalla prima pietra tagliata, la prima lancia o la prima freccia utilizzata per aumentare il rendimento giornaliero in cacciagione, le cose fabbricate hanno sollecitato l’attenzione dell’uomo, la sua prudenza, i suoi timori e i suoi calcoli di successo per il loro aspetto metafisico non meno che per la loro destinazione utilitaria. Se si guarda a quella che fu la conquista incomparabilmente più decisiva: la scienza di accendere il fuoco, si vedrà subito che il lato sacro del fenomeno, le preoccupazioni mistiche, magiche, mitologiche che suscitava assorbirono lo spirito umano e “le opere e i giorni” della collettività ben oltre l’età primitiva: fino agli altari delle Vestali o dei maghi zoroastriani, ai ceri della Pasqua cristiana, ai fuochi d’artificio inventati dai cinesi. Si dirà che questi brancolamenti della coscienza dei produttori mostrano soltanto quantae molis erat l’ascensione dell’umanità dall’ascia neolitica al ciclotrone, o la presa di coscienza da parte di un’apposita classe del vero significato di questo progresso fatale e dialettico?

Ma allora, ecco il meccanico che dice: “Si comincia col manovrare la macchina e si finisce per esserne manovrati.” Più un elettricista, un automobilista, un aviatore è esperto, più forte è in lui il sentimento che i meccanismi complicati che egli governa, e dei quali conosce a fondo tutti gl’ingranaggi, hanno malgrado tutto una specie di vita propria, sicché è altrettanto necessario saperli comandare quanto, talvolta, saperli ubbidire; mentre, per ridicolo che sembri crederci, il gioco perfido dei casi favorevoli e sfavorevoli ha una sua strana realtà.

D’altro canto, l’atteggiamento dell’ufficiale, del funzionario, del sacerdos in aeternum verso quei grandi meccanismi (tecnicamente assai complessi) che sono l’Esercito, l’Amministrazione, la Chiesa, è anch’esso dominato dalla convinzione più o meno cosciente che questi istituti hanno un valore esistenziale che sorpassa ogni finalità utilitaria: sono perché sono.

E ancora: bisognava essere Benedetto Croce, astratto nell’ammirazione della quadripartita e circolare attività dello Spirito, per credere che l’opera d’arte sia tutta quanta nello spirito del singolo artista come l’homunculus nello sperma secondo gli embriologi del XVII secolo. C’è la natura della materia, su cui 1’”ultima parola” non sarà mai detta: marmo, bronzo, colori, ma anche suoni e linguaggio (con i suoi sedimenti secolari di fonèmi e morfèmi); c’è l’azione dei “modelli” e delle tradizioni, per imprimere ai quali la sua impronta originale bisognerà pure che l’individuo artista abbia intravisto in qualche parte delle indicazioni di “possibilità” inedite, e sarà alla fine il “fondo mitologico” dell’esperienza collettiva, il quale ai più appare semplicemente come linguaggio ordinario, ma all’occhio penetrante rivelerà significati nuovi e profondi. Il romanticismo ha molto esagerato la funzione della “pura soggettività” nella creazione artistica.

Naturalmente, l’operaio al nastro di montaggio, il cui lavoro è accompagnato unicamente da una noia infernale, potrebbe difficilmente proiettare un alone mitologico intorno alla sua bisogna. Qui siamo ai limiti dell’universo perfettamente organizzato dei campi di concentramento. Ma le conseguenze possibili di una tale situazione non sono ancora state viste con lucidità. Già nel 1913, quel perspicace “filosofo del popolo” che era Alfred Merrheim notava la decadenza della Confédération générale du travail e dello slancio rivoluzionario nella classe operaia francese, e la spiegava col fatto che nelle condizioni attuali del lavoro industriale l’operaio perde il gusto del lavoro e ogni interesse a che il lavoro stesso sia fatto bene o male: quindi non desidera altro che il vantaggio (o il minor male) immediato; lavorare il meno possibile per un salario più alto possibile diventa il fine ultimo, da ottenere con qualsiasi mezzo, non esclusa la protezione dello Stato. In queste condizioni, naturalmente, i miti marxisti o soreliani venivano a perdere ogni senso.

Se le cose stanno così (e certo la condizione attuale dell’operaio somiglia al quadro dipinto da Merrheim ancor più di quanto non gli somigliasse nel 1913), bisognerebbe certo concludere che non esiste più traccia di spirito mitologico nell’attività tecnico-economica delle società di massa moderne. Ma bisognerebbe al tempo stesso concludere che la tesi marxista secondo cui i rapporti sociali meccanicamente imposti dalla tecnica della grande industria, dalla concentrazione dei capitali, dalla riunione di migliaia di produttori sfruttati nella stessa officina, suscitano necessariamente la coscienza di classe e quindi la volontà collettiva del riscatto, bisognerebbe concludere, dico, che questa tesi è radicalmente sbagliata.

È quel che concludeva già prima della guerra Simone Weil. Rimarrebbe la rivolta elementare, puramente negativa, contro un’esistenza che non vale più la pena di esser vissuta.

Si noti, in ogni caso, che per ottenere il consenso entusiasta (o la semplice rassegnazione?) delle masse operaie al ritmo accelerato della produzione sia nel periodo del riarmo hitleriano che durante i piani quinquennali sovietici, si son dovuti inculcare dei tipici Ersatz di mitologia in cui delle vaghe prospettive di paradiso terrestre si mescolavano a stimoli di genere sportivo e all’appello a sentimenti più o meno bassi (“ci vendicheremo degli ebrei” o “sorpasseremo l’America”). Non è impossibile che alla base del sovietsmo adoratore di apparecchi, e perfino in fondo al nazismo, al fascismo e al militarismo giapponese, si trovino degli elementi di mitologia autentica. Ma la creazione e l’esperienza mitologica sono intrinsecamente irreggimentate, intorpidite da una unanimità obbligatoria. Perfino il Dieu le veult delle orde riunite da Pierre l’Ermete non ebbe altro risultato che dei pogroms caotici e lo sbandamento finale dinanzi ai Turchi. La barbarie si definisce per la povertà di vita mitologica, e la barbarie sapiente, intenzionale, moderna (quella durch Wissenschaft bösartig geworden di cui parlava Heine pensando ai prussiani) è caratterizzata dalla volontà di ridurre la mitologia (quest’attività fra tutte gratuita) a surrogato per usi abietti.

Motivi mitologici sembrano dunque intrecciarsi intimamente alle invenzioni tecniche, e non possono essere assenti dagli effetti economici e sociali di queste conquiste nella “lotta per il dominio della natura”. Ma il fatto è che si possono trovare segni premonitori evidenti di mitologie persine nel campo che Marx ha studiato con più competenza: la rivoluzione industriale cui il capitalismo moderno deve il suo sviluppo.

L’èra del macchinismo non comincia prima del 1730. Per lo sviluppo degli strumenti tecnici nell’epoca precedente, un breve capitolo del primo volume del Capitale contiene un’idea molto interessante, ma non sviluppata: le tappe successive dello sviluppo tecnico potrebbero essere esposte in una serie che somiglierebbe molto alla filiazione delle specie secondo Darwin. Un utensile più adatto sostituirebbe per selezione naturale il precedente, pur conservando una certa parentela con esso. Questa potrebbe apparire come la prova trionfale di uno sviluppo quasi automatico, determinato unicamente da una dialettica inerente agli oggetti materiali. Senonché., l’osservazione è fatta a posteriori, esclusivamente sulla base dei risultati finali, e lascia fuori il fatto importante che in ogni tappa di questo processo c’è stato l’intervento della riflessione e della volontà dell’uomo che fabbricava lo strumento: ossia il fatto dell’abilità e dell’inventiva individuale; e alla base di questo fatto s’incontrano esperienze e impulsi d’ordine mitologico analoghi a quelli che presiedono alla fabbricazione degli strumenti “primitivi”.

Da Leonardo da Vinci in poi, c’è negli uomini come un’ossessione dei meccanismi complicati e possibilmente mossi da forze naturali, la quale s’esprime in numerosi disegni fantastici di artisti e in opere mezzo scientifiche mezzo utopistiche. Il giovane Pascal inventa macchine. Tutta la scienza dopo Galileo — con l’introduzione dei concetti di massa e d’accelerazione — fa dell’Universo una “macchina materiale”. Descartes vedrà negli animali delle macchine. Quando consideriamo macchine gl’ingegnosi epicicli i Eudosso e di Tolomeo, abbiamo torto. Per gli antichi, agli occhi dei quali le nozioni di forza e d’inerzia da vincere non potevano entrare in campo quando si trattava di corpi celesti, quelle figure erano semplice parto del virtuosismo geometrico, la cui eleganza “eterea” non ammetteva complicazione di movimenti, questi dovendo essere per definizione uniformi, eterni e armonizzati. Né andava diversamente dopo Galileo e Kepler, e soprattutto dopo Newton senza dimenticare i “vortici” di Descartes, anch’essi materiali). Notiamo anche che gli orologi (i quali non sono dei mezzi di produzione), la ricerca del perpetuum mobile, gli automi divertenti (molto prima di quelli che resero celebre Vaucanson) hanno assorbito ‘attenzione degli inventori prima ancora che essi penassero a ordigni di rendimento industriale.

Il marxista replicherà che si trattava già della coscienza di classe del capitalismo nascente che operava iella direzione voluta perché potesse attuarsi la presa li possesso degli strumenti di produzione. Ma bisognerebbe comunque precisare i nessi causali tra questa ipostasi del genio capitalista che spingeva i borghesi a arricchirsi col commercio o l’acquisto di cariche presso il Re Sole (Colbert dovette impiegare la coercizione per persuaderli a investire i loro capitali nelle manifatture) e gl’intellettuali a sognare meccanismi che avrebbero sboccato nell’inondazione dei mercati con la paccottiglia da una parte e, dall’altra, le vicissitudini individuali di un Leonardo, di un Huyghens, di un Biringuccio, di un Newton.

Torniamo dunque al mito delle macchine su cui s’orientavano insieme il pensiero di Galileo, di Descartes, di Leibniz e i sentimenti più o meno intensi e più o meno distinti dei loro contemporanei. Situiamoli nel loro ambiente culturale, in pieno stile barocco, fra le guerre di religione e le guerre di successione, fra la teologia del Concilio di Trento e le dispute per sapere se gli in folio dell’Augustinus di Giansenio contenessero o no quattordici o cento-quaranta proposizioni incriminabili, fra il cerimoniale compassato dell’Escoriai e la pompa di Versailles. Ricordiamo il gusto del sovraccarico, del complicato, dell’intricato, del “macchinoso” nell’arte dell’epoca; le macchine che si moltiplicavano nelle rappresentazioni di opere, divertimento tipico del XVII secolo, e tratti analoghi nei romanzi allora in voga, come il Grand Cyrus, senza dimenticare che qualcosa di simile si riscontra anche nel Don Quixote.

Il termine di “macchina” può legittimamente applicarsi a costruzioni che non sono né di ferro né di legno. Saint Simon chiama naturalmente machine royale il funzionamento regolare della Corte così numerosa, così scrupolosamente gerarchizzata, così minuziosamente applicata a ripetere i medesimi gesti. La gloriosa fanteria spagnola, l’esercito di Wallenstein, l’organizzazione militare creata da Louvois e da Vauban sono certamente dei meccanismi. Così pure la burocrazia dei grandi Stati centralizzati e autocratici. E la Chiesa romana cristallizzata dalla Controriforma. E, all’interno di questa Chiesa, la disciplina implacabile della Compagnia di Gesù, che scende fin nelle latebre della coscienza per regolarne il funzionamento “a maggior gloria di Dio”. Sarebbe difficile dimostrare che tutto questo s’è modellato teologicamente sul sistema delle manifatture. Ma nell’ordine della vita economica operava — e con una forza di movimento altrettanto incessante e inderogabile di quella che avrebbero potuto mettere in opera i vortici cartesiani — un sistema superlativamente razionale e automatico: la circolazione del denaro, che determinava gli alti e bassi di ogni esistenza individuale come della fortuna delle nazioni.

È diventato un luogo comune stabilire una connessione fra il regno del denaro, grazie al quale una ricchezza mobile e astratta (poiché consiste nel possedere la controparte generale di tutti i beni, di tutti i godimenti, di tutti i prestigi possibili), indefinitamente aumentabile e trasformabile, diventa il nerbo della guerra… e della pace per essere alla fine la sola misura dell’uomo, e l’individualismo, la Realpolitik, una concezione del mondo che riduce ogni qualità a formule quantitative con la tendenza sempre più accentuata al relativismo che l’accompagna. Un’espressione veemente di questi modi di sentire, di pensare, di vivere, la si trova nei drammi elisabettiani. Tuttavia io andrei ancora più indietro.

L’antichità ha conosciuto sia l’onnipotenza del danaro sia le grandi macchine dello Stato assoluto, come pure le ebbrezze e le angosce dell’individualismo e del relativismo, il razionalismo scientifico, forme d’arte barocche e un certo gusto per i meccanismi. Michelet malediva Alessandro per aver imposto al mondo civile il peso della machine royale. Il Macedone ha difatti imposto questa agli Elleni, che non son più riusciti a sbarazzarsene. E tuttavia non l’ha inventata, dato che gli elementi essenziali di essa esistevano già nella monarchia degli Achemenidi quale ce la descrive Erodoto. E Ciro e Bario hanno certamente anch’essi avuto dei modelli da copiare e da perfezionare: per la meccanica militare, l’Assiria; per l’amministrazione e le finanze, forse le satrapie meglio organizzate, cioè quelle che avevano in precedenza formato il regno lidio di Creso. I racconti del “padre della storia” hanno reso banale l’associazione di questo nome con un tesoro quasi inesauribile e delle fastose distribuzioni di “potere d’acquisto”; mentre d’altra parte è ai Lidi che si attribuisce l’invenzione della moneta sonante.

A sua volta, la conquista d’Alessandro ebbe come principale effetto quello di gettare in circolazione le migliaia di talenti d’oro e d’argento tesaurizzati a Persepoli, a Susa, a Ecbatana. Lo stabilirsi delle autocrazie ellenistiche (delle quali l’impero dei Cesari non sarà che la continuazione con procedimenti più brutali) ha per corollario uno stile di vita e dei gusti estetici che gli storici dell’arte hanno spesso paragonato all’arte e alle mode barocche. Certo, la passione degli europei del XVII e del XVIII secolo per una opera come il Laocoonte mostra delle affinità significative. E, dall’Alexandra di Licofrone alle Pharsalia di Lucano, quanti concettismi, quante solenni gonfiezze e artificiosi chiaroscuri di cui Maurice Scève e gli eufuisti, Camoens e il Tasso, Gongora e il cavalier Marino ci han dato l’equivalente… Michelet considera Pirrone, col suo dubbio troppo radicale per poter dar vita a un “metodo”, come un sussulto di rivolta disperata del pensiero greco contro l’opera di Alessandro. Il cosmopolitismo di Zenone e l’allontanamento da ogni partecipazione alla grandezza e servitù della cosa pubblica predicato da Epicuro sono reazioni non meno pertinenti. Da Eratostene a Ipparco, la scienza alessandrina ricorda irresistibilmente il progresso delle conoscenze esatte, e anche i rapporti fra scienziati e principi, durante il secolo che va da Bacone a Newton. Le formidabili macchine d’assedio inventate dagli ingegneri al servizio di Demetrio Poliorcete, la costruzione di galere in cui il numero dei ponti e di file sovrapposte di rematori aumentavano fino all’assurdo, le celebri lenti incendiarie di Archimede, sono esempi chiari di meccanizzazione tecnica durante il primo periodo ellenistico.

Il parallelo con l’epoca barocca non va, naturalmente, spinto troppo oltre: l’ho delineato unicamente per illustrare la mia idea di un mito delle macchine di cui quello che si constata in Europa a partire dal secolo XVII non è il primo esempio. Ma, naturalmente, la storia europea prese una tutt’altra direzione da quella dei regni ellenistici e dell’impero romano. D’altra parte, per ben definire i meccanismi il cui gioco s’esprime nel regno del denaro, nell’individualismo, nella politica di potenza degli Stati centralizzati, nei conflitti di metafisiche e di morali che cercano il loro fondamento nella ragione pragmatica e in determinazioni quantitative, bisognerebbe risalire fino alle prime ripercussioni di queste invenzioni tecniche sulla vita collettiva dei popoli civili e sugli stati di coscienza degli uomini che si usa chiamare “rappresentativi” perché han lasciato delle opere personali. Si potrebbe allora chiarire la differenza fra “mitologia spontanea” (legata ai costumi e alle tradizioni), “mitologia in evoluzione” (propria dell’ambiente che io chiamo “società”), “falsa mitologia” (con la ragion di Stato come motivo propulsore), e, infine, “mitologia degradata” (nello sconforto causato dalle catastrofi, dalla barbarie, dall’oppressione).

Umanesimo socialista

a cura di Paolo Repetto, 30 ottobre 2018

Umanesimo socialista

Quell’umanesimo socialista

Il senso della lotta

Le due anime

L’associazione

Capitalismo e libertà

Nella foto in copertina, il piedi: Heinrich Blücher, Hannah Arendt, Dwight Macdonald, Gloria Lanier; seduti: Nicola Chiaromonte, Mary McCarthy, Robert Lowell, 1966

Intervista a Pietro Adamo

realizzata da Franco Melandri

Quell’umanesimo socialista…

 

L’esperienza e la riflessione preziosa di quel gruppo di pensatori militanti, antifascisti radicali, come Rosselli, Caffi, Berneri, Chiaromonte, che videro anzitempo la natura dei due totalitarismi e rifiutarono il rivoluzionarismo finalista, in nome di una sperimentazione di società aperte, libere, in cui anche il mercato, liberato dall’orrore capitalistico, diventasse fattore di liberazione e di libertà. Intervista a Pietro Adamo.

Pietro Adamo, storico delle idee, si occupa principalmente della cultura politica del protestantesimo e della tradizione libertaria. Fra i suoi libri: Il dio dei blasfemi. Anarchici e libertini nella rivoluzione inglese (ed. Unicopli, 1993); La libertà dei santi. Fallibilismo e tolleranza nella rivoluzione inglese (ed. Franco Angeli, 1998); La città degli idoli. Politica e religione in Inghilterra 1524-1572 (ed. Unicopli, 1999). Ha recentemente curato la pubblicazione di Anarchia e società aperta. Scritti editi e inediti di Camillo Berneri (ed. M&B Publishing, 2001).

\r

\r Uno dei punti di crisi della sinistra attuale è senza dubbio quello della cultura politica. Tuttavia una recente serie di studi su personaggi come Carlo Rosselli, Andrea Caffi, Francesco Saverio Merlino, Camillo Berneri, Nicola Chiaromonte, per molto tempo tenuti ai margini dalla sinistra stessa perché in vario modo considerati ‘eretici’, fa pensare che siamo all’inizio di una ricerca dopo anni di sostanziale apatia…

\r Il motivo per cui negli anni ‘90 si sono intensificati gli studi sulle correnti ‘eretiche’ della sinistra (cioè del campo socialista, libertario, liberal-socialista) è da far risalire al crollo del Muro di Berlino e alla fine dell’Unione Sovietica. Dopo quegli eventi, infatti, non c’è più alcuna possibilità di pensare il socialismo in termini marxisti o marxisteggianti, per cui, se non ci si vuole appiattire sul capitalismo attualmente trionfante, è necessario cercare nella storia e nella cultura della sinistra dei ‘padri nobili’, dei primogenitori rispettabili che non siano stati coinvolti con il socialismo di stato in versione totalitaria. Questo è il motivo per cui, a proposito e a sproposito, oggi tutti, da D’Alema a Veltroni a Amato, citano Rosselli, Gobetti o Chiaromonte. Detto questo, tuttavia, bisogna anche aggiungere che sia a livello prettamente teorico sia a livello politico il rifarsi a questi ‘padri nobili’ non implica, né può implicare, un’adesione alle loro indicazioni. Se infatti nelle elaborazioni di Caffi, Chiaromonte, Berneri, Rosselli, eccetera, si volessero trovare delle soluzioni bell’e pronte per i problemi dell’oggi si farebbe un errore clamoroso, si andrebbe fuori bersaglio. Sono infatti passati settant’anni dalle riflessioni e dagli scritti di questi autori, la società è cambiata, l’universo mentale della gente è cambiato, per cui, per fare un esempio, un suggerimento come quello rosselliano circa un’economia ‘a due motori’ -pubblico e privato- presa in sé si rivela semplicistica, già superata dai tempi. In Italia, nel dopoguerra, tale suggerimento venne in parte accolto ed i problemi che oggi dobbiamo affrontare derivano proprio dall’intreccio che si è creato fra i due motori di questa economia: sappiamo bene che essi si sono trasformati da un lato nel protezionismo occulto dell’impresa privata, dall’altro nella crescita esponenziale della burocrazia e dell’intervento statale nell’economia…

\r La vera ragione per interessarci di questi autori, perciò, non sta tanto nelle loro indicazioni pratiche, quanto nel fatto che rappresentano il tentativo dell’antifascismo radicale di trovare una risposta ai problemi posti dall’ascesa dei totalitarismi continuando a tenere alta la domanda su come sia pensabile e possibile una società libera. Da questo punto di vista questi autori mettono in luce una cultura estremamente ricca, in cui possiamo trovare tantissime cose che si confanno alle nostre aspettative anche se questi settori dell’antifascismo rappresentano un’esperienza ‘saltata’, nel senso che le loro elaborazioni non sono mai entrate non solo nella coscienza politica della nazione, ma neanche nella progettualità di qualche componente politica della sinistra italiana. Per la sinistra l’averli accantonati è stata una grave perdita, perché su molte questioni furono particolarmente acuti e preveggenti. Oggi si parla molto della questione del totalitarismo, ma l’idea che il comunismo fosse un’altra forma di totalitarismo, che fascismo e comunismo fossero due facce della stessa medaglia, nasce proprio in questo ambito, negli anni ‘30.

Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte, Tuluza 1947
Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte

\r È un’idea che non nasce con la Arendt, ma dalla cultura politica di questi militanti. In verità, proprio riguardo al dibattito sul totalitarismo, gli italiani hanno avuto un’importanza non da poco ed è forse possibile vedere proprio in loro una delle radici genealogiche del pensiero della Arendt: negli Stati Uniti la Arendt era collaboratrice di Politics, la rivista di Dwight Macdonald, nella quale sono comparsi scritti di Chiaromonte e Caffi (con Chiaromonte, fra l’altro, la Arendt fu molto amica). Non è del tutto assurdo sostenere che una radice dell’analisi arendtiana del totalitarismo affondi proprio in questo laboratorio. Questi “militanti che pensavano”, secondo me, hanno proposto un nucleo di riflessione intorno alla questione del totalitarismo molto importante e fruttifero, forse più fruttifero del lavoro dei vari scienziati della politica, soprattutto per il tentativo che questi militanti-pensatori compirono di pensare una società libera come frutto di una rivoluzione antifascista. Da questo punto di vista le loro teorizzazioni sono molto interessanti perché sono dei possibili punti di partenza per ripensare i problemi attuali della politica. Il Polo delle Libertà, ad esempio, si è impadronito della parola d’ordine della libertà e presenta, non a torto, il liberismo come una delle principali strategie del vivere libero; dall’altra parte la sinistra si è totalmente amputata la possibilità di discutere delle possibilità di libertà insite in una politica di liberalizzazione e si è arroccata a difesa degli interessi corporativi. Tuttavia, se si va a vedere come pensavano una società libera i vari Berneri, Rosselli, Gobetti, allora ci si accorge che tutti loro valutavano in modo estremamente positivo il liberismo, anche se, naturalmente, lo pensavano in termini eticamente forti, per cui non lo vedevano solo nel liberismo economico in senso stretto, ma come il cemento possibile di una società libera.

\r Il principale difetto del liberismo berlusconiano, invece, sta proprio nell’essere un liberismo che riguarda la sola economia: quando i conservatori italiani parlano di liberismo, infatti, parlano semplicemente e sostanzialmente della libertà degli imprenditori di fare tutto quello che vogliono. Questo, per loro, è il liberismo, mentre quando si parla di altre cose -di diritto di famiglia, di sesso, di droga, eccetera- questo liberismo della destra scompare come neve al sole e viene fuori la faccia vera del conservatorismo autoritario. Lo si vede anche nei presunti portavoce liberali: qualche anno fa Galli della Loggia (cui rispose con sagacia Nadia Urbinati, dalle pagine di Critica liberale) sostenne che lo stato aveva il pieno diritto di controllare il tipo di sostanze che assumevano i suoi cittadini, la qual cosa è quanto di meno liberale, quanto di meno liberista, uno possa mai immaginare.

\r Ma come vedevano in realtà il liberismo questi militanti-pensatori?

\r Va innanzitutto detto che fra i personaggi di cui parliamo c’erano differenze anche profonde, soprattutto dovute alla loro provenienza politica e al pubblico cui si rivolgevano. Così, ad esempio, Berneri rimase per tutta la vita un anarchico e agli anarchici soprattutto si rivolgeva; Rosselli era un socialista, ma anche un liberale, e si rivolgeva agli appartenenti ad entrambe le tradizioni e così via; va anche detto che le loro riflessioni trovarono numerosi punti di contatto e di consonanza. Il caso del liberismo è uno di questi: sostanzialmente lo vedevano tutti in termini etici, cioè come valorizzazione ad oltranza del pluralismo e della differenza, la qual cosa implica la libera sperimentazione come principio integrale che ispira la vita associata; libera sperimentazione che, evidentemente, ha uno dei campi d’applicazione certo nell’economia, ma lo ha anche nella vita sessuale, nella vita associativa, eccetera. L’idea generale era quella di valorizzare le possibilità di sperimentare liberamente ogni tipo di attività umana e all’interno di questo paradigma veniva valorizzata anche l’idea di una libera intrapresa economica. In un periodo in cui i totalitarismi presentavano come ipotesi costruttiva l’idea di uno stato fortissimo, per molti di questi autori la valorizzazione dell’intrapresa economica individuale diventava anche momento di difesa nei confronti dell’invasività dello stato.

\r Una delle cose che colpiscono è il fatto che questo gruppo di persone di origini e appartenenze politiche diverse, trovasse necessaria una discussione in qualche modo comune: Berneri discuteva con Rosselli e aveva collaborato con Gobetti; Caffi e Chiaromonte erano membri di Giustizia e libertà, ma anche vicini a posizioni libertarie…

\r Quando noi pensiamo a questi gruppi, dobbiamo avere presente un fenomeno, cioè l’emigrazione antifascista in Francia, soprattutto a Parigi, dove nella prima metà degli anni ‘30 convergono buona parte degli intellettuali giellisti, buona parte degli anarchici, Berneri in particolare, ma dove finiscono anche dei repubblicani radicali come Schiavetti e Montasini, essi pure vicini alle posizioni di Berneri, e la cosiddetta ‘ala libertaria’ del Partito Socialista, e cioè gente come Alberto Jacometti e, fino a un certo punto, Angelo Tasca. In questo ambiente di fuoriusciti, in cui tutti conoscevano sostanzialmente tutti, al di là delle diverse appartenenze politiche, a mio giudizio si crea una sorta di cultura antifascista radicale, nel senso di una cultura antifascista che mira non solo alla rivoluzione in Italia, ma ad un completo rovesciamento dello stile di vita politico prefascista. Gente come Rosselli, Chiaromonte, Berneri, infatti, non solo si proponeva di abbattere il fascismo in Italia, ma vedeva in questo il passaggio necessario per costruire un’altra Italia. Come dicevo, ad unificare questi militanti-pensatori era la domanda su quale potesse essere una società libera -più o meno socialista, più o meno liberista a seconda delle convinzioni individuali- scartando quelle opzioni che, all’epoca, sembravano condurre necessariamente verso il totalitarismo. Tutto questo implicava non solo scartare il comunismo in senso stretto, ma anche qualsiasi tipo di orizzonte finalistico, cioè l’idea che la società libera sarebbe stata una società perfetta, oltre la quale non sarebbe stato più possibile andare.

\r Per quanto riguarda poi la figura di Berneri, che come accennavo prima si confrontava con gli anarchici e si considerò anarchico per tutta la vita, a tutto questo si aggiungeva anche la necessità di ripensare in toto la politica -che invece gli anarchici rifiutavano e rifiutano- vedendone le possibili estrinsecazioni in chiave libertaria. Il ripensamento della politica, comunque, è un altro tratto unificante di questo variegato gruppo, e le risposte che essi dettero furono altrettanto variegate, andando dagli abbozzi di una democrazia libertaria, fondata sulla libera federazione di comuni, sui sindacati e sui consigli operai, elaborata da Berneri (ma che trovava in linea di massima concorde Rosselli), alle proposte di democrazia liberale conflittuale, mutuate da Gobetti, fatte da alcuni esponenti di Giustizia e libertà.

\r Questi temi rappresentavano un tratto d’unione perché buona parte di questi intellettuali avevano radici comuni, essenzialmente rappresentate da due personaggi: Piero Gobetti e Gaetano Salvemini, per molti di loro punti di riferimento imprescindibili. Berneri, ad esempio, certamente fu molto stimolato da Gobetti -che, non va dimenticato, morì nel ‘26, cioè appena all’inizio della forte emigrazione antifascista-, ma il suo imprescindibile punto di partenza fu sicuramente Salvemini, che fu un riferimento importante per lo stesso Rosselli. Era questo ‘universo culturale’ ad unificarli veramente: Ernesto Rossi, nonostante fosse incarcerato per quasi tutto il periodo fascista, in qualche modo, dal carcere, partecipa a questa temperie culturale proprio in virtù del presupposto salveminiano che lo unisce agli altri. E’ per questo che egli, pur isolato in carcere, finisce per pensare sostanzialmente quello che Berneri, Caffi, Rosselli o Montasini o Jacometti pensano nell’esilio francese.

\r C’era, insomma, una sorta di percorso comune dato dalle circostanze.

\r Ma questi intellettuali militanti come si ponevano i problemi del capitalismo, dell’anticapitalismo, del socialismo?

\r Questi autori sono quasi tutti accomunati da una feroce sensibilità anticapitalistica, anche se bisogna chiedersi che cosa fosse per loro il capitalismo, che cosa intendessero per capitalismo. A ben guardare, la maggior parte di loro intendeva il capitalismo come una perversione di fondo dei valori del mercato. In molti di essi a me pare di cogliere il tentativo di operare una distinzione tra il capitalismo realmente esistente e una società di mercato ideale. Alcuni di essi teorizzarono tale distinzione in modo specifico, cioè sostennero molto semplicemente che è possibile pensare a una società di mercato senza che questa necessariamente finisca nell’orrore capitalistico.

\r Certamente quello che quasi tutti criticano nel capitalismo è la perversione del mercato, cioè la trasformazione dei rapporti umani sulla base di rapporti economici, analisi non lontanissima da quella marxista classica. Ma accanto a questa c’è anche la valorizzazione di un certo tipo di eredità liberale, per cui il mercato viene immaginato essenzialmente come il risultato di una libera contrattazione tra individui che scelgono. Sono concezioni che troviamo in Berneri, in Rosselli e, senza arrivare a teorizzare il socialismo, persino in Gobetti: grande avversione per il capitalismo così come esso si è sviluppato e, di contro, un’ipotesi di lavoro che si muove attorno al problema della società giusta e libera, che per molti di loro voleva appunto dire socialismo.

\r A proposito della concezione che essi avevano del socialismo, però, occorre fare la stessa distinzione fatta a proposito del capitalismo, visto che in quasi tutti, da Berneri a Rosselli, da Caffi a Chiaromonte, quello che viene chiarito a fondo è che l’unico socialismo accettabile è un socialismo chiaramente libertario, che per loro, detto in soldoni, significava la necessità che venisse in qualche modo garantito al produttore il controllo del suo prodotto.

\r In questa ottica Berneri recupererà anche l’esperienza dei consigli operai, emersi sia all’inizio della rivoluzione russa sia nella brevissima esperienza della Repubblica dei Consigli di Baviera del 1919, sia nell’occupazione delle fabbriche italiane, nei primi anni ‘20. In sostanza, comunque, il modo in cui tutti loro pensavano il socialismo era radicalmente diverso dal modo in cui lo pensava il marxismo (per il quale il socialismo, fatto coincidere con la statalizzazione dei mezzi di produzione e scambio, era il punto d’arrivo reso necessario dallo sviluppo della stessa società capitalistica).

\r Essi lo vedevano non tanto come una precisa serie di soluzioni politico-economiche, ma soprattutto come una sorta di sovrastruttura umanistica della società. Certo essi pensavano anche a forme di socializzazione economica, ma quando parlano di socialismo si riferiscono essenzialmente all’idea di una società che si pensa come tale, cioè ad una società fondata su una serie di vincoli umanistici precisi, in particolare il riconoscimento della dignità di ogni persona, del singolo individuo.

\r Questa, comunque, è una riflessione che negli anni ‘30 non appartenne solo agli italiani. Un autore che rifletté su questi problemi fu Emmanuel Mounier, il filosofo francese teorico del personalismo, molto spesso sottovalutato, che arrivò a teorizzare un socialismo umanistico di questo tipo, con grandi sfumature libertarie e antistatalistiche. Non a caso scrisse un saggio, Anarchia e personalismo, in cui c’è una riflessione sulla tradizione anarchica e sull’utilità che questa può avere proprio per un socialismo di questo genere.

\r La visione che del socialismo avevano gli antifascisti radicali, pur nelle diverse versioni, aveva quindi degli elementi di collettivismo, ma di un collettivismo non statalistico; un collettivismo che doveva essere il prodotto della libertà di associazione e, contemporaneamente, un’ipotesi umanistica sulla struttura della società. Considerando tutto questo, perciò, mi pare che, in verità, la contrapposizione fra socialismo e capitalismo operata da questi pensatori sia più che altro una contrapposizione etica, non una contrapposizione specificamente relativa agli strumenti dell’economia.

\r Dicevi prima che un altro elemento che accomuna questi intellettuali è il loro abbandono di ogni prospettiva finalistica e, quindi, dell’idea di rivoluzione intesa come fatto palingenetico…

\r Tutti loro, in verità, non superarono affatto il dilemma della rivoluzione, nel senso che tutti pensavano all’Italia libera dal fascismo come al frutto di una rivoluzione che doveva essere contemporaneamente antifascista e antigiolittiana, cioè una rivoluzione che spazzasse via radicalmente anche il liberalismo conservatore che proprio nel giolittismo si era incarnato. In questo senso, perciò, tutti loro continuarono comunque a pensare ad una frattura decisiva nella storia, una frattura che, in qualche modo, doveva azzerare, in tutto o in parte, quello che c’era stato in precedenza.

\r Nel loro pensiero, quindi, resiste questo mito della rivoluzione come atto fondativo, tant’è che il problema politico immediato che si ponevano era cosa fare per avere una rivoluzione in Italia. Tuttavia è anche vero che il loro modo d’immaginare la fattura rivoluzionaria era assai diverso da quello che si era affermato nell’800.

\r La maggior parte dei pensatori ottocenteschi di area socialista, fossero essi marxisti, anarchici o socialdemocratici, infatti, vedeva la rivoluzione come un evento di tipo decisamente millenaristico, cioè come il fatto che non solo apriva le porte di un mondo nuovo, ma anche di un mondo finale.

\r Per loro, cioè, la rivoluzione era l’atto che doveva porre fine a tutte le altre rivoluzioni e alla necessità della politica come confronto fra diversi interessi e visioni del mondo. Al contrario, soprattutto la riflessione di Berneri, Rosselli e di molti giellisti, tenderà a concepire la rivoluzione certo come evento che apre una nuova era, ma un’era che non viene affatto vista come la società perfetta, la società finale, il paradiso sulla terra, bensì come un’era in cui ci sarà la possibilità di ripensare a fondo i problemi della politica, dello stato e dell’economia, sperimentando le soluzioni più diverse. E’ in questa prospettiva che quasi tutti loro, in un modo o nell’altro, accetteranno quello che io, prendendo a prestito un’espressione cara agli anarchici, chiamo il paradigma della ‘libera sperimentazione’. Questi intellettuali, cioè, penseranno alla società libera come ad una società in cui il conflitto e l’interazione fra le diverse ipotesi di associazione economica, politica, sociale, non sarà affatto risolto, ma sarà un farsi dinamico. Penseranno quindi alla società socialista non come ‘società finale’, ma come una società che si è messa sulla buona strada, in cui però sempre resta ancora molto lavoro da fare; una società che è uno stadio di un più generale movimento di progresso e non lo stato finale di questo stesso progresso.

\r E’ all’interno di questo paradigma che il problema della politica, delle istituzioni e dello stato viene ripensato. C’è in tutti loro, in particolare in Rosselli, Berneri, Caffi, una profonda sfiducia nei confronti dello stato moderno e della democrazia rappresentativa, almeno per come essa si era realizzata prima del fascismo e del nazismo.

\r Lo stato e le istituzioni vengono quindi ripensate come il quadro di riferimento generale che da un lato garantisce una serie di libertà personali e collettive, mentre, dall’altro, è lo spazio all’interno del quale si sviluppa la dialettica fra le associazioni cooperative, i sindacati, i comuni, a loro volta visti come il vero centro della vita e della partecipazione democratica. In tutti questi intellettuali permane poi, pur senza alcuna mitizzazione (proprio Berneri fu autore di L’operaiolatria, un saggio radicalmente critico delle concezioni operaiste), la fiducia nelle capacità popolari e la convinzione che la partecipazione popolare sia non solo utile ma necessaria. E’ per questo che essi sviluppano un’idea della sovranità -cioè dell’elemento ‘sorgivo’ dello stato, che ne determina poi anche la natura specifica- che fa perno sul decentramento, per cui la sovranità non si accentra in un singolo organismo, ma, al contrario, va posta in una rete di relazioni sempre in divenire tra le istituzioni, le associazioni e i cittadini.

\r Berneri, che anche per la sua storia personale è quello che si confronta più radicalmente con la tradizione rivoluzionaria e con questi problemi, sottolinea la necessità, la non eliminabilità, della politica intesa non in senso funzionale, ma proprio in senso forte, cioè appunto come confronto e scontro fra diversi interessi e diverse visioni del mondo. Tutto questo lo porta, per esempio, a sottolineare la diversità costitutiva che esiste fra istituzioni fra loro coordinate e governo, sostenendo che quest’ultimo, in quanto sede centralizzata di decisione, si può abolire, mentre non si può abolire l’elemento istituzionale all’interno del quale, reticolarmente, anche la funzione decisionale del governo può essere diluita. Questa concezione è ovviamente assai diversa da quella dello stato-nazione ottocentesco, nel quale non solo governo e istituzioni finiscono per coincidere, ma il governo è l’elemento di direzione di una società in sé considerata sostanzialmente informe.

\r Dicevamo all’inizio che queste teorizzazioni e riflessioni sono sempre rimaste marginali nella cultura politica della sinistra italiana, eppure personaggi come Chiaromonte e Silone anche nel dopoguerra fondarono riviste, continuarono a partecipare al dibattito politico…

\r Innanzitutto va detto che la sinistra italiana, a parte Giustizia e libertà prima e, almeno parzialmente, il Partito d’Azione poi, osteggiò non poco questo tipo di riflessioni. I comunisti, ovviamente, non erano minimamente interessati, visto che la loro fiducia nel socialismo alla sovietica era, almeno sino alla svolta di Salerno, granitica e comunque, anche dopo la svolta di Salerno, la loro impostazione rimase decisamente marxistica, quindi molto lontana dall’’agnosticismo gnoseologico’, per usare un’espressione di Berneri, dei pensatori di cui stiamo parlando. La maggioranza del Partito Socialista, per quanto non ignorasse queste riflessioni, invece, finì per seguire Nenni e Saragat, per i quali, nonostante i loro dubbi, alla fine ‘socialismo’ voleva dire socialismo di stato.

\r Lungo tutto il corso degli anni ‘30, anzi, Nenni difenderà pervicacemente l’idea del socialismo di stato, addirittura difenderà l’idea di un socialismo che egli stesso chiamò ‘autoritario’ proprio per contrapporlo alle concezioni dei giellisti, dei quali diceva che erano dei libertari anarchici, non dei socialisti. In questo contesto il fallimento, nel dopoguerra, dell’azionismo significò anche il fallimento di queste opzioni etiche, politiche ed economiche, nonostante personaggi come Chiaromonte non si fossero certo ritirati a vita privata.

\r Proprio Chiaromonte, anzi, fu quello che portò alle loro conclusioni logiche alcune delle riflessioni di cui abbiamo parlato.

\r La svolta che Chiaromonte compì fu di rinunciare completamente ad ogni idea di rivoluzione, anche intesa nel senso in cui la intendevano Berneri o Rosselli, e di pensare alla costruzione di una società libera a partire dall’Occidente per come esso si è via via definito.

\r Il suo fu un percorso che lo accomunò ad un altro gruppo importante ed eretico, cui ho accennato anche precedentemente, cioè il gruppo di radicali americani che ruotava attorno alla rivista Politics e al suo direttore Dwight Macdonald e che comprendeva anche Hannah Arendt e Mary McCarty.

\r Una buona parte di questo gruppo negli anni ‘30 aveva fatto militanza nelle file comuniste e trotzkiste, ma negli anni ‘40 si mise alla ricerca di un radicalismo diverso e via via si orientò sempre più verso prospettive di tipo libertario.

\r Durante la guerra fredda questo gruppo, e con esso Chiaromonte, fece la scelta dell’Occidente, cioè dichiarò apertamente che, di contro ai paesi del socialismo reale, una società libera si poteva costruire a partire dalla configurazione democratica che buona parte dell’Occidente aveva progressivamente assunto. E questo senza bisogno di una rottura rivoluzionaria, ma lavorando sulle sementi liberali e democratiche.

\r La scelta certo non fu indolore, -Caffi, ad esempio, si rifiutò di compiere questo passo, anche se rimase in contatto con Chiaromonte per tutta la vita- ma a me pare sia stata importante proprio perché ci rivela uno dei possibili esiti costruttivi di quell’esperienza, cioè l’accettazione dell’Occidente come ambito nel quale condurre la sperimentazione integrale, senza più pensare ad un taglio netto con il passato, a una rivoluzione che ponga su un terreno nuovo. Anche perché, almeno a partire dalle fondamentali riflessioni di Simone Weil (la prima che pare capire, sin dagli anni ‘30, la natura “mitica” della rivoluzione), della rivoluzione si è progressivamente capita la natura d’inganno, cioè il fatto che essa può certo mobilitare le masse, ma troppo spesso, per non dire sempre, predispone anche le condizioni per il prevalere dei totalitarismi. A questo punto, rinunciando all’idea della rivoluzione comunque necessaria, l’umanesimo socialista dei Rosselli, ma anche dei Berneri, si trasforma in un’ipotesi di elaborazione interna all’Occidente. Proprio questo, a mio parere, è lo stimolo più importante che può venire oggi dalle elaborazioni dell’antifascismo radicale degli anni ‘30. Io non credo che oggi, per una sinistra che sia realistica ed abbia abbandonato ogni velleità palingenetica, ci siano altre possibilità. Ogni altra ipotesi mi pare ci porti sul terreno dell’utopia, e pensare l’utopia è una simpatica esperienza personale, una cosa che io auguro a molti, io stesso indulgo in questo stile di pensiero, ma è una questione che ha a che fare con noi stessi, è, come dire, un modo brillante di autogratificarci; insomma, è un’esigenza esistenziale, non una proposta praticabile sul terreno politico.

\r Io allora penso che la sinistra possa ritrovare se stessa all’ombra dell’Occidente, ma anche che l’Occidente debba essere pensato come un modello che permetta costantemente anche rotture violente.

\r E’ un po’ la logica cui si ispirava Thomas Jefferson, uno degli estensori della costituzione americana, che affermava il diritto del popolo di rovesciare il governo quando esso non faccia gli interessi del popolo stesso.

\r L’Occidente a cui penso, quindi, non è certo l’Occidente tranquillo e rilassante del liberalismo conservatore; non è quello in cui tutti si accomodano sotto l’ombrello protettivo di uno stato ‘garantista’, è invece un Occidente che rappresenta una palestra di libera sperimentazione. Per questo ciò che resta da fare -a noi e alla sinistra- è di sforzarci di trasformarlo sempre più in una palestra più ampia e variegata possibile.

Intervista a Gino Bianco

realizzata da Franco Melandri

Intervista a Pietro Polito

realizzata da Enzo Ferrara, Stefania Taranto

Il senso della lotta

 

Come in Piero Gobetti si intrecciarono liberalismo e idea di rivoluzione. Un marxismo valido nel suo materialismo e nell’idea di storia come storia di lotta di classi. Il grande valore democratico del conflitto e della lotta nella società. Intervista a Pietro Polito.

Pietro Polito, curatore dell’archivio Norberto Bobbio, ricercatore per il Centro Studi Piero Gobetti di Torino, ha lavorato a lungo con Norberto Bobbio e curato diverse sue opere, come la riedizione del De Senectute (2006) . Tra i suoi scritti: Piero Gobetti e gli intellettuali del Sud (1995) , L’eresia di Aldo Capitini (2001) , La democrazia alla prova (2005) . Nel 2007 ha pubblicato Il liberalismo di Piero Gobetti, edito dal Centro Studi di Torino. Presso il Centro studi coordina il “Laboratorio della democrazia”, che con un gruppo di giovani ha avviato un percorso di ricerca nella crisi delle democrazie contemporanee. L’intera raccolta della “Rivoluzione Liberale”, rivista storica settimanale diretta da Piero Gobetti e uscita dal novembre 1918 al febbraio 1920, è disponibile in rete all’indirizzo internet http: //www. erasmo. it/liberale/. Piero Gobetti fu protagonista giovanissimo di un periodo storico drammatico per il nostro Paese. L’intensità e la lucidità dei suoi scritti sorprendono ancora, soprattutto se accostati alle leggerezze e alle contraddizioni del presente. Pensi che sia utile rileggere Gobetti oggi? E’ difficile rispondere a questa domanda. Posso dire che nel mio ultimo libro questa possibilità rimane sullo sfondo, ma non è esplorata. Mi è sembrato più interessante provare a fare un percorso a partire da Piero Gobetti, uno degli autori studiati nei nostri seminari, non per arrivare a una riflessione sulla democrazia oggi ma per un ragionamento più storico, per arrivare a considerazioni più generali rispetto a quelle che l’attualità suggerirebbe. Il testo, nato da una serie di lezioni all’Università, si confronta sul rapporto fra Gobetti e la tradizione del pensiero liberale, sul suo liberalismo, che Gobetti stesso chiamò “rivoluzionario”, e sul suo illuminismo. Perché il grande tema di Piero Gobetti non è la democrazia, né la politica in generale, ma è il liberalismo: l’eredità e il rinnovamento del liberalismo. Gobetti è un intellettuale sui generis, che si colloca nella grande tradizione del pensiero liberale italiano ed europeo, ma che da questa tradizione si distacca per una elaborazione politica assolutamente nuova. C’è un articolo fondamentale nel suo cammino, “I miei conti con l’idealismo attuale”, del 16 gennaio del 1923. E’ un articolo di svolta, in cui si confronta con la sua formazione idealistica. Non se ne stacca completamente, però si pone oltre, egli stesso ricostruisce la cronaca della sua formazione intellettuale e dice a un certo punto: “Nel 1920 interruppi le Energie Nove perché sentivo bisogno di maggiore raccoglimento e pensavo a una elaborazione politica assolutamente nuova, le cui linee mi apparvero, di fatto, nel settembre al tempo dell’occupazione delle fabbriche”. Poi aggiunge: “Devo la rinnovazione della mia esperienza salveminiana al movimento dei comunisti torinesi da una parte, vivi di un concreto spirito marxista, dall’altra agli studi sul risorgimento e sulla rivoluzione russa che ero venuto compiendo in quel tempo”. Mi interessava rispondere a questa domanda: che cos’è questa elaborazione politica assolutamente nuova e a cosa allude Gobetti quando evoca quest’idea? La questione è importante. Gli anni di Gobetti vanno dal 1918 al 1925, sette anni incandescenti come incandescente fu la sua biografia. Sono gli anni dall’affermazione della rivoluzione russa mentre in Italia si andava dal socialismo possibile al fascismo reale. Cioè, dalla possibilità che l’Italia, dopo l’occupazione delle fabbriche, vivesse una rivoluzione, si arrivò all’avvento del fascismo e al consolidamento del suo potere. Fu un periodo storico e politico arroventato e complesso, i paragoni col presente possono essere fatti solo con grande precauzione. E poi bisogna saper leggere la realtà nel suo complesso. Nel periodo fra il 1918 e 1920 a Torino era attivo anche l’Ordine Nuovo… [continua]

Intervista a Nicola Del Corno e Sara Spreafico

realizzata da Carlo De Maria

Le due anime

 

Per Andrea Caffi il socialismo era uguaglianza, libertà, diritti, ma anche felicità; un uomo vissuto tra due secoli e tra tanti paesi, forgiato dalla cultura dell’illuminismo francese, ma anche dal populismo russo, in cui il razionalismo conviveva con la solidarietà per gli umili. Intervista a Nicola Del Corno e Sara Spreafico.

Sara Spreafico, saggista e giornalista radiofonica, ha curato recentemente l’antologia Andrea Caffi, Scritti scelti di un socialista libertario, pubblicata dalle edizioni Biblion di Milano (www.biblionedizioni.it), con una prefazione di Nicola Del Corno, storico dell’Università di Milano e condirettore della giovane collana editoriale “Storia, politica, società”, che ospita l’antologia.

\r Andrea Caffi considerava il socialismo come la realizzazione più alta nella storia dell’umanità, e mi sembra significativo il fatto che si pensi di ripubblicarlo e di rileggerlo proprio in un periodo (politico e culturale) nel quale tutta la tradizione socialista pare dimenticata e rimossa. Parliamo, allora, sia di inattualità di Caffi che di un ritorno a Caffi?

\r Del Corno. Di Caffi mi ha colpito soprattutto una cosa, la sua spiegazione del socialismo. Caffi afferma che il socialismo è uguaglianza, libertà, diritti per tutti, ma poi dice anche che il socialismo è felicità. Ecco, questa dimensione prettamente esistenziale della felicità è ciò che mi ha spinto a interessarmi a Caffi, ad avvicinarmi a lui, a considerarlo un grandissimo autore che, in qualche modo, dovrebbe essere riletto, ristudiato, rivisto, ripreso in considerazione anche dai nostri partiti della sinistra.

\r Credo, infatti, debba esistere una sorta di -chiamiamolo così- diritto (propensione o volontà) alla felicità. E felicità, oggi, cosa significa?

\r A mio modo di vedere che ciascuno possa autodeterminare la propria vita come meglio crede, che un giovane possa trovare un lavoro dignitoso, con un salario e con tutele sufficienti, per riuscire a gestire la propria esistenza. E quindi andare a vivere con chi vuole, appartenga oppure no allo stesso sesso; trovare una casa e poterla mantenere, non ridursi a essere un “bamboccione” fino all’età in cui non si deve più esserlo.

\r La felicità, dunque, è qui intesa come possibilità di scegliere in modo libero e responsabile la traiettoria della propria vita. Il socialismo deve far proprio questo diritto ad autodeterminare la propria esistenza, cambiandola, modificandola e così via.

\r Ecco, Caffi insiste su questo argomento, per tale ragione, a mio parere, se egli è inattuale per tantissimi aspetti (forse soprattutto per la carica utopica, visto che le utopie non godono di buona salute ai giorni nostri), però è attualissimo quando rivendica questa possibilità, che ciascuno di noi ha, di essere felice.

\r Spreafico. Devo dire che non condivido il termine “inattuale”. Proprio negli ultimi tempi, ad esempio, il principio dell’autodeterminazione è stato ribadito da alcune persone, e in particolare mi riferisco al caso di Eluana Englaro, al padre di Eluana, dove invece una forza, il governo, ha cercato di negare ad un individuo la legittima possibilità di scegliere per sé. Ho trovato in Caffi un monito importante: quello di ricordare a tutti che le persone -e lo ripeto spesso nell’introduzione- vanno considerate a tutto tondo, nella pienezza della loro umanità. Per questioni anagrafiche (ho 26 anni) ho cominciato solo recentemente a interessarmi al dibattito politico e mi sono, comunque, resa conto che Caffi è in grado di dare delle parole, delle chiavi di lettura, molto interessanti, attualissime, per interpretare quanto accade oggi.

\r Questa mattina, mentre camminavo per venire qui, sono passata in Piazza Duomo, dove proprio in quel momento transitava una camionetta dell’esercito. Caffi, ispirandosi a Platone, sosteneva che nella società ideale la forza pubblica (che egli comunque riteneva necessaria) doveva essere relegata fuori dalla città.

\r La presenza dei militari dentro la città sta, chiaramente, a significare che la società non funziona, che essa si deve difendere da se stessa, poiché crede di aver trovato un nemico dentro di sé.

\r Riflettendo, poi, sulle questioni economiche, Caffi metteva in guardia sul dirigismo dello Stato e sul crescente interventismo nei tempi di crisi. Viviamo anche noi, in questo momento, una crisi economica che dicono sia molto forte, e cominciano già a delinearsi alcuni interventi dei governi che tendono a influenzare sempre più la vita dei singoli. Caffi mi ha aiutato a capire che non devo -io, come persona formata, autonoma, indipendente- per forza accettare la logica secondo la quale c’è sempre qualcuno o qualcosa di più autorevole di me su di me, ma che è giusto rivendicare il diritto, mio e di ognuno, a non farsi muovere, spostare da altri come pedine. Per me, dunque, Caffi è attualissimo; l’inattualità è nell’utopia, ma in qualunque epoca l’utopia è inattuale perché lontana, difficilissima da costruire.

\r Per certi versi, Andrea Caffi sembra un uomo dell’Ottocento, mi riferisco in particolare a una formazione culturale che credeva ancora possibile l’enciclopedismo (Caffi è filosofo, storico, sociologo e molte altre cose), nello stesso tempo è un uomo pienamente immerso nel suo secolo, nel Novecento: ne vive le guerre, le rivoluzioni, le fughe, gli esilii…

\r Spreafico. Oltre a essere un uomo tra due secoli, è un uomo tra più nazioni, è italiano, ma è anche russo, vive in Francia e in Germania. Nasce, nel 1887, a San Pietroburgo da genitori italiani. In quella città, dove frequenta la scuola riformata, avviene la sua prima formazione culturale. Fin da giovanissimo comincia a conoscere il “sottosuolo rivoluzionario” dell’epoca (come lo ama definire), incontra i menscevichi, che lui ritiene essere la parte migliore dei rivoluzionari, più umani e meno inquadrati dei bolscevichi. Più tardi, dopo aver trascorso alcuni mesi in carcere, è il 1907, Caffi scappa dalla Russia e raggiunge la Germania, dove incontra altri italiani, frequenta l’università di Berlino alla scuola di Georg Simmel. Dalla Germania comincia, poi, letteralmente, a camminare per l’Europa: i suoi amici lo ricordano così, Caffi è proprio un camminatore. Cammina molto e si sposta spesso camminando: torna in Italia, nella Firenze della “Voce” di Prezzolini, va in Francia, attraversa quasi tutta l’Europa: è un flâneur.

\r A Parigi lo coglie lo scoppio della Prima guerra mondiale e fra lo stupore dei suoi conoscenti decide di arruolarsi. Terminata la guerra, il “Corriere della Sera” gli offre l’incarico di corrispondente da Costantinopoli. Per lui è soprattutto l’occasione di tornare verso Est. E quando giunge a Costantinopoli, decide di fare ritorno in Russia, per l’attrazione e per l’amore che ha nei confronti di quel paese, dove però sta prendendo forma la dittatura di Stalin.

\r Trova un impiego presso il ministero degli esteri, dove però comincia a fare cose poco ortodosse per non dire illegali, come produrre dei documenti per chi vuole fuggire dal regime. Rimandato in Italia, è il 1923, incappa nel fascismo e non può anche qui fare a meno di impegnarsi nella propaganda contro il regime nascente: diffonde materiale a stampa sarcastico, critico. Mussolini è “lo sparafucile romagnolo”. E’ ancora in Italia nei mesi dell’omicidio Matteotti, ma più tardi è costretto a lasciare il paese -perché sotto minaccia di arresto- e a riparare in Francia.

\r A Parigi conosce Rosselli e il gruppo di “Giustizia e Libertà”, con i quali comincia a collaborare pur non approvandone, in tutto e per tutto, le modalità di azione antifascista. Ritiene, infatti, che Rosselli abbia un’idea vecchia di antifascismo, nella quale gli sembra di cogliere dei residui culturali che risalgono alla democrazia liberale dell’Italia giolittiana.

\r Mentre scrive di antifascismo con l’obiettivo di svecchiarlo e di liberarlo da certa retorica risorgimentale, lavora in maniera occasionale, collaborando a riviste e vivendo -come racconta chi l’ha conosciuto- in modo decisamente strano. Caffi dà l’impressione di lavorare giusto quanto basta per guadagnare quello che gli serve per mangiare. Spesso altrimenti ripudia il lavoro.

\r Nel 1940, da Parigi scende verso il Sud della Francia e raggiunge gli anarchici a Toulouse, dove viene torturato dal regime di Vichy, finché un clochard suo amico lo scagiona di fronte alle milizie francesi. Muore a Parigi di una malattia incurabile il 22 luglio del 1955. E’ sepolto a Père-Lachaise.

\r Del Corno. A questo ritratto posso aggiungere una riflessione che non è mia, ma di Alberto Moravia, che la svolge nell’introduzione alla prima biografia di Caffi, quella scritta da Gino Bianco.

\r Moravia parla di un uomo di due secoli, con diverse culture, diversi “padri spirituali”, e coglie bene nel segno quando dice che delle due anime caffiane, una era quella illuminista francese, seguendo la quale cercava di spiegare il mondo partendo sempre e comunque dal dubbio, e l’altra era quella del populismo russo, che lo conduceva, invece, a solidarizzare in ogni modo coi ceti subalterni. Moravia ha ragione quando puntualizza questa duplice ispirazione nel pensiero e nell’azione di Caffi. Uomo dell’Ottocento, ma direi quasi del tardo Settecento, vista la derivazione illuminista e la costante propensione a studiare, a investigare, a conservare l’approccio enciclopedico di cui parlavi.

\r Il suo razionalismo convive, però, con la costante solidarietà per gli umili e per gli oppressi, che lo porterà a conoscere, ad esempio, il clochard che gli salvò la vita. Essere amico degli ultimi, come vedi, può servire anche nella vita di tutti i giorni!

\r La produzione scritta di Caffi non è esorbitante (tanti intellettuali impegnati hanno scritto molto più di Caffi), ma quello che risulta estremamente interessante è la persona di Caffi, il camminatore, il girovago. È molto azzeccata una osservazione di Gino Bianco che sottolineò come di Caffi convenga parlare come persona, dal punto di vista biografico, ancora prima che come autore. Cosa ne pensate?

\r Spreafico. Bianco ha ragione quando dice che bisogna parlare di Caffi come persona. Del resto, serve poco teorizzare il socialismo, se non lo si pratica, e la vita di Caffi è la testimonianza di un vero socialista, che ha vissuto la sua esistenza a tutto tondo. Caffi è quello che parla coi clochard, che cammina per l’Europa, che studia di tutto.

\r Del Corno. C’è un altro tema rilevante messo in luce da Bianco, quello della “filia”, dell’amicizia, dell’empatia e della solidarietà reciproca. Infatti il socialismo di Caffi è da intendersi in senso etimologico: viene dalla società. Come ha messo in luce Sara, non sono tanto le letture, i classici del marxismo, o dei revisori di Marx, degli ortodossi o degli eterodossi del marxismo a creare il suo socialismo. Il suo socialismo nasce sul campo, dai rapporti di empatia e “filia” che lui riesce a creare con chi si trova di fronte.

\r Ancora una volta mi vengono in mente le pagine di Moravia che ricorda il suo incontro con Caffi e di come viene conquistato da questa stranissima figura (stranissima anche da un punto di vista fisico). Moravia fa una descrizione molto divertente di come si presentava il personaggio Caffi, una figura che destava subito simpatia al primo incontro, capace di mettere sempre a proprio agio gli interlocutori.

\r Spreafico. Una nota di colore. Caffi lasciava straniti i suoi interlocutori anche per un altro aspetto: si presentava di solito in abiti molto trasandati, ma con acqua di colonia spruzzata in ogni dove. Pare non avesse mai una lira, ma quei due soldi che aveva li usava, evidentemente, per comprarsi l’acqua di colonia!

\r Per lungo tempo, se si esclude la rivista “Tempo presente” di Chiaromonte e Silone, quasi nessuno ha parlato di Caffi. Negli ultimi vent’anni, invece, la sua figura è ricomparsa nel dibattito culturale, anche se non ancora sufficientemente…

\r Del Corno. Lo stesso Rosselli fino a qualche anno fa non è che se lo filassero poi molto!

\r In generale, si nota una riscoperta di percorsi politici e biografici di intellettuali critici, collocati fuori oppure ai margini dei partiti tradizionali, che del resto sono crollati …

\r Del Corno. La tua osservazione è sicuramente sensata, molto giusta. Fino a poco tempo fa non c’era spazio per gli eretici e anche lo stesso Rosselli era stato posto nel dimenticatoio. È tornato in auge agli inizi del Duemila perché un bel giorno Veltroni ha scoperto che c’era anche Rosselli, salvo poi dimenticarsene quando è comparso Obama!

\r E’ davvero così, agli inizi del Duemila sembrava fossimo tutti rosselliani, così come intorno alla metà degli anni Novanta eravamo tutti tocquevilliani. Un centro studi dei Ds era intitolato a Tocqueville, che era sicuramente un liberale ma anche un conservatore. Insomma, la cosa mi sembrò eccessiva. Per tornare al punto dell’intervista, se -per usare un brutto termine- verranno sdoganati gli “eretici”, sarà solo un bene. A mio parere, in realtà, la scomparsa dei partiti di massa è un aspetto negativo, perché toglie il coinvolgimento della politica, basta vedere come sono strutturati, oggi, i due principali schieramenti politici: manca una classe dirigente locale, manca una formazione politica e, così, pochi leader tengono in pugno tutto il potere decisionale. Questo è un fatto negativo. Ma se tale cambiamento porterà, come è auspicabile che porti, anche all’emergere degli “eretici” e alla fine dei legami tra interessi partitici e studi di storia politica (per cui, fino a poco tempo fa, ciascuno studiava solo la storia dei propri partiti), allora si sarà raggiunto almeno un risultato positivo.

\r Certo, pensare che Caffi diventerà protagonista del dibattito politico degli anni a venire mi sembra azzardato. Vediamo come andrà a finire, speriamo che i leader della sinistra si rileggano Caffi, lo studino, lo facciano conoscere, ma temo invece che saremo sempre in pochi a leggerlo!

\r Spreafico. E’ difficile che Caffi possa influenzare un partito, un movimento, però può influenzare le persone e, ad esempio, gli studenti di Nicola che lo leggono per preparare un esame. Possono nascere delle idee, delle buone indicazioni, che aiutino a formare le coscienze.

\r Del Corno.

\r La nota di Sara sulle possibili suggestioni di Caffi è vera. Ho notato, infatti, che quando a lezione leggo Caffi, Rosselli, Gobetti, Berneri, vedo che da parte degli studenti c’è ricezione, li vedo partecipi, prendono appunti, agli esami rimangono colpiti da ciò che leggono, dicono: “Ah beh, però settant’anni fa c’era qualcuno che diceva queste cose!”. Li sentono molto attuali e suscitano in loro una serie di riflessioni, poi magari vengono a chiedermi la tesi su uno di questi intellettuali. Speriamo che queste riflessioni non siano contingenti agli esami, alla tesi, ma che rimanga qualcosa, per cui a distanza di dieci, venti, trent’anni, di fronte a particolari eventi della vita, si ricorderanno: ah ma io per quell’esame ho studiato Caffi, che diceva queste cose e non aveva torto… Avremmo vinto, se così fosse, la missione e la scommessa di aver riproposto Caffi.

\r Credo che autori come Caffi oggi possano dirci due cose. Primo, regalarci una lezione di autonomia e di indipendenza rispetto a partiti e “chiese”. Secondo, ricordarci che un tempo, tra Otto e Novecento, la cultura della sinistra era molto più creativa, varia e plurale di quella prevalentemente autoritaria e statalista che poi si è affermata nel corso del XX secolo.

\r Del Corno. Sì, c’erano tanti socialismi, tante sinistre, c’era una discussione più aperta, più libera, più franca, più colta probabilmente. Non c’era quella ricerca spasmodica del consenso per cui si tende a unificare, a trovare slogan, parole d’ordine, con tentativi esasperati di sintesi, per cui chi è eretico, ovviamente, rimane fuori ed escluso dalle formule preconfezionate.

\r (a cura di Carlo De Maria)

Intervista a Carlo De Maria

realizzata da Franco Melandri e Gianni Saporetti

L’associazione

La figura luminosa di Andrea Costa, uno dei fondatori del socialismo italiano, che non rinnegò mai le sue origini libertarie e che sognava un partito federale, decentrato, pluralista, alleato a radicali e democratici; l’esperienza di Imola, primo comune italiano governato dai socialisti; il welfare municipale. Intervista a Carlo De Maria.

Carlo De Maria svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di discipline storiche dell’Università di Bologna. Si occupa di storia del socialismo, dell’associazionismo popolare e delle autonomie locali. Ha lavorato sulle carte e sulle biografie di Camillo e Giovanna Berneri, Alessandro Schiavi e Andrea Costa. Recentemente ha curato il volume Andrea Costa e il governo della città. L’esperienza amministrativa di Imola e il municipalismo popolare. 1881-1914, (catalogo della mostra organizzata per il centenario della morte di Andrea Costa) , Diabasis, 2010. Andrea Costa è stato fondamentale nella storia del socialismo italiano, e nella stessa storia d’Italia, ma è oggi un personaggio praticamente dimenticato, quasi considerato di secondo piano…

E’ vero che oggi di Andrea Costa si parla poco e, più in generale, sono le tradizioni del socialismo (intendendo questo termine nel senso più ampio, dall’anarchismo al socialismo riformista) che sembrano non trovare più spazio nel dibattito pubblico, nella vita culturale del paese. La figura di Costa richiama vicende politiche e biografiche che oggi appaiono lontanissime, ma che in realtà non sono slegate dal nostro tempo e sono ancora in grado di parlarci. Sono convinto che, per certi aspetti, Costa si riveli essere nostro contemporaneo. Puoi parlarci della sua biografia? Costa nasce nel 1851 e appartiene alla generazione dei giovani nati troppo tardi per partecipare alle lotte risorgimentali. Le prime reclute, come lui, del socialismo anarchico erano, in qualche modo, dei garibaldini mancati. In molti casi era assai stretto il loro rapporto ideale con Garibaldi. Ad esempio, il legame tra Costa e Garibaldi è un legame intenso: si conserva una lettera del 1872 di Garibaldi a Costa, il quale poi, nel 1907, partecipò al pellegrinaggio a Caprera, in occasione del centenario della nascita dell’”eroe dei due mondi”. Il rapporto e lo scambio tra il primo socialismo italiano e Garibaldi sono da ricondurre a varie ragioni, in particolare al fatto che il patriottismo di Garibaldi non si era mai chiuso in una prospettiva nazionalista, ma si era invece coniugato con una battaglia di libertà e giustizia sociale più ampia: propriamente internazionalista. Questo è solo un esempio di come, attraverso il percorso del giovane Costa, sia possibile cogliere il socialismo al suo stato nascente e seguire la formazione del movimento socialista nel nostro Paese. Proprio in ragione della sua storia personale, Costa ebbe la capacità di rappresentare il socialismo nel senso più ampio del termine (in senso morale, appunto) , al di sopra delle correnti e delle parti. A emergere è la vicenda profonda della sinistra italiana ed europea, i tanti filoni di pensiero e di azione sociale che l’animavano nell’800 e nei decenni a cavallo del 1900, rendendola un universo plurale. La vitalità di quel primo socialismo e la sua ricchezza consistevano nella diversità delle scuole (come tante volte ha rilevato Pino Ferraris) . A partire dagli ultimi decenni dell’800, Costa rappresenta un punto di riferimento per le associazioni popolari di tutta Italia: dalla Sicilia alle regioni settentrionali. Anche per questa via passa il consolidamento della recente unità nazionale. Si è spesso insistito su una estraneità del mondo socialista rispetto alle istituzioni dello Stato liberale, ma di fatto il prezioso patrimonio di solidarietà e di educazione civile sedimentatosi grazie all’opera di sindacati, cooperative e comuni rossi contribuì al consolidamento della giovane comunità nazionale. Mi riferisco ai molti aspetti del personalismo associativo, all’incontro tra spirito d’associazione e iniziativa economica, alle tante forme della così detta “economia sociale” o “economia popolare”: dal mutuo soccorso, alla cooperazione, alle casse rurali (fenomeni che interessavano non solo il versante laico e socialista, ma anche quello cattolico) .

Intervista a Giampiero ‘Nico’ Berti

realizzata da Franco Melandri, Gianni Saporetti

Capitalismo e libertà

 

Libertà e capitalismo sono indissolubili? Ogni idea di cambiamento non può che partire dalle condizioni storiche concrete in cui il massimo di libertà si è realizzata. L’idea di libertà non può che essere negativa, come assenza di coercizione; il pericolo delle libertà positive, sempre prescrittive. La libertà è anche quella di non partecipare. Il grande errore della sinistra di legare libertà a risorse. Conversazione con Nico Berti.

Giampiero ‘Nico’ Berti insegna Storia delle dottrine e dei movimenti politici all’Università di Padova. E’ autore di numerose pubblicazioni storiografiche e analitiche sul movimento e sul pensiero anarchico. La conversazione che pubblichiamo trae spunto da un saggio, I paradossi del relativismo culturale, che Berti, da sempre vicino al movimento anarchico, ha pubblicato sul n. 3/2002 di Mondo Operaio. Alcune delle tesi sostenute da Berti hanno suscitato molte reazioni critiche in ambito libertario, non a caso il n. 2/2003 della rivista Libertaria dedica un ampio dibattito a più voci proprio ad alcuni di questi temi. Con Nico Berti, per Una città, discutono Franco Melandri e Gianni Saporetti. Nico. Intanto ripeto quello che ho detto su Mondo Operaio: noi conosciamo società capitaliste dove non vi è libertà, ad esempio il Cile di Pinochet, però non conosciamo nessuna società liberal-democratica dove non vi sia anche il capitalismo, o, diciamo meglio, un’economia a libero mercato. Indubitabilmente laddove ci sono società liberal-democratiche vi è il capitalismo. Questo significa forse che il capitalismo è la causa delle società liberal democratiche? No, significa però che è una condizione necessaria; non sufficiente perché altrimenti non salterebbero fuori i Pinochet, ma necessaria sì. Questo nessuno può negarlo. Laddove c’è l’una c’è anche l’altro e insieme producono l’unica libertà che finora noi abbiamo conosciuto, che è la libertà liberal-democratica: non la libertà tout court, ma la libertà che storicamente abbiamo conosciuto, che è la forma più compiuta di libertà che la storia abbia prodotto finora. Io non credo che, in tutto questo ragionamento, ci sia alcuna apologia, né che noi dobbiamo accontentarci di questa libertà, c’è semplicemente una constatazione. Ovviamente, lo dico fra parentesi, il ragionamento vale se per libertà intendiamo una serie di cose che rientrano nei parametri della concezione liberale e occidentale della libertà; se partiamo da una concezione diversa, poniamo spirituale, per cui riteniamo che si è liberi quando si è liberi dal peccato, è un altro discorso. Il mio discorso, insomma, vale se riteniamo per libertà quei principi generali, creati a partire dal Rinascimento, che solo la cultura occidentale ha prodotto. Franco. Nella prima metà dell’800, anche Proudhon, uno dei “fondatori” del pensiero anarchico, diceva che senza la proprietà e senza lo scambio libero, cioè senza il libero mercato, non vi può essere libertà. Ma la proprietà, il capitalismo, cui Proudhon pensava, cioè quelli dell’America del 1776, fatti soprattutto di piccoli proprietari, o quello della società rurale francese, in cui la piccola proprietà era assai diffusa, non è il capitalismo dell’America di oggi. Nell’America della fine del ‘700 lo vedo anch’io il legame fra libertà e capitalismo, ma oggi? Non c’è il rischio che le stesse libertà liberal-democratiche siano messe in crisi dallo sviluppo del capitalismo, non dalla proprietà privata o dal mercato, ma dal monopolio che del capitalismo sembra l’ineludibile sviluppo? Nico. Possono essere messe in crisi, certo, ma questo cosa c’entra? Il capitalismo intanto è fatto di capitalisti. Nel 1919-’20-’21 in Italia c’era il capitalismo? Sì, allora com’è che è nato il fascismo? Perché dei capitalisti, impauriti dal bolscevismo, hanno finanziato i fascisti. Ma questo cosa vuol dire? E’ la conferma che il capitalismo è condizione necessaria della libertà, ma non sufficiente. Tutto qui. Rispetto a questo, mettersi a discutere del capitalismo degli Stati Uniti alla fine del ‘700, dei piccoli proprietari teorizzati da Washington, mi sembra un almanaccare. Io dico questo: il capitalismo è una condizione necessaria della libertà che conosciamo; noi conosciamo un certo tipo di libertà che è quella che si è venuta formando tra mille travagli…