Ritratti di famiglia

La storia è una galleria di quadri,
dove ci sono pochi originali e molte copie.

Ritratti di famiglia copertinaIn concomitanza con la mostra-rassegna delle loro attività (la prima, e con ogni probabilità anche l’unica) i Viandanti delle Nebbie offrono ai “followers” una strenna natalizia. L’idea iniziale prevedeva una plaquette sul modello dei vecchi calendarietti profumati dei barbieri, per i quali proviamo tanta nostalgia (per i libretti, ma anche per i barbieri): poi abbiamo optato per una linea meno frivola.
Distribuiremo quindi cinquanta libretti (il che significa presumere, molto ottimisticamente, un numero di lettori doppio rispetto a quelli del Manzoni) che vogliono suggerire da dove arrivano i Viandanti, chi c’è idealmente alle loro spalle. Certi dell’impunità, perché quasi tutti gli interessati non sono più in vita, ci siamo permessi di vantare nobili ascendenze.
Rispetto a molti dei personaggi evocati i gradi di separazione sono almeno quattro o cinque. Il sesto ci avrebbe portato direttamente a Gesù, e ci pareva un tantino esagerato. E tuttavia …

03 Quadri in mostraL’albero genealogico dei Viandanti è fittissimo e composito. Risalendo di due secoli (non abbiamo voluto andare oltre, era già abbastanza complicato così) si incontrano un po’ tutte le tipologie e le varietà umane: scrittori, artisti, esploratori, viaggiatori, rivoluzionari, filosofi, storici, fumettisti, ecc…). In un modo o nell’altro coloro che abbiamo rintracciato hanno contribuito a indicare percorsi, a suggerire svolte, a portare ristoro e a orientarci nella nebbia. Non sono gli unici, naturalmente, perché la nostra è una famiglia molto allargata. Potremmo citarne almeno altrettanti, e anzi, quella dei gradi meno prossimi di parentela potrebbe già essere un’idea per una strenna futura.

Abbiamo volutamente omesso ogni indicazione biografica o bibliografica relativa ai personaggi presentati. Il bello del gioco sta proprio qui: ciascuno potrà fare eventuali ricerche di approfondimento per conto proprio.
Questo è lo spirito dei Viandanti.

Nella Galleria non hanno trovato posto figure femminili. Chiamatelo maschilismo, se volete, ma di fatto non ci è venuta in mente alcuna protagonista significativa dei nostri percorsi culturali. Questo non significa che non abbiamo incontrato donne eccezionali: significa solo che queste donne non hanno lasciato il segno. Per un difetto nostro di sensibilità, indubbiamente: ma ci sembrava terribilmente ipocrita inserirne qualcuna solo in ossequio al politicamente corretto.01a Tin Tin

P.s: Il fatto che Tintin o Milù compaiano sia in prima che in quarta di copertina non è casuale: sono tra gli antenati più nobili, non potevano mancare all’appello.

04 Bustin in mostra

Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo

Isaiah Berlin

Camillo Berneri

Renzo Calegari

Albert Camus

Nicola Chiaromonte

Stig Dagermann. 12

Charles Darwin

Franz De Waal

Hans Magnus Enzensberger

Patrick Leith Fermor

Caspar David Friedrich

Piero Gobetti

Knut Hamsun

William Henry Hudson

Alexander von Humboldt 20

Pëtr Kropotkin

Furio Jesi

Toni Judt

Gustav Landauer

Giacomo Leopardi

Primo Levi

Jack London

Herman Melville

Albert Frederic Mummery

George Orwell

Hugo Pratt

Élisée Reclus

Mario Rigoni Stern

Albert Robida

J.D. Salinger

Camillo Sbarbaro

Erwin Schrödinger

Johann Gottfied Seume

George  Steiner

Robert Louis Stevenson

Henry David Thoreau

Sebastiano Timpanaro

Alexis De Tocqueville

Sergio Toppi

Alfred Wallace

Charles Waterton

Titn Tin con bandiera dei pirati con sfondo uniforme

Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo

08 Ken Parker06 Milazzo05 BerardiHo impugnato il fucile per tutta la vita, eppure, il mio popolo è stato distrutto, la mia sposa torturata a morte…
Se mio figlio vivrà dovrà trovare un altro modo di combattere…Addio, “Lungo fucile” …

Isaiah Berlin

12 Isaiah BerlinGarantire la libertà ai lupi significa condannare a morte le pecore.

Non esiste alcuna istanza primaria in base a cui la verità, una volta scoperta, debba per forza essere anche interessante

11 Isaiah Berlin

Camillo Berneri

14 Camillo BerneriL’anarchismo è il viandante che va per le vie della Storia, e lotta con gli uomini quali sono e costruisce con le pietre che gli fornisce la sua epoca. Egli si sofferma per adagiarsi all’ombra avvelenata, per dissetarsi alla fontana insidiosa. Egli sa che il destino, che la sua missione è riprendere il cammino, additando alle genti nuove mete.

 

16 Camillo Berneri

Renzo Calegari

17 Renzo CalegariQuesta storia è finita come doveva, con dei vincitori e dei vinti … il mio guaio è che non appartengo né agli uni né agli altri.

19 Renzo Calegari

Albert Camus

21 Albert CamusPerché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime. Bisogna che si cambi in esempio.


Nicola Chiaromonte

25 Nicola ChiaromonteQuando giunge l’ora in cui la morte comincia a guardarci negli occhi con una certa continuità, e quindi noi lei, se non vogliamo distogliere lo sguardo e far finta che tutto è come prima e non c’è niente da cambiare, la domanda che per pri-ma ci si articola nella mente è: Che cosa rimane?… Rimane, se rimane, quello che si è, quello che si era: il ricordo d’esser stati “belli”, direbbe Plotino… Rimane, se rimane, la capacità di mantenere che ciò che è bene è bene, ciò che è male è male, e non si può fare che sia diversa-mente (e non si deve fare che appaia diversamente).

24 Nicola Chiaromonte

La nostra non è un’epoca di fede, ma neppure d’incredulità. È un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine. 

Stig Dagermann

26 Stig DagermanLe auguro due cose che spesso ostacolano il successo esteriore e hanno tutto il diritto di farlo perché sono più importanti: l’amore e la libertà.

  27 Stig Dagerman

L’inconfutabile segno della mia libertà è che il timore arretra e lascia spazio alla calma gioia dell’indipendenza. Sembra che io abbia bisogno della dipendenza per provare infine la consolazione d’essere un uomo libero, e questo sicuramente è vero.

 

Charles Darwin

30 Charles DarwinNella lunga storia del genere umano (e anche del genere animale) hanno prevalso coloro che hanno imparato a collaborare ed a improvvisare con più efficacia.

  

 

32 Charles Darwin

Lo stadio più elevato di cultura morale si ha quando riconosciamo che dovremmo controllare i nostri pensieri.

 

Franz De Waal

33 Franz de WaalTutti sanno che gli animali hanno emozioni e sentimenti, e che prendono decisioni simili alle nostre. Gli unici a fare eccezione, sembrerebbe, sono alcuni universitari. 

35 Franz de Waal

Tutto conferma la mia visione della morale “venuta dal basso”. La legge morale non è né imposta dall’alto, né dedotta da principi accuratamente razionalizzati, ma nasce da valori ben radicati, presenti da tempo immemorabile. Il più fondamentale deriva dal valore della vita collettiva per la sopravvivenza. Il desiderio di appartenenza, la voglia di capirsi, di amarsi e di essere amati ci spingono a fare tutto ciò che possiamo per restare nel miglior rapporto possibile con le persone dalle quali dipendiamo.


Hans Magnus Enzensberger

38 Han Magnus EnzesbergerLa televisione è puro terrorismo. La parola scompare, e con la parola ogni possibilità di riflessione.

39 Han Magnus Enzesberger e Umberto Eco

Negli ultimi duecento anni le società più evolute hanno suscitato attese di uguaglianza che non si possono soddisfare; e al contempo hanno fatto sì che ogni giorno per ventiquattro ore la disuguaglianza venga dimostrata su tutti i canali televisivi a tutti gli abitanti del pianeta. Ragione per cui la delusione umana è aumentata con ogni progresso.

Al perdente, per radicalizzarsi, non basta quello che gli altri pensano di lui, siano essi concorrenti o sodali… Egli stesso deve metterci del suo; deve dirsi: io sono un perdente e basta. L’estinzione non solo di altri, ma anche di se stesso, è la sua soddisfazione estrema.

 

Patrick Leith Fermor

44 Patrick Leith FermorUna magica pace vive nelle rovine dei templi greci. Il viaggiatore si adagia tra i capitelli caduti e lascia passare le ore, e l’incantesimo gli vuota la mente di ansie e pensieri molesti e a poco a poco la riempie di un’estasi tranquilla.

45 Patrick Leith FermorNon si parte per andare da nessuna parte senza aver prima di tutto sognato un posto. E viceversa, senza viaggiare prima o poi finiscono tutti i sogni, o si resta bloccati sempre nello stesso sogno.

 

Caspar David Friedrich

47 Caspar David friedrichL’unica vera sorgente dell’arte è il nostro cuore, il linguaggio di un animo infallibilmente puro. Un’opera che non sia sgorgata da questa sorgente può essere soltanto artificio.

 

49 Caspar David friedrichPerché, mi son sovente domandato, scegli sì spesso a oggetto di pittura la morte, la caducità, la tomba? È perché, per vivere in eterno, bisogna spesso abbandonarsi alla morte.


Piero Gobetti

52 Piero GobettiIl fascismo è il governo che si merita un’Italia di disoccupati e di parassiti ancora lontana dalle moderne forme di convivenza democratiche e liberali, e che per combatterlo bisogna lavorare per una rivoluzione integrale, dell’economia come delle coscienze.

51 Piero Gobetti

Nessun cambiamento può avvenire se non parte dal basso, mai concesso né elargito, se non nasce nelle coscienze come autonoma e creatrice volontà rinnovarsi e di rinnovare.

Knut Hamsun

53 Knut HamsunQuando parlo con un uomo, non ho bisogno di guardarlo per seguire esattamente quello che dice; sento subito se egli mi dà a bere qualche cosa o me ne nasconde qualche altra; la voce, credetemi, è un apparecchio pericoloso

54 Knut Hamsun

  “Amo tre cose”, dico allora.
“Amo il sogno d’amore di un tempo, amo te e amo quest’angolo di terra.”
“E cosa ami di più?”
“Il sogno.”

 

William Henry Hudson

57 William Henry HudsonProvo un sentimento d’amicizia verso i maiali in generale, e li considero tra le bestie più intelligenti. Mi piacciono il temperamento e l’atteggiamento del maiale verso le altre creature, soprattutto l’uomo. Non è sospettoso o timidamente sottomesso, come i cavalli, i bovini e le pecore; né impudente e strafottente come la capra; non è ostile come l’oca, né condiscendente come il gatto; e neppure un parassita adulatorio come il cane. Il maiale ci osserva da una posizione totalmente diversa, una specie di punto di vista democratico,

58 William Henry Hudson


Alexander von Humboldt

61 Alexander von HumboldtCi sono popoli più acculturati, avanzati e nobilitati dall’educazione di altri, ma non esistono razze più valide di altre, perché sono tutte egualmente destinate alla libertà.

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La visione del mondo più pericolosa di tutte è quella di coloro i quali il mondo non l’hanno visto.

 

Pëtr Kropotkin

65 Petr KropotkinL’evoluzione non è lenta e uniforme come si vuol sostenere. Evoluzione e rivoluzione si alternano, e le rivoluzioni – i periodi cioè di evoluzione accelerata – appartengono all’unità della natura esattamente come i periodi in cui l’evoluzione è più lenta.

 

Non appena avrai scorto un’ingiustizia e l’avrai compresa – un’ingiustizia nella vita, una menzogna nella scienzao una sofferenza imposta da altri – ribellati contro di essa!  LottaRendi la vita sempre più intensa!

66 Petr Kropotkin

E così tu avrai vissuto, e poche ore di questa vita valgono molto di più di anni interi passati a vegetare.

 

 Milioni di esseri umani hanno lavorato per creare questa civiltà, della quale oggi andiamo gloriosi. Altri milioni, sparsi in tutti gli angoli del mondo, lavorano per mantenerla. Senza di essi, fra cinquanta anni non ne rimarrebbero che le rovine.

Furio Jesi

67 Furio JesiLa cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche  Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire. La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra.

68 Furio Jesi

Toni Judt

71 Toni JudtIl problema è che i socialisti hanno sempre nutrito una fiducia incondizionata nella razionalità degli uomini.

70 Toni Judt

Lo stile materialista ed egoísta della vita contemporánea non è inerente alla condizione umana. Gran parte di quello che a noi pare “naturale” data dalla decade del 1980: l’ossessione per la creazione di ricchezza, il culto della privatizzazione e del settore privato, le crescenti differenze tra ricchi e poveri. E, soprattutto, la retorica che li accompagna: un’acrítica ammirazione per i mercati sregolati, il disprezzo per il settore pubblico, l’illusione della crescita infinita.

 

Gustav Landauer

73 Gustav LandauerLo Stato non è qualcosa che si può distruggere con una rivoluzione, dato che esso esprime una condizione, una certa relazione tra gli esseri umani, una modalità del comportamento umano; lo possiamo distruggere solo contraendo altri tipi di relazioni, assumendo altri tipi di comportamento.

 L’anarchia non riguarda il futuro, riguarda il presente; non è questione di ciò che speri, è questione di come vivi.

 


Giacomo Leopardi

74 Giacomo LeopardiPasseggere: Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Venditore: Speriamo.

  La ragione è un lumela Natura vuol essere illuminata dalla ragionenon incendiata. 75 Giacomo Leopardi

Primo Levi

153ab Primo LeviPerché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità? A che serve la memoria?”

 

 Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo.

 

Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra. Ma questa è una verità che non molti conoscono.

156 Primo Levi

Jack London

77 Jack LondonNon era della loro tribù, non poteva parlare il loro gergo, non poteva far finta di essere come loro. La maschera sarebbe stata scoperta e, per altro, le mascherate erano estranee alla sua natura.

78 Jack London

Dalla creazione del mondola barbarie umana non ha fatto un solo passo verso il progressoNel corso dei secolil’abbiamo soltanto ricoperta  con una mano di vernice, nient’altro.


Herman Melville

154 Herman MelvilleNoi non possiamo vivere soltanto per noi stessi. Le nostre vite sono connesse da un migliaio di fili invisibili, e lungo queste fibre sensibili, corrono le nostre azioni come cause e ritornano a noi come risultati.  

157 Herman Melville

Io sono tormentato da un’ansia continua per le cose lontane. Mi piace navigare su mari proibiti e scendere su coste barbare.

156 Herman Melville

Dell’amicizia a prima vista, come dell’amore a prima vista, va detto che è la sola vera.

 

Albert Frederic Mummery

81 Albert Frederic MummeryLa via più difficile alle cime più difficili è sempre la cosa giusta da tentare, mentre i pendii di sgradevole pietrisco vanno lasciati agli scienziati. Il Grépon merita di essere salito perché da nessuna altra parte l’alpinista troverà torrioni più arditi, fessure più selvagge, precipizi più spaventosi.
Assolutamente impossibile con mezzi leali.

 

George Orwell

85 George OrwellSapere dove andare e sapere come andarci sono due processi mentali diversi, che molto raramente si combinano nella stessa personaI pensatori della politica si dividono generalmente in due categorie: gli utopisti con la testa fra le nuvole, e i realisti con i piedi nel fango.

  

Così come per la religione cristiana, anche per il socialismo la peggior pubblicità sono i suoi seguaci.

86 George Orwell

Ciò che le masse pensano o non pensano incontra la massima indifferenzaA loro può essere garantita la libertà intellettuale proprio perché non hanno intelletto.

 

 

Hugo Pratt

88 Hugo PrattQuelli che sognano ad occhi aperti sono pericolosi, perché non si rendono conto di quando i sogni finiscono.

89 Hugo Pratt - Corto Maltese

Forse sono il re degli imbecilli, l’ultimo rappresentante di una dinastia completamente estinta che credeva nella generosità!… Nell’eroismo…

Élisée Reclus

92 Elisée ReclusL’Anarchia è la più alta espressione dell’ordine. 

93 Elisée Reclus

Se noi dovessimo realizzare la felicità di tutti coloro che  portano una figura umana e destinare alla morte tutti coloro che hanno un muso e che non differiscono da noi che per un angolo facciale meno aperto, noi non avremmo certo realizzato il nostro ideale. Da parte mia, nel mio affetto di solidarietà socialista, io abbraccio anche tutti gli animali.


Mario Rigoni Stern

159 Mario Rigoni SternI ricordi sono come il vino che decanta dentro la bottiglia: rimangono limpidi e il torbido resta sul fondo. Non bisogna agitarla, la bottiglia. 

 

163 Mario Rigoni SternDomando tante volte alla gente: avete mai assistito a un’alba sulle montagne? Salire la montagna quando è ancora buio e aspettare il sorgere del sole. È uno spettacolo che nessun altro mezzo creato dall’uomo vi può dare, questo spettacolo della natura.

 

160 Mario Rigoni SternIl tempo, nella vita di un uomo, non si misura con il calendario ma con i fatti che accadono; come la strada che si percorre non è segnata dal contachilometri ma dalla difficoltà del percorso.

 

Albert Robida

96 Albert RobidaMio caro Mandibola – diceva quasi sempre Farandola terminando – abbandono definitivamente ogni idea di riforma sociale, e mi lancio con tutte le vele spiegate, nella più vasta industria. Gli affari, il commercio, ecco ciò che mi occorre; e dal momento che le grandi imprese sono necessarie alla mia salute, avanti con le gigantesche speculazioni commerciali! 

  Il vecchio telegrafo permetteva di comunicare a distanza con un interlocutore. Il telefono permise di sentirlo. Il telefonoscopio superò entrambi rendendo possibile anche vederlo. Che si può volere di più?

99 Albert Robida

J. D. Salinger

100 J D SalingerIo sono una specie di paranoico alla rovescia. Sospetto le persone di complottare per rendermi felice.

 

101 J D Salinger - Il giovane HoldenLa più spiccata differenza tra la felicità e la gioia è che la felicità è un solido e la gioia è un liquido.

 

Camillo Sbarbaro

103 Camillo SbarbaroSe potessi promettere qualcosa
se potessi fidarmi di me stesso
se di me non avessi anzi paura,
padre, una cosa ti prometterei:
di viver fortemente come te
sacrificato agli altri come te
e negandomi tutto come te,
povero padre, per la fiera gioia
di finir tristemente come te.

 

 Nella vita come in tram quando ti siedi è il capolinea.

 Si comincia a scrivere per essere notati, si seguita perché si è noti.

105 Camillo Sbarbaro

Erwin Schrödinger

107 Erwin SchrödingerIl mondo è una sintesi delle nostre sensazioni, delle nostre percezioni e dei nostri ricordi. È comodo pensare che esista obiettivamente, di per sé. Ma la sua semplice esistenza non basterebbe, comunque, a spiegare il fatto che esso ci appare.

Se questi dannati salti quantici dovessero esistere, rimpiangerò di essermi occupato di meccanica quantistica.

  106 Erwin Schrödinger

Johann Gottfied Seume

110 Johann Gottfied SeumeCamminare è l’attività più libera e indipendente, niente vi è di peggio che star seduti troppo a lungo in una scatola chiusa. 

113 Johann Gottfied Seume

In tutta la mia vita non mi sono mai abbassato a chiedere qualcosa che non abbia meritato, e nemmeno chiederò mai quel che ho meritato finché esistono in questo mondo tanti mezzi di vivere onestamente: e quando poi anche questi finissero, ne resterebbero alcuni altri per non vivere più.

115 Johann Gottfied Seume

 

George  Steiner

116 George SteinerTutta la metafisica è un ramo della letteratura fantastica.

Un genio degli scacchi è un essere umano che concentra doni mentali ampi e poco compresi, e lavora su un’impresa umana alla fine insignificante.

L’etichetta di homo sapiens, a parte pochi casi, probabilmente è solo un’infondata millanteria.

120 George Steiner

Robert Louis Stevenson

121 Robert Louis StevensonNon chiedo ricchezzené speranze, né amorené un amico che mi comprenda; tutto quello che chiedo è il cielo sopra di me e una strada ai miei piedi.
Io non ho viaggiato per andare da qualche parte, ma per il gusto di viaggiare.
La questione è muoversi.

122 Robert Louis Stevenson

La politica è forse l’unica professione per la quale non viene ritenuta necessaria alcuna preparazione specifica.


Henry David Thoreau

125 Henry David ThoreauNon c’è valore nella vita eccetto ciò che scegli di mettere in essa e nessuna felicità in nessun posto eccetto ciò che gli apporti tu.

126 Henry David Thoreau

Sebastiano Timpanaro

128 Sebastiano TimpanaroScrivere significa svolgere un ragionamento che deve servire a illuminare un problema e a convincere delle intelligenze. Senza esibizioni, senza narcisismi, senza trucchi o effetti speciali. Seguendo la logica e le procedure della ragione, senza gli orpelli della retorica e senza gli appelli alle emozioni. Chi scrive offre al lettore la propria coerenza di ragionamento e lo invita ad analoga coerenza.


Alexis De Tocqueville

135 Alexis De TocquevilleSe cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente all’infanzia; ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi. Non potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare e la pena di vivere?

137 Alexis De Tocqueville 

In una rivoluzione, come in un raccontola parte più difficile è quella di inventare un finale.

 

Sergio Toppi

138 Sergio ToppiIo detesto essere chiamato artista: sono disciplinato, come tutti quelli che fanno fumetti. Considero il fumetto un lavoro molto artigianale, in certi casi di ottimo livello, ma sempre artigianale. È chiaro che non siamo pelatori di patate, è un lavoro per cui occorre una certa sensibilità, ma il fumetto rispetto a quello che viene considerato la creazione artistica è molto più severo.

 

139 Sergio ToppiIl suo lavoro tende alla perfezione, per semplice senso del dovere. Il dovere di essere sempre più bravo, il dovere di continuare ad imparare, perché non si finisce mai d’imparare a questo mondo, specie per chi si è assunto l’incarico di creare immagini, di mettere la propria fantasia e le proprie risorse al servizio degli altri.

 

Alfred Wallace

142 Alfred WallaceQuesta progressione, per piccoli passi, in varie direzioni, ma sempre controllata ed equilibrata dalle condizioni necessarie, soggette alle quali solo l’esistenza può essere preservata, può, si crede, essere seguita in modo da concordare con tutti i fenomeni presentati da esseri organizzati, la loro estinzione e successione nelle epoche passate, e tutte le straordinarie modificazioni di forma, istinto e abitudini che esibiscono.

146 Alfred Wallace

 

Charles Waterton

147 Charles WatertonMentre mi avvicinavo all’orango questi mi venne incontro a mezza strada e ci accingemmo subito ad un esame delle rispettive persone. Ciò che mi colpì più vivamente fu la non comune morbidezza dell’interno delle sue mani. Quelle di una delicata signora non avrebbero potuto essere di una grana più fine. Egli si impossessò del mio polso e scorse con le dita le vene azzurrine che vi si trovavano; io per parte mia, mi ero perso nella contemplazione della sua enorme bocca prominente. Con la massima cortesia egli lasciò che gliela aprissi, cosicché potei esaminare a mio bell’agio le sue magnifiche file di denti. Poi ci mettemmo l’un l’altro una mano intorno al collo, restando per un po’ in questa posizione.

Tin Tin si avvia

Sul metodo e nel merito

Considerazioni sull’uso delle biografie

di Paolo Repetto, 22 dicembre 2018, da sguardistorti 05 – 2018 Natale

Mi accade sempre più spesso – stavo per aggiungere “a dispetto dell’età”: ma forse è proprio in ragione di questa – di riscoprire storie e figure che sino a ieri avevo colpevolmente trascurate, o che proprio non conoscevo, anche perché relegate da tempo ai margini della scena. Queste storie per i più disparati motivi cominciano invece ad intrigarmi, suggerendomi interpretazioni apparentemente inedite e accostamenti originali: salvo poi, appena ci metto mano, constatare che in molti ci hanno già pensato o ci stanno pensando, e magari si sono spinti parecchio avanti. Ormai so come funziona la faccenda, eppure ogni volta mi sorprendo: mi sorprende in positivo scoprire che altri condividono i miei singolari interessi, mentre mi irrita un po’ il fatto di non aver avuto sentore prima dei lavori in corso. Forse ho antenne poco sensibili, o magari sono solo orientate male.

In realtà non c’è nulla di strano. Cambia semplicemente la visibilità. Quando si focalizza l’attenzione su un argomento, tutto ciò che con esso ha una qualche attinenza diventa di colpo rilevante, e scavando appena sotto la polvere di superficie si trovano innumerevoli tracce di percorsi che quell’argomento lo attraversano, o ad esso conducono, o ne partono. È anche normale in questi casi guardare con occhi nuovi a quello che già si conosceva, riconoscendolo, assegnandogli una nuova collocazione e dandone una nuova interpretazione. È la sindrome dell’auto nuova: appena inizi a guidarla hai l’impressione che circoli solo quel modello, mentre prima non ne vedevi in giro.

Non è questo però il tema. Serve solo a introdurlo: anzi, a introdurre una premessa sul “metodo”, o se vogliamo sulla sua assenza, che per quanto scontata e autoreferenziale mi pare necessaria.

 

Del metodo – La conoscenza è una catena di sant’Antonio: ogni nuova scoperta rimanda immediatamente ad altro, quasi sempre in più di una direzione, con un gioco infinito che non procede senza logica, perché nel ventaglio dei percorsi che si aprono scegliamo naturalmente quelli che per qualche motivo più ci attirano. E anche quando la coerenza delle scelte non è immediatamente chiara, alla lunga viene fuori.

È così per chiunque ami l’avventura del conoscere: ma questa avventura non è vissuta da tutti allo stesso modo. C’è chi è portato da un’indole più “sedentaria” a sostare a lungo nei nuovi approdi, in qualche caso a stabilirvisi proprio (conosco gente che ha studiato per una vita lo stesso argomento, o si è dedicata a un solo specifico ambito): e “sedentario” non va qui inteso in accezione negativa, perché queste persone lavorano in realtà moltissimo di scavo, scendono in profondità. Altri invece, e io sono tra costoro, non resistono alla tentazione di risalpare immediatamente, di esplorare sempre nuovi territori, sacrificando la profondità delle conoscenze alla vastità degli interessi. Hanno menti nomadi e irrequiete, e come tali risultano in genere molto meno “produttivi” dei primi: direi che privilegiano il vagabondaggio divertito nei confronti del lavoro serio.

In questi ultimi, quelli che spostano incessantemente il fuoco della loro attenzione, l’attitudine dispersiva e onnivora è oggi enormemente stimolata dall’offerta della rete. Muovendosi con un po’ di criterio possono scoprire orizzonti che fino a vent’anni fa erano non solo preclusi, ma neppure immaginabili. Ciò significa che la peregrinazione copre spazi sempre più ampi, i tempi di ricerca sono accelerati, i percorsi sono spianati: ma giustifica anche le scoperte tardive cui accennavo, perché in effetti tutto ciò che bolle nel pentolone culturale è diventato di colpo molto più accessibile, ma non necessariamente anche più visibile. Se prima si pescava risalendo fiumi, torrenti e ruscelli, ora ci si muove in mezzo ad un oceano, ma si naviga a zig zag, in acque meno limpide, lungo coordinate confuse e spesso contraddittorie: l’attenzione risulta per forza di cose meno vigile, il gusto stesso dell’indagine diventa più insipido. È come passare dalla cucina della nonna al fast food. La qualità del pescato è inversamente proporzionale alla quantità: ma tant’è, per un bulimico è quest’ultima a contare.

Nel mio caso specifico entra poi in gioco anche una compulsione maniacale che mi spinge ad accumulare libri: è una smania apparentemente del tutto estranea a questo discorso, ma in realtà segue anch’essa una sua logica e finisce per intersecarlo. Non accumulo libri a caso, anche quando sembrerebbe così: li colleziono come tessere di un puzzle mentale del quale ho solo vagamente presente il disegno. Queste tessere prima o poi, per i più inaspettati giochi di sponda analogici, trovano la loro collocazione, danno risposte alle mie curiosità, fanno intravvedere nuove immagini e altre possibili rotte.

Insomma, è evidente che come studioso sono tutt’altro che sistematico. E tuttavia (o forse proprio per questo) i miei percorsi sembrano ormai ricalcare uno schema fisso. Come dicevo, appena approdo a luoghi che pensavo inesplorati, o quanto meno dimenticati, trovo regolarmente ceneri più o meno calde di bivacco e impronte che vanno in tutte le direzioni. Faccio un esempio per tutti. L’ultimo caso del genere in ordine di tempo riguarda gli anarco-geografi. Mi ero incapricciato di un’idea, riassumibile nel fatto che gli anarchici hanno privilegiato la geografia e i marxisti la storia, e mi ero proposto di verificarla, o almeno di vedere dove conduceva. Bene, è stato sufficiente digitare “anarchia e geografia” per scoprire che Federico Ferretti aveva già scritto dieci anni fa (nel 2007) Il mondo senza la mappa, dove racconta le storie di Elisée Réclus, di Kropotkin e di quelli che io definisco anarco-geografi. Scendendo poco più in profondità mi sono imbattuto in Geoanarchia. Appunti di resistenza ecologica, di Matteo Meschiari, un saggio uscito solo lo scorso anno, e ho realizzato che lo stesso Meschiari sta lavorando proprio attorno a quei personaggi. Nel corso dello scavo ho raccolto poi innumerevoli altre indicazioni che fanno pensare ad un interesse davvero vivo, anche se di nicchia, per questo tema. Fino a ieri non ne sapevo nulla.

Di qui la mia reazione. È comprensibile che mi senta spiazzato. Contrariamente però a quanto l’incipit di questa riflessione potrebbe suggerire, non provo disappunto nel constatare che altri mi hanno preceduto su terreni che ritenevo più o meno vergini. Non ne avrei motivo, visto che nella stragrande maggioranza dei casi gli studi in cui mi imbatto sono in circolazione da un pezzo, e non ho quindi precedenze da far valere. E se anche così fosse, se potessi accampare una qualche primogenitura, il constatare che altri percorrono la mia stessa strada non può che confortarmi. Per mia fortuna non ho mai patita la necessità di misurarmi sul “mercato” culturale. Così, ogni volta che qualcosa mi entusiasma perché oltre a offrirmi delle conferme rende più chiari i convincimenti che già avevo (sia pure maturati, per dirla alla Vico, “con animo perturbato e commosso”), oppure mi spinge oltre, aprendomi a nuove possibilità, mi sembra di fare un passo avanti verso la terra promessa. Conoscere non mi farà capire il perché della vita, ma mi aiuta senz’altro ad accettarla: e mi consentirà di uscirne, quando verrà l’ora, con gli occhi aperti.

Al di là di questo, le ragioni per compiacermi di aver trovato compagnia sono svariate. Sapere che qualcuno sta facendo o ha già fatto quello che io con ogni probabilità non mi sarei mai deciso a fare mi tranquillizza. Una disposizione bulimica come la mia impedisce di soffermarsi su un qualsiasi argomento per il tempo sufficiente a lavorarci seriamente: l’avrei fatto quindi comunque peggio. Ma c’è di più: c’è che di norma ad avermi preceduto sono degli studiosi molto più giovani di me, appartenenti alla fascia d’età che comprende mio figlio. E questo mi rassicura intanto sul fatto che la generazione successiva alla mia è ancora capace (a dispetto dell’eredità decostruzionista e post-modernista che le abbiamo trasmesso) di un pensiero originale e di ottimo livello, ma dice anche che certe curiosità e consapevolezze sono comunque nell’aria e aprono spiragli per il futuro. Infine, considerazione molto soggettiva, che gli interessi di questa generazione combaciano coi miei, e quindi almeno per quanto concerne gli entusiasmi culturali posso considerarmi ancora relativamente giovane: ciò che non è sempre una buona cosa, ma in questo specifico caso si.

Non che gli studiosi di Réclus siano particolarmente rappresentativi dei loro coetanei: anzi, lo sono ben poco. Ma la cosa vale per tutti i vagabondi culturali: io stesso non mi sento affatto rappresentativo di una generazione che, non scordiamolo, ha preso sul serio Sartre, Mao e Althusser: per questo ambisco piuttosto a inscrivermi in una linea transgenerazionale, e mi consola sapere che questa linea esiste.

 

Ora, quello che è capitato per gli anarco-geografi (e rivendico l’etichetta, anche se lessicalmente impropria: “geografo” è per me un qualifica che si applica ad un modo di essere, quello appunto “anarchico”, e non viceversa) era già accaduto per diversi altri argomenti. Solo dopo aver scritto La discesa dal monte analogo ho realizzato quanti sparassero da un pezzo sul post-moderno e sulla demonizzazione della civiltà occidentale (ultimi, e molto espliciti, Rodney Stark con La vittoria dell’Occidente e Franco La Cecla con Elogio dell’occidente); quando mi sono deciso a far girare l’Humboldt controcorrente erano già apparsi una serie di studi sullo scienziato esploratore e almeno un paio di sue nuove biografie; la critica all’istituzionalizzazione della memoria è ormai diventata moneta corrente (vedi Toni Judt o Daniele Giglioli), ecc … Insomma, mi rendo conto che a questo punto dovrei lasciar perdere le tirate sull’etica e le biografie di non conformisti, per dedicarmi invece più utilmente a scovare, segnalare e recensire ciò che già esiste. Cosa che, ripeto, non mi spiacerebbe affatto. E anzi, per accelerare i tempi lancio fin da oggi un’opa propiziatoria su personaggi e temi che ancora, credo, non sono stati riscoperti e sfruttati: Raimondi, Tonti, Boggiani, Dolomieu, Timpanaro, l’umanesimo socialista e libertario, ecc … Magari, col cuore in pace e attendendo fiducioso, farò ancora a tempo a leggere in proposito qualcosa di decente.

 

Nel merito – In realtà non me la cavo così a buon mercato. Per tante ragioni. Quella oggettiva è che come recensore valgo poco, esco volentieri per la tangente, seguendo il filo delle mie idee piuttosto che il pensiero del recensito; e ancor meno funziono come divulgatore, perché un po’ per scelta e un po’ per limiti oggettivi raggiungo solo i pochissimi già sintonizzati sulle mie frequenze. Quella soggettiva è invece che troppo spesso il modo in cui vicende e personaggi che mi stanno a cuore vengono affrontati non mi soddisfa affatto. Ho quasi sempre l’impressione che troppe cose siano rimaste in ombra, che molte suggestioni non siano state raccolte. Anche questa è una cosa naturale, nessuno può riuscire esaustivo su un qualsivoglia argomento: ma l’approssimazione può nascere da motivi diversi, e non tutti questi motivi sono a mio parere accettabili.

Ad esempio. Molte tra le più recenti opere a carattere biografico che vengono spacciate per “definitive” sono in realtà solo astute operazioni di assemblaggio, e risultano definitive nel senso che vogliono chiudere una volta per tutte il discorso, anziché aprirlo: esattamente l’opposto di ciò cui si dovrebbe mirare. È quel che penso della più recente biografia di Alexander von Humboldt scritta da Andrea Wulf (L’invenzione della natura, 2017), della quale ho già parlato altrove. Ma in molti casi, anche quando il lavoro è affrontato con rigore e competenza, qualità che non posso che ammirare proprio perché ne sono quasi totalmente privo, e persino con un pizzico di originalità, manca poi la capacità di alzare un po’ lo sguardo per dare un’occhiata attorno, per cercare le radici o seguire le ramificazioni di un pensiero o di una vicenda in territori apparentemente lontani, per inserirli in una linea di continuità che ne faccia qualcosa di vivo, di attuale. Certi studi biografici somigliano sinistramente ad autopsie, e a volte proprio l’eccessiva correttezza “filologica” impedisce di cogliere quei segni di vitalità del biografato che sarebbero invece davvero illuminanti.

In altri casi, al contrario, le interpretazioni sono decisamente forzate, e l’attualizzazione ha finalità partigiane, strumentali al dibattito politico o accademico, o più prosaicamente commerciali, quando asseconda gli umori del mercato. Insomma, troppe biografie sono palesemente bandiere piantate su un territorio a sancirne la proprietà, come facevano gli “scopritori” dell’età della conquista. Ciò ha poco a che vedere con la genuina curiosità culturale, che è invece capacità di leggere “altro”, di interpretare anche gli spazi tra le righe e soprattutto di lasciare aperte le porte ad ulteriori ingressi. Ma ho l’impressione che questa capacità appartenga di preferenza a chi non ha un’attitudine specialistica.

 

Il che, immodestamente, mi rimette in gioco. E riparto proprio dagli anarchici, geografi o no. Il discorso sugli anarco-geografi rimanda infatti necessariamente a quello più generale sull’anarchia, altro argomento rispetto al quale ci sono segnali di un ritorno di interesse (parlo naturalmente di un interesse vero, non del malcostume giornalistico di tirare in ballo l’anarchismo per ogni cassonetto incendiato). Si sta riscoprendo, ad esempio, sia pure con molte cautele, la figura di Camillo Berneri. Il caso Berneri si presta bene a ciò di cui voglio parlare: il personaggio non è facile da maneggiare, mette a disagio tanto i sedicenti anarchici quanto i vetero-marxisti, e sfugge anche all’incasellamento da parte della storiografia di impostazione più “laica”. La sua difficile collocazione induce insomma ad avvicinarlo con prudenza: ma nel contempo consente anche di piegarne la lettura, di volta in volta, ai propri punti di vista. Non solo infatti non esiste una biografia sorretta da un adeguato corredo documentale, ma nemmeno è disponibile una edizione passabilmente significativa dei suoi scritti – la maggior parte dei quali sono accessibili solo in edizioni molto artigianali, o risultano addirittura irreperibili.

Ora, a me non interessa affatto che venga ripristinata filologicamente la lettera degli scritti di Berneri, che oltretutto sono per la gran parte interventi polemici, occasionali, buttati giù in mezzo a difficoltà enormi e a situazioni di precarietà estrema: mi interessa però che non gli si faccia dire ciò che non ha detto, o che non si isolino o estrapolino certe sue prese di posizione, senza dare conto delle situazioni e delle occasioni in cui sono state espresse. Penso anche che, essendo Berneri dotato di molto senso pratico, poco incline a teorizzare sui grandi sistemi e molto bravo invece ad analizzare le situazioni immediate, concrete, in questi scritti non debbano essere cercate le grandi verità di un “padre nobile” dell’anarchismo, o un credo anarchico “revisionato”, magari per stigmatizzarne le debolezze e gli errori, ma debba essere invece colto lo spirito, l’atteggiamento mentale che li anima. Berneri non è un teorico o un filosofo della politica, e nemmeno offre soluzioni buone per tutte le stagioni: indica dei percorsi, sa benissimo quanto possano essere impervi, è consapevole che non tutti hanno il fiato per affrontarli e tiene aperta la possibilità di procedere per tappe. Non quella però di cambiare direzione e meta. È chiaro che le strade cui si riferisce potevano sembrare praticabili quasi un secolo fa, in un mondo che non era neppure lontanamente parente di quello attuale, mentre oggi non sono nemmeno più visibili. Ecco allora che ciò che esattamente ha detto, e scritto e fatto, e in quale occasione, diventa importante solo se letto in funzione di coglierne l’esemplarità, una coerenza di atteggiamento che va al di là delle possibili contraddizioni o dei ripensamenti (in Berneri, peraltro, davvero pochi). È questo ciò che va recuperato del suo messaggio, e contrapposto alla odierna “liquidità” etica, e trasmesso alle future generazioni.

 

Non ho tirato in ballo Berneri a caso. Non è lui l’oggetto ultimo di queste considerazioni (l’ho già trattato in Lo zio Micotto e le cattive compagnie), ma nella sua vicenda e nella sua biografia si incrociano, a volte direttamente, altre in maniera meno evidente, molte tematiche che mi piacerebbe vedere riprese con lo spirito giusto: quella, ad esempio, dell’”umanesimo socialista”, degli “eretici” e dei libertari che nella prima metà del secolo scorso si ribellarono all’ortodossia culturale di osservanza sovietica (da Chiaromonte e Andrea Caffi su su fino ad Orwell e Camus); o quella del rapporto tra anarchia ed ebraismo (che ci porta a Gustav Landauer, a Scholem e a Benjamin).

Per “spirito giusto” intendo la consapevolezza che ci si occupa del passato non per cambiarlo, perché gli esiti della storia sono comunque quelli che viviamo e tali rimangono, ma per vedere se tra quello che è stato scartato, tra le innumerevoli possibilità che non sono state colte o non si sono realizzate, ce ne fosse qualcuna che ancora può fornirci qualche utile indicazione, o perché spiega meglio il presente o perché, al di là delle mutate contingenze, offre modelli di comportamento che definirei extra-storici. In questo senso, se cioè di fronte allo sconcerto totale odierno appaiono necessari modelli diversi da quelli che si sono affermati, è evidente che la storia degli sconfitti risulta molto più interessante di quella dei vincitori. Perché però questo interesse si traduca in un lievito culturale è necessario che dalla riscoperta parta un processo critico, che quei modelli non vengano cristallizzati in icone ma rimessi in circolo, “attualizzati” correttamente. Invece ciò non accade praticamente mai: le riesumazioni si esauriscono subito in una affrettata imbalsamazione e le figure riscoperte vanno semplicemente a completare l’album dei ricordi.

Questo è il mio timore, di fronte ad ogni nuovo studio biografico concernente le figure che mi interessano. E per dimostrare che non sono paturnie mi rifaccio alla sorte di un lavoro che giudico più che riuscito, e che in futuro sarà un riferimento obbligato, sempre che qualcuno voglia ancora approfondire seriamente l’argomento. Si tratta della corposa biografia di Chiaromonte scritta da Cesare Panizza (Nicola Chiaromonte. Una biografia, Donzelli 2017). Trecento pagine che sfidano finalmente una rimozione perdurante da decenni.

La fatica di Panizza non può essere riassunta e liquidata in una recensione. Non avrebbe senso. Questo è un libro che va letto, meditato e discusso. Avendo già fatto tutte e tre le cose mi sento autorizzato a non recensirlo secondo gli schemi tradizionali, ma a buttarmi direttamente sulle considerazioni a margine.

 

Dunque. Del lavoro di Panizza ho trovato recensioni sulla stampa quotidiana, giustamente molto favorevoli, ma per forza di cose piuttosto generiche: non mi pare invece che gli sia stata riservata la dovuta eco nei supplementi culturali di quegli stessi giornali, o in riviste storiche o culturali specializzate. Eppure l’opera si è aggiudicata anche il premio Acqui Storia (non che i premi letterari diano la misura della qualità di un lavoro, ma almeno testimoniano del fatto che non è passato del tutto inosservato, e qualche volta ci azzeccano anche). Pare che la pratica sia già stata archiviata. Ma la misura di questa rimozione l’ho avvertita pienamente in un’altra occasione.

Pochi giorni fa ho assistito alla presentazione del libro in Alessandria. Era l’ora, ad oltre un anno dalla sua uscita: l’autore è un alessandrino e il libro è stato concepito qui. L’incontro è avvenuto però in una saletta semideserta – ciò che in Alessandria si può dare per scontato sempre: ma in questo caso la scarsa partecipazione ha anche a che vedere col fatto che Chiaromonte ai più è sconosciuto, e per i pochi che lo conoscono è scomodo almeno quanto Berneri. Per l’occasione tuttavia, al tavolo dei relatori erano schierati, oltre l’autore, tre docenti universitari: una formazione che avrebbe dovuto garantire al dibattito un alto tasso di “qualità”, e compensare almeno in parte la tristezza della scarsa affluenza.

 

Invece non è stato così. Il primo dei relatori ha divagato, o quasi, per tre quarti d’ora. Gli altri, dopo aver dato atto della professionalità con la quale il saggio è stato costruito, sono passati direttamente al ruolo di avvocati del diavolo – ruolo peraltro previsto nelle presentazioni serie, perché non diventino delle pure celebrazioni o scambi di favore – e sono andati a rovistare nelle ambiguità, nelle chiusure, nelle incertezze imputabili al pensiero e all’ atteggiamento politico di Chiaromonte. L’autore ha avuto alla fine a disposizione solo una manciata di minuti, durante i quali ha provato a rispondere ai capi d’accusa (che riguardavano la figura del biografato, naturalmente, e non il lavoro suo), ma purtroppo con poca efficacia. Il fatto è che ad occhio e croce tra gli astanti gli unici a sapere di chi si stava parlando eravamo io e l’amico che mi aveva trascinato alla presentazione – in percentuale circa il venticinque per cento – e all’uscita il dato era rimasto invariato: perché di chi fosse Chiaromonte, di come la pensasse e perché, di cosa abbia scritto, non è stato detto praticamente nulla. E questo non aiuta a farlo conoscere, visto anche che le sue pochissime opere, alle quali non è stato peraltro fatto riferimento, sono difficilmente reperibili.

Ora, ammettiamo pure che gli studiosi al tavolo fossero convinti, in ragione dei numeri della platea, di trovarsi in presenza di una élite particolarmente informata, che avrebbe potuto annoiarsi o addirittura offendersi di fronte ad una semplice “narrazione” dei fatti, e abbiano ritenuto quindi opportuno dare Chiaromonte per scontato: cosa è poi venuto fuori dal dibattito? Solo una serie di appunti che danno a mio giudizio l’idea perfetta di ciò che non deve essere la riscoperta di questi personaggi.

Nell’ordine a Chiaromonte è stato rimproverato:

  1. di essere un anticomunista viscerale;
  2. di non avere capito il Sessantotto;
  3. di non avere colto l’importanza dei processi in corso negli anni cinquanta, soprattutto quello di costruzione dell’Europa;
  4. di aver preso soldi dalla CIA per pubblicare, assieme a Ignazio Silone, Tempo presente.

In pratica una frettolosa liquidazione, attuata senza lasciare spazio ad alcun contradditorio. Cosa che avrebbe invece fatto emergere un’immagine di Chiaromonte ben diversa.

 

Punto primo. Gli fosse stato lasciato il tempo di tratteggiare un po’ la figura dell’imputato, Panizza avrebbe potuto spiegare ciò che dal suo studio biografico risulta chiarissimo: e cioè che l’ anticomunismo “laico” degli anni trenta e quaranta non era un’epidemia infettiva come la spagnola, anche se gli spesso gli esiti per chi lo praticava erano altrettanto letali, ma un atteggiamento diffuso tra coloro che avevano conosciuto per esperienza diretta il volto del socialismo reale nella sua patria madre, o lo avevano visto all’opera attraverso i suoi emissari (i pluribiografati Togliatti, Longo e Vidali) durante la guerra di Spagna, sulla pelle dei loro amici e compagni (primo tra tutti proprio Berneri): e che non avevano potuto cogliere poi segni di un qualche ripensamento nel dopoguerra, neppure dopo i fatti di Ungheria e di Praga.

Questa gente non era determinata alla denuncia da un gene maligno, o dai dollari americani, ma dalla delusione nei confronti di un sogno nel quale per un certo periodo aveva creduto, o al quale aveva perlomeno guardato con interesse, e che si era rivelato in realtà un incubo. Erano coloro che non volevano cedere al ricatto della scelta del male minore, perché oltre un certo livello il male diventa assoluto, e mostra tutto un identico volto. Non solo: chi abbia letto qualcosa di Chiaromonte sa benissimo che anche nel pieno della guerra fredda, quando schierarsi da una parte o dall’altra sembrava diventato un obbligo ineludibile (al quale finirono per sottostare molti dei suoi amici americani riuniti attorno alla rivista “politics” ) l’intellettuale lucano non accettò mai questa logica, e continuò a denunciare tanto la politica degli americani nell’Europa del dopoguerra quanto il modello consumistico e spersonalizzante della democrazia d’oltreoceano.

Anche la mancata partecipazione attiva di Chiaromonte alla Resistenza armata va letta in questa chiave. Da un lato Chiaromonte sentiva che l’esperienza vissuta dai suoi compagni italiani, in patria o nell’esilio, o da amici come Camus e Malraux, e da lui condivisa solo in spirito (stava in America), aveva creato una frattura nei loro confronti (o meglio, nei suoi confronti): e la pativa. Dall’altro era convinto che quella esperienza non avesse comunque gettato le basi per una reale ricostruzione delle coscienze, e quindi per una vera rivoluzione. Chiaromonte non aveva bisogno di certificazioni di coraggio o impegno, era all’opposizione da sempre, aveva dovuto andarsene esule dall’Italia e la sua parte l’aveva già fatta accorrendo in Spagna subito dopo lo scoppio della guerra civile: ma anche di lì era venuto via dopo aver visto che piega stavano prendendo le cose sul fronte repubblicano, con la guerra intestina scatenata dagli stalinisti. Questa è coerenza integrale, non integralismo della coerenza.

 

Punto secondo. Pur appartenendo ad una generazione che il Sessantotto lo ha conosciuto solo per sentito dire (anche se, nel suo caso, probabilmente attraverso una documentazione storica qualificata), l’autore avrebbe potuto spiegare che, al contrario di quanto gli veniva imputato, Chiaromonte della vicenda aveva capito tutto l’essenziale: e cioè che si trattava in realtà di un fenomeno conservatore. Nel senso che i giovani sessantottini, ai quali peraltro in un primo momento aveva concesso un credito di solidarietà e con i quali aveva cercato un dialogo, stavano solo portando all’eccesso le premesse che erano già state radice della politica dei loro padri. Non mettevano affatto in discussione i presupposti fondamentali del modello produttivistico-consumistico, la creazione artificiale e l’estensione illimitata dei bisogni, l’ineluttabilità della “crescita” economica e tecnologica, il trasferimento del senso ad una dimensione futura. Chiedevano una redistribuzione, non una radicale rifondazione. E lo facevano in nome di mode effimere, maoismo, guevarismo, e della demagogia inconcludente del “vogliamo tutto”.

 

Punto terzo. Forte dell’esperienza di quanto sta accadendo oggi, avrebbe anche potuto opporre, a chi si stupiva della scarsa attenzione di Chiaromonte per i processi di politica sovranazionale in corso negli anni cinquanta, che l’intellettuale lucano non solo non chiudeva gli occhi, ma li teneva tanto aperti da rendersi conto come un processo del genere, messo in moto senza nessuna preventiva opera di sensibilizzazione e responsabilizzazione degli individui, non avrebbe potuto che risolversi in una ammucchiata funzionale soltanto ai grandi interessi economici. L’Europa si stava “unificando” non nel segno della coscienza di essere frutto di una matrice culturale comune, da identificare e magari da reindirizzare, ma solo in quello della contrapposizione ad una forza eguale e contraria che si era sviluppata ai suoi confini e anche dentro essi, e peraltro in una posizione gregaria e tutt’altro che autonoma.

 

Punto quarto. Per quanto attiene alla vicenda dei finanziamenti della CIA a Tempo presente, oltre a ribadire come ha fatto (sia pure timidamente, data l’aria di smobilitazione che dopo due ore era più che naturale) che Chiaromonte ne era all’oscuro, avrebbe potuto opporre che a cinquant’anni di distanza, dopo le rivelazioni sulle trasfusioni ininterrotte dall’URSS alle stampa e alla propaganda comunista nell’Europa occidentale, quelle accuse suonano quantomeno un po’ stantie. Soprattutto da parte di chi ha rivendicato la realpolitik a giustificazione della propria più o meno sofferta cecità di fronte a tutto ciò che trent’anni prima delle denunce di Kruscev era già ben noto e raccontato e testimoniato, quando potevano arrivare a farlo, dagli “eretici”.

 

Ma, soprattutto, Panizza avrebbe potuto chiarire (lo ha fatto egregiamente nel libro) le radici dell’apparente “estraneità” di Chiaromonte al dibattito “politico” che andava in scena in quegli anni, di un atteggiamento che i suoi detrattori leggevano come snobistico. Non è cosa facile da riassumere, ma provo a farlo io.

Prescindo naturalmente dalla vicenda biografica, che chiunque abbia fretta può trovare anche in rete (ma sarebbe molto meglio leggesse il libro di Panizza). Consiglio piuttosto a chi volesse approfondire la conoscenza, oltre che di Chiaromonte, dei più significativi libertari socialisti e anarchici del primo Novecento, di visitare il sito della Biblioteca Gino Bianco, un esempio straordinario di conservazione “vivificante” della memoria.

 

In sostanza. Chiaromonte dà una lettura del “tramonto dell’ Occidente” che si scosta totalmente da quella spengleriana in voga tra le due guerre e da quella heideggeriana invalsa dopo, fino ad oggi. Risalendo alle origini della cultura occidentale, contrappone la visione greca della vita a quella che definisce l’“egomania” moderna. Non lo fa alla maniera di Nietzsche e dei suoi nipotini, spingendo fino alla caduta nel ridicolo l’opposizione tra dionisiaco e apollineo, ma constata come il pensiero greco si mantenga sempre entro una linea di rispetto nei confronti del sacro, che semplicemente è ciò che va al di là della nostra capacità di comprensione. Sottolinea cioè come quel pensiero sia improntato al “senso del limite” e come la stessa scienza greca miri alla “sapienza”, alla saggezza, che ha una connotazione puramente contemplativa, piuttosto che alla “conoscenza”, che implica invece una ricaduta pratica e performativa. Per i greci gli uomini non godono di una libertà quale oggi noi la concepiamo. Parlano di anàncke e di tyche, destino e fortuna. C’è per loro un limite alla nostra possibilità di conoscere il mondo: cosa che non viene invece riconosciuta dall’”umanesimo assoluto” odierno, che interpreta e riduce tutto appunto a misura dell’uomo, anzi, dell’individuo, e propone una “conoscenza” di tipo baconiano, mirata al dominio sulle cose: e questo in realtà porta a una disumanizzazione.

A differenza di quanto fanno i critici del modello di civiltà occidentale da Nietzsche in poi, Chiaromonte non identifica il momento della svolta, della rottura, con Socrate (cioè con Platone) e con gli esordi del razionalismo. Lo coglie invece nell’avvento della pretesa cristiana di incarnare un Dio nella storia, che porta a leggere tutte le vicende umane all’interno di un significato unico e ultimo. La chiave di lettura è cioè quella provvidenziale. Chiaromonte parla specificamente di una concezione cristiana, non di quella giudaica, che pure le sta alle spalle e introduce il monoteismo, perché è quell’irruzione del divino – che nell’ebraismo tiene invece ancora testardamente le distanze – a tradurre tutto in “storia”. Il cristianesimo dà una spiegazione del mondo: introduce quindi un’ attitudine che quando non sarà più sorretta dalla fede nella rivelazione si trasferirà armi e bagagli alla fiducia nella razionalità.

Quella relativa all’identificazione del momento di rottura non è una differenza da poco. È anzi fondamentale, e spiega come mai Chiaromonte non sia stato inserito dai postmodernisti, da Vattimo ad esempio, tra i “padri nobili” della critica al razionalismo occidentale. Chiaromonte non critica in effetti la razionalità, ma l’ “empietà” umana, la presunzione cioè di poter disporre a piacimento del mondo, di poterne modificare l’ordine, tramite la sua “riduzione a ragione calcolante”: che non è l’esito necessario della ragione, ma un suo uso distorto.

Tutto ciò che viene dopo l’avvento del provvidenzialismo cristiano, la sua secolarizzazione nel mito illuministico del progresso, e poi in quello romantico del determinismo storicistico e in quello positivista della redenzione scientifica, è in realtà il tentativo di negare un confine alle nostre forze e alla nostra capacità di comprensione. Il che trasferisce la ricerca di senso, di “verità”, costantemente nel futuro. “L’oggi è il Domani – scrive Chiaromonte –il senso della vita di oggi sta nel Domani, un Domani storico di cui l’oggi non è che l’oscura cifra … la fede ottimistica nella Storia (cioè nell’armonia prestabilita fra le aspirazioni umane e il corso degli eventi) fa dell’esistenza il fantasma di se stessa, rinviandone il significato all’infinito, cioè annullandolo.

In realtà la credenza nel mito del progresso storico si è dissolta già di fronte all’orrore inutile e assurdo della prima guerra mondiale. Chiaromonte ritiene che dopo quel trauma la speranzosa fiducia nel progresso abbia lasciato il posto ad una mascherata rassegnazione, all’abbandono a una “crescita” solo tecnologica con ricadute puramente materiali. A farne le spese sono state soprattutto le idealità sociali, prima tra tutte il socialismo. Per poter reggere all’impietoso confronto con la realtà l’idealità egualitaria si è trasformata in dogma, e si è trincerata dietro uno scudo di ortodossia. Il marxismo riproduce tale e quale l’atteggiamento fideistico e il comportamento gesuitico propri del cristianesimo.

Da questa analisi sembrerebbe poter discendere solo un atteggiamento totalmente scettico e rinunciatario. In effetti Chiaromonte dice esplicitamente che tutti i sogni di palingenesi, nella versione messianica e provvidenziale del cristianesimo come in quella laica del progresso, hanno sia un fondamento che un esito di violenza. Sacrificano fin dall’origine il vero a quello che arbitrariamente ritengono essere il bene. Di qui le derive totalitarie.

Ora, propri0 alla menzogna di qualsiasi possibile paradiso in terra bisogna resistere: ma non lo si può fare tramite la violenza rivoluzionaria, che necessariamente ricade nello stesso ordine di ciò a cui vorrebbe opporsi. L’unica possibilità è quella di un atteggiamento di stoica (e molto aristocratica) resistenza a difesa della verità, in attesa che le aporie intrinseche al modello “storicista” di conoscenza e di vita lo facciano implodere, e costringano gli uomini a coltivare si le utopie, come nutrimento spirituale, ma senza pretendere di tradurle in comportamenti pratici.

 

Non è dunque un modello rassegnato e nichilista quello proposto da Chiaromonte, ma un’idea molto vicina a quella di Camus, di una “partecipazione appartata”, che consenta di salvaguardare i margini per una totale indipendenza di giudizio e libertà di scelta. Per salvaguardare la propria libertà “negativa” rispetto a qualsiasi coercizione ambientale e quella “positiva” rispetto a qualsiasi condizionamento interiore. E in questa resistenza il conforto può venire, più che dai risultati politici, dalla solidarietà con i pochi che la condividono.

Ecco cosa scrive agli studenti del movimento sessantottino:

“Il rimedio, in verità, se c’è è altrove, e a molto lunga scadenza. Consiste nella secessione risoluta da una società (o meglio, da uno stato di cose, giacché “società” implica comunanza e ragione, che sono precisamente quello che manca oggi nella vita collettiva) la quale non è neppure cattiva per natura, anzi, suscettibile di vari miglioramenti. Non è cattiva e non è buona: è indifferente, che è la peggior cosa di tutte, la più mortifera. Da questa società – da questo stato di cose – bisogna separarsi, compiere atto pieno di “eresia”. E separarsi tranquillamente, senza urla né tumulti, anzi in silenzio e in segreto: non da soli, ma in gruppi, in “società” autentiche le quali si creino una vita il più possibile indipendente e sensata, senza alcuna idea di falansterio o di colonia utopistica, nella quale ognuno apprenda innanzitutto a governare se stesso e a condursi giustamente verso gli altri, e ognuno eserciti il proprio mestiere secondo le norme del mestiere stesso, le quali costituiscono di per sé il più semplice e il più rigoroso dei principi morali, e sempre per natura escludono la frode, la prevaricazione, la ciarlataneria e la fame di dominio e di possesso. Ciò non significherebbe né assentarsi dalla vita dei propri simili, né dalla politica in senso serio. Sarebbe, comunque, una forma non retorica di “contestazione globale”.

Sta parlando di vite vissute “come se” già la società giusta fosse realizzata. Cosa non facile, ma possibile all’interno di un sistema ristretto di relazioni improntate all’amicizia. È utopistico voler imporre al mondo il nostro modello ideale, e ogni tentativo di dargli corso diventa immediatamente violento e criminale: ma è doveroso, e in fondo appagante, rispettare e applicare individualmente, in prima persona, quello stesso modello. Come si vede, Chiaromonte non propone in realtà qualcosa di particolarmente nuovo: si inserisce in una tradizione di pensiero che davvero risale ai suoi amati greci, e che ha quale caratteristica intrinseca e conseguente proprio il basso profilo, una quasi clandestinità. Di nuovo, o comunque di ragguardevole, ci sono la chiarezza e la lucidità con cui le idee vengono esposte e la coerenza con la quale sono state professate.

Queste cose nella biografia scritta da Panizza ci sono tutte, e c’è naturalmente molto di più. È completa, ed è definitiva nel senso giusto del termine: non lascia alibi al non riconoscere Chiaromonte (o peggio ancora, al non conoscerlo), al non ripensarlo, al non confrontarsi col suo pensiero, e prima ancora con la sua testimonianza vissuta. Dubito però che presentazioni come quella cui ho assistito spingano molti a leggersi il libro.

Non ho la presunzione di aver fatto meglio, non penso che da quello che ho scritto si riesca a capire granché di Chiaromonte: ma la cosa era almeno in parte voluta. Intendevo solo suscitare un po’ di curiosità, e forse quella di spargere degli accenni confusi è la tattica giusta. Se così fosse, la mia parte l’avrei fatta: non mi resta ora che affidare il messaggio alla solita bottiglia.

Di vetro, ovviamente.


Su Andrea Caffi

Scritti di Enzo Bettiza, Nicola Chiaromonte, Alberto Moravia, Gino Bianco, Carlo Vallauri

a cura di Paolo Repetto, 30 ottobre 2018

su Andrea CaffiSalva diversa indicazione, tutti gli scritti riportati nella presente raccolta sono tratti dal sito http://www.bibliotecaginobianco.it

Enzo Bettiza – La parabola di un socialista

Nicola Chiaromonte – Andrea Caffi, Critica della violenza, Bompiani, 1966

Andrea Caffi 24 – La “Critica della violenza”

Pietro Polito – Critica della violenza

Un umanista moderno:  Andrea Caffi. Critica della violenza

Un menscevico a Tolosa

Alberto Moravia – La sua discrezione, la sua povertà

Leo Valiani – Un italiano fra i bolscevichi

Gino Bianco – Prefazione a “Sul corporativismo e su una certa tecnica”

Carlo Vallauri – Il socialismo umanitario di Andrea Caffi

Le due anime

Enzo Bettiza 

La parabola di un socialista

Corriere della Sera, 22 maggio 1971

Sembrano diverse le ragioni che hanno tenuto finora lontana una parte del pubblico colto da Andrea Caffi. Una è d’ordine pratico. La frammentarietà dei suoi scritti, sparsi per l’Europa, e riordinati a poco a poco con affettuosa pazienza da amici ed estimatori quali Nicola Chìaromonte, Aldo Garosci, Lamberto Borghi, Gino Bianco, consente a chi non conobbe personalmente l’uomo di poterne afferrare solo per gradi la complessità e l’originalità del pensiero: un pensiero, del resto, che non essendo mai fuori ma sempre dentro la vita e che avendo della vita anche una certa frammentaria enigmatica indefinitezza, costituzionalmente si negava all’imbalsamazione accademica.

Ora, dopo i saggi storico-filosoiici di Caffi, curati da Chiaromonte su Tempo Presente e poi pubblicati da Bompiani nel 1966 con il titolo Critica delia violenza, seguono presso i’editrice Nuova Italia, presentati da Gino Bianco i preannunciati Scritti politici che ne sono il completamento. Si definisce così meglio la fisionomia geniale di un outsider dello spirito che, per chiarezza di stile, rettitudine morale, novità d’analisi, velocità di riflessi culturali, lascia ad ogni pagina convinto e insieme turbato il lettore. Leggere Caffi, oggi, è un’operazione profilattica contro le epidemie pseudofilosofiche che inquinano l’aria che respiriamo più della nafta e dei detriti industriali.

Per un quarto veneto, per un altro russo e per la restante metà cittadino del mondo, Andrea Caffi presentava un modello biografico in perfetta sintonia con la sua cultura: entrambi irrequieti, mobilissimi, plurinazionali, poliglotti aperti al relativo e ai rischi di libertà che corrono i pensieri e le vite senza dimora fissa in luogo anagrafico e ideologico. Prezzolini, che ebbe Caffi fra i collaboratori alla Voce, lo descriveva così venticinquenne: “Arrivava all’improvviso, non si sapeva da che parte del mondo, con gli abiti sgualciti e l’aria di avere un grande appetito. Scompariva allo stesso modo, senza che si sapesse perché né per dove. Da per tutto portava la sua gentilezza, un’aria d’innocenza, un enorme fascio di erudizione che slegava e da cui traeva regali a qualunque richiesta”.

Nato a Pietroburgo nel 1887, divenne, ancora adolescente, socialista e nella clandestinità lavorò al fianco di Kalinin e di Molotov. Diciottenne prese parte alla rivoluzione del 1905, conobbe le carceri dello zar. Partecipò alla grande guerra sui fronti francese e italiano, rimanendo ferito due volte. Tornato nella Russia dei Soviet, si mise in contatto con la sinistra menscevica di Martov, fu imprigionato alla Lubianka e all’ultimo momento sottratto da Angelica Balabanoff ad un plotone d’esecuzione bolscevico. Poi, di nuovo in Italia, collaborò nello stesso tempo al Quarto Stato di Pietro Nenni e di Carlo Rosselli e alle Ricerche religiose di Ernesto Buonaiuti. La sera andava alla russa al popolo, nei vecchi quartieri romani, parlando di storia greca e conquistando proseliti alla causa del socialismo. Nel 1926 si stabilì in Francia dove divenne membro simultaneo dell’emigrazione socialista russa e di quella italiana. A partire dal 1936 iniziava a frequentare Modigliani, Saragat, Tasca e Faravelli. La sua collaborazione con Angelo Tasca segnava anche un’adesione alle posizioni politiche che quel gruppo, il più lucido e spregiudicato dell’emigrazione antifascista, esprimeva: le riserve nei confronti dell’ambigua unità d’azione con i comunisti nei fronti popolari, il rifiuto dello stalinismo e delle alleanze di vertice con esso, la battaglia per l’autonomia del movimento socialista. Sempre visse in condizioni di povertà volontaria, in certi momenti di miseria, fino alla morte avvenuta il 22 luglio 1955 all’ospedale parigino della Salpetrière.

In Andrea Caffi, definito di volta in volta “spirito arcangelo”, “strano tipo”, “povero e prodigo”, si combinavano sotto la superficie cosmopolitica due grandi tradizioni di verità: quella del pensatore socratico, che si donava parlando più che scrivendo, e quella del narodnik russo del diciannovesimo secolo, animato da un’ansia pedagogica e di redenzione sociale intollerante d’ogni barriera tra la privacy dell’uomo di pensiero e il tumulto del mondo. L’idea di “società”, nel senso quasi più religioso che laico che l’intelligencija populista dava al termine, era preminente in lui. Il nucleo esistenziale della sua personalità fu quello di un filosofo peripatetico che aveva dialogato con Herzen, che aveva trasformato in Peritato la Russia e l’Europa intera e che era disposto, fra la malafede intellettuale e la cicuta, a scegliere sempre quest’ultima. Fu qui il vero significato etico della sua socievole solitudine e della sua programmata e francescana nudità nella vita quotidiana.

Vorremmo soffermarci soprattutto sul saggio che apre gli Scritti politici, La Rivoluzione russa e l’Europa, di cui Pero Gobetti disse che era il più importante e serio scritto che fosse apparso in quegli anni sull’argomento. “Quegli anni” erano il 1918: scritto datato, dunque, ma che colpisce subito per la sua illuminante attualità. Mentre Gramsci e Bordiga divulgavano una loro immagine di maniera del Bolscevismo, Caffi sezionandolo dall’interno, anticipava già con una impressionante esattezza analitica tre anni prima della deliberazione “antifrazionistica” imposta da Lenin al X congresso del partito, certe conclusioni sul fenomeno russo alle quali la più sofisticata sovietologia doveva arrivare molto più tardi.

Caffi non aveva nessuna simpatia per l’élite bolscevica impadronitasi del potere. Faceva anzi una distinzione sociologica e psicologica fra gli idealisti che avevano alimentato il movimento socialdemocratico russo e i personaggi avventurosi, pragmatici, spesso del tutto insensibili alle idee, assetati di comando, che erano stati affascinati dalle proposte rivoluzionarie aristocratiche e temerarie di Lenin. Egli, che aveva conosciuto bene i capi bolscevichi come militante socialista, non si faceva illusioni: fino dal 1905 aveva intuito la rottura che Lenin doveva, anzi voleva rappresentare, nella tradizione del socialismo non solo russo ma europeo. Con Chiaromonte, la cui forte e appartata opera di pensatore s’è nutrita ai dialoghi caffiani, potremmo dire che Caffi vide subito nel leninismo trionfante l’evento che sconfigge l’idea. La sua critica non era però partigiana, andava al fondo della questione e coinvolgeva, con il bolscevismo, anche il mito burocratico e il marxismo-hegelismo statolocratico del capostipite dei “partiti moderni”, la socialdemocrazia tedesca: fra Ebert e Noske che aprono il fuoco sugli operai di Berlino, e Lenin e Trotckij che “tirano ai fagiani” di Kronstadt, egli scorgeva la stessa parabola di una idea sconfitta dalla ragione di Stato. Ma, nel medesimo tempo, scorgeva, con acutissima oggettività, le ragioni e l’inevitabilità del successo bolscevico. Anche Caffi, come Vojtinskij e come Ashub, usava quella serenità di giudizio del menscevico perdente nei confronti del bolscevismo che i bolscevichi vincenti non useranno mai, neppure mezzo secolo dopo la rivoluzione, nei confronti del menscevismo. Già allora egli notava la straordinaria “capacità dimostrata dai bolscevichi nel dare un centro intelligente alla sfrenatezza delle masse russe”.

L’inerte vuoto di potere, apertosi fra il 5 e il 17 novembre 1917, mentre l’iniziale trionfo dei socialrivoluzionari finiva nel burlesco con Kerenskij in fuga travestito da donna, poteva essere occupato in quel momento solo dalla specifica tradizione culturale, politica e organizzativa del gruppo d’azione leninista. Soltanto chi come Lenin in quel frangente seppe mettersi in sintonia con “la sfrenatezza delle masse anarchiche e pacifiste, optando per una “utilizzazione quasi cinica delle contingenze”, poté sostituire il proprio gruppo organizzato e inesorabile al potere vacante. Lo spazio e il tempo preconizzati dal gradualismo menscevico s’erano violentemente contratti. I Girondini della rivoluzione russa apparivano sconfitti quasi prima d’averla incominciata. Nel momento supremo dell’anarchia, dello sfacelo dei resti del Governo Provvisorio, non erano né gli ideali socialisti né le analisi marxiste che potevano servire a Lenin per dominare la situazione: gli servivano benissimo invece la spietata demagogia giacobina, il pragmatismo blanquista, sommandosi alle tradizioni del libertarismo russo di Bakunin e di Lavrov.

Ma la verità viene tanto meglio fuori dal discorso di Caffi quanto esso è meno ideologizzato. La grande forza culturale e anche filosofica dello scrittore è di parlare dei fatti attraverso i fatti: essi, nella sua analisi, vivono liberi, dilatati, enigmatici e tuttavia inevitabili come la vita stessa. E’ questa visione della storia, o meglio questa percezione immediata della storia nell’ambiguità dell’evento, che conferisce ancora oggi una rara potenza interpretativa ed evocativa al dramma russo colto da Caffi sul vivo, nel 1918.

 

 

Nicola Chiaromonte 

Andrea Caffi, Critica della violenza, Bompiani, 1966

 

 Introduzione

Parlo di Andrea Caffi come dell”‘uomo migliore, e inoltre il più savio e il più giusto” che nel mio tempo io abbia conosciuto. Ne parlo per essergli stato amico durante ventitré anni, dal maggio 1932 quando, a Parigi, Alberto Moravia me lo fece incontrare, al luglio 1955, quando morì nella stessa città, e perché alla sua amicizia devo quel che di meglio posso aver acquistato nel corso della mia vita; ne parlo perché penso che le poche tracce scritte della sua personalità che si sono potute conservare o recuperare meritano di essere conosciute, ma d’altra parte hanno bisogno di essere accompagnate da qualche notizia.

Ma, come sono relativamente pochi, anzi pochissimi, nella gran quantità di schede, note e quaderni da lui lasciati, gli scritti di Caffi abbastanza compiuti per poter essere offerti in lettura a chi non lo conobbe, così sono singolarmente poche e frammentarie le notizie che della sua vita, pur ricchissima di peripezie, d’incontri, di sodalizi, d’amicizie, si possono dare come “obbiettive”. Quelle che ho, le ho raccolte quasi tutte dai suoi discorsi, ma sempre a proposito d’altre cose, mai parlando di sé e dei propri fatti, argomento che egli considerava fastidioso e indiscreto.

Mi trovo dunque, da una parte con gli scritti che qui si pubblicano e con alcune notizie frammentarie, dall’altra con un’immagine prodigiosamente viva dell’uomo: tanto viva da scoraggiare la descrizione, poiché essa ha della vita la caratteristica essenziale, che è il non finito, l’indeciso, l’elusivo.

Come si vedrà in queste pagine, se c’era nella mente di Caffi un’idea centrale attorno alla quale tutte le altre si ordinavano naturalmente, questa era l’idea di socievolezza: la philìa aristotelica, fondamento della vita associata. Ma la socievolezza non era solo un’idea, per Caffi, era anche il tratto saliente della sua personalità.

La socievolezza spontanea e continuamente traboccante, accompagnata da una prodigalità illimitata nel dono di sé, dava all’esistenza di Andrea Caffi una pluralità d’aspetti che finiva per diventare innumerevole. C’era, per esempio, come io lo conobbi, il Caffi italiano amico di Gaetano Salvernini come di Umberto Zanotti-Bianco, di G. A. Borgese e di Giuseppe Ungaretti come di Alberto Moravia, di Umberto Morrà, di Vincenzo Torraca, di Giuseppe Fancello, come poi di Carlo Rosselli e di molti altri uomini dell’emigrazione antifascista a Parigi. Insieme a questo, c’era il Caffi intimamente legato a gruppi e persone della diaspora intellettuale, letteraria e politica russa, e non era certo meno reale dell’italiano. C’era poi il Caffi francese d’elezione, con amicizie e impegni in molti circoli della vita politica e intellettuale francese. Ci fu persino, fra il 1950 e il 1955, attraverso l’incontro con Paolo Emilio Comes, Mario Pedrosa e i loro amici, un Caffi brasiliano.

Ma c’era poi anche il Caffi eretico di tutti questi gruppi, intellettuale la cui visione non si adattava a nessuna prospettiva comunemente accettata e verso il quale solo alcuni pochi individui isolati, o comunque insoddisfatti dei gruppi esistenti e delle idee correnti, potevano sentirsi attratti; e di questi, pochissimi a lungo, perché i sentieri per i quali Caffi trascinava chi lo seguiva erano dav-vero Holzwege, sentieri non tracciati in anticipo e di cui non si sapeva dove conducessero; dunque stancanti. Dietro questo Caffi eretico e irrequieto c’era lo spirito solitario, assorto in un mondo di pensieri segreti e di operazioni intellettuali addirittura misteriose nel quale raramente, anche nei momenti di maggiore confidenza, si apriva qualche spiraglio.

C’era infine, a riunire e confondere di continuo queste parti diverse, Caffi al naturale, per così dire: uomo dal tratto quanto mai affabile e amabile, egualmente a suo agio nella compagnia delle persone più diverse, purché non appartenessero alla specie odiata dei mediocri soddisfatti. Era, questo, un uomo che più delicato e nobile è difficile immaginare, e certamente rarissimo trovarne: un uomo che tutte le qualità della mente e dell’animo dicevano fatto per essere accolto e onorato nei luoghi più eccelsi di una società ideale, e particolarmente fra gli uomini di pensiero e di cultura; e il quale invece sceglieva deliberatamente la solitudine e l’oscurità, incapace com’era di fare la più piccola concessione quando si trattava non dico della sua integrità morale o delle sue idee, che sarebbe un parlare solenne, ma semplicemente della sua sensibilità. Ogni tentativo, anche il meglio intenzionato, di procurargli una via d’uscita da tale isolamento, e dalle angustie che comportava, rimase inutile fino all’ultimo. Sicché era evidente che non si trattava tanto di riluttanza al compromesso, quanto della volontà di non “inserirsi” in alcun modo in una società che gli dispiaceva profondamente.

Questa pluralità di esistenze, il vivere alla ventura nella più completa noncuranza non solo di ogni carriera, ma di ogni vantaggio personale, l’incoercibile irrequietezza dello spirito spiegano almeno in parte le immagini così diverse, frammentarie e incerte che rimangono di Caffi. In tutte, anche in quelle dei testimoni meno perspicaci, la sua natura eccezionale è presente, e più particolarmente sono presenti di lui la generosità spensierata e la stupefacente cultura. Ma in nessuna la sua immagine è chiara e rilevata. In tutte rimane l’enigma di chi fosse in realtà lo “spirito arcangelo” così vivo nel ricordo di Antonio Banfi, lo “strano tipo” di cui ha sentito il bisogno di scrivere Giuseppe Prezzolini riducendone tuttavia la figura a quella di un amabile scombinato, il “personaggio socratico” di cui serba memoria ammirata Alberto Spaini, facendone d’altro canto un mazziniano (cosa che egli certamente non era) e un fautore degli Stati Uniti d’Europa, cosa certamente vera, di lui, ma insieme a molte altre alquanto più importanti (v. Il Messaggero di Roma — 5 ottobre 1959).

La diversità, frammentarietà e incertezza delle testimonianze su Caffi (fra le quali è da ricordare quella di Gaetano Salvemini, che ne parlava come dell’ uomo più straordinario e dello spirito più eletto che egli avesse conosciuto, e anche, scherzando sulla piena strabocchevole delle sue cognizioni, come del “caos prima della creazione”), si riflette nell’incompletezza dei dati più elementari della sua biografia, la quale, per essere in qualche modo completa, avrebbe dovuto essere redatta già molti anni fa, andando a consultare in giro per il mondo le molte persone che l’avevano conosciuto e gli erano state amiche, il numero delle quali è ormai irreparabilmente assottigliato. Io dunque dirò, per quanto posso in ordine, quello che so di sicuro.

Andrea Caffi era nato a Pietroburgo il 1° maggio 1887, da genitori italiani. Originario di Belluno, suo padre era nipote del pittore e patriota garibaldino Ippolito Caffi. Il quale, essendo stato scenografo dei teatri imperiali, aveva aperto al nipote la via di un impiego nell’amministrazione dei teatri medesimi.

Considerato dai maestri un ragazzo di doti eccezionali, il padre lo iscrisse a quella che era allora la migliore scuola di Pietroburgo, e una delle migliori d’Europa: il Liceo Internazionale. Di quell’insegnamento e di quell’ambiente egli serbava memoria grata e affettuosa, come si può vedere da quel che ne dice nello scritto “Società e gerarchia”, pubblicato in questo volume.

A quattordici anni, Andrea Caffi era già socialista d’idee: diceva che la sua scelta risaliva al raccapriccio provato per le condizioni di lavoro degli operai industriali durante una visita alle officine Putilov, dove era stato condotto, insieme alla sua classe, da un professore probabilmente socialista egli stesso. A sedici anni, egli fu tra gli organizzatori del primo sindacato dei tipografi di Pietroburgo, dei quali si vantava di aver contribuito a fare dei socialisti senza mai parlar loro di marxismo, ma solo di storia, di letteratura e di filosofia. In questo lavoro clandestino, egli ebbe compagni Kalinin (che doveva diventare il primo Presidente dell’Unione delle Repubbliche Sovietiche) e Molotov, destinato alla fama come ministro degli esteri di Stalin.

Seguendo questa via, a diciotto anni Caffi prese parte alla rivoluzione del 1905, nelle file dei menscevichi. Arrestato e condannato a tre anni di carcere, fu liberato nel 1907 per intervento dell’ambasciatore d’Italia. Andò allora in Germania per compiervi gli studi universitari. A Berlino, ebbe maestro particolarmente amato Georg Simmel, del cui pensiero si trova più di una traccia nei suoi scritti. Fra i suoi compagni di studi c’era Antonio Banfi, il futuro docente di filosofia all’Università di Milano e senatore comunista, il quale lo ha ricordato con queste parole: “M’era compagno lo spirito più arcangelo e più vivo che mai conobbi, Andrea Caffi, fuggitivo dalla prigionia per i moti del 1905-’06, un umanitario ribelle, raffinato e semplice insieme di vita, poliglotta e colto all’estremo, arguto e entusiasta, con cui scrivemmo pagine e pagine sulla cultura europea contemporanea. Dove sia quel manoscritto non so, so che da lui ebbi un vero fiotto di vita e di entusiasmo” (v. Aut Aut, 1958, n. 43-44 ). Al che voglio aggiungere che il Frammento politico del 1910 di Antonio Banfi, pubblicato da Fulvio Papi nel 1961, porta per me l’impronta inconfondibile di Caffi quando, senza il soccorso di un appunto, tracciava a viva voce vasti panorami di storia delle idee, e l’ascoltatore cercava di notarne l’essenziale, trovandosi alla fine fra le mani il disegno suggestivo di un’opera originale che solo Caffi avrebbe potuto condurre a termine.

Mentre proseguiva gli studi e continuava a militare nel movimento socialista, Caffi viaggiava per tutta l’Europa. Soggiornò a lungo a Firenze, dove frequentò il gruppo della Voce. Amico di Scipio Slataper e di Alberto Spaini, strinse anche rapporti amichevoli con Giuseppe Prezzolini, e collaborò alla rivista con uno scritto firmato insieme a Antonio Banfi e Confucio Cotti. Nel presentare una lettera di lui pubblicata nel volume Testimonianze (Longanesi, 1960), Prezzolini così lo descrive:

Arrivava all’improvviso, non si sapeva da che parte del mondo, con gli abiti sgualciti e l’aria di avere un grande appetito… e scompariva allo stesso modo, senza che si sapesse perché né per dove. Da per tutto portava la sua gentilezza, un’aria d’innocenza, un enorme fascio d’erudizione che slegava e da cui traeva regali a qualunque richiesta…

In un articolo dello stesso Prezzolini, pubblicato nel giornale Il Tempo di Roma il 15 agosto 1959 e intitolato “Uno strano tipo”, si trovano ricordati altri tratti della personalità di Caffi:

Siccome era di un’estrema delicatezza e indipendenza di spirito, non ci si accorgeva delle sue ristrettezze altro che dagli abiti e dallo sguardo con il quale di traverso guardava una tavola apparecchiata quando lo si invitava… Aveva un modo di sfuggire ogni curiosità e indagine sulla sua persona che lo rendeva molto simile a quei personaggi dei romanzi russi che rispondono con frasi svagate e allusive alla polizia degli zar… Il suo ingegno era vivace, la sua memoria potentissima. Era curioso che un uomo sapesse tante cose senza avere accanto una biblioteca personale. Se in una conversazione usciva qualche frase contenente un’inesattezza, si poteva esser sicuri che il giorno dopo si riceveva una lettera di lunghe correzioni e prove. Da giovane, mi accadde di dire qualche corbelleria intorno all’Ucraina, e credo di conservare ancora una lettera di trenta pagine nella quale mi faceva tutta la storia della lingua, della letteratura e della nazione ucraina. Tutto questo, certamente, senza consultare un libro, senza chiedere il parere di nessuno…

Tale era il Caffi venticinquenne. Non molto diverso dal Caffi adulto, a giudicare da questo ritratto. Direi che i lineamenti esteriori Prezzolini li vede molto bene; quelli morali e intellettuali, invece, in una luce curiosamente opaca, quasi nello sforzo di non lasciare la figura di questo “strano tipo” invadere la coscienza con le domande di cui è portatrice, ma ridurla invece entro i limiti del pittoresco: sforzo che mi sembra caratteristico della guicciardiniana “saviezza” di Giuseppe Prezzolini.

“Enorme fascio d’erudizione”, “memoria potentissima”, “ingegno vivace”: sembra uno di quei terzetti d’aggettivi in scala discendente che Proust nota comicamente nei discorsi di Madame de Cambremer.

Enorme era certo, l’erudizione di Caffi; ed è più giusto, nel suo caso, parlare di erudizione che di cultura, perché le sue conoscenze storiche (e ogni nozione si ordinava secondo storia, ossia secondo la dimensione del tempo, nella sua mente), illimitate come sembravano, erano quelle di un conoscitore profondo e minuzioso il quale accresceva, riordinava, riesaminava e ristudiava ogni giorno quel che sapeva. Di questo sono prova la gran quantità di schede, fogli e quaderni da lui lasciati (ma la massima parte è andata perduta) in cui si trova annotato ciò che egli veniva di continuo apprendendo e riapprendendo.

Ma l’”enormità” stessa delle sue conoscenze era motivo di una meraviglia che non poteva fermarsi alla constatazione della “memoria potentissima”, né dell’“ingegno vivace”. Giacché da una parte la memoria di Caffi, portentosa com’era, non aveva niente di acrobatico, era spontanea, palpitante di vita e d’intelligenza; dall’altra, il suo ingegno si manifestava nella prodigiosa sicurezza con cui, quale che fosse l’argomento, egli andava al vivo della questione senza cura di opinioni stabilite, idoli o tabu di sorta. C’era in questo assai più che della “vivacità”: una libertà di giudizio e di pensiero di cui non ho conosciuto l’eguale in nessun intellettuale dei tempi nostri; ed era in primo luogo una conquista morale, il frutto, cioè, di una coerenza di vita eccezionale.

Riprendendo il filo della cronologia, dirò che terminati gli studi universitari (compiuti peregrinando per tutte le università tedesche, come permetteva la disciplina degli studi superiori in Germania), Caffi si stabilì a Parigi, o almeno a Parigi dimorava la maggior parte del tempo. Erano gli anni delle famose lezioni di Bergson al College de France, dei Cahiers de la Quinzaine di Péguy, del socialismo di Jaurès, della polemica di Sorci, del fiorire della nuova letteratura, della nuova pittura, della nuova musica: inizio splendido di un secolo destinato alla tragedia. A quegli anni risale il legame d’amicizia con Giuseppe Ungaretti, rimasto affettuoso fino all’ultimo.

Con un gruppo di amici francesi, russi, tedeschi e, credo, anche inglesi, che s’era dato nome La Jeune Europe, Caffi concepì allora il progetto di un’“enciclopedia” in cui fosse steso il bilancio della situazione della cultura europea all’inizio del secolo. L’impresa fu stroncata dalla guerra: dispersi fra i paesi belligeranti, gli amici non dovevano più ritrovarsi.

Il 2 agosto 1914, Caffi si arruolò volontario nell’esercito francese. Non so se, da parte di un socialista come lui, tale decisione meravigliasse i suoi amici. Meravigliò me quando l’appresi, perché il suo giudizio sul comportamento dei partiti socialisti europei, arresisi quasi tutti al principio dell’interesse nazionale e dell’union sacrée, era quanto mai severo, non distinguendosi sostanzialmente da quello di Lenin e di Trotzki. Ma egli spiegò candidamente che, in primo luogo, non gli era stato possibile non desiderare la sconfitta del militarismo tedesco e la vittoria della Francia; in secondo luogo, vedendo partire tanti amici incontro alla morte la sola scelta personale ammissibile gli era parsa quella di condividerne il destino; in terzo luogo, di fronte a una guerra che lui, come molti altri in Europa, aveva sentito approssimarsi fatalmente fin dal 1911, e della quale si poteva esser certi che avrebbe messo a ferro e fuoco l’intero continente, non gli era sembrato possibile invocare delle ragioni di principio. La catastrofe era avvenuta, non c’era che da subirla. Il che, d’altra parte, non significava mutare il proprio giudizio sull’avvenimento e sulle sue probabili conseguenze.

Caffi, insomma, fu nell’agosto 1914 fra i numerosi intellettuali europei, che, per oscuro che paresse loro l’avvenire, credettero tuttavia che dalla sconfitta della Germania imperiale dipendessero le sorti della democrazia e del socialismo. Le sue speranze andavano allora nel senso di un’Europa federata sulla base dei principi mazziniani.

Ferito quasi subito nei combattimenti delle Argonne, nel 1915 fu mobilitato in Italia. Ferito di nuovo sul fronte del Trentino, fu addetto presso il comando della IV Armata. Di lì, nel 1917, passò con G. A. Borgese a Zurigo, nell’ufficio speciale da questi creato per la propaganda fra le nazionalità oppresse dell’Impero absburgico.

Nel 1919, Caffi diede vita in Italia a due riviste il cui scopo era di contribuire, con un’informazione seria sui problemi lasciati dalla guerra, a influenzare ragionevolmente le decisioni che si stavano per prendere a Versailles sul nuovo assetto dell’Europa: la prima fu La Vita delle Nazioni; la seconda (pubblicata in collaborazione con Umberto Zanotti-Bianco) La Giovane Europa. Il primo scritto seriamente informativo sulla rivoluzione russa e i suoi capi apparso in Europa occidentale fu un lungo saggio di Caffi ne La Vita delle Nazioni. Si sa peraltro che cosa avvenne a Versailles dell’ideale di una pace giusta cui queste pubblicazioni intendevano giovare.

A pace conclusa, amici comuni intervennero presso Luigi Albertini perché il Corriere della Sera si valesse delle conoscenze e dell’esperienza di Caffi mandandolo in Russia come inviato speciale. Arrivato a Costantinopoli, egli mandò (a quanto scrive in una lettera inviata da lì a Prezzolini) otto articoli. Di questi, uno solo fu pubblicato, suscitando l’ammirazione di molti lettori. Si può pensare che la ragione per cui gli altri articoli di Caffi rimasero inediti fosse l’indignazione che in essi si esprimeva (e della quale si trovano tracce vibranti in un’altra lettera a Prezzolini) per la condotta brutale degli Alleati nei territori dell’ex Impero ottomano.

Comunque, arrivato a Odessa, Caffi terminò bruscamente le sue mansioni d’inviato speciale. L’idea di attraversare la Russia devastata dalle epidemie, dalla fame e dalla guerra civile in veste di giornalista gli parve insopportabile.  Invece di continuare il suo servizio, si aggregò alla missione internazionale di soccorso organizzata e diretta dal norvegese Fridtjof  Nansen, proseguendo così il viaggio verso Mosca.

Per i capi bolscevichi al potere, Caffi, che li aveva ben conosciuti come militante socialista, non aveva alcuna simpatia. Egli rimaneva naturalmente solidale con i menscevichi e i socialisti rivoluzionari ora perseguitati. È da notare tuttavia che già nell’articolo sopracitato egli aveva esposto con molta chiarezza le loro ragioni e mostratone la forza e la fondatezza. Ma nel trionfo dei bolscevichi egli vide, con uno scoramento simile a quello provato allo scoppio della guerra, la sconfitta di quanto c’era stato di più schiettamente libertario e socialista, e anche di più europeo, nella tradizione rivoluzionaria russa quale si era iniziata nel dicembre 1825. Ciò che lo rese una volta per sempre avverso ai bolscevichi fu il loro autoritarismo implacabile, nel quale tuttavia non mancava di riconoscere la fonte principale della loro forza. D’altra parte, gli fu anche chiaro che l’aggressione anglo-francese contro la rivoluzione russa aveva reso irreparabile lo scisma fra la nuova Russia e l’Europa, contribuendo a irrigidire la situazione interna e a fare del terrore un’istituzione permanente del nuovo regime.

Un’idea di quale fosse il comportamento di Caffi a Mosca in quegli anni la si potrà avere leggendo quello che egli stesso narra nel corso delle sue considerazioni su “Stato, Nazione e Cultura” della “monelleria” perpetrata da lui e dai suoi giovani compagni quando, lavorando negli uffici della Terza Internazionale, si divertivano a inserire nel bollettino da essi redatto notizie sgradite in alto loco.

Fu come “controrivoluzionario”, sotto l’accusa (infondata) di essersi adoperato a dissuadere i socialisti italiani venuti a Mosca con G. M. Serrati dall’aderire alla Terza Internazionale, che la Ceka lo arrestò. Rinchiuso nella prigione della Lubianka, dove ogni notte le porte delle celle si aprivano per l’appello dei condannati a morte (“fatto piuttosto a casaccio”, ricordava Caffi), fu liberato dopo alcune settimane grazie all’intervento di Angelica Balabanoff.

Rimasto a Mosca, quando vi giunse la prima missione diplomatica italiana gli fu chiesto di assumervi le funzioni di segretario. Le quali egli si vantava scherzosamente di aver sfruttato per fabbricare un cospicuo numero di falsi cittadini italiani, rilasciando passaporti a persone che volevano fuggire dalla Russia.

Ma ebbe anche da fare altro. Poco dopo la “marcia su Roma”, giunse alla missione di Mosca, direttamente da Mussolini nella sua qualità di ministro degli esteri, la richiesta di un rapporto sul costo in vite umane della rivoluzione russa, fra terrore bolscevico, guerra civile, fame e flagelli concomitanti. Fu Caffi a fare le ricerche e a redigere il documento. Il quale non potè essere d’alcuna utilità a Mussolini, visto che il motivo che l’aveva spinto a chiederlo era di poter affermare (come più tardi in un discorso non si peritò di fare) che la rivoluzione fascista era stata un fatto altrettanto importante della rivoluzione francese e di quella russa perché altrettanto e più sanguinoso.

Noterò qui in parentesi che, prima di lasciare la Russia, Caffi ebbe cura di depositare alla biblioteca centrale di Mosca (poi Biblioteca Lenin) un pacco di scritti e di documenti da lui raccolti, nel quale per parte mia son certo che lo storico futuro troverà materia importante di studio.

Tornato in Italia nel 1923, l’impiego avuto in Russia gliene valse uno al ministero degli esteri, a Roma. Fu incaricato della redazione di un notiziario per le ambasciate. Lontano com’era stato dall’Italia fin dal 1920, non sapeva quasi nulla del fascismo. Non tardò a farsene un’idea, e un giorno uscì dall’ufficio per non più tornarvi. Ma non senza prima aver ripetuto una “monelleria” del genere di quella perpetrata a Mosca: a guisa di commiato dalle sue mansioni ufficiali, aveva scritto e regolarmente spedito alle ambasciate nei vari paesi un ultimo bollettino, contenente un resoconto burlesco del famoso ricevimento offerto a Palazzo Venezia in onore dei neo-nobili del regime, dove Mussolini era insignito del titolo di “duca del Manganello”. Quale fosse dopo di allora il suo modo di vita a Roma, ne dà un’idea l’episodio raccontatomi da Vincenzo Torraca.

Un giorno, i suoi amici seppero che Caffi non aveva un domicilio e che, con la complicità di un guardiano, passava le notti su un giaciglio improvvisato nei locali della Biblioteca Vittorio Emanuele. Si provvide subito a trovargli un alloggio meno aleatorio. Per qualche tempo, parve che egli avesse consentito ad avere una dimora convenzionale. Ma dopo un po’ si seppe che dormiva di nuovo fra i libri. È’ un piccolo esempio di quanto fosse inutile cercare di persuadere Caffi ad avere un’esistenza “normale”.

A Roma, legato com’era all’ambiente intellettuale antifascista, e particolarmente a uomini come Umberto Zanotti-Bianco, Gaetano Salvemini, Emilio Lussu, Giuseppe Fancello, Umberto Morra, Vincenzo Torraca, partecipò alle vicissitudini della crisi Matteotti e dell’Aventino, con ciò che seguì. Collaborò con articoli politici a Volontà di Roberto Marvasi e al Quarto Stato di Pietro Nenni e Carlo Rosselli. Al tempo stesso, ebbe rapporti di cordiale, reciproca stima con Ernesto Buonaiuti e scrisse un articolo per la sua rivista Ricerche religiose. Risale a quegli anni l’amicizia con Alberto Moravia, allora giovanissimo e sconosciuto.

A titolo d’azione antifascista, tentò d’impiantare a Roma i metodi di cospirazione che aveva praticato in Russia. Frequentava perciò gli operai del vecchio quartiere dietro piazza Venezia, poi demolito per far largo a Via dell’Impero. In quell’ambiente, faceva propaganda sovversiva a suo modo, parlando della Russia e del socialismo, ma anche di storia e letteratura greca, senza cercar mai di far proseliti per una determinata parte politica o di farsi campione di un’ideologia particolare.

Per questa specie di attività sovversiva, nel 1926 fu minacciato d’arresto. Avvertito in tempo, partì per la Francia, dove fu per tre anni, a Versailles, precettore dei figli del principe Caetani, nonché segretario di redazione di Commerce, la rivista letteraria internazionale fondata da Margherita Caetani per suggerimento di Paul Valéry.

Stabilitosi nel 1929 a Parigi, in un albergo del quartiere della Convention dove aveva abitato anche prima della guerra, cominciò per Caffi un’esistenza molto diversa da quella che egli aveva condotto fino ad allora. Non che mutasse il suo stile di vita, ma venne, fra l’altro, a mancargli il modo di continuare l’esistenza errante e spensierata che aveva condotto da giovane.

Ma il passaggio dalla vita nomade a quella sedentaria non era che l’aspetto esteriore di un mutamento più profondo, indotto dall’esperienza della guerra e della rivoluzione russa.

Il 2 agosto 1914, come Caffi ripeteva ogni volta che ne aveva occasione, aveva segnato per lui non solo la fine della gioventù, ma il crollo di tutto un mondo d’idee e di speranze. Dopo la guerra, e dopo i tentativi che fece, insieme a qualche “uomo di buona volontà”, per rendersi utile alla causa di un’Europa più giusta, si formò in lui la convinzione che le nazioni europee erano ormai avviate sulla strada di crisi sempre più radicali che rendevano futile ogni idea di “restaurazione” della democrazia e del socialismo quali li si era concepiti prima del 1914. Tali crisi investivano naturalmente anche i “valori culturali” e il posto che essi avevano avuto nella società all’inizio del secolo. L’esito della rivoluzione russa, il sorgere del fascismo e delle altre specie di regimi autoritari confermavano questa convinzione, come la confermavano d’altra parte le tendenze che si manifestavano nel campo della cultura.

Non si trattava, come sarebbe troppo facile interpretare, di “disillusione” o di “pessimismo”, bensì di un rivolgimento profondo il quale sboccò nella convinzione ragionata che fra il culto dei veri valori umani e la società qual era, e ancor più quale si avviava a essere, non sussisteva alcuna possibilità di compromesso: la cultura, intesa come asserzione intransigente dei valori di verità e di giustizia, diventava un culto segreto, praticabile soltanto in piccoli gruppi eretici.

Ma, naturalmente, il principio di una tale convinzione era già nella personalità di Caffi giovane. Ciò si trova indicato con sufficiente chiarezza in una lettera cui il destinatario, Giuseppe Prezzolini, pubblicandola nel già citato volume Testimonianze, assegna la data probabile del novembre 1913. Parlando della sorte di “coloro che nell’epoca nostra seriamente ‘vogliono volere’ e sentono il bisogno di soluzioni nuove senza però essere in grado di precisare concretamente questa ‘nuova terra’ verso la quale navighiamo”, a un certo punto Caffi così scrive di se stesso:

“Sento un isolamento morale forse più grave di ogni altro, oggi come oggi ho la certezza assoluta che nessuno di quelli che conosco vorrebbe prendermi a collaboratore, diventarmi compagno di ricerche. Non è perché presuntuosamente io creda di arrampicarmi su vette più difficili degli altri. È semplicemente il gioco delle combinazioni create dall’esistenza fatta finora da me: non posso entrare in un campo perché ne conosco altri che con questo non hanno né avranno mai punti di contatto. E la sintesi può interessare, appassionare, imporsi come indispensabile a me solo. Le assicuro che niente è così amaro come la coscienza di un ‘residuo’ incomunicabile nei propri sentimenti, nei propri pensieri ogni volta che si avvicina con simpatia, con grande desiderio d’intendersi, uno che combatte in fin dei conti per la stessa mèta: la liberazione spirituale degli uomini, il rinnovamento della nostra civiltà tutta…”

In queste righe è già delineata la disposizione d’animo che dopo la guerra doveva portare Caffi alla decisione di appartarsi dal “secolo”, senza tuttavia separarsene. Cessando di essere nomade, la sua esistenza personale divenne quella di un “eremita socievole”. La porta della sua stanza, nell’hotel meublé dove abitava, rimaneva sempre aperta, all’uso russo, a chiunque venisse a fargli visita e a conversare; ed egli accoglieva tutti come se il suo tempo fosse a loro disposizione; i soli sui quali cadeva un pesante silenzio oppure, anche peggio, un seguito di monosillabiche imbarazzate risposte, erano le persone “importanti” che venivano talvolta a intervistarlo o, come lui diceva, a tentare di “ripescarlo” per riportarlo nella vita normale.

La sua vita, cioè la sua attività giornaliera, rimase sempre più fermamente dedicata alla causa che nella lettera a Prezzolini indicava con parole ingenue e fiere insieme: la liberazione spirituale degli uomini e il rinnovamento della nostra civiltà. La sua solitudine era decisione di non avere altra società che quella da lui scelta: non aveva niente di ascetico, esprimeva semplicemente la libertà di una natura incapace di adattarsi alle ragioni del mondo e risoluta a rimaner fedele al non serviam pronunciato in gioventù. In sostanza, quella di Andrea Caffi era la vita di un “filosofo” nel senso antico della parola: di un uomo, cioè, unicamente devoto alla ricerca del vero e del giusto e convinto che tale ricerca diventava un affare equivoco non appena vi si mescolassero preoccupazioni di successo mondano o di carriera.

A Parigi, dopo il 1929, egli visse di traduzioni e di lavori da “negro”; e so, a questo proposito, di più di un personaggio eminente che deve a lui i suoi successi accademici o letterari. Pochi erano infatti quelli che, come Gaetano Salvemini, riconoscevano apertamente il contributo dato da Caffi alle loro ricerche. I più lo consideravano uno scombinato fornito di grande cultura al quale essi, dietro compenso, davano almeno l’occasione di far uso delle sue conoscenze. Si tendeva, anzi, a ignorare, o addirittura a disconoscere, ciò che gli si doveva tanto più quanto più gli si doveva: ad appropriarsi, cioè, puramente e semplicemente delle sue idee per farne quel qualsiasi uso che conveniva. Né egli era uomo da accettare per un solo momento il concetto che esistesse qualcosa come la proprietà privata delle cose dell’intelletto.

Visse così in una povertà che troppo spesso era miseria. Una miseria prodiga e sdegnosa del sia pur minimo calcolo. Come preferiva non mangiare piuttosto che sedersi a una di quelle mense a prezzo fisso delle quali noi suoi amici eravamo clienti non troppo difficili, così per lui il cosiddetto superfluo veniva sempre prima del necessario, e i primi acquisti, quando aveva qualche franco in tasca, erano di saponi, dentifrici e acqua di Colonia. Né d’altra parte esitava un momento a vuotarsi letteralmente le tasche se s’imbatteva in qualcuno che avesse comunque bisogno d’aiuto. Vivergli vicino era una gran lezione di generosità e di nobiltà.

Povero com’era, egli aveva d’altronde in sé una ricchezza inesauribile: la capacità del dono di sé nell’amicizia. Il dono era, a dir vero, la sola forma di commercio umano che per parte sua egli riconoscesse e praticasse. Non c’è nessuno, fra quelli che gli sono stati amici, o anche che lo han conosciuto un po’ da vicino, che non abbia ricevuto da lui infinitamente più di quello che abbia potuto dargli. Ciò valse, a lui solitario e misconosciuto, di essere sempre attorniato da amici tanto più devoti e ammirati quanto più erano giovani. Ad essi, egli offriva senza risparmio i doni di una mente che (contrariamente al precetto dantesco), non stava mai contenta al quia, di un animo delicatissimo e, soprattutto, l’esempio di che cosa volesse dire vivere come un uomo libero in un mondo, come quello contemporaneo, servo dell’utile, del successo e della forza.

A Parigi, fino al 1935, Caffi fu collaboratore dei Quaderni e del settimanale di Giustizia e Libertà. Dei suoi rapporti con Carlo Rosselli e col suo gruppo si trova ampia notizia nella Vita di Carlo Rosselli di Aldo Garosci.

Molto ci sarebbe da notare sull’argomento. Ma la sede più adatta a questo sarà il volume degli scritti politici di Caffi, che dovrebbe seguire a poca distanza la pubblicazione della presente raccolta. Qui basti dire che la collaborazione di Caffi ai Quaderni e al settimanale di Giustizia e Libertà fu dovuta alla simpatia per quel gruppo, che gli parve il più vivace e spregiudicato dell’emigrazione antifascista, e non a un’adesione politica che del resto non gli fu mai chiesta. Quanto alle critiche che egli contemporaneamente non risparmiava alle idee e ai criteri ispiratori del “movimento”, esse erano dovute al desiderio che l’antifascismo italiano, almeno nella sua parte più giovane e intellettualmente più avvertita, si sollevasse dal terreno della polemica spicciola e della propaganda antimussoliniana per attingere al livello di movimento europeo e contribuire in modo positivo al rinnovamento della tradizione socialista e libertaria.

Fra i fuorusciti italiani, oltre che con Carlo Rosselli e i suoi compagni, Caffi ebbe rapporti di amicizia e di collaborazione con Salvemini, Tasca, Lussu, Saragat, Giuseppe Faravelli, G.E. Modigliani; senza dimenticare il vecchio sindacalista di Parma Giovanni Faraboli, che egli conobbe a Toulouse nel 1940 e aiutò a tenere in piedi un’impresa di solidarietà e mutua assistenza fra gli operai italiani emigrati della regione. Sia lecito infine ricordare, fra i suoi più giovani amici di allora, oltre il sottoscritto, Mario Levi e Renzo Giua, quest’ultimo caduto in Spagna nel 1937.

Ma, come si è già accennato, la cerchia delle amicizie di Caffi era singolarmente larga e diversa. Partecipò assiduamente alla vita di molti gruppi d’emigrati russi, fra i quali aveva amici particolarmente cari. Fu attivo in vari ambienti politici e intellettuali francesi, essendo molto vicino, fra gli altri, a Paul Langevin, il fisico illustre.

A Toulouse, Caffi rimase dal luglio 1940 al febbraio 1948. Nel periodo dell’occupazione tedesca prese parte all’attività di gruppi di resistenza sia italiani che spagnoli e francesi. Per questo, nel 1944, fu imprigionato.

Tornato a Parigi, non mancò di attirarsi nuovi amici. Fra questi fu Albert Camus, il quale, pensando che un tale lavoro avrebbe potuto aprirgli la strada verso mansioni meno modeste, gli procurò un lavoro di lettore presso Gallimard. Infatti, le schede di lettura da lui compilate attirarono subito l’attenzione. Ma il gradimento dei letterati non era stimolo che potesse vincere la ritrosia di Caffi; ed era d’altra parte impensabile, per chi lo conosceva, che egli potesse fare un passo qualsiasi, avvicinare una persona o scrivere una riga, per un motivo d’utilità personale.

Con l’avanzare degli anni, la sua vita rimase quella che era sempre stata: povera e prodiga. Nel frattempo, gli stenti e i disagi in cui aveva vissuto da anni, e che erano stati particolarmente duri negli anni della guerra, cominciarono a mostrare i loro effetti sulla sua costituzione fisica, che pure era molto vigorosa. Fra il 1954 e il 1955 la sua salute declinò rapidamente. Colpito da un male che probabilmente lo minava da tempo, mori il 22 luglio 1955 all’ospedale della Salpétrière. Le sue ceneri sono deposte al cimitero del Pére Lachaise.

Scritti di Andrea Caffi sono sparsi in riviste e giornali italiani, russi e americani. Nelle biblioteche italiane si trova un volume di Paolo Orsi, Le chiese basiliane della Calabria, pubblicato da Vallecchi, a Firenze, nel 1929, con una lunga appendice storica di Caffi intitolata Santi e guerrieri di Bisanzio nell’Italia meridionale. Nell’Enciclopedia Italiana, alcuni articoli di storia bizantina sono suoi. In questo campo, infatti, le sue conoscenze erano particolarmente sicure e profonde. Si era laureato con una tesi di storia bizantina e da allora lo studio della civiltà bizantina, legato a un più vasto interesse per la storia dell’ellenismo, era rimasto la sua passione particolare. Ma, come si è detto, la sua cultura era enciclopedica nel senso più forte della parola: talmente vasta da dar l’impressione di essere propriamente sconfinata, essa rimaneva mirabilmente precisa su ogni punto. C’era, in questo, qualcosa come la luce di un dono incomparabile.

È nello scambio amichevole d’idee, oltre che nell’esempio di libertà e di disinteresse che offriva giorno per giorno la sua esistenza, che Andrea Caffi dava il meglio di sé, irradiando quello “spirito arcangelo” di cui parlava Antonio Banfi. Ciò che di più somigliante, direi, rimane di lui si trova nelle lunghe lettere agli amici e nelle lunghe note che egli usava fare ai loro scritti o per chiarire opinioni espresse conversando.

Quelli ai quali nel presente volume si è data forma di saggi sono dunque propriamente brani e frammenti del bel discorso che fu, considerata dal punto di vista del commercio intellettuale, la sua vita. Sono brani e frammenti estratti dalle lettere e note di lui che chi scrive è riuscito a preservare. Molto, purtroppo, è andato perduto. Tuttavia, non solo si tratta di una minima parte di ciò che a Caffi accadde di scrivere, ma anche di una piccola parte di ciò che è stato conservato. Per non parlare, infatti, di ciò che hanno potuto conservare di lui gli amici russi e francesi, e a parte i manoscritti lasciati alla biblioteca Lenin di Mosca, esistono scritti e documenti di Caffi nell’archivio del Grande Oriente di Francia e in quelli di altre logge massoniche francesi e russe. Come alla causa del socialismo abbracciata in gioventù, egli era infatti rimasto fedele all’ideale massonico, al quale era stato iniziato adolescente in Russia.

Veramente e doppiamente frammenti, dunque, gli scritti che qui si pubblicano. Note e lettere non sono infatti, a loro volta, che brani di quella lunga lezione d’umanità che fu per il sottoscritto l’amicizia con Andrea Caffi.

Troverà il lettore in questi brani quel “principio filosofico” o quella “idea centrale” che, dopo averne letto alcuni nella rivista Tempo presente (dove la massima parte di essi è stata pubblicata) Giuseppe Prezzolini non ci ha trovato, e ha tenuto a dirlo in un articolo dedicato a Caffi e intitolato “Uno strano tipo”, che si può leggere nel Tempo di Roma del 5 agosto 1959?

In un certo senso è da sperare che no, che non li trovi, questo “principio filosofico” e questa “idea centrale”. Giacché nulla era più contrario al modo di vedere di Caffi dell’idea che il sapere e l’esperienza dell’uomo potessero o dovessero organizzarsi secondo un principio unico. Si potrebbe anzi dire che tutti i suoi discorsi tendevano a minare nell’interlocutore ogni certezza, o presunzione, di questo tipo; e la ragione principale, forse, per cui un uomo così straordinariamente dotato e erudito non produsse l’opera che pure avrebbe certamente potuto lasciare è la diffidenza per ogni “idea centrale” e per ogni “principio filosofico” applicabile per via di deduzione ai fatti umani. Tale diffidenza andava unita a una grande ambizione di ritrovare nel tessuto vivo della storia delle costanti secondo cui i fatti potessero ordinarsi senza nulla perdere della loro individualità. Ma lo scetticismo non perdeva i suoi diritti quando si trattava delle sue proprie idee. Molte volte gli capitava di accennare alla possibilità che, per esempio, i grandi sistemi di pensiero fossero apparsi nella storia a un ritmo determinato, o che un ritmo analogo si potesse scoprire nella durata dei grandi imperi. Ma si fermava subito, trattando simili speculazioni come dei giochi, e rimanendo sempre altrettanto guardingo nelle affermazioni quanto era preciso e sottile nella critica.

Si può dunque dire che la conoscenza storica gli serviva allo scopo eminentemente socratico di mostrare quanto poco sapessero in realtà gli storici e gli storiografi che avanzavano (come gli hegeliani e i neohegeliani) tesi categoriche sull’“idea” che ispirava questo o quel periodo della storia umana, sui parallelismi “morfologici” fra civiltà diverse e non comunicanti (come Spengler), ovvero (come Toynbee) sulle leggi che regolano la genesi, la crescita e la morte delle civiltà.

A tali “idee centrali”, Caffi rispondeva in un solo metodico modo: adducendo i singoli inconfutabili fatti che tagliavan loro, per dir così, l’erba sotto i piedi. Ma poiché consisteva nel rammentare tutto ciò che, in un dato evento o seguito di eventi, sfuggiva al particolare tentativo d’“inquadramento” di cui si trattava, la dimostrazione assumeva naturalmente un carattere positivo. Sicché, come dall’interrogazione socratica, così dalla critica di Caffi finiva per sprigionarsi la luce di una rivelazione: quella del fatto stesso nella sua vivezza e libertà, scevro delle sovrastrutture di cui volevano ricoprirlo i pregiudizi di chiesa, di setta o d’accademia.

Questo era il dono che si riceveva continuamente da Caffi: la visione del fenomeno “salvo” dai rigori della presunzione intellettuale e del dogmatismo. Se non bastava a fondare una filosofia della storia, l’esperienza ripetuta di una tale visione finiva per costituire qualcosa di più prezioso: il sentimento di ciò che vi è di sacro nei fatti umani e fa tutt’uno con la loro verità viva o, si potrebbe dire, la loro “essenza”. E tale sentimento era accompagnato dall’impossibilità ormai di dimenticare questa realtà, o comunque farne astrazione.

Giacché l’originalità profonda del pensiero di Andrea Caffi, e la grande lezione in esso implicita, era di concepire l’essenza, la verità viva, la sostanza sacra dei fatti umani come una realtà concreta, non come un’idea astratta, un principio ideologico o un precetto morale.

Tale realtà concreta non era altro che il tessuto intimo dei rapporti sociali. Questo tessuto cominciava secondo Caffi con la facoltà mitopoietica (da lui definita come “quel senso della situazione dell’uomo nell’universo, della persona nella società, della norma di una giustizia imprescrittibile… che unisce e connette come dal profondo i membri di una società, e grazie al quale essi comunicano in una visione armonica del significato dell’esistenza”) per continuarsi e articolarsi nei costumi, nella cultura e in tutte le forme di rapporti che noi chiamiamo “umani” per indicare che sono una conquista dell’uomo sull’informità e la brutalità, maniere non di subire la “natura”, ma di darle un senso e una forma.

Se il lettore di queste pagine non si preoccuperà troppo di sapere in anticipo dove -a quali conclusioni d’ordine generale- lo conduca il discorso di Caffi, è da credere che egli scoprirà presto come esso sia tutto ispirato da una sola e medesima idea e passione: quella di suscitare (o risuscitare) nella nostra epoca di inerzia massiccia e d’indifferenza il sentimento di quella realtà alla quale Aristotele dava il nome di philia, e la metteva a base del legame sociale, che Leopardi chiamava l’“umana compagnia” e che Caffi amava indicare col termine “società”, dando ad esso un significato particolare che egli spiega e esemplifica molto chiaramente.

Che cos’è la “società” di cui è continuamente questione nel discorso di Caffi? “È” egli dice, “l’insieme di quei rapporti umani che si possono definire spontanei e in certo qual modo gratuiti, nel senso che hanno almeno l’apparenza della libertà.

La definizione non potrebb’essere più piana e modesta. Essa tuttavia contiene al tempo stesso un sentimento della storia assai profondo e un ideale d’umanità assai alto. È infatti nel permanere di tali rapporti “che hanno almeno l’apparenza della libertà” attraverso le tormente della storia, nella loro capacità di resistere e sussistere malgrado le violenze, le deformazioni e gli stenti cui le assoggetta la volontà di potenza, nel loro riaffermarsi e dar frutto non appena le circostanze si facciano meno avverse, è in questa alterna e sempre tragica vicenda dell’“umana compagnia”, che Caffi scorgeva l’unico “senso” intelligibile della Storia.

Questo è il tema fondamentale del discorso molto coerente, anche se frammentario, che si svolge in queste pagine sia a proposito del rapporto fra violenza organizzata e ideale socialista o di quello fra Stato, nazione e società, sia che si trattino argomenti in apparenza disparati come il mito, la nozione di borghesia o la situazione della cultura nel mondo attuale.

È un discorso, quello di Caffi, che riflette una piena, pienamente sofferta e quanto mai ricca esperienza delle vicissitudini sia della storia che della cultura europea fra gl’inizi del secolo e i giorni nostri. Esso è anzitutto, per dirla con Montaigne, un discorso di buona fede. Aggiungerò che io, per parte mia, non ne conosco di più “attuale”, nel senso che, mentre la sua intenzione profonda è di salvare ciò che ha di prezioso la tradizione umanistica europea, esso rimane nel contempo interamente proteso verso “il rinnovamento della nostra civiltà tutta”.

È anche un discorso chiaro, e non esige ulteriore chiosa. Domanda soltanto quella disposizione ad ascoltare che non tardava a nascere in quelli che avvicinavano Caffi e che fra i più giovani si mutava subito in desiderio di conoscere il seguito delle sue idee; o forse meglio si direbbe: del suo racconto.

Ho dato a questa raccolta un titolo, Critica della violenza, che, se è ben lontano dall’indicarne la ricchezza, ne esprime però abbastanza bene l’intenzione complessiva. Giacché, in un’epoca in cui non solo legioni d’intellettuali si son gloriati di essere affiliati al partito della violenza, ma si son trovati filosofi per introdurre la violenza nella natura stessa del pensiero, Andrea Caffi opponeva alla violenza in ogni sua forma un rifiuto radicale. Quale che ne sia il punto di partenza, si può ben dire che il suo discorso è sempre diretto a opporre le ragioni dell’uomo all’urgenza delle forze che lo assillano, e talvolta lo sopraffanno.

 

Andrea Caffi

La “Critica della violenza”

Pubblicato da Radicali Anarchici

In forma un poco abbreviata, questo scritto fu pubblicato per la prima volta nel numero di gennaio 1947 della rivista Politics di New York, diretta da Dwight Macdonald, nella quale apparvero in seguito anche altri scritti di Caffi, tratti dall’amichevole corrispondenza che egli intrattenne con Macdonald Come saprete, Andrea Caffi fu un importante esponente del socialismo libertario. Già menscevico, nel secondo dopoguerra aderì al partito saragattiano.

La mia tesi è che un “movimento” il quale abbia per scopo di assicurare agli uomini il pane, la libertà e la pace, e quindi di abolire il salariato, la subordinazione della società agli apparati coercitivi dello Stato (o del Super Stato), la separazione degli uomini in “classi” come pure in nazioni straniere (e potenzialmente ostili) l’una all’altra, deve rinunciare a considerare come utili, o anche possibili, i mezzi della violenza organizzata, e cioè: a) l’insurrezione armata; b) la guerra civile; e) la guerra internazionale (sia pure contro Hitler, o… Stalin); d) un regime di dittatura e di terrore per “consolidare” l’ordine nuovo.

La ragione prima -tratta dall’esperienza e dal semplice buon senso- è che tali mezzi sono inefficaci, e anzi conducono a risultati opposti a quelli che ci si proponevano. A tale argomento -”utilitario”, se si vuole- se ne aggiungono parecchi altri: gli uni confermati dai pensieri e sentimenti unanimemente nutriti sin da quando gli uomini cominciarono a riflettere sulla condizione umana, gli altri imposti dalla situazione senza precedenti in cui si trovano i due miliardi di abitanti del pianeta Terra alla metà del secolo ventesimo.

Il disgusto (o l’orrore) della violenza è forse altrettanto antico quanto la violenza medesima, mentre l’esaltazione di questa è sicuramente un prodotto abbastanza recente di stati d’animo che abbiamo seri motivi di considerare artificiali, o anche morbosi. Io credo che Simone Weil abbia ragione di scorgere in fondo all’Iliade e ai tragici greci l’orrore per la violenza. Il buddismo non sarebbe riuscito a conquistare un cosi gran numero di proseliti se non ci fosse stata una corrispondenza intima fra i suoi precetti e un sentimento diffuso fra le masse popolari. Si hanno buone ragioni di supporre che durante l’età neolitica (durata forse più di cento secoli) una profonda pace regnasse fra quelle comunità sedentarie: dei selvaggi invasori armati di bronzo, e poi di ferro, vennero in seguito a riempire il mondo di carneficine e di gloria guerriera, diffondendo quell’ebbrezza di cui i Re d’Assiria e i Khan mongoli segnano i più tipici parossismi.

Nel corso dell’ultimo lungo secolo, dai coscritti dell’Anno II agli SS hitleriani, ai marescialli staliniani e ai generali del tipo Patton, l’umanità occidentale (senza parlare del Giappone, e della Cina “novatrice e guerriera”) ha sperimentato in tutte le sue forme la febbre e il culto della violenza: esasperazione patriottica, romanticismo rivoluzionario, “fardello dell’uomo bianco”, affermazione del superuomo al di là del bene e del male, riflessioni soreliane sulla violenza, terrore giacobino, fascista, bolscevico, eccetera.

Di fronte a questa marea, il pacifismo, che sembrava aver guadagnato non poco terreno nel XVIII secolo, ha non solo indietreggiato, ma s’è lasciato andare a una sorta di mimetismo pusillanime cercando una via d’uscita (provvidenziale o “dialettica”) sul terreno stesso sul quale il suo avversario andava di trionfo in trionfo (o di catastrofe in catastrofe). Il pacifismo razionalista dei liberali faceva troppe concessioni alla patria, e anche alla ragion di Stato; quello di un Robert Owen, di un Saint-Simon oppure di un Proudhon (il quale si opponeva soprattutto all’idea della “violenza rivoluzionaria”), l’evangelismo dei quaccheri e poi di Leone Tolstoi, erano ammirati o irrisi come sogni di spiriti ingenui. Le speranze “ragionevoli”, condivise da grandi masse d’uomini, riguardavano una “lotta finale” dopo la quale l’umanità si sarebbe trovata riunita nell’Internazionale; oppure una “guerra finale” (quella del 1914!) o, ancora più meccanicamente, l’effetto terrificante dei congegni omicidi, così devastatori che non si sarebbe osato servirsene. Tutta l’azione di Jaurès per la pace era minata alla base dal riconoscimento di una “sovranità nazionale” da difendere a ogni costo; l’antimilitarismo degli anarchici e dei sindacalisti francesi (spinto fino all’idea di uno sciopero generale dei mobilitati) mancava di prestigio morale in quanto, mentre ripudiavano la guerra fra nazioni, quegli uomini preconizzavano l’uso della violenza nella lotta di classe.

Guardiamo ora da vicino ai motivi dell’avversione dell’uomo civile per la violenza. Per semplificare il discorso, prendiamo come punto di partenza la seguente frase di Condorcet, che esprime la convinzione di un gran numero di suoi contemporanei: “Più la civiltà si diffonderà sulla terra, e più spariranno la guerra e le conquiste, in uno con la schiavitù e la miseria.”

La civilisation (parola nuova, nel XVIII secolo: non la si trova in nessun libro francese prima del 1765, e il dottor Johnson rifiutava ancora di ammetterla nel suo dizionario) era concepita dallo scozzese Millar come “‘ cette politesse des moeurs qui devient une suite naturelle de l’abondance et de la sécurité”. (Remarques sur les commencements de la société, seconda edizione francese, Amsterdam, 1773.) Nel 1780, l’abate Girard definiva la politesse asserendo che essa “ ajoute à la simple civilité ce que la dévotion ajoute a l’exercice du culte public: les moyens d’une humanité plus affectueuse, plus occupée des autres, plus recherchée”; il che suppone “une culture plus suivie, des qualités naturelles, ou l’art difficile de les feindre”. E fin dal 1736, nell’epistola dedicatoria di Zaïre, Voltaire aveva precisato che la politesse non è “une chose arbitraire comme ce qu’on appelle civilité: c’est une loi de la nature que… les Français depuis le règne d’Anne d’Autriche ont heureusement plus cultivé que les autres peuples”‘, divenendo, grazie a ciò, “le peuple le plus sociable de la terre”. Al che conviene aggiungere il tratto caratteristico, e così spesso reiterato, che Duclos formula opponendo i selvaggi, presso i quali “la force fait la noblesse et la distinction”, ai paesi civili, dove “la distinction réelle et personnelle la plus reconnue vieni de l’esprit”.

Si tratta dunque di “costumi”, di “cultura” di “umanità”, e non di principi metafisici o di precetti religiosi. Dall’ateniese che trattava umanamente il suo schiavo alla signora inglese che apostrofava il carrettiere che maltrattava il suo cavallo, la politesse, o refinement, consiste essenzialmente nel bandire ogni violenza. In nome di che? Del “rispetto di sé”, impossibile senza il rispetto degli altri; di una socievolezza che, estendendosi dall’uno all’altro, finisce logicamente col comprendere tutti gli esseri viventi. Alla superficie, si tratta di buona educazione e di “costumi civili”; in profondo, c’è in primo luogo la coscienza della “società” come fatto e come valore, e dunque immancabilmente della “giustizia” nei rapporti sociali, una nozione che -lo si vorrà ammettere- è più fondamentale di qualsiasi dogma religioso o morale.

Ma a ciò si aggiunge necessariamente il desiderio (poco importa se utilitario, come pensava Bentham, oppure ispirato dalla bontà divina) della felicità di tutti, senza la quale io stesso non potrei essere felice (“cette idée du bonheur, si neuve en Europe” dirà Saint-Just, e farà tagliar teste per affrettarne l’avvento). Insistiamo: la giustizia implica l’eguaglianza, la felicità esclude ogni oppressione. V’è dunque contrasto irriducibile fra l’aspirazione alla socievolezza e la volontà di potenza. Ogni violenza è, per definizione, antisociale. Ma la barbarie antisociale esiste in noi, nell’istinto di possesso, nel rancore, nella crudeltà nativa, nella paura, nell’ignoranza; e attorno a noi, visto che la civiltà, la politesse, la coltivata socievolezza son rimaste finora privilegio di una minoranza di persone in un numero limitato di luoghi. Donde, attraverso i millenni, il predominio quasi costante della barbarie, e specie della barbarie coperta da una vernice di civilité, per usare il termine dell’abate Girard. Le antinomie permangono. Sempre di nuovo, per preservare l’esistenza, si devono sacrificare le vivendi causas. Il compromesso è riuscito più o meno bene attraverso i secoli, giacché un certo numero di avversari sinceri d’ogni violenza è riuscito a sopravvivere, sia abbandonandosi di quando in quando alla violenza, sia cedendo ai suoi comandi. Ma oggi, a che punto siamo?Platone affidava la difesa della sua Repubblica a guerrieri espressamente allenati alla carneficina, come “cani da caccia”. Ma -importa notarlo- si trattava unicamente di guerra difensiva, visto che ogni ingrandimento territoriale avrebbe segnato la rovina della Città ideale. Importa anche notare che la casta degli armati è ancora più rigorosamente lontana dalla saggezza -fine essenziale della Città platonica- che non il popolo degli artigiani, confinato anch’esso in funzioni subalterne, ma non senza che si sian scelti nella sua progenie gl’individui suscettibili di essere avviati, attraverso un’educazione appropriata, ai gradi superiori. Si può inoltre intravedere che, nello Stato concepito da Piatone, la socievolezza e i costumi del popolo saranno umanizzati, mentre per i guerrieri è prescritta una disumanità rigorosa. Il problema che Platone cerca di risolvere è come si possa concepire una società capace di attingere a un grado supremo di civiltà e, al tempo stesso, di difendersi contro un ambiente barbaro. Il filosofo immagina quindi la sua Città: 1) come un’isola nell’oceano di un’umanità imperfetta, con la quale essa non avrà che dei contatti occasionali; 2) come un luogo dove si sarà una volta per tutte regolato il male inevitabile relegando una parte della popolazione nell’esercizio della violenza, mentre i lavoratori da una parte, i filosofi dall’altra, potranno godere i benefici di un’esistenza pacifica e di costumi gentili. Una tal situazione, e una tal divisione, non hanno nulla di utopico: rappresentano, in sostanza, quella che è stata la condizione di un buon numero di società civilizzate quando la lotta fra le classi non vi s’inaspriva fino a prendervi forme violente. E questo è appunto il pericolo che Platone pensa di aver eliminato dalla sua Repubblica.

Durante il diciottesimo secolo, e buona parte del diciannovesimo, malgrado la coscrizione universale decretata dalla Rivoluzione francese, la violenza non si esercitava che in momenti eccezionali o in zone limitate: era in genere l’affare di professionisti, e si credeva da molti che le sue forze tendessero ad attenuarsi e ad umanizzarsi. È solo dopo il 1914 che si è entrati nell’era della violenza totale, indiscriminata e senza tregua. Sappiamo bene quel che son diventati la civiltà, i costumi e la politesse sotto un tale regime. Che si creda o no in una qualsiasi religione, sia pure la “religione del progresso” o del più vago umanismo, il dilemma formulato da Dwight Macdonald in Politics s’impone a tutti: o ci liberiamo (noi e tutto il patrimonio della nostra cultura, con le idee di civiltà, giustizia, felicità che danno un senso alla nostra vita) dell’apparato di coercizione violenta che sembra aver fatto tornare l’esistenza sociale a quello stato di paura endemica che, secondo Hobbes, precede la formazione della società organizzata, oppure ne saremo stritolati.

È possibile vincere la violenza con la violenza? La questione, in realtà, ne nasconde due molto diverse. La prima è d’ordine empirico: quale probabilità c’è che un’organizzazione di refrattari, uomini liberi e pienamente coscienti dello scopo da raggiungere, disponga delle armi, dell’equipaggiamento, delle capacità tecniche per affrontare gli attuali padroni del mondo con una ragionevole prospettiva di successo? Ma la questione decisiva è l’altra: anche supponendo che si riesca a inquadrare le masse (ribelli, oppure repentinamente convertite a un ideale altamente illuminato della società e della civiltà), a strappare la bomba atomica ai suoi attuali detentori, e infine a impegnare la battaglia, è seriamente credibile che si possa evitare una ricaduta, in circostanze quanto si voglia “rivoluzionarie”, in quelle abitudini barbare, in quegli eccessi della volontà di potenza, e infine nella divisione fra un gregge docile e dei capi imperiosi che l’impiego organizzato della violenza inesorabilmente genera? E allora, come in Francia dopo Termidoro, come nel 1918-’19 un po’ dappertutto in Europa, come sotto Stalin in Russia, non sarà forse legittimo chiedersi: “Questi fiumi di sangue, perché son stati sparsi? Queste miriadi di giovani vite, a quale idolo sanguinoso sono state immolate?” E quale risposta si può dare a tali domande se non si condivide il culto della forza e del sacrificio eroico?

Chi era più devoto di Robespierre e di Saint-Just alla causa del popolo, al disegno di condurre l’umanità a governarsi da sé secondo la libertà, l’eguaglianza e la fratellanza? Nessuno certo ha perseguito con vigore più ostinato di Lenin e di Trotski la lotta per la unione dell’umanità in una federazione di collettività socialiste. E tuttavia furono Robespierre e Saint-Just a stroncare ogni slancio spontaneo del popolo di Parigi, demoralizzandolo col terrore e riducendo i clubs a sedute ufficiali frequentate da funzionari impauriti; e furono ancora essi a centralizzare e militarizzare la Francia (il che comportava il consolidarsi di una nuova casta dirigente di burocrati, di generali, di grandi fornitori dello Stato), sicché il paese fu maturo per il despotismo napoleonico e l’oligarchia dei notables. D’altro canto, furono proprio i due grandi capi bolscevichi a sopprimere i Soviet, a instaurare il regno della Ceka, a sottomettere i lavoratori alla gerarchia poliziesca dei sindacati di Stato, a moltiplicare i poteri arbitrari, i controlli soffocanti, e insomma a preparare il terreno per l’autocrazia di Stalin.

Né traditori né pusillanimi, i giacobini e i bolscevichi arrivarono a tali risultati seguendo la logica della “violenza rivoluzionaria”; e nel modo in cui applicarono tale violenza, come nelle azioni cui furono condotti da tale logica, essi rivelarono la loro mentalità essenzialmente “antisociale”. I giacobini francesi e i bolscevichi russi concepivano la realtà unicamente in termini di instaurazione di determinati rapporti di potenza e di “organizzazione” del governo e dell’economia pianificata nel nome del popolo o del proletariato, mentre non intendevano che in astratto, considerandoli come un sottoprodotto (o una “sovrastruttura”), quei costumi, quella socievolezza, quel bisogno di giustizia e di felicità che costituiscono il “contenuto immediato” dell’esistenza e la sostanza stessa della libertà delle masse popolari, se si vuole che esse formino effettivamente una società.

L’opinione che la storia non insegna mai nulla a nessuno è molto plausibile. Tuttavia, se si esaminano le esperienze di rivoluzioni e controrivoluzioni che si son susseguite dopo la ribellione delle colonie americane contro la Corona britannica, quel che colpisce è la regolarità con la quale si son ripetute talune serie di conseguenze. Conveniamo anzitutto di chiamare “società” l’insieme di quei rapporti umani che si possono definire spontanei, e in certo qual modo gratuiti, nel senso che hanno almeno l’apparenza della libertà nella scelta delle relazioni, nella loro durata e nella loro rottura: le pressioni non vi si esercitano che con mezzi “morali”, mentre i moventi utilitari sono o realmente subordinati, oppure mascherati dalla politesse, dal piacere che si ha a trovarsi in mezzo ai propri simili, dalla solidarietà affettiva che si stabilisce naturalmente fra i membri di un medesimo gruppo. Intesa in questo senso, la “società” esclude per principio ogni costrizione, e soprattutto ogni violenza. Apparirà allora chiaro che la forza, la continuità, i successi almeno parziali (giacché le forze oppressive possono certo essere schiaccianti) di un movimento d’emancipazione umana saranno in funzione diretta del grado di sviluppo e di consistenza della “società”, mentre nessuna organizzazione armata potrà aumentare le chances, né tanto meno i progressi reali di un tale movimento.

I tredici Stati americani erano, ben più che delle formazioni politiche o militari, delle comunità dal tessuto sociale assai vigoroso: i costumi puritani vi erano certo angusti e tirannici, ma erano anche accettati in piena libertà dalla stragrande maggioranza. E così -quasi all’altro estremo- l’anarchia della szlachta (la piccola nobiltà terriera polacca), che comportava una socievolezza vivacissima unita al sentimento permaloso dell’indipendenza personale, spiega la straordinaria resistenza dei polacchi a oppressori strapotenti per un così lungo periodo di tempo, nonostante la povertà economica del paese e la lamentevole politica dei governi “nazionali” (nel 1830 come nel 1930). È perché erano, secondo la parola di Voltaire, “il popolo più socievole d’Europa” che i francesi son rimasti fino al 1871 alla testa del movimento rivoluzionario. E, quanto alla Russia, la formidabile energia della Rivoluzione d’Ottobre non si capisce se non si tiene conto dell’azione parallela, durante tutto un secolo, delle sètte religiose (che erano comunistiche e, quasi tutte, tenacemente pacifiste) da una parte e, dall’altra, dell’intellighentsia umanitaria, accompagnata dal fiorire della “società” a Mosca e a Pietroburgo. Nel 1848, la socievolezza relativamente superiore di Vienna rispetto a Berlino, l’indigenza della “società” in Italia (con gradazioni alla cui cima si troverebbe Venezia, dove la vita sociale rimase, almeno fino alla fine del secolo XVIII, più animata che altrove) coincidono con le peripezie più o meno energiche, più o meno sfortunate, dei tentativi di liberazione. In Spagna, alle forze antisociali che dominarono il paese dopo la Controriforma e Filippo II, si oppose non già la tradizione centralista e autoritaria della Castiglia, ma la “coesione sociale” che ebbe i suoi focolai a Barcellona, nelle tendenze separatiste catalane e nelle forme di “solidarietà anarchica” diffuse in tutta la penisola.

L’altisonante apoftegma di Marx, “la violenza è la levatrice della storia”, manca di sottigliezza. Le emorragie causate dal forcipe storico possono essere più o meno gravi, l’operazione riuscire più o meno bene, e anche fallire. Vi sono le insurrezioni causate dalla disperazione o dal fanatismo, e annegate nel sangue: la violenza vi prorompe fino alla dismisura e, dopo l’assassinio del feto, la paziente -la “civiltà”- si trova indebolita al punto da non potersi più sollevare. Vi sono poi i colpi di Stato che chiamiamo “reazionari”, in quanto generalmente bloccano o “prevengono” un movimento di popolo. Essi cominciano sempre con un uso efficace della forza e, durante un periodo più o meno lungo, impiegano su larga scala la violenza per reprimere, o anche sopprimere, ogni spontaneità sociale al fine di estendere e consolidare al massimo il potere d’imperio di uno Stato, di un partito, di un capo, di un “ordine” inventato ad arbitrio. E vi sono infine le rivoluzioni “ liberatrici”, risultato della convergenza fra le aspirazioni lungamente maturate in vasti strati del popolo e le idee elaborate in seno alla “società”. Da qui l’atmosfera di gioia, di speranza radiosa, di riavvicinamento fraterno degli uomini che avvolge queste “albe di una nuova èra”. La violenza che segna il trionfo di un tale movimento è altrettanto repentina che breve, e come simbolica. La presa della Bastiglia, le giornate del luglio 1830 e del febbraio 1848 a Parigi, del marzo 1848 a Berlino come a Vienna, a Napoli, a Milano, costarono un numero di vittime insignificante; inoltre -particolare non trascurabile- una generosità caratteristica dei vincitori di tali battaglie ha sovente attenuato la crudeltà della lotta: i russi nel marzo 1917 e gli spagnoli nell’aprile 1931 poterono perfino congratularsi di aver conquistato la libertà senza spargimento di sangue. Sappiamo, tuttavia, che il sogno sognato in tali giorni non ha domani. Il primo trionfo di un moto popolare è immancabilmente seguito dalla tragedia; o, per esser precisi, da due fasi tragiche.

È che, da una parte, il quasi-razionalismo nato nel Rinascimento non ha soltanto bonificato le paludi della superstizione, ma ha anche inaridito quella che si potrebbe chiamare la facoltà “mitologica”: quel senso della situazione dell’uomo nell’universo, della persona nella società, della norma di una giustizia imprescrittibile e quasi ineffabile, che unisce e connette come dal profondo e dall’intimo i membri di una data società, e grazie al quale essi comunicano in una visione armonica del significato dell’esistenza. Gli occidentali si sono abituati a considerare le istituzioni, le leggi, la polizia (1) come delle realtà più conseguenti, e più maneggevoli, che non i costumi, i legami non-organizzati, la mentalità, le credenze vive di un ambiente sociale. D’altro canto, pochissimi, specie nel popolo, son quelli che hanno la percezione chiara di come il mutamento sostanziale che una rivoluzione consacra e promulga nelle tavole della sua legge è, in parte, già avvenuto molto prima delle “storiche giornate”, le quali altrimenti avvenute non sarebbero (così gli spostamenti di ricchezza, influenza e primato culturale di una classe sull’altra), mentre in parte non potrà realizzarsi che per tappe, in un avvenire che si prolungherà forse per parecchie generazioni (così i nuovi modi di vita, le vie aperte a nuovi “strati”, la caduta definitiva delle credenze esautorate). Si è al tempo stesso impazienti di un rinnovamento totale e preoccupati di non rimanere un sol giorno senza l’apparato che garantisce la continuità dell’ordine. Si è quindi delusi di vedere che plus ça change, plus c’est la même chose, e scandalizzati perché il “levati di là che mi ci metto io” profitta non già a tutti, ma solo ad alcuni, e non ai migliori.

Mani inesperte scuotono allora la macchina per rimetterla in movimento: le misure affrettate, e spesso contraddittorie, che si prendono hanno per scopo un impossibile “pronto ritorno alla normalità” piuttosto che un previdente adattamento a “torbidi” che potrebbero non essere infecondi. La diffidenza che s’insinua tra i capi e le masse, un’apprensione diffusa del “dove si va a finire?”, la resistenza subdola o insolente degli spodestati, la vertigine delle responsabilità e della “salute pubblica” aumentano il disordine; il quale può aggravarsi fino alla guerra civile, e penetra comunque nei meandri della vita sociale producendovi effetti contrari. Si vedono intensificarsi i legami di cameratismo, rivelarsi altruismi sublimi, ma al tempo stesso si scatenano lo spirito di conservazione esasperato, le rabbie gregarie, gli appetiti più brutali. Allora la violenza erompe da ogni parte e decide il corso degli eventi.

V’è stato sempre, o quasi sempre, un gruppo, o dei gruppi concorrenti, che il disordine non spaventava e che furon capaci di organizzarne lo sfruttamento. Ma assai raramente (nel solo caso della Rivoluzione americana, mi sembra, e fu un’insurrezione con scopi limitati, senza alcuna complicazione sociale, dunque un’eccezione assoluta) quelli che avevano preso la testa del movimento sono rimasti alla sua testa fino alla pacificazione finale. La “conquista giacobina” prevenne i piani tortuosi della reazione monarchica; i bolscevichi annientarono il tentativo prematuro di Kornilov; nel 1848, a sbarrar la strada al bonapartismo, non ci furono che dei “montagnardi” indecisi; in Spagna, Gil Robles prima, Franco poi, ebbero in mano delle carte che né la FAI, insidiosamente assillata dagli staliniani, né Negrin poterono controbattere.

Così si giunge alla terza fase della rivoluzione, il trionfo di una violenza dittatoriale che “consacra le conquiste del popolo” o “restaura” l’antico regime, ma che, nell’un caso come nell’altro, rafforza gli organi di coercizione a spese della società e della civiltà. Fino a oggi, i partigiani convinti della violenza rivoluzionaria hanno sempre sperato che si potesse “far meglio la prossima volta”. Oggi, però, sarebbe un rischio assurdo impegnare la battaglia contro un potere i cui mezzi e i cui sistemi abbiamo visto “illustrati” in sei anni di guerra totale, per vederla poi finire… come è sempre finita, e ritrovarci sottoposti sul serio e per lungo tempo a un apparato di dominio controllato magari dai capi che noi stessi avremo scelto come i soli capaci di tener testa all’avversario.

Bisogna evidentemente cercare mezzi più sicuri, e soprattutto più conformi ai fini. E se è vero che la situazione attuale non ha precedenti nella storia, sarà pure ragionevole preconizzare l’invenzione di una “strategia” e di una “tattica” ancora mai tentate, e delle quali l’esperienza del passato non offre che accenni suggestivi.

Sicché, alla domanda: su quali princìpi può fondarsi un’“azione di resistenza” da cui sia escluso l’impiego della violenza organizzata, io risponderei in questi termini: a) la violenza è incompatibile con i valori di civiltà e d’umanità socievole che noi vogliamo appunto preservare dagli attentati distruttori dei violenti; usando la violenza, noi rinneghiamo necessariamente i valori che sono la nostra ragione di vivere e ne ritardiamo indefinitamente la propagazione e la fioritura; b) le risorse meccaniche e i sistemi d’organizzazione massiccia (eserciti e polizia, Ceka e Gestapo, campi di concentramento, regime russo nei paesi satelliti) che vengono attualmente impiegati nella lotta fra gruppi umani hanno raggiunto un tale grado d’atroce efficienza che la distruzione completa della società civile, se non del genere umano, è diventata una possibilità effettiva. Non è affar nostro provocare l’Armageddon.

E i partiti socialisti? Nel suo libro Travaux, Georges Navel, operaio di officina, racconta la sua vita: “Verso i quindici anni -egli scrive- ne avevo abbastanza della vita di fabbrica e della sua disciplina. Quel che volevo era, subito, una vita più nobile e degna, una vita in cui non fossi più un operaio, in un paese dove non ci fosse che dello spazio, e niente industria.” La disperazione si fa così cupa che, una sera, l’adolescente scavalca un ponte sul Rodano: non ci guadagna che un bagno d’acqua sporca, dopo il quale ritorna alla catena di montaggio. Gli altri tentativi di evadere dalla propria condizione, o di costruirsi una vita a parte dal lavoro quotidiano, non riescono meglio. “Otto ore d’officina bastano per esaurire le energie di un uomo. Quel che egli da al lavoro è la sua vita, il meglio delle sue forze. Anche se il lavoro non lo ha avvilito, se non si è sentito sopraffatto dalla noia e dalla fatica, ne esce esausto, diminuito, con l’immaginazione inaridita… Al mattino, non mi svegliavo che quando arrivavo nel frastuono dell’officina, e quando ne uscivo il frastuono mi perseguitava dovunque. Mi sentivo ridotto a un pezzo di officina, per l’eternità.” All’ultima pagina del suo libro, Georges Navel conclude: “C’è una tristezza dell’operaio per cui non c’è altra medicina che l’azione politica”.

Socialisti e comunisti trovano una tal conclusione perfetta: per loro, essa indica una “coscienza proletaria” ben matura. Quanto a me, non posso fare a meno di notare due cose: la prima è che una tale adesione al “movimento di classe” (e dunque di massa), lungi dal costituire di per sé il raggiungimento di una pienezza vitale in cui si adempiono le aspirazioni profonde dell’individuo, rappresenta piuttosto lo sbocco e la chiarificazione di un risentimento. Sono due cose molto diverse. D’altra parte, un uomo così sincero, il cui essere è stato ferito in modo così irrimediabile, non potrà mai trovare nell’azione politica quel pieno riscatto che cerca. L’organizzazione di partito, i comizi e le sfilate in massa, gli slogans della propaganda, le campagne elettorali, e persine la cospirazione e l’insurrezione armata, possono essere mezzi ottimi e necessari nel pensiero utilitario dei dirigenti, ma non mai esaurire il significato della sua esperienza. In fin dei conti, sono dei surrogati. E questo spiega, fra l’altro, la sproporzione penosa fra i sublimi sacrifici degli “elementi di base” e i risultati che si propongono, o riescono a ottenere, i capi.

Qui, la politica appare come un surrogato -spesso irrisorio- del sociale, ossia di quella comunione spontanea fra uomini coscienti del proprio destino la cui realtà sostanziale nozioni come “civiltà”, “dignità”, “eguaglianza”, “fratellanza”, “gentilezza di costumi” non fanno che indicare approssimativamente.

Ora, si vorrà pure ammettere che nell’idea di “socialismo” c’è l’idea di “società”. Fin dai suoi primordi, nelle concezioni dei grandi pensatori come nel sentimento delle comunità oppresse, “socialismo” ha significato anzitutto annettere un’importanza preminente all’uomo che vive in una trama di rapporti sociali spontanei, egualitari, “civili”: solo per un tale uomo, infatti, i problemi della giustizia e della felicità hanno un senso. Le istituzioni, le attività governative, le lotte di fazione che costringono, e spesso soffocano, la società, sono sempre apparse ai veri socialisti o come escrescenze maligne da eliminare, oppure come un male necessario da limitare e circoscrivere al massimo.

È d’altra parte evidente che non c’è società la quale non sia “completata”, sostenuta, o schiacciata, da una struttura politica, e per la quale quindi le questioni di governo come quella della guerra e della pace non abbiano un’importanza vitale. Una fusione completa del “sociale”, del “politico” e del “religioso” fu realizzata solo nella città greca e, forse con minore armonia, nelle città fenicie, etrusche, latine. Mentre, in Occidente, il Comune medievale s’è costituito come unione essenzialmente sociale e laica, e non ha raggiunto che in prosieguo di tempo, e solo in una minoranza di casi, la forma di corpo politico (Repubblica). Ed è anche la preminenza del fenomeno “sociale” nel carattere personale del rapporto fra signore e vassallo che distingue, tra il secolo IX e l’XI, il feudalismo occidentale da formazioni molto più “politiche”, o anche “teocratiche”, che s’usano designare con lo stesso termine: da una struttura sociale come quella del Giappone, per esempio. Platone ha naturalmente adattato la sua visione di una società “perfetta” alla forma di una città ellenica; diciamo pure che, di tali forme, egli adottò il tipo “laconizzante”, conforme a certi pregiudizi degli ambienti aristocratici da cui proveniva. Ciò gli ha valso, fra le altre, le severe ramanzine del professor Arnold J. Toynbee. Ma ci deve pur essere un malinteso, quando si arriva a immaginare il maestro dell’Accademia come una specie di conservatore terrorizzato che avrebbe concepito il poco intelligente progetto di fissare una volta per sempre la vita dello Stato e della società, imponendole la tetraggine di una disciplina immutabile.

Si può discutere se Platone abbia avuto ragione o torto di diffidare della felice concordanza fra la socievolezza più libera, più civile e più umana da una parte e, dall’altra, il regime democratico ateniese quale lo elogia Pericle nel suo famoso discorso. Comunque, dopo le terribili prove e il disastroso bilancio della guerra detta del Peloponneso, non era certo irragionevole pensare che il fiorire della società attica era troppo legato all’espansione imperialista e ai contrasti di ricchezza che avevano provocato sia i massacri di Corcira e d’Argo sia il regime di terrore instaurato da Crizia ad Atene. Ora, la preoccupazione che anima la Repubblica (il cui tema, non dimentichiamolo, è la “giustizia”) è come si possa preservare la civiltà ellenica dai funesti effetti della volontà di potenza, della sete di guadagni, della troppa ricchezza e della troppa povertà. Ma prospettive ancor più vaste e minacciose assillavano la mente di Platone: sotto i suoi occhi, la polis si disgregava; i costumi, le istituzioni politiche, la vita spirituale non si accordavano più che a gran pena; gli interessi particolari si opponevano al bene comune; l’alta cultura filosofica perdeva il contatto con le credenze popolari. In un passo della famosa VII Lettera, Platone poteva scrivere: “La legislazione e i costumi erano a tal punto corrotti che io, che dapprima ero stato pieno d’ardore e di desiderio di lavorare al bene pubblico, riflettendo sulla situazione e vedendo come tutto andava alla deriva, finii col rimanere come stordito… Alla fine, compresi che gli attuali Stati sono tutti mal governati, e che il male di cui soffrono le loro leggi non si può guarire senza il soccorso di circostanze fortunate, ora imprevedibili”. Nell’attesa di tempi migliori -o peggiori- l’élite della società greca e la quintessenza della sua civiltà avrebbero dovuto conservarsi in piccole “città-modello” d’ispirazione filosofica, così come, più tardi, si conserverà nei conventi il culto, e lo studio, delle antiche lettere.

Fino a quale punto Platone sperasse di veder effettivamente sorgere rifugi di questo genere, nessuno può dire. Forse il filosofo presentiva che la nostalgia di una società più umana si sarebbe mantenuta e tramandata e perpetuata solo attraverso la influenza della cultura ellenica su “scuole”, cenacoli, sètte. Che è, di fatto, ciò che avvenne: noi troviamo, fra l’altro, motivi indubbiamente “platonizzanti” nel Cristianesimo, nell’Isiam, e in molti movimenti ereticali del Medio Evo; né è da trascurare la tesi di Simone Weil sulle origini greche della predicazione evangelica.

Quel che è certo, in ogni caso, è che Platone fu condotto a immaginare la Città dove “tutto sarebbe messo in comune” dal disgusto per la politica: non solo per la politica tirannica dei Trenta, alla quale si era trovato mescolato a causa dei suoi legami di famiglia, ma per quella dei loro successori “democratici”, responsabili della morte di Socrate. L’esempio di Platone suggerisce che ci sono momenti, nella storia, in cui è ragionevole e lungimirante abbandonare ogni speranza di risultati immediati e massicci.

Quanto agli altri rappresentanti della tradizione socialista, già prima di toccar con mano le realtà della politica come Cancelliere d’Inghilterra, Thomas Moore aveva in ben poca stima i governanti del suo tempo, sotto la cui egida egli aveva visto ridurre i contadini alla condizione di bestie perseguitate, nelle enclosures. La sua Isola d’Utopia era un giardino dove le facoltà dell’uomo pacifico e socievole non avrebbero subito alcuna costrizione da parte di autorità costituite. E la Città del Sole apparve a Campanella dopo che il fallimento catastrofico del complotto di Calabria e la prigione lo ebbero allontanato dalla politica attiva.

Le società giuste e felici immaginate da More e da Campanella eran basate sull’ideale di un governo all’antica, più o meno stilizzato. Mentre, nel Medio Evo, le vampate di comunismo messianico di Fra Dolcino e dei Fratelli Moravi avevano per modello le città libere e i “cantoni” di contadini affrancati su cui poco pesava l’autorità lontana del re o dell’imperatore. Giovanni di Leyden o gli estremisti del puritanesimo anglo-scozzese eran mossi da archetipi tratti dal Vecchio Testamento. Nel Seicento e nel Settecento -come già sotto le monarchie ellenistiche- i riformatori speravano che un “despota illuminato” avrebbe fondato o protetto delle comunità ideali. Gli anabattisti e i quaccheri non si curarono mai di questioni istituzionali. In tutti questi casi, i mezzi si possono discutere, ma il fine è sempre una “società” più umana. E il raggiungimento di un tal fine è concepito possibile solo fuori delle istituzioni esistenti.

Nei tempi moderni, la prima opera di Saint-Simon (Lettres d’un habitant de Genève) denuncia l’errore commesso dalla Rivoluzione quando aveva voluto applicare un rimedio politico a un disordine che era essenzialmente sociale. Robert Owen non prese parte alcuna nel fermento radicale del 1820 né, più tardi, nell’agitazione cartista. Proudhon, nel febbraio 1848, andò sulle barricate, ma non credeva che il popolo potesse ottenere un beneficio qualsiasi da una rivoluzione politica, e riteneva futile “organizzare la Repubblica” quando il problema era “organizzare la società”. Al tempo stesso, sia Saint-Simon che Robert Owen e Proudhon pensavano che un regime autenticamente liberale avrebbe favorito i loro piani di riorganizzazione della società. Per contro, Babeuf, Blanqui, Louis Blanc, e senza dubbio anche Karl Marx, videro nel Comitato di Salute Pubblica un primo e riuscito abbozzo di quella “dittatura del proletariato” che avrebbe garantito il trionfo del socialismo. Non si può certo dire che tali mezzi non siano stati applicati a fondo nel nostro tempo.

Venne poi la Seconda Internazionale e consacrò l’amalgama socialismo-democrazia. Per democrazia, qui s’intendeva un’amministrazione statale fortemente centralizzata, fortemente armata, alimentata da un grosso bilancio, e in cui lo “spirito nazionale” fa funzione d’anima. Un tale meccanismo è sottoposto alla sorveglianza, se non proprio alla direzione, degli eletti del suffragio universale; questi, a loro volta, si suppone che siano controllati dall’“ opinione pubblica” (identificata in genere col “popolo”) grazie a una completa libertà di stampa, di riunione e d’associazione e alla concorrenza fra partiti organizzati. Tutto questo, naturalmente, era fondato sull’ipotesi che la complessità della macchina stessa, e il margine da lasciare alla competenza speciale dei tecnici civili e militari, non rendesse il “controllo” puramente illusorio.

In ogni caso, il socialismo avrebbe dovuto servirsi astutamente di un tal poderoso mezzo, eliminandone i difetti e preservandone i vantaggi. Ciò che accadde a questa utopia -la più macchinosa di tutte- è già storia antica. A causa del rapido successo della propaganda socialista fra le masse, l’azione politica dei partiti socialisti passò ben presto dall’intransigenza alla riforma, e dalla riforma alla collaborazione effettiva con lo Stato “borghese”. A maggior gloria dello Stato nazionale e della sua “grandezza”. Le riforme ottenute per via di lotta o di compromesso avrebbero dovuto servire a far partecipare sempre di più le classi lavoratrici alla direzione della cosa pubblica. Ma esse consistevano poi essenzialmente in vantaggi economici (che ci si credeva in diritto eo ipso di qualificare “sociali”) garantiti dalla legge a quelli che fin allora “non avevano (avuto) nulla da perdere”. Il risultato era un innegabile miglioramento delle condizioni materiali del popolo, ma anche inevitabilmente un aumento delle risorse, dei mezzi d’azione, del numero dei funzionari al servizio dell’apparato sovrano dello Stato. Senza quasi avvedersene, il movimento socialista impegnò tutte le sue forze nell’azione “democratica”, non riservando al “socialismo” (cioè alla civiltà, alla società, alla giustizia) che una funzione di parata nelle manifestazioni ideologiche. E fu sempre meno questione di società, sempre più di “Stato socialista”, o di socialismo di Stato.

Si arrivò così al 1914, l’anno in cui i partiti affiliati alla Seconda Internazionale abbandonarono l’atteggiamento intransigente statuito dal congresso di Amsterdam del 1904 partecipando a dei governi di difesa, ma fatalmente anche di “conquista”, nazionale. Ora, è precisamente nel 1914 che le grandi democrazie moderne si avviarono verso la forma (e il contenuto) dello Stato “totalitario”, il quale consiste essenzialmente nella soppressione totale della società, e nella noncuranza egualmente totale per i valori di socievolezza e di civiltà.

Mi sembra inutile insistere sui progressi irresistibili del sistema totalitario nei tempi più recenti. Basti ricordare un fatto culminante: nel paese meno affetto dal cancro dell’onnipotenza statale, negli Stati Uniti, a Oak Ridge, centoventimila operai hanno potuto essere impiegati per lunghi mesi senza che avessero la minima idea dell’oggetto del loro lavoro. E l’oggetto del loro lavoro era un congegno capace di annientare in pochi minuti trecentomila vite umane (2). A questo punto, è chiaro che la macchina democratica ha bisogno di riparazioni.

“Tutto nello Stato, niente fuori dallo Stato, niente contro lo Stato.” Sotto Innocenzo III, era la Chiesa che si arrogava diritti totali sulla società, in un mondo relativamente piccolo e con mezzi di coercizione rudimentali. Oggi, su un tale principio, sono d’accordo praticamente tutte le “Nazioni unite” (o disunite). Alla società come l’intendeva il socialismo si sostituisce la “civiltà di massa” (della massa in quanto tale), i cui Anacreonti e Tirtei occupano le stazioni-radio, dirigono e sfruttano la produzione cinematografica, perfezionano dovunque i sistemi di produzione e i metodi pubblicitari.

Ci sembra dunque difficile mettere in dubbio che l’idea dell’azione di massa con la parola d’ordine “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”, nella prospettiva grandiosa del “salto dal regno della necessità nel mondo della libertà” è oggi completamente esaurita. Dove potremmo trovare il coraggio di ricominciare da capo, dai piccoli gruppi organizzati ai grandi e ben disciplinati partiti di massa? I fatti ci dicono che: 1) le basi, gli scopi e il significato di una “politica di classe” sono completamente mutati; 2) la “democrazia” quale funziona oggi nei grandi Stati moderni non può più esser considerata terreno naturalmente propizio ai progressi del socialismo: in ogni caso, non si può avere nella sua “evoluzione” la fiducia che poteva esser legittima nel 1889; 3) l’obbiettivo essenziale di una politica socialista, oggi, non potrebbe essere che la lotta tenace contro la “macchina” dello Stato nazionale, che è diventato l’agente principale, se non unico, dell’oppressione sociale.

Ci vorrebbe un volume dell’importanza del Capitale per esporre i mutamenti che la tecnica e l’economia (ma anche quelle che i marxisti credono di poter chiamare “soprastrutture”: i costumi, il regime politico, la cultura) hanno determinato nelle situazioni sociali e nei rapporti fra le classi durante gli ultimi cinquant’anni. Quel che sembra modificare nel modo più radicale l’orizzonte di un socialista il quale voglia avere un quadro chiaro di ciò che impedisce oggi il cammino verso la giustizia, è che, oggi, bisogna considerare tutto il pianeta come un’unità.

In questa unità globale, al contrasto semplicista fra borghesi e proletari in ciascun paese isolatamente preso si è sostituita una scala in cui hanno un posto ben determinato l’indigeno sfruttato in condizioni prossime alla schiavitù, l’“uomo di colore” segregato da certi impieghi e situazioni, l’operaio privilegiato, il proletario parassita, il piccolo imprenditore tiranneggiato dai “monopoli”, gli intermediari sempre più numerosi, i funzionari dello Stato direttamente o indirettamente coinvolti negli “affari”, le turbe di politicanti, giuristi, scienziati, agenti di pubblicità, tecnici del divertimento e delle “comunicazioni” di massa; e, al vertice, il piccolo numero dei veri potenti. Ma, al tempo stesso, costoro dipendono tutti gli uni dagli altri, al dilà delle frontiere nazionali e delle categorie ufficiali della “ divisione del lavoro”. La lotta di classe è molto più accanita di una volta, ma anche molto più confusa. Ci sono classi e frazioni di classi che, pur essendo oppresse, s’oppongono ferocemente all’emancipazione di certe altre; c’è una massa di gente che sostiene passivamente lo stato di cose attuale per il profitto indiretto che ne ricava: burocrati statali e non statali, intellettuali e professionisti corrotti o semicorrotti, domestici grandi e piccoli dei potenti. Nessun partito può diventare “partito di massa” se non si adatta a questa “base” fangosa. I socialisti non possono più ignorare questo ingranaggio complesso, continuando a esigere (a parole a spese dei capitalisti, ma in realtà sul bilancio dello Stato) “pane e cinematografo” per i salariati delle fabbriche.

Che cosa rimane?

Pochi individui dispersi, e piccoli gruppi isolati, capaci, al tempo stesso, di un pessimismo risoluto quanto all’avvenire immediato e di non disperare dell’“eterna buona causa” dell’uomo.

Marx e Engels hanno scritto, e i signori Thorez e Togliatti lo vanno ripetendo con unzione, che il socialismo s’identifica con l’umanismo. Quanto a me, temo che i padri del socialismo scientifico pensassero soprattutto alla filologia e alla filosofia che fiorivano così prospere, al loro tempo, nelle Università tedesche, e i cui lumi, insieme a quelli della “Scienza” in generale, avrebbero dovuto aiutare i proletari a prender coscienza della loro missione storica: l’erudizione più la dialettica…

Ma l’importanza dell’umanismo nella nostra civiltà non è consistita principalmente nella “rinascita delle lettere e delle arti”, né in quelle “umanità” di cui i gesuiti han mostrato come potessero anche, e molto bene, essere utilizzate ad asservire gli spiriti. Il grande impulso dato dalla reviviscenza dello spirito greco si manifestò -attraverso sconfitte ed eclissi, ma anche con un “progresso” irresistibile- nel fiorire di una socievolezza che era “libera” soprattutto nel senso che gli uomini sceglievano liberamente i loro “simili” al di là delle barriere di casta, di nazionalità, di confessione religiosa. E in questa socievolezza, rapporti di autentica politesse, ossia basati sull’eguaglianza e la reciproca fiducia, sostituivano i cerimoniosi e sospettosi artifici del “rispetto gerarchico”.

Oggi, il moltiplicarsi di gruppi d’amici partecipi delle medesime ansie e uniti dal rispetto per i medesimi valori avrebbe più importanza di qualsiasi macchina di propaganda. Tali gruppi non avrebbero bisogno di regole obbligatorie né di ortodossie ideologiche; non fiderebbero sull’azione collettiva, ma piuttosto sull’iniziativa individuale e sulla solidarietà che può esistere fra amici che si conoscono bene e dei quali nessuno persegue fini di potenza. Il Cristianesimo fece le sue più stupefacenti conquiste quando era diviso in un gran numero di chiese autonome, collegate fra loro dalla “comunione”, senza una gerarchia episcopale ben definita, né autorità “ecumenica” di sinodi o di patriarchi. Nel XVIII secolo, i cenacoli di libertini e di enciclopedisti, le piccole “società di atei” di cui parlano volentieri Fielding e Smollett, le Logge massoniche e i “salotti dove si conversava” svolsero una propaganda irresistibile, mettendo in contatto gli spiriti liberi da un capo all’altro d’Europa. Quegli uomini non avevano alcun bisogno di un’organizzazione centrale che prendesse decisioni e applicasse sanzioni in loro nome. Il loro scopo era di trasformare i modi di pensare e i costumi piuttosto che le cose, e perciò la loro opera portò nel mondo un cambiamento reale.

(1) “J’appelle police les loix et ordonnances qu’on a de tout temps publiées dans le Estats bien ordonnez pour régler l’oeconomie des vivres, retrancher les abus et les monopoles du commerce et des arts, empêcher la corruption des moeurs, retrancher le luxe et bannir des villes les jeux illicites” (LE BRET, Traité de la Souveraineté du Roy, 1700 – Livre IV, Chapître XV).

“On prend quelquefois [le mot police] pour le gouvernement général de tous les Estats, et dans ce sens il se divise en Monarchie, Aristocratie, Démocratie… D’autres fois il signifie le gouvernement de chaque Estat en particulier et alors il se divise en police ecclésiastique, police civile et police militaire… [Mais] ordinairement et dans un sens plus limité, police se prend pour l’ordre public de chaque ville, et l’usage l’a tellement attaché à cette signification que toutes les fois qu’il est prononcé absolument et sans suite, il n’est entendu que dans ce dernier sens” (DELAMARE, Traité de la Police, 1713 -Livre I, Titre I).

(2) Valutazioni più recenti del numero delle vittime di Hiroshima hanno ridotto a un terzo questa cifra. L’enormità della strage rimane.

Pietro Polito

Critica della violenza

 Claudio Pavone nel classico Una guerra civile (Bollati Boringhieri, Torino, 1991, p. 419) indica come particolarmente significativa la posizione di Andrea Caffi (1887-1955), un intellettuale che, dopo avere attraversato tutti gli sconvolgimenti del ‘900, dalla Rivoluzione russa alla Resistenza vissuta in Francia, nel 1946 giunge alla conclusione che “la violenza organizzata è sempre negativa, in qualsiasi guerra, sia pure contro Hitler … o Stalin”.

A Caffi, si deve uno dei più importanti contributi della critica italiana della violenza. Mi riferisco al saggio Critica della violenza, apparso nel gennaio 1946 nella rivista “Politics” (New York), riproposto da Nicola Chiaromonte in A. Caffi, Scritti politici, Bompiani, Milano 1966, e ripreso da Gino Bianco nella collana “Piccola Biblioteca Morale”, presso le edizioni e/o nel 1995 (da cui cito)

Di seguito riprendo cinque domande che emergono dal discorso di Caffi e che si possono considerare i primi frammenti di una critica della violenza: 1. Bisogna bandire la violenza. “In nome di che?”; 2. È possibile vincere la violenza con la violenza?; 3. La violenza è la levatrice della storia?; 4. Su quali principi può fondarsi un’azione di resistenza, da cui sia escluso l’impiego della violenza organizzata?; 5. Che cosa rimane?.

  1. Bisogna bandire la violenza. “In nome di che?”.

In nome “del rispetto di sè “ – risponde Caffi –, che è “impossibile senza il rispetto degli altri”; in nome “di una socievolezza che, estendendosi dall’ uno all’altro, finisce logicamente col comprendere tutti gli esseri viventi”. Il rifiuto della violenza in Caffi, a differenza di un autore come Aldo Capitini, non implica alcuna considerazione di carattere religioso: egli non fa appello a valori trascendenti ma, puramente e semplicementre alla “coscienza della società come fatto e come valore e dunque immancabilmente alla giustizia”: questa gli appare come “una nozione che – lo si vorrà ammettere – è più fondamentale di qualsiasi dogma religioso o morale”. Se il fine della società è la giustizia tra gli associati e la felicità degli associati, continua Caffi, “la giustizia implica l’eguaglianza” e “la felicità esclude ogni oppressione”. Bisogna bandire la violenza, dunque, perchè “fra l’aspirazione alla socievolezza e la volontà di potenza” il contrasto è irriducibile: “Ogni violenza è per definizione antisociale” (p. 67).

  1. È possibile vincere la violenza con la violenza?

Contro la tesi che alla violenza occorre rispondere con la violenza, Caffi muove, realisticamente, una obiezione di “ordine empirico”. Tra la violenza di cui dispone il potere e quella di cui potrebbe disporre un eventuale contropotere non c’è alcun paragone: in tali condizioni – ecco la domanda – sarebbe possibile “affrontare gli attuali padroni del mondo con una ragionevole prospettiva di successo?”. Ma la questione decisiva è un’altra. Supponiamo pure che i due eserciti, quello degli oppressori e quello dei liberatori, dispongano di pari forza, che, anzi, l’esercito dei liberatori sia riuscito addirittura “a strappare la bomba atomica ai suoi attuali detentori”, quale sarebbe l’esito finale della guerra? Una liberazione o, a lungo andare, l’instaurazione di una nuova oppressione? “È seriamente credibile – domanda ancora Caffi – che si possa evitare una ricaduta, in circostanze quanto si voglia rivoluzionarie, in quelle abitudini barbare, in quegli eccessi della volontà di potenza, e infine nella divisione fra un gregge docile e dei capi imperiosi che l’impiego organizzato della violenza inesorabilmente genera?”. Se si guarda alle esperienze storiche da Robespierre e Saint Just a Lenin e Trotski – conclude Caffi – si può constatare a quali risultati si arriva “seguendo la logica della violenza rivoluzionaria (pp. 70-71).

  1. La violenza è la levatrice delta storia?

Per Caffi “l’altisonante apoftegma di Marx [ … ] manca di sottigliezza” (p. 73). Tuttavia Caffi si guarda bene dallo sposare una massima opposta, che sarebbe altrettanto memorabile ma anche altrettanto priva di sottigliezza storica, che suonerebbe così: «La violenza è la levatrice dell’antistoria». Storicamente la violenza non è sempre stata foriera di distruzioni e catastrofi. C’è violenza e violenza, sembra dire Caffi, che distingue tre tipi principali di violenza politica: a) le insurrezioni; b) i colpi di stato; c) le rivoluzioni liberatrici.

II giudizio è negativo per quanto riguarda le insurrezioni e i colpi di stato: le prime – le insurrezioni – sono “causate dalla disperazione o dal fanatismo, e annegate nel sangue: la violenza vi prorompe fino alla dismisura e, dopo l’assassinio del feto, la paziente – la civiltà – si trova indebolita al punto da non potersi più sollevare”; i secondi – i colpi di stato – sono reazionari (anche quando sono realizzati da movimenti di sinistra) sia perchè “generalmente bloccano o prevengono un movimento del popolo” sia perchè di solito sono diretti a “reprimere, o anche sopprimere, ogni spontaneità sociale al fine di estendere e consolidare al massimo il potere d’imperio di uno Stato, di un partito, di un capo, di un ordine inventato ad arbitrio”. Al contrario la violenza che si manifesta nelle rivoluzioni liberatrici ha avuto una funzione positiva, perché esse sono “il risultato della convergenza fra le aspirazioni lungamente maturate in vasti strati del popolo e le idee elaborate in seno alla società”.

Ciò spiega “l’atmosfera di gioia, di speranza radiosa, di riavvicinamento fraterno degli uomini che avvolge queste albe di una nuova era”. E spiega anche perchè “la violenza che segna il trionfo di un tale movimento è altrettanto repentina che breve, e come simbolica”. Per spiegare che cosa intende, Caffi fa alcuni esempi storici: la presa della Bastiglia, le giornate del luglio 1830 e del febbraio 1848 a Parigi, del marzo 1848 a Berlino come a Vienna e a Napoli, a Milano, i fatti russi del marzo 1917 e quelli spagnoli dell’aprile 1931, che sono avvenuti quasi “senza spargimento di sangue”.

Ma, come si è già visto, anche la violenza rivoluzionaria, quasi per una sua stessa logica interna si converte nel suo contrario – la violenza reazionaria – e si avvolge a lungo andare in una spirale negativa: “Sappiamo, tuttavia,  osserva Caffi – che il sogno sognato in tali giorni non ha domani. Il primo trionfo di un moto popolare è immancabilmente seguito dalla tragedia” (pp. 73-75). Qui mi sono soffermato sui mezzi della violenza politica, ma tra i mezzi della violenza organizzata a cui bisogna rinunciare Caffi pone anche e soprattutto la guerra internazionale. (Se ne occupa in I socialisti, la guerra, la pace del 1941, È la guerra rivoluzionaria una contraddizione in termini? del 1946, La pace, condizione naturale del 1947, che si possono vedere nella raccolta Scritti politici).

  1. Su quali principi può fondarsi un’azione di resistenza, da cui sia escluso l’impiego della violenza organizzata?

Se dall’analisi del passato si passa all’indagine rivolta al futuro, Caffi non ha dubbi: “Bisogna evidentemente cercare mezzi più sicuri, e soprattutto più conformi ai fini. E se è vero che la situazione attuale non ha precedenti nella storia, sarà pure ragionevole preconizzare l’invenzione di una strategia e di una tattica ancora mai tentate, delle quali l’esperienza del passato non offre che accenni suggestivi” (p. 77). Le intuizioni di Caffi sono di grande interesse sul piano della diagnosi meno su quello della prognosi. Riguardo ai “mezzi d’azione”, occorre dire, che si tratta di una debolezza che investe la cultura contemporanea e di una delusione non completamente fugata dalle analisi successive. Quanto a Caffi, che comunque non avrebbe condiviso una posizione di nonviolenza integrale, egli è una delle espressioni più alte della “lucida ricerca di una coerenza tra fini da conseguire e mezzi da impiegare” (Carlo Vallauri).

Nel suo pensiero troviamo chiaramente delineate tre questioni fondamentali: a) l’affermazione senza mezzi termini di un principio che giova ripetere: Bisogna evidentemente cercare mezzi più sicuri, e soprattutto più conformi ai fini, un principio difeso con argomenti tratti sia dall’esperienza storica sia dalla riflessione filosofica; b) l’esigenza di un allargamento dei confini dello spazio dell’impegno per l’emancipazione dell’individuo – che per Caffi – si identifica con una politica socialista; c) l’abbozzo di una riflessione circa “i mezzi d’azione” della politica socialista, cui segue una proposta di impegno che alla prova dei fatti si rivela certamente impari nel contrasto con gli antichi e attuali detentori del potere, ma che, a mio avviso conserva intatti il suo fascino e la sua carica suggestiva.

Per quanto riguarda il principio, non si poteva esprimere meglio – in modo tanto semplice quanto efficace, senza alcuna retorica – la ripulsa totale, direi radicale, della violenza: “La violenza è incompatibile con i valori di civiltà e d’umanità socievole che noi vogliamo preservare dagli attentati distruttori dei violenti; usando la violenza, noi rinneghiamo necessariamente i valori che sono la nostra ragione di vivere e ne ritardiamo indefinitamente la propaganda e la fioritura” (pp. 77-78).

Per Caffi, “fin dai suoi primordi, nelle concezioni dei grandi pensatori come nel sentimento delle comunità oppresse, socialismo ha significato anzitutto annettere un’importanza preliminare all’uomo che vive in una trama di rapporti sociali spontanei, egualitari, civili “ (pp. 79-80). In questo senso il socialismo è quel movimento di pensiero ed azione diretto ad avvicinare la società reale, materialmente intessuta di interessi, egoismi, prevaricazioni, alla società ideale intesa come “l’insieme di quei rapporti umani che si possono definire spontanei” come il piacere che si ha a “trovarsi in mezzo ai propri simili” e la solidarietà affettiva “che si stabilisce naturalmente tra i membri di un medesimo gruppo”. Ne consegue che “nessuna organizzazione armata potrà aumentare le chances, nè tanto meno progressi reali di un tale movimento”. Sviluppando il pensiero di Caffi, forse oltre le sue stesse premesse, si può dire che l’elemento che caratterizza un effettivo movimento di liberazione sia la liberazione dalla violenza.

  1. Che cosa rimane?

“Che cosa rimane – domanda Caffi – dopo 1’esaurimento dei tradizionali mezzi d’azione adottati dai movimenti per la liberazione spirituale dell’uomo?”. E ancora: “Dove potremmo trovare il coraggio di ricominciare da capo dai piccoli gruppi organizzati ai grandi e ben disciplinati partiti di massa?”. Ai suoi occhi, sembrano diventate improponibili sia la via della rivoluzione sia la via delle riforme. Da un lato “è oggi completamente esaurita 1’idea dell’azione di massa [ …] nella prospettiva grandiosa del salto dal regno della necessità al regno della libertà “; dall’altro appare in crisi anche la concezione del socialismo come sviluppo della democrazia: “la democrazia quale funziona oggi nei grandi Stati moderni non può più essere considerata terreno naturalmente propizio ai progressi del socialismo (p. 87)”.

“Che cosa rimane, dunque?”.

Rimangono “pochi individui dispersi, e piccoli gruppi isolati, capaci al tempo stesso, di un pessimismo risoluto quanto all’avvenire immediato e di non disperare dell’eterna buona causa dell’uomo” (pp. 88-89). Caffi ebbe un vero e proprio culto dell’amicizia. Egli riteneva insufficiente la fratellanza come base del vincolo sociale e politico: mentre la fratellanza unisce attraverso il sentimento della compassione, l’amicizia si fonda sulla scelta e pertanto è maggiormente compatibile con la dinamica cooperativa e conflittuale delle società moderne. La proposta d’azione da lui formulata nel ‘46 sembra quasi discendere dalla natura stessa dell’uomo Caffi, oltre che dalla consapevolezza “che ci sono momenti nella storia, in cui è ragionevole e lungimirante abbandonare ogni speranza di risultati immediati e massici” (p. 83).

Nella Francia tornata libera dopo l’umiliazione dell’occupazione nazista, nell’Italia riscattatasi attraverso una guerra di liberazione nazionale che fu anche una guerra tra italiani, in una Europa che tornava lentamente ad avere “una sfera di sicurezza, di continuità, di norme spontaneamente accettate dalla ragione e dal sentimento: una sfera di pace”, gli sembrò che “il moltiplicarsi di gruppi d’amici partecipi delle medesime ansie e uniti dal rispetto per i medesimi valori avrebbe [avuto] più importanza di qualsiasi macchina di propaganda”. Le caratteristiche del “gruppo d’amici” vagheggiato da Caffi sono la libertà e lo spirito critico, l’individualità e la solidarietà, si potrebbe dire: l’etica del dialogo contrapposta all’etica della potenza.

II modello di Caffi è impraticabile da noi che abbiamo attraversato settant’anni di civiltà dei consumi. Forse, però, anche oggi, come probabilmente in ogni tempo è auspicabile “il moltiplicarsi di gruppi d’amici”, che a partire da se stessi operano per “trasformare i modi di pensare e i costumi piuttosto che le cose” (p. 90).

 

Un umanista moderno:
Andrea Caffi. Critica della violenza

Otto anni fa i pochi amici superstiti di Andrea Caffi si rallegrarono perché finalmente di questo raro personaggio si incominciava a parlare: il merito maggiore fu di Nicola Chiaromonte, il più fedele degli amici e fortunato destinatario di molte e belle lettere e attento collezionista dei pochi scritti che Andrea Caffi aveva lasciato di sé. E un lungo articolo gli dedicò Giuseppe Prezzolini, prendendo lo spunto da un libretto dedicato al Caffi da Nika Tucci, a cura dell’Istituto italiano di cultura di Nuova York. Oggi, in un bellissimo volume di Bompiani gli scritti raccolti e salvati dal Chiaromonte vedono finalmente la luce con un titolo impegnativo: «Critica della violenza» e dallo stesso Chiaromonte si annuncia un secondo volume contenente studi storici. Esce cosi dall’ombra un uomo di cultura e uno scrittore, Andrea Caffi, il cui nome alla totalità dei lettori italiani strapperà una domanda: «Chi era costui?»

Otto anni fa i pochi amici superstiti di Andrea Caffi si rallegrarono perché finalmente di questo raro personaggio si incominciava a parlare: il merito maggiore fu di Nicola Chiaromonte, il più fedele degli amici e fortunato destinatario di molte e belle lettere e attento collezionista dei pochi scritti che Andrea Caffi aveva lasciato di sé. E un lungo articolo gli dedicò Giuseppe Prezzolini, prendendo lo spunto da un libretto dedicato al Caffi da Nika Tucci, a cura dell’Istituto italiano di cultura di Nuova York. Oggi, in un bellissimo volume di Bompiani gli scritti raccolti e salvati dal Chiaromonte vedono finalmente la luce con un titolo impegnativo: «Critica della violenza» e dallo stesso Chiaromonte si annuncia un secondo volume contenente studi storici. Esce cosi dall’ombra un uomo di cultura e uno scrittore, Andrea Caffi, il cui nome alla totalità dei lettori italiani strapperà una domanda: «Chi era costui?»

Un uomo che per grande amore dell’umanità trascorse tutta la vita in solitudine; un uomo che aveva innumerevoli amici ai quali lo univano i più labili legami: stretto a gruppi russi, italiani, francesi, brasiliani, con tutti curava un intenso scambio di idee che restava solitamente al punto della conversazione: spesso a una serata di discussioni seguiva una lettera riassuntiva, trenta o quaranta pagine, che il più delle volte andava perduta. Il suo ricordo è affidato solo alla memoria di questi amici, che non possono più essere numerosi, visto che Andrea Caffi quando nel luglio del ‘55 morì alla Salpètriere di Parigi aveva quasi settant’anni; e i suoi amici più fedeli erano stati gli amici di gioventù; e

i pochi suoi articoli sparsi in giornali e riviste di mezzo mondo non sono andati del tutto perduti solo grazie all’amore del Chiaromonte. La sola caratteristica, che del Caffi, tutti d’accordo, coloro che l’hanno conosciuto possono dare, è questa: uno squisito amico, dalla conversazione affascinante, un carattere limpidissimo, ma ingenuo e schietto nella sua purezza, tanto che difficilmente standogli accanto si sarebbe potuto formulare quello che senza dubbio è stato il suo più alto valore, l’incapacità di fare la minima concessione a quello che non credeva, non giudicava giusto e buono. Visto dall’esterno, del Caffi non rimane forse altro che quello che ricorda Giuseppe Prezzolini: “Uno strano tipo” destinato a vivere in miseria e morire in ospedale. Antonio Banfi che fu suo compagno all’Università di Berlino lo dice «lo spirito più arcangelo e più vivo che mai conobbi» e Nicola Chiaromonte incomincia la sua studiata «Introduzione» a questo volume con le parole: «L’uomo migliore e inoltre più savio e il più giusto che io abbia conosciuto».

Si potrebbe dunque pensare che si tratti prima di tutto di un grande carattere, chiuso in leggi morali che divenivano per lui inibizioni, sì da spiegare il giudizio non del tutto favorevole alla sua opera che dà Giuseppe Prezzolini: «Nessuna traccia di pensiero dominante e nemmeno di studi diretti su manoscritti inediti». Ma il volume che il Chiaromonte ci mette davanti smentisce questo giudizio troppo sommario; ché gli studi sui manoscritti inediti non si vedono, poiché Caffi evitava la monografia dotta, la considerava solo come preparazione a uno studio più complesso e sintetico di avvenimenti o di periodi storici; in quanto al pensiero dominante, nel volume del Chiaromonte c’è, e come! Non forse solo come «critica della violenza», allo stesso modo come «Non ammazzare» non contiene tutti e dieci i Comandamenti; ma come proiezione di una società umana fatta di cultura, di equilibrio sociale, di giustizia. Che questa società si sia raramente realizzata, che accanto al fiorire dello spirito vi sia sempre stato un prevalere di violenza, di inganno, di tirannia, questo Andrea Caffi lo sa e lo ripete: nei momenti più belli della storia umana vi sono i momenti negativi; ma quello che conta è cogliere quei momenti più belli e riviverli, e farli rivivere. Questo è quello che noi ignoriamo di Andrea Caffi, la sua opera missionaria per far conoscere ai suoi amici i tesori dello spirito umano che la sua eccezionale intelligenza, la sua ferrea memoria, la sua calda parola sapevano trasmettere.

La vita di Caffi fu, fino ai quarant’anni, avventurosissima. Nato in Russia incominciò ad agire giovanissimo fra i socialisti e a diciott’anni fu nelle prime file della rivoluzione del 1905. Eppure egli raccontava con un misterioso sorriso di aver convertito al socialismo operai tipografi e librai di Varsavia senza mai nominare Marx, ma parlando loro solo di storia, di letteratura e di filosofia; e questo perché, con evidenza, egli aveva un pensiero dominante. Forse questo pensiero si potrebbe chiamare «umanesimo» non solo per la sublime altezza alla quale egli colloca il pensiero umano, ma perché concepisce la quintessenza della storia come un rapporto coltivato, civile, cordiale fra gli uomini. La storia è fatta da «socialità» tanto più perfette quanto più liberi e spontanei sono i rapporti fra gli esseri che le compongono; e la sua maggiore ambizione è stata sempre quella di raccontare di queste società, delle idee e degli ideali che le hanno animate.

Un esempio -il primo e più vicino al suo animo- di questa «società» egli lo trova in quella «scuola riformata» di Pietroburgo nella quale fu educato; ed è interessante che questo piccolo capolavoro di umanesimo sia fiorito proprio negli ultimi decenni di quell’impero zarista che nel placido secolo decimonono fu un’esecrabile manifestazione di violenza e di tirannia; ma appunto nell’«idea centrale» di Caffi le vette dello spirito non coincidono affatto con i regimi politici, affetti, ciascuno, da mali imperdonabili. Questa scuola riformata raccoglieva insegnanti di tutte le classi sociali e di tutti i paesi d’Europa, figli di miliardari e ragazzi che si mantenevano da sé dando lezioni; ma attraverso le incredibili vicissitudini del nostro secolo, racconta Caffi, «sempre bastò un primo riconoscimento perché subito una specie di confidenza e di linguaggio particolare si stabilisse fra noi e ogni diversità di opinioni, di genere d’esistenza eccetera apparisse meno essenziale (ma soprattutto meno preziosa per l’animo) di un certo fondo comune di mentalità, la traccia indelebile di qualche cosa per cui non trovo nome migliore di ‘umanesimo’».

Queste poche righe, intese nella loro intensità e sincerità, possono dare il primo abbozzo di un ritratto di Caffi. Tutta la sua vita dedicata alla fraternità umana, a un quadro di stati uniti d’Europa e del mondo, in cui l’unità nascesse da parentela dello spirito, l’azione politica svolta in margine e fuori dei partiti (perseguitato e imprigionato da tutti, bolscevichi e fascisti e nei suoi tardi anni persino le SS) aveva questo solo scopo, elevare l’animo umano, incominciando dai suoi vicini per arrivare non importa quanto lontano. Che importanza possono avere questi particolari biografici in un uomo che visse solo per le sue idee? Nika Tucci che amò il suo spirito raro scrive che fra cinquant’anni nessuno forse ricorderà più il nome di Andrea Caffi, ma più probabilmente lo vedremo risuscitare su una piazza, in un monumento. Dipende da come si vedono le cose: intanto, in questi dieci anni, la sua bibliografia, che sembrava inesistente, incomincia a presentarsi ricca di scritti e senza dubbio anche di lettori. Non si può mai sapere.

Vi sono precedenti non trascurabili sull’argomento: quando Socrate bevve la cicuta lo prendevano sul serio solo alcuni scriteriati e i cittadini di Atene lo consideravano semplicemente uno stravagante, uno «strano tipo», come dice Prezzolini di Caffi. E poco più che uno strano tipo è Socrate nelle pagine di Senofonte che lo ammira senza comprenderlo. Ma in Platone Socrate diviene il fondatore di una religione che dopo venticinque secoli è ancora la nostra religione. Forse gli insegnamenti teorici di Socrate (senza il ripensamento di Piatone) non erano molto importanti e non contenevano un’idea centrale, un pensiero dominante, meno che meno uno studio condotto su fonti inedite. La storia dello spirito privato che suggeriva a Socrate idee balzane come quella di- lasciarsi uccidere (o, nel caso di Caffi, di morire di fame) non avrebbe fatto impressione sui suoi giovani discepoli se non l’avessero avuto compagno d’armi, lui quasi quarantenne, a Potidea, e ad Anfipoli vicino ai cinquanta, canuto, pelato, panciuto, duro e forte come un vecchio ciocco. Se Alcibiade non avesse sentito per tutta la vita il passo strascicato di Socrate che lo portava quasi esanime fuori del campo di battaglia, non avrebbe dato un senso particolare alle sue parole, quel senso che gli amici scoprivano nelle parole di Caffi, quando dietro la sua facciona e i suoi occhi pungenti intravvedevano il condannato a morte dai tribunali zaristi e il mutilato delle Argonne e di Val Lagarina, che teneva gelosamente segrete a tutti la sua condanna e la sua mutilazione. C’è insomma un certo spirito socratico nel nostro Caffi, e questa idea che abbiamo sempre avuto di lui ci è splendidamente confermata da questo volume della cui pubblicazione saranno infinitamente grati a Nicola Chiaromonte non solo i pochi vecchi amici di Caffi, ma tutti coloro che scopriranno un raro spirito.

Alberto Spaini

“Il secolo IXX”, 12 ottobre 1966

Un menscevico a Tolosa

 Note su Andrea Caffi in occasione dell’uscita di «Cosa sperare?». Il carteggio tra Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte: un dialogo sulla rivoluzione (1932-1955)

 

Come prima conseguenza dell’imminente avvento delle bande di Hitler al potere in Germania si aspettano “colpi di mano” sul “corridoio polacco” e su Memel con la conseguenza, semplicemente, d’una seconda guerra europea 1.

Così scriveva Andrea Caffi in un articolo datato 1932. Sembrano parole profetiche, ma non è difficile l’affermazione oracolare per questo autore in cui l’analisi si fonde con l’intuizione e l’intento morale. In un altro articolo – uscito tre mesi prima – scriveva:

Per riconquistare gli animi “traviati” dal comunismo (o anche dalla demagogia fascista) bisogna offrire loro un alimento spirituale […] Per poter dare utili  consigli ai Russi bisogna che prima diamo loro esempi d’irresistibile efficacia. Quando nella repubblica spagnola, nell’Italia liberata dal fascismo, nell’Europa costituita a libera confederazione sarà sorta una organizzazione politica e sociale superiore a quella che vige in Russia, allora la democrazia ed il socialismo acquisteranno un significato positivo e s’ imporranno anche alle menti aperte del proletariato russo 2.

Sarebbe una forzatura trovare un calco negli eventi storici, ma risalta da queste parole il nucleo della concezione caffiana: il primato della visione etica nella trasformazione della società.

Nelle note accluse al sommario dei dodici «Quaderni di “Giustizia e Libertà”» ristampati nel 1959, troviamo una biografia (a cura di Manlio Magini) molto sintetica ma capace di trasmetterci l’idea di un testimone decisamente cosmopolita del proprio tempo:

Nato a Pietroburgo nel 1887 da genitori italiani, militò giovanissimo nel movimento socialista. Partecipò alla rivoluzione del 1905 nelle file dei menscevichi. Condannato a tre anni di carcere, appena liberato andò in Germania […] Nel 1914 si arruolò volontario nell’esercito francese. Richiamato in Italia nel 1915, rimase al fronte fino al 1917, quando andò […] a Zurigo, per lavorare alla propaganda fra le nazionalità oppresse dall’Impero asburgico […] Nel 1920 andò in Russia, dove conobbe le  prigioni bolsceviche, e vi rimase fino al 1923. Tornato in Italia, partecipò alla lotta antifascista a Roma. Emigrato in Francia, per sfuggire all’arresto, nel 1926, quando Rosselli, evaso da Lipari, giunse a Parigi, si mise subito in rapporto con lui e fu collaboratore assiduo dei «Quaderni» e del settimanale «Giustizia e Libertà». Nel 1944 fu imprigionato per la sua attività nella Resistenza. Morì il 22 luglio 1955 all’ospedale della Salpetrière3.

Di Andrea Caffi si è occupato Marco Bresciani in La rivoluzione perduta: Andrea Caffi nell’Europa del Novecento (il Mulino, Bologna 2009), e da ultimo con la pubblicazione – nella collana della Scuola superiore di studi di storia contemporanea promossa dall’ Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia – del carteggio, in traduzione e testo originale dacché le lettere sono in massima parte in lingua francese, intrattenuto con l’amico e discepolo Nicola Chiaromonte fra il 1932 e il 19554.

I due si erano conosciuti a Parigi proprio nel 1932, grazie ad Alberto Moravia, e collaborarono attivamente a Giustizia e Libertà. Su un punto, però, vennero a trovarsi in forte contrasto con le posizioni di Carlo Rosselli: il giudizio sul Risorgimento.

Il 29 marzo 1935, Caffi pubblica su «Giustizia e Libertà» gli Appunti su Mazzini, in cui afferma:

Credo che non si possa pensare niente di veramente chiaro e profondo riguardo all’Italia di domani se non si è spietati col mito alquanto ufficiale e scolastico del Risorgimento 5.

L’articolo demolisce il mito risorgimentale del mazzinianesimo, una prospettiva che l’autore considera angusta e provinciale rispetto all’ elaborazione culturale europea del diciannovesimo secolo:

Mantenendosi nell’orizzonte fissato da Mazzini […] come mai l’Italia avrebbe potuto associarsi agli ardimenti dell’Ottocento per esempio nel campo dell’arte, da Keats a Baudelaire, da Stendhal ai Goncourt, da Poe a Dostoevskij, da Daumier a Manet? 6

Non solo Mazzini, chiuso nel suo concetto di «stato-nazione» e nell’ arcaica formula «Dio e popolo» non sa cogliere «il nuovo sostrato economico che additavano tanto Proudhon quanto Marx», ma nell’intera vicenda risorgimentale «prevalgono elementi ai quali i nostri avversari hanno più ragione di attingere che non noialtri», poiché:

Il Risorgimento italiano è stato in definitiva un movimento addomesticato, deviato, confiscato da profittatori equivoci. Il suo esito ha determinato un disagio sociale e un marasma della vita intellettuale in Italia, che hanno avuto per sbocco (tutt’altro che inaspettato) il fascismo 7.

 

Gli Appunti sono esplicitamente polemici nei confronti della dirigenza di Giustizia e Libertà, che nel Risorgimento – o meglio in quello che Carlo Rosselli chiama «Risorgimento popolare», contrapponendolo a quello «neoguelfo, poi sabaudo, e sempre moderato, che prende il sopravvento con l’entrata in campo del Piemonte e la liquidazione del moto popolare» 8 – trova un fondamentale punto di riferimento, come sintetizza la nota massima «Insorgere-Risorgere».

Nella temperie del dibattito che ne segue, con la partecipazione delle più importanti figure di Giustizia e Libertà, Nicola Chiaromonte si farà appassionato sostenitore delle tesi caffiane.

Non è solo una consonanza di vedute politiche, tuttavia, quella che

lega i due uomini di cultura. Nel carteggio raccolto da Bresciani, quello che salta agli occhi è l’affetto profondo da entrambi condiviso, così come l’ ammirazione di Nicola che in Andrea vede un autentico  mentore.

Intellettuale raffinato – fu, tra l’altro, un esperto di storia bizantina –, Caffi si dimostra prodigo di incoraggiamenti, lo attestano numerosi passaggi della corrispondenza, come questo, tratto da una lettera di Andrea datata 18 febbraio (si presume del 1933, quindi un paio d’anni prima degli articoli sopraccitati):

La sua carriera ha infinitamente più importanza per l’ampiezza delle prospettive che si offrono alla sua giovinezza e anche in ragione delle rare qualità morali, del serio vigore, del vero e proprio ardore per la verità che ho imparato ad apprezzare e ad amare in lei. Bisogna che lei sfondi, che passo a passo conquisti un posto ben determinato nel nostro “mondo intellettuale” 9.

Chiaromonte appare quasi dipendente dal giudizio dell’amico che, a sua volta, gli dà consigli di metodo, lo sprona a sviluppare i suoi studi e gli trasmette sincero apprezzamento per le sue doti.

C’è tra lei e me una distanza di età, purtroppo, molto marcata; ma nessuna altra gradazione – se ne voglia persuadere per bene – la sua vita intellettuale, la sua capacità critica, la sua forza di pensiero ecc. ecc. vanno almeno tanto lontano quanto quelle che possiedo. io10

Quasi come un romanzo epistolare il carteggio descrive un movimento di affetti e vicende personali che viaggia su un sempre presente flusso di storia, con lo sviluppo di intensi momenti e, il car di analisi che, col tempo, portano ad emersione differenze sempre più profonde. Tanto spazio è occupato dagli elementi che descrivono la concreta solidarietà manifestata nel dopoguerra da Chiaromonte – integrato allora nell’ intellighenzia progressista newyorchese – verso un Caffi relegato a Tolosa in disperate difficoltà economiche.

Torniamo a cose veramente razionali. Mi scusi di non averle annunciato che il I luglio, come il I agosto e il I settembre, ho ricevuto sempre la somma di 26.000 fr. E ho appena ricevuto un pacco da lei (data di spedizione: 30 luglio) in cui ci sono duecento sigarette: cosa che mi appaga e delizia11.

Quel parlare di pacchi ricevuti, di attese e di ammanchi, di tassi di cambio tra dollaro e franco, di stanze in affitto, di prodotti necessari e commerciabili è un documento di vita nell’Europa devastata dal conflitto, così come del rapporto non sempre facile fra un discepolo preoccupato e un (suo malgrado) maestro talvolta capriccioso ma sempre grato.

Sarà la guerra fredda, con lo slittamento apertamente atlantista di

Chiaromonte, a guastare il rapporto. La corrispondenza si interrompe e riprende con lunghe analisi politiche non prive di accenti polemici, in un dibattito aperto di estremo interesse per il lettore.

Caffi non condivise la svolta del suo amico: lui che aveva conosciuto la prigione in Unione Sovietica era pur sempre un menscevico e un socialista libertario.

Nella sua visione il superamento delle barriere e dei nazionalismi aveva un ruolo centrale: in largo anticipo sulla redazione del Manifesto di Ventotene di Rossi e Spinelli, si dichiarava fautore dell’unità europea, unica garanzia contro la guerra e crogiuolo di cultura e sviluppo.

L’unione degli Stati dell’Europa in un superiore «corpo politico» giuridicamente definito e provvisto di organi e mezzi per governare effettivamente, d’un tratto farebbe svanire l’incubo della «mala guerra» e subito […] abolirebbe le questioni stesse che oggi sono atri d’uragani […] Risparmiando i mezzi che attualmente si sprecano nelle rivalità fra nazioni europee ed avendo di molto aumentata la capacità di credito con la solidarietà finanziaria fra i membri della nuova unione, sarà praticamente possibile impiegare milioni di braccia in opere di «utilità europea» […] che anche se non redditizie subito, assicureranno un più alto livello di generale benessere, mentre l’ aumentata capacità di consumo rianimerà tutte le altre attività produttive12.

L’«idolo della nazione», sosteneva Caffi, aveva pervertito gli scopi delle grandi rivoluzioni, soffocando le «aspirazioni verso l’ emancipazione sociale»: ne dava dimostrazione la Russia ma anche l’aveva data, un secolo e mezzo prima, la Francia. In un caso con il «generalissimo Stalin e lo stuolo di marescialli, poliziotti, segretissimi diplomatici e santi metropoliti», lo Stato era divenuto «più capace di espansione imperialista di quanto mai fosse stata prima la monarchia dei Romanov», nell’ altro dopo che i giacobini avevano «sacrificato alla potenza dello Stato nazionale tutte le libertà», Napoleone aveva «ripreso i sogni di grandezza d’un Luigi XIV» 13.

Partigiano di un umanesimo socialista capace di armonizzare uguaglianza e libertà individuali, Caffi, pur non dichiarandosi marxista, replicando a Chiaromonte – il quale considerava «falsa» o «essenzialmente equivoca» 14 la nozione di lotta di classe –, affermava:

Confesso che il tono assertivo, la “scortesia” tutta tedesca di questi due grandi uomini dabbene, Marx e Engels, mi ha spesso urtato; ma il vigore molto consapevole delle loro analisi non poteva essere confutato senza malafede (non c’è una sola critica del marxismo che abbia trovato al tempo stesso intelligente e onesta) 15.

E vigorosa è anche l’analisi di Caffi sia quando il discorso si muove sul piano politico (storico, filosofico), sia quando si sposta su quello psicologico e personale. Scrive in un altro passaggio della stessa lettera:

Non posso leggere – nel giornale di questa mattina – che le aziende delle miniere di diamanti nell’Africa Equatoriale Francese hanno istituito fabbriche-prigione per impedire ai negri di rubare le pietre preziose che estraggono dalla loro ganga [e non li lasciano uscire che dopo averli «setacciati» – immagini la scena filantropica delle ricerche in… tutti gli orifizi naturali – e quando hanno speso il salario di sei mesi in otto giorni (questi proletari sono sempre dei gaudenti spudorati) «ritornano spontaneamente» nella fabbrica-prigione], non lo posso leggere senza provare una rabbia accecante, un desiderio di carneficina, sì! Vedo questi onorevoli capitalisti sottomessi ad un trattamento peggiore di quello di Auschwitz o Kolyma! […] Insomma grazie alle circostanze – e ad esse soltanto – sono diventato un essere pieno di risentimenti, probabilmente molto esecrabili, e di «desiderio di rissa». Non c’è qui nessuna «scelta» ragionevole e bisogna o accettarmi come sono o sopprimermi 16.

In questo incontro dinamico di personale e politico possiamo forse riscontrare un altro elemento premonitore, e certamente Caffi, se non fosse stato lasciato cadere nell’oblio, avrebbe potuto essere apprezzato dai giovani contestatori degli anni Sessanta e Settanta. Non è troppo azzardato vederlo, infatti, come una sorta di soixante-huitard in grande anticipo sui tempi: lo stesso Alberto Moravia, che ne fu amico ed estimatore, lo definì – nell’introduzione al libro di Gino Bianco Un socialista irregolare: Andrea Caffi, intellettuale e politico d’avanguardia (Lerici, Cosenza 1977)17 – «un hippy ante litteram».

E se Moravia motivava la sua affermazione soprattutto per l’ anticonvenzionalità dello stile di vita (aveva, dice, come Rimbaud «les semelles faites de vent»), per l’idealismo che ancora traspariva nell’ironia del sorriso non del tutto piegato dalle delusioni, c’è nella weltanschauung (tutt’altro che sistematica ma capace di filtrare dagli scritti e di comporsi con una certa chiarezza) di Caffi l’anticipazione di quella sprovincializzazione che l’Italia avrebbe intravisto solo col manifestarsi sulla scena della storia delle generazioni degli anni Quaranta e Cinquanta.

V’è una concezione internazionalista nella quale cultura, etica e socialismo sono elementi indisgiungibili in una prospettiva evolutiva del genere umano, e la coscienza che l’infelicità è tutt’uno con la schiavitù economica, con l’alienante dominio della merce e del denaro:

Deve pur esservi una ragione ben fondata […] per cui tanti miti – a cominciare dalla cacciata di Adamo dal paradiso o dalle descrizioni del regno di Saturno – hanno immaginato la vera felicità dell’uomo come possibile unicamente in un mondo senza “sistema economico”, senza governo, senza fasti e nefasti della storia 18.

Alessandro Magherini

NOTE

1 Onofrio (A. Caffi), Il problema europeo, «Quaderni di “Giustizia e Libertà”», giugno 1932, n. 3, p. 53 (ristampa fototipica autorizzata, Bottega d’Erasmo, Torino 1959).

2 Onofrio (A. Caffi), Opinioni sulla rivoluzione russa, «Quaderni di “Giustizia e Libertà”», marzo 1932, n. 2, p. 102 (ristampa fototipica autorizzata, Bottega d’Erasmo, Torino 1959). Il testo è stato pubblicato anche in A. Caffi, Scritti scelti di un socialista libertario (a cura di S. Spreafico), Biblion edizioni, Milano 2009, pp. 68-100 (cit. pp. 97-8).

3 «Quaderni di “Giustizia e Libertà”», con prefazione di A. Tarchiani, Bottega d’Erasmo, Torino 1959, Note biografiche sui collaboratori ai Quaderni, p. 20.

4 M. Bresciani (a cura di), «Cosa sperare?». Il carteggio tra Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte: un dialogo sulla rivoluzione (1932-1955), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2012.

5 Andrea (A. Caffi), Appunti su Mazzini, «Giustizia e Libertà», 29 marzo 1935, in A. Caffi, U. Calosso et al., L’Unità d’Italia: pro e contro il Risorgimento (a cura di A. Castelli), Edizioni e/o, Roma 1997, p. 23.

6 Ivi, p. 25.

7 Ivi, pp. 26-7.

8 Curzio (C. Rosselli), Discussione sul Risorgimento, «Giustizia e Libertà», 26 aprile 1935, in Caffi, Calosso et al., L’Unità d’Italia, cit., p. 41.

9 Bresciani (a cura di), «Cosa sperare?», cit., pp. 85-6.

10 Ivi, 11 gennaio 1934, p. 123.

11 Ivi, 15 settembre 1946, p. 329.

12 Onofrio (Caffi), Il problema europeo, cit., p. 60.

13 A. Caffi, Riflessioni sul Socialismo, «Critica Sociale», 1949, in Id., Socialismo libertario (a cura di G. Bianco), Edizioni Azione Comune, Milano 1964, pp. 40-1.

14 Bresciani (a cura di), «Cosa sperare?», cit., 19 settembre 1951, p. 510.

15 Ivi, s.d. 1951, p. 536.

16 Ivi, p. 537.

17 Il testo di Moravia compare anche nella ristampa del libro di Bianco, dal titolo Socialismo e libertà: l’avventura umana di Andrea Caffi (Jouvence, Roma 2006). È stato inoltre pubblicato su «Night Italia», ottobre 2007, e in rete: sul sito della Biblioteca Gino Bianco (http://www.bibliotecaginobianco.it/?p=26&t=alberto-moravia) e, non integralmente,  su «Una città» (http://www.unacitta.it/newsite/articolo.asp?id=119).

18 A. Caffi, Individuo e società, in Id., Critica della violenza, Edizioni e/o, Roma, 1995, pp. 48-9.

Alberto Moravia

La sua discrezione, la sua povertà…

 introduzione a: Gino Bianco, Un socialista “irregolare”: Andrea Caffi, intellettuale e politico d’avanguardia, edizioni Lerici, 1977.

 «Nella nostra vita noi moriamo più volte e più volte resuscitiamo, ogni volta con una personalità diversa. Il mio ricordo di Andrea Caffi appartiene alla persona che ero quando avevo quindici anni, una persona che secondo me non ha niente a che fare con la persona che sono oggi, più di mezzo secolo dopo. Per questo ho voluto lasciare a questi ricordi il carattere orale, discontinuo e frammentario, che debbono al mezzo del magnetofono di cui ci si è serviti per registrarli. Il magnetofono non ha accorgimenti di stile; ma così pure il discorso di qualcuno che parla di una persona scomparsa, o di cui sa poco o niente».

Ho conosciuto Andrea Caffi in circostanze piuttosto curiose. Era il 1923, io avevo quindici anni e tornavo dalla villeggiatura in Alto Adige, in treno insieme alla mia famiglia. Incontrai un individuo che si disse russo, e infatti lo era e mi informò di essere andato via dalla Russia per portarsi volontario nella guerra di Mussolini contro la Grecia, per l’incidente di Corfù. In quei giorni però l’incidente di Corfù era già sbollito, perciò questo russo veniva in Italia per niente. Aveva un passaporto col nome di Marco Cenerini, ma in realtà si chiamava Popof (che vuol dire figlio di pope) ed aveva ottenuto il passaporto per venire in Italia precisamente da Andrea Caffi, il quale appunto si trovava addetto all’Ambasciata italiana a Mosca e aveva cercato di dare più passaporti che si poteva a gente che scappava dalla Russia per la fame, per il terrore, la paura, per le condizioni spaventose che c’erano appunto nell’inverno del 1922-23. Ora io ero ragazzino, avevo quindici anni e diedi il mio indirizzo a questo Marco Cenerini il quale poi riuscì tuttavia a portarsi ugualmente volontario nell’aviazione italiana; infatti un bel giorno me lo vidi capitare a casa vestito da aviere, nella divisa azzurra dell’aviazione di Mussolini. Mi disse: io ho un amico russo qui a Roma, molto simpatico, che è un intellettuale. Questo Cenerini era un bestione, ora che è morto non c’è nessun male a dirlo, lui stesso non si riteneva un intellettuale, diventò poi un avventuriero. Dall’Italia passò al Belgio, poi si arruolò nella società Alberta che sfruttava la gomma nel Congo. Andò nel Congo con quella società e vi rimase 4 anni. Dopodiché tornò in Europa e si stabilì in Spagna con Franco, perché amava molto i dittatori di destra come tutti gli avventurieri di questo mondo e lì fece dei mestieri che non ho mai saputo chiarire. Forse stampava delle pubblicazioni allegre, riviste di donnine, cose di questo genere: Non so, so che a un certo puinto se ne andò a San Domingo dal dittatore Trujllo e si attaccò alla dittatura di Trullo come prima si era attaccato alla dittatura di Franco. A un certo punto Trujillo fu assassinato e coloro che assassinarono Trujillo gli diedero un pestaggio talmente selvaggio che dopo due anni è morto. Allora era un giovanotto di belle speranze, molto forte, molto alto. Mi disse: io conosco questo intellettuale, che si chiama Andrea Caffi, lui abita in Via Lombardia, gli ho parlato di te, gli ho detto che sei uno scrittore (infatti io mi professavo scrittore anche se non avevo pubblicato niente) e lui vuole conoscerti. Un bel giorno andai con Cenerini a trovare Caffi. Lui avvertì Caffi, poi se ne andò e mi lasciò davanti al portone in via Lombardia. Salii su da Caffi che abitava in una camera ammobiliata, presso una famiglia, una camera senza neanche l’ingresso libero, in fondo al corridoio. Appena entrai mi venne incontro e mi abbracciò come se ci fossimo sempre conosciuti. Mi fece una strana impressione. Era un uomo altissimo, con una testa tutta arruffata, i capelli grigi, e un viso con i tratti molto marcati; occhi grifagni e un po’ sbarrati, nasone pronunciato, grande bocca ironica e un’espressione tra ispirata e ironica. C’era in lui insomma il senso dell’uomo romantico, che ha avuto e ha tuttora degli ideali e al tempo stesso un’espressione delusa, ironica, amara e lungimirante con la quale sembrava dire: c’era da aspettarselo. Si trattava davvero di una strana mescolanza. Caffi fin da allora era vestito alla maniera che poi gli ho sempre visto, pantaloni sbrindellati, giacche informi, salvo quando doveva andare nel mondo, perché allora si metteva un vestito blu, abbastanza corretto, ma come insolito, che stranamente gli dava un aspetto di operaio indomenicato. Così vestito a festa aveva una grande eleganza naturale, quell’eleganza che appunto hanno gli intellettuali e gli operai. Non aveva nulla di borghese Caffi, proprio nulla, neanche un po’. Sempre emanava da lui un fortissimo odore di acqua di colonia, tant’è vero che quando mi ha abbracciato mi ha avvolto in una nube olezzante, cosa che mi colpì molto perché quando si è giovani si è colpiti dalle sensazioni e poi perché per me era una cosa estremamente insolita. Insomma non conoscevo nessuno che si mettesse tanta acqua di colonia addosso.

Caffi era un grande conversatore, anzi dirò di più, era un conversatore delizioso ed estremamente comunicativo ed espressivo, e molto intelligente naturalmente e coltissimo. Tutto questo però in maniera reticente e proprio da grande signore della cultura, senza mai alcuno sfoggio didascalico e di vanità anzi tenendosi per sé il più. Era un iceberg di cultura da cui emergeva soltanto una punta mentre tutto il resto restava sotto. Non era facile farlo venire fuori, ma si sentiva tutto il tempo questa cultura e questa sua esperienza di vita, anche quella di cui non parlava mai. Si sapeva più o meno che Caffi era stato dappertutto, che era stato quello che i tedeschi chiamano un uccello migrante, che aveva girato tutta l’Europa, che era un grande camminatore, che andava sempre a piedi, che aveva un certo disdegno aristocratico contro il progresso meccanico, e questo era già abbastanza strano in un mondo che rotolava già verso il consumismo e la comodità. parlavamo spesso di letteratura e si parlava molto di Dostojeski del quale avevo letto soltanto Delitto e Castigo.

Era stato mio cugino Carlo Rosselli a regalarmelo, insieme all’Alcyone di D’Annunzio, quando avevo 10 anni ed ero, come sempre in quegli anni, malato, perché avevo la tubercolosi ossea e stavo tutto il giorno a letto. Carlo Rosselli che era un giovanotto già laureato mi regalò questi due libri perché vedeva ch’io leggevo molto. Lessi appunto Delitto e Castigo che mi fece un’impressione colossale, terribile, enorme, all’età in cui di solito si legge Salgari, e quando vedevo Caffi gli rivolgevo molte domande su Dostojevski. Caffi che aveva in fondo una maniera di parlare sarcastica, nel caso di Dostojevski non nascondeva un’estrema considerazione e forse anche ammirazione: dico forse perché in Caffi non si capiva mai se ammirasse veramente qualche cosa.

In quel periodo vidi Caffi varie volte e poi mi ammalai molto gravemente, una ricaduta della tubercolosi ossea con dolori spaventosi, tant’è vero che il medico mi ordinò delle punture di morfina. Diventai un mezzo morfinomane, stavo sempre a letto e avevo sempre la febbre molto alta. Ricordo benissimo che un giorno venne a trovarmi Caffi, entrò nella mia camera portando in mano l’Idiota di Dostojevski (la prima traduzione francese del visconte di Vögué apparsa in Occidente), con una dedica di Caffi scritta con una calligrafia che sembrava fatta di note di musica, una calligrafia che volava, molto evanescente, come ineffabile, perché lui era un po’ quello che si dice di Rimbaud, aveva “les sevuelles faites de vent” (le suole fatte di vento) e si spostava con incredibile rapidità, partiva senza sapere per dove, perché così era Caffi.

Era prima di tutto un erudito, un intenditore, ed aveva una grande e diretta conoscenza storica, estetica delle cose, dell’arte, e poi aveva un grande gusto. Insieme andammo al Louvre a vedere le sculture egiziane che sono le più belle del mondo.

L’arte è incominciata con la rivoluzione integrale del corpo umano. La scultura è una copia del corpo umano, perciò gli antichi erano scultori insuperabili come i preistorici. Infatti, le più belle sculture per me sono quelle egiziane, quelle hittite, certe sculture ciclopiche, africane: tutto ciò in cui c’è una sintesi fulminea. Caffi guardava a tutto questo non soltanto con l’occhio del conoscitore storico ma anche dell’uomo di gusto, giacché aveva girato tutt’Europa e aveva conosciuto moltissimi artisti.

Soprattutto credo che Caffi avesse avuto una diretta conoscenza dell’avanguardia russa che è adesso dispersa, sono tutti morti. Ma negli anni in cui Caffi era in Russia erano tutti operanti e sono sicuro che li ha conosciuti tutti, artisti che erano all’avanguardia non soltanto di nome, ma di fatto all’avanguardia di tutta l’arte in Europa. Basta pensare a Chagall, a Malevich, a Kandinski.

Mi portò la copia dell’Idiota, io mi ammalai ancora di più e dopo quella volta, per un po’ di tempo, non lo vidi più, non so perché ma forse Caffi non era a Roma. Stetti ancora a Roma una quindicina di giorni, poi mio padre mi portò in treno fino a Calalzo, poi in automobile fino a Cortina d’Ampezzo dove c’era il sanatorio. Stetti lì in sanatorio dal marzo del 1924 fino all’ottobre del 1925, circa un anno e mezzo e guarii. Non ebbi più notizie di Caffi, posso soltanto aggiungere che mio cugino Carlo Rosselli venne a trovarmi nel ‘24 a Cortina d’Ampezzo durante l’affare Matteotti. Mi disse testualmente: “Mussolini in Corte d’Assise in ottobre”. Come si vede nessuno è profeta. Io stetti a Cortina fino all’ottobre del ‘25. Alla fine di ottobre andai a Bressanone in un altro sanatorio e prima di compiere diciassette anni cominciai a scrivere Gli Indifferenti.

Questi sono dettagli ma sono connessi con Caffi, non so perché. Andai a Bolzano, in libreria e comprai due libri di Cocteau, uno di Proust e poi nella stesso anno, nel 1925, andai a Firenze e comprai l’Ulisse di Joyce, edizione del 1922.

Tornai a Roma alla fine del ‘25 e andai a trovare Caffi che allora abitava ancora in via Lombardia ma si apprestava ad andarsene perché l’aria era diventata irrespirabile in Italia (bisogna ricordarsi che il 5 gennaio 1925 c’era stato il discorso di Mussolini che praticamente aboliva tutte le libertà). Perciò alla fine del ‘25 Caffi stava per partire. Avvenne una cosa molto kafkiana, anzi caffiana… Caffi, che era uno storico, un erudito, un saggista (tra l’altro era enorme la sua conoscenza del mondo bizantino), quando gli si chiedeva un articolo, per esempio sull’ultimo imperatore bizantino, una vicenda che durò venti anni, cominciava con delle schede e risaliva sino all’origine dell’umanità. Poi ad un certo punto, tutto questo immenso lavoro di schedatura finiva nel nulla. Dopo aver preparato quest’opera gigantesca, la lasciava. Allora quando lui dovette Partire mi disse: “Guardi che io ho molte note, molte cose scritte ma non voglio, non posso portarle a Parigi. Del resto credo che tornerò presto”. Anche lui pensava che il fascismo sarebbe caduto presto; lo pensavano tutti allora, persino i fascisti. Gli dissi: “Va bene, se vuole posso metterli in casa mia e poi lei ci penserà su”. Ricordo che andai a via Veneto, presi una carrozzella, i taxi allora erano molto rari, e andai in via Lombardia, di fronte al portone dove abitava Caffi. Cominciò il trasporto di tutte queste casse di carte e la carrozzella si riempì fino all’orlo e poi si mosse tirata da un cavallo scalcagnato con Caffi e me dentro e ogni tanto dei libri e delle carte cascavano per terra per cui ogni tanto dovevamo fermare la carrozza, raccogliere queste carte cadute e rimetterle dentro. Insomma, bene o male, arrivammo in via Donizetti, dove allora io abitavo con la mia famiglia, in un villino a due piani che aveva un seminterrato-scantinato. C’era un grande studio che mio padre aveva utilizzato nel passato, durante l’estate, perché era più fresco e lì c’erano delle casse vuote e ci mettemmo tutte queste carte. Poi io ci misi anche i miei manoscritti. Tutte queste carte sono poi scomparse, è scomparso anche il manoscritto degli Indifferenti, tutto scomparso. Caffi non aveva mai richiesto le sue carte ed io ero in un periodo di assoluta noncuranza per le mie cose, c’erano due, tre manoscritti miei e parecchia corrispondenza, poi c’erano almeno tre casse di carte di Caffi e io non ho mai saputo dove siano andate a finire. Dopodiché passarono alcuni anni e nel 1928, dopo aver fatto battere a macchina il manoscritto de Gli Indifferenti, andai a Parigi. Caffi era precettore a Versailles in casa della principessa di Bassiano e naturalmente lo rividi e lui mi presentò alla principessa alla quale diede da leggere il mio manoscritto che era stato già accettato dalla casa editrice Alpes, che dopo un mese dall’accettazione mi aveva chiesto formalmente di pagare la prima edizione, allora andai da mio padre e mi feci dare 5.000 lire, questo era il prezzo della prima edizione. Feci leggere il romanzo a Caffi e quel che accadde è un caso specifico del suo modo di essere. Caffi disse: “Lei è diventato un vero scrittore”, ma lo disse con una voce di delusione e di rammarico perché in fondo per lui diventare uno scrittore non era una cosa importante. Si vede che lui aveva apprezzato in me un personaggio di quei tempi, vivente.

Probabilmente lui vedeva in me un rappresentante tipico delle nuove generazioni e ho sempre avuto l’impressione che Caffi, forse perché aveva una grande comunicatività di tipo socratico, non apprezzava più le forme di creazione artistica scritta o dipinta, che pure conosceva bene e aveva molto goduto. Questa fu in ogni caso la mia impressione, perché il tono di delusione, di leggerissima delusione con cui mi disse “lei è diventato uno scrittore”, è dopotutto abbastanza strano. Fu tuttavia molto amichevole e passò il romanzo alla principessa di Bassiano. La principessa aveva avuto un grande successo con la rivista letteraria Commerce, e ventilò per un bel po’ di pubblicare Gli Indifferenti inedito in Commerce. Poi non se ne fece più nulla, secondo me per ragioni moralistiche. Caffi mi presentò molti scrittori che frequentavano il circolo di Commerce, insomma la Parigi “déco”. Caffi era anche lì molto anomalo: era tutta gente ben vestita, perché l’intellettuale francese aveva allora un aspetto borghese mentre Caffi era uno straccione. Per le occasioni si metteva il famoso vestito blu, con la cravatta di traverso, ma normalmente aveva l’aspetto di uno straccione. Era un hippy ante litteram, in lui c’era un’anticipazione di molte cose che poi sono diventte comuni negli anni 60 e 70. Una cosa curiosa che posso dire di Caffi è che non prendeva mai né il metro né gli autobus; una volta si trovava a Montmartre e io gli diedi appuntamento a Montparnasse e attraversò tutta Parigi a piedi, e arrivò a Montparnasse sempre a piedi con il suo passo slogato di cammello. Era un uomo molto alto, aveva un corpo come disossato, appunto come un cammello, dondolante, con gambe infaticabili dove non si sapeva dove stesse la forza, dentro pantaloni che erano fatti così: il ginocchio dei pantaloni stava all’altezza dello stinco, la coscia stava all’altezza del ginocchio e degli enormi scarponi neri.

Io restai a Parigi un anno intero e nel 1931 a Roma conobbi Nicola Chiaromonte. Nicola Chiaromonte era un giovane lucano povero, antifascista, molto serio, passava le giornate steso sul letto a leggere Platone. Più tardi si mise a leggere Husserl e Heidegger, ma insomma le letture erano quelle e diventammo molto amici. L’amicizia, almeno nella mia gioventù era questa: nel vedere giorno e notte l’amico, ci vedevamo al pomeriggio, alla sera e poi ci telefonavamo e questo era un rapporto intellettuale, culturale fondato su una reale comunanza di interessi.

Andammo avanti così per parecchio tempo e una volta andai a Parigi e rividi Caffi ma di sfuggita. Poi avvenne che nel 1934 andai alle “decadi” di Pontigny insieme a Nicola Chiaromonte; c’erano molte persone tra cui Roger Martin du Garde, Desjardins, Fernandez. Questa sessione delle decadi era dedicata all’intolleranza. Eravamo in pieno fascismo con Hitler già al potere da un anno e ci si può immaginare cosa fosse per me l’intolleranza e infatti si parlò molto di Hitler, di Mussolini e del fascismo e io parlai naturalmente contro il fascismo e il nazismo e Nicola Chiaromonte fece anche lui una comunicazione sull’intolleranza. Il tono generale, però, devo dire la verità, era quello di una grande distanza dalla realtà, c’era un tono ancora molto letterario in altre parole era un po’ un ambiente di letterati che non si rendevano ancora conto che stava avvicinandosi un’enorme tempesta, nessuno se ne rendeva conto e di intolleranza se ne parlava a fior di bocca. Io venivo da Roma, sapevo cos’era il fascismo, e così ebbi l’impressione se non proprio di superficialità, come ho detto, di grande distacco: in fondo c’era, si può dire, inesperienza, nel senso doloroso della parola. A un certo punto Chiaromonte mi disse: “Io non voglio più ritornare in Italia, che ne dici?” e io gli dissi che l’approvavo tanto più che lui in Italia non combinava gran che e, sia detto qui per inciso, non riusciva a guadagnare, aveva molte difficoltà a guadagnare perché era antifascista, inoltre era un tipo molto austero, inabbordabile, perciò non aveva le qualità che ci vogliono per farsi largo in una società come quella italiana di allora, alienata e servile. Io lo presentai alla Stampa e riuscii ad ottenere per lui un anticipo di denaro, una piccola somma, dall’editore Barabba per una vita di Michelangelo, una monografia, e lui si mise a lavorare. Questa vita di Michelangelo ebbe una sorte estremamente sfortunata e quasi caffiana perché lui ci lavorò molto e poi quando i tedeschi invasero la Francia lui scappò in situazioni estremamente disagiate e si perse il manoscritto per strada, e questa fu la fine del mio aiuto editoriale a Chiaromonte. Incoraggiai Chiaromonte ad abbandonare l’Italia, del resto a lui non piaceva nulla di quanto avveniva in Italia e così Chiaromonte andò a Parigi e mi chiese se conoscevo qualcuno. Mi sembrò giusto presentarlo a Caffi al quale inviai, tramite Chiaromonte, una lettera insieme ad una piccola somma di denaro perché sapevo che era in condizioni disagiate, non aveva niente e ricevetti poi una lettera di Caffi, nella quale diceva che Chiaromonte era andato da lui, una delle poche lettere che Caffi mi scrisse, mi diceva: “Caro amico, grazie mille, mille volte grazie per avermi mandato il delizioso amico Nicola Chiaromonte”. Poi Chiaromonte, Mario Levi il fratello di Natalia Ginzburg e di Paola Olivetti fecero una grande amicizia. Io scherzosamente dico che passarono alcuni anni chiusi in una camera a parlare di politica. Siccome Chiaromonte e Caffi erano un po’ della stessa scuola, cioè erano socratici e avevano tutti e due una grande inclinazione a comunicare attraverso la parola anziché attraverso gli scritti, tutti e due avrebbero potuto scrivere più di quanto non avevano pubblicato e scritto; ma tutti e due hanno avuto un peso non indifferente nella cultura dell’epoca, sia in Francia che in America. Caffi, Chiaromonte e Mario Levi si legarono di un’amicizia che durò praticamente fino all’invasione tedesca.

Chiaromonte scappò in condizioni tremende con la compagna Anny Pohl verso la Francia meridionale che non era ancora stata occupata e Caffi andò a Tolosa nelle circostanze che questa biografia su Caffi racconta e fu poi arrestato e torturato dalla Gestapo. Dopo molti anni, nel dopo-guerra, probabilmente nel 1950-51 mi recai a Parigi e andai a trovare Caffi che abitava all’Hotel Grands Hommes; si saliva una scaletta a chiocciola del ‘700, c’era una camera per piano e in una cameretta assolutamente minuscola, me lo ricordo ancora, c’era un letto su cui stava Caffi e questo letto aveva tre piedi e il quarto piede era fatto di libri della Nouvelle Revue Française perché era diventato lettore della Nouvelle Revue Française e lui faceva le schede. Stava seduto sul letto, con il busto fuori, in camicia, completamente a suo agio, circondato da quattro, cinque giovani francesi con cui aveva un’animata conversazione. Io non lo avevo più visto da dieci anni e lui con un à propos stupefacente con una naturalezza perfetta disse: “Ecco Moravia che può confermare le vostre opinioni su questo argomento”.

Caffi stava bene a Parigi. Dalla Russia vi portava una nota che i francesi non hanno, aristocratica e barbarica, il vento della steppa. Questa cosa si sentiva, però si sentiva anche che a Saint Germain e a Montparnasse, sempre con un codazzo di giovani dietro di lui, ci stava bene, era nel suo elemento. Io distinguo gli uomini in due categorie, quelli che diventano adulti e quelli che non lo diventano mai. La maggior parte degli uomini diventano adulti, cioè si integrano nella società. Caffi non era integrato e questo lo rendeva un eterno giovane. Aveva soltanto dei rapporti umani, non dei rapporti gerarchici, accademici o del tipo che esistono tra il professore e l’alunno. I suoi erano soltanto dei rapporti di amicizia, forse perché c’era in lui, bisogna pur dirlo, il sottofondo dell’omosessualità.

Dalla società russa rivoluzionaria debellata dai comunisti è passato a far parte della bohème montparnassiana, segnata dalla vita di caffè e di strada, studentesca e sradicata. Forse si potrebbe definire Caffi un eterno studente nel senso che voleva sempre imparare qualche cosa. Il suo fascino vero era questa curiosità, freschezza, un grande desiderio di voler sempre vedere cosa c’era nei giovani.

Caffi era un intellettuale francese, però con un’ascendenza slava, moscovita, pietrogradesca, il che è poi nella tradizione della Russia prima del comunismo, perché appunto l’antica classe dirigente russa pensava e parlava in francese, come si può vedere nei romanzi di Tolstoi. Il francese era la seconda lingua e la Russia aveva dei rapporti molto stretti con la Francia, forse ancora di più che con la Germania. In Caffi comunque direi che c’era più l’influenza della cultura francese che di quella tedesca, nonostante conoscesse benissimo il tedesco e la letteratura tedesca. Aveva studiato nelle università tedesche però restava il russo francesizzato che era andato a studiare a Berlino. Questa è veramente l’impressione che Caffi dava, di un russo alla maniera di Turgheniev insomma non di un russo germanizzato come ve ne sono stati tanti, per esempio Pasternak che aveva anche lui studiato in Germania, aveva scritto un saggio sul neo-kantismo e massacrava il francese in una maniera orrenda.

Dico che in Caffi c’è un’ascendenza francese perché secondo me era un illuminista. Era un illuminista nel senso di un intellettuale che si pone di fronte ai problemi con l’idea di spiegarli non di servirsene, cioè era alieno dall’idea di Marx di far scendere il pensiero dal cielo sulla terra per cambiare il mondo. Caffi il mondo voleva soprattutto spiegarlo e voleva capirlo, ma si rendeva conto che per capirlo occorre ammettere una quantità di ipotesi, e che le ipotesi più conosciute, più diffuse sono non soltanto le più semplici, ma spesso anche le più false, le meno comprensive di tutta l’immensa varietà della realtà. C’era in lui un dubbio quasi sistematico, che era però il prodotto di una deluisione più che di una mente veramente armata di dubbio. Caffi dava l’impressione di un uomo deluso che ha avuto in gioventù degli entusiasmi abbastanza giustificati per cose che lui ha poi cercato di approfondire, di capire, e perciò di intellettualizzare, di spostare sul piano del dubbio. Questi dubbi, questa delusione venivano secondo me non dal fatto che lui fosse un uomo che si era ricreduto ma dal fatto che lui era quello che si chiama volgarmente, non filosoficamente, un idealista.

Dall’illuminismo francese aveva tratto l’aspirazione alla liberazione senza limiti dell’individuo, una liberazione che proveniva dalla tradizione rivoluzionaria dell’illuminismo individualista e borghese, se si vuole ma altresì demoniaca e distruttiva. Ma questa tensione verso la liberazione dell’individuo che in Francia non ha avuto limiti (si pensi a Rimbaud), in Caffi era frenata dalla sua formazione culturale russa che era eminentemente sociale, non individualistica; e di lì venivano il suo fallimento, la sua delusione. Perché in un certo senso in una civiltà come quella francese, un uomo, un intellettuale può arrivare in fondo alle cose, come dimostra per esempio l’esperienza dei surrealisti. Questo è possibile perché in Francia, dopo la rivoluzione che aveva distrutto tutto un assetto sociale che durava da dieci secoli, fondato sul diritto divino e la società feudale, non vi è stata poi nonostante Napoleone, una restaurazione dell’assolutismo, c’è stata semmai un’esplosione individualistica, per lo meno sul piano culturale. Invece in Russia c’è stata subito un’affrettatissima ricostruzione dello stato autoritario sia pure su basi socialiste. Sotto questo profilo, le due rivoluzioni, quella francese e quella russa, sono molte diverse.

Cioè il primo momento della rivoluzione russa è eversivo ma subito dopo lo Stato è risorto con Stalin con una forza forsennata, terribile. E i russi in fondo hanno visto l’esplosione demoniaca della Rivoluzione Francese come qualcosa di negativo. Basta pensare a Dostojkevski e alla sua condanna dell’individualismo europeo.

Questo era il dualismo di Caffi. Se fosse stato solamente francese il suo romanticismo ed idealismo avrebbe trovato un terreno favorevole, invece – come dimostra il suo saggio “Individuo e Società” – ad un certo punto si intimidisce e pensa, secondo la tradizione culturale russa, che la società sia molto importante, più importante dell’individuo. In Caffi c’era una certa timidezza di fronte alla possibilità della distruzione dell’ordine sociale di fronte alla totale negazione dello Stato. In lui v’era altresì una va ammirazione per la civiltà: sapeva che era un oggetto molto fragile e gli dispiaceva che fosse distrutta. Questa timidezza non è illuminista, è russa, socialista in fondo, persino marxista in un certo senso.

Caffi faceva parte di una generazione contemporanea di Lenin, che criticò il leninismo fin dai primi anni della rivoluzione – penso per esempio a Pannekock, Gorter, Rosa Luxemburg. Essi avevano capito fin dal principio che in Russia c’era uno Stato burocratico quale nessun capitalismo avrebbe mai potuto sperare di avere e dove gli operai, privati del diritto di sciopero, devono lavorare per forza. Testimoni della rivoluzione russa, videro molto presto che il bolscevismo mirava ad uno stato totalitario e attaccarono da sinistra la degenerazione sovietica. Questo Caffi lo ha capito subito perché era molto intelligente, aveva una grande cultura e aveva fatto una esperienza politica in qualche modo completa.

Erede della tradizione populista russa aveva vissuto la tragedia delle aspirazioni libertarie del movimento rivoluzionario, cioè di tutta una generazione che si espresse nel 1905, e poi nella Duma e nei tentativi di importare in Russia una democrazia socialista. Di qui anche l’irriducibilità di questa generazione che i bolscevichi distrussero. Caffi era della stessa stoffa dell’èlite rivoluzionaria che fu poi tutta sterminata da Stalin. Per questo era un uomo amaro, come segnato dall’esperienza di un evento terribile. Inoltre Caffi ha vissuto in un’epoca, quella intorno al 1914, che è stata – bisogna pur dirlo – la più grande orgia di bugie, di falsità, di ipocrisie che ci siano mai state nella storia. Al paragone, nella seconda guerra mondiale tutto era molto più chiaro. Nell’orgia del 1914 Caffi vedeva chiaro, e questo è stato il suo privilegio ma anche la sua condanna, perché ha visto mentre gli altri non vedevano. Trovatosi in mezzo all’esplosione di passioni cretine – il trattato di Versailles da una parte, il nazionalismo, l’imperialismo francese ed inglese ancora in piedi, tutte cose spaventose che dopo pochi anni sarebbero crollate miseramente – Caffi tutte queste cose le aveva viste e sentite, era nell’occhio del tifone. Per questo la sua esperienza, insieme a quella di un certo numero di persone, ha arricchito l’Europa, più precisamente quella tradizione europea che si riallaccia alla Rivoluzione francese. La posizione da lui tenuta con grande sacrificio della sua esistenza fisica, rifiutando ricchezze e sistemi di pensiero comuni e accettati dai più, ha altresì contribuito ad arricchire la tradizione del socialismo libertario europeo.

Prodotto di una cultura aristocratica molto raffinata, la sua discrezione, la sua povertà, il suo rifiuto di “integrarsi” sono state una testimonianza di vita di cui io non conosco un altro esempio.

Leo Valiani

Un italiano fra i bolscevichi

L’Espresso, 11 aprile 1971

La gioventù odierna non conosce il nome di Andrea Caffi. Eppure, nel suo rifiuto dei compromessi che tanto i partiti socialdemocratici, quanto i partiti comunisti hanno via via accettato, Caffi ha anticipato, sin dal primo dopoguerra, alcuni dei motivi ideali che animano l’opposizione libertaria dei giovani socialisti e comunisti alle dirigenze e agli apparati in cui non si riconoscono più. La ristampa, a cura di Gino Bianco, che vi ha premesso un breve, ma suggestivo profilo di Caffi, dei suoi scritti politici(*), apparsi fra il 1918 e il 1949, giunge forse in un momento adatto alla loro rivalutazione.

Nato a Pietroburgo nel 1887, Caffi era ancora un adolescente quando aderì al movimento socialista russo. Al momento della scissione fra bolscevichi e menscevichi, si schierò con quest’ultimi, aderendo però alla loro frazione di sinistra che più degli stessi seguaci di Lenin rappresentava un’avanguardia operaia. Organizzatore de! sindacato dei tipografi, Caffi partecipò alla rivoluzione del 1905 e, dopo la sconfitta, fu condannato a tre anni di carcere. Scontata la pena si trasferì nella patria di origine della sua famiglia, l’Italia. Un paio d’anni dopo la rivoluzione sovietica tornò in Russia. Prese di nuovo posizione per la sinistra menscevica, che aveva solidarizzato coi bolscevichi nella resistenza armata alla controrivoluzione e all’intervento imperialistico delle grandi potenze, rna, finita la guerra civile, reclamava il ritorno alla democrazia operaia, il ripristino dei diritti d’effettivo controllo dei consigli operai. Imprigionato nel 1920, Caffi fu liberato su insistenza di Angelica Balabanoff, che l’aveva conosciuto nel movimento socialista italiano. L’ex-segretaria della Terza Internazionale era ancora ascoltata, in casi del genere, da Lenin, dal quale poco dopo si sarebbe irrimediabilmente staccata.

Lo scritto di Caffi sulla rivoluzione russa, che apre questo volume, è del febbraio 1919. A tanta distanza di tempo colpisce la straordinaria esattezza della sua analisi. Le sorti della guerra civile erano ancora incerte, le armate “bianche” minacciavano anzi i centri del potere sovietico. Mentre s’augura ardentemente che il proletariato russo esca vittorioso dal cimento, Caffi non esita a mettere a nudo l’involuzione che già caratterizza la dittatura bolscevica. Trotzki, osserva Caffi, individuando con notevole anticipo sugli eventi quella che sarà la ragione di fondo della successiva caduta, nella lotta con Stalin, del fondatore dell’esercito russo, crede nella permanente continuità del miracolo rivoluzionario, dell’eroismo invincibile degli operai che costituiscono legioni di combattenti per il socialismo; Lenin sa invece che lo spaventoso dissesto dell’economia russa ha disgregato la classe operaia, che gli operai più istruiti sono all’opposizione nei confronti del nuovo ceto dirigente dittatoriale, formato in larga misura da avventurieri della rivoluzione, assetati di potere, e in parte anche da elementi della vecchia burocrazia, che puntano sul cavallo probabilmente vincente. Ma, nonostante la sua acutissima, realistica conoscenza delle cose e degli uomini, Lenin procede imperterrito sul cammino che conduce alla trasformazione della dittatura del proletariato in dittatura poliziesca d’un partito che, soppressa ogni voce dissenziente, s’isola anche dalle masse del popolo nel cui nome pure combatte e governa. Tutta la storia del partito bolscevico, che Caffi ricostruisce in modo conciso, ma illuminante, mettendo in rilievo com’esso incarnasse, più degli altri partiti socialisti russi, maggiormente legati a schemi ideologici, tutt’insieme il fanatismo e l’estrema spregiudicatezza della tradizione dei cospiratori, lo porta a cercare, con cinica risolutezza, il potere per il potere. D’altra parte, le masse -la cui esplosione libertaria ed egualitaria spazzò via il vecchio regime e, dopo il fallimento della parentesi democratica nel 1917, diede la vittoria ai bolscevichi- nella loro maggioranza, che in Russia è contadina, non parteggiano più per il governo sovietico, che requisisce i prodotti del loro lavoro, praticamente senza compensi. Nella dissoluzione della società, vince o la controrivoluzione o la dittatura burocratica del partito comunista.

Questo dilemma, che Caffi scorge nitidamente nella Russia dei primi del ‘19, caratterizzerà gran parte dell’Europa fra le due guerre mondiali. Nelle controrivoluzioni del primo dopoguerra sono già presenti il fascismo e il nazismo, nell’accantonamento delia democrazia operaia da parte dei bolscevichi è già presente il totalitarismo staliniano. Da fuorusclto italiano antifascista, Caffi esamina passo a passo l’emergere d questi tristi fenomeni. La vittoria della coalizione antifascista nel 1945 non lo rassicura. Lo stalinismo non è affatto migliorato e anche le potenze sedicenti democratiche, con le quali le socialdemocrazie solidarizzano acriticamente, non sono veramente migliorate. S’impone una profonda rimeditazione dei principii del socialismo e della democrazia e ad essa è dedicato il travaglio intellettuale di Caffi.

(*) Andrea Caffi, Scritti politici, prefazione di Gino Bianco, La Nuova Italia, 1970

 

Gino Bianco

Prefazione a “Sul corporativismo e su una certa tecnica”

Tratto da Miscellanea Storica Ligure, anno V, n. 1  1969

Il socialismo di Andrea Caffi di cui vi è testimonianza anche in questo suo scritto del 1935 sul corporativismo e qui per la prima volta pubblicato -un socialismo certo non riducibile ad una definizione e neppure ad una dottrina o sistema di pensiero, e dovendo indicare un motivo centrale si potrebbe piuttosto parlare di una riscoperta del socialismo attraverso una certa idea della «società»- esprime un’esigenza di rigenerazione totale che investe da cima a fondo la società tutta quanta: «Si vorrà pure ammettere che nell’idea di socialismo c’è l’idea di società. Fin dai suoi primordi, nelle concezioni dei grandi pensatori come nel sentimento delle comunità oppresse, socialismo ha significato anzitutto annettere un’importanza preminente all’uomo che vive in una trama di rapporti sociali spontanei, egualitari, «civili»; solo per un tale uomo, infatti, i problemi della giustizia e della felicità hanno un senso. Le istituzioni, le attività governative, le lotte di frazione che costringono e spesso soffocano la società, sono sempre apparse ai veri socialisti o come escrescenze maligne da eliminare, oppure come un male necessario da limitare e circoscrivere al massimo»(1).

Il socialismo di Andrea Caffi è una diretta filiazione dell’intellighentia rivoluzionaria russa del secolo scorso e di quella tradizione il pensiero e la vita di Caffi hanno il tratto inconfondibile. Anche nel carattere volutamente frammentario, non concluso dei suoi scritti così come nell’insistente ritorno al momento autobiografico e gli anni giovanili come esperienze decisive, vi è un segno distintivo della tradizione rivoluzionaria russa. Nato a Pietroburgo nel 1887, a 14 anni Caffi era già socialista. A 16 anni fu tra gli organizzatori del primo sindacato dei tipografi di Pietroburgo e poco tempo dopo, per aver preso parte alla rivoluzione del 1905 nelle file dei menscevichi fu arrestato e condannato a tre anni. Il problema della Russia, le vicende e il destino della rivoluzione bolscevica resteranno un punto di riferimento costante dell’esperienza intellettuale e politica di Caffi. Nonostante si rendesse conto molto bene delle ragioni che stavano dalla parte dei bolscevichi -come del resto egli stesso le aveva esposte nel saggio del 1919 «La Rivoluzione russa e l’Europa» pubblicato nella Voce dei Popoli (e sia detto qui tra parentesi, il più importante e serio scritto -secondo Piero Gobetti- che fosse fino a quel momento apparso sulla rivoluzione russa), nel trionfo dei bolscevichi egli vide «con un accoramento simile a quello provato alla scoppio della guerra, la sconfitta di quanto c’era stato di più schiettamente libertario e socialista, e anche di più europeo, nella tradizione rivoluzionaria russa quale si era iniziata nel dicembre 1825»(2).

Tornato a Mosca nel 1920 si schierò dalla parte della rivoluzione e aderì alle posizioni politiche della sinistra menscevica di Martov, fautrice di un governo rivoluzionario dì coalizione dei tre partiti sovietici (social-rivoluzionari, menscevichi e bolscevichi). Non tardò ad accorgersi che la gestione del potere da parte dei soli bolscevichi portava in sé il germe dell’involuzione autoritaria del sistema sovietico e che perseguitando e costringendo all’esilio i socialisti rivoluzionari, i menscevichi e i libertari, la «dittatura proletaria» avrebbe messo capo ad un’autocrazia che era l’esatto contrario di quella società di «liberi ed eguali» in nome della quale la rivoluzione era stata compiuta.

Accusato di essere in contatto con elementi dell’opposizione menscevica e di aver dissuaso i socialisti italiani venuti a Mosca con G. M. Serrati dall’aderire alla Terza Internazionale, fu arrestato e rischiò la condanna a morte. Fu liberato grazie all’intervento di Angelica Balabanov che molto tempo dopo, rievocando quegli anni moscoviti, ha scritto di Caffi con grande calore di simpatia e ammirazione.

Più tardi, negli anni trenta, consolidatosi il potere personale e assolutistico di Stalin con quei tratti di fosca e torbida barbarie che l’uccisione di Kirov e l’ondata di terrore indiscriminato che ne seguì preannunciavano (come Caffi in una nota del settimanale Giustizia e Libertà(3) fu tra i primissimi a rilevare), dell’esperienza cui era approdata la rivoluzione sovietica e il comunismo della terza internazionale, Caffi insistentemente ripeteva che si trattava della via opposta a quella che conduce alla democrazia e al socialismo, perché «nessun raggiro dialettico può nella realtà dei fatti condurre alla libertà attraverso il dispotismo totalitario e alla comunità sociale fondata sull’uguaglianza attraverso complicate gerarchie tecnocratiche».

Vi è una continuità nel pensiero e negli scritti di Caffi (dalle collaborazioni alla «Voce dei Popoli», a Quarto Stato, ai quaderni e al settimanale di Giustizia e Libertà e poi nelle file dei socialisti italiani durante gli anni della lotta al fascismo e della Resistenza europea): nonché ad una certa idea del socialismo Caffi ritorna sempre nei suoi scritti al tema della grande crisi della società contemporanea. Nell’immediato dopoguerra aderisce alla Giovane Europa, il movimento nato soprattutto per iniziativa di Umberto Zanotti Bianco, Salvemini, Stuparich, Borgese e condivide quei generosi progetti che animarono il movimento, fondati sull’idea che dalla devastazione e dalla crisi prodotta dalla guerra sarebbero maturate le condizioni per la creazione di una nuova società internazionale, profondamente rinnovata sulla base della libertà, dell’uguaglianza, dell’autodecisione dei popoli. Il presupposto, naturalmente, era che vi fossero ancora in Europa -malgrado tutto- uomini e forze politiche capaci di «lavorare pazientemente a correggere gli errori di Versailles e ad avviare i popoli verso quella pace che non s’era ottenuta nel 1919». Ma insieme a questo vi è anche negli scritti di Caffi sulla Voce dei Popoli o in Quarto Stato, di Pietro Nenni e Carlo Rosselli, il sentimento che un mondo intero di credenze e di valori stava andando alla deriva. La crisi era quella apertasi con la prima guerra mondiale, accresciuta dalla consapevolezza che da quel momento in poi una «civiltà» era andata perduta. Gli anni a venire, col dilagare del totalitarismo in Europa e poi la violenza di una nuova guerra senza precedenti, non ne avrebbero che confermato la profondità e vastità. E nel 1925, sulla Vita delle Nazioni, una rivista di politica estera ch’egli aveva fondato-, in un editoriale dal titolo significativo «Sul tramonto della civiltà europea», scriveva: «La guerra e il dopoguerra, dopo averlo accelerato in modo fittizio, hanno interrotto e disorganizzato quel processo di ravvicinamento reciproco, che a tappe prolungate avrebbe forse condotto a una nuova produttiva coesione fra classe politica, élite intellettuale ed il popolo delle democrazie moderne. In questo consiste probabilmente almeno uno dei momenti essenziali di quel che noi risentiamo come crisi della nostra civiltà».

Legato d’amicizia con Umberto Zanotti Bianco, Salvemini, Amendola, Vincenzo Torraca, Francesco Fancello, Emilio Lussu e molti altri intellettuali antifascisti, si battè contro il regime mussoliniano prima e dopo il delitto Matteotti. Nel lungo articolo «Cronache di dieci giornate» pubblicato su Volontà di Vincenzo Torraca (la rivista che secondo Leo Valiani rappresentò «un incunabolo del partito d’azione nell’altro dopoguerra»), Caffi documentava con estremo rigore la diretta responsabilità di Mussolini nell’assassinio di Giacomo Matteotti.

In pericolo di essere arrestato per propaganda sovversiva lasciò l’Italia nel 1926 e si trasferì a Parigi. Nell’emigrazione antifascista riannodò i contatti con vecchi e nuovi compagni e particolarmente, dopo l’arrivo di Carlo Rosselli a Parigi, con il gruppo di Giustizia e Libertà.

Nel pensiero di Caffi vi è un modo originale di intendere la politica e la «società» che coinvolge i temi sulla funzione e il ruolo degli intellettuali, del rapporto tra élites e rivoluzione, tra minoranze e apparati politici. Nelle sue collaborazioni ai Quaderni e al settimanale di Giustizia e Libertà, Caffi sviluppa l’analisi sulla società moderna, sulla natura del totalitarismo (e in una serie di articoli che ebbero molta influenza su Rosselli, del distacco tra le generazioni democratiche e le giovani generazioni totalitarie), sulla struttura e le funzioni dello Stato. Caffi spinge la critica oltre ogni superficialità e riconduce l’analisi del totalitarismo fascista a fenomeni più complessi e in primo luogo alla disgregazione sociale, morale, politica ed economica dell’Europa. Fu Caffi -ha potuto scrivere Aldo Garosci- «che primo indusse Rosselli ad andare oltre quello che di troppo superficialmente entusiastico, di eredità mazziniana nel senso meno buono c’era in «socialismo liberale», ad accentuare la polemica contro i vecchi partiti non limitandola alla loro inerzia solo rispetto al fascismo, ma estendendola al carattere antiquato, fisso e accademico delle loro dottrine»(4). Nello scritto «In margine a due lettere dall’Italia»(5), Caffi sottolineava un’antitesi irriducibile tra rivoluzione e «società» (realtà infinitamente più ricca della politica). Tale antitesi tra rivoluzione e «società» era esemplificata negli eventi della rivoluzione francese e di quella russa: né gli agenti del Comitato di salute Pubblica appartenevano all’elite impersonata precedentemente dai D’Alembert, Diderot, Voltaire, né i commissari dell’esercito rosso o della GPU possono confondersi con la élite intellettuale russa. Nei due casi l’elite ha creato le idee, rovesciato «scale di valori», suscitato un modo nuovo di sentire e di comprendere i nuovi doveri verso l’umanità. Residui volgarizzati ed irrigiditi di questi ordinamenti intellettuali e morali sono penetrati nelle «teste quadre» dove un unico pensiero si trasfonde in volontà indomabile. Ma tra gli uomini dei circoli degli Enciclopedisti e quelli dei clubs dei giacobini, come tra quelli della società russa dell’Ottocento e i «rivoluzionari di professione» bolscevichi, rimaneva, nella filiazione, «l’abisso scavato dal modo diverso di intendere e valutare l’insieme di esperienze intime e di tradizioni accettate e amate che noi chiamiamo «cultura» o al modo latino «umanità». Per il politico, anche quando sta sistemando le conquiste immediate di una rivoluzione, la cultura è qualcosa che serve la vita, per la élite essa è qualcosa che fa la vita». E tuttavia, la considerazione dell’elemento inumano della rivoluzione, dell’enorme distanza che sempre separa il mondo dei generosi e nobili progetti di sovversione radicale dalla «nuda realtà» che si è pur contribuito a creare, e addirittura la considerazione della sorte stessa riservata alle élites culturali che avevano preparato la rivoluzione dai loro successori ed esecutori pratici («mancherebbe una suprema consacrazione alla élite se non fosse suo destino di essere divorata dagli elementi che pure è precipua sua missione di scatenare») non dovrebbe impedire agli intellettuali di « capire la fatalità quasi provvidenziale di siffatti inumani eccessi, finché le rivoluzioni, simili in tutto alle guerre, sono l’unico mezzo per portare rimedio (o solo un giusto compenso?) alle molto più turpi, prolungate, silenziose atrocità che ingenera quotidianamente l’ineguaglianza sociale».

Nonostante culturalmente e politicamente il movimento di Giustizia e Libertà rappresenti quanto di più avanzato abbia espresso l’antifascismo italiano di quell’epoca vi è pure una generica atmosfera volontaristica e idealistica di GL dopotutto abbastanza poco moderna perché scontava negli anni trenta certo banale idealismo dei primi del secolo. Certo, sia i Quaderni che il settimanale di GL volevano essere lo strumento politico e culturale di una battaglia in atto e non intesero rappresentare -come ha scritto Garosci- «lo sviluppo sistematico di un pensiero coerente». E tuttavia non si potrà non riconoscere che su molti problemi fondamentali sia politici che culturali le soluzioni indicate dal «Movimento» non erano abbastanza chiare e approfondite. Era contro una singolare mescolanza di entusiasmo mazziniano e di spregiudicato realismo, di generica atmosfera volontaristica idealistica e di atteggiamenti pragmatistici, di radicalismo rivoluzionario e di tendenze liberali non facilmente mediabili, che Caffi appuntava le sue critiche. Ma quelle critiche che Caffi non risparmiava alle idee e ai criteri ispiratori del Movimento di G.L. erano soprattutto dovute -come ha ricordato Nicola Chiaromonte- «al desiderio che l’antifascismo italiano, almeno nella sua parte più giovane e intellettualmente più avvertita, si sollevasse dal terreno della polemica spicciola e della propaganda antimussoliniana per attingere al livello di movimento europeo e contribuire in modo positivo al rinnovamento della tradizione socialista e libertaria»(6), e furono, per l’essenziale, la povertà di idee dell’antifascismo e il suo rifiuto tenace di «portare la critica alle radici» a determinare la cosiddetta «crisi con i novatori»(7).

Caffi militò nelle file dei socialisti italiani esuli in Francia ed ebbe rapporti di amicizia e collaborazione particolarmente con Saragat, G. E. Modigliani, Tasca e Faravelli (quest’ultimo responsabile del lavoro clandestino in Italia). La collaborazione di Caffi con Tasca e Faravelli costituì anche un’adesione alle posizioni politiche che quel gruppo esprimeva: le riserve nei confronti dell’unità d’azione tra socialisti e comunisti e delle ambiguità dei «fronti popolari», il fermo atteggiamento nei confronti dello stalinismo, il rifiuto delle alleanze di vertice, la lotta per il rinnovamento del movimento socialista(8).

Contrapponendo Proudhon a Marx, Caffi indica una maniera diversa di concepire la società umana e quindi quelle sue funzioni che sono la libertà e la giustizia. Del resto -insisteva Caffi- il socialismo deriva dal suo stesso nome, la sua gloriosa pretesa alla qualifica di neo-umanesimo proprio dal fatto che si è eretto a difesa della società contro gli inumani congegni dell’«ordinamento statale». La costituzione politica, risultato del movimento liberale del secolo XIX, doveva essere portata a compimento mediante la «costituzione sociale» limitando le prerogative e le funzioni dell’apparecchio statale, costringendolo a compenetrarsi esso stesso di «diritto sociale», si potrà giungere al complesso di varie autonomie che costituiranno la «democrazia industriale». I partiti operai invece si rivolgono unicamente al «cittadino», al fittizio «ente giuridico» che è il cittadino in tempi normali, e il sindacato si preoccupa unicamente del materiale, impersonale adattamento della «forza lavoro» nel sistema tecnico economico e quindi in definitiva di una sua integrazione nel sistema.

Al di là dei giudizi acuti, delle intuizioni talvolta geniali sull’evoluzione in corso della politica europea, sull’avvento del totalitarismo, sulla crisi delle società moderne, sui regimi di massa, sulla degenerazione della rivoluzione sovietica e così via, vi sono spunti, idee, e soprattutto un modo di pensare di sostanziale importanza e attualità nel discorso caffiano sul socialismo, di un socialismo cioè che non può accettare la rivoluzione industriale rinunziando alla rivoluzione sociale, come ancora accade nei sistemi, pur contrapposti, americano e sovietico.

Si potrà far rivivere un umanesimo socialista? E’ questo in definitiva l’interrogativo nel discorso caffiano. L’avversione nei confronti delle ideologie, l’immensa cultura e la padronanza dei grandi fenomeni storici dell’antichità e del mondo moderno insieme al senso religioso della giustizia e alla capacità di «concepire l’essenza, la verità viva, la sostanza sacra dei fatti umani come una realtà concreta, non come un’idea astratta, un principio ideologico o un precetto morale», spiegano l’originalità del socialismo di Caffi e la profondità della sua analisi. L’esecrato capitale -ripeteva Caffi- che nella tradizione socialista si incolpava di tutte le sciagure, è appena identificabile oggi fra i giganteschi congegni di pressione politica, sociale e psicologica che stritolano gli uomini e li gettano nell’informe magma della «massa». I centri del potere economico e politico dai quali dipende la produzione e la distribuzione, dispongono oggi di tali mezzi ed apparati di repressione, di informazione e di distribuzione ed in pari tempo hanno acquistato una potenza così decisiva e «razionalizzata» da fare sembrare poca cosa il minuzioso ordinamento del vecchio dispotismo napoleonico. La preminenza di questi « apparati » politici, economici, militari, di informazione, ecc. rappresenta -seppure in forme diverse- il tratto saliente (l’Herrschaft des Apparats, secondo la definizione di Jaspers) tanto dei paesi occidentali a capitalismo privato quanto di quelli a capitalismo di Stato, ed è un attributo necessario del «regime delle masse». Ma qual é la qualità più evidente di tali masse? «L’inerzia» -rispondeva Caffi. La giunzione dinamica fra i formidabili mezzi di produzione e la collettività umana che sola può farli funzionare non s’è prodotta: la «massa» dei lavoratori sente istintivamente che, in quanto «collettività massiccia», essa è incapace di «possedere» sia i mezzi materiali di produzione sia gli ingranaggi complicatissimi di un’amministrazione economica. Sentendosi «incapace» la massa subisce. Che fare? Accettare la rigidità spietata di una burocrazia onnipotente? Sottoporsi a quella tecnocrazia che sembra essere nella direzione dello «sviluppo storico»? Per un socialista, una volta rifiutata sia la tirranide tecnocratica nuda che quella ammantata di ideologia del comunismo sovietico, una strada, mi pare, rimane: quella che la «massa» riuscisse ad abolirsi in quanto massa; a sich aufhe-ben, per usare quel linguaggio della dialettica hegeliana che il giovane Marx maneggiava con tanto vigore nei suoi scritti del 1844-1848. E il senso sarebbe che dalla massa bisogna pure che gli individui finiscano per uscire; bisogna pure che in seno alla massa si formino delle comunità autentiche, dei gruppi di «eguali» capaci di pensare e di agire con piena intelligenza dei fini e dei mezzi. Utopia o no, io non vedo altra strada verso un’emancipazione reale(10)».

Del resto -osservava Caffi- la democrazia politica europea con i principi dell’89 non aveva potuto trionfare, ed in modo molto imperfetto e precario, che dopo lotte violente e sanguinose, e dopo sforzi accaniti di parecchie generazioni in tutti i campi della «cultura», dell’organizzazione economica, dell’emancipazione dalle Chiese. Ed anche la rivoluzione sovietica (sebbene arenata in un «ricorso» di tirannide) ha richiesto un secolo di «lavorio sotterraneo». Per la verità, poi, quel lento e faticoso processo di democratizzazione della società europea, fu arrestato dall’emergenza del totalitarismo e di sempre più accentuate tendenze autoritarie non senza che a ciò vi contribuisse il mito dell’efficienza alimentato dall’impetuoso sviluppo tecnologico.

E tuttavia, nonostante la «razionalizzazione totalitaria» e la prospettiva per dirla con Zbigniew Brzezinski -di una «età tecnotronica», vi sono pure resistenze, realtà irriducibili, fenomeni che non si lasciano integrare e che potrebbero anche fare ben augurare per le sorti di una società più civile e ragionevole.

Quanto alla nota sul corporativismo ritrovata tra le carte caffiane e finora inedita, essa fu redatta da Caffi nel 1935 in occasione del numero speciale della rivista francese Esprit dedicata al corporativismo. L’argomentazione principale sviluppatavi da Caffi è che se il processo di accentramento e di crescente intervento dello Stato era già in atto verso la fine del secolo scorso con intensità eccezionale e indipendentemente dai diversi regimi costituzionali e politici, l’avvento dell’economia di guerra, della «mobilitazione industriale» e di tutto quell’insieme di bardature (ivi compresa tutta la gamma di «quelle metamorfosi del diritto civile, nella loro accelerazione e nei loro molteplici significati»)(11) ne rappresentò il culmine. Sicché alle idee di Ugo Spirito e dei suoi amici (i «sanculotti» del fascismo -come li chiamava Bottai) quali erano state formulate soprattutto al Congresso di Ferrara nel maggio 1932 (e per il loro carattere radicale e popolusta quanto al diritto di proprietà, mai attuate nella realtà del regime fascista) Caffi vi vedeva più ancora che una filiazione del socialismo di Stato (Wagner, Schaeffle, Sombart) uno strumento tecnico dello Stato totalitario nelle moderne società industriali di massa.

Di fronte alla crisi delle democrazie parlamentari e all’avvento della società di massa; al carattere sempre più astratto che per il popolo veniva ad assumere la vicenda politica in conseguenza dell’accresciuta complessità dei meccanismi sociali; all’enorme ed informe «crescita» delle funzioni dello Stato, le corporazioni -scrive Caffi- «sono una risorsa tutt’altro che stupida (e non saprei dire se proprio inattuabile) dello Stato trionfante sulle rovine di ogni umana comunità ».

(1) Cfr. Andrea Caffi, Critica della Violenza, Bompiani 1966, pag. 94.

(2) Vedi l’introduzione di Nicola Chiaromonte a Critica della Violenza, op. cit. pag. 13

(3) Giustizia e Libertà (settimanale) del 4 Gennaio 1935.

(4) Cfr. Aldo Garosci, La vita di Carlo Rosselli, Edizioni U, 1945, pag. 73 (vol. 2°)

(5) In Quaderni di G.L:, n.11, Giugno 1934 (II Serie).

(6) Introduzione di N.C., già cit., pag. 19.

(7) Per questo aspetto di G.L., Cfr. soprattutto L. Salvatorelli e G. Mira, Storia del Fascismo; l’Italia dal 1919 al 1945, Roma 1952, e anco ra, di L. Salvatorelli, L’Opposizione democratica durante il fascismo, II Secondo Risorgimento, Roma 1955. Molto interessante lo studio di Claudio Pavone, Le idee della Resistenza, in Passato e Presente, n. 7, 1959, pag. 884. Per la separazione dal movimento di G.L. di Caffi, Chiaromonte, Levi e Giua, vedi Aldo Garosci, La vita ecc., op. cit. voi. II, pp. 97-102, ed anche G.B., Crisi con i

  1. 7, 5 aprile 1963.(8) Sull’attività svolta dal Centro interno del PSI, Cfr. soprattutto Stefano Merli in Annali Feltrinelli 1963 e le Tesi di Tolosa (I socialisti, la guerra e la pace) redatte da Caffi in Quaderni del Gobetti, Genova, 1958.

(9) Per alcune notizie sulla posizione di Caffi, cfr. anche Lamberto Borghi, Educazione e autorità nell’Italia moderna, Firenze 1951, pagg_ 316-323.

(10) «Borghesia e ordine borghese» in Critica ecc., op. cit., pag. 233-234.

(11) Secondo l’espressione di Rene Salvatier. Per una visione molto ricca e articolata della realtà dei rapporti giuridici contro l’esclusivo sistema del diritto individuale e ancor più contro il preteso «interesse generale» dello Stato, Caffi riprendeva l’analisi e gli spunti di George Gurvitch che in Idèe du Droit Social (Sirey, 1932) rielabora e svolge portandole alle loro ultime conseguenze le teorie di Fichte, Gierke, Krause e soprattutto di Proudhon sul pluralismo giuridico e sull’antitesi società-stato.

Carlo Vallauri

Il socialismo umanitario di Andrea Caffi

Tratto da Storia e politica, A. XII. fasc. II, Giugno 1973

II contributo che Andrea Caffi ha recato all’azione politica e culturale in difesa dei valori della libertà non ha trovato sinora riconoscimenti adeguati.

Già la stessa natura dell’uomo, semplice e modesto, la sua ritrosia a mettere in mostra pensieri lungamente meditati, la sua insofferenza per moduli scontati e per partiti abbarbicati a mantenere accesi fuochi ormai spenti dalla realtà, la sua dura polemica da un lato contro la borghesia colta asservita ai grandi interessi economici, dall’altro contro lo stalinismo i suoi esaltatori ed epigoni, l’incapacità ad incapsularsi in formule e riti, la sua denuncia di metodi politici strumentali e di confusioni culturali alla moda hanno reso impossibile sia una classificazione in quei filoni impegnati ai quali arride il successo per un concorso di cause legate alle attualità sia il concentrarsi dell’attenzione verso scritti scottanti per l’amarezza delle verità testimoniate.

D’altronde anche in vita Caffi cercò di evitare collocazioni che annullassero, con un generico nominalismo, la sostanza di un pensiero critico, continuamente teso alla ricerca di posizioni dialettiche, opponendo egli in ogni occasione al dogma il confronto.

Legato a profonde aspirazioni democratiche e libertarie, frutto di una esperienza che lo aveva visto giovanissimo impegnato -quale figlio di un italiano che lavorava a Pietroburgo- nella rivoluzione russa del 1905 quale sostenitore della linea menscevica, egli aveva maturato nella Parigi dell’emigrazione un habitus mentale cosmopolita nell’approfondimento dei motivi che rendevano travagliata la vita dell’Europa post-ottocentesca, nelle contraddizioni tra militarismo ed esigenze pacifiste, tra imperialismo ed individualismo, tra spinte politiche collettivistiche e miti letterari superomistici. Si comprende allora come all’indomani del primo conflitto le sue speranze per una collaborazione tra i popoli del continente si riveleranno pallide utopie. Mentre egli cerca di individuare gli elementi caratterizzanti del potere bolscevico e di spiegarne origini e strutture, la caduta dell’Italia sotto un governo dittatoriale conferma in lui le recondite ragioni del progressivo esaurirsi dell’anelito alla libertà.

L’avvento dell’era della massa lo trova attento indagatore di questioni attorno alle quali si era da giovane cimentato quale allievo di Simmel all’Università di Berlino.

E quando il terribile gioco è consumato con il trionfo hitleriano e con i processi di Mosca, Caffi tenta di rielaborare in sé e per sé i motivi di un crollo di ideali, di valori, di regimi ; le sue convinzioni lo condurranno a posizioni di isolamento, restio com’egli è a parlare per luoghi comuni, frasi di deteriore buonsenso, menzogne convenzionali.

La stessa partecipazione all’antifascismo militante lo trova sì schierato su un fronte nettamente individuato ma senza nessuna concessione alle ripetizioni pedisseque di modelli battuti dalla storia. Non a caso sarà proprio Caffi ad iniziare su Giustizia e libertà di Rosselli il dibattito sulla crisi di coscienza della gioventù fascista, a guardare a coloro che in Italia operano all’interno delle organizzazioni del regime imperante come a possibili interlocutori, per riprendere un discorso necessitato dall’eterno fluire degli eventi e che nessuna imposizione avrebbe potuto impedire. Ma proprio di quegli anni è il suo distacco dai gruppi ufficiali dell’antifascismo, il suo rinchiudersi in un ripensamento profondo sulle cause del tramonto della democrazia, della crisi del socialismo.

Il divampare del turbine nazista nell’Europa ce lo farà ritrovare quale infaticabile organizzatore clandestino nella Francia occupata; ma anche adesso che il suo rinnovato impegno socialista si sostanzia in un’azione comune con altri compagni ed altre forze politiche affiora la distanza che lo separa dai fautori della politique d’abord. Certo il suo disegno di presentare ai vincitori un movimento politico italiano autonomo dagli Alleati risponde ad un senso di dignità caratteristico del suo temperamento: ma è anche vero che il rincorrersi degli avvenimenti non consente di porsi al di sopra della mischia con la somma delle proprie speranze e dei propri orgogli. Urgono scelte precise, e la scelta di Nenni e di Saragat -in dissenso con Caffi- è per la ricerca di un fronte comune delle forze popolari italiane accanto agli Alleati.

I «distinguo», giustissimi in teoria, cedono di fronte all’incalzare delle necessità belliche. E d’altronde è sin troppo evidente come le riserve di Caffi non riguardino tanto l’atteggiamento su un singolo fatto quanto il suo modo di porsi di fronte all’azione politica, che è il tipico modo di atteggiarsi di un intellettuale, con tutti i difetti che questa classficazione comporta. A differenza di altri uomini di cultura, però, che sostituiscono al rammarico per non vedere accolte le proprie tesi nel travaglio della fucina politica l’accomodante sistemazione accanto ai politici tout court, Caffi preferisce mantenere un comportamento schivo da riconoscimenti e matura le proprie illusioni attorno al suo stesso tribolo personaie, in una volontaria rinuncia che non è ascesi, ma riflessione, che non è atto di superbia, ma consapevole ripensamento di esperienze.

Gli ultimi anni di una vita intensa saranno consumati ad approfondire i temi dell’impegno culturale, a cercare di afferrare il significato di prassi politiche troppo scostatesi dalla filosofia da cui traggono ispirazione.

Quando Nicola Chiaromonte, che di Andrea Caffi fu amico fedele, ebbe nel 1966 a raccogliere per l’editore Bompiani una serie di suoi saggi, scelse come titolo indicativo del volume Critica della violenza. Indicazione questa senz’altro appropriata perché sottolineava uno degli elementi più caratteristici della personalità di Caffi. Negli ultimi anni della sua vita egli scrisse per Tempo presente, la significativa testimonianza culturale di Silone e Chiaromonte, e per il periodico di New York «politics», diretto da Dwight Mac Donald. E proprio su quest’ultima rivista era apparso nel ‘46 lo scritto di Caffi che reca il titolo utilizzato per il libro.

Occorre però a questo punto chiedersi quale è la filosofia politica da cui Caffi muove, quali i fini del suo impegno, quali gli ideali della sua azione.

Il socialismo al quale Caffi si è nutrito è di tipo «umanitario» e non ha lo stampo marxista.

Da Marx lo separa quella che egli considera una pretesa scientifica assoluta: «la strana presunzione propria del marxismo è che tutti i fatti storici che potremo mai scoprire (quando al tempo di Marx non si sapeva nulla della storia di Creta, degli Ittiti, dei popoli dell’Estremo Oriente e la conoscenza del Medioevo, di Bisanzio, dell’Isiam era affatto superficiale) dovranno confermare lo schema stabilito nella prefazione alla «Critica dell’economia politica», a condizione che li si consideri secondo il metodo del «materialismo dialettico» (1). E chiama a suo soccorso l’autorità di Marc Bloch, riconoscendo comunque l’arricchimento prodigioso della nostra conoscenza del passato ottenuto attraverso l’influenza e le «ipotesi di lavoro» di Marx.

Contrario per formazione mentale ai facili schematismi, ritiene l’ortodossia classica marxista una «rigidità dottrinale» che nel momento stesso in cui impone ai partiti socialisti il culto per la classe operaia si chiude alla comprensione di quel che avviene in una cerchia più vasta dei salariati delle officine moderne. Ed anzi questa «chiusura» -spesso non scevra da insincerità ed opportunismo- porta poi all’improvviso esplodere di situazioni nelle quali proprio i partiti operai si rendono protagonisti di politiche di union sacrée, rinnegando i propri postulati e creando quindi un generale disorientamento nel movimento dei lavoratori.

Caffi non nega che nell’Ottocento la configurazione concreta della realtà risponda all’antagonismo dualistico indicato da Marx -ma non da Marx solo (vengono richiamati Saint Simon e Owen, Sismondi e Proudhon)-; considera tuttavia che la borghesia è stata piena padrona del meccanismo capitalista, secondo la geniale analisi marxiana, soltanto in un periodo determinato nel tempo e limitato nello spazio. Cioè a dire egli vede l’oppressione economica, sociale e politica come un fatto costante delle società organizzate, dipendente dalla complessità dei rapporti che si stabiliscono nelle società progredite, ma sottolinea che è altrettanto costante la protesta e la lotta contro l’oppressione.

Il socialismo appunto è allora la lotta contro ogni forma ed ogni tipo di oppressione, contro lo sfruttamento, contro le subordinazioni materiali

o morali imposti all’uomo: e contro questi fenomeni il socialismo lotta, non solamente in nome del lavoro e del proletariato contro il capitale e la borghesia.

Emerge chiaramente una concezione del socialismo, dilatata al di là delle realtà storiche nelle quali essa si è incarnata -come punto di riferimento socio-politico nella classe operaia quale antagonista allo sfruttamento del capitale-, una concezione che per le stesse dimensioni che assume mal si adatta alle vesti concrete, alla tipologia classica del movimento operante nell’Europa dell’Ottocento ad oggi, anche se naturalmente essendo questo socialismo protagonista d’una dura lotta per l’affrancazione dell’uomo dalla schiavitù economica, Caffi non rifiuta di far propri i motivi di lotta del movimento operaio. Egli non ritiene però che il socialismo debba esaurirsi nell’aspirazione ad una trasformazione dei rapporti economici, in quanto vanno valutati, a suo avviso, pericoli che sull’uomo, sul lavoratore, possono continuare a gravare per effetto di altre forme di oppressione.

Certamente il punto discriminante per la sua analisi è l’esperienza bolscevica russa, esperienza che egli cerca di giudicare con obiettività. I suoi scritti del 1918 -anteriori quindi al suo soggiorno nella neonata Repubblica sovietica- cercano di spiegare le ragioni della prevalenza leninista.

«Lenin, fino dai primordi della sua azione politica, non si è mai fatto illusioni sull’immenso divario che separa l’ordine ideale dei rapporti umani quali li concepisce il socialismo, dagli elementi concreti con cui si fanno le rivoluzioni: miseria, ignoranza, inerzia, vampata vendicativa delle masse, gli uomini di avanguardia raramente competenti e non sempre sicuri; la mole poderosa del capitalismo e dei governi armati» (2). L’utilizzazione di tutti i mezzi possibili è richiesta dal fine della «liberazione dell’umanità». A differenza di altri rivoluzionari-idealisti, Lenin non ha inibizioni di fronte agli opportunismi pratici: egli non crede che le formule astratte possano creare un fatto, crede invece nella «volontà organizzata dei rivoluzionari che devono valersi di tutto per mantenere ed accrescere il loro campo d’azione».

La guerra ha generato masse di uomini in grado di usare le armi e il movimento rivoluzionario comunista russo è l’espressione di un popolo, sconvolto da profondi turbamenti, in cerca di soluzioni per risolvere i propri problemi, e la forza dei bolscevichi -a suo avviso- fu proprio la capacità di interpretare antiche aspirazioni popolari, canalizzandole verso azioni concrete. «Nella capacità dimostrata dai bolscevichi di dare un’Idea, un centro intelligente alla sfrenatezza delle masse russe, scrollando le artificiali «sovrastrutture» di una burocrazia e di un capitalismo fondamentalmente stranieri, sta la differenza specifica, in grazie alla quale il massimalismo non è un semplice episodio di sommosse senili, ma il principio di un’epoca nella storia della Russia e forse del mondo».

E precisa Caffi: «La praticità di Lenin non si manifesta punto negli atti legislativi, per mezzo dei quali egli sembra volere mutare la società, ma sta nella fedele audacia con cui egli ha sempre consigliato di calcolare e di affrettare le conseguenze estreme del necessario corso degli eventi, senza mai attenuare o complicare lo scopo univoco imposto al suo partito: conquista del potere per metterlo al servizio degli interessi immediati, concreti della classe finora sfruttata. Arrischiare tutto per tutto; nulla sacrificare a «pregiudizi ideologici»; l’intenzione più violenta nella propaganda, nella agitazione, nella tattica del partito, una utilizzazione quasi cinica delle contingenze, purché vi si trovi un espediente per dominare la situazione» (3).

La valutazione attenta della tattica attraverso la quale i bolscevichi conquistano il potere, delle ragioni di fondo del loro insediamento del potere, quali eredi di una tradizione culturale della società russa, nonché dei motivi di novità rappresentati dalla politica verso le nazionalità, non gli impediscono di diventare severo critico di una organizzazione che non riesce ad espungere dal suo seno le tossine pericolose della Statocrazia.

Gli avvenimenti degli anni trenta inducono Caffi a distinguere tra esperimento sovietico -nel quale cerca di individuare elementi che per il progresso dell’emancipazione proletaria e per l’edificazione del socialismo hanno un significato positivo- e metodi persecutori e falsificatori messi in atto da Stalin. Certo, in quel periodo, malgrado l’obiettività di una simile distinzione, il solo fatto di «dire male di Stalin» non gli procurerà soverchie simpatie nel campo comunista. D’altronde il suo impegno di militante socialista, anche se al di fuori degli schemi di partito, non gli può consentire di passare sotto silenzio le tecniche repressive realizzate in Urss -e le sue pagine sui processi di Mosca (4) restano esemplari. Il suo distanziamento dal modello comunista russo si riconnette ad una visione socialista che cerca di indicare le potenzialità esistenti in quel sistema senza nasconderne i lati negativi.

La presenza di meccanismi repressivi -anche se operanti in nome del «socialismo»- non possono non trovarlo intransigente difensore dei diritti dell’uomo. La sua posizione critica riguarda lo Stato nel complesso dei suoi strumenti operativi, e quindi non solo lo Stato poliziesco e vessatorio, quanto lo Stato che interviene nella vita degli individui, con la pesantezza dei suoi procedimenti, per regolare sin nei minimi particolari il processo economico. Non a caso egli aveva visto quale fattore positivo dell’azione leninista la lotta per il disarcionamento della macchina governativo-statale e l’appello alle organizzazioni dei lavoratori. Un socialismo quindi che si richiama a Proudhon e non a Marx e che non riconosce come proprie le soluzioni staliniste.

Se, in una maturata valutazione di fatti, si comprende come il «mito russo» abbia operato nel movimento socialista internazionale quale punto di riferimento contro i trionfi della reazione in gran parte d’Europa, non per questo Caffi è disposto ad accettare acriticamente la qualifica di «socialista» per una serie di comportamenti delle classi dirigenti del-l’Urss e delle democrazie popolari.

Il socialismo di Caffi è un socialismo che rifiuta l’organizzazione di massa della società contemporanea. Egli ritiene -e non sarà solo in questo giudizio- che le forme assunte dalla organizzazione sovietica siano conseguenza di un insieme di svolgimenti politici, attraverso i quali l’economia russa è divenuta una economia militarizzata.

«Nei mostruosi ingranaggi della moderna “civiltà di massa” qualsiasi cosciente aspirazione e decisione dell’uomo perde ogni ragione di essere, e qualuque sia l’esito del giogo di detti ingranaggi, nulla ne può risultare di valutabile in termini di significati umani, di felicità personale o di socievolezza. L’assoluta intransigente opposizione a questi ingranaggi, la resistenza in tutti i modi e con tutti i mezzi alla loro stretta, è la condizione prima di un “ritorno alla misura umana” d’una coerente “politica del popolo”» (5).

Va ricordato peraltro come l’analisi di Caffi individui nell’esperienza socialdemocratica tedesca attorno al 1900 l’origine della «massificazione» del socialismo, che portò alla faciloneria, all’opportunismo, all’ipocrisia, alla pusillanimità.«I socialisti non sembrano aver avuto la chiara percezione dell’efficacia con cui l’istituzione degli eserciti permanenti, l’agglomerazione nelle “città tentacolari”, la standardizzazione di tutti i particolari dell’esistenza materiale al livello d’una deprimente bruttezza e volgarità, le gigantesche officine di Krupp o di Ford con l’abbrutimento del “lavoro a catena” contribuivano a ridurre il popolo, ed anzi tutto il proletariato, ad una “massa” dove l’individuo diventa sempre più sperduto, insignificante, costretto a meccanica imitazione dei suoi “simili” che sempre più gli diventano indifferenti».

La ricostituzione di uno Stato accentrato e onnipotente rappresentano, afferma Caffi, la negazione dei valori del socialismo.

«Bisogna ricominciare da capo» (6) egli scrive nel 1949. Gli «errori colposi tanto del comunismo che della socialdemocrazia» si collegano ad una « assenza di base» a cui il movimento socialista deve rispondere sostituendo alla «mentalità gregaria» delle masse, all’adorazione della forza e del successo, al gusto di essere comandato dal duce di turno, la capacità d’una critica rigorosamente razionale esplicata dalla facoltà di giudizio dell’individuo, la solidarietà profonda tra uomini che si sono compresi non superficialmente.

«La funesta sorte del movimento socialista fu di vedersi costretto dagli avvenimenti ad assumere quasi all’improvviso nello Stato e nella vita nazionale una parte che implicava la rinuncia alle sue essenziali funzioni sociali e alla pratica applicazione dei suoi principi di pacifismo integrale e internazionalismo».

La pace diviene per Caffi uno dei principali punti di riferimento per un’azione politica che non voglia essere generica. Egli contesta la tesi secondo la quale la violenza sia una «necessità fatale» e la guerra «una esigenza delle società organizzate». Né crede sia possibile «vincere la violenza con la violenza». La violenza -scrive infatti- «è incompatibile con i valori di civiltà e di umanità socievole che noi vogliamo appunto preservare dagli attentati distruttori dei violenti» e aggiunge «usando la violenza noi rinneghiamo necessariamente i valori che sono la nostra ragione di vivere e ne ritardiamo indefinitamente la preparazione e la fioritura»(7).

Caffi pone perciò un problema di coerenza tra fini e mezzi, che costituisce il fondamento di un’azione politica fondata su una precisa impostazione etica.

Certo egli ha presente l’esempio delle polizie politiche, alle quali fa espressamente richiamo, le esperienze di uno Stato dei lavoratori in cui mancano adeguate garanzie di salvaguardia dei diritti dei lavoratori stessi, di una organizzazione economica che ha derivato dall’economia di guerra la struttura burocratica, i casi di subordinazione cieca al «superiore interesse del partito», alla «linea generale», indicativi di una mentalità che negli stessi anni Jean Paul Sartre bollerà con il sarcasmo della sua vena artistica oltreché filosofica.

Ma d’altro canto vi è un modo efficace per opporsi alla bruta violenza dominatrice diverso da una violenza sia pure a servizio di una causa giusta?

Il punto discriminante è proprio qui: e la risposta di Caffi è fortemente intrisa di cristianesimo tolstoiano. La validità del suo assunto è incontestabile sul piano dei principii, ma le ragioni stesse dei valori che Caffi ha testimoniato con la sua vita non sono state forse affermate mediante una forza che si è opposta a quella temporaneamente dominante in Europa, la sua stessa possibilità di riprendere il discorso critico sul crollo della democrazia, sulla crisi del socialismo, sulla necessità della non-violenza, non poggia forse sul trionfo militare di una forza ben precisa?

Si ha l’impressione che l’alta predicazione di valori morali prescinda dalla concreta valutazione della realtà.

«Se il socialismo ha da essere una vera liberazione dell’uomo, dobbiamo cominciare col respingere come la maggiore delle assurdità ogni nozione di guerra fatta dai socialisti, o da Stati diretti in nome dei socialisti»(8). Naturalmente questa asserzione non è valida, neppure per uno Stato diretto dai socialisti, quando si tratti di guerra difensiva. Ma le polemiche sulle teorie cattoliche relative all’argomento dimostrano la difficoltà di discriminanti basate su classificazioni siffatte.

L’affiorare, nella sua visione della vita politica, di una sorta di idealismo socialistico ed umanitario se ha un significato di denuncia del «collettivismo burocratico» e del metodo della violenza messo in atto anche in nome del socialismo, rende la posizione di Caffi più quella di un predicatore solitario -retto da una forte tensione morale, corroborata dalla testimonianza sofferta di tutta una vita spesa disinteressatamente al servizio di ideali- che non di un pensatore politico capace di promuovere attorno a sé una corrente d’azione concreta.

D’altronde se si ha presente il suo modo di intendere il problema delle classi ci si avvede come, negando il dualismo marxiano, egli in sostanza ritenga operabile un’attività che prescinda dagli interessi economici, dalla conflittualità latente nella società. Egli non si pone ad osservare le «masse» sulla base del concetto di «classe» o di «coscienza di classe» e rileva invece nella massa tre strati, il primo «il sottosuolo della civiltà moderna», capace di fornire -attraverso i bassifondi- il personale per le atrocità di progrom e dei vari squadrismi; in secondo luogo le folle atone, rese indifferenti dalle guerre e dai regimi d’oppressione, soddisfatte di aver acquistato un minimo per l’esistenza materiale; in terzo luogo una massa di uomini semplici, sensibili all’esigenza di una reale comunità del «sentire umanamente» ma, per fatalità economica, immersi appunto nella massa. E gli odierni partiti si basano su questo tipo d’uomo, per i quali i principi di reciproca tolleranza, di libertà di giudizio, di scelta individuale non hanno più significato.

Una posizione quindi sostanzialmente pessimistica sulla condizione reale dell’uomo e nello stesso tempo ottimista circa la sua possibilità di salvarsi con un atto individuale.

In tale contraddizione è il dramma di Caffi, uomo e pensatore, indicatore di valori da tutelare, di obiettivi da perseguire, di metodi da usare, intransigente difensore di una coerenza che egli ha personalmente testimoniato.

La profondità dei suoi studi, l’attenzione che egli presta anche a fenomeni che hanno rappresentato il disinganno della sua stessa esistenza, la perseveranza con la quale continua a battersi per gli ideali professati, svolgendo un’opera intensa di chiarimento e di illuminazione, la puntuale differenziazione che egli rimarca tra il socialismo come fattore di progresso nella società, stimolo potente e fruttificatore per migliorare la condizione dell’uomo e salvaguardarlo da istinti oppressivi che si esprimono attraverso la macchina statale ma che hanno radice nella collocazione dell’individuo all’interno di una massa non consapevole dei propri destini e forme di organizzazione statuale che non garantiscono il rispetto della libertà altrui, della libertà di pensiero nell’ambito del socialismo, secondo l’insegnamento della Luxembourg, fanno indubbiamente di Caffi una personalità significativa dell’esperienza politica democratica e socialista dell’Europa.I motivi ai quali egli pone attenzione, gli occhi disincantati con i quali guarda ai fenomeni di una società gerarchizzata e massificata, la rivendicazione della facoltà di scelta, lo avvicinano ad altri pensatori che hanno vissuto il dramma di un socialismo spesso incapace di imporsi con mezzi coerenti al fine di una elevazione morale e materiale dell’uomo: e sotto questo riguardo possiamo trovare echi ed assonanze con il pensiero e gli scritti di Zino Zini, del quale recentemente è stato pubblicato il diario, di cui già Storia e Politica aveva dato i primi estratti (9), di Giacomo Noventa, al quale Augusto Del Noce dedica approfonditi studi saggistici (10), di Giacomo Perticone, la cui opera ha arricchito la nostra cultura politica contemporanea con la illuminante analisi dell’uomo, e del regime di massa, in anticipazioni sociologiche, in parte misconosciute perché non afferrate nel loro vero significato nel momento in cui vennero esposte ma che trovano sempre maggiore verifica man mano che l’incontro tra storia e sociologia si appalesa come una esigenza fondamentale di una accurata valutazione degli eventi che ci circondano. Sono tutti uomini che, anche di fronte alle pesanti esperienze del mondo contemporaneo, non hanno perduto la fiducia nei valori della logica, nella convinzione fondata sui ragionamenti, in una morale non scritta a cui mantenersi fedeli.

(1) A. Caffi, Intorno a Marx e al marxismo, in Critica della violenza, Milano, 1966, p. 235.

(2) A. Caffi, La rivoluzione russa e l’Europa, in Scritti politici. La Nuova Italia, Firenze, 1970, pag. 1 e seg.

(3) Ibidem.

(4) Tragedia moscovita, in Giustizia e Libertà, Parigi, 4 gennaio 1935.(5) Ibidem

(6) II socialismo e la crisi mondiale, in Scritti politici, op. cit., p. 373.(7) Critica delia violenza, in libro omonimo, Milano, 1966, p. 77 e seg.

(8) E’ la guerra rivoluzionaria una contraddizione in termini? Cfr. Scritti, p. 319.(9) Z. Zini, La tragedia del proletariato, Ed. Riuniti, Roma, 1973.

(10) G. Noventa, Tre parole sulla Resistenza, con saggio introduttivo di A. Del Noce, II ripensamento della storia italiana in Giacomo Noventa, Firenze, 1973.

Intervista a Nicola Del Corno e Sara Spreafico realizzata da Carlo De Maria

Le due anime

Per Andrea Caffi il socialismo era uguaglianza, libertà, diritti, ma anche felicità; un uomo vissuto tra due secoli e tra tanti paesi, forgiato dalla cultura dell’illuminismo francese, ma anche dal populismo russo, in cui il razionalismo conviveva con la solidarietà per gli umili. Intervista a Nicola Del Corno e Sara Spreafico.

Sara Spreafico, saggista e giornalista radiofonica, ha curato recentemente l’antologia Andrea Caffi, Scritti scelti di un socialista libertario, pubblicata dalle edizioni Biblion di Milano (www.biblionedizioni.it), con una prefazione di Nicola Del Corno, storico dellUniversità di Milano e condirettore della giovane collana editoriale Storia, politica, società”, che ospita l’antologia.

\r

\r Andrea Caffi considerava il socialismo come la realizzazione più alta nella storia dell’umanità, e mi sembra significativo il fatto che si pensi di ripubblicarlo e di rileggerlo proprio in un periodo (politico e culturale) nel quale tutta la tradizione socialista pare dimenticata e rimossa. Parliamo, allora, sia di inattualità di Caffi che di un ritorno a Caffi?

\r Del Corno. Di Caffi mi ha colpito soprattutto una cosa, la sua spiegazione del socialismo. Caffi afferma che il socialismo è uguaglianza, libertà, diritti per tutti, ma poi dice anche che il socialismo è felicità. Ecco, questa dimensione prettamente esistenziale della felicità è ciò che mi ha spinto a interessarmi a Caffi, ad avvicinarmi a lui, a considerarlo un grandissimo autore che, in qualche modo, dovrebbe essere riletto, ristudiato, rivisto, ripreso in considerazione anche dai nostri partiti della sinistra.

\r Credo, infatti, debba esistere una sorta di -chiamiamolo così- diritto (propensione o volontà) alla felicità. E felicità, oggi, cosa significa?

\r A mio modo di vedere che ciascuno possa autodeterminare la propria vita come meglio crede, che un giovane possa trovare un lavoro dignitoso, con un salario e con tutele sufficienti, per riuscire a gestire la propria esistenza. E quindi andare a vivere con chi vuole, appartenga oppure no allo stesso sesso; trovare una casa e poterla mantenere, non ridursi a essere un “bamboccione” fino all’età in cui non si deve più esserlo.

\r La felicità, dunque, è qui intesa come possibilità di scegliere in modo libero e responsabile la traiettoria della propria vita. Il socialismo deve far proprio questo diritto ad autodeterminare la propria esistenza, cambiandola, modificandola e così via.

\r Ecco, Caffi insiste su questo argomento, per tale ragione, a mio parere, se egli è inattuale per tantissimi aspetti (forse soprattutto per la carica utopica, visto che le utopie non godono di buona salute ai giorni nostri), però è attualissimo quando rivendica questa possibilità, che ciascuno di noi ha, di essere felice.

\r Spreafico. Devo dire che non condivido il termine “inattuale”. Proprio negli ultimi tempi, ad esempio, il principio dell’autodeterminazione è stato ribadito da alcune persone, e in particolare mi riferisco al caso di Eluana Englaro, al padre di Eluana, dove invece una forza, il governo, ha cercato di negare ad un individuo la legittima possibilità di scegliere per sé. Ho trovato in Caffi un monito importante: quello di ricordare a tutti che le persone -e lo ripeto spesso nell’introduzione- vanno considerate a tutto tondo, nella pienezza della loro umanità. Per questioni anagrafiche (ho 26 anni) ho cominciato solo recentemente a interessarmi al dibattito politico e mi sono, comunque, resa conto che Caffi è in grado di dare delle parole, delle chiavi di lettura, molto interessanti, attualissime, per interpretare quanto accade oggi.

\r Questa mattina, mentre camminavo per venire qui, sono passata in Piazza Duomo, dove proprio in quel momento transitava una camionetta dell’esercito. Caffi, ispirandosi a Platone, sosteneva che nella società ideale la forza pubblica (che egli comunque riteneva necessaria) doveva essere relegata fuori dalla città.

\r La presenza dei militari dentro la città sta, chiaramente, a significare che la società non funziona, che essa si deve difendere da se stessa, poiché crede di aver trovato un nemico dentro di sé.

\r Riflettendo, poi, sulle questioni economiche, Caffi metteva in guardia sul dirigismo dello Stato e sul crescente interventismo nei tempi di crisi. Viviamo anche noi, in questo momento, una crisi economica che dicono sia molto forte, e cominciano già a delinearsi alcuni interventi dei governi che tendono a influenzare sempre più la vita dei singoli. Caffi mi ha aiutato a capire che non devo -io, come persona formata, autonoma, indipendente- per forza accettare la logica secondo la quale c’è sempre qualcuno o qualcosa di più autorevole di me su di me, ma che è giusto rivendicare il diritto, mio e di ognuno, a non farsi muovere, spostare da altri come pedine. Per me, dunque, Caffi è attualissimo; l’inattualità è nell’utopia, ma in qualunque epoca l’utopia è inattuale perché lontana, difficilissima da costruire.

\r Per certi versi, Andrea Caffi sembra un uomo dell’Ottocento, mi riferisco in particolare a una formazione culturale che credeva ancora possibile l’enciclopedismo (Caffi è filosofo, storico, sociologo e molte altre cose), nello stesso tempo è un uomo pienamente immerso nel suo secolo, nel Novecento: ne vive le guerre, le rivoluzioni, le fughe, gli esilii…

\r Spreafico. Oltre a essere un uomo tra due secoli, è un uomo tra più nazioni, è italiano, ma è anche russo, vive in Francia e in Germania. Nasce, nel 1887, a San Pietroburgo da genitori italiani. In quella città, dove frequenta la scuola riformata, avviene la sua prima formazione culturale. Fin da giovanissimo comincia a conoscere il “sottosuolo rivoluzionario” dell’epoca (come lo ama definire), incontra i menscevichi, che lui ritiene essere la parte migliore dei rivoluzionari, più umani e meno inquadrati dei bolscevichi. Più tardi, dopo aver trascorso alcuni mesi in carcere, è il 1907, Caffi scappa dalla Russia e raggiunge la Germania, dove incontra altri italiani, frequenta l’università di Berlino alla scuola di Georg Simmel. Dalla Germania comincia, poi, letteralmente, a camminare per l’Europa: i suoi amici lo ricordano così, Caffi è proprio un camminatore. Cammina molto e si sposta spesso camminando: torna in Italia, nella Firenze della “Voce” di Prezzolini, va in Francia, attraversa quasi tutta l’Europa: è un flâneur.

\r A Parigi lo coglie lo scoppio della Prima guerra mondiale e fra lo stupore dei suoi conoscenti decide di arruolarsi. Terminata la guerra, il “Corriere della Sera” gli offre l’incarico di corrispondente da Costantinopoli. Per lui è soprattutto l’occasione di tornare verso Est. E quando giunge a Costantinopoli, decide di fare ritorno in Russia, per l’attrazione e per l’amore che ha nei confronti di quel paese, dove però sta prendendo forma la dittatura di Stalin.

\r Trova un impiego presso il ministero degli esteri, dove però comincia a fare cose poco ortodosse per non dire illegali, come produrre dei documenti per chi vuole fuggire dal regime. Rimandato in Italia, è il 1923, incappa nel fascismo e non può anche qui fare a meno di impegnarsi nella propaganda contro il regime nascente: diffonde materiale a stampa sarcastico, critico. Mussolini è “lo sparafucile romagnolo”. E’ ancora in Italia nei mesi dell’omicidio Matteotti, ma più tardi è costretto a lasciare il paese -perché sotto minaccia di arresto- e a riparare in Francia.

\r A Parigi conosce Rosselli e il gruppo di “Giustizia e Libertà”, con i quali comincia a collaborare pur non approvandone, in tutto e per tutto, le modalità di azione antifascista. Ritiene, infatti, che Rosselli abbia un’idea vecchia di antifascismo, nella quale gli sembra di cogliere dei residui culturali che risalgono alla democrazia liberale dell’Italia giolittiana.

\r Mentre scrive di antifascismo con l’obiettivo di svecchiarlo e di liberarlo da certa retorica risorgimentale, lavora in maniera occasionale, collaborando a riviste e vivendo -come racconta chi l’ha conosciuto- in modo decisamente strano. Caffi dà l’impressione di lavorare giusto quanto basta per guadagnare quello che gli serve per mangiare. Spesso altrimenti ripudia il lavoro.

\r Nel 1940, da Parigi scende verso il Sud della Francia e raggiunge gli anarchici a Toulouse, dove viene torturato dal regime di Vichy, finché un clochard suo amico lo scagiona di fronte alle milizie francesi. Muore a Parigi di una malattia incurabile il 22 luglio del 1955. E’ sepolto a Père-Lachaise.

\r Del Corno. A questo ritratto posso aggiungere una riflessione che non è mia, ma di Alberto Moravia, che la svolge nell’introduzione alla prima biografia di Caffi, quella scritta da Gino Bianco.

\r Moravia parla di un uomo di due secoli, con diverse culture, diversi “padri spirituali”, e coglie bene nel segno quando dice che delle due anime caffiane, una era quella illuminista francese, seguendo la quale cercava di spiegare il mondo partendo sempre e comunque dal dubbio, e l’altra era quella del populismo russo, che lo conduceva, invece, a solidarizzare in ogni modo coi ceti subalterni. Moravia ha ragione quando puntualizza questa duplice ispirazione nel pensiero e nell’azione di Caffi. Uomo dell’Ottocento, ma direi quasi del tardo Settecento, vista la derivazione illuminista e la costante propensione a studiare, a investigare, a conservare l’approccio enciclopedico di cui parlavi.

\r Il suo razionalismo convive, però, con la costante solidarietà per gli umili e per gli oppressi, che lo porterà a conoscere, ad esempio, il clochard che gli salvò la vita. Essere amico degli ultimi, come vedi, può servire anche nella vita di tutti i giorni!

\r La produzione scritta di Caffi non è esorbitante (tanti intellettuali impegnati hanno scritto molto più di Caffi), ma quello che risulta estremamente interessante è la persona di Caffi, il camminatore, il girovago. È molto azzeccata una osservazione di Gino Bianco che sottolineò come di Caffi convenga parlare come persona, dal punto di vista biografico, ancora prima che come autore. Cosa ne pensate?

\r Spreafico. Bianco ha ragione quando dice che bisogna parlare di Caffi come persona. Del resto, serve poco teorizzare il socialismo, se non lo si pratica, e la vita di Caffi è la testimonianza di un vero socialista, che ha vissuto la sua esistenza a tutto tondo. Caffi è quello che parla coi clochard, che cammina per l’Europa, che studia di tutto.

\r Del Corno. C’è un altro tema rilevante messo in luce da Bianco, quello della “filia”, dell’amicizia, dell’empatia e della solidarietà reciproca. Infatti il socialismo di Caffi è da intendersi in senso etimologico: viene dalla società. Come ha messo in luce Sara, non sono tanto le letture, i classici del marxismo, o dei revisori di Marx, degli ortodossi o degli eterodossi del marxismo a creare il suo socialismo. Il suo socialismo nasce sul campo, dai rapporti di empatia e “filia” che lui riesce a creare con chi si trova di fronte.

\r Ancora una volta mi vengono in mente le pagine di Moravia che ricorda il suo incontro con Caffi e di come viene conquistato da questa stranissima figura (stranissima anche da un punto di vista fisico). Moravia fa una descrizione molto divertente di come si presentava il personaggio Caffi, una figura che destava subito simpatia al primo incontro, capace di mettere sempre a proprio agio gli interlocutori.

\r Spreafico. Una nota di colore. Caffi lasciava straniti i suoi interlocutori anche per un altro aspetto: si presentava di solito in abiti molto trasandati, ma con acqua di colonia spruzzata in ogni dove. Pare non avesse mai una lira, ma quei due soldi che aveva li usava, evidentemente, per comprarsi l’acqua di colonia!

\r Per lungo tempo, se si esclude la rivista “Tempo presente” di Chiaromonte e Silone, quasi nessuno ha parlato di Caffi. Negli ultimi vent’anni, invece, la sua figura è ricomparsa nel dibattito culturale, anche se non ancora sufficientemente…

\r Del Corno. Lo stesso Rosselli fino a qualche anno fa non è che se lo filassero poi molto!

\r In generale, si nota una riscoperta di percorsi politici e biografici di intellettuali critici, collocati fuori oppure ai margini dei partiti tradizionali, che del resto sono crollati …

\r Del Corno. La tua osservazione è sicuramente sensata, molto giusta. Fino a poco tempo fa non c’era spazio per gli eretici e anche lo stesso Rosselli era stato posto nel dimenticatoio. È tornato in auge agli inizi del Duemila perché un bel giorno Veltroni ha scoperto che c’era anche Rosselli, salvo poi dimenticarsene quando è comparso Obama!

\r E’ davvero così, agli inizi del Duemila sembrava fossimo tutti rosselliani, così come intorno alla metà degli anni Novanta eravamo tutti tocquevilliani. Un centro studi dei Ds era intitolato a Tocqueville, che era sicuramente un liberale ma anche un conservatore. Insomma, la cosa mi sembrò eccessiva. Per tornare al punto dell’intervista, se -per usare un brutto termine- verranno sdoganati gli “eretici”, sarà solo un bene. A mio parere, in realtà, la scomparsa dei partiti di massa è un aspetto negativo, perché toglie il coinvolgimento della politica, basta vedere come sono strutturati, oggi, i due principali schieramenti politici: manca una classe dirigente locale, manca una formazione politica e, così, pochi leader tengono in pugno tutto il potere decisionale. Questo è un fatto negativo. Ma se tale cambiamento porterà, come è auspicabile che porti, anche all’emergere degli “eretici” e alla fine dei legami tra interessi partitici e studi di storia politica (per cui, fino a poco tempo fa, ciascuno studiava solo la storia dei propri partiti), allora si sarà raggiunto almeno un risultato positivo.

\r Certo, pensare che Caffi diventerà protagonista del dibattito politico degli anni a venire mi sembra azzardato. Vediamo come andrà a finire, speriamo che i leader della sinistra si rileggano Caffi, lo studino, lo facciano conoscere, ma temo invece che saremo sempre in pochi a leggerlo!

\r Spreafico. E’ difficile che Caffi possa influenzare un partito, un movimento, però può influenzare le persone e, ad esempio, gli studenti di Nicola che lo leggono per preparare un esame. Possono nascere delle idee, delle buone indicazioni, che aiutino a formare le coscienze.

\r Del Corno.

\r La nota di Sara sulle possibili suggestioni di Caffi è vera. Ho notato, infatti, che quando a lezione leggo Caffi, Rosselli, Gobetti, Berneri, vedo che da parte degli studenti c’è ricezione, li vedo partecipi, prendono appunti, agli esami rimangono colpiti da ciò che leggono, dicono: “Ah beh, però settant’anni fa c’era qualcuno che diceva queste cose!”. Li sentono molto attuali e suscitano in loro una serie di riflessioni, poi magari vengono a chiedermi la tesi su uno di questi intellettuali. Speriamo che queste riflessioni non siano contingenti agli esami, alla tesi, ma che rimanga qualcosa, per cui a distanza di dieci, venti, trent’anni, di fronte a particolari eventi della vita, si ricorderanno: ah ma io per quell’esame ho studiato Caffi, che diceva queste cose e non aveva torto… Avremmo vinto, se così fosse, la missione e la scommessa di aver riproposto Caffi.

r Credo che autori come Caffi oggi possano dirci due cose. Primo, regalarci una lezione di autonomia e di indipendenza rispetto a partiti e “chiese”. Secondo, ricordarci che un tempo, tra Otto e Novecento, la cultura della sinistra era molto più creativa, varia e plurale di quella prevalentemente autoritaria e statalista che poi si è affermata nel corso del XX secolo.

\r Del Corno. Sì, c’erano tanti socialismi, tante sinistre, c’era una discussione più aperta, più libera, più franca, più colta probabilmente. Non c’era quella ricerca spasmodica del consenso per cui si tende a unificare, a trovare slogan, parole d’ordine, con tentativi esasperati di sintesi, per cui chi è eretico, ovviamente, rimane fuori ed escluso dalle formule preconfezionate.

\r (a cura di Carlo De Maria)

da:  http://www.unacitta.it/newsite/

Umanesimo socialista

a cura di Paolo Repetto, 30 ottobre 2018

Umanesimo socialista

Quell’umanesimo socialista

Il senso della lotta

Le due anime

L’associazione

Capitalismo e libertà

Nella foto in copertina, il piedi: Heinrich Blücher, Hannah Arendt, Dwight Macdonald, Gloria Lanier; seduti: Nicola Chiaromonte, Mary McCarthy, Robert Lowell, 1966

Intervista a Pietro Adamo

realizzata da Franco Melandri

Quell’umanesimo socialista…

 

L’esperienza e la riflessione preziosa di quel gruppo di pensatori militanti, antifascisti radicali, come Rosselli, Caffi, Berneri, Chiaromonte, che videro anzitempo la natura dei due totalitarismi e rifiutarono il rivoluzionarismo finalista, in nome di una sperimentazione di società aperte, libere, in cui anche il mercato, liberato dall’orrore capitalistico, diventasse fattore di liberazione e di libertà. Intervista a Pietro Adamo.

Pietro Adamo, storico delle idee, si occupa principalmente della cultura politica del protestantesimo e della tradizione libertaria. Fra i suoi libri: Il dio dei blasfemi. Anarchici e libertini nella rivoluzione inglese (ed. Unicopli, 1993); La libertà dei santi. Fallibilismo e tolleranza nella rivoluzione inglese (ed. Franco Angeli, 1998); La città degli idoli. Politica e religione in Inghilterra 1524-1572 (ed. Unicopli, 1999). Ha recentemente curato la pubblicazione di Anarchia e società aperta. Scritti editi e inediti di Camillo Berneri (ed. M&B Publishing, 2001).

\r

\r Uno dei punti di crisi della sinistra attuale è senza dubbio quello della cultura politica. Tuttavia una recente serie di studi su personaggi come Carlo Rosselli, Andrea Caffi, Francesco Saverio Merlino, Camillo Berneri, Nicola Chiaromonte, per molto tempo tenuti ai margini dalla sinistra stessa perché in vario modo considerati ‘eretici’, fa pensare che siamo all’inizio di una ricerca dopo anni di sostanziale apatia…

\r Il motivo per cui negli anni ‘90 si sono intensificati gli studi sulle correnti ‘eretiche’ della sinistra (cioè del campo socialista, libertario, liberal-socialista) è da far risalire al crollo del Muro di Berlino e alla fine dell’Unione Sovietica. Dopo quegli eventi, infatti, non c’è più alcuna possibilità di pensare il socialismo in termini marxisti o marxisteggianti, per cui, se non ci si vuole appiattire sul capitalismo attualmente trionfante, è necessario cercare nella storia e nella cultura della sinistra dei ‘padri nobili’, dei primogenitori rispettabili che non siano stati coinvolti con il socialismo di stato in versione totalitaria. Questo è il motivo per cui, a proposito e a sproposito, oggi tutti, da D’Alema a Veltroni a Amato, citano Rosselli, Gobetti o Chiaromonte. Detto questo, tuttavia, bisogna anche aggiungere che sia a livello prettamente teorico sia a livello politico il rifarsi a questi ‘padri nobili’ non implica, né può implicare, un’adesione alle loro indicazioni. Se infatti nelle elaborazioni di Caffi, Chiaromonte, Berneri, Rosselli, eccetera, si volessero trovare delle soluzioni bell’e pronte per i problemi dell’oggi si farebbe un errore clamoroso, si andrebbe fuori bersaglio. Sono infatti passati settant’anni dalle riflessioni e dagli scritti di questi autori, la società è cambiata, l’universo mentale della gente è cambiato, per cui, per fare un esempio, un suggerimento come quello rosselliano circa un’economia ‘a due motori’ -pubblico e privato- presa in sé si rivela semplicistica, già superata dai tempi. In Italia, nel dopoguerra, tale suggerimento venne in parte accolto ed i problemi che oggi dobbiamo affrontare derivano proprio dall’intreccio che si è creato fra i due motori di questa economia: sappiamo bene che essi si sono trasformati da un lato nel protezionismo occulto dell’impresa privata, dall’altro nella crescita esponenziale della burocrazia e dell’intervento statale nell’economia…

\r La vera ragione per interessarci di questi autori, perciò, non sta tanto nelle loro indicazioni pratiche, quanto nel fatto che rappresentano il tentativo dell’antifascismo radicale di trovare una risposta ai problemi posti dall’ascesa dei totalitarismi continuando a tenere alta la domanda su come sia pensabile e possibile una società libera. Da questo punto di vista questi autori mettono in luce una cultura estremamente ricca, in cui possiamo trovare tantissime cose che si confanno alle nostre aspettative anche se questi settori dell’antifascismo rappresentano un’esperienza ‘saltata’, nel senso che le loro elaborazioni non sono mai entrate non solo nella coscienza politica della nazione, ma neanche nella progettualità di qualche componente politica della sinistra italiana. Per la sinistra l’averli accantonati è stata una grave perdita, perché su molte questioni furono particolarmente acuti e preveggenti. Oggi si parla molto della questione del totalitarismo, ma l’idea che il comunismo fosse un’altra forma di totalitarismo, che fascismo e comunismo fossero due facce della stessa medaglia, nasce proprio in questo ambito, negli anni ‘30.

Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte, Tuluza 1947
Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte

\r È un’idea che non nasce con la Arendt, ma dalla cultura politica di questi militanti. In verità, proprio riguardo al dibattito sul totalitarismo, gli italiani hanno avuto un’importanza non da poco ed è forse possibile vedere proprio in loro una delle radici genealogiche del pensiero della Arendt: negli Stati Uniti la Arendt era collaboratrice di Politics, la rivista di Dwight Macdonald, nella quale sono comparsi scritti di Chiaromonte e Caffi (con Chiaromonte, fra l’altro, la Arendt fu molto amica). Non è del tutto assurdo sostenere che una radice dell’analisi arendtiana del totalitarismo affondi proprio in questo laboratorio. Questi “militanti che pensavano”, secondo me, hanno proposto un nucleo di riflessione intorno alla questione del totalitarismo molto importante e fruttifero, forse più fruttifero del lavoro dei vari scienziati della politica, soprattutto per il tentativo che questi militanti-pensatori compirono di pensare una società libera come frutto di una rivoluzione antifascista. Da questo punto di vista le loro teorizzazioni sono molto interessanti perché sono dei possibili punti di partenza per ripensare i problemi attuali della politica. Il Polo delle Libertà, ad esempio, si è impadronito della parola d’ordine della libertà e presenta, non a torto, il liberismo come una delle principali strategie del vivere libero; dall’altra parte la sinistra si è totalmente amputata la possibilità di discutere delle possibilità di libertà insite in una politica di liberalizzazione e si è arroccata a difesa degli interessi corporativi. Tuttavia, se si va a vedere come pensavano una società libera i vari Berneri, Rosselli, Gobetti, allora ci si accorge che tutti loro valutavano in modo estremamente positivo il liberismo, anche se, naturalmente, lo pensavano in termini eticamente forti, per cui non lo vedevano solo nel liberismo economico in senso stretto, ma come il cemento possibile di una società libera.

\r Il principale difetto del liberismo berlusconiano, invece, sta proprio nell’essere un liberismo che riguarda la sola economia: quando i conservatori italiani parlano di liberismo, infatti, parlano semplicemente e sostanzialmente della libertà degli imprenditori di fare tutto quello che vogliono. Questo, per loro, è il liberismo, mentre quando si parla di altre cose -di diritto di famiglia, di sesso, di droga, eccetera- questo liberismo della destra scompare come neve al sole e viene fuori la faccia vera del conservatorismo autoritario. Lo si vede anche nei presunti portavoce liberali: qualche anno fa Galli della Loggia (cui rispose con sagacia Nadia Urbinati, dalle pagine di Critica liberale) sostenne che lo stato aveva il pieno diritto di controllare il tipo di sostanze che assumevano i suoi cittadini, la qual cosa è quanto di meno liberale, quanto di meno liberista, uno possa mai immaginare.

\r Ma come vedevano in realtà il liberismo questi militanti-pensatori?

\r Va innanzitutto detto che fra i personaggi di cui parliamo c’erano differenze anche profonde, soprattutto dovute alla loro provenienza politica e al pubblico cui si rivolgevano. Così, ad esempio, Berneri rimase per tutta la vita un anarchico e agli anarchici soprattutto si rivolgeva; Rosselli era un socialista, ma anche un liberale, e si rivolgeva agli appartenenti ad entrambe le tradizioni e così via; va anche detto che le loro riflessioni trovarono numerosi punti di contatto e di consonanza. Il caso del liberismo è uno di questi: sostanzialmente lo vedevano tutti in termini etici, cioè come valorizzazione ad oltranza del pluralismo e della differenza, la qual cosa implica la libera sperimentazione come principio integrale che ispira la vita associata; libera sperimentazione che, evidentemente, ha uno dei campi d’applicazione certo nell’economia, ma lo ha anche nella vita sessuale, nella vita associativa, eccetera. L’idea generale era quella di valorizzare le possibilità di sperimentare liberamente ogni tipo di attività umana e all’interno di questo paradigma veniva valorizzata anche l’idea di una libera intrapresa economica. In un periodo in cui i totalitarismi presentavano come ipotesi costruttiva l’idea di uno stato fortissimo, per molti di questi autori la valorizzazione dell’intrapresa economica individuale diventava anche momento di difesa nei confronti dell’invasività dello stato.

\r Una delle cose che colpiscono è il fatto che questo gruppo di persone di origini e appartenenze politiche diverse, trovasse necessaria una discussione in qualche modo comune: Berneri discuteva con Rosselli e aveva collaborato con Gobetti; Caffi e Chiaromonte erano membri di Giustizia e libertà, ma anche vicini a posizioni libertarie…

\r Quando noi pensiamo a questi gruppi, dobbiamo avere presente un fenomeno, cioè l’emigrazione antifascista in Francia, soprattutto a Parigi, dove nella prima metà degli anni ‘30 convergono buona parte degli intellettuali giellisti, buona parte degli anarchici, Berneri in particolare, ma dove finiscono anche dei repubblicani radicali come Schiavetti e Montasini, essi pure vicini alle posizioni di Berneri, e la cosiddetta ‘ala libertaria’ del Partito Socialista, e cioè gente come Alberto Jacometti e, fino a un certo punto, Angelo Tasca. In questo ambiente di fuoriusciti, in cui tutti conoscevano sostanzialmente tutti, al di là delle diverse appartenenze politiche, a mio giudizio si crea una sorta di cultura antifascista radicale, nel senso di una cultura antifascista che mira non solo alla rivoluzione in Italia, ma ad un completo rovesciamento dello stile di vita politico prefascista. Gente come Rosselli, Chiaromonte, Berneri, infatti, non solo si proponeva di abbattere il fascismo in Italia, ma vedeva in questo il passaggio necessario per costruire un’altra Italia. Come dicevo, ad unificare questi militanti-pensatori era la domanda su quale potesse essere una società libera -più o meno socialista, più o meno liberista a seconda delle convinzioni individuali- scartando quelle opzioni che, all’epoca, sembravano condurre necessariamente verso il totalitarismo. Tutto questo implicava non solo scartare il comunismo in senso stretto, ma anche qualsiasi tipo di orizzonte finalistico, cioè l’idea che la società libera sarebbe stata una società perfetta, oltre la quale non sarebbe stato più possibile andare.

\r Per quanto riguarda poi la figura di Berneri, che come accennavo prima si confrontava con gli anarchici e si considerò anarchico per tutta la vita, a tutto questo si aggiungeva anche la necessità di ripensare in toto la politica -che invece gli anarchici rifiutavano e rifiutano- vedendone le possibili estrinsecazioni in chiave libertaria. Il ripensamento della politica, comunque, è un altro tratto unificante di questo variegato gruppo, e le risposte che essi dettero furono altrettanto variegate, andando dagli abbozzi di una democrazia libertaria, fondata sulla libera federazione di comuni, sui sindacati e sui consigli operai, elaborata da Berneri (ma che trovava in linea di massima concorde Rosselli), alle proposte di democrazia liberale conflittuale, mutuate da Gobetti, fatte da alcuni esponenti di Giustizia e libertà.

\r Questi temi rappresentavano un tratto d’unione perché buona parte di questi intellettuali avevano radici comuni, essenzialmente rappresentate da due personaggi: Piero Gobetti e Gaetano Salvemini, per molti di loro punti di riferimento imprescindibili. Berneri, ad esempio, certamente fu molto stimolato da Gobetti -che, non va dimenticato, morì nel ‘26, cioè appena all’inizio della forte emigrazione antifascista-, ma il suo imprescindibile punto di partenza fu sicuramente Salvemini, che fu un riferimento importante per lo stesso Rosselli. Era questo ‘universo culturale’ ad unificarli veramente: Ernesto Rossi, nonostante fosse incarcerato per quasi tutto il periodo fascista, in qualche modo, dal carcere, partecipa a questa temperie culturale proprio in virtù del presupposto salveminiano che lo unisce agli altri. E’ per questo che egli, pur isolato in carcere, finisce per pensare sostanzialmente quello che Berneri, Caffi, Rosselli o Montasini o Jacometti pensano nell’esilio francese.

\r C’era, insomma, una sorta di percorso comune dato dalle circostanze.

\r Ma questi intellettuali militanti come si ponevano i problemi del capitalismo, dell’anticapitalismo, del socialismo?

\r Questi autori sono quasi tutti accomunati da una feroce sensibilità anticapitalistica, anche se bisogna chiedersi che cosa fosse per loro il capitalismo, che cosa intendessero per capitalismo. A ben guardare, la maggior parte di loro intendeva il capitalismo come una perversione di fondo dei valori del mercato. In molti di essi a me pare di cogliere il tentativo di operare una distinzione tra il capitalismo realmente esistente e una società di mercato ideale. Alcuni di essi teorizzarono tale distinzione in modo specifico, cioè sostennero molto semplicemente che è possibile pensare a una società di mercato senza che questa necessariamente finisca nell’orrore capitalistico.

\r Certamente quello che quasi tutti criticano nel capitalismo è la perversione del mercato, cioè la trasformazione dei rapporti umani sulla base di rapporti economici, analisi non lontanissima da quella marxista classica. Ma accanto a questa c’è anche la valorizzazione di un certo tipo di eredità liberale, per cui il mercato viene immaginato essenzialmente come il risultato di una libera contrattazione tra individui che scelgono. Sono concezioni che troviamo in Berneri, in Rosselli e, senza arrivare a teorizzare il socialismo, persino in Gobetti: grande avversione per il capitalismo così come esso si è sviluppato e, di contro, un’ipotesi di lavoro che si muove attorno al problema della società giusta e libera, che per molti di loro voleva appunto dire socialismo.

\r A proposito della concezione che essi avevano del socialismo, però, occorre fare la stessa distinzione fatta a proposito del capitalismo, visto che in quasi tutti, da Berneri a Rosselli, da Caffi a Chiaromonte, quello che viene chiarito a fondo è che l’unico socialismo accettabile è un socialismo chiaramente libertario, che per loro, detto in soldoni, significava la necessità che venisse in qualche modo garantito al produttore il controllo del suo prodotto.

\r In questa ottica Berneri recupererà anche l’esperienza dei consigli operai, emersi sia all’inizio della rivoluzione russa sia nella brevissima esperienza della Repubblica dei Consigli di Baviera del 1919, sia nell’occupazione delle fabbriche italiane, nei primi anni ‘20. In sostanza, comunque, il modo in cui tutti loro pensavano il socialismo era radicalmente diverso dal modo in cui lo pensava il marxismo (per il quale il socialismo, fatto coincidere con la statalizzazione dei mezzi di produzione e scambio, era il punto d’arrivo reso necessario dallo sviluppo della stessa società capitalistica).

\r Essi lo vedevano non tanto come una precisa serie di soluzioni politico-economiche, ma soprattutto come una sorta di sovrastruttura umanistica della società. Certo essi pensavano anche a forme di socializzazione economica, ma quando parlano di socialismo si riferiscono essenzialmente all’idea di una società che si pensa come tale, cioè ad una società fondata su una serie di vincoli umanistici precisi, in particolare il riconoscimento della dignità di ogni persona, del singolo individuo.

\r Questa, comunque, è una riflessione che negli anni ‘30 non appartenne solo agli italiani. Un autore che rifletté su questi problemi fu Emmanuel Mounier, il filosofo francese teorico del personalismo, molto spesso sottovalutato, che arrivò a teorizzare un socialismo umanistico di questo tipo, con grandi sfumature libertarie e antistatalistiche. Non a caso scrisse un saggio, Anarchia e personalismo, in cui c’è una riflessione sulla tradizione anarchica e sull’utilità che questa può avere proprio per un socialismo di questo genere.

\r La visione che del socialismo avevano gli antifascisti radicali, pur nelle diverse versioni, aveva quindi degli elementi di collettivismo, ma di un collettivismo non statalistico; un collettivismo che doveva essere il prodotto della libertà di associazione e, contemporaneamente, un’ipotesi umanistica sulla struttura della società. Considerando tutto questo, perciò, mi pare che, in verità, la contrapposizione fra socialismo e capitalismo operata da questi pensatori sia più che altro una contrapposizione etica, non una contrapposizione specificamente relativa agli strumenti dell’economia.

\r Dicevi prima che un altro elemento che accomuna questi intellettuali è il loro abbandono di ogni prospettiva finalistica e, quindi, dell’idea di rivoluzione intesa come fatto palingenetico…

\r Tutti loro, in verità, non superarono affatto il dilemma della rivoluzione, nel senso che tutti pensavano all’Italia libera dal fascismo come al frutto di una rivoluzione che doveva essere contemporaneamente antifascista e antigiolittiana, cioè una rivoluzione che spazzasse via radicalmente anche il liberalismo conservatore che proprio nel giolittismo si era incarnato. In questo senso, perciò, tutti loro continuarono comunque a pensare ad una frattura decisiva nella storia, una frattura che, in qualche modo, doveva azzerare, in tutto o in parte, quello che c’era stato in precedenza.

\r Nel loro pensiero, quindi, resiste questo mito della rivoluzione come atto fondativo, tant’è che il problema politico immediato che si ponevano era cosa fare per avere una rivoluzione in Italia. Tuttavia è anche vero che il loro modo d’immaginare la fattura rivoluzionaria era assai diverso da quello che si era affermato nell’800.

\r La maggior parte dei pensatori ottocenteschi di area socialista, fossero essi marxisti, anarchici o socialdemocratici, infatti, vedeva la rivoluzione come un evento di tipo decisamente millenaristico, cioè come il fatto che non solo apriva le porte di un mondo nuovo, ma anche di un mondo finale.

\r Per loro, cioè, la rivoluzione era l’atto che doveva porre fine a tutte le altre rivoluzioni e alla necessità della politica come confronto fra diversi interessi e visioni del mondo. Al contrario, soprattutto la riflessione di Berneri, Rosselli e di molti giellisti, tenderà a concepire la rivoluzione certo come evento che apre una nuova era, ma un’era che non viene affatto vista come la società perfetta, la società finale, il paradiso sulla terra, bensì come un’era in cui ci sarà la possibilità di ripensare a fondo i problemi della politica, dello stato e dell’economia, sperimentando le soluzioni più diverse. E’ in questa prospettiva che quasi tutti loro, in un modo o nell’altro, accetteranno quello che io, prendendo a prestito un’espressione cara agli anarchici, chiamo il paradigma della ‘libera sperimentazione’. Questi intellettuali, cioè, penseranno alla società libera come ad una società in cui il conflitto e l’interazione fra le diverse ipotesi di associazione economica, politica, sociale, non sarà affatto risolto, ma sarà un farsi dinamico. Penseranno quindi alla società socialista non come ‘società finale’, ma come una società che si è messa sulla buona strada, in cui però sempre resta ancora molto lavoro da fare; una società che è uno stadio di un più generale movimento di progresso e non lo stato finale di questo stesso progresso.

\r E’ all’interno di questo paradigma che il problema della politica, delle istituzioni e dello stato viene ripensato. C’è in tutti loro, in particolare in Rosselli, Berneri, Caffi, una profonda sfiducia nei confronti dello stato moderno e della democrazia rappresentativa, almeno per come essa si era realizzata prima del fascismo e del nazismo.

\r Lo stato e le istituzioni vengono quindi ripensate come il quadro di riferimento generale che da un lato garantisce una serie di libertà personali e collettive, mentre, dall’altro, è lo spazio all’interno del quale si sviluppa la dialettica fra le associazioni cooperative, i sindacati, i comuni, a loro volta visti come il vero centro della vita e della partecipazione democratica. In tutti questi intellettuali permane poi, pur senza alcuna mitizzazione (proprio Berneri fu autore di L’operaiolatria, un saggio radicalmente critico delle concezioni operaiste), la fiducia nelle capacità popolari e la convinzione che la partecipazione popolare sia non solo utile ma necessaria. E’ per questo che essi sviluppano un’idea della sovranità -cioè dell’elemento ‘sorgivo’ dello stato, che ne determina poi anche la natura specifica- che fa perno sul decentramento, per cui la sovranità non si accentra in un singolo organismo, ma, al contrario, va posta in una rete di relazioni sempre in divenire tra le istituzioni, le associazioni e i cittadini.

\r Berneri, che anche per la sua storia personale è quello che si confronta più radicalmente con la tradizione rivoluzionaria e con questi problemi, sottolinea la necessità, la non eliminabilità, della politica intesa non in senso funzionale, ma proprio in senso forte, cioè appunto come confronto e scontro fra diversi interessi e diverse visioni del mondo. Tutto questo lo porta, per esempio, a sottolineare la diversità costitutiva che esiste fra istituzioni fra loro coordinate e governo, sostenendo che quest’ultimo, in quanto sede centralizzata di decisione, si può abolire, mentre non si può abolire l’elemento istituzionale all’interno del quale, reticolarmente, anche la funzione decisionale del governo può essere diluita. Questa concezione è ovviamente assai diversa da quella dello stato-nazione ottocentesco, nel quale non solo governo e istituzioni finiscono per coincidere, ma il governo è l’elemento di direzione di una società in sé considerata sostanzialmente informe.

\r Dicevamo all’inizio che queste teorizzazioni e riflessioni sono sempre rimaste marginali nella cultura politica della sinistra italiana, eppure personaggi come Chiaromonte e Silone anche nel dopoguerra fondarono riviste, continuarono a partecipare al dibattito politico…

\r Innanzitutto va detto che la sinistra italiana, a parte Giustizia e libertà prima e, almeno parzialmente, il Partito d’Azione poi, osteggiò non poco questo tipo di riflessioni. I comunisti, ovviamente, non erano minimamente interessati, visto che la loro fiducia nel socialismo alla sovietica era, almeno sino alla svolta di Salerno, granitica e comunque, anche dopo la svolta di Salerno, la loro impostazione rimase decisamente marxistica, quindi molto lontana dall’’agnosticismo gnoseologico’, per usare un’espressione di Berneri, dei pensatori di cui stiamo parlando. La maggioranza del Partito Socialista, per quanto non ignorasse queste riflessioni, invece, finì per seguire Nenni e Saragat, per i quali, nonostante i loro dubbi, alla fine ‘socialismo’ voleva dire socialismo di stato.

\r Lungo tutto il corso degli anni ‘30, anzi, Nenni difenderà pervicacemente l’idea del socialismo di stato, addirittura difenderà l’idea di un socialismo che egli stesso chiamò ‘autoritario’ proprio per contrapporlo alle concezioni dei giellisti, dei quali diceva che erano dei libertari anarchici, non dei socialisti. In questo contesto il fallimento, nel dopoguerra, dell’azionismo significò anche il fallimento di queste opzioni etiche, politiche ed economiche, nonostante personaggi come Chiaromonte non si fossero certo ritirati a vita privata.

\r Proprio Chiaromonte, anzi, fu quello che portò alle loro conclusioni logiche alcune delle riflessioni di cui abbiamo parlato.

\r La svolta che Chiaromonte compì fu di rinunciare completamente ad ogni idea di rivoluzione, anche intesa nel senso in cui la intendevano Berneri o Rosselli, e di pensare alla costruzione di una società libera a partire dall’Occidente per come esso si è via via definito.

\r Il suo fu un percorso che lo accomunò ad un altro gruppo importante ed eretico, cui ho accennato anche precedentemente, cioè il gruppo di radicali americani che ruotava attorno alla rivista Politics e al suo direttore Dwight Macdonald e che comprendeva anche Hannah Arendt e Mary McCarty.

\r Una buona parte di questo gruppo negli anni ‘30 aveva fatto militanza nelle file comuniste e trotzkiste, ma negli anni ‘40 si mise alla ricerca di un radicalismo diverso e via via si orientò sempre più verso prospettive di tipo libertario.

\r Durante la guerra fredda questo gruppo, e con esso Chiaromonte, fece la scelta dell’Occidente, cioè dichiarò apertamente che, di contro ai paesi del socialismo reale, una società libera si poteva costruire a partire dalla configurazione democratica che buona parte dell’Occidente aveva progressivamente assunto. E questo senza bisogno di una rottura rivoluzionaria, ma lavorando sulle sementi liberali e democratiche.

\r La scelta certo non fu indolore, -Caffi, ad esempio, si rifiutò di compiere questo passo, anche se rimase in contatto con Chiaromonte per tutta la vita- ma a me pare sia stata importante proprio perché ci rivela uno dei possibili esiti costruttivi di quell’esperienza, cioè l’accettazione dell’Occidente come ambito nel quale condurre la sperimentazione integrale, senza più pensare ad un taglio netto con il passato, a una rivoluzione che ponga su un terreno nuovo. Anche perché, almeno a partire dalle fondamentali riflessioni di Simone Weil (la prima che pare capire, sin dagli anni ‘30, la natura “mitica” della rivoluzione), della rivoluzione si è progressivamente capita la natura d’inganno, cioè il fatto che essa può certo mobilitare le masse, ma troppo spesso, per non dire sempre, predispone anche le condizioni per il prevalere dei totalitarismi. A questo punto, rinunciando all’idea della rivoluzione comunque necessaria, l’umanesimo socialista dei Rosselli, ma anche dei Berneri, si trasforma in un’ipotesi di elaborazione interna all’Occidente. Proprio questo, a mio parere, è lo stimolo più importante che può venire oggi dalle elaborazioni dell’antifascismo radicale degli anni ‘30. Io non credo che oggi, per una sinistra che sia realistica ed abbia abbandonato ogni velleità palingenetica, ci siano altre possibilità. Ogni altra ipotesi mi pare ci porti sul terreno dell’utopia, e pensare l’utopia è una simpatica esperienza personale, una cosa che io auguro a molti, io stesso indulgo in questo stile di pensiero, ma è una questione che ha a che fare con noi stessi, è, come dire, un modo brillante di autogratificarci; insomma, è un’esigenza esistenziale, non una proposta praticabile sul terreno politico.

\r Io allora penso che la sinistra possa ritrovare se stessa all’ombra dell’Occidente, ma anche che l’Occidente debba essere pensato come un modello che permetta costantemente anche rotture violente.

\r E’ un po’ la logica cui si ispirava Thomas Jefferson, uno degli estensori della costituzione americana, che affermava il diritto del popolo di rovesciare il governo quando esso non faccia gli interessi del popolo stesso.

\r L’Occidente a cui penso, quindi, non è certo l’Occidente tranquillo e rilassante del liberalismo conservatore; non è quello in cui tutti si accomodano sotto l’ombrello protettivo di uno stato ‘garantista’, è invece un Occidente che rappresenta una palestra di libera sperimentazione. Per questo ciò che resta da fare -a noi e alla sinistra- è di sforzarci di trasformarlo sempre più in una palestra più ampia e variegata possibile.

Intervista a Gino Bianco

realizzata da Franco Melandri

Intervista a Pietro Polito

realizzata da Enzo Ferrara, Stefania Taranto

Il senso della lotta

 

Come in Piero Gobetti si intrecciarono liberalismo e idea di rivoluzione. Un marxismo valido nel suo materialismo e nell’idea di storia come storia di lotta di classi. Il grande valore democratico del conflitto e della lotta nella società. Intervista a Pietro Polito.

Pietro Polito, curatore dell’archivio Norberto Bobbio, ricercatore per il Centro Studi Piero Gobetti di Torino, ha lavorato a lungo con Norberto Bobbio e curato diverse sue opere, come la riedizione del De Senectute (2006) . Tra i suoi scritti: Piero Gobetti e gli intellettuali del Sud (1995) , L’eresia di Aldo Capitini (2001) , La democrazia alla prova (2005) . Nel 2007 ha pubblicato Il liberalismo di Piero Gobetti, edito dal Centro Studi di Torino. Presso il Centro studi coordina il “Laboratorio della democrazia”, che con un gruppo di giovani ha avviato un percorso di ricerca nella crisi delle democrazie contemporanee. L’intera raccolta della “Rivoluzione Liberale”, rivista storica settimanale diretta da Piero Gobetti e uscita dal novembre 1918 al febbraio 1920, è disponibile in rete all’indirizzo internet http: //www. erasmo. it/liberale/. Piero Gobetti fu protagonista giovanissimo di un periodo storico drammatico per il nostro Paese. L’intensità e la lucidità dei suoi scritti sorprendono ancora, soprattutto se accostati alle leggerezze e alle contraddizioni del presente. Pensi che sia utile rileggere Gobetti oggi? E’ difficile rispondere a questa domanda. Posso dire che nel mio ultimo libro questa possibilità rimane sullo sfondo, ma non è esplorata. Mi è sembrato più interessante provare a fare un percorso a partire da Piero Gobetti, uno degli autori studiati nei nostri seminari, non per arrivare a una riflessione sulla democrazia oggi ma per un ragionamento più storico, per arrivare a considerazioni più generali rispetto a quelle che l’attualità suggerirebbe. Il testo, nato da una serie di lezioni all’Università, si confronta sul rapporto fra Gobetti e la tradizione del pensiero liberale, sul suo liberalismo, che Gobetti stesso chiamò “rivoluzionario”, e sul suo illuminismo. Perché il grande tema di Piero Gobetti non è la democrazia, né la politica in generale, ma è il liberalismo: l’eredità e il rinnovamento del liberalismo. Gobetti è un intellettuale sui generis, che si colloca nella grande tradizione del pensiero liberale italiano ed europeo, ma che da questa tradizione si distacca per una elaborazione politica assolutamente nuova. C’è un articolo fondamentale nel suo cammino, “I miei conti con l’idealismo attuale”, del 16 gennaio del 1923. E’ un articolo di svolta, in cui si confronta con la sua formazione idealistica. Non se ne stacca completamente, però si pone oltre, egli stesso ricostruisce la cronaca della sua formazione intellettuale e dice a un certo punto: “Nel 1920 interruppi le Energie Nove perché sentivo bisogno di maggiore raccoglimento e pensavo a una elaborazione politica assolutamente nuova, le cui linee mi apparvero, di fatto, nel settembre al tempo dell’occupazione delle fabbriche”. Poi aggiunge: “Devo la rinnovazione della mia esperienza salveminiana al movimento dei comunisti torinesi da una parte, vivi di un concreto spirito marxista, dall’altra agli studi sul risorgimento e sulla rivoluzione russa che ero venuto compiendo in quel tempo”. Mi interessava rispondere a questa domanda: che cos’è questa elaborazione politica assolutamente nuova e a cosa allude Gobetti quando evoca quest’idea? La questione è importante. Gli anni di Gobetti vanno dal 1918 al 1925, sette anni incandescenti come incandescente fu la sua biografia. Sono gli anni dall’affermazione della rivoluzione russa mentre in Italia si andava dal socialismo possibile al fascismo reale. Cioè, dalla possibilità che l’Italia, dopo l’occupazione delle fabbriche, vivesse una rivoluzione, si arrivò all’avvento del fascismo e al consolidamento del suo potere. Fu un periodo storico e politico arroventato e complesso, i paragoni col presente possono essere fatti solo con grande precauzione. E poi bisogna saper leggere la realtà nel suo complesso. Nel periodo fra il 1918 e 1920 a Torino era attivo anche l’Ordine Nuovo… [continua]

Intervista a Nicola Del Corno e Sara Spreafico

realizzata da Carlo De Maria

Le due anime

 

Per Andrea Caffi il socialismo era uguaglianza, libertà, diritti, ma anche felicità; un uomo vissuto tra due secoli e tra tanti paesi, forgiato dalla cultura dell’illuminismo francese, ma anche dal populismo russo, in cui il razionalismo conviveva con la solidarietà per gli umili. Intervista a Nicola Del Corno e Sara Spreafico.

Sara Spreafico, saggista e giornalista radiofonica, ha curato recentemente l’antologia Andrea Caffi, Scritti scelti di un socialista libertario, pubblicata dalle edizioni Biblion di Milano (www.biblionedizioni.it), con una prefazione di Nicola Del Corno, storico dell’Università di Milano e condirettore della giovane collana editoriale “Storia, politica, società”, che ospita l’antologia.

\r Andrea Caffi considerava il socialismo come la realizzazione più alta nella storia dell’umanità, e mi sembra significativo il fatto che si pensi di ripubblicarlo e di rileggerlo proprio in un periodo (politico e culturale) nel quale tutta la tradizione socialista pare dimenticata e rimossa. Parliamo, allora, sia di inattualità di Caffi che di un ritorno a Caffi?

\r Del Corno. Di Caffi mi ha colpito soprattutto una cosa, la sua spiegazione del socialismo. Caffi afferma che il socialismo è uguaglianza, libertà, diritti per tutti, ma poi dice anche che il socialismo è felicità. Ecco, questa dimensione prettamente esistenziale della felicità è ciò che mi ha spinto a interessarmi a Caffi, ad avvicinarmi a lui, a considerarlo un grandissimo autore che, in qualche modo, dovrebbe essere riletto, ristudiato, rivisto, ripreso in considerazione anche dai nostri partiti della sinistra.

\r Credo, infatti, debba esistere una sorta di -chiamiamolo così- diritto (propensione o volontà) alla felicità. E felicità, oggi, cosa significa?

\r A mio modo di vedere che ciascuno possa autodeterminare la propria vita come meglio crede, che un giovane possa trovare un lavoro dignitoso, con un salario e con tutele sufficienti, per riuscire a gestire la propria esistenza. E quindi andare a vivere con chi vuole, appartenga oppure no allo stesso sesso; trovare una casa e poterla mantenere, non ridursi a essere un “bamboccione” fino all’età in cui non si deve più esserlo.

\r La felicità, dunque, è qui intesa come possibilità di scegliere in modo libero e responsabile la traiettoria della propria vita. Il socialismo deve far proprio questo diritto ad autodeterminare la propria esistenza, cambiandola, modificandola e così via.

\r Ecco, Caffi insiste su questo argomento, per tale ragione, a mio parere, se egli è inattuale per tantissimi aspetti (forse soprattutto per la carica utopica, visto che le utopie non godono di buona salute ai giorni nostri), però è attualissimo quando rivendica questa possibilità, che ciascuno di noi ha, di essere felice.

\r Spreafico. Devo dire che non condivido il termine “inattuale”. Proprio negli ultimi tempi, ad esempio, il principio dell’autodeterminazione è stato ribadito da alcune persone, e in particolare mi riferisco al caso di Eluana Englaro, al padre di Eluana, dove invece una forza, il governo, ha cercato di negare ad un individuo la legittima possibilità di scegliere per sé. Ho trovato in Caffi un monito importante: quello di ricordare a tutti che le persone -e lo ripeto spesso nell’introduzione- vanno considerate a tutto tondo, nella pienezza della loro umanità. Per questioni anagrafiche (ho 26 anni) ho cominciato solo recentemente a interessarmi al dibattito politico e mi sono, comunque, resa conto che Caffi è in grado di dare delle parole, delle chiavi di lettura, molto interessanti, attualissime, per interpretare quanto accade oggi.

\r Questa mattina, mentre camminavo per venire qui, sono passata in Piazza Duomo, dove proprio in quel momento transitava una camionetta dell’esercito. Caffi, ispirandosi a Platone, sosteneva che nella società ideale la forza pubblica (che egli comunque riteneva necessaria) doveva essere relegata fuori dalla città.

\r La presenza dei militari dentro la città sta, chiaramente, a significare che la società non funziona, che essa si deve difendere da se stessa, poiché crede di aver trovato un nemico dentro di sé.

\r Riflettendo, poi, sulle questioni economiche, Caffi metteva in guardia sul dirigismo dello Stato e sul crescente interventismo nei tempi di crisi. Viviamo anche noi, in questo momento, una crisi economica che dicono sia molto forte, e cominciano già a delinearsi alcuni interventi dei governi che tendono a influenzare sempre più la vita dei singoli. Caffi mi ha aiutato a capire che non devo -io, come persona formata, autonoma, indipendente- per forza accettare la logica secondo la quale c’è sempre qualcuno o qualcosa di più autorevole di me su di me, ma che è giusto rivendicare il diritto, mio e di ognuno, a non farsi muovere, spostare da altri come pedine. Per me, dunque, Caffi è attualissimo; l’inattualità è nell’utopia, ma in qualunque epoca l’utopia è inattuale perché lontana, difficilissima da costruire.

\r Per certi versi, Andrea Caffi sembra un uomo dell’Ottocento, mi riferisco in particolare a una formazione culturale che credeva ancora possibile l’enciclopedismo (Caffi è filosofo, storico, sociologo e molte altre cose), nello stesso tempo è un uomo pienamente immerso nel suo secolo, nel Novecento: ne vive le guerre, le rivoluzioni, le fughe, gli esilii…

\r Spreafico. Oltre a essere un uomo tra due secoli, è un uomo tra più nazioni, è italiano, ma è anche russo, vive in Francia e in Germania. Nasce, nel 1887, a San Pietroburgo da genitori italiani. In quella città, dove frequenta la scuola riformata, avviene la sua prima formazione culturale. Fin da giovanissimo comincia a conoscere il “sottosuolo rivoluzionario” dell’epoca (come lo ama definire), incontra i menscevichi, che lui ritiene essere la parte migliore dei rivoluzionari, più umani e meno inquadrati dei bolscevichi. Più tardi, dopo aver trascorso alcuni mesi in carcere, è il 1907, Caffi scappa dalla Russia e raggiunge la Germania, dove incontra altri italiani, frequenta l’università di Berlino alla scuola di Georg Simmel. Dalla Germania comincia, poi, letteralmente, a camminare per l’Europa: i suoi amici lo ricordano così, Caffi è proprio un camminatore. Cammina molto e si sposta spesso camminando: torna in Italia, nella Firenze della “Voce” di Prezzolini, va in Francia, attraversa quasi tutta l’Europa: è un flâneur.

\r A Parigi lo coglie lo scoppio della Prima guerra mondiale e fra lo stupore dei suoi conoscenti decide di arruolarsi. Terminata la guerra, il “Corriere della Sera” gli offre l’incarico di corrispondente da Costantinopoli. Per lui è soprattutto l’occasione di tornare verso Est. E quando giunge a Costantinopoli, decide di fare ritorno in Russia, per l’attrazione e per l’amore che ha nei confronti di quel paese, dove però sta prendendo forma la dittatura di Stalin.

\r Trova un impiego presso il ministero degli esteri, dove però comincia a fare cose poco ortodosse per non dire illegali, come produrre dei documenti per chi vuole fuggire dal regime. Rimandato in Italia, è il 1923, incappa nel fascismo e non può anche qui fare a meno di impegnarsi nella propaganda contro il regime nascente: diffonde materiale a stampa sarcastico, critico. Mussolini è “lo sparafucile romagnolo”. E’ ancora in Italia nei mesi dell’omicidio Matteotti, ma più tardi è costretto a lasciare il paese -perché sotto minaccia di arresto- e a riparare in Francia.

\r A Parigi conosce Rosselli e il gruppo di “Giustizia e Libertà”, con i quali comincia a collaborare pur non approvandone, in tutto e per tutto, le modalità di azione antifascista. Ritiene, infatti, che Rosselli abbia un’idea vecchia di antifascismo, nella quale gli sembra di cogliere dei residui culturali che risalgono alla democrazia liberale dell’Italia giolittiana.

\r Mentre scrive di antifascismo con l’obiettivo di svecchiarlo e di liberarlo da certa retorica risorgimentale, lavora in maniera occasionale, collaborando a riviste e vivendo -come racconta chi l’ha conosciuto- in modo decisamente strano. Caffi dà l’impressione di lavorare giusto quanto basta per guadagnare quello che gli serve per mangiare. Spesso altrimenti ripudia il lavoro.

\r Nel 1940, da Parigi scende verso il Sud della Francia e raggiunge gli anarchici a Toulouse, dove viene torturato dal regime di Vichy, finché un clochard suo amico lo scagiona di fronte alle milizie francesi. Muore a Parigi di una malattia incurabile il 22 luglio del 1955. E’ sepolto a Père-Lachaise.

\r Del Corno. A questo ritratto posso aggiungere una riflessione che non è mia, ma di Alberto Moravia, che la svolge nell’introduzione alla prima biografia di Caffi, quella scritta da Gino Bianco.

\r Moravia parla di un uomo di due secoli, con diverse culture, diversi “padri spirituali”, e coglie bene nel segno quando dice che delle due anime caffiane, una era quella illuminista francese, seguendo la quale cercava di spiegare il mondo partendo sempre e comunque dal dubbio, e l’altra era quella del populismo russo, che lo conduceva, invece, a solidarizzare in ogni modo coi ceti subalterni. Moravia ha ragione quando puntualizza questa duplice ispirazione nel pensiero e nell’azione di Caffi. Uomo dell’Ottocento, ma direi quasi del tardo Settecento, vista la derivazione illuminista e la costante propensione a studiare, a investigare, a conservare l’approccio enciclopedico di cui parlavi.

\r Il suo razionalismo convive, però, con la costante solidarietà per gli umili e per gli oppressi, che lo porterà a conoscere, ad esempio, il clochard che gli salvò la vita. Essere amico degli ultimi, come vedi, può servire anche nella vita di tutti i giorni!

\r La produzione scritta di Caffi non è esorbitante (tanti intellettuali impegnati hanno scritto molto più di Caffi), ma quello che risulta estremamente interessante è la persona di Caffi, il camminatore, il girovago. È molto azzeccata una osservazione di Gino Bianco che sottolineò come di Caffi convenga parlare come persona, dal punto di vista biografico, ancora prima che come autore. Cosa ne pensate?

\r Spreafico. Bianco ha ragione quando dice che bisogna parlare di Caffi come persona. Del resto, serve poco teorizzare il socialismo, se non lo si pratica, e la vita di Caffi è la testimonianza di un vero socialista, che ha vissuto la sua esistenza a tutto tondo. Caffi è quello che parla coi clochard, che cammina per l’Europa, che studia di tutto.

\r Del Corno. C’è un altro tema rilevante messo in luce da Bianco, quello della “filia”, dell’amicizia, dell’empatia e della solidarietà reciproca. Infatti il socialismo di Caffi è da intendersi in senso etimologico: viene dalla società. Come ha messo in luce Sara, non sono tanto le letture, i classici del marxismo, o dei revisori di Marx, degli ortodossi o degli eterodossi del marxismo a creare il suo socialismo. Il suo socialismo nasce sul campo, dai rapporti di empatia e “filia” che lui riesce a creare con chi si trova di fronte.

\r Ancora una volta mi vengono in mente le pagine di Moravia che ricorda il suo incontro con Caffi e di come viene conquistato da questa stranissima figura (stranissima anche da un punto di vista fisico). Moravia fa una descrizione molto divertente di come si presentava il personaggio Caffi, una figura che destava subito simpatia al primo incontro, capace di mettere sempre a proprio agio gli interlocutori.

\r Spreafico. Una nota di colore. Caffi lasciava straniti i suoi interlocutori anche per un altro aspetto: si presentava di solito in abiti molto trasandati, ma con acqua di colonia spruzzata in ogni dove. Pare non avesse mai una lira, ma quei due soldi che aveva li usava, evidentemente, per comprarsi l’acqua di colonia!

\r Per lungo tempo, se si esclude la rivista “Tempo presente” di Chiaromonte e Silone, quasi nessuno ha parlato di Caffi. Negli ultimi vent’anni, invece, la sua figura è ricomparsa nel dibattito culturale, anche se non ancora sufficientemente…

\r Del Corno. Lo stesso Rosselli fino a qualche anno fa non è che se lo filassero poi molto!

\r In generale, si nota una riscoperta di percorsi politici e biografici di intellettuali critici, collocati fuori oppure ai margini dei partiti tradizionali, che del resto sono crollati …

\r Del Corno. La tua osservazione è sicuramente sensata, molto giusta. Fino a poco tempo fa non c’era spazio per gli eretici e anche lo stesso Rosselli era stato posto nel dimenticatoio. È tornato in auge agli inizi del Duemila perché un bel giorno Veltroni ha scoperto che c’era anche Rosselli, salvo poi dimenticarsene quando è comparso Obama!

\r E’ davvero così, agli inizi del Duemila sembrava fossimo tutti rosselliani, così come intorno alla metà degli anni Novanta eravamo tutti tocquevilliani. Un centro studi dei Ds era intitolato a Tocqueville, che era sicuramente un liberale ma anche un conservatore. Insomma, la cosa mi sembrò eccessiva. Per tornare al punto dell’intervista, se -per usare un brutto termine- verranno sdoganati gli “eretici”, sarà solo un bene. A mio parere, in realtà, la scomparsa dei partiti di massa è un aspetto negativo, perché toglie il coinvolgimento della politica, basta vedere come sono strutturati, oggi, i due principali schieramenti politici: manca una classe dirigente locale, manca una formazione politica e, così, pochi leader tengono in pugno tutto il potere decisionale. Questo è un fatto negativo. Ma se tale cambiamento porterà, come è auspicabile che porti, anche all’emergere degli “eretici” e alla fine dei legami tra interessi partitici e studi di storia politica (per cui, fino a poco tempo fa, ciascuno studiava solo la storia dei propri partiti), allora si sarà raggiunto almeno un risultato positivo.

\r Certo, pensare che Caffi diventerà protagonista del dibattito politico degli anni a venire mi sembra azzardato. Vediamo come andrà a finire, speriamo che i leader della sinistra si rileggano Caffi, lo studino, lo facciano conoscere, ma temo invece che saremo sempre in pochi a leggerlo!

\r Spreafico. E’ difficile che Caffi possa influenzare un partito, un movimento, però può influenzare le persone e, ad esempio, gli studenti di Nicola che lo leggono per preparare un esame. Possono nascere delle idee, delle buone indicazioni, che aiutino a formare le coscienze.

\r Del Corno.

\r La nota di Sara sulle possibili suggestioni di Caffi è vera. Ho notato, infatti, che quando a lezione leggo Caffi, Rosselli, Gobetti, Berneri, vedo che da parte degli studenti c’è ricezione, li vedo partecipi, prendono appunti, agli esami rimangono colpiti da ciò che leggono, dicono: “Ah beh, però settant’anni fa c’era qualcuno che diceva queste cose!”. Li sentono molto attuali e suscitano in loro una serie di riflessioni, poi magari vengono a chiedermi la tesi su uno di questi intellettuali. Speriamo che queste riflessioni non siano contingenti agli esami, alla tesi, ma che rimanga qualcosa, per cui a distanza di dieci, venti, trent’anni, di fronte a particolari eventi della vita, si ricorderanno: ah ma io per quell’esame ho studiato Caffi, che diceva queste cose e non aveva torto… Avremmo vinto, se così fosse, la missione e la scommessa di aver riproposto Caffi.

\r Credo che autori come Caffi oggi possano dirci due cose. Primo, regalarci una lezione di autonomia e di indipendenza rispetto a partiti e “chiese”. Secondo, ricordarci che un tempo, tra Otto e Novecento, la cultura della sinistra era molto più creativa, varia e plurale di quella prevalentemente autoritaria e statalista che poi si è affermata nel corso del XX secolo.

\r Del Corno. Sì, c’erano tanti socialismi, tante sinistre, c’era una discussione più aperta, più libera, più franca, più colta probabilmente. Non c’era quella ricerca spasmodica del consenso per cui si tende a unificare, a trovare slogan, parole d’ordine, con tentativi esasperati di sintesi, per cui chi è eretico, ovviamente, rimane fuori ed escluso dalle formule preconfezionate.

\r (a cura di Carlo De Maria)

Intervista a Carlo De Maria

realizzata da Franco Melandri e Gianni Saporetti

L’associazione

La figura luminosa di Andrea Costa, uno dei fondatori del socialismo italiano, che non rinnegò mai le sue origini libertarie e che sognava un partito federale, decentrato, pluralista, alleato a radicali e democratici; l’esperienza di Imola, primo comune italiano governato dai socialisti; il welfare municipale. Intervista a Carlo De Maria.

Carlo De Maria svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di discipline storiche dell’Università di Bologna. Si occupa di storia del socialismo, dell’associazionismo popolare e delle autonomie locali. Ha lavorato sulle carte e sulle biografie di Camillo e Giovanna Berneri, Alessandro Schiavi e Andrea Costa. Recentemente ha curato il volume Andrea Costa e il governo della città. L’esperienza amministrativa di Imola e il municipalismo popolare. 1881-1914, (catalogo della mostra organizzata per il centenario della morte di Andrea Costa) , Diabasis, 2010. Andrea Costa è stato fondamentale nella storia del socialismo italiano, e nella stessa storia d’Italia, ma è oggi un personaggio praticamente dimenticato, quasi considerato di secondo piano…

E’ vero che oggi di Andrea Costa si parla poco e, più in generale, sono le tradizioni del socialismo (intendendo questo termine nel senso più ampio, dall’anarchismo al socialismo riformista) che sembrano non trovare più spazio nel dibattito pubblico, nella vita culturale del paese. La figura di Costa richiama vicende politiche e biografiche che oggi appaiono lontanissime, ma che in realtà non sono slegate dal nostro tempo e sono ancora in grado di parlarci. Sono convinto che, per certi aspetti, Costa si riveli essere nostro contemporaneo. Puoi parlarci della sua biografia? Costa nasce nel 1851 e appartiene alla generazione dei giovani nati troppo tardi per partecipare alle lotte risorgimentali. Le prime reclute, come lui, del socialismo anarchico erano, in qualche modo, dei garibaldini mancati. In molti casi era assai stretto il loro rapporto ideale con Garibaldi. Ad esempio, il legame tra Costa e Garibaldi è un legame intenso: si conserva una lettera del 1872 di Garibaldi a Costa, il quale poi, nel 1907, partecipò al pellegrinaggio a Caprera, in occasione del centenario della nascita dell’”eroe dei due mondi”. Il rapporto e lo scambio tra il primo socialismo italiano e Garibaldi sono da ricondurre a varie ragioni, in particolare al fatto che il patriottismo di Garibaldi non si era mai chiuso in una prospettiva nazionalista, ma si era invece coniugato con una battaglia di libertà e giustizia sociale più ampia: propriamente internazionalista. Questo è solo un esempio di come, attraverso il percorso del giovane Costa, sia possibile cogliere il socialismo al suo stato nascente e seguire la formazione del movimento socialista nel nostro Paese. Proprio in ragione della sua storia personale, Costa ebbe la capacità di rappresentare il socialismo nel senso più ampio del termine (in senso morale, appunto) , al di sopra delle correnti e delle parti. A emergere è la vicenda profonda della sinistra italiana ed europea, i tanti filoni di pensiero e di azione sociale che l’animavano nell’800 e nei decenni a cavallo del 1900, rendendola un universo plurale. La vitalità di quel primo socialismo e la sua ricchezza consistevano nella diversità delle scuole (come tante volte ha rilevato Pino Ferraris) . A partire dagli ultimi decenni dell’800, Costa rappresenta un punto di riferimento per le associazioni popolari di tutta Italia: dalla Sicilia alle regioni settentrionali. Anche per questa via passa il consolidamento della recente unità nazionale. Si è spesso insistito su una estraneità del mondo socialista rispetto alle istituzioni dello Stato liberale, ma di fatto il prezioso patrimonio di solidarietà e di educazione civile sedimentatosi grazie all’opera di sindacati, cooperative e comuni rossi contribuì al consolidamento della giovane comunità nazionale. Mi riferisco ai molti aspetti del personalismo associativo, all’incontro tra spirito d’associazione e iniziativa economica, alle tante forme della così detta “economia sociale” o “economia popolare”: dal mutuo soccorso, alla cooperazione, alle casse rurali (fenomeni che interessavano non solo il versante laico e socialista, ma anche quello cattolico) .

Intervista a Giampiero ‘Nico’ Berti

realizzata da Franco Melandri, Gianni Saporetti

Capitalismo e libertà

 

Libertà e capitalismo sono indissolubili? Ogni idea di cambiamento non può che partire dalle condizioni storiche concrete in cui il massimo di libertà si è realizzata. L’idea di libertà non può che essere negativa, come assenza di coercizione; il pericolo delle libertà positive, sempre prescrittive. La libertà è anche quella di non partecipare. Il grande errore della sinistra di legare libertà a risorse. Conversazione con Nico Berti.

Giampiero ‘Nico’ Berti insegna Storia delle dottrine e dei movimenti politici all’Università di Padova. E’ autore di numerose pubblicazioni storiografiche e analitiche sul movimento e sul pensiero anarchico. La conversazione che pubblichiamo trae spunto da un saggio, I paradossi del relativismo culturale, che Berti, da sempre vicino al movimento anarchico, ha pubblicato sul n. 3/2002 di Mondo Operaio. Alcune delle tesi sostenute da Berti hanno suscitato molte reazioni critiche in ambito libertario, non a caso il n. 2/2003 della rivista Libertaria dedica un ampio dibattito a più voci proprio ad alcuni di questi temi. Con Nico Berti, per Una città, discutono Franco Melandri e Gianni Saporetti. Nico. Intanto ripeto quello che ho detto su Mondo Operaio: noi conosciamo società capitaliste dove non vi è libertà, ad esempio il Cile di Pinochet, però non conosciamo nessuna società liberal-democratica dove non vi sia anche il capitalismo, o, diciamo meglio, un’economia a libero mercato. Indubitabilmente laddove ci sono società liberal-democratiche vi è il capitalismo. Questo significa forse che il capitalismo è la causa delle società liberal democratiche? No, significa però che è una condizione necessaria; non sufficiente perché altrimenti non salterebbero fuori i Pinochet, ma necessaria sì. Questo nessuno può negarlo. Laddove c’è l’una c’è anche l’altro e insieme producono l’unica libertà che finora noi abbiamo conosciuto, che è la libertà liberal-democratica: non la libertà tout court, ma la libertà che storicamente abbiamo conosciuto, che è la forma più compiuta di libertà che la storia abbia prodotto finora. Io non credo che, in tutto questo ragionamento, ci sia alcuna apologia, né che noi dobbiamo accontentarci di questa libertà, c’è semplicemente una constatazione. Ovviamente, lo dico fra parentesi, il ragionamento vale se per libertà intendiamo una serie di cose che rientrano nei parametri della concezione liberale e occidentale della libertà; se partiamo da una concezione diversa, poniamo spirituale, per cui riteniamo che si è liberi quando si è liberi dal peccato, è un altro discorso. Il mio discorso, insomma, vale se riteniamo per libertà quei principi generali, creati a partire dal Rinascimento, che solo la cultura occidentale ha prodotto. Franco. Nella prima metà dell’800, anche Proudhon, uno dei “fondatori” del pensiero anarchico, diceva che senza la proprietà e senza lo scambio libero, cioè senza il libero mercato, non vi può essere libertà. Ma la proprietà, il capitalismo, cui Proudhon pensava, cioè quelli dell’America del 1776, fatti soprattutto di piccoli proprietari, o quello della società rurale francese, in cui la piccola proprietà era assai diffusa, non è il capitalismo dell’America di oggi. Nell’America della fine del ‘700 lo vedo anch’io il legame fra libertà e capitalismo, ma oggi? Non c’è il rischio che le stesse libertà liberal-democratiche siano messe in crisi dallo sviluppo del capitalismo, non dalla proprietà privata o dal mercato, ma dal monopolio che del capitalismo sembra l’ineludibile sviluppo? Nico. Possono essere messe in crisi, certo, ma questo cosa c’entra? Il capitalismo intanto è fatto di capitalisti. Nel 1919-’20-’21 in Italia c’era il capitalismo? Sì, allora com’è che è nato il fascismo? Perché dei capitalisti, impauriti dal bolscevismo, hanno finanziato i fascisti. Ma questo cosa vuol dire? E’ la conferma che il capitalismo è condizione necessaria della libertà, ma non sufficiente. Tutto qui. Rispetto a questo, mettersi a discutere del capitalismo degli Stati Uniti alla fine del ‘700, dei piccoli proprietari teorizzati da Washington, mi sembra un almanaccare. Io dico questo: il capitalismo è una condizione necessaria della libertà che conosciamo; noi conosciamo un certo tipo di libertà che è quella che si è venuta formando tra mille travagli…

Nicola Chiaromonte

a cura di Paolo Repetto, 30 ottobre 2018

Nicola ChiaromonteSalva diversa indicazione, tutti gli scritti riportati nella presente raccolta sono tratti dal sito http://www.bibliotecaginobianco.it

La verità del dialogo. Un ritratto di Nicola Chiaromonte

Fra cinici e gesuit

La nuova sinistra

Prigioni in Spagna

Pierre J. Proudhon – un pensatore scomodo

Parole confuse

A lume di ragione

Carissimo Andrea

Violenza e non violenza

Stato e minoranze rivoluzionarie

Chiaromonte, l’America e “l’etica del limite” nell’età dell’estremismo

La verità del dialogo. Un ritratto di Nicola Chiaromonte

di Matteo Marchesini

Nel Novecento, la mitizzazione più appariscente ed equivoca della Grecia antica è stata tentata dai filosofi che hanno esaltato le fonti presocratiche, giudicando tutta la storia del pensiero da Socrate e Platone fino alla modernità come un compatto processo di razionalizzazione – cioè di tradimento e d’impoverimento – delle originarie verità tragiche e sapienziali racchiuse in quelle fonti. Per questi filosofi, la scienza strumentale e tecnocratica che asservisce l’uomo moderno è figlia legittima dell’idealismo platonico. Si tratta di un mito derivato dalle intuizioni antropologiche ed estetiche di Nietzsche, addomesticate in senso metafisico o magari esoterico, e accordate alla fascinazione primitivistica di molta cultura “decadente”. Il suo cantore più noto è Heidegger, ma sue versioni degradate e spesso involontariamente parodiche sono diventate luoghi comuni tardonovecenteschi grazie a numerosi ripetitori del tipo di Emanuele Severino. Questo mito non è rimasto estraneo neppure a correnti filosofiche molto distanti: come la Scuola di Francoforte, che ha cercato a sua volta di stabilire un legame tra l’“illuminismo” tracotante della società di massa e le sue presunte origini classiche.

Ma altri intellettuali, più o meno coetanei del secolo breve, hanno proposto un modello di rapporto meno appariscente, meno pretenzioso e forse più fecondo con queste origini. La loro passione politica, e il bisogno d’interrogare i testi per capire “come vivere”, li hanno preservati da ogni sacerdotale profondismo e da ogni retorica accademico-apocalittica, esattamente per le stesse ragioni per cui li hanno tenuti lontani dalle ideologie del progresso. La loro Grecia non ha nulla di ebbro o estetizzante; e non ha neanche i lineamenti sommari di chi se n’è fabbricato una immagine di comodo solo per leggervi in controluce i destini moderni. Gli intellettuali a cui alludiamo amano il loro oggetto di studio, e quindi ne rispettano la complessità e la distanza; ma al tempo stesso, e proprio per questo, sentono l’urgenza di dialogare in modo insieme umile e coraggiosamente diretto con le parole e le idee dei poemi epici e dei tragici, dei primi filosofi e di Platone.

Pensiamo ad Hannah Arendt, a Simone Weil. Ma pensiamo anche al meno noto Nicola Chiaromonte (1905-1972), che si confrontò con entrambe: che, come la Weil impegnato nella guerra civile spagnola, ragionò con parole simili alle sue sull’incapacità moderna di sottoporre a un «limite» i comportamenti e di esaminare eticamente la «forza»; e che come la Arendt, conosciuta negli Stati Uniti, sostenne l’irriducibilità della violenza a «mezzo» teoricamente giustificabile e analizzò i paranoici circoli viziosi delle ideologie contemporanee, contrappose al loro cieco dinamismo un immaginario spazio politico dai connotati teatralmente greci e radunò attorno a sé piccoli gruppi di amici con cui leggere i classici

2.La storia di Chiaromonte, liberalsocialista sui generis o meglio libertario singolarmente religioso, si potrebbe raccontare almeno in parte riferendosi a quella delle riviste con le quali entrò in contatto, senza peraltro quasi mai identificarcisi. Ventenne già convinto dell’assolutezza dei valori morali, esordì sul «Mondo» di Giovanni Amendola e sulla protestante «Conscientia». Collaborò a «Solaria», che attraverso lo schermo della letteratura riuscì ad aprirsi alla cultura europea, e a preservare alcuni frutti dell’eredità gobettiana, negli anni in cui Mussolini eliminava le opposizioni. Consegnò lungimiranti analisi del fascismo ai «Quaderni» di Giustizia e Libertà, gruppo che frequentò nell’esilio parigino degli anni Trenta e che poi abbandonò con gli altri giovani “proudhoniani” legati ad Andrea Caffi. Sbarcato in America all’inizio della seconda guerra mondiale, lasciò una forte impronta nel dibattito degli intellettuali radical newyorchesi scrivendo sulla «Partisan Review» e su «politics», oltre che sulla salveminiana «Italia libera». Infine, tornato nel dopoguerra in patria, divenne il critico teatrale del «Mondo» liberal-progressista di Mario Pannunzio, e redasse con Ignazio Silone «Tempo presente», un mensile che criticò senza sconti il totalitarismo comunista ma anche la cultura e la tecnica politica delle società affluenti occidentali, e che, pur traendo ispirazione dalle tradizioni del socialismo democratico care a entrambi i direttori, non si fece portavoce di nessuna proposta terzaforzista.

Purtroppo, a differenza di quelli di Arendt e Weil, gli scritti di Chiaromonte restano quasi introvabili. Da decenni, i grandi editori italiani li rifiutano o li mandano rapidamente al macero. Onore quindi a «Una città», bellissima rivista libertaria forlivese e degna erede dei migliori periodici politico-culturali del secolo scorso, che oggi si fa editrice pubblicando Fra me e te la verità. Lettere a Muska. Si tratta di un carteggio tra Chiaromonte e Melanie von Nagel (1908-2006) curato da Wojciech Karpiński e Cesare Panizza, e venuto alla luce dopo un lungo lavoro di scelta svolto nei decenni scorsi dalla corrispondente insieme alla vedova dello scrittore.

In un intellettuale così socratico, che non si preoccupò di pubblicare libri, e che alimentò le sue riflessioni saggistiche attraverso un continuo dialogo con gli amici, le lettere non sono una trascurabile appendice all’opera. Specie se i destinatari somigliano alla von Nagel. Nata dall’unione tra un aristocratico bavarese e una ricca newyorchese, cresciuta in Italia e vissuta in America, sposata a un pittore daghestano e poi, dopo la morte del marito, entrata in un’abbazia del Connecticut come suora benedettina, questa donna coltissima e poliglotta doveva avere una qualità magnetica, se colpì tanto l’austero Chiaromonte – che secondo la sua amica Mary McCarthy diffidava per istinto delle donne intelligenti – e se in seguito riuscì a nutrire anche le idee di un altro critico radicale della modernità come Ivan Illich. La qualità della von Nagel non possiamo verificarla qui direttamente (nella raccolta, purtroppo, di suo ci sono soltanto due lettere, qualche verso e alcuni disegni), ma traspare dal pathos e dall’insolita esaltazione del suo sobrio corrispondente italiano.

Nicola e Melanie, affettuosamente chiamata Muska, si conobbero nel ’57 a Roma, subito prima che lei intraprendesse il noviziato; ma il coup de foudre risale al viaggio statunitense compiuto da Chiaromonte nel ’66 per tenere a Princeton le lezioni da cui nacque la sua raccolta di saggi Credere e non credere (Bompiani 1971, già pubblicata l’anno prima in Gran Bretagna col titolo The Paradox of History). Dopo quel viaggio, il magro carteggio precedente diventa un dialogo fittissimo. Per un lustro, fino alla morte, Nicola scrive a Melanie più di seicento lettere, circa una ogni tre giorni. E nel frattempo si attenuano anche le sue perplessità sulla monacazione dell’amica: perplessità ben comprensibili, se si pensa a quel chiaromontiano animo “greco” che – lontano in ciò dalla Weil – non crede alle risoluzioni personali delle crisi religiose, perché ritiene queste crisi dipendenti dall’esistenza collettiva, e quindi superabili solo collettivamente.

Citando i sonetti di Shakespeare, Chiaromonte definisce il rapporto con Muska un «marriage of true minds»; si riferisce più volte al Simposio, e arriva a parlare di «amor cortese». Tra questi due esseri umani così fuori dell’ordinario, così affamati di vita e insieme così a disagio nel mondo, era nato un legame molto stretto. La lontananza, e le differenti scelte esistenziali, contribuivano a sublimarlo: ma senza placare un bisogno fortissimo di condivisione. Spesso Nicola esprime la sua sofferenza per l’impossibilità di un dialogo faccia a faccia; e quasi per fisicizzare la relazione, oltre a scambiare foglie, fiori e immagini, si sofferma sulla salute di lei, si preoccupa dei suoi dolori, o si commuove con tenerezza tra amorosa e paterna davanti alle confessioni della sua sonnolenza.

Ma ciò che più importa è che in queste 250 pagine di carteggio si ritrovano in scorcio tutti i temi centrali della riflessione chiaromontiana, espressi a volte in una forma sintetica e lapidaria di rara efficacia, anche perché irrobustita da quei riferimenti biografici che negli articoli sono di solito pudicamente esclusi.

Com’è naturale, le lettere riflettono in primo luogo i fatti, le circostanze e le occasioni che nell’ultimo scorcio degli anni Sessanta caratterizzarono la vita di Chiaromonte e l’attualità pubblica. Si parla del movimento studentesco e dei faticosi traslochi romani, della fine di «Tempo presente» (con la morte di Pannunzio, la fine di un’era) e dell’inizio della collaborazione col non amato «Espresso», dei viaggi tra i circoli intellettuali europei e degli articoli sul Vietnam della McCarthy, delle passeggiate con l’impegnativa vedova Camus e della solida amicizia con Gustaw Herling, dello strutturalismo e di Aleksandr Solženicyn, del nuovo teatro grotowskiano e della stesura di Credere e non credere (per cui l’autore cerca un titolo diverso dall’esatto ma pomposo L’uomo e l’evento).

Ognuno di questi argomenti è però quasi sempre filtrato dal riferimento a un contesto classico, è contrapposto o associato a una dominante “passione greca”. Da questa passione scaturisce anche lo stile, che è poi più o meno lo stesso dei taccuini antologizzati in Che cosa rimane (Il Mulino 1995): quei taccuini da cui Nicola ricopia brevi brani per Melanie, e da cui trae lo scheletro dei saggi più impegnativi. Si tratta di uno stile spoglio e geometrico, incolore e perentorio. Ogni argomentazione vi appare scarnificata da un implacabile rasoio occamiano. In Chiaromonte, come nella Weil, un rigore intransigente e una quasi fanatica castità intellettuale tendono a bruciare tutti i falsi intrichi “psicologici”, tutte le capziose zavorre culturalistiche, per arrivare a contemplare le questioni nella loro nuda, platonica essenzialità. Per questi autori, riflettere significa subito verticalizzare, portare alle conseguenze estreme un’ipotesi e accettarne stoicamente, fino in fondo, la logica e fatale cupezza. Ma è una cupezza che, come la disperazione della lirica leopardiana, regala anche il rovescio di una gioia energetica, corroborante: la gioia che si prova, weilianamente, davanti a tutto ciò che ci restituisce un primario e irrefutabile senso di realtà, davanti a tutto ciò che ci strappa alla confusa opacità in cui ci agitiamo quando restiamo invischiati nei compromessi quotidiani, o chiusi nell’immaginario dei nostri desideri. Sia Weil che Chiaromonte pensano che vivere in pienezza significhi scontare la sofferenza senza menzogne, esporvisi senza alibi o risarcimenti ideologici. Solo così s’impara a circoscrivere ciò che dura, oggettivo e indistruttibile, al di là dei torbidi, passeggeri e dunque “irreali” stati d’animo privati, e al di là delle moderne riduzioni del vero, del bello e del buono a questioni d’impressione soggettiva. Solo così si può sperare di spezzare le catene della «bestia sociale», e di sottrarsi per un attimo alla cattiva infinità di un mondo centrato sui miti dell’individuo e della Storia.

  1. A questo proposito, anche nelle lettere a Muska è centrale la polemica chiaromontiana contro l’«egomania» dei contemporanei, cioè contro la loro totale mancanza di senso del limite. Al Leitmotiv dell’hybris Nicola ritorna sempre, qualunque sia lo spunto cronachistico della lettera. Ci torna, magari, dopo aver tracciato per la sua corrispondente “reclusa” qualche schizzo delle civiltà in cui si muove nei suoi rapidi viaggi culturali: una Venezia ancora umana ma architettonicamente improbabile, un’Inghilterra che il tradizionalismo mantiene meno alienata e più coesa del resto d’Europa, una Parigi mutante ai cui stanchi riti da chiesa moderna partecipano giovani ormai simili a una nuova «razza», una Trieste ariosa e «strana» (aggettivo già usato dallo “psicologo” Saba, comprensibilmente mai citato), una Napoli irredimibile eppure capace di umanizzare perfino la paccottiglia plastificata della nuova industria… Ma sempre al suo Leitmotiv ritorna, Nicola, soprattutto quando fisicamente torna a Roma: massimo simbolo decadente, squallido e intollerabile, dell’atomizzazione e dell’insensatezza della vita tardonovecentesca. Questa vita, ribadisce a Muska, concepisce se stessa come una «pura fuga d’istanti». Gli uomini che la sperimentano, nuovi «barbari per volontà», non trovandovi un senso che superi i loro volubili desideri diventano incapaci di una vera, durevole comunicazione, e guardano alla morte come a un fatto insopportabile perché non redimibile da nessun “progresso”. Così non resta loro che lasciarsi trascinare da un’avida quanto disperata volontà di successo, e dall’illusione di poter possedere sempre più oggetti.

Per Chiaromonte, l’egomania è il frutto di un umanesimo privo del senso del sacro: un umanesimo che è assoluto proprio perché relativizza tutto, facendo degli individui l’unico metro di misura, e destinandosi quindi a sfociare in una disumanità massificatrice o pseudoribelle. L’obiettivo panumanistico resta «le plus grand bonheur du plus grand nombre». Ma ciò che davvero si può procurare non è la felicità, bensì soltanto il surrogato del benessere: e per produrlo, i moderni hanno dovuto piegarsi in massa alla logica dello sviluppo meccanico. La maggiore felicità del maggior numero si è tradotta perciò nella maggiore servitù del maggior numero.

Il primo vero profeta di questo umanesimo resta Rousseau, il «teorico della democrazia totalitaria» che in una folgorante lettera a Muska Chiaromonte associa agli hippie, citando una frase in cui il filosofo contrappone al teatro del suo tempo un progetto di feste spettacolari all’aria aperta già simile all’«invito a un “love-in”». L’autocoscienza ultima dell’egomania è invece l’esistenzialismo alla Sartre, un pensiero dove la libertà assume un aspetto mostruoso, prefigurando una condizione umana insieme gratuita e coatta.

L’umanesimo assoluto esclude dal suo orizzonte ciò che trascende l’uomo, ma proprio per questo non ha poi il coraggio di confrontarsi senza paracadute ideologici con l’effimero, con la fragilità intrinseca della vita. E’ il contrario della visione greca, per la quale l’individuo vive fino in fondo la fugacità della sua esperienza proprio perché si sente «tramite del durevole». In questo senso Chiaromonte dice a Muska che i Greci sono il popolo più religioso del mondo mediterraneo. A differenza di romani ed ebrei – di cui anche la Weil diffida – tra il «sentimento diretto delle cose» e il loro «modo d’essere» non frappongono infatti la volontà di stabilire leggi e convenzioni che li proteggano dal mutamento: e «il sentimento del “sacro” è molto più profondo nell’animo di colui che si considera “inerme” di fronte al tempo». I greci chiaromontiani sono una comunità permeata da un rispetto oggi inconcepibile del «divino», ossia di ciò che nella natura, nelle azioni e nei sentimenti degli uomini resta sempre nascosto, e indica il confine delle nostre forze e della nostra capacità di comprensione: «il senso del sacro non è altro che il senso del “limite” (…) di essere parte di un tutto che non si conosce».

Mentre scrive queste riflessioni a Muska, così Chiaromonte le fissa nel saggio La bestia meccanica, pubblicato su uno degli ultimi fascicoli di «Tempo presente»: «L’egomania, che solo la necessità materiale e la forza tirannica possono contenere, è il male della società contemporanea; l’odiosa prigione dell’io in cui l’individuo viene a trovarsi rinchiuso è la forma della schiavitù di cui siamo vittime. Male e schiavitù provengono dalla convinzione radicalmente empia secondo cui il mondo appartiene all’uomo, ed egli può farne quel che gli talenta; e così la vita è proprietà esclusiva di ogni individuo, e ogni individuo ha il diritto di usarne e abusarne come vuole. Una tal convinzione nega tutto ciò che nel mondo è nascosto, indicibile, arcano; si fonda su un’ignoranza cocciuta del mondo stesso e delle più umili verità d’esperienza, prima delle quali è la dipendenza in cui ognuno si trova dai propri simili per cominciare, ma, più profondamente e essenzialmente, dall’insieme delle cose, dal loro ordine, quale esso sia e comunque lo si chiami».

  1. Di questa dipendenza, di questo «arcano» non sappiamo nulla, e pretendere d’imbrigliarlo in qualche legge o d’intravedere nel mistero un disegno è tracotanza: in questo senso, per Chiaromonte anche la Provvidenza è un’idea che «diminuisce la divinità del divino», come scrive a Muska senza nessun accento polemico, ma senza nemmeno velare ciò che lo separa dal cattolicesimo di lei. Anzi, con la sua opera l’autore di Credere e non credere vuole mostrare anche come l’abominevole culto moderno delle azioni storiche e dei fatti compiuti non sia altro che la laicizzazione di questa idea cristiana. Il solo fatto di concepire un Dio incarnato nella Storia induce infatti a leggerla come un unico sistema, e a ricondurre tutte le vicende umane sotto un unico significato generale. Nasce allora il provvidenzialismo, che rapidamente viene mediato dalla Chiesa, la quale finisce per vedere nella durata del suo puro potere mondano un segno della propria santità. Nel frattempo, dalla stessa teologia sorge e si libera un razionalismo tritatutto che porta alla reincarnazione del divino nelle cose, al mito laico del progresso. Poi, tra Sette e Ottocento, davanti ai contraccolpi inauditi della rivoluzione francese, questo mito inizia a trasferirsi dall’interpretazione della natura a quella dei rapporti sociali, partorendo il determinismo storicista. In modo più tirannico di qualsiasi religione, un tale determinismo aliena all’uomo il senso della propria vita, perché lo rende schiavo della società e delle manifestazioni della sua stessa volontà di potenza. Ignorando la dipendenza delle loro esistenze dal cosmo, cioè da un «tutto» inconoscibile, i moderni credono di possedere incondizionatamente e di potere incondizionatamente controllare, con la ragione e con l’azione, le dinamiche sociali e tecniche che vanno via via scatenando. A differenza dei greci, dice la Weil, considerano la forza sprigionata dal gioco delle loro relazioni come un fatto meramente fisico e non morale: sono così convinti dell’idea secondo cui ognuno si forgia da sé il proprio destino, che non hanno neppure una parola adatta a esprimere il concetto di «nemesi». Il loro errore sta nell’estendere il paradigma delle scienze naturali, e in particolare della fisica, alla storia, al mondo umano, alla realtà tout court e ai problemi ultimi, impoverendoli e condannandosi a un deprimente vuoto ideale. In una lettera a Muska, Nicola cita un passo dove Bertrand Russell osserva come la «astratta fisica del nostro tempo» ci chiuda in una prigione «senza splendore», senz’anima. E’ un passo in cui il progressista, l’empirista per eccellenza della filosofia novecentesca sembra avvicinarsi a culture da lui lontanissime. Nelle sue parole riecheggiano quelle del fenomenologo Husserl, e perfino quelle di Rimbaud sul «forçat (…) sur qui se referme toujours le bagne», citate altrove da Chiaromonte per descrivere lo Stato moderno. Ma soprattutto, il giudizio di Russell richiama in questo contesto la diagnosi della platonica e iperidealista Weil, secondo cui «dal rinascimento in poi (…) l’idea della scienza è quella di uno studio il cui oggetto è posto al di fuori del bene e del male», e «se i fatti, la forza, la materia vengono isolati e considerati di per sé, senza relazione con altro, non v’è in tutto ciò proprio nulla che un pensiero umano possa amare». La Weil fa esplicito riferimento alla differenza con la scienza greca, ancora fortemente connessa a una compatta visione etica e cosmica. Abbozza addirittura una critica dell’algebra come pratica livellatrice (la paragona al denaro), e in generale stigmatizza le tecniche che non producono saggezza, che permettono di inventare senza pensare. Anche la Arendt affronta il tema, e si chiede che effetto abbia l’impossibilità di tradurre il codice sempre più influente della scienza moderna nel linguaggio pubblico: ossia che effetto politico produca l’evidente incapacità di questo codice di dare un senso alla realtà comune, la sua tendenza a creare un mondo artificiale dove la conoscenza si scolla dalla riflessione. Si può rispondere che l’effetto è appunto la nascita di una ideologia della scienza, cioè di una pseudoteoria che estende ingannevolmente il paradigma scientifico all’intera cultura anche quando in apparenza vi reagisce, come ostentano di fare gli storicismi idealistici e finalistici che inseguono una verità superiore a quella matematica, fisica o biologica. Questa ideologia pretende di assimilare gli atti umani ai fatti di natura, e quindi di poter spiegare e prevedere razionalmente le dinamiche relative a esseri mai analizzabili nella loro integrità: pretende, in definitiva, di poter rivelare una volta per tutte le origini sempre oscure del complesso di moventi che ci induce a muoverci e a condizionarci a vicenda. Così, caduta ogni fede nel trascendente, si cerca la verità proprio dove non può darsi: cioè nel terreno dell’azione, della Storia, della suprema contingenza. Ne risulta quello che il Chiaromonte di Credere e non credere definisce come un paradossale «scetticismo teologico» o «dogmatismo scettico»: da un lato si è così sfiduciati da puntare tutto sull’attimo nel quale si agisce, ma dall’altro lato si giustifica il più effimero dei gesti affermando che «la storia lo esige». Qui sta l’aporia dello storicismo, per cui «l’Oggi è il Domani, il senso della vita di oggi sta nel Domani, un Domani storico di cui l’oggi non è che l’oscura cifra. La formula è oracolare, ma riassume molto efficacemente quella fede ottimistica nella Storia – cioè nell’armonia prestabilita fra le aspirazioni umane e il corso degli eventi – che fa dell’esistenza il fantasma di se stessa, rinviandone il significato all’infinito, cioè annullandolo».

E questo oracolo grottesco, com’è ovvio, è elaborato in primo luogo dagli intellettuali: che quindi, anziché essere autentiche guide e “avanguardie” della società, nel mondo contemporaneo tendono a massificarsi prima delle masse, a sacrificare il proprio pensiero ai feticci ideologici e alla Storia con maggior zelo e con più imperdonabile falsa coscienza.

Fino all’inizio del Novecento, prima del ’14, questi feticci erano ancora in parte un mito vero, una credenza diffusa e legittima nel progresso storico. Ma la carneficina assurda della guerra l’ha fatta crollare («E’ ciò che fa rovinare i miti, la realtà», dice Chiaromonte nella Bestia meccanica). Da allora in poi, la gran parte degli uomini finge di confidare nel progresso, ma in verità non fa altro che arrendersi, tra ipnotizzata e inerte, a un meccanico succedersi di eventi schiaccianti, a un mondo «nudo e insensato», e alla fatalità di una crescita puramente tecnologica. E’ ormai in malafede che si pronuncia il proprio credo nella democrazia e nel miglioramento universale: nei comportamenti quotidiani, si oscilla invece tra nichilismi e improbabili restaurazioni “religiose”.

  1. La guerra, secondo Chiaromonte, ha colpito al cuore soprattutto la versione più avanzata della credenza nel progresso umano, e cioè il socialismo, che dagli anni Venti in poi s’è irrigidito in una ortodossia sempre più tirannica quanto più profonda era la disillusione riguardo alla sua autentica vitalità. E l’ortodossia ideologica, di nuovo, non è altro che una versione laicizzata, umiliata e parodica della fede cristiana. Il cristianesimo infatti, afferma Chiaromonte, ha trasformato il flessibile significato antico del «credere» in un dogmatico «voler credere» (e qui si pensa ancora alla Arendt, che in La vita della mente spiega come la civiltà cristiana, gettando una luce inedita sull’esistenza interiore, abbia posto al centro delle sue riflessioni appunto la «volontà», tema quasi assente nei filosofi antichi). Il credere greco, il credere naturale implica una costante coscienza dell’ambiguità che è inscindibile dalla relativa robustezza sociale di ogni credenza; implica, soprattutto, la capacità di accettare e assorbire nella propria visione la mutevolezza del mondo così come appare, in tutte le sue sfaccettature: quella mutevolezza che i greci rappresentavano guardacaso nelle figure di mutevoli dèi, sottoposti anch’essi a un Fato impenetrabile. Invece il Dio dei monoteismi, isolato e onnipotente, si stacca dalla realtà umana in un modo che costringe poi chi tenta di concepire il loro legame a impantanarsi in volontaristici sofismi. Il cristiano, per aver fede, deve escludere dal proprio orizzonte religioso una gran parte di ciò che sperimenta nell’esperienza quotidiana, e in cui dunque, nel senso greco e chiaromontiano, dimostra comunque di “credere”: crea cioè nella vita quella scissione, notata suo malgrado anche dalla Weil, che tende a sfociare in un irrigidimento pericoloso e che a un certo punto si fissa nella doppiezza del gesuitismo. E’ dalla mondanizzazione moderna di un simile irrigidimento che scaturisce la tendenza ad addomesticare empiamente la realtà, a leggere un univoco senso della vita nella Storia, a fornire «spiegazioni ultime» che pretendono di disfarsi della varietà delle apparenze. L’esempio più chiaro è quello di Marx, secondo cui l’economia sarebbe “più reale” di tutto il resto, ossia costituirebbe l’essenza dei fenomeni più diversi. Ancora peggiore è l’ortodossia dei marxisti del pieno Novecento, che trasformano un’ipotesi teorica in un angusto dogma, e che poi si disfano anche del dogma per imporre una tattica di partito impermeabile non solo alla realtà, ma anche alla logica, e destinata a mutare ora per ora. Propagandati con le armi, sostenuti da una disciplina coercitiva sempre più capillare e spietata, i tattici “dogmi del giorno” coincidono col potere terrorizzante delle dittature comuniste. E tuttavia, come Chiaromonte ha visto per tempo e come hanno visto con lui Orwell e la Arendt, la rapidità del loro succedersi denuncia la corsa dei sistemi totalitari verso un fatale autoannichilimento: per quanti sforzi di sottomissione faccia, la coscienza normale degli uomini non è in grado di adattarsi a venerare idoli che cambiano volto ogni mattino.
  1. Mentre tenta di chiarire queste intuizioni nei saggi di Credere e non credere, Chiaromonte ripete a Muska che la storia non può avere in sé la sua ragione, che è solo un seguito di «atti insensati», e che somiglia alle «rovine che lascia dietro di sé un cataclisma – o anche i rifiuti che trascina un torrente». Parole così lapidarie spiegano l’irritato interesse con cui, nel frattempo, segue un fenomeno che sembra appunto condensare e bruciare in un’estrema, cupa parodia le falsità enfatiche della recita politica e culturale otto-novecentesca, le sue oscillazioni apparentemente schizofreniche tra idolatria del Corso Storico e pseudoanarchia nichilistica. Questo fenomeno è il Sessantotto occidentale, presto egemonizzato dai giovani che in una lettera alla sua corrispondente americana definisce «pedanti ribelli». Approdato, come in modo diverso il suo coetaneo Adorno, a una riflessione sempre più geometricamente pessimistica riguardo alla possibilità d’intrecciare teoria e prassi, anche Chiaromonte giudica la rivolta «conformista». E il conformismo sta nel fatto che per contestare la società esistente i rivoltosi ne accettano e ne estremizzano le patologie, cedendo al suo caos senza avere il coraggio di andare al cuore dei problemi. I giovani occidentali non mettono in questione il meccanismo dell’estensione illimitata dei bisogni, e non si pongono domande radicali sul significato dell’esistenza. Ereditano placidamente il culto del Nuovo, del successo egomaniaco che tutto assolve, dell’azione per l’azione e magari della guerriglia per la guerriglia. Il loro guevarismo, il loro maoismo è solo una moda, un atteggiamento assunto a costo zero. Come Pasolini e Arbasino, e come oltreoceano il suo amico Dwight Macdonald, anche Chiaromonte nota che questa ripetizione frivola di vecchi errori è legata al rifiuto di confrontarsi con le generazioni precedenti. E’ un rifiuto comprensibile, dato che quelle generazioni sono prive di ogni autorevolezza; ma ciò non toglie che il suo prezzo sia un’ennesima versione del moderno settarismo. Da una parte si diffonde la pedanteria subculturale, dall’altra dilaga un attivismo giovanilistico senza argini né obiettivi seri, che a un ex ragazzo degli anni Venti non può non ricordare un’esperienza sinistra. In particolare il Sessantotto italiano, nato in una società senza ordine né libertà, ma «fondata invece sul disordine illiberale e sulla disobbedienza coercitiva», rischia di sfociare subito in una demagogia del tutto o niente, e in una ricattatoria sofistica da demoni dostoevskiani in sedicesimo.

Questo almeno, dice Chiaromonte, accade a ovest. Diversa è la rivolta dei giovani dell’est, che si battono per liberarsi dall’oppressione politica, cioè per qualcosa di molto più chiaro e importante. Ma ai giovani intellettuali d’Occidente, e agli intellettuali non più giovani che li corteggiano pateticamente per inseguire l’ultima incarnazione dello Spirito del Tempo, una tale rivolta sembra “ottocentesca”, “sorpassata” dalle punte più avanzate della Storia. Convinti di possedere già la libertà «come si possiede un mobile», considerano questa esigenza basilare della vita umana meno rilevante di qualunque nebulosa ideologia palingenetica dell’ultimo minuto, di qualunque pseudonovità “storica” pubblicizzata dalle cronache dei media.

Come si vede, i giudizi di Chiaromonte sulle azioni dei movimenti politici occidentali sono duri almeno quanto quelli che dà del comunismo applicato. Tutto gli appare ormai inquinato dall’idolatria degli «atti insensati». Ma se le cose stanno così, cosa opporre in concreto al fatalismo storicistico? Le lettere a Muska, e gli scritti coevi, sembrano avvicinare lo scrittore a un altro tipo di fatalismo, che potremmo definire laotsetiano. Dopo avere attraversato le tragedie del Novecento, Chiaromonte è ormai lontanissimo dal suo volontarismo di ventenne cresciuto nella cultura dei Gobetti e dei Tilgher. Ora non vede più nella massificazione un’opportunità per disfarsi dell’inerzia individuale e per riaffermare le istanze morali assolute con una decisione finalmente pura e libera da equivoci. Nato in una terra dove il passaggio d’innumerevoli popoli ha lasciato in eredità alla gente un misto indefinibile di rassegnazione e orgoglio, questo maturo uomo del sud rifiuta in modo sempre più netto non soltanto l’idea della violenza rivoluzionaria, ma anche ogni visione che attribuisce più importanza alla volontà di fare il bene anziché alla volontà di tenere fermo il vero.

Di nuovo, davanti a questi passi delle lettere, torna in mente la Weil. Ci si ricorda delle parole con cui la pensatrice francese contesta il catechismo cattolico (così cavilloso che non basterebbe una vita a esaminarlo), e della nettezza con cui gli oppone il bisogno dell’intelligenza di restare totalmente libera nel suo legittimo campo d’azione. E’ altra, per lei, la facoltà destinata a contemplare e onorare i dogmi. «L’intolleranza» dice con una frase quasi chiaromontiana «deriva da una confusione tra i modi di credere»; e aggiunge senza reticenze che il potere amministrativo della Chiesa e la formula «anathema sit», con la conseguente confusione dei piani e il conseguente tentativo di ostacolare la ricerca del vero in nome di un malinteso bene, ha aperto la strada alle derive totalitarie moderne.

Partendo da una concezione distante del cristianesimo, ma da un’idea platonica del bene pur sempre sorella di quella weiliana, Chiaromonte insiste con altrettanta forza sulla necessità che l’intelletto rispetti nella sua sfera soltanto i vincoli che si pone da se stesso. La sua polemica però, anche quando tocca la religione, lo fa per puntare dritto alla politica. Nelle lettere, con una definitività brusca e quasi liberatoria, ripete che qualunque progetto umano finalizzato al bene, quando offende il vero, è destinato a sfociare nella violenza. E’ la violenza di chi crede di poter forzare gli esseri e le cose a diventare ciò che non sono. «Voler “cambiare” significa voler far violenza a ciò che è», scrive a Muska, «non credere nella semplicità delle cose che sono (…) credere fanaticamente alle apparenze, ossia che cambiando, per così dire, la disposizione degli oggetti nel mondo si cambi radicalmente il mondo stesso. Mentre a me sembra che il mondo si cambi unicamente (…) grazie a norme accettate, al modo di vivere degli uomini stessi».

Le speranze palingenetiche di origine cristiana, e la fede moderna nel progresso che ne deriva, coincidono con l’idea che sia possibile introdurre nel mondo una novità radicale. Chiaromonte non lo crede. Come non crede alla concezione lineare del tempo che questa idea implica, e che anche la filosofa della Vita della mente associa al modo tutto cristiano e moderno di concepire la libertà e la volontà. Toccando un tema caro a Karl Löwith (non a caso, come la Arendt, discepolo di Heidegger), Nicola dice a Muska che la saggezza sta invece nell’intuire i segni di quella sostanziale, greca ciclicità del tempo che Nietzsche sbandierava in modo ancora volontaristico, e che la vita ci mette davanti agli occhi ogni giorno contraddicendo le nostre ideologie. L’universo che abitiamo non sembra affatto trasformabile nei suoi oscuri elementi primi, ma semmai infinitamente «mutevole» nella sua permanenza, come il mare così amato dal mediterraneo Chiaromonte e dal mediterraneo Camus.

I sogni di novità assoluta hanno sempre qualcosa di empio o retorico: vogliono disconoscere la realtà così come ci è data, o non tenerne conto, in nome di una pretesa centralità delle aspirazioni umane. Indimenticabile, a questo proposito, è l’esempio che Chiaromonte propone nella Lettera a Caffi edita in Il tarlo della coscienza (Il Mulino 1992). La dichiarazione di Ivan Karamazov, tanto celebre e universalmente amata, secondo cui varrebbe la pena di rifiutare il proprio biglietto per il Paradiso davanti al pianto di un solo bambino, a lui sembra «teatrale e incomprensibile», perché «l’idea di un mondo senza bambini che piangono» è «coestensiva di un mondo senza bambini affatto». Viceversa, «senza pretendere al Paradiso», Chiaromonte vuole soltanto «vedere le cose come sono (e non create da me)». Secondo la Weil, questa visione della realtà si ottiene sospendendo la volontà che il mondo si pieghi ai nostri desideri. E Nicola, rivolgendosi a Muska, le fa eco assimilando la purezza di un tale sguardo alla capacità di «fermarsi al limite», «riconoscere il sacro – e il divino – piegare il capo – inchinarsi». Un simile riconoscimento morale non può tradursi in leggi o convenzioni, come vorrebbe la mediocre saggezza, ma può solo derivare di volta in volta da un ambiguo “avvertimento” davanti alla situazione concreta.

Chiaromonte tende dunque a identificare i progetti di palingenesi con una violenza menzognera. E per spezzare la catena di azioni e reazioni che questa violenza accerchiante produce, per contrastare gli atti di forza con cui gli uomini provano a imporre alla società la loro visione del mondo, gli sembra non rimanga altra risorsa che una mite separatezza, una saggia inazione interrotta solo per concedere alla politica quel che le è strettamente dovuto dal punto di vista del «buon cittadino» (a questo dovere limitato si può ricondurre, nel ’56, la eccezionale adesione chiaromontiana al Partito Radicale).

Al limite, manifestazione di un tale spirito potrà essere la «non violenza», su cui ragionò in modo analogo anche la Arendt. Ma Chiaromonte è convinto che la non violenza non possa diventare norma d’azione pratica e universale senza rischiare di tradursi essa stessa in violenza, o comunque di snaturarsi: resta, per lui, niente di più e niente di meno del comportamento che alcuni singoli individui altamente civilizzati sono in grado di tenere allo scopo di arrestare l’effetto domino del male, o, come direbbe la Weil, allo scopo di sospendere l’ordine inerziale della forza. Rappresenta, insomma, una nobile accettazione del destino: è la coscienza, fatalmente destinata a un’autentica aristocrazia, che vale ciò che cresce nella sua intrinseca verità senza forzature – è il rifiuto di violare più del necessario la natura delle cose, la capacità d’indirizzare il proprio amore sulla realtà circostante in maniera non dispotica e non servile.

In sintesi, all’orizzonte non si vede alcuna soluzione collettiva dei mali moderni: forse, anzi, l’idea stessa è contraddittoria. E Chiaromonte, teorico delle credenze che si consolidano senza volontarismi, si tiene ben lontano da velleità edificanti. Tuttavia, tornando sempre da capo alle stesse conclusioni fosche, anche nelle lettere a Muska insiste sulla sola immagine di speranza offerta da tutta la sua opera, un’immagine che è in qualche modo l’altra faccia del “laotsetismo”. Si domanda, Chiaromonte, se prima o poi l’illimitato e coatto bisogno di dominio non condurrà i moderni davanti a un’aporia così insormontabile, a un baratro così profondo da costringerli a tornare a misurarsi con le eterne questioni essenziali, a fermare lo sguardo sul problema del divino senza equivoci deterministici o soggettivistici arbitrii. Allora forse, dietro le false fedi, dietro i nichilismi irriflessi e perciò tracotanti, nascerà in loro un «nichilismo positivo», un modo d’essere in grado di confrontarsi nuovamente con le nude cose e con le scelte elementari tra il vero e il falso a cui i contemporanei sfuggono istante dopo istante fino alla morte. Solo a quel punto si potrà ritrovare la comune consapevolezza del fatto che la realtà degli eventi e la realtà del pensiero, la contingenza di ciò che accade e l’ordine continuo delle idee sono separati da un confine sacro e inviolabile. Si riscoprirà così che le utopie sono modelli destinati a nutrire la vita spirituale, cioè a tradursi solo mediatamente e per vie inimmaginabili nei comportamenti pratici; e che perciò volerle trattare come progetti politici palingenetici è mostruoso come sarebbe mostruoso per il poeta voler vivere la sua poesia. Coloro che sbandierano le utopie come programmi d’azione immediata cadono nell’equivoco bovaristico intrinseco a ogni storicismo: si vedono cioè come «personaggi storici». E negli ultimi due secoli, dall’età napoleonica al Sessantotto, le prime vittime di questo equivoco dagli effetti stupefacenti sono stati prevedibilmente i giovani: il Fabrizio stendhaliano che vuol essere sicuro di vivere una «vera battaglia», i Sorel e i Raskolnikov che si atteggiano a Napoleoni, e i loro eredi novecenteschi di Sartre e di Kundera che mitizzano le nuove figure rivoluzionarie.

«Nella mentalità “storicista”» scrive Chiaromonte a Caffi «la Storia diventa quel che è (…) la Prosa per il Borghese Gentiluomo», o «quel che l’America è per i selvaggi di Pascarella», e per i beoni romani che ne raccontano le avventure all’osteria. Nella vita collettiva moderna, e da ultimo nella fiammata movimentista dei giovani sessantottini travestiti da guerriglieri, a causa della confusione tra i ragionamenti e i fatti «il pensiero diventa una forma immaginaria d’azione, e l’azione una forma immaginaria di pensiero». Con l’effetto di una pessima recita, al tempo stesso potenzialmente sanguinosa e kitsch. Una recita ingigantita, nel pieno del Novecento, da quei media di massa che danno un senso ancora più semplificato e mistificatorio all’aggrovigliata frammentarietà degli eventi, e a poco a poco addirittura li producono e li sostituiscono.

  1. Come la Arendt, ma senza la sua fiducia “agostiniana”, Chiaromonte ritiene che ogni azione inneschi processi irreversibili quanto imprevedibili, sia «un atto libero e nuovo, un’aggiunta al mondo e una modifica dello stato di fatto». Non sopporta quindi di essere considerata come l’esecuzione di un modello teorico che separi disinvoltamente mezzi e fini. In politica, ciò squalifica ogni machiavellismo, sia quello di piccolo cabotaggio, sia quello che pretende di realizzare le utopie: perché entrambi la riducono a tecnica, ad applicazione di un meccanismo, cioè pretendono di «possedere il segreto del reale», quasi che la loro “realtà” non sia la riduzione indebita del «segreto» a un modello quantitativo semplicistico e fazioso, sorretto quando può e come può dall’argomento della forza.

La Arendt, però, fa risalire l’errore addirittura a Platone, osservando che già nei suoi testi l’«agire» tende a confondersi col «fabbricare». Chiaromonte, invece, non muove accuse al suo mito filosofico. Secondo lui, Platone non fa altro che proporre le sue utopie come «statue di parole». Scrivendo a Muska, ripete che l’autore della Repubblica non è un idealista nel senso moderno, ossia un uomo che s’illuda di realizzare le proprie idee. E forse, al contrario di quel che dicono le storie della filosofia, non è nemmeno un idealista in senso assoluto. Forse, come suggeriva Caffi, Platone è addirittura uno «scettico»: un ragionatore che sottopone continuamente le ipotesi alla prova del dialogo, lasciandole sospese in una zona ambigua e non smettendo mai d’interrogarsi. Si tratterebbe, insomma, di un filosofo che ha già ben chiara la differenza indicata dalla Arendt in La vita della mente: quella che corre tra la «conoscenza», sempre strumentale, e il «pensiero», incapace di raggiungere obiettivi stabili, e mai applicabile alla realtà senza conseguenze violente o nichilistiche. E’ attribuendo al suo Platone questa gratuita e feconda mobilità teorica che Chiaromonte può opporlo ai moderni, e trarre dalla sua lettura la liberatoria «allegria» di cui dice a Muska. La proverbiale spietatezza delle utopie platoniche, spiega alla corrispondente americana, non ha niente a che vedere coi fanatismi del Novecento. Dipende semplicemente dal fatto che quando si costruisce un’architettura ideale, le si può dare un senso non effimero soltanto estremizzandone con coerenza i presupposti. «Riflettere significa proprio spingersi al limite dei significati possibili», afferma altrove; ed è infatti questa consequenzialità netta, estrema e magari unilaterale, che Chiaromonte insegue negli scritti suoi e dei suoi autori. E’ questa necessità di andare fino in fondo che lo appassiona nella tragedia greca e nel Tolstoj critico dell’arte, davanti a cui continuano a scandalizzarsi i tanti «spiriti mediocri» a tal punto immersi nei sofismi moderni da essere ormai incapaci di tornare alle questioni prime dalle quali quei sofismi sono derivati.

Confrontarsi con la coerenza, con la purezza economica e con la verticalità proprie del vero pensiero, non significa affatto perdersi nell’irreale: perché in questi caratteri sta anzi la peculiare, specifica realtà delle idee e delle rappresentazioni scaturite dalla mente umana, una realtà che solo il fanatismo e il filisteismo si ostinano a negare, riducendo artificiosamente l’esperienza a ciò che si vede, si fa e si tocca.

Questo bisogno di ricordare ai suoi contemporanei l’esistenza di una realtà non pratica riconduce spesso Chiaromonte a un episodio della storia filosofica ricco d’implicazioni metaforiche: la prova ontologica dell’esistenza di Dio. Anche nelle lettere a Muska, come nei taccuini e nei saggi, lo scrittore la cita affascinato. E ciò che lo affascina è il fatto che l’Essere immutabile e perfetto, concepito da quell’essere imperfetto e transeunte che è l’uomo, ha davvero una esistenza necessaria, ma come «esigenza del pensiero», di quel pensiero che è appunto una parte ineliminabile della nostra vita. «Il fatto di concepire “un essere del quale è inconcepibile che ne esista uno più grande” – l’Essere Supremo» argomenta Chiaromonte «ne implica l’esistenza non come di un “oggetto” – ma di una necessità tale del pensiero che, senza di essa, il pensiero non può pensare che il contingente – l’occasionale – questa o quella cosa, come capita, ma non mai esser certo di essere in rapporto con la realtà delle cose. Soltanto che io direi che ciò non “dimostra” il Dio dei teologi, bensì il “divino” in sé – l’inevitabile necessità del “vero” – al di là di ogni fatto casuale e, soprattutto, di ogni cosiddetta “verità di fatto”».

Non a caso, negli stessi anni, la Arendt che nella Vita della mente separa conoscenza e pensiero, verità di fatto e ricerca di «significato», fa proprio lo stesso esempio, e indica nella dimostrazione di Sant’Anselmo una di quelle ricerche mai concluse in cui l’uomo pensa attraverso sistemi di idee eterne e inverificabili (nei termini della mistica Weil, invece, l’inverificabilità riguarda il piano dell’amore soprannaturale necessario a contemplare i dogmi di fede).

Chiaromonte, come Arendt e Weil, mira insomma a restituire alla riflessione non immediatamente traducibile in prassi quel suo insostituibile posto nel mondo reale che i moderni a torto le negano. Anche perché la sua astrattezza, la sua “inconcludenza” non coincidono affatto con una sua presunta inutilità in senso assoluto. Sebbene esista un confine sacro che separa eventi e idee, non si può infatti dimenticare la funzione essenziale che le idee hanno nel metterci in rapporto «con la realtà delle cose». Nei taccuini, Chiaromonte cita una dichiarazione di Tolstoj secondo cui la realtà più vera è addirittura quella che non esiste, e che tuttavia proprio per questo conosciamo con certezza: «la linea dritta, la verità esatta e la virtù perfetta». Soltanto «grazie all’ideale», dice Tolstoj, «sappiamo qualcosa» del mondo, cioè diamo forma a ciò che altrimenti è insensato. Così, ricorda Chiaromonte, solo nella «irrealtà» dell’arte, nella contemplazione teorica delle sue figure ci è dato conoscere davvero le passioni, le figure, le vicende umane che nella quotidianità rimangono un brulichio d’impressioni opache e ottuse.

  1. Ma questi discorsi acquistano il loro significato pieno solo se legati a un altro tipico concetto chiaromontiano, il concetto di «comunità»: unico spazio, secondo lo scrittore, in cui potrebbe ricostituirsi un certo equilibrio tra azioni sensate e pensieri non sofistici. Questa «comunità» è l’opposto di quell’anonima società globale dove gli uomini, soli in mezzo alla massa, fronteggiano alienati e impotenti dei fenomeni che minacciosamente li sovrastano. Per Chiaromonte la cosiddetta comunità mondiale è un’astrazione, perché «la comunità reale non può mai essere universale». E pur non rinunciando a ragionare, com’è ovvio, sui grandi problemi del suo tempo – le architetture teoriche, dopotutto, servono anche a questo – arriva a scrivere a Muska che anche «la “sorte dell’umanità” mi sembra un concetto astratto». Non dimentica che tutto è in qualche modo collegato a tutto: ma sa che è velleitario pensare di muoversi su un palcoscenico planetario come se fosse il proprio giardino. La comunità ha senso solo se mantiene una misura umana. Ed è, naturalmente, la misura mitica della polis: quella che la Arendt tenta di ritrovare in certe «repubbliche elementari» moderne, e che il più fiducioso Illich prova a realizzare nelle sue antiburocratiche istituzioni «conviviali». Ma si tratta di forme fragilissime. Scomparsa la miracolosa invenzione cittadina dei greci, semplifica Nicola nel suo dialogo con Muska, sembra di assistere a una enorme interminabile diaspora di individui erranti. Qua e là, alcuni di questi individui hanno provato a ricreare delle labili forme di “città”: prima con il monachesimo (altrove Chiaromonte cita entusiasta i versi di Dante sui seguaci di San Benedetto resistenti alla «brutalità del secolo»: «Qui son li frati miei che dentro ai chiostri/fermar li piedi e tennero il cor saldo»), e in seguito con le alleanze tra i dotti. Nelle sradicate società moderne, è comunque difficile che la comunità possa darsi come realtà visibile: quando c’è, sarà piuttosto formata da pochi individui sparsi per il mondo che nutrono idee abbastanza simili sulla vita umana.

E’ questa l’esile «comunità» che Nicola costruisce coi corrispondenti come Muska, e che ogni tanto riacquista una provvisoria concretezza fisica grazie agli incontri di qualche gruppo di studio. E’ interessante, a questo proposito, il rapporto che legò Chiaromonte ai suoi amici libertari newyorchesi. Durante l’esilio statunitense, di comunità concrete l’intellettuale italiano parlò molto, stimolato anche dal suo empatico confronto con Camus, che durante una visita a New York aveva auspicato la nascita di piccole «società nella società». E non a caso la McCarthy – che considerava la conoscenza di Chiaromonte un evento decisivo della propria vita – ne fece l’ispiratore e «Fondatore» della cittadina rurale di Utopia, rappresentata nel suo romanzo L’oasi. Ma l’autrice sapeva bene quanto il suo amico diffidasse delle immediate realizzazioni delle utopie, perfino di quelle così circoscritte: e infatti lungo tutto il racconto, che lo evoca in un leggendario Monteverdi il cui limpido metafisico pensiero si riassume tutto nella «idea di limite», Chiaromonte resta lontano e invisibile, impegnato a lottare in un’Europa pericolante; mentre i compagni, ritiratisi nella loro utopica comunità di campagna, finiscono per smarrirsi in battibecchi goffi e sterili, descritti con una verve critica e satirica che utilizza molti argomenti chiaromontiani. Le idee dell’italiano, che aveva corretto le superstizioni attivistiche e ancora un po’ marxistiche degli amici americani col suo rigore filosofico e col suo esempio morale, servono insomma alla McCarthy non soltanto per evocare un sogno, ma anche e soprattutto per indicare l’improbabilità della sua realizzazione.

A Muska, Nicola dice che è stato Caffi, suo «solo vero amico e maestro», a insegnargli il valore delle comunità ristrette. Però il vagabondo Caffi, se da un lato appare più solitario e idiosincratico, dall’altro resta assai più affamato di socievolezza del suo allievo. In questo ultimo rappresentante del socialismo libertario fiorito prima del ’14, il mito comunitario è legato a uno spirito caotico ancora ottocentescamente, fiduciosamente agitatorio e malgrado tutto “pansociale”, che non si ritrova più nei discorsi chiaromontiani sulla possibile «secessione» e «separazione» di piccoli gruppi dal complesso della società.

In ogni caso, il modello resta: solo, ora il suo valore politico è tutto indiretto, e la comunità immaginata sembra raccogliersi sostanzialmente intorno alle idee e alla cultura, a una “scettica” discussione socratica da cui emergono però seri giudizi morali ed estetici. Questo modello non nasce da uno sprezzo elitario, ma dalla consapevolezza che in certe situazioni, come nelle società di massa occidentali del tardo Novecento, ogni tentativo d’impegnare le proprie convinzioni in qualche azione ad ampio raggio mette inevitabilmente gli uomini in una posizione irreale e falsa. Ma a dire il vero, anche qui il comunitario Chiaromonte è più netto e più radicale. Senza alcuna soddisfazione pseudoaristocratica, ma anzi col dolore di chi è costretto a prendere atto di una inspiegabile ingiustizia, si ritrova a constatare che il «numero» svaluta e disumanizza fisiologicamente qualunque esperienza. Così è per la scuola, così è in generale per le organizzazioni sociali; e così è per quella comunicazione di massa in cui ormai consistono e si annullano sia l’agire cosiddetto politico sia le relazioni sociali quotidiane. Questa comunicazione, proprio perché si vuole universale, si riduce a un codice di segnali poverissimo, che tende a svuotare ogni vero dialogo. «Sono arrivato alla convinzione» scrive Chiaromonte a Muska «che la parola ha senso solo per quelli per i quali è stata pronunciata – ed è stata pronunciata nella convinzione che potessero capirla. Ogni parola. Ossia che non c’è falsità più grande di quella di un supposto linguaggio “per tutti”: cinema, televisione o altro congegno che sia. Un linguaggio “per tutti” dev’essere necessariamente una convenzione, un artificio, una falsità – giacché, essendo rivolto a tutti per essere (soi-disant) compreso da tutti, sarà anche necessariamente rivolto a nessuno in particolare: a nessun “individuo”, voglio dire». Solo in una comunità ristretta i gesti hanno un senso, e solo lì esiste una «parola significante». «Stia fra me e te la verità, il più vero dei beni», dicono i versi di Mimnermo tradotti da Nicola per Muska, da cui è stato tratto il titolo del loro carteggio. La verità è relazionale, o non è. Ma la relazione deve riguardare individui legati da un retroterra comune, persone che non siano nella condizione di anonimi uomini-massa: «piaccio a quelli cui devo piacere», dice l’Antigone cara a Chiaromonte. E tanto basta.

Queste sono le condizioni necessarie per pronunciare quel genere di parola sensata che «dà luogo a “discorso”»; e «solo dal “discorso” (e dal “dialogo”) nasce l’ordine, e con l’ordine la possibilità d’armonia». Dal che s’intende che la comunità non è solo il presupposto del vero dialogo e dell’azione significativa, ma anche, di conseguenza, la cornice di ogni vera contemplazione estetica. Quando, con termini simili a quelli che identificano la sfera pubblica arendtiana, descrive a Muska lo «spazio libero creato in comune perché serva a tutti – e tutti possano manifestarvisi per quello che sono», Chiaromonte ha in mente sia il modello della polis che le armonie severe delle sue architetture e del suo teatro. Emblematico, da questo punto di vista, è il passo in cui individua una delle caratteristiche più notevoli di Venezia, e di certe città toscane, nel fatto che vi «si vedono le persone. Il campo visuale è ristretto – i “fondali” sono sempre oltremodo ravvicinati, e si sta sempre “de plain pied” (…) e ogni persona o gruppo che avanza è come se entrasse in scena»; il contrario di quel che avviene nelle metropoli, specie nelle metropoli americane, dove «il volto umano è parte di un magma di volti, e non si vede nessuno perché non si può guardare».

Questo campo visuale «ristretto» offre un’immagine plastica dello spazio comunitario chiaromontiano. Che già così, lo si vede bene, è uno spazio intrinsecamente teatrale. E il teatro, per Chiaromonte, non è infatti nient’altro che la mise en abîme formale della comunità, il «tribunale» che ha il compito di schematizzare e giudicare il suo legame coi singoli e con il cosmo, rappresentando i modi in cui l’uomo si rapporta a «il mondo, gli altri, la verità».

Nel pensiero di Chiaromonte, discorso ordinato, comunità e «situazione drammatica» sono quindi termini strettamente connessi. Per questo, quando recensisce una pièce, può passare dal giudizio estetico a una riflessione sul contesto sociale senza soluzione di continuità, e senza mai trattare lo spettacolo come pretesto. Ed è per la stessa ragione che, malgrado i suoi molti dubbi sul confuso miscuglio di cerebralità e brutalità realistica delle nuove tendenze sceniche, nelle lettere a Muska parla con simpatia di Eugenio Barba, dopo averlo sentito descrivere il suo gruppo come una «piccola società» monacale in cui ognuno occupa il proprio posto in piena libertà e responsabilità.

Chiaromonte ha maturato le sue opinioni teatrali sotto l’influenza di Pirandello, e dell’interpretazione che ne ha dato Adriano Tilgher. A differenza di Gramsci e Silvio D’Amico, Tilgher insisteva sul contenuto filosofico dei drammi pirandelliani, proponendo così una concezione dell’arte come discorso intelligibile che era quasi estranea alla cultura italiana, e soprattutto ai contemporanei letterati variamente crociani o dannunziani. Da questa concezione nasce il pensiero estetico di Chiaromonte, e in particolare la sua idea di teatro come «azione ragionante». E’ un’idea che riporta la letteratura drammatica alla sua origine e al suo valore comunitario, identificando nella scena l’unico luogo in cui gli uomini siano in grado di realizzare il sogno di Malraux: quello di una coincidenza limpida e totale tra agire e ragionare. Nel gioco estetico, dove mezzi e fini s’identificano strutturalmente, le trame ambigue di fatti e pensieri che definiscono i rapporti umani, e le umane credenze sul mondo, si concentrano e convergono in un contrasto di trasparenza geometrica. Qui la trasparenza è resa possibile, tra l’altro, da quell’annullamento del tempo che anche per la Weil caratterizza il teatro più grande. Nel dramma perfetto, quando si alza il sipario, le avventure, le storie, i «casi» che hanno formato la biografia dei personaggi sono già bruciati: resta solo una situazione da svolgere con implacabile necessità logica, e un dialogo attraverso cui si mostra come l’eroe che agisce sia condotto dal destino a subire gli effetti di una forza collettiva e naturale senza scampo. Perciò il teatro puro schiva il realismo storico e quello psicologico, inevitabilmente legati al tempo. La sua problematicità è tutta razionale, astratta: e l’abilità del drammaturgo sta nell’isolare dal corso della vita sociale il tema che meglio ne rappresenta le contraddizioni insolubili.

Nell’apparenza scenica, «fingere» significa eliminare il «casuale» in nome dell’autentico, la cronachistica “realtà” in nome dell’essenziale “verità”. In questo senso, per citare ancora un passo dove si stringono in un solo nodo vita e “teatro”, è molto interessante la lettera a Muska in cui Chiaromonte se la prende con Ernesto De Martino e con la sua idea che la supposta interiorizzazione cristiana del dolore costituisca un “progresso” rispetto agli antichi lamenti funebri. Gli sembra infatti che l’espressione aperta e rituale delle lamentatrici greche o lucane sia “teatrale” in senso alto. E’ cioè una forma che riesce a portare alla luce e a comunicare a tutti la sofferenza proprio perché la stacca dal «linguaggio servile del quotidiano», perché non la affida al mero istinto ma a un vero «gesto», appropriato in quanto regolato comunitariamente, tramandato, «ieratico». Non ha nessun senso, secondo Chiaromonte, parlare di banale «finzione» o di banale «sincerità»: la verità emerge qui grazie all’apparenza. E da una situazione simile scaturisce il dramma in senso stretto.

  1. Pur attribuendo una evidente preminenza al teatro, Chiaromonte chiede qualcosa di simile anche alle altre forme d’arte. In tutte, cerca la stessa semplicità chiara e intelligibile a cui invita anche la Muska poetessa: «quella dei templi greci, di Santa Sofia, dei mosaici bizantini, di Masaccio». Ama l’arte che dà forma alle essenze ideali, non a un’espressione dell’io. Il modello di questa estetica è ancora greco, e a Muska Nicola ne confessa l’origine. Se torna così spesso sulle figure classiche, le dice, dipende forse dalla forte impressione provata da ragazzo davanti a una colonna dorica vista in un libro di Reinach, e rimasta per lui «l’immagine della pura e severa bellezza»: la bellezza che sprona a un’austera limpidezza morale, che ispira una pace armoniosa, e insieme addita un persistente enigma. Un enigma non molto diverso, forse, da quello che lo affascina nelle parole e nei versi della sua corrispondente, assimilati a una «statua arcaica» e a «un’immagine di mosaico, tutta splendida e impenetrabile», cioè a forme che indicano ancora il «divino».

Ma se tutto questo è vero, ci si potrebbe chiedere come mai Chiaromonte abbia speso tante pagine sul romanzo, l’arte per eccellenza moderna e realistica. Certo, le sue analisi gli servono a inquadrare e a criticare le credenze della modernità; e tuttavia, come spiegare la sua indubitabile ammirazione per le creazioni narrative più emblematiche di quell’Otto-Novecento da lui così bersagliato e detestato? In realtà, basta leggere attentamente per capire che anche qui il suo discorso teoretico-estetico mantiene una mirabile e per nulla volontaristica coerenza. Alla forma-non forma del romanzo, l’autore di Credere e non credere e della Situazione drammatica riserva un atteggiamento costantemente e motivatamente ambiguo, una specie di ammirata perplessità che non è affatto un segno d’incertezza critica, bensì il riflesso esatto delle contraddizioni intrinseche all’oggetto esaminato. Infatti, da un lato il romanzo si sviluppa col trionfo della Weltanschauung storicista; ma dall’altro lato, i suoi esemplari più autentici non fanno che contrapporsi ai referti ufficiali della Storia, tentando di raccontare una contro-storia più vera. Questo però, s’intende, non è sufficiente a sottrarli all’ideologia dominante. Perché anche le contro-storie si basano sulla convinzione che esista un’omologia tra i destini privati e i fenomeni sociali; e poco importa, poi, se da una tale convinzione si ricavano rappresentazioni ottimistiche o pessimistiche. A volte, tuttavia, capita che l’antagonismo sia portato così a fondo da mettere in crisi perfino la concezione organicistica su cui si regge il genere. Allora il romanzo tende a esorbitare dai suoi confini. Si dirà che questi confini sono molto malleabili: che si tratta della forma letteraria per eccellenza indefinita, e anzi destinata, se vuol restare genuina, a reinventarsi ogni volta da capo. Ma Chiaromonte ribatte che c’è un tipo di discorso davanti al quale il romanzo deve per forza arretrare: ed è la discussione aperta – non mediata dai personaggi, non ridotta a un puro ingrediente narrativo – delle idee e delle visioni del mondo che gli consentono e gli impongono il suo realismo, la sua fiducia intuitiva nell’intelligibilità psicologica e sociologica delle vicende umane. Il romanziere, finché resta del tutto romanziere, non può ragionare, affrontare un problema nei suoi elementi primi e nelle sue implicazioni ultime, senza depotenziarlo e trasformarlo in uno dei tanti contenuti che sostanziano il flusso dell’intreccio: questa nudità è consentita solo al teatro.

Il genere principe della modernità, figlio delle peripezie cristiane, può insomma raggiungere altissime vette d’arte, ma non può interrogarsi senza schermi sulla propria ideologia umanistica senza diventare qualcos’altro. In questa incapacità di darsi una rigorosa forma logica somiglia allo Stato moderno, che è quasi il suo corrispettivo politico. In un saggio giovanile, in cui tra l’altro anticipa Orwell e Arendt descrivendo gli effetti dei regimi totalitari sul linguaggio e la loro impermeabilità alle verità di fatto, Chiaromonte parla dello Stato appunto come di una istituzione compromissoria, di una forma informe destinata a ricevere dall’esterno i suoi contorni. Il fascismo è il fenomeno che rompe questa indefinitezza, traendo tutte le conseguenze implicite nell’idea moderna del potere: e così, in qualche modo, porta a compimento il destino della macchina statale mentre la riduce all’assurdo. Stato e romanzo sono forme “medie”, destinate a sopravvivere solo finché una crisi traumatica non rimette gli uomini faccia a faccia coi problemi elementari della vita comune, e insomma finché non torna a imporsi l’urgenza di pensare a questa vita con una coerenza più radicale, preclusa per principio ai loro compromessi tra singoli e collettività. Davanti alla crisi novecentesca, l’equilibrio fittizio, il mito di un’armonia prestabilita tra “interno” ed “esterno” su cui sorgono le narrazioni politiche e letterarie della modernità, si rivela ormai un meccanismo inerte, una pelle secca da strappare via per far emergere la realtà che preme sotto. E questa realtà può indurre gli uomini a inventare con coraggio nuove coerenti istituzioni, o ripresentarsi nella totale informità dei nichilismi distruttori che sono dilagati dopo il 1914. Velleitari, comunque, diventano tutti i tentativi moderati, ossia tutti i tentativi di restaurare forme ormai vuote.

Sul piano delle istituzioni politiche, furono queste idee a provocare l’allontanamento di Chiaromonte e degli altri «novatori» da Giustizia e Libertà. L’ideologia “media” e ibrida dei Rosselli, infatti, non approfondiva con coerenza né il contenuto del socialismo né quello del liberalismo, finendo per manovrare dei vaghi pseudoconcetti e per inquadrarli nella vecchia cornice del parlamentarismo prebellico e dello Stato centralizzato. I Rosselli rifiutavano di prendere atto della tara fisiologica di questa cornice – tara rivelata una volta per tutte dal fascismo – e quindi di ripensare radicalmente il teatro della democrazia, che per Chiaromonte, e in parte per i suoi compagni caffiani, poteva acquistare un senso e inverarsi sul serio soltanto in comunità di base autonome. Come in letteratura i narratori del Novecento che scrivono romanzi epigonali, improbabilmente ottocenteschi, così in politica i Rosselli continuano a credere nell’astrazione dell’Individuo Liberale, quell’Individuo che sottovaluta il potere del fato, che si ritiene fabbro della propria fortuna, e che s’inserisce “naturalmente” nel quadro di istituzioni borghesi refrattarie a porsi domande sui loro fondamenti ultimi, sulle conseguenze estreme quanto inevitabili della loro logica interna. Il “contratto” su cui i liberali fondano la società è il romanzo politico che serve ai moderni per esorcizzare ciò che di necessariamente oscuro resta sempre alle origini dei legami sociali e naturali. Ma quando una tale forma si evolve secondo i suoi principi, il volontarismo che la sostiene si ribalta a poco a poco nel fatalismo storicista, in una sclerotizzazione burocratica e in un immobilismo a loro volta liquidati dalla soluzione finale dei totalitarismi. E’ la stessa parabola che tocca al romanzo in senso stretto, specchio poetico di questa Storia.

La perfetta corrispondenza che si riscontra nel pensiero di Chiaromonte tra i due lati della questione ne dimostra una volta di più la compattezza. E’ una compattezza mai esibita, impermeabile agli orgogli autopubblicitari della filosofia sistematica e professorale, ma perciò anche molto meno superficiale e più credibile. Tra il Chiaromonte libertario, che difende un’idea platonica di libertà ma rifiuta di fissarla nelle definizioni del liberalismo classico, e il Chiaromonte teorico dell’arte che al tempo delle narrazioni moderne oppone l’atemporalità del teatro antico, c’è fin dagli esordi un rapporto stretto e spontaneo.

Ma a differenza dello Stato, come si diceva, il vero romanzo oltre che specchio delle ideologie moderne è anche una loro critica impietosa. E a Chiaromonte interessano gli esperimenti nei quali questa contraddizione si estremizza fino a incrinare l’impianto formale. Lo interessano cioè i romanzieri che tengono fermo lo sguardo sulla vanità di quelle ideologie con un coraggio e una lucidità tali da spingerli a tagliare il ramo su cui sono seduti. Il caso più esemplare è ovviamente quello di Tolstoj. Ma anche l’altro protagonista di Credere e non credere, l’autore della Certosa di Parma, mostra sullo stesso piano una spregiudicatezza sorprendente, tanto più se si considera che scrive ancora nell’età eroica del romanzo. Già in Stendhal, spiega Chiaromonte, questa forma è messa sottilmente ma strutturalmente in discussione: tende a divenire una “favola”, un apologo che illustra l’estraneità degli “eventi” e dei “sogni”, accomunati solo da un’uguale inconsistenza. «Tutto Stendhal sta, si può dire, nella capacità di tenersi allegramente alla punta estrema del paradosso per cui né il cosiddetto mondo esterno – la società con le sue trame, gli altri con i moti imprevedibili del loro animo – è reale, né i sentimenti e le immaginazioni dell’individuo: reale è sempre e soltanto lo scontro fra i due ordini di fatti, la “commedia di equivoci” che ne scaturisce», scrive Chiaromonte. Questo scontro è l’argomento fondamentale di Stendhal: e se riesce a trattarlo in una forma ancora apparentemente romanzesca, è perché quel suo mondo narrativo, in cui il vissuto e la Storia rischiano di dissolversi a ogni pagina, è tenuto in piedi da un ultimo fragile mito individualista, il mito della vulnerabile ma indomabile energia giovanile, della fresca sensibilità adolescente che s’impone poeticamente su tutto e malgrado tutto.

Anche Tolstoj ha un mito: la naturalezza della vita “semplice”, la vita fatta di passioni pure, elementari, e dunque rousseauianamente morali. Ma questo mito è ancora più fragile. Nei capolavori del romanziere russo, infatti, la naturalezza si scopre illusoria non appena un’emergenza, un improvviso disordine esistenziale e soprattutto il disordine della guerra mostrano la «grave dipendenza» che lega tra loro gli uomini, denudando quelle relazioni dal cui groviglio si sprigionano le forze incontrollabili di un potere malvagio e impuro. Nella Storia, nelle gravi faccende pubbliche non c’è alcuna verità; ma infine anche la vita semplice si rivela un’illusione in sé. Anche la quotidianità, come prova Anna Karenina, viene inevitabilmente scossa dalla furia arcana del destino e della nemesi. Anzi, per apparente paradosso, quel sentimento del divino che nelle vicende umane sembra il solo spiraglio offerto alla ricerca del vero, getta sui personaggi la sua luce più pura proprio davanti alla violenza bellica. La guerra, certo, tende a trasformarli in oggetti con brutalità inaudita: ma proprio per questo, assai più dell’esistenza normale, li obbliga anche a intuire ciò che in loro non può mai essere ridotto a materia, sottomesso o distrutto. Questa, in Guerra e pace, è l’esperienza totale di Andrej e di Pierre. Ma si tratta pur sempre di un’epifania istantanea, di un’intuizione e di un sentimento che balenano un attimo squarciando le opacità della coscienza per poi subito svanire, o comunque per perdersi in una ineffabilità inutile e incondivisibile. Non si possono esprimere, trasformare in durata e discorso, se non al prezzo di tradirne la purezza: ed è ciò che avviene quando Tolstoj prova a tradurli in una religiosità universale, dando nomi sempre più improbabili o quasi filistei a una fame di verità che di filisteo non ha nulla. Ma questo difetto, che riguarda il Tolstoj pedagogo, non inficia la superiore onestà del romanziere, la cui obiettività di sguardo è tale da escludere o comunque problematizzare al massimo ogni mitizzazione della vita “naturale”. E a metterlo in guardia è prima di tutto la scoperta decisiva compiuta al tempo di Guerra e pace: la coscienza, cioè, del fatto che è impossibile naturalizzare davvero la vita degli uomini, interpretarla e modificarla come s’interpreta e modifica il mondo della natura.

  1. Niente come l’atteggiamento di Chiaromonte verso Tolstoj spiega il suo modo di guardare alla narrativa moderna: il romanziere che più ama è quello che col suo estremismo etico e teoretico mette sotto scacco il romanzo, è lo scrittore che porta questa forma al suo massimo splendore ottocentesco, ma al tempo stesso si mostra già novecentescamente insofferente dei suoi limiti. Tolstoj muore nel 1910. Nell’ottica chiaromontiana, imbastire plot romanzeschi senza peccare di volontarismo e malafede diverrà di lì a poco quasi impossibile, come diverrà quasi impossibile tentar di restaurare senza volontarismo e malafede lo Stato liberale e le credenze su cui poggiava. La “realtà” compatta da cui emanavano le narrazioni moderne si rivela nel Novecento un mito, una fantasia ormai logora e staccata dai fatti. Perciò le riproposizioni del realismo ottocentesco suonano false, e la trama del romanzo “medio” diventa un succedersi di meri casi insignificanti, del tutto surrogabile dal succedersi dei fotogrammi cinematografici. A questo punto, delle due l’una: o si dissolve il romanzo dall’interno, immergendosi nelle pieghe e nei tempi interiori della psicologia e fabbricandosi una «eternità» estetica come Proust; oppure si abbandona il campo, e si torna alle domande extraestetiche e primarie, interrogandosi sulle ragioni per cui le vecchie credenze sono morte. Così, almeno, vorrebbe il rigore chiaromontiano. Nei fatti, ovviamente, la situazione è molto più ambigua. E uno dei casi più interessanti di ambiguità glielo offre il suo amico Moravia: che, come Forster, trucca superstiziosamente da romanzi realistici parabole il cui pregio è invece la nuda e non più romanzesca esemplificazione di un mondo ormai carente di realtà.

In ogni caso, ciò che rimane di romanzesco e di naturalistico nell’arte sembra ormai inservibile e tendenzialmente menzognero. Del resto è proprio per mentire, per escludere artificiosamente una parte di esperienza vera, che gli artisti engagés e soprattutto i cosiddetti “realisti socialisti”, cioè le incarnazioni intellettuali dell’ortodossia politica, si rifanno a modelli ottocenteschi piegandoli alla propaganda. Il fatto, nota Chiaromonte, è particolarmente evidente nelle arti figurative: qui i rappresentanti del realismo socialista credono di potersi servire del naturalismo dell’Ottocento come i gesuiti si servivano del classicismo del Cinquecento e del Seicento. Ma poiché l’arte postromantica non è normativa, e il suo realismo esiste solo come continua e anarchica ridefinizione del reale, se s’irrigidisce la sua tradizione in norma si scade subito in un eclettico poncif.

Per fortuna, però, proprio dall’est schiacciato sotto i sistemi del socialismo reale e del realismo socialista sembra venire anche la reazione più promettente alla crisi estetica novecentesca, almeno a quella letteraria. A leggere certi autori dissidenti, sembra anzi che di là possa perfino rinascere una forma non volontaristica di romanzo, magari ancora pervasa dalle vaste aspirazioni d’integrità spirituale della tradizione russa e tolstojana. E’ per questo che nelle lettere a Muska Chiaromonte insiste speranzoso sul nome di Solženicyn. L’autore di Arcipelago Gulag gli sembra una miracolosa alternativa all’intellettualismo egomaniaco, una straordinaria incarnazione dell’umanità che ama il mondo ma ne rifiuta l’illusorio possesso, e che nelle condizioni più estreme sa ritrovare i modi giusti per comunicare le verità basilari e durevoli della vita. Per la stessa ragione, nelle lettere ragiona su Pasternak, cita Brodskij, e scrive di apprezzare il Kundera dello Scherzo. Pare quasi che l’emergenza, la sofferenza, l’oppressione da cui nascono i libri di alcuni di questi autori siano le uniche condizioni perché la letteratura torni credibile, e in particolare perché torni credibile la narrativa romanzesca prosciugata dall’Occidente del pieno e tardo ventesimo secolo.

Ma si tratta, appunto, di casi eccezionali. In assoluto, per Chiaromonte il romanzo non è più il centro della letteratura. I traumi bellici, e quelli economico-mediatici, impongono di progettare soprattutto opere in cui sia possibile interrogarsi esplicitamente, senza mediazioni, sui rapporti tra arte e società, e sulle ragioni per cui si è rimasti privi di vere credenze, cioè di credenze condivise. Perciò, caduti i miti fondanti del realismo, riacquista un senso nuovo il teatro, «luogo dove la realtà è messa pubblicamente in questione». Pur con molta cautela, Chiaromonte suggerisce allora che forse per la prima volta dopo duemila anni, anzi per la prima volta dopo la fine della civiltà greca classica, la «situazione drammatica» potrebbe risorgere nella sua purezza. Ma s’intende che il teatro degli orfani del cristianesimo, ai quali la realtà appare come una serie di evidenze nude, irrelate e dunque incredibili, non può che essere speculare al teatro greco: una «azione ragionante» tutta tesa a rendere intelligibile non la coesione, il «cosmo», ma il caos a cui il fato novecentesco ci condanna.

Tuttavia, anche quando accenna a una prospettiva, a una speranza di cambiamento, Chiaromonte si guarda bene dal trasformarla in un programma campato in aria, e quindi in un’ennesima forma di compensazione ideologica. Nell’idea ossimorica del «nichilismo positivo», il sostantivo importa quanto l’aggettivo, e riflette tutta la sua disapprovazione per i troppi censori della modernità che credono di poter sottovalutare la crisi di credenze e valori. La verità è che nessuno può superarla da solo e di colpo, nessuno può tirarsi su per i capelli alla Münchhausen: nemmeno gli artisti. Si dirà che questa posizione potrebbe in qualche modo giustificare l’afasia dell’arte otto-novecentesca. E’ vero. Ma la giustifica solo a patto che gli autori dei suoi abbozzi informi e assurdi accettino di considerare le loro opere per quello che effettivamente sono: sintomi dolorosi dell’impossibilità di un’arte autentica, e non frutti compiuti di una legittima, soddisfacente concezione estetica. Chiaromonte pretende che non si chiami l’informe nuova forma, e che si abbia il coraggio di scontare la crisi in tutto il suo peso senza rifugiarsi in un presunto privilegio di casta. Perché l’arte non può vivere sdegnosamente staccata dal mondo da cui affiora, e non può essere fondata sull’arbitrio soggettivo o sulla capziosità teorica. In una delle prime lettere a Muska riporta un passo dei suoi taccuini sulla bellezza, Leitmotiv del carteggio, che spiega bene il suo punto di vista antimoderno: «La differenza fra godimento estetico e senso della Bellezza», scrive, «si può paragonare a quella che esiste fra la verità secondo la logica formale (che è una verità negativa, nel senso che ci offre la regola del falso, ma non il modo di accedere al vero) e la verità vissuta e contemplata, che è accordo fra l’esperienza del reale e la necessità propria del pensiero».

La bellezza nasce da un mondo ideale costruito in comune: concentrandosi sulla sensibilità del soggetto, ciò che si ottiene è solo un’effimera impressione (piacevole o shockante) o un’effimera ideologia poetica. In un saggio famoso su una terzina di Dante, Chiaromonte osserva che noi siamo così abituati a delibare l’arte secondo i presupposti del soggettivismo estetico, che fatichiamo a onorare in pieno la complessa bellezza intelligibile di testi costruiti su altri fondamenti. Generalizzando quell’analisi, e opponendosi alle strumentalizzazioni ermeneutiche, afferma decisamente che se il senso di un’opera sta in ogni esecuzione o lettura, tuttavia «l’opera rimane al tempo stesso una realtà in sé, inesauribile. Così della “lettura” del mondo che noi vivendo facciamo: ne siamo interamente responsabili e autori. Ma “leggiamo” il mondo, non il nostro “ego”»

.11. E così, siamo tornati a quello che insieme con la Storia è l’altro bersaglio grosso di Chiaromonte: l’ego, e nello specifico l’ego delle sedicenti scienze psicologiche. Le quali scienze, poi, non sono altro che il côté “individualistico” delle ideologie storiciste. Per Chiaromonte, platonico e husserliano, l’idea di trattare la persona e le sue ragioni come un oggetto “obiettivo” delle scienze naturali, quasi che chi le giudica non si trovi profondamente implicato nel giudizio, è una bestemmia, un sintomo di tracotanza intollerabile estremizzato nella psicanalisi. Pretendere di avere per specialità «l’animo umano» significa coltivare di fatto una tendenza «totalitaria». La psicologia accettabile è per lui una faccenda d’intuizioni, di tatto e di verosimiglianza: è quella, senza pretese di verità obiettiva, proposta dai più acuti moralisti, filosofi e romanzieri. Ha senso se «negativa» e «ironica», cioè se serve a demistificare un’idea dogmatica della natura umana. Il resto è truffa; ed è, come la psicanalisi, la parodia delle narrazioni moderne. Questo giudizio ferocemente liquidatorio è determinato anche dal fatto che il sogno «totalitario» degli psicanalisti intende portare l’uomo a uno stato del tutto opposto all’equilibrio sognato da Chiaromonte. Anche su questo tema, le lettere a Muska offrono passi sintetici e definitivi, che si possono associare alle requisitorie della Weil contro i cedimenti agli impulsi e alle immaginazioni interiori. «Che cosa significa “manifestarsi”?», le scrive Nicola. «Non certo, assolutamente no, quello che intendono gli psicanalisti. Ma arrivare al punto in cui c’è equilibrio di verità fra il proprio “essere interiore” (il “meglio” di sé) e quello esteriore. Gli psicanalisti per “essere interiore” intendono l’opposto: il subbuglio mostruoso degli istinti, impulsi, voglie, appetiti – e questo, io direi, non è niente di “reale”: è quello che Blake intendeva per “pestilence”. In sostanza, è il cattivo sogno del quotidiano». E di questo sogno, dei fantasmi passeggeri e non chiarificabili degli «stati d’animo», il teatrale Chiaromonte è così insofferente da avvisare Muska che cercherà di non condividerli con lei: anche se poi, per fortuna, infrange la regola e ci restituisce vivacemente gli umori da cui nasce la sua nettezza teorica.

  1. Il rifiuto d’interpretare la realtà mettendo al centro i moti che si agitano nel singolo da una parte, e il puro seguito delle sue azioni “storiche” dall’altra, favorisce un curioso rapporto tra l’autore di queste lettere e la cultura antiumanistica che negli anni Sessanta conquista l’egemonia contro il vecchio umanesimo storicistico. Come e più che altrove, Chiaromonte dichiara qui la sua ammirazione per lo strutturalismo di Lévi-Strauss e di Foucault – con cui ha modo di dialogare in pubblico – oltre che per il loro antenato Saussure. Sempre in cerca di modelli astorici e puri da contemplare, è affascinato dalla loro lettura astratta del mondo e del linguaggio. Al tempo stesso, però, non può accettarne una caratteristica decisiva: la vocazione alla tecnocrazia, la tendenza a ritenere l’uomo superato da strutture concepite come meccanismi. Perché per Chiaromonte, al contrario, i modelli e gli ordini che sovrastano fatalmente le contingenze della vita umana non sono mai del tutto afferrabili. Tipico il caso del linguaggio, da lui così amorevolmente indagato, anche in queste lettere, attraverso le etimologie. Ogni idea sulla sua origine si dimostra a suo avviso insufficiente. La sua natura resta inspiegabile, la sua nascita un mistero; ed è da questo mistero che deriva il resto, l’ordine propriamente e solamente umano. Ciò equivale a dire che le “strutture” hanno a che fare col divino: mentre gli strutturalisti lasciano intendere che somigliano a schemi calcolabili e magari manipolabili. Riemerge qui di nuovo la diffidenza di Chiaromonte davanti a tutte le visioni che cercano la verità e il senso nelle tecniche, ricadendo così in una ingannevole semplificazione antidealista anche quando dal gioco puro delle idee erano partite.

Nel carteggio, una notevole ramificazione della polemica contro la “obiettività tecnica” riguarda la fotografia e il film. Per Chiaromonte il cinema, al contrario della vera arte drammatica, propone solo una successione di meri segni incapaci di trasformarsi in significati complessi: sta tutto nell’effetto immediato, e appena cerca di proporsi mete intellettuali, magari pretendendo che indugi e lentezze rendano un paesaggio o un volto oscuramente significativi, rischia di cadere nella comicità involontaria di certo Antonioni e certo Bergman. Scrive a Muska che la fotografia, l’immagine meccanica, riporta «a un falso primitivismo e pre-logismo». Nella ottusità fotografica, nel puro documento non può esserci verità. Ricopiando passi dei taccuini, arriva a proporre all’amica un esempio eloquente. Se avessimo una registrazione totale, una documentazione assoluta delle vite di Socrate e Cristo, le dice Nicola, ciò non ci aiuterebbe affatto a conoscerli davvero, come una fotografia del Cristo e della Vergine dentro una chiesa non favorirebbe per nulla l’adorazione. La verità, il senso della loro presenza sta solo nell’idea: sta, cioè, solo nel mito e nel discorso ordinato che l’esperienza del rapporto con queste figure e con le loro parole hanno prodotto.

  1. Come si vede, dal carteggio con la suora benedettina emergono davvero quasi tutti i motivi salienti dell’opera chiaromontiana. Ed emerge, con più aperta insofferenza, l’opposizione a un modo d’essere contemporaneo che sembra lasciare come sola via d’uscita una sorta di fatalistica saggezza. Ma in realtà Chiaromonte è troppo combattivo per diventare del tutto “laotsetiano”. Diciamo piuttosto che la sua è una forma molto personale di resistenza stoica. Con un’assertività drastica, antica, impaziente di ridurre l’importanza dei problemi sociali e individuali, ripete a Muska ciò che dice nei taccuini: che la vita è «intera» in ogni condizione, che la differenza tra gli stati e le fortune è disprezzabile. Quel che resta da fare, in ogni caso, è tenere fermo il vero e la propria identità; accettare il dolore, e fissarne senza paura l’aspetto indecifrabile. Bisogna, insomma, far la parte del Sisifo di Camus: avere il suo senso del limite e del fato, ma conservare anche il suo sempre rinascente pathos della libertà, una libertà da condividere con individui in carne e ossa, al di qua e al di là di ogni fanatica astrazione. Però bisogna fare tutto questo senza perdere di vista quella religiosità “greca”, che a Camus era velata dall’insistenza sull’assurdo e su un troppo generico umanismo.

A questo punto, tuttavia, è davvero difficile dire cosa davvero «rimane» dell’uomo, del suo senso. E non è un caso che quando cerca di farlo, il piano Chiaromonte si avvicini quasi alla mistica Weil o al non amato Kafka, e in genere a un linguaggio impensabile senza la modernissima tradizione kierkegaardiana. Se la vita umana somiglia a un frammento, a una serie di occasioni insensate e di situazioni incompiute, «conta (…) alla fine, questo fatto soltanto: ciò che si sentiva o si avvertiva di significato possibile della vita – ciò che dell’Essere del mondo arrivava fino a noi, insomma – e non era in ogni caso – né poteva essere – che l’ombra di un’ombra. Eppure questo resiste al Nulla. Non può essere distrutto perché non è mai appartenuto al mondo del cambiamento: è stato, se si vuole, un miraggio fermo e fisso, più forte in noi di ogni supposta “realtà”!».

Ma in Chiaromonte, lo stoicismo da cui nasce un pensiero così vertiginosamente antimondano non è mai scindibile dai destini generali. Come ribadisce ovunque, il singolo individuo può capire o vedere alcune cose che restano oscure ad altri, ma non può sfuggire alle credenze comuni attraverso cui una società concepisce il rapporto tra l’uomo e il cosmo: «del mondo nel suo insieme non si può credere che quel che ce ne appare attraverso i modi d’essere e di pensare dei nostri simili». Perciò Nicola scrive a Muska che «non si può essere superiori al destino che vi colpisce». Questo pensatore antimarxista, e così platonicamente convinto della realtà del puro mondo ideale, comprende benissimo la dialettica che lega ciascuno al suo tempo, e a quelle visioni che non coincidono né con idee astratte né con contingenti stati d’animo, ma rinascono ogni giorno negli scambi sociali. Così, sa che è impossibile separare dalla massa delle élites d’irriducibili individui integri: perché siamo tutti in parte individui integri, o almeno resistenti, e in parte uomini-massa arresi all’apatia e all’ignavia, abituati a vivere rimandando le scelte nette tra bene e male e agendo «senza persuasione e, nel contempo, senza violare chiaramente nessuna norma intima; ma anche senza osservarne chiaramente nessuna». Anche a Chiaromonte, nel suo lavoro di pubblicista controvoglia, capita perciò di sentirsi «metà compromesso e metà intransigenza», incapace di attingere quella «estrema semplicità» senza schermi che sola riporta alle circostanze elementari della vita e dunque alla verità. E’ questa consapevolezza che lo distingue da tanto aristocraticismo in finto oro del Novecento, cioè da chi crede o finge di credere a una restaurazione dei valori, e pensa di potere salvarli e salvarsi restando immune dall’involgarimento del mondo in cui vive. E’ una consapevolezza che si riflette anche nello stile. Come osserva Karpiński, Chiaromonte non vuole sedurre il lettore, strappare l’applauso da aforista brillante, ma mettersi a ragionare con lui, scrivere in modo che in primo piano appaia sempre il nocciolo essenziale del problema trattato; e se accosta bruscamente esperienze culturali lontane nel tempo, non lo fa per stupire postmodernisticamente il pubblico, ma perché una volta spogliate degli involucri rivelano nuclei di pensiero che si fecondano a vicenda e aiutano il ragionamento a procedere. Non è illegittimo ritenere che questi tratti della sua opera abbiano contribuito alla sua sfortuna presso gli editori (i curatori del carteggio con Muska ricordano il rifiuto di Adelphi): certo è quasi impossibile stilizzare Chiaromonte in uno scintillante e vendibile logo culturale. Così i suoi scritti, spesso usciti in prima battuta all’estero – sulle riviste polacche della dissidenza, negli ambienti anglosassoni – o in edizioni italiane ormai quasi introvabili, rimangono pressoché sconosciuti ai lettori del Duemila. Hanno fecondato le riflessioni delle sue esili e prestigiose comunità cosmopolite novecentesche; ma oggi che quelle comunità non ci sono più, rischiano di non poter nutrire con la loro energia intatta le nuove generazioni di cittadini dell’Italia, dell’Europa e del mondo. E’ anche questo un piccolo esempio dello sconfortante gioco di forze in cui si concretizza la poca sensatezza della Storia – storia della cultura compresa. Chiaromonte insegna a non farne un idolo, a preservare la propria vita mentale dai suoi ricatti e dalle sue immagini stereotipate, ma sa che non si sfugge al loro manifestarsi; non li si controlla: ma non si può fare a meno, tenendo fermo il vero, di scontrarcisi e di tornare di continuo a denunciarli. Spesso, nel carteggio con Muska, torna il riferimento a una grotta di Paros, emblema di uno spazio puro e alieno dal caos; e spazio puro, mentale, è il giardino immaginario che la suora disegna per l’amico. A un certo punto, la fame platonica di idee che Nicola mostra nelle sue lettere deve averla indotta a ricordargli l’importanza della vita “reale”, dei «piatti da lavare». Lui risponde rassicurandola sul fatto che «i piatti», volente o nolente, li lava ogni giorno: nei “fatti” ci si urta sempre e comunque. Eppure non si può non notare che anche accennando ai lavori pratici, Chiaromonte mette subito l’accento su un loro valore in qualche modo ascetico. Per quanto la vita umana sia incoerente e frammentaria, è probabile che questo intellettuale platonico riuscisse a render visibile anche nell’esistenza quotidiana una coerenza, una integrità dai contorni straordinariamente netti e plastici. E forse questo spiega perché alla McCarthy e a Malraux sia venuto in mente di trasformarlo rispettivamente nel Fondatore Monteverdi dell’Oasi e nel «piccolo Scali» che, con una discrezione e un disagio pari all’eroismo, partecipa alla guerra aerea spagnola della Speranza: cioè in quelle figure per eccellenza ideali, e quindi capaci di rivelarci chi siamo davvero, che sono i personaggi dei romanzi.

In  Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia, Quodlibet 2014

Da: www.claudiogiunta.it/2017/09/la-verita-del-dialogo-un-ritratto-di-nicola-chiaromonte/

 

 

 

Fra cinici e gesuiti

 

La straordinaria figura di Nicola Chiaromonte, discepolo di Andrea Caffi, amico di Moravia, Camus e Malraux, con cui combattè in Spagna, critico radicale di ogni ideologismo, di ogni totalitarismo, di ogni società che vive in malafede, pronta a credere a ogni menzogna. Fu nemico spietato del mito dello Stato, nato con la modernità, che accomunò Mussolini, Stalin e Hitler. L’esperienza feconda di Tempo Presente, condivisa con Ignazio Silone. Grande libertario, incompreso dalla sinistra, stalinista e non, continuò a credere nella necessità di gruppi e comunità che si opponessero alla deriva, oppressiva e permissiva insieme, della società occidentale. Intervista a Gino Bianco.

Gino Bianco, studioso del movimento operaio e socialista, giornalista e saggista, è stato amico e collaboratore di Nicola Chiaromonte.

\r Nicola Chiaromonte, che fino alla morte è stato un intellettuale molto discusso, oggi viene riscoperto come possibile ispiratore di una sinistra post-comunista…

\r Per me, Chiaromonte è stato un maestro non solo per il pensiero, ma anche per la vita. Come il suo amico e maestro Andrea Caffi, fu innanzitutto un uomo con la passione della politica e del pensiero ed è per questo che anche i suoi scritti, parte dei quali è stata ripubblicata da Il Mulino, non hanno un carattere sistematico, né possono averlo, perché sono il riflesso dell’itinerario travagliato di un pensatore originale ed anticonformista, di un militante politico, di un cittadino del mondo. Di lui, Gustaw Herling ha scritto: “Dai saggi giovanili sul fascismo fino alle riflessioni sui temi dell’arte c’è in tutta l’opera di Chiaromonte la critica alla nostra età che pratica il divorzio fra etica e politica. Scriveva in modo da trasmettere non solo un pensiero chiaro e libero, ma una continua tensione morale, in modo che nella parola viveva tutto intero e la esprimeva come una verità lungamente soppesata e sofferta. Provava ribrezzo davanti ai grandi sistemi e alle interpretazioni generali, sfiducia di fronte ai cavilli dialettici che storpiano la vita e alle ombre ideologiche che coprono la realtà, disprezzava lo psicologismo. Lo interessava invece l’uomo concreto di fronte agli avvenimenti concreti. Era, nel modo tolstoiano, capace di giudizio etico e allo stesso tempo consapevole di qualcosa d’imperscrutabile che l’oltrepassa. La tradizione greca era da lui intesa come una medicina contro il morbo della banalità plateale”. Per tutta la vita, infatti, Chiaromonte si è occupato di politica, di filosofia, di teatro -fu per molto tempo critico teatrale, prima al Mondo di Pannunzio e poi a L’Espresso- e di letteratura, cercando sempre di andare alla radice delle idee e facendo giustizia delle tante sciocchezze correnti in una cultura formalista e provinciale quale era quella italiana in cui visse. Sempre animato dalla passione per la meditazione sull’azione politica e, in senso lato, sul significato della storia, come emerge dai saggi su Tolstoj, Stendhal, Martin du Gard, Pasternak e, naturalmente, su Malraux e Camus, di cui fu grande amico.

\r Chiaromonte, così come l’ho conosciuto io, fu una voce solitaria, sdegnosa contro ogni opportunismo politico, un pensatore scomodo, vittima della sinistra ipocrita. Personalmente, come ha ricordato recentemente Arbasino, era austero, ma tutt’altro che arcigno. Era invece amabile e spiritoso, estremamente piacevole nella conversazione, senza un’ombra di boria e d’ipocrisia, privo di quella gravità falsa e tronfia che è propria di quei retori e pavoni che la demagogia e il conformismo promuovono spesso al rango di maestri.

\r Nemico dei mediocri soddisfatti, odiava la retorica in tutte le sue forme, e i suoi scritti testimoniano la sua scrupolosa personalità d’intellettuale, la sua cultura europea, il suo rigore, la sua intransigenza nell’impegno politico, la sua ripulsa per ciò che chiamava “il gesuitismo moderno” e “le menzogne utili”.

\r Ciò che lo interessava di più era la comunicazione, il confronto delle idee, verso cui aveva un grandissimo rispetto, anche quando non le condivideva. Auspicava il ritorno a una cultura consapevole del suo compito formativo, dove l’individuo si ritrovasse a tu per tu con se stesso, con la società e con il mondo, per trovare ciò che è essenziale e ciò che non lo è, ciò che importa e ciò che non vale. Non a caso scriveva: “Il solo linguaggio fra uomini è quello che si può intessere sulla trama di credenze autenticamente condivise, in quanto costituiscono il presupposto per il fondamento di ogni discorso e non uno schema prestabilito o un insieme di dogmi”, mentre il suo giudizio sul mondo in cui viviamo e sul ruolo che l’intellettuale è chiamato ad assolvervi lo espresse con molta efficacia in uno dei suoi ultimi scritti, Il tempo della malafede, in cui sosteneva: “La nostra non è un’epoca di fede, ma neppure d’incredulità, è un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza in opposizione ad altre e soprattutto in mancanza d’altre genuine”, ed in cui i politici contemporanei “agiscono come se ci credessero, e invece…”

\r In virtù di questo suo atteggiamento rigoroso ebbe, fra l’altro, una vita avventurosa…

\r Era nato in Lucania nel 1905, ma visse la sua gioventù a Roma, dove si laureò in giurisprudenza, anche se questi furono studi che non ebbero alcun effetto formativo su di lui. Chi invece lo influenzò molto fu Adriano Tilgher, di cui Nicola si considerò in un certo senso un discepolo, che fu un grande pensatore, anche se per un breve periodo simpatizzò per il fascismo. Tilgher fu una sorta di “irrazionalista” italiano e, pur influenzato dal pensiero di Gentile, tentò di elaborare una filosofia indipendente sia da questi -fu, tra l’altro, autore di un famoso pamphlet contro Gentile, Lo spaccio del bestione trionfante-, sia dal marxismo come dall’idealismo crociano. Grande polemista, spirito eclettico, è a Tilgher che probabilmente si deve gran parte del profondo interesse che Nicola ebbe sempre per il teatro, così come l’amore per Pirandello e un certo esistenzialismo ante litteram, quando ancora non si conoscevano i nomi di Heidegger o di Sartre.

\r Da giovanissimo Nicola, come fece anche Salvemini, simpatizzò per un brevissimo periodo col “diciannovismo”, cioè con quel movimento proto-fascista che nei primi anni Venti, in odio alla tradizione pseudo-democratica dell’Italia dei Giolitti, dei Facta, degli Orlando, pensava fosse meglio tenersi per qualche tempo Mussolini piuttosto che tornare alla “palude parlamentare”, come si diceva allora. Naturalmente, Chiaromonte, come del resto Salvemini, cambiò subito idea e col delitto Matteotti si schierò decisamente contro il fascismo, tant’è che a vent’anni scrisse il primo articolo sul Mondo di Giovanni Amendola. Nel ’34, seppe di essere ricercato dalla polizia come terrorista -aveva pensato di attentare a Mussolini, anche se il progetto non andò in porto- e scappò a Parigi. Fu a Parigi che conobbe Caffi, che gli fu presentato da Moravia, di cui Chiaromonte era molto amico, e che per Nicola divenne il vero maestro nelle idee e nella vita.

\r Sempre in quel periodo parigino aderì a Giustizia e Libertà e collaborò ai Quaderni e al settimanale che Giustizia e Libertà pubblicava, ma dopo qualche tempo fu, con Mario Levi, Caffi e Renzo Giua, animatore del gruppo dei “novatori” che si separò da Giustizia e Libertà perché in contrasto col modo con cui Carlo Rosselli conduceva il movimento. Il motivo principale della separazione fu la loro convinzione che Rosselli si muovesse in una prospettiva di restaurazione della vecchia democrazia parlamentare, che aborrivano, mentre erano convinti che, una volta sconfitto il fascismo, fossero da ricercare soluzioni diverse dal ripristino puro e semplice della vecchia democrazia “borghese”. Dopo questa separazione, aderì per un certo periodo al Partito Socialista in esilio, trovandosi nelle posizioni del gruppo “frondista” di Angelo Tasca. Andò poi volontario nella guerra civile spagnola, dove fu fra i quattro o cinque aviatori della piccola squadriglia comandata da André Malraux. La guerra di Spagna fu per lui una grande delusione e vi rimase meno di un anno perché vide l’intollerabile comportamento del Partito Comunista. Tornato in Francia, quando questa fu occupata dai tedeschi fuggì in Algeria, dove conobbe Camus, e da lì andò negli Stati Uniti, dove rimase fino alla fine della guerra. Fu frequentando l’ambiente degli esuli antifascisti e antinazisti e della sinistra di New York che conobbe Mary McCarthy, Hannah Arendt, Dwight McDonald e cominciò a collaborare con riviste come Politics e Partisan review. Finita la guerra tornò per qualche anno a Parigi, dove ritrovò Camus e Andrea Caffi, ed infine rientrò in Italia, dove è rimasto fino alla morte.

\r Quali furono i temi principali della sua attività e della sua ricerca?

\r Chiaromonte, come del resto Caffi, non fu un pensatore organico, cosa che, del resto, nemmeno gli interessava essere. Nei suoi scritti e nella sua vita, anzi, testimoniò sempre un ribrezzo profondo per i sistemi di pensiero organici, per le costruzioni ideologiche, metafisiche o epistemologiche ed era certamente anche per questo che rifiutava di sottomettersi al dominio degli imperativi della politica. Polemizzò sempre con le ideologie “scientifiche” e con quelle basate sull’esaltazione del progresso tecnologico, diceva che nel mondo moderno non c’è possibile salvezza se si accetta il progresso tecnico per principio, senza riserve, se si applica tutto ciò che esso può suggerire. All’opposto, gli interessava profondamente quello che c’è a fondamento delle idee e della conoscenza. Era vivissima in lui la convinzione che nel cuore di ogni uomo fosse celato il segreto della moralità e di quella “socialità” tanto amata anche dal suo maestro Caffi. Chiaromonte pensava comunque che la morale non fosse “insensibile”, non si collocasse cioè sul terreno dell’assoluto, ma fosse fatta di un’eleganza e di un “sapere” nelle relazioni personali, familiari, “etniche”, che rimandano all’insieme delle tradizioni e alle modifiche che le tradizioni subiscono nella storia, fino a sgretolarsi nella nostra epoca, che lui considerava di grande crisi.

\r Per Nicola la tradizione era importantissima per la costruzione dell’uomo, ed infatti, in un suo bellissimo saggio sui greci, diceva che senza tradizione l’uomo non esiste, perché, per dirla con le sue parole: “All’oppressione del despota o alla disumanità della casta ci si ribella, ma non ci si può più ribellare alla regola impersonale e razionale, cioè all’oppressione che scaturisce dal riconoscimento razionale del fatto di vivere in società”.

\r Anche grazie a questo continuo meditare sul rapporto con la tradizione non era un adoratore della ragione con la maiuscola, sapeva che la ragione era una piccola fiamma in una foresta buia, anche se apprezzava come un fatto sacro lo sforzo della ragione di dare un senso, di mettere ordine nel caos…

\r Una volta -eravamo in vacanza insieme a Bocca di Magra- mi disse, ripensando alla sua vita passata, che avrebbe voluto essere non un uomo di lettere, ma un matematico, perché era nella matematica che forse c’era la possibilità di dare forma e razionalità, “immagine”, al mondo attuale, mentre la letteratura aveva perso la capacità di farlo. Era certo uno sfogo perché lui, in realtà, aveva un dono affine a quello di certi romanzieri, che sanno darci la sensazione di una presenza diretta della trama della vita, cioè non semplicemente la sensazione del flusso caotico dell’esperienza, ma dell’emergere in essa della distinzione profonda fra ciò che conta e ciò che non conta.

\r A tutto questo non erano sicuramente estranee neppure le sue continue riflessioni su Sartre, Heidegger, Hegel e soprattutto Platone, come sul pensiero greco classico, di cui lo affascinava sia la concezione del destino, -e non a caso scriveva che “Una certa saggezza, e non più alcune specie di razionalità deduttiva, è la conquista più alta e più degna dell’uomo”- sia la possibilità di partire da esso per articolare un rapporto con la realtà diverso da quello impostato dalla razionalità scientifica. Chiaromonte, infatti, diceva che la realtà non è il dato empirico, ma è l’interdipendenza fra esso e l’apparizione di quello che sembra, di quello che ci appare, quindi delle nostre visioni, dei nostri “tentativi di realtà”, fra cui metteva anche le utopie. A questo proposito Nicola sosteneva che non c’è civilizzazione senza molteplicità di utopie. Ma attenzione: molteplicità e non unicità, poiché escludeva l’interpretazione volgare secondo cui le utopie debbono essere realizzate per essere significative, per cambiare la vita degli uomini. All’opposto, per lui le utopie erano uno specchio della vita intellettuale, che non è affatto opposta alla vita perché, diceva, si vive, anche al più basso livello, d’intelletto e di utopia. Nell’amore, per esempio, che cosa si fa se non creare un’utopia?

\r Un altro tema che Nicola affrontò continuamente fu quello del totalitarismo. Per lui i totalitarismi nazista, comunista, fascista, trovavano la loro origine storico-politica nella prima guerra mondiale, che considerava lo spartiacque della crisi della modernità e quindi della civiltà europea. Va tuttavia tenuto presente che, per quanto critico con le linee-guida della civiltà europea, non parlava di “tramonto dell’occidente” in senso spengleriano, cioè di ineluttabile fine di una civiltà, ma appunto di “crisi”, cioè di necessità di ripensare questa stessa civilizzazione e soprattutto il ruolo in essa assunto dallo stato-nazione, che sempre più era per lui anche “stato-fabbrica” e soprattutto “stato-mito”. Era convinto che il mito dello stato fosse l’elemento che accomunava la dittatura di Mussolini, la statocrazia di Stalin e il “terzo impero” di Hitler, e che, appunto per questo, rimanesse il pericolo maggiore che il Ventesimo secolo doveva affrontare. Per Chiaromonte questa mitizzazione dello stato affondava le sue radici nella modernità stessa, nella crisi da questa aperta, che per lui significava soprattutto crisi della coscienza religiosa. Proprio per questo far coincidere modernità e crisi della coscienza religiosa Nicola apprezzava moltissimo Proudhon. Oltre a concordare con molte delle sue idee sul federalismo e sulla socializzazione libertaria dell’economia, riteneva infatti che Proudhon fosse il pensatore che per primo aveva capito che la vera rivoluzione moderna non era stata tanto lo sviluppo industriale, ma il processo di secolarizzazione che, distruggendo la coscienza religiosa, metteva in discussione la base stessa della società e preparava la decomposizione della civiltà europea e la distruzione della società da parte dello stato-nazione.

\r La questione della religiosità fu un altro tema attorno a cui Nicola meditò sempre -aveva, fra l’altro, un fratello gesuita. Affermava che dire: “Dio esiste” è altrettanto stupido che dire: “Dio non esiste” ed era quasi ossessionato dal problema di un “piano teleologico” che determinasse gli esseri umani senza che essi potessero comprenderlo. La sua era, e lo si vede in moltissimi scritti, una specie di “religiosità laica” che per certi aspetti lo avvicinava a Simone Weil, che amava moltissimo, o a Bernanos. Comunque, rispetto alla religione e alla Chiesa mantenne sempre un atteggiamento critico, che però non sfociò mai in un laicismo aprioristico. Da una parte, infatti, difese il Papa quando questi fu accusato di essere responsabile dell’Olocausto e polemizzò con il laicismo radicale di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, che lui riteneva totalmente estraneo alla realtà e alla cultura italiana, mentre, dall’altra, polemizzò duramente con gli aspetti deteriori della tradizione cattolica, in particolare contro l’Italia della Controriforma, che dopo i trionfi fascisti si avviava a continuare indenne la sua lunghissima storia. Il senso della sua polemica è per me rappresentato da un passo di uno scritto intitolato Il gesuita, in cui dice che a Roma si possono incontrare gesuiti e cinici, ma non c’è posto per gli eretici.

\r La sua polemica con lo “stato-mito” lo rendeva consapevolmente un libertario?

\r Si considerava un libertario, era consapevole che quel che pensava lo avvicinava ai movimenti e alle correnti libertarie, e credo sia stato uno dei libertari più acuti, più intelligenti, del nostro tempo.

\r Il pensiero libertario italiano del Novecento ha avuto certo grossi personaggi, come Malatesta o Berneri, ma Chiaromonte, che dopo la guerra di Spagna non aderì più ad alcun partito o movimento politico, era intellettualmente più attrezzato di loro, più capace di cogliere le grandi questioni poste da questo secolo.

\r \r Nicola si sentiva vicino alla tradizione socialista non marxista, soprattutto a Goodwin, Paine, Saint-Simon, Proudhon, Herzen, un altro autore che ammirava tantissimo. Va inoltre detto che, nonostante le accuse di cui fu oggetto da parte del Partito Comunista, Nicola era antistalinista, non anticomunista. Non amava Marx e il marxismo e pensava che il comunismo si sarebbe veramente potuto fare soltanto in comunità religiose, ma non era pregiudizialmente un anticomunista. Concordava con molte delle posizioni della sinistra socialista, con la critica di Rosa Luxemburg, e non era pregiudizialmente nemmeno un antisovietico. Non a caso faceva risalire la degenerazione della rivoluzione sovietica all’attacco che questa dovette subire da parte delle potenze occidentali nel ’18-’19. Era convinto che fosse stato questo attacco alla neonata repubblica dei soviet e l’isolamento che ad esso era seguito ad innescare il processo che portò prima all’autoritarismo leninista e poi allo stalinismo. Alcuni dei suoi migliori amici, poi, erano, o divennero, comunisti: con Mario Levi fu sempre in rapporti fraterni, nonostante quest’ultimo avesse aderito al Partito Comunista Francese e sia morto comunista francese, così come fu sempre amicissimo di Moravia. A questo proposito ricordo che, nei primi anni Sessanta, quando gli dissi che a Milano, dove allora lavoravo, viveva con me Valentin Gonzales, “il Campesino” (il contadino, ndr), volle a tutti i costi conoscerlo. Il “Campesino” durante la guerra di Spagna era stato un leggendario comandante comunista, poi scappò in Russia, dove venne fatto generale dell’Armata Rossa, ma dopo la seconda guerra mondiale cadde in disgrazia e venne mandato in un campo di lavoro, da cui riuscì a scappare tornando in Occidente. Nel periodo di cui stiamo parlando “il Campesino” aveva appena scritto La vie et la mort en Russie, pubblicato in Francia con una prefazione di Julian Gorkin, direttore di Tribuna obrera, organo di quel che rimaneva del Poum (il piccolo partito della sinistra comunista massacrato dai comunisti di osservanza sovietica durante al guerra di Spagna) e aveva rotto completamente col mondo comunista filosovietico.

\r L’incontro di Nicola col “Campesino” fu emozionante, fu un confronto sulla Spagna fra due reduci che ancora avevano quegli avvenimenti nel cuore, che ancora sentivano “la follia della Spagna”, come la chiamava Nicola. Ovviamente si finì per parlare del ruolo che in Spagna ebbero i comunisti, e soprattutto Togliatti. Da quanto emerse in quella conversazione commovente ho poi ricavato il saggio Togliatti in Spagna, che fu pubblicato su Tempo presente e che mi valse per molti anni l’odio degli stalinisti.

\r Critico radicale del bolscevismo era ugualmente nemico della “plutocrazia” americana, anche se non lo era per principio, come succedeva, e ancora succede, all’antiamericanismo di molti marxisti.

\r A lui dell’America non piaceva soprattutto la cultura di massa e il modo di fare politica che là si erano imposti, ma tutto ciò non lo portava a demonizzare gli Stati Uniti. Fu molto critico verso l’intervento statunitense in Vietnam -le pagine di Tempo presente, che fra gli altri ospitò un saggio di fuoco di Mary McCarthy, lo documentano- non per ragioni moralistiche, ma perché sentiva che era spropositato, che era un errore strategico, ed infatti finì come è finita.

\r Anche rispetto alla situazione italiana era tutto sommato un isolato, a parte una certa consonanza con i redattori e collaboratori di Tempo presente. Come ho detto, collaborava col Mondo di Pannunzio, che era un po’ il portavoce della sinistra laica, non comunista, ma era critico anche rispetto ad esso. Sentiva come un vestito stretto gli editoriali di Pannunzio, che considerava troppo tatticista per ragioni politiche, troppo legato e condizionato da La Malfa e da Ernesto Rossi, dai prodromi del centrosinistra e dalla logica dell’”arco costituzionale”, che considerava fumosa. Fu non a caso il primo a dirmi, molti anni prima del “revisionismo” di De Felice, che la Resistenza era stata esaltata in modo retorico. Sottolineava che prima del 1943 l’intelligence inglese in Italia non riusciva a trovare contatti e diceva che la Resistenza non ci sarebbe stata senza l’avanzata delle armate alleate.

\r Riguardo alla situazione italiana, a quella che lui chiamava la “democrazia cifrata”, c’è un suo saggio, intitolato Uno Stato fuorilegge, in cui la sua critica all’apparato di potere è feroce, perché vi è una “oppressione burocratica di tipo orientale sulla società civile italiana” e non risparmia nemmeno la magistratura, che definisce una “casta di mandarini con automatismo di stipendio”. Per dare un’idea di che tipo di intellettuale fosse può valere quanto mi disse Montanelli a proposito di Silone e Chiaromonte: “Persone molto più serie di me, ma in definitiva, considerando quello che sono gli italiani, ho avuto ragione io”.

\r Quale era il progetto che stava alla base di Tempo presente, la rivista fondata da Chiaromonte con Ignazio Silone?

\r Il progetto che la animava era essenzialmente culturale -c’era una grande attenzione ai temi della cultura in generale, fra gli altri ci scrivevano Quinzio, Flaiano, Arbasino, il giovane Mario Perniola- e nacque per dare voce a quella parte della cultura italiana che non si era sottomessa alle chiese cattolica e comunista, ed infatti dalla cultura ufficiale dell’epoca fu sempre considerata con sospetto, emarginata. Gustaw Herling, un altro importante collaboratore della rivista, ricorda: “Ci consideravano dei lebbrosi”.

\r In questa impronta culturale si rifletteva l’impostazione di Chiaromonte (i cui rapporti con Silone non furono privi di contrasti ed ambiguità, soprattutto perché Nicola pensava che Silone fosse troppo tatticista e un po’ arrivista), che non credeva più nella politica e pensava che, se una trasformazione era da aspettarsi, lo era solo in quanto si riusciva a fare emergere nella cultura e dalla cultura degli aspetti nuovi, non conformisti rispetto alla logica clericale, da una parte, e al marxismo dall’altra.

\r In questa volontà di dare voce alla cultura non conformista Tempo Presente trovò il suo filo rosso nella difesa e nella valorizzazione del dissenso nei paesi del totalitarismo comunista. Difese Pasternak, Solzenicyn, Sinjavskj, pubblicò le memorie di Nadezda Mandel’stam, diede conto della rivoluzione ungherese pubblicando saggi ed articoli sia di ungheresi esuli che di altri residenti a Budapest, altrettanto fece poi con la Primavera di Praga. C’era in Tempo presente una predisposizione al dissenso e all’opposizione alla politica sistematica che la affratellava a riviste come Survey e Encounter a Londra, Der Monat a Berlino, Preuve a Parigi, Politcs a New York, con cui si scambiavano articoli e collaborazioni. Tempo presente, fra l’altro, fu la prima rivista italiana a pubblicare saggi e articoli di Hannah Arendt, Mary McCarthy, Dwight McDonald, grazie all’amicizia che c’era fra questi e Nicola.

\r Con Tempo presente Chiaromonte ebbe modo di dare visibilità a tutti gli aspetti della sua ricerca, dalle riflessioni sui limiti del linguaggio e sulla filosofia alle riflessioni sull’arte. Era affascinato dall’intreccio fra politica ed arte e pensava che l’arte con la maiuscola non potesse che essere mezzo di cultura attiva, coscienza, ammaestramento a vedere, mentre diceva che, dopo il Rinascimento, l’arte era stata spesso concepita, anche dagli artisti, come una fabbrica di bambocci, neutra quanto ai significati e ai valori della vita.

\r Da questo intreccio nasceva il suo interesse per il teatro e per il cinema, anche se, dopo aver molto amato il cinema degli anni Trenta -cioè il cinema della fase romantica, eroica, registi come Pabst o Eisenstein- col passare degli anni se ne distaccò perché considerò che fosse divenuto un fenomeno sempre più industriale, un aspetto della cultura di massa e della meccanizzazione del mondo moderno.

\r Come critico teatrale era per certi versi un “critico militante” -di lui Carmelo Bene, ha detto che era “l’unico critico che capisse davvero il teatro e la situazione drammatica”- e si lamentava molto della mancanza, a parte Pirandello, di un autentico teatro italiano, la qual cosa per lui significava l’incapacità della società italiana d’interrogarsi, di guardarsi allo specchio, di mettersi in discussione. Era poi furioso con il teatro sovvenzionato, con i funzionari del Ministero del Turismo e dello Spettacolo che spesso gli telefonavano per lamentarsi di quello che aveva scritto o per raccomandare Tizio o Sempronio.

\r Dicevi prima della sua amicizia con Moravia, Camus, Malraux…

\r Con Moravia erano amici fin da giovanissimi -come ho detto fu Moravia a presentare Caffi a Chiaromonte- e rimasero sempre amici, anche se non mancarono fra loro polemiche e scontri. Chiaromonte stimava moltissimo Moravia, ne apprezzava la grande intelligenza e la qualità di scrittore -pensava, fra l’altro, che con La noia avesse forse scritto le migliori pagine della letteratura di questo secolo sull’atto sessuale-, e avrebbe voluto che Moravia esercitasse il ruolo che Camus aveva esercitato nella cultura francese, mentre dissentiva profondamente da lui per le ambiguità che a suo parere Moravia dimostrava sul problema della libertà nel mondo dell’Est, sull’Urss e la Cina, come anche nei confronti del Pci e dell’industria culturale.

\r Con Camus, invece, questi problemi non c’erano. Nicola ammirava Camus sin da quando si erano conosciuti ad Algeri e con lui sentì sempre una profonda consonanza. Pensava non solo che Camus fosse un grande scrittore e un grande artista, ma che fosse soprattutto un grande uomo di pensiero e un simbolo per il suo esistenzialismo, non dichiarato ma vissuto, per le sue posizioni ferme, per la sua integrità morale, per il suo essere coscienza critica nei confronti della deriva nichilista del mondo contemporaneo e del totalitarismo. Per questo Nicola vide subito la differenza fra Camus e Sartre, che pure apprezzava come filosofo, ma a cui non perdonava il tatticismo, l’inchinarsi alle logiche della politica.

\r Con Malraux, invece, l’amicizia fu meno profonda che con Camus o Moravia, anche se si conobbero bene, visto che avevano combattuto insieme in Spagna.

\r L’amicizia con Malraux si raffreddò quando questi diventò ministro della cultura di De Gaulle. Chiaromonte pensava che Malraux si fosse come “acquattato” su De Gaulle e che per questo De Gaulle lo avesse premiato. In un certo senso riteneva che questo fosse un po’ il destino di Malraux. Di André Malraux, che riteneva un grande testimone del nostro tempo, lo affascinava il totale disincanto e il “demone dell’azione” che sembrava animarlo, il suo “agire senza credere”. Proprio in questa chiave analizzò in un saggio molto bello, Malraux e il demone dell’azione, tutta la sua attività culturale, letteraria, politica, e questo molto prima che il maggior biografo di Malraux, cioè il teorico della postmodernità François Lyotard, indicasse proprio in questo demone la “cifra” dell’”enigma Malraux”.

\r Nonostante il suo porsi contro le chiese cattolica e marxista e per un pensiero non conformista, Chiaromonte non fu tuttavia un entusiasta del ’68…

\r Chiaromonte non è stato un “filosessantottino”, ma non è stato neppure un nemico del ’68, almeno di quello che conobbe, visto che nel ’72 morì. Secondo lui non si poteva parlare di un “Sessantotto” perché le ragioni dei giovani che nell’Est, nei paesi comunisti, contestavano l’oppressione della dittatura erano diverse dalla contestazione di Berkeley e questa era a sua volta diversa da quella in Germania, in Francia o in Italia.

\r Appoggiava quasi incondizionatamente la rivolta dei giovani nell’est europeo e diceva che i giovani di Berkeley facevano bene a battersi contro la guerra nel Vietnam, così come riconosceva che in Italia i giovani avevano ragione nel pretendere un sistema universitario migliore, ma non approvava la “contestazione globale” perché sosteneva che se si contesta tutto si finisce col non contestare nulla.

\r Riteneva che nella rabbia dei giovani ci fosse soprattutto il disprezzo per una classe dirigente odiosa e per una politica che altro non era che “burocratismo di tipo zarista sulla società civile italiana”, ma secondo lui, ed è questo uno dei motivi della sua critica al ’68, l’ammutinamento degli studenti italiani aveva preso subito l’aspetto di una confusione tumultuosa sia nelle idee che negli atti, e questo era per lui inaccettabile, anche perché rifiutava l’idea che i giovani avessero ragione solo perché erano giovani.

\r Pensava che i nati dopo il 1940 si fossero trovati a vivere in una società che non poneva né meritava rispetto e contro questa mancanza di autorità da rispettare, contro questa assenza di guida morale, i giovani si ribellassero in una rivolta che esprimeva anche l’esigenza di avere un’autorità in cui riconoscersi, una disciplina a cui affidarsi, cosa che non c’era e che l’Occidente, non solo l’Italia, non era in condizioni di dare.

\r A quei tempi scriveva: “Il compito veramente storico dei nostri tempi, quello che merita e richiede l’entusiasmo di un giovane, è la ricostruzione della società devastata dalla forza e accasciata dalla soggezione alla forza. E’ un’opera questa che comincia necessariamente dall’esempio personale. Secondo Simone Weil tra le esigenze essenziali dell’anima vi sono la libertà insieme all’ordine, l’ubbidienza insieme alla responsabilità, l’uguaglianza insieme alla gerarchia, mentre la società contemporanea, oppressiva e permissiva, conformista e senza valori, è fondata invece sul disordine illiberale e sulla disobbedienza coercitiva. E’ contro questa mostruosità che i giovani si sono ribellati”.

\r Pensava anche che i miti esotici dei giovani di allora -Che Guevara, Ho Chi Minh, Mao Tze Tung- fossero per natura vacui o totalitari e portassero alla demagogia di massa e all’autoritarismo tecnocratico più o meno ammantato di ideologia. Non a caso presagiva la deriva terroristica che contribuì ad affossare i movimenti nati nel ’68. All’opposto del militantismo imperante in quel periodo,

Da . www.unacitta.it/newsite/intervista.asp?id=183

Nicola Chiaromonte

La nuova sinistra

Tratto da «Tempo Presente», settembre-ottobre 1967

Pubblicato in Cesare Panizza (a cura di), Nicola Chiaromonte, La rivolta conformista. Scritti sui giovani e il 68, Una Città, 2009

In realtà, un’opinione di sinistra inorganica e fluttuante esisteva fin dall’immediato dopoguerra. Pochi di quelli che aderirono al partito comunista durante la guerra e dopo, e nessuno di quelli che gravitarono intorno al medesimo partito negli stessi anni, erano comunisti. Comunisti erano i dirigenti e i funzionari, mentre la massa operaia, tutto sommato, rimaneva nel solco della tradizione socialista; ma comunisti non erano certo i molti compagni di strada, simpatizzanti, anti-anticomunisti e intellettuali marxisteggianti che fecero, fino al 1956 circa, la fortuna e il prestigio dei partiti comunisti. Erano, quelli, i seguaci approssimativi e confusionari di un’estrema sinistra di fantasia che si mettevano dalla parte del comunismo sia perché ritenevano doveroso aggregarsi alla marcia della Storia, sia perché credevano di trovare lì quello che non si trovava da nessun’altra parte politica: l’Idea, più l’efficienza.

Esisteva, fin da allora, una sinistra indefinita e mollemente eretica; anzi, si può ben dire che la sinistra era quella: del nucleo duro del comunismo ufficiale si cercava d’ignorare l’esistenza, ed esso stesso si camuffava in varie fogge. Ma, da tre o quattro anni a questa parte, è venuta formandosi una corrente d’opinione politica la quale non solo è completamente fuori da ogni partito, ma sfugge anche a ogni definizione ideologica chiara. Negli Stati Uniti, ha preso il nome di «nuova sinistra».

S’è formata, questa «nuova sinistra», per dato e fatto della politica americana: a essere esatti, in seguito alla guerra del Vietnam. Negli Stati Uniti, il movimento degli studenti dell’Università di Berkeley (ormai disperso) prese forza dalla ripugnanza per quella guerra, oltre che dal desiderio di agire -e non soltanto parlare- in favore dell’eguaglianza civile della popolazione negra. Anche in Europa, la guerra del Vietnam ha fatto cristallizzare, specie fra i più giovani, una corrente (o meglio si direbbe: uno stato) d’opinione le cui componenti sono abbastanza ovvie: antiamericanismo considerato sinonimo di anticapitalismo (e di antimperialismo); anticapitalismo inteso come rifiuto di quella che si usa chiamare «civiltà dei consumi» ed è concepita come l’ultimo stadio della degradazione della società borghese occidentale, la quale società sarebbe destinata a esser spazzata via dalla rivolta delle genti di colore o comunque vittime dell’imperialismo, Cina e Cuba in testa, Paesi dell’America latina e dell’Africa al seguito, magari con l’aggiunta degli arabi, vittime del colonialismo israeliano.

Questa sequela di tesi, nella quale si possono facilmente distinguere le influenze di J. P. Sartre e di Frantz Fanon, ma che in sostanza rappresenta una specie di riduzione all’estremo di taluni concetti che chiameremo marxisti tanto per intenderci, non costituisce certo un corpo di dottrine. Non varrebbe la pena di discuterla se non fossero in massima parte dei giovani a propugnarla e se, d’altro canto, il campo della politica offrisse attualmente a questi giovani altre e migliori indicazioni per manifestare l’insofferenza per il presente, lo sdegno per l’ingiustizia e il disgusto per la falsità che sono le passioni diremmo doverose della gioventù.

La questione potrebbe finire qui: con la constatazione che i fatti giustificano il ribellismo, sia pure incoerente, di questi giovani e che, visto che nessuno sa offrir loro un ideale politico più valido, è naturale che essi si servano di quello che son riusciti a fabbricarsi con i relitti e residui delle idee che hanno ereditato dai loro padri e fratelli maggiori.Ma non può finir qui, la questione. Per confusionari che siano, questi giovani vanno presi sul serio, e l’unico modo di non prenderli in giro è quello di trattarli da pari a pari, discutere le loro idee senza indulgenza né disprezzo.

Ora, il fatto è che le idee della «nuova sinistra» non peccano tanto per incoerenza quanto perché rappresentano un tentativo di uscire dal vicolo cieco in cui si dibatte da decenni la sinistra europea spingendo all’assurdo precisamente le tendenze che l’hanno portata nel vicolo cieco medesimo. Il che vale quanto dire che le idee della «nuova sinistra» non sono in realtà né un ripensamento delle idee socialiste o libertarie né un nudo, crudo e pragmatico piano d’azione, ma una mera operazione cerebrale: letteralmente, un sogno a soggetto politico, il quale può diventare tema di discorsi, e magari anche di libri, ma non per questo esce dall’irrealtà intrinseca che lo distingue. Giacché questi giovani e meno giovani aderenti della «nuova sinistra» non devono immaginare di essere i soli a riconoscere le ingiustizie, brutture, brutalità e insensatezze del mondo in cui viviamo. Che la guerra del Vietnam, per esempio, è orribile e assurda lo sanno anche i più alti dignitari del mondo cosiddetto «capitalista»: lo sa anche il Papa, oltre a saperlo la gente della sinistra vecchia e nuova. Il problema, per il Vietnam come per la questione dei negri e per le altre, è in qual modo efficace l’opinione contraria possa farsi valere. Ed è a questo punto che la «nuova sinistra» fugge per la tangente della rabbia, e proclama la guerra santa contro gli Stati Uniti o, per esser precisi, applaude alla guerriglia e alle sommosse razziali.

La nuova sinistra, cioè, non riconosce le cause, anzi la causa, da cui essa stessa ha origine. La quale non è la perversità dei governi o la pusillanimità dei socialdemocratici, ma l’impotenza apparentemente irrimediabile dell’opposizione, di ogni opposizione, nell’attuale condizione del corpo politico. È dall’esasperazione per l’apparente paralisi della politica interna (ossia della vita politica essa stessa) che nasce lo stato d’animo della «nuova sinistra». Ma quando poi si tratta di rispondere alle questioni di politica interna, tutto quel che essa sa produrre è o una surenchère massimalista sulla politica governativa o l’evasione nella politica estera.

Il fatto invece è che, in Europa come negli Stati Uniti, la questione cruciale oggi non è affatto quali scopi si debbano opporre alla politica governativa: in genere, basta mettere al negativo la politica del governo per avere un eccellente programma d’opposizione. Il problema è come fare perché il programma dell’opposizione diventi una politica: insomma, come fare perché, nelle attuali condizioni della società industriale, ci sia una vita politica e non soltanto delle decisioni che scendono dall’alto dopo esser state combinate negli altissimi consessi dei tecnici e dei burocrati, negli uffici di partito e nelle lobbies dei gruppi di potere.

Finché non si risolve questo problema, l’opposizione, ribellista o meno, rimarrà un fatto verbale e un sogno rabbioso. Verbo per verbo e sogno per sogno, tanto varrebbe allora ragionare sui dati elementari della situazione, mettendo fra parentesi ogni presupposto ideologico.

Ora, il dato più elementare della situazione è che l’attuale società industriale ammette in teoria prosperità quanta se ne vuole, e in più una grande e quasi illimitata libertà d’indifferenza (della quale anzi ha strettamente bisogno per funzionare); ma, quanto alla libertà politica in senso proprio, essa è tutta da restaurare: i meccanismi burocratici e tecnici l’hanno esautorata. Ora, la libertà politica non è un bisogno di massa, benché, senza libertà politica, tutto quel che le masse possono sperare è una porzione congrua di beni di consumo; di giustizia è inutile parlare; e, quanto alla pace, dipende dai calcoli geopolitici e strategici.

Dal che discende che la restaurazione della libertà politica (che poi è quanto dire di una vita politica reale e non cifrata) è oggi inevitabilmente compito di una minoranza di volontari, ed esige molta più risolutezza e tenacia che non ne occorra per propugnare la guerriglia in Paesi lontani.

Ma questo non è lavoro che si possa esigere dai giovani della «nuova sinistra». Dai padri e dai fratelli maggiori, essi hanno appreso a correr dritto alle conclusioni, non a esaminare le premesse; hanno appreso ad ammirare e seguire chi agisce in modo spettacolare, non chi ragiona; hanno imparato che il mondo è quello che è e bisogna prenderlo per quello che è, non sognarne un altro che non esiste. E allora, quando si trovano dinanzi a una realtà che non li soddisfa, non possono fare altro che decidere verbalmente in favore del più estremo e del più violento. Dunque si schierano con Mao Tse e con Guevara. A parole, s’intende. Infatti, oggi, un giovane europeo ribelle che cos’altro può fare se non dire di essere in favore della rivoluzione culturale in Cina e della guerriglia in America latina, nonché magari nelle città degli Stati Uniti, secondo predica Stokely Carmichael[1]? Non troverà neppure contraddittorio, un tal giovane, dopo aver detto cose simili, marciare per la pace e contro la bomba atomica. Quanto all’effetto di un tal dire, c’è la soddisfazione di sentirsi dalla parte non solo della giustizia, ma anche della potenza (nel caso della Cina) e della violenza avventurosa (in quello dei guerriglieri castristi).

In ultima analisi è il culto della potenza e della violenza che si diffonde, sotto specie di «nuova sinistra». E, con questo, il cerchio dell’involuzione della sinistra europea, cominciata nel 1914, si chiude.

Giacché è come rivolta contro la potenza e la violenza che la «sinistra» liberale, democratica e socialista nacque, in Europa. Anche se portò sempre in sé un certo culto romantico dell’azione violenta, il movimento libertario e socialista del secolo scorso rimase sempre, nel fondo, pacifico e pacifista. Il culto dell’azione e dell’eroe guerriero, liberali, democratici e socialisti lo lasciarono sempre ai reazionari, ai militaristi, ai nazionalisti. La cosa diventò più che chiara col fascismo e col nazismo. Ma la seconda guerra mondiale (senza parlare di ciò che l’aveva preceduta, in Russia e altrove) non scatenò soltanto la bestialità hitleriana, bensì dappertutto e in tutti (tranne un’infima minoranza) la convinzione «realista» che nulla, nella storia, si ottiene senza violenza e, per converso, con la violenza bene organizzata si ottiene tutto.

Questo è il punto a cui siamo. A questi princìpi sta tornando, sotto specie di perfetta tecnicità, la società organizzata. Ma c’è da notare che, nel frattempo, i mezzi di far violenza sono diventati, più che efficaci, assoluti, e sono proprietà esclusiva dei ricchi e dei forti. Sicché l’appello alla violenza per il supposto riscatto dei deboli oppressi non può avere da ultimo altro risultato che di rafforzare i potenti. È quindi condannato a fallire, non foss’altro che perché si riduce ad affrontare l’avversario sul terreno sul quale esso è più forte, tattica sbagliata anche in termini guerreschi.

 

 

Nicola Chiaromonte

Prigioni in Spagna

Pubblicato in Dedicato a Nicola Chiaromonte nel trentennale della morte, quaderni dell’altra tradizione, 1, Una Città, 2002

I viaggi sono ridiventati molto lunghi. Ero in America da otto mesi e questa donna non era ancora arrivata. Eppure aveva lasciato la Francia con suo marito molto prima di me. Mi ricordo di lei con amicizia perché a Tours, poche ore prima dell’arrivo dei Tedeschi, fu lei a trovare un posto in un’auto per un amico ammalato, aprendosi un varco nella mischia delle macchine e delle persone a piedi che lasciavano la città, fermando le macchine al volo, gridando, imprecando, litigando con le persone con questa specie di energia assurda che solo le donne sono ancora capaci di conservare quando gli uomini vedono ragioni solo per la calma del fatalismo. L’ho incontrata qualche giorno fa in un “Caffè Viennese” della 72° Strada, da sola.

Ero contentissimo di rivederla. Ogni volta che si ritrova da questa parte una persona che viene da oltre oceano, si ha l’impressione che finalmente la vita riprenda come prima. Non è vero. Mi ha sorriso con la stessa intensità ed evidentemente con la stessa illusione.

«Sono così contento di rivederla. E suo marito?»

«In Germania. Gli Spagnoli ci hanno arrestato alla frontiera. Siamo rimasti sei mesi in prigione. Un giorno hanno portato Friedrich a Hendaye. L’ho saputo una settimana dopo». Insieme con l’imbarazzo, ho provato una sorta di gelosia. Avevo conosciuto solo la prigione di Marsiglia. Non si finisce mai di essere snob. Questa amica di un giorno di giugno del 1940 si è messa allora a raccontare. Raccontando, tirava fuori dalla borsa ogni sorta di carte, foto, piccoli oggetti: prove, souvenir, i bigliettini scambiati col marito in prigione, la foto di una compagna di cella, lo specchio e il pettine e il tubetto di rossetto che era riuscita a tenere durante la prigionia. Ero sorpreso dal tono del suo racconto: raccontava quasi alla terza persona come se si fosse trattato di un’altra persona conosciuta benissimo tempo fa ma che si comincia a dimenticare. Anche parlando di suo marito, era stranamente apatica. Avevo la sensazione di parlare a qualcuno ormai convinto che la fatalità esiste.

«Lei conosce queste storie di consolati, di visti, di permessi, di timbri, di biglietti di passaggio. A un certo punto, con mio marito, decidemmo che il fatto di avere il visto americano, il visto di transito spagnolo, e il visto portoghese fosse sufficiente. Passammo a piedi la frontiera franco-spagnola in direzione di Figueras. Trovammo Figueras, ma non il posto di dogana. Ci mettemmo a cercarlo affinché i nostri passaporti venissero debitamente timbrati. Fu allora che ci avvicinarono dei poliziotti in uniforme, molto cortesi, molto miti, che ci dissero: “Ma sì, naturalmente, è semplicissimo. Dateci i vostri documenti, vedremo”. Uno di loro restò con noi, un giovane uomo gentilissimo ma poco loquace, che insistette perché andassimo a cena in un certo ristorante. Lo seguimmo. Era buio. Figueras è una cittadina di 16 mila abitanti, che porta ancora le tracce della guerra: case demolite, facciate screpolate e crivellate di proiettili. Hanno lasciato tutto com’era. Tutto in una semi-oscurità. A Figueras c’è solo la prigione a essere illuminata, a giorno, dai fari. E’ molto strano: una specie di pubblicità. Questa luce la si vede dappertutto».

«Nel ristorante, c’era una cameriera bella come la “bellezza spagnola” dei film. Il nostro poliziotto le rivolgeva dei complimenti, le chiedeva quando si sarebbe decisa a sposarlo, e lei rispondeva con sorrisi e piccoli gesti divertiti. Sembrava che ci fosse una specie di “fiesta” quella sera a Figueras: una celebrazione militare e nazionalista, qualche cosa di importante, non so più a proposito di cosa – il 3 ottobre. Cosa poteva essere?»

«El Dia de la Rosa probabilmente, il “Columbus Day” visto dall’altra parte».

«Bene, così, per dire qualcosa, chiesi alla graziosa ragazza se avesse intenzione di andare. Rispose molto tranquillamente: “No, non usciamo per questo”. Non c’era gran che da mangiare, i clienti non erano numerosi. Chiedemmo alla nostra guida se credeva fosse tempo di andare a prendere i nostri documenti. Apparve seccato, ma disse che ci accompagnava a vedere. Per strada, cambiò idea. Disse che sarebbe andato da solo, e che potevamo aspettarlo in un caffè. Sempre gentilissimo, ma allo stesso tempo molto evasivo. Nel caffè, mentre beveva un anice, mio marito mi disse: “Ho come l’impressione che sarebbe meglio tagliare la corda e tentare di tornare in Francia”. Ma ci avevano preso tutti i documenti: dove trovare il coraggio di abbandonare il visto americano? L’osservazione di Friedrich mi fece preoccupare. Provavo il bisogno di mettermi a spiegare la nostra situazione alla padrona, una donna magra e triste, di età incerta. Ascoltò e rispose con due parole e un gesto: “Mio marito” e il gesto delle sbarre fatto incrociando le dita fra loro».

«Fu in quel momento che il giovane poliziotto tornò. Aveva, nei nostri confronti, l’aria personalmente soddisfatta di prima, ma un po’ più evasiva e distante: “Bisogna che veniate al posto di polizia. Chiedono delle spiegazioni”. Lo seguimmo, molto preoccupati. Se ne accorse e disse: “Oh, non sarà niente”. Al posto di polizia, ci fecero ogni sorta di domande, e infine ci dissero che erano costretti a chiedere istruzioni a Madrid prima di lasciarci liberi. Può immaginare come abbiamo cercato di protestare: dopo tutto, per la Spagna, i nostri documenti erano in regola, eccetera – rimostranze giuridiche, genere S.J.N. Siamo proprio contaminati da abitudini borghesi per non capire immediatamente che quando si viene afferrati da questo genere di meccanismi, non ce la si può cavare con scaltrezze da avvocato; ormai si entra nella zona dell’arbitrario, della fortuna, del miracolo – e nel caso di un’eventuale lotta, i mezzi da usare in ogni caso sono ben altri. La cosa migliore forse è accettare passivamente fino a che non si capiscono le regole del gioco e non si scorge il punto debole dell’ingranaggio».

«Così, facemmo il nostro ingresso nella prigione di Figueras. E’ – gliel’ho detto – un edificio immerso nella luce. Si entra attraverso tre mura di cinta concentriche – e ogni cinta è violentemente illuminata da fari potentissimi. E’ per impedire le evasioni». «Ai tempi dei “rossi”, durante la guerra, c’erano 80 prigionieri in questa prigione. Quando ci entrammo ce n’erano 750 – e non erano i soli; anche “El Castillo”, una vecchia costruzione del XVIII secolo, era stata trasformata in prigione. Ma là c’erano solo uomini. Inoltre, molte delle persone di Figueras venivano mandate nella grande prigione di Gerona. Così mi hanno detto. Figueras conta 16 mila abitanti. Credo non sia esagerato dire che, degli abitanti di Figueras, uno su dieci vive in prigione».

«Non ero mai stata in prigione. La cosa tremenda, il vero incubo, era la sporcizia. Avevo sentito parlare dei soldati nelle trincee durante l’altra guerra, e dei parassiti che facevano camminare le camicie da sole non appena i soldati se le toglievano di dosso. Naturalmente, credevo fosse una metafora. Ma la biancheria che lavavamo e mettevamo ad asciugare nel cortile della prigione di Figueras, la riprendevamo poi coperta di pidocchi perché le prigioniere restavano appoggiate ai muri la maggior parte del tempo e là le bestie viaggiavano. Nel cortile stavamo all’aria aperta. Ma cosa c’era nella sala comune in cui sono rimasta tre mesi, lei non può immaginarlo. La maggior parte delle mie compagne erano delle politiche. Ma per tutto il tempo c’era un andirivieni di mendicanti, zingare, prostitute miserabili. Molte di loro erano spossate, inebetite, affamate, si facevano arrestare apposta per avere qualcosa da mangiare – le dirò poi cosa. Si buttavano sul loro giaciglio e non si spostavano di là per nessuna ragione o necessità. Al mattino dovevamo pulire la sala e i gabinetti. Era talmente disgustoso. Ci provavo due o tre volte e poi offrivo dei soldi perché qualcuno lo facesse al posto mio: non ci resistevo».

«In queste condizioni, il meno che potesse capitare era la scabbia. Non c’era infermeria, né visita medica, né alcun tipo di farmacia. Ma per lottare contro i pidocchi una volta la guardia si decise a far tagliare i capelli a due prostitute talmente sporche che pure le zingare ne erano rimaste disgustate e avevano protestato. Contro la scabbia, davano una specie di liquido giallastro che bruciava la pelle e causava un’altra specie di eczema. Un giorno decisero di vaccinarci contro il tifo, e ci fecero l’iniezione: tutte in fila e lo stesso ago per tutte, senza alcool né niente. Era il genere di cose che spaventava di più, me e le altre donne straniere. Le spagnole non si preoccupavano di niente, convinte com’erano che si può morire per una cosa come per un’altra».

«In effetti, le persone morivano in quella sala: ogni mattina la guardia mi chiedeva uno specchietto che avevo conservato in una tasca e con questo strumento scrutava le bocche delle persone sdraiate. I corpi che non respiravano più venivano trasportati nei gabinetti. Li lasciavano là alcune ore e poi li portavano fuori. Quando la sala era piena, con più di 200 prigioniere, tutte le mattine trovavano uno o due cadaveri».

«Vedo che lei mi guarda. Gli orrori. Sa, quando entrai per la prima volta in quella sala, ebbi l’impressione di capire d’un tratto tutto, e altrettanto immediatamente accettai tutto. Non so come spiegarmi, ma decisi che la sola cosa da fare era restare estranea a tutto quello che poteva capitarmi e non comportarmi in modo egoista. Sono stata aiutata molto dalle mie compagne. Non tanto dalle straniere quanto dalle spagnole».

«Ad esempio c’era Maria Gracia, una maestra socialista di Gerona, condannata a trent’anni. Era in prigione dal 1939. Pure suo marito, maestro, era stato condannato all’ergastolo; era nella grande prigione di Gerona. Maria Gracia era timida e pudica come una suora. Viveva in una malinconia tranquilla e senza speranza, si interessava solo ai libri che poteva procurarsi. Quando vide arrivare in prigione tante straniere, belghe, ceche, tedesche, polacche (tutte arrestate perché mancava il timbro sui loro documenti) ebbe l’idea di imparare le lingue, e si mise a prender da ognuna dei nomi di oggetti, verbi, piccole frasi che ripeteva tre o quattro volte pregandole di correggere i suoi errori di pronuncia. Aveva un altro desiderio molto vivo – di avere alcune immagini da guardare. Voleva immagini serie, immagini di vere opere d’arte. E quando la lasciai quel che mi chiese fu di inviargliene dall’America. Come idee, era socialista. Sulla situazione presente, ecco quello che pensava: “I fascisti sono i padroni. L’Unione Sovietica ci ha traditi. Siamo socialisti, e sarebbe disonorevole aspettare la nostra salvezza dal capitalismo inglese. Per noi, non c’è speranza quindi. Ma un giorno il popolo si ribellerà di nuovo e vincerà”. Non sperava di vedere quel giorno. Ogni tanto i suoceri le portavano da Gerona i suoi due figli a farle visita. Dopo queste visite, Maria Gracia non era né più triste né più allegra. Viveva realmente e con calma nella disperazione».

«C’era anche Annucion, una donna di una quarantina d’anni condannata a sei anni. Perché sei anni – e non 15 o 30? Forse perché lei era solo una contadina, mentre Maria Gracia era un’intellettuale. Ma Concepcion e Sara, due cugine, una di 24 l’altra di 25 anni, non erano intellettuali, neanche loro. Erano delle modiste, molto incolte, che parlavano solo di ballo e di cinema, e tuttavia le avevano condannate tutte e due a 15 anni perché si sapeva che erano fidanzate a due ragazzi del partito che chiamano “trozysta”».

«Poi c’erano quelle che non erano condannate a una pena determinata e che molto semplicemente venivano tenute in prigione. Ad esempio, due donne di più di quarant’anni, tutte e due rimandate in Spagna dal governo francese. Una di loro aveva perduto il marito in Francia e un bambino di 3 anni, e non faceva che piangere tutto il giorno. Era infermiera e fu lei un giorno ad aiutare una prigioniera polacca a partorire. Fu molto difficile a causa di un’emorragia. Non avevamo niente di pulito, dovemmo fare alla poveretta una sorta di letto coi giornali, per evitare che il materasso si inondasse di sangue. Gliel’ho detto, non c’era modo di avere un medico, per nessuna ragione. Non credo fosse una crudeltà calcolata. Più probabilmente, vigeva il principio che, primo, non avendo dietro di noi alcuna potenza che potesse proteggerci, per così dire non esistevamo. Secondo, con tanti prigionieri, era già abbastanza complicato tenere in ordine le carte amministrative per preoccuparsi di questioni sanitarie».

«Del resto, le condanne inflitte ai prigionieri maschi avevano un carattere ancora più capriccioso. Friedrich mi raccontò che con lui c’era un giovane di Gerona che, per cominciare, era stato condannato a morte. La sua famiglia era abbastanza influente, avevano ottenuto la revisione del processo. E alla revisione del processo i giudici avevano commutato la pena di morte in tre mesi di prigione. Nello stesso tempo, un amico di Maria Gracia, condannato a morte, era stato dimenticato per dodici mesi nella prigione di Figueras. Poi, un giorno, erano venuti a prenderlo per condurlo a Gerona, e là, nel cortile della prigione, l’avevano infine fucilato in presenza di tutti i detenuti: “per dare l’esempio”».

«Per quel che riguarda noi stranieri, poiché avevamo voluto fuggire da Hitler, dovevamo essere tutte persone “che avevano qualcosa da nascondere”. Se non ci davano le stesse pene dei “rossi spagnoli” è perché, non essendo spagnoli, non spettava formalmente allo stato spagnolo il dovere di “darci una lezione” o di eliminarci. Ma occorreva “accertare” i nostri casi uno per uno. Questo richiedeva molto tempo, molta noncuranza, molto capriccio. Dopo tutto, non eravamo neanche dei condannati a morte»

«C’era ad esempio il caso di Erna J., una ceca di 25 anni. Era la figlia di un sarto residente in Belgio da quindici anni. Il suo fidanzato era emigrato in Argentina prima della guerra. A un certo momento Erna aveva deciso di raggiungerlo ed era partita da Bruxelles senza visto, senza passaporto, con pochissimi soldi. Dalla Francia aveva attraversato a piedi la frontiera spagnola. L’avevano arrestata. Dopo alcune settimane l’avevano mandata a Madrid, alla “Seguridad” per “accertare il suo caso”. La Seguridad l’aveva rimandata a Figueras. Dopo sei mesi di detenzione a Figueras, l’avevano fatta uscire, l’avevano portata in montagna, e le avevano detto: “Lei è libera, ritorni in Francia”. Non la trovò la Francia, si perse fra le pietre dei Pirenei e fu ritrovata dopo due giorni da un doganiere spagnolo, svenuta e mezza morta. Il doganiere la riportò a Figueras. A Figueras la dichiararono in stato d’arresto e fu di nuovo rinchiusa».

«A quel tempo, con Friedrich c’era un francese fuggito dalla Francia grazie a un passaporto spagnolo comprato da un calzolaio spagnolo di Montauban. Avevano scoperto il broglio. Il fatto è che scoprirono che nel 1934 questo calzolaio era stato condannato dai tribunali spagnoli a tre mesi di prigione per avere ingiuriato una “guardia civile”. I tre mesi di prigione li fecero fare a Morand, poi lo liberarono».

«Fra gli uomini, nella situazione più penosa c’erano quelli che la polizia francese prendeva dai campi di concentramento francesi per consegnarli alla Spagna oppure che fuggivano da soli dai campi francesi sperando di potersela cavare, una volta nel loro paese. In particolare, quelli che venivano dal campo di Argelis morivano dopo alcuni giorni di inedia».

«Non so se questo le dà un’idea di come le cose funzionavano. Per quel che riguarda me e Friedrich, eravamo continuamente sballottati fra l’idea che “dopo tutto, non c’è ragione di disperare”, e l’altra: “Ci si può aspettare di tutto”. Chiedemmo di parlare al direttore. Trovò che avevamo troppa paura; di certo c’era che un giorno o l’altro Madrid avrebbe risposto. “Dopo tutto – fu la sua conclusione – qui non state molto peggio che fuori”. In generale, era inutile rivolgersi a lui. La sua posizione era quella del tiranno che ha risolto tutti i suoi problemi, i suoi sudditi sono nell’impossibilità di nuocergli e non gli restano da risolvere che i piccoli dettagli amministrativi. Sospettavo che complicasse apposta il caso delle persone che avevano soldi, per costringerle a spenderne il più possibile nel suo istituto di pena. La famiglia di Friedrich ci aveva inviato da New York 500 dollari, e noi decidemmo di rivolgerci a un avvocato. Il direttore sollevò tutte le difficoltà del mondo alla nostra decisione, dicendoci che l’avvocato era un imbroglione, che era inutile in ogni caso, ecc. Si arrese infine alle nostre insistenze, ma evidentemente contrariato. Bisogna dire che effettivamente l’avvocato non servì a niente».

«Quei soldi ci furono molto utili per comprare qualcosa da mangiare fuori. Con la sporcizia e il freddo, la fame era il terzo supplizio. Ci davano due minestre al giorno: un mezzo litro di acqua calda con dentro alcuni oggetti indefinibili e nauseabondi, compresi mozziconi di sigaretta e insetti. In più una fetta di pane di ceci molto sottile e molto pesante. Capii molte cose della condizione umana quando vidi la folla delle detenute cominciare ad agitarsi una mezz’ora prima della distribuzione di queste materie alimentari, poi accalcarsi, impazienti, inquiete, davanti alla porta, e infine precipitarsi attorno alle pentole lottando fra loro per avere una cucchiaiata di minestra in più. Un pasto comprato fuori costava 50 pesetas. Il dollaro veniva scambiato nella proporzione di 12 pesetas per un dollaro. Così un po’ di prosciutto, del formaggio e due banane costavano da 6 a 8 dollari. C’era solo qualche straniero fra i detenuti che potesse pagarsi un tale lusso, ma non tutti i giorni ovviamente. A proposito di fame, Friedrich era considerato dai suoi compagni un signorino schizzinoso perché non mangiava le bucce delle banane».

In Francia avevo letto un articolo della Revue des deux mondes in cui si spiegava che in Spagna i prigionieri politici erano oggetto di un lavoro di “rieducazione”. E’ vero. La mattina, verso mezzogiorno, al momento della passeggiata, i prigionieri erano costretti a cantare l’inno falangista, “Cara al sol”. Le guardie erano particolarmente esigenti con gli uomini, arrivavano a far loro ripetere l’inno fino a sette o dieci volte se sbagliavano una parola o non mostravano abbastanza brio. Alla domenica questo diventava un vero concerto: bisognava cantare non solo “Cara al Sol”, ma anche “El Requete” e l’inno nazionale “Triunfa España”. Alla fine, la guardia preposta ai canti gridava: “España!”. E bisognava rispondere in coro: “Una! Grande! Libre!”».

«Al sabato veniva il prete per ricevere le confessioni dei peccatori. Era un brav’uomo di una cinquantina d’anni che non insisteva molto sulle preghiere e accettava, con un’aria mezzo burbera mezzo spaventata, di fare delle commissioni all’esterno».

«La domenica, nel pomeriggio, c’era la visita delle dame cattoliche. Ci riunivano in una sala detta “della scuola”, tutta tappezzata delle parole storiche dell’eroe nazionalista, Antonio Prima de Rivera. Là dentro, le dame non si limitavano a tenerci discorsi sulla morale cattolica e nazionale. Spingevano il loro zelo fino ad organizzare rappresentazioni teatrali edificanti che avevano per tema la vita della Vergine, di Santa Teresa e di altri santi nazionali»

«Infine, c’era un avvocato che era stato in prigione sotto la Repubblica e veniva a tenere conferenze sugli “orrori” dei Rossi. I detenuti si vendicavano come potevano, cantando in sordina parecchie volte al giorno l’inno anarchico “Hijos del Pueblo”. Nonostante il pericolo, i “non-politici” si univano a questi cori, perché il bisogno di sfogarsi era veramente molto forte. Se non si alzava troppo il tono, le guardie facevano finta di non sentire. Ma se per caso qualcuno si lasciava trascinare dalla musica, il castigo andava da 15 giorni a un mese di cella, a pane e acqua».

«In genere, l’atteggiamento delle guardie era molto strano. La loro insensibilità alle sofferenze dei prigionieri sembrava totale. Mute e sorde, vi ascoltavano senza rispondere, guardandovi senza vedervi e non si poteva ottenere da loro il più piccolo favore se non coi soldi e neanche sempre. E poi, ogni tanto, senza che si chiedesse loro niente, ci portavano delle cose da mangiare: mele, fichi secchi, olive. Sempre senza parlare, sempre con un’aria di assoluta ripugnanza: talmente assoluta che assomigliava a rabbia o a paura – mal represse».

«C’era Torrejo, il vero bruto, colui che vi rivela immediatamente il carattere della prigione. Per lui il lavoro terribile era quello di fare l’appello dei prigionieri e contarli. La paura di sbagliarsi, o di essere ingannato, e di lasciar scappare uno dei dannati lo faceva andare fuori di sé. Tutte le mattine era la stessa scena grottesca, e questo finiva la maggior parte delle volte con qualche condanna alla segreta».

«Il più strano era Salvador, un ragazzo di 19 anni, originario di Pamplona. Era ufficiale in una delle sei o sette polizie speciali create da Franco. Dicevano che suo padre era stato ucciso dai fascisti nel 1936 e che aveva simpatie segrete per i “rossi”. In ogni caso, aveva fatto carriera sotto Franco e, per essere stato nominato ufficiale così giovane, doveva certo essersi guadagnato meriti speciali. Per me, resta una specie di simbolo oscuro della sorte della gioventù negli Stati totalitari. Gli piaceva sorvegliare il canto degli inni franchisti nel cortile. Assisteva alla cerimonia con una specie di smorfia sprezzante stereotipata sul viso. Provava piacere ad ordinare di ricominciare. Questo, sicuramente non perché fosse arrabbiato nel sentir deformare quelle armonie falangiste. Ma l’assurdità della cerimonia lo affascinava, e sembrava compiacersi a renderla esasperante senza remissione. Friedrich mi raccontò che un giorno, durante questo esercizio, uno dei prigionieri più giovani era stato preso da una crisi nervosa e si era buttato a terra, singhiozzando. Sempre col suo sorriso freddo, Salvador gli si era avvicinato e, toccandolo con la punta dello stivale, senza fermarsi, gli aveva sibilato fra i denti: “Un politico che piange: non ti vergogni?”. Come un ufficiale che redarguisce un suo soldato. Ognuno doveva fare la sua parte: ai condannati toccava soffrire con dignità per l’ideale; quanto a lui, era dall’altra parte e intendeva fermamente restarci. La sola cosa che gli importava era il suo grado, perché questo rappresentava il potere, e soprattutto l’immunità. Perché la prigione lo spaventava. Le maniere da ufficiale di cavalleria che ostentava, la sua freddezza e il suo sorrisino non smettevano di evocare l’immagine dell’apprendista-acrobata che cammina sulla corda rigida, in preda alla paura di cadere. Aveva un debole per le donne e si divertiva, ad esempio, a fare irruzione nella nostra sala quando ci stavamo lavando; sempre con la stessa aria sarcastica. Restava là immobile, come un cattivo ragazzo sfacciato piuttosto che come un carceriere convinto che tutto gli sia permesso. Un giorno, esasperata, gli ho gridato: “Lei non ha il diritto di fare questo”. Mormorò una parola – “Sciocchezze” – e se ne andò. Questo genere di divertimento gli costò un mese di prigione, perché una notte si lasciò sorprendere dal sorvegliante-capo nella sala delle prostitute. Nonostante quel che si diceva, il suo atteggiamento verso i “rossi” non tradiva alcuna simpatia. Ma neanche alcun odio ideologico. Piuttosto, il suo sembrava sempre una sorta di sogghigno assurdo rivolto, in generale, a tutti coloro che avevano creduto che “ci sono delle cose che non possono succedere”. Non c’erano limiti, tutto poteva succedere, il mondo poteva uscire dai gangheri del tutto normalmente, seguendo rigorosamente la catena delle cause e degli effetti. Ciò che urtava, con lui, era il fatto che ostentasse questa convinzione con una specie di snobismo e di soddisfazione. Gli altri carcerieri che ho visto in Spagna esprimevano la stessa idea con più semplicità e arrivavano anche, di tanto in tanto, ad avere ricordi di un passato umano».

«Dopo tre mesi a Figueras, ci trasferirono, Friedrich e me, a Madrid. Facemmo il viaggio insieme. Ancora una volta parlammo di fuga e, ancora una volta, l’idea di restare senza documenti ci fermò. C’era anche la speranza imbecille che, siccome “non avevamo fatto niente”, avrebbero finito col liberarci. Arrivati a Madrid, ci separarono. Friedrich fu condotto alla prigione di Commendadores, io a Claudio Cuello, una delle due prigioni femminili della capitale, un vecchio convento».

«Una sede posta sotto l’autorità esclusiva dei falangisti, con un regolamento più duro che a Figueras, e il mangiare molto peggiore. Una sola minestra orribile e una libbra di pane al giorno, distribuiti senza alcuna regolarità, la qual cosa è molto demoralizzante quando si vive rinchiusi e affamati. Ma avevamo diritto a tre docce al mese e i locali erano puliti. Al sabato e alla domenica avevamo diritto a leggere, ma solo i libri della biblioteca della prigione. I “politici” erano separati dagli altri. Di solito, c’erano 1500 politici. Al momento dei transiti, arrivavamo a essere fino a 4 o 5 mila. Bisogna contare che a Madrid c’è un’altra prigione di donne, quella di Ventas, con più di 3 mila prigioniere».

«Dopo la perquisizione d’uso mi portarono in un’enorme sala di mattoni bianchi, molto fredda e assolutamente spoglia. “Ci si procura da fuori quello di cui si ha bisogno”, mi disse la donna in uniforme falangista che mi portò là dentro. In effetti, non c’erano giacigli né sgabelli, là dentro, e non mi avevano dato né materasso né coperta. Fui accolta da una vecchia signora che mi introdusse nella “élite” della sala. Quasi tutte le prigioniere avevano ricevuto dalle loro famiglie un materasso e delle coperte. Ma questa sala era così fredda che si erano messe d’accordo per mettere due o tre materassi uno sull’altro e dormire in due o tre nello stesso spazio ristretto. Questo aveva il vantaggio di mettere strati di lana fra il cemento ghiacciato e il corpo e, nello stesso tempo, di sfruttare il calore naturale».

«La prima notte, dormii con la vecchia signora. Era una russa che abitava in Spagna da più di 15 anni. Durante la guerra, aveva fatto l’interprete per i piloti sovietici. Passava il tempo a insegnare il tedesco, il francese e il russo alle detenute».

«E’ a Claudio Cuello che capii la prigione. Mi avevano parlato degli strani sentimenti che provano coloro che hanno passato lunghi anni in prigione: la nostalgia della cella, la tenerezza morbosa con la quale parlano dei prigionieri, i sogni che fanno di una forza misteriosa che li riconduce irresistibilmente verso il luogo delle loro pene. Ero convinta che si trattasse di cattiva letteratura. Ebbene, ora so che non solo è vero, ma naturale. So che coloro che non hanno conosciuto la prigione non conoscono in ogni caso che la metà della verità sull’esistenza. Non solo: laggiù ho fatto l’esperienza di un’immensa collettività, la collettività dei prigionieri che abbraccia un paese per tutta la sua estensione. Fra prigioni e campi di concentramento si parlava di due o tre milioni di detenuti politici. Non posso dire se è esatto, ma posso dire che ho sentito vibrare tutti i giorni una vita che abbracciava tutte le regioni della Spagna, dalla Catalogna all’Andalusia, dalla Castiglia ai Paesi Baschi. Tutti i giorni si ricevevano notizie da tutta la Spagna, dalla Spagna delle prigioni, naturalmente, perché anche le notizie da fuori erano viste unicamente in relazione agli interessi e alle speranze della comunità dei prigionieri. Si potevano seguire centinaia e migliaia di condannati da luogo a luogo, riceverne notizie, inviarne. Era come una grande centrale telegrafica. Questo si faceva tramite i prigionieri in transito, la cui preoccupazione più urgente era sempre quella di informarsi e informare, ma anche con altri mezzi innumerevoli. Queste astuzie e sottigliezze, questa prontezza ad approfittare di possibilità microscopiche, le ingegnosità infinitesimali e semplici che finiscono col produrre l’effetto dell’”inspiegabile mistero”».

«Così, un giorno, ho ricevuto l’anello che Friedrich aveva fatto fare per me nella prigione di Commendadores con una moneta francese da dieci franchi. Una donna me lo portò, con un piccolo messaggio. Come era potuto avvenire il passaggio? Aveva ricevuto l’anello da una donna che veniva trasferita a Malaga e non ne sapeva di più».

«D’acciaio, d’alluminio, d’argento o di rame, questi anelli sono il segno di riconoscimento dei prigionieri in tutta la Spagna. Non occorrono strumenti per farli; basta avere un pezzetto di materia sufficientemente dura per battere il metallo».

«Sono dei simboli come questo che vi fanno sentire che soltanto l’ultimo superstite della specie umana proverà veramente l’orrore della solitudine, ma prima di lui…»

(traduzione dal francese di Vanda Fava)

Nicola Chiaromonte

Pierre J. Proudhon – un pensatore scomodo

Tratto da «Europa socialista», 1946

E’ un detto di Fouché: «Datemi un pezzo di carta con la firma d’un uomo, ed io lo farò giustiziare». Questo può essere un principio basilare della procedura cui s’informa la Polizia di Stato, ma nelle istanze intellettuali non è davvero un buon criterio.

Con delle citazioni artificialmente strappate dal loro nesso, il sig. Schapiro (*) si propone di dimostrare che Proudhon era: 1) «un precursore delle idee fasciste… che si fece il propagatore del concetto fascista di un superamento rivoluzionario della democrazia e del socialismo… il portavoce spirituale dei ceti medi francesi»; 2) un sostenitore della dittatura in generale e di Luigi Napoleone in particolare; 3) un antisemita; 4) un nemico dei negri americani; 5) un guerrafondaio; 6) un nemico dell’uomo comune; 7) un antifemminista.

Il primo di questi capi d’accusa viene provato dal sig. Schapiro nel modo seguente: Proudhon era un piccolo borghese ed un precursore del fascismo perché non credeva nella nozione marxista della «lotta di classe», né in quella di una rivoluzione violenta coronata dalla vittoria del proletariato; per contro egli pensava che, nei tempi moderni, una rivoluzione violenta non poteva significare altro che la dittatura e condurre al trionfo dei ceti medi. Tuttavia, aggiunge Schapiro, Marx ed i socialisti avevano torto, in quanto essi non compresero esattamente il carattere ed il ruolo storico delle classi medie, mentre l’intuizione «disarmonica» di Proudhon è stata avallata dagli eventi contemporanei.

Da tutto ciò risulta in modo evidente che il sig. Schapiro, pur non credendo nella fondatezza delle nozioni marxiste, se ne serve tuttavia per caratterizzare Proudhon e per dimostrare che questi in fin dei conti non aveva del tutto torto, ma era un cattivo soggetto. In questo sta tutta la stranezza del suo modo di ragionare. Perché da un punto di vista marxista si può giustamente affermare che Proudhon è stato un piccolo borghese, un traditore, un fascista, dato che non credette nella lotta di classe, nella dittatura del proletariato, e cosi via. Ma se l’autore è del parere che le concezioni marxiste sono ad ogni modo sbagliate (e soprattutto nei riguardi dei problemi fondamentali come il ruolo storico delle varie classi), allora si ha il diritto di pretendere da lui che giudichi Proudhon partendo da qualche altra base chiaramente definita, e tenendo conto di ciò che è realmente il pensiero di Proudhon.

La disinvoltura del Sig. Schapiro

Io ritengo che le idee di Proudhon (se siano giuste o sbagliate è un’altra questione) si trovano enunciate nella sua opera con perfetta chiarezza per chiunque voglia fare un piccolo sforzo per comprenderle. Se dovessi riassumerle in poche parole, io direi che la preoccupazione principale di Proudhon è stata quella di scoprire nella vita della società umana una verità che non fosse una verità «classista», affinchè il trionfo della giustizia sociale fosse un trionfo della ragione e non della violenza, una creazione della società stessa e non una imposizione dall’alto, qualunque fosse il nome di questo ente superiore -Iddio, coercizione statale o dittatura di classe. Questa verità egli chiamò Giustizia, intesa sia come «idea», sia come realtà concreta, inerente -in un senso positivo e negativo- ad ogni ordinamento sociale. Di questa idea che ispira tutta la sua opera, Proudhon fece un’esposizione poco sistematica, ma tanto più suggestiva, nelle duemila pagine del suo libro «De la Justice dans la Révolution et dans l’Eglise». Queste duemila pagine sono completamente trascurate dal signor Schapiro il quale, d’altra parte, fa un uso abbondante di estratti dalla corrispondenza di Proudhon, presentandoli come se si trattasse di formule teoriche anziché di opinioni personali occasionali e strettamente private.

Dallo studio di Schapiro si può inoltre apprendere che Proudhon è stato un anarchico, ma nulla è detto sulla sostanza e sul significato profondo della lotta instancabile che Proudhon condusse contro ciò che egli definì il «principio di governo». In tal modo riesce facile al sig. Schapiro di impiccare Proudhon in effigie come sostenitore della dittatura, in considerazione del suo atteggiamento nei confronti di Luigi Napoleone. Che una simile accusa abbia potuto essere pronunciata è talmente assurdo che non varrebbe la pena di confutarla, se non avessimo oggigiorno tanti esempi che ci dimostrano come il pregiudizio intellettuale e la tendenza a spacciare delle formule al posto di pensieri riescono a traviare l’intelletto di tante persone peraltro rispettabili. Per ben comprendere l’atteggiamento di Proudhon nei confronti di Luigi Napoleone, basta leggere ciò che egli scrisse a proposito dello stesso, tenendo presenti gli avvenimenti del tragico anno 1848. La rabbia, la disperazione, il disprezzo per i politicanti socialisti e democratici, che si trovano in quegli scritti, erano sentimenti ben comprensibili in un uomo, che fin dal 1840 aveva previsto la disfatta, la dittatura e la guerra come conseguenze della stupidità dei demagoghi i quali (ubbriacati dai ricordi del 1793 e da fantasie barricadiere) erano disposti a mandare gli operai al macello per il gusto di frasi vuote o di meschine combinazioni ministeriali. E fu proprio questo che essi fecero nel giugno 1848.

Senza parlare del fatto che il famoso pamphlet «La Révolution démontrée par le Coup d’Etat» era un pamphlet così poco bonapartista che al suo autore fu proibito di pubblicare in seguito qualsiasi scritto di carattere politico, basta accennare ad un altro fatto ben noto, e cioè che Proudhon è stato tre anni in carcere e sette anni in esilio per la sua strenua lotta contro il bonapartismo, per poter affermare che la sua presa di posizione contro Luigi Bonaparte era non soltanto perfettamente chiara, ma anche intelligente e onestissima. Egli vide con grande chiarezza (come lo stesso Schapiro riconosce) che la combinazione di un apparato statale paternalistico e di una massa popolare abbandonata in uno stato di depressione, di delusione e di caotico smarrimento avrebbe inevitabilmente generato la dittatura, l’Impero ed infine la guerra. Per Proudhon non si trattava affatto di un problema di antagonismo fra ceti medi e proletariato. Infatti, egli non si stancò mai di mettere in rilievo come l’inerzia (o «l’appoggio passivo») degli operai disgustati era stato il fattore essenziale nel determinare il successo del colpo di stato, mentre i ceti medi «liberali» erano profondamente allarmati all’idea di perdere i loro privilegi politici, che essi stessi, d’altronde, avevano contribuito ad annientare quando colpirono gli operai di Parigi. Quando Proudhon disse che Luigi Napoleone poteva essere «la Rivoluzione o niente», egli non intese con ciò esprimere fiducia in un uomo che egli aveva combattuto con tutte le sue forze e per il quale non aveva nessuna stima, ma piuttosto proclamare la sua convinzione che, con Napoleone o senza di lui, la Rivoluzione non poteva essere arginata, e che il ridicolo Cesare aveva soltanto la scelta tra l’andare volontariamente verso la Rivoluzione e l’esservi trascinato per necessità storica.

Insieme ai migliori uomini del suo tempo, Proudhon vedeva (con occhi aperti e senza sentimentalismi o illusioni circa gli inevitabili sviluppi della storia) il sollevamento sociale dei tempi moderni nella forma di un «progresso irresistibile». Questo sollevamento era per lui un fatto così fondamentale ed evidente, e coincideva a tal punto con la necessità della Verità stessa, che sarebbe stato per lui una cosa grottesca il pensare che un signor Charles Louis Napoléon Bonaparte potesse essere qualcos’altro che uno strumento di quel movimento.

L’ardore politico, l’intelletto ardito e l’amore per le visioni grandiose hanno spesso condotto Proudhon a formulare delle affermazioni che possono sembrare strane ed anche assurde. Ma, in fin dei conti, se Proudhon è famoso per qualche cosa, lo è appunto per il suo odio indomabile contro ogni forma di coercizione. Per ammettere che egli abbia pensato ad appoggiare la dittatura di Luigi Napoleone, bisognerebbe supporre che egli abbia nutrito qualche torbida ambizione personale. Ma nello stesso istante chiunque abbia qualche nozione della vita e delle opere di Proudhon sentirebbe risuonare la eco delle parole che egli gettò in faccia al signor Thiers, in pieno Parlamento: «Signor Thiers, io sono disposto a raccontare tutta la storia della mia vita, qui da questa tribuna. Io vi sfido a fare la stessa cosa».

Fin qui l’attacco del sig. Schapiro contro Proudhon sembra essere il risultato di malintesi e di antipatìa; piuttosto che di decisa ostilità. Ma quando egli se la prende con Proudhon accusandolo di essere guerrafondaio e antisemita, la sua ignoranza ed i suoi travisamenti sono veramente inescusabili.

II socratismo di Proudhon

La Guerre et la Paix di Proudhon è uno sforzo appassionato di indagare «sui legami misteriosi che uniscono forza e diritto». Con questo intento l’autore parte dal presupposto che la guerra è nella natura umana, che mediante la guerra l’umanità ha realmente cercato, in un modo fosco e terribile, di appagare il bisogno di giustizia, da cui essa è assillata.

Chi ha letto il libro sa che nella sua prima parte esso prende la forma di una apologia della guerra. Infatti, questa impostazione del problema è tipica per Proudhon e costituisce una delle caratteristiche più originali del suo metodo il quale è, in un certo senso, veramente socratico. Ma chi ha letto il libro sa anche che esso finisce col dimostrare che, mentre la guerra può essere compresa e giustificata soltanto come una violenta aspirazione verso la giustizia nella società, la giustizia stessa non può essere realizzata attraverso la guerra, ma soltanto attraverso l’instaurazione di giusti rapporti fra gli uomini e le nazioni, e che non vi può essere né giustizia né pace se non in una libera federazione di popoli.

Schapiro ignora tutto ciò. E la descrizione del suo atteggiamento non sarebbe completa se tralasciassimo di ricordare che, proprio poche pagine prima di accusare Proudhon come guerrafondaio, egli gli rinfaccia di essere un traditore del proletariato ed un nemico del socialismo, perché egli non credeva nella rivoluzione violenta.

Ma nello stesso libro, scritto alla vigilia della Guerra Civile Americana, Proudhon dichiara francamente che questa «guerra di liberazione» non libererà i negri, che questi, nella migliore delle ipotesi, passeranno da una specie di servitù ad un’altra e che , tutto sommato, sarebbe meglio per essi rimanere sotto i loro padroni del Sud e lottare per la loro emancipazione attraverso la riforma e l’autoeducazione anziché essere liberati dagli eserciti del Nord. Ognuno è padrone di dissentire da questa opinione. Ma chi conosce Proudhon sa anche da quale premessa egli parte in questa sua affermazione. La premessa basilare per Proudhon è questa: che è cosa priva di senso dire che l’uomo possa essere liberato da un apparato qualunque, sia esso statale o no. L’uomo, secondo Proudhon, può liberarsi soltanto da sé e può essere aiutato soltanto dai suoi compagni nella vita in comune e negli sforzi comuni. Sempre a proposito della Guerra Civile Americana, si può forse dire che Proudhon si sia lasciato trascinare ad una generalizzazione affrettata, per quanto io pensi che oggigiorno c’è più di uno disposto a dargli ragione. Ma il sig. Schapiro è, per quanto io sappia, l’unica persona alla quale sia venuto in mente di accusare il grande erede dei filosofi del diciottesimo secolo di essere un «anti-negri».

Per quanto riguarda l’antisemitismo dì Proudhon, l’accusa del sig. Schapiro si basa sul fatto che Proudhon usa parecchie volte la parola «ebreo» in rapporto con banchieri, borsa, capitalismo finanziario ed istituzioni di questo genere. A parte il fatto che questi riferimenti non sono del tutto arbitrari e senza fondamento, allo stesso modo si potrebbe classificare Voltaire come antisemita perchè non gli piaceva la Bibbia e perché la parola «ebreo» era per lui praticamente sinonimo di superstizione.

D’altra parte, sarebbe inutile voler negare che Proudhon è stato un antifemminista. Alessandro Herzen, che nutriva grande rispetto ed amore per Proudhon, era scandalizzato dalla sua grettezza di vedute per quanto riguarda i diritti della donna e la famiglia come istituzione. Quando Proudhon parla delle donne e della disciplina paternallstica nella famiglia, egli ci rivela i caratteri peggiori della sua natura di «cafone». Non solo questo, ma facendo propria la nozione romana della famiglia fondata sulla patria potestà, Proudhon contraddice la sostanza stessa della sua filosofia sociale che è tutta un attacco a fondo contro le basi filosofiche e sociali della legge romana e napoleonica.

Un nemico dell’uomo qualunqueIn un punto sono disposto a dare ragione al sig. Schapiro, e lo faccio volentieri e con grande entusiasmo. E ciò quando Schapiro dice che Proudhon era «un nemico dell’uomo comune». Sì, vivaddio, egli lo era. Proudhon odiava l’uomo «comune», odiava l’uomo «medio», odiava l’uomo «di classe», odiava profondamente e spietatamente qualsiasi finzione mediante la quale la genuina e nuda realtà umana potesse essere comunque mascherata, distorta e falsata -e quindi oppressa e soppressa. Per dì più, Proudhon non era propriamente un innamorato dell’umanità. Era qualche cosa di meglio. Era un uomo, un uomo raziocinante e libero.

Tutto sommato, siccome il sig. Schapiro ha scelto il metodo di dipingere Proudhon mediante citazioni arbitrarie, egli potrebbe anche accusarlo di essere stato:

1) un nemico delle nazioni libere, perché ai suoi occhi i patrioti polacchi ed italiani erano dei confusionari sentimentali, i quali pensavano che la liberazione dalla dominazione straniera unitamente ad una forma di governo costituzionale, avrebbero automaticamente apportato una reale libertà ed autonomia delle nazioni, mentre egli pensava che la realtà si traduceva invece nella seguente operazione aritmetica: nazionalismo più uno Stato rafforzato eguale a dispotismo, guerra e tramonto di ogni speranza di una unità europea;

2) un nazionalista perché, in virtù della_convinzione anzidetta, egli criticava violentemente Napoleone III e la sua «guerra di liberazione» in Italia denunciandola come una guerra contrastante con gli «interessi nazionali» della Francia, in quanto la nazione francese non poteva avere alcun interesse alla formazione di una nuova potenza militare alle sue frontiere;

3) un fautore della legge e dell’ordine, perché egli ripetutamele sosteneva che «governo politico» significava in realtà anarchia sociale, mentre la libera associazione ed il principio federale erano la sola base possibile per un reale diritto ed un reale ordine nella società;

4) un filisteo, perché egli attaccava alcuni fra i più noti scrittori ed artisti del suo tempo -Victor Hugo, George Sand, Delacroix ed altri- come «immorali e falsi»;

5) un futurista perché, scrivendo di arte, egli non soltanto ammirava Courbet come un grande artista, ma attaccava anche il «culto assolutistico della Forma», prediceva che «veri artisti sarebbero stati perseguitati come nemici della Forma e della moralità pubblica», ed esprimeva una concezione di idealismi critici nella quale la verità circa il mondo umano e la negazione delle convenzioni morali, sociali ed artistiche erano sintetizzate in una maniera non molto dissimile da quella di Tolstoi e Van Gogh.

In realtà, tutto ciò prova soltanto la grande originalità di Proudhon come pensatore, la sua ansia di scoprire nuovi aspetti della realtà e nuovi metodi di dimostrazione delle verità in cui credeva, la sua abilità dialettica che prendeva sempre lo spunto dagli argomenti fondamentali dell’avversario -ciò che è uno degli aspetti del suo socratismo e lo conduce a delle affermazioni che sono straordinariamente vicine ad alcune tesi fondamentali della filosofia moderna.

In tutto ciò, è però implicita una questione più generale. Essa non riguarda specificamente né il sig. Schapiro né Proudhon, ma piuttosto due tipi di mentalità interamente diversi. Ciò che colpisce nel «caso Schapiro» è l’incapacità di questi ad intendere un tipo di mentalità complesso come quello rappresentato da Proudhon. Perché?

Io penso che sia impossibile comprendere l’atteggiamento del sig. Schapiro se non si premette che ciò che egli cerca effettivamente è una teoria unitaria, monolitica, una teoria che possa fornire tutte le risposte richieste, complete di istruzioni sul modo come saggiarle e confutarle.

Una simile teoria dovrebbe essere costruita su un piano di semi-verità dogmaticamente asserita. Si ha il sospetto che il sig. Schapiro voglia ridurre le idee di Proudhon ad una affermazione di questo genere: « II mondo è cattivo perché i crediti finanziari non sono concessi liberamente. Una banca di libero credito metterebbe tutto a posto». In questo caso egli avrebbe la scelta fra due alternative. Potrebbe dire: «In fondo la cosa non è del tutto assurda, poiché il credito libero sarebbe effettivamente una buona cosa», oppure potrebbe (alla stregua di Marx) indignarsi e trattare Proudhon come un facilone che pretende di risolvere la questione sociale con il colpo di bacchetta magica del libero credito. La cosa essenziale in ambedue i casi è però che non ci troviamo di fronte a delle affermazioni «contraddittorie» e «disarmoniche», ma solamente di fronte a posizioni semplicistiche.

Fortunatamente Proudhon è ben lungi dall’essere uno di quei pensatori comodi con i quali il signor Schapiro (e cento altri) amano aver commercio. Proudhon è uno di quei pensatori che, credendo nella verità, si sentono liberi di sfidare qualsiasi cosa, eccettuata la verità stessa. Per Proudhon le soluzioni pratiche non possono essere che parziali e l’essenza del problema sociale è che esso rimane aperto. Infatti, alla radice del pensiero di Proudhon si trova la convinzione incrollabile che la società umana costituisce un problema sempre presente e sempre risorgente, il quale potrà o non potrà avere una soluzione finale, ma esige ad ogni modo di essere tenuto aperto attraverso tutte le vicende della storia. Questa è, per Proudhon, la missione dell’uomo onesto e dell’intellettuale, missione che non può essere compiuta se non attraverso la libertà intellettuale ed il lavoro comune.

Ma difendere Proudhon contro certi malintesi può sembrare, in ultima analisi, cosa superflua. Poiché il semplice fatto che, dopo essere stato per tanto tempo sepolto sotto il terribile epitaffio «piccolo borghese», egli venga ancora vilipeso, costituisce una prova sufficiente della vitalità e veridicità di ciò che ci è rimasto di Pierre-Joseph Proudhon «uomo del popolo».

(*) J. Salwyn Schapiro: P. J. Proudhon, precursore del fascismo, nella «American Historical Review».

Nicola Chiaromonte

Parole confuse

Tratto da La Stampa, 30 dicembre 1969

Pubblicato in Cesare Panizza (a cura di), Nicola Chiaromonte, La rivolta conformista. Scritti sui giovani e il 68, Una Città, 2009

Perché stai così zitto?

Perché parlare dell’inutilità di parlare mi sembra piuttosto inutile. È di questo che si tratta. Tutti dobbiamo constatarlo nella vita di ogni giorno: la parola è diventata un’appendice del fatto. Soltanto fra i pochi che già s’intendono, essa serve a comunicare. Fra i più l’abitudine delle epoche civili e socievoli, di rispondere alla parola con la parola, al discorso coerente col discorso coerente, si è perduta. Alla parola oggi si risponde con l’atto, col gesto, con la lusinga, con la minaccia, o semplicemente col silenzio. Quando si parla, è solitamente solo per accompagnare o sottolineare il fatto, che è sempre un fatto compiuto o un’opinione prestabilita.

Eppure, ecco, noi stiamo parlando. E, attorno a noi, fra carta stampata, radio, televisione, cinematografo, le parole diluviano.

Naturalmente. Noi parliamo fra di noi, e attorno a noi la moneta cattiva scaccia la buona. La svalutazione della parola è un fenomeno galoppante. Ed è già un fatto di violenza, anzi il principio stesso della violenza. Sicché viene da ridere amaro, a leggere i molti predicozzi che si vanno impartendo per deprecare la violenza. La violenza è istallata nella forma stessa dei rapporti umani quali oggi si svolgono, meccanici, forzosi e inerti.

Allora i giovani violenti hanno ragione

No, non hanno ragione affatto. Son presi in una trappola. Giustificare la violenza con delle ragioni ideali non ha senso; rispetto a una qualsiasi ragione ideale, socialismo, anarchismo o comunismo, la violenza è stata sempre considerata un male: necessario, al momento giusto, ma male sempre, da ridurre al minimo e tenere sotto stretto controllo. Che poi il demone, una volta evocato, non abbia più obbedito all’apprendista stregone, è un’altra faccenda. Ma l’apologia della violenza, la convinzione che solo con la violenza si cambia il mondo, è stata, da un secolo a questa parte, il proprio dei politici realisti e dei teorici della forza, non di quelli che cercavano la giustizia.

D’altra parte è vero che non si può fare appello alla violenza senza darne una qualche giustificazione. Teorizzare la violenza pura è come teorizzare la pazzia furiosa. Ma, nel momento che la si giustifica con qualche ragionamento, allora è il ragionamento che conta, e vale quel che valgono le sue premesse e le sue conseguenze, né più né meno.

Con i giovani rivoltosi d’oggi, però, sembra inutile ragionare.

Doppiamente presi in trappola, i giovani violenti. Vogliono l’azione efficace e finiscono col dire, di fatto, che qualunque azione violenta è efficace. Efficace a che? A scardinare il «sistema». In realtà, la violenza non fa che rafforzare il cosiddetto sistema, in quanto, creando un disordine che non mena a nulla, costringe a rimettere bene o male le cose in ordine: non è un’operazione di polizia, è una necessità organica della vita collettiva. La quale, oggi, ha questa particolarità, che da una parte funziona secondo regole meccaniche, non in base a leggi sacre o credute tali; dall’altra, appunto per questo, può sopportare molto più disordine che non si creda, perché la meccanicità del suo funzionamento è sostanzialmente imperturbabile, neutra, e presto ristabilita. Lo esige l’inerzia irresistibile della collettività medesima, molto più che i padroni o i governanti.

La violenza, nella società industriale, o prende la forma di un colpo di Stato ben concepito e rapidamente eseguito, impresa per la quale i giovani rivoltosi non sembrano particolarmente indicati (e d’altra parte la rifiutano a favore della spontaneità rivoluzionaria), oppure diventa una sorta di happening, o, come ha ben detto Raymond Aron, di «psicodramma», anch’esso necessariamente di breve durata.

Allora, insomma, non c’è da preoccuparsi.

No, anzi, c’è da preoccuparsi moltissimo. Che la violenza fisica non porti a nulla, non cambia la natura della situazione in cui ci troviamo. Il fatto che i giovani ribelli non sanno riconoscere, e che li porta all’estetismo della violenza e insieme a un moralismo politico il quale consiste nel dividere una volta per tutte il mondo in buoni e cattivi, è questo: la strada a quella che dal 1848 al 1917 s’è chiamata «rivoluzione sociale », oggi è chiusa. Ed è chiusa perché la società stessa è in rivoluzione nelle credenze religiose e nelle idee.

Rivoluzione, o meglio: dissoluzione. Tutto è in questione e tutto è in confusione. La violenza sporadica non fa che aggiungere confusione a confusione: è uno dei fenomeni caratteristici dello stato di fatto; fa parte del quadro, e i giovani sovversivi non si accorgono fino a che punto la loro rivolta contribuisce a fomentare il disordine e i mali propri del disordine, quindi a ritardare l’avvento di quel «nuovo ordine di cose» che essi desiderano.

In queste condizioni, quello che sarebbe veramente nuovo e necessario sarebbe una restaurazione: un movimento per la restaurazione delle basi prime della società, anzi della convivenza umana. Ma un tal movimento non può cominciare altrove che nelle coscienze e nei rapporti fra persona e persona. Per questo, i giovani ribelli dovrebbero rinnegare molti idoli ai quali viceversa sacrificano: gl’idoli della novità, della sregolatezza supposta liberatrice, della violenza e dell’incoerenza, che sono gl’idoli stessi della società contro la quale essi credono di ribellarsi.

Insomma, il ritorno all’ovile.

No, perché non ci sono ovili cui ritornare. Ci sono delle trame antiche da riprendere, che sono quelle della semplicità del vivere e del pensare. Ed è un compito talmente contrario al nostro attuale modo d’essere che fa paura solo a pensarci.

Nicola Chiaromonte

A lume di ragione

Tratto da «Tempo presente», marzo-aprile 1968

Contro l’Università?

Fra i documenti che abbiamo letto per renderci conto delle idee che ribollono nella rivolta degli studenti, uno dei più radicali e sostanziati ci è parso quello di Guido Viale «Contro l’Università», stampato nel fascicolo 33 dei “Quaderni piacentini”, rivista che ha fornito al movimento studentesco (o alla parte estrema di esso) l’essenziale dei suoi motivi ideologici. Nell’articolo di Viale si trova espressa, in modo alquanto ponderoso e professorale, ma in ogni caso esauriente, la posizione detta di «contestazione globale». Oltre a essere un esempio considerevole dell’attuale polemica studentesca, esso è dunque un testo che vale la pena di discutere senza indulgenza né sufficienza.

L’articolo comincia con la seguente perentoria affermazione: «Il primo compito del movimento studentesco è operare delle distinzioni di classe all’interno della popolazione scolastica».

La frase, e le asserzioni che la seguono, non lasciano dubbi. Siamo nell’orizzonte di un linguaggio prestabilito, quello marxista (diciamo «linguaggio» e non «ideologia» per scrupolo d’esattezza, perche non è chiaro dove precisamente conduca il linguaggio adottato da Viale). Si tratta di un linguaggio chiuso il quale comunica solo con se stesso (ossia con chi lo condivida) e non è certo destinato a persuadere chi, per esempio, non veda l’utilità, a proposito di una questione che riguarda il buon corso degli studi, d’introdurre un concetto non solo controverso (è il meno che se ne possa dire) come quello marxista di classe, ma obnubilante, essendoché non sembra affatto evidente che la «popolazione scolastica» sia unita da un interesse anche minimamente simile a quello marxista del «rapporto di produzione». Per definizione, direbbe il senso comune, lo studente non produce, ma riceve semmai i mezzi per una produzione futura. Dato e non concesso che la cultura si possa assimilare sic et simpliciter a un mezzo di produzione

Ma vediamo che cosa intende Viale per «distinzioni di classe all’interno della popolazione scolastica». Egli intende quanto segue:

Se è vero che nel periodo della loro formazione tutti gli studenti sono assolutamente privi del potere e sottoposti alle manipolazioni delle autorità accademiche, è altrettanto vero che per alcuni inserirsi nella struttura di potere dell’università non è che un primo passo del loro inserimento nelle strutture di potere della società, mentre per la maggioranza degli studenti la subordinazione al potere accademico non è che l’anticipazione della loro condizione socialmente subordinata all’interno delle organizzazioni produttive in cui sono destinati a entrare.

Eccoci di fronte alla ben nota questione del «potere studentesco», debitamente confusa con quella del potere sociale in senso lato, sicché diventa praticamente impossibile sbrogliare l’imbroglio. Il quale imbroglio consiste in questo: l’autoritarismo, anzi l’arbitrarietà sciatta e indecorosa, che regna nella scuola italiana (e non solo nell’università) è un fatto ampiamente riconosciuto. Che il rapporto fra docenti e studenti vada riformato nel senso di abolire «baronie», despotismo, camorre varie, nessuna persona sensata lo negherà. Ma quando si parla di «potere», si crea un equivoco al quale nessuna persona sensata vorrà prestarsi. In primo luogo, l’università non appartiene né agli studenti né ai docenti, ma, semmai, alla nazione: lì non può essere questione di potere, ma che ciascuno faccia l’ufficio suo onestamente. II potere, propriamente parlando, appartiene al ministero dell’Istruzione, ed è a questa centralizzazione assurda che burocratizza e umilia sia l’insegnamento che l’apprendimento che sono dovuti i massimi mali. Per conto nostro, vedremmo con sollievo una riforma che abolisse puramente e semplicemente il ministero dell’Istruzione, e instaurasse una completa libertà d’insegnamento, abrogando quel principio della scuola di Stato che non solo ha fatto il suo tempo, ma di fatto è stato abolito dalla licenza assoluta data alla scuola «libera». Non si vede proprio, in particolare, perché il prestigio di un’università debba dipendere da altro che dalla qualità dell’insegnamento che essa fornisce, qualità che nessun ministro e nessun funzionario ha numeri per giudicare, ma che invece risulta immediatamente chiara agli interessati, che sono da una parte gli studenti e dall’altra la società nel suo insieme. Un sistema che sostituisse al ministero dell’Istruzione un organo di semplice coordinamento e ispezione risolverebbe di per sé la questione del «potere studentesco», ossia di un rapporto di comunanza e relativa eguaglianza. Giacché eguaglianza quanto al fondo, ossia al fatto che da una parte c’è chi, sapendo, comunica il proprio sapere e dall’altra chi, non sapendo, lo riceve, non è sennatamente concepibile, come non è sennatamente concepibile la commedia dei controcorsi e degli esami per acclamazione d’assemblea. Che poi la discussione libera faccia parte dell’insegnamento è certo, ma è anche certo che viene dopo.

Insomma, abolire l’autoritarismo accademico, sì, quanto si vuole. Ma sostituire ad esso un «potere studentesco» irresponsabile, arbitrario e carico di pretese ideologico-politiche significherebbe in sostanza immettere anche nella scuola il sistema delle influenze e pressioni di partito che domina così bellamente la nostra vita pubblica. Senza contare che i sostenitori estremi del potere studentesco non hanno affatto l’aria di voler dividere il loro «potere» con altri, bensì di esercitarlo in condizioni di maggioranza assicurata e secondo una ideologia prestabilita di «contestazione globale». Di un tale progetto, l’unica cosa da dire è che non ha senso.

Ma, continuando, quali sono le «distinzioni di classe» che Viale discerne fra gli studenti? Eccole:

Fin dall’inizio dell’occupazione abbiamo individuato grosso modo tre strati della popolazione universitaria: quelli che l’università la usano (come base di lancio verso il conseguimento di posizioni di potere nella struttura sociale); quelli che l’università la subiscono (come fase necessaria attraverso cui bisogna passare per andare a occupare una condizione sociale predeterminata nella fittizia gerarchia di una mistificatoria stratificazione sociale); e quelli che dall’università vengono soltanto oppressi (in quanto essa funziona come strumento di legittimazione della loro posizione sociale subordinata).

Diciamo subito che queste asserzioni ci sembrano logicamente prive di base, oltre che di riferimento a una qualsiasi situazione specifica e concreta. Giacché, insomma, la linea di confine fra quelli che, per parlare il linguaggio di Viale, «usano» l’università e quelli che la «subiscono», ci si può domandare se esista davvero, e in che senso.

Si può certamente subire al fine di usare e, per conto nostro, da quello che ricordiamo dei nostri anni d’università, i due strati si confondono in uno, il quale poi costituisce semplicemente la maggioranza. Minoranza sono quelli che studiano perché vogliono studiare e riuscir bene nella vita; e minoranza ancora più esigua quelli che studiano per amore dello studio. I socialmente privilegiati poi (contrariamente a una strana analisi fatta dal Comitato d’agitazione dell’università di Torino e citata da Viale) di solito non credono né nella scienza né nella cultura, e hanno un bisogno molto relativo di studiare seriamente, dato che appunto sanno di avere comunque un posto che li attende.

Quanto agli «oppressi», non si capisce proprio che cosa voglia dire Viale quando accusa l’università di ribadire le catene della schiavitù sociale. Questa è un’asserzione dedotta nel vuoto dalla premessa che nella società «capitalista» (o «neocapitalista») ogni istituzione (e a maggior ragione quelle della sovrastruttura culturale) è uno strumento della classe dominante. Ma, a parlar concreto, in qual mai senso una laurea in legge o un diploma di farmacista è «uno strumento di legittimazione di posizione sociale subordinata»? Forse perché non sempre il suo detentore farà una gran carriera? Ma è davvero nel fatto di non far carriera che si rivela l’oppressione sociale? In qual senso che non sia bassamente «borghese» e «capitalista», la funzione degli studi si misura dalla garanzia di carriera che essi forniscono? Una cosa è imparare, si direbbe, e una cosa tutt’altra sapersi far strada nella vita. Doversi «far strada nella vita» non sembra, d’altro canto, una schiavitù peculiare della società borghese. Negli Stati detti socialisti, è pur vero che lo Stato provvede a dare impiego a ogni diplomato; ma è anche vero che, non potendo allogare tutti al vertice della piramide, ribadirà non pochi in «posizione sociale subordinata». E si vorrebbe aggiungere che è normale, se non giusto, che così sia, dato che non s’è mai visto né mai si vedrà un sistema sociale attivo e funzionante nel quale alcuni individui non si trovino, per continuare a parlare il linguaggio di Viale, «ad andare ad occupare una condizione sociale predeterminata nella fittizia gerarchia di una mistificatoria stratificazione sociale».

Quale gerarchia non è fittizia? si potrebbe domandare a Viale. E quale stratificazione sociale non è mistificatoria? si potrebbe insistere. Di non fittizio, c’è solo il vero: in questo caso, il merito personale. Ma il merito personale, in una determinata situazione sociale, quale essa sia, diventa immediatamente relativo alla «funzione» in cui può essere esercitato; e le funzioni sociali non si creano su misura se non al vertice della gerarchia. Comunque, una società la cui gerarchia, giudicata in assoluto, non sia al tempo stesso fittizia e mistificatoria non s’è mai vista. Quel che s’è visto e si vede sono delle società in cui le carriere sono più o meno largamente aperte al talento. Concetto, questo, borghese e democratico (napoleonico, per precisare), com’è borghese e democratico l’ideale di una scuola aperta a tutti e di una cultura a disposizione di tutti. Ma inerente a tale ideale è l’accettazione del fatto che, se va perseguito per principio, esso d’altra parte non è realizzabile di colpo e in assoluto. Onde la società democratica e «borghese» accetta senz’altro il fatto della propria imperfezione e della relativa necessità di riformarsi continuamente. Mentre lo Stato socialista puro postulato evidentemente dal discorso di Viale si limita a dichiarare giuste e rispondenti alle esigenze della Storia e dell’Umanità le proprie «stratificazioni»; e, in quanto alle proprie «mistificazioni», non sa che dichiararsene immune per natura e dannare chi per avventura ne sospetti l’esistenza.

«Mistificazione», «mistificatorio», «de-mistificazione»: si fa un grande uso di queste parole, fra i giovani d’oggi. Sarebbe più semplice e meglio verificabile parlare di vero e di falso. Ma, appunto, quel che un tal gergo intende evitare è la verifica. Il vero e il falso sono fatti specifici e limitati per natura, e riguardano determinate situazioni di fatto espresse per mezzo di proposizioni egualmente determinate. La «mistificazione», invece, è un fatto globale, totalitario. Se, per esempio, uno stato di cose non è giusto in assoluto (cioè in astratto, giacché solo in astratto può uno stato di cose coincidere assolutamente con la giustizia), esso è assolutamente ingiusto, dunque totalmente «mistificatorio», con le relative «stratificazioni» e «subordinazioni». Quindi va «demistificato» senza pietà, contestato «globalmente» e immediatamente. Il che porta con eguale immediatezza alla azione violenta. Ma se d’azione violenta deve trattarsi, si esca allora dai recinti dell’università, e si parli di rivoluzione, di come farla, con quali mezzi, e a quali scopi. C’è qualcosa di peggio che infantile nell’idea di fare la rivoluzione rimanendo barricati nelle aule scolastiche: qualcosa che sminuisce e discredita tutto ciò che v’è di legittimo nella protesta degli studenti. Dopotutto, per fare la rivoluzione, dal 27 al 29 luglio del 1830 gli studenti parigini andarono sulle barricate, non in Sorbona; e la rivoluzione, gli studenti russi la prepararono per cinquant’anni, passando dalla scuola alla galera e dalla galera alla scuola, non rimanendo seduti sui banchi a discutere eventuali controcorsi. Parlare di «contestazione globale» sembra veramente una maniera di evitare sia ciò che v’è di serio nei problemi dell’università, sia ciò che v’è di ancora più serio, oggi, nella questione politica. La quale, se è «mistificata» alla radice, non è per il gran machiavellismo della classe dirigente, ma in primo luogo e anzitutto perché il pensiero autentico se ne è ritirato, e al suo posto regnano incontrastate le idee prefabbricate e le formule fisse.

Quanto al resto, ci son molte osservazioni giuste, nell’articolo di Viale. Ma sono quelle sulle quali ogni cittadino cosciente è in sostanza d’accordo, o sulle quali l’accordo sarebbe comunque facile da raggiungere. è l’ideologia che è non solo sbagliata, ma diremmo perversa, in quanto fondata su quello che non esiteremo a chiamare «il ricatto dell’assoluto». Ricatto che in buona logica si riduce all’assurda proposizione che quando non c’è tutto non c’è niente e se non si ha tutto non si ha nulla. Proposizione dalla quale il nostro articolista deduce rivendicazioni come quella di sottoporre la vita dell’università alla «critica politica», ossia di abolirvi i residui di libertà che pur vi lascia il «despotismo accademico», riducendola a una specie di tumulto totalitario.

Nel «despotismo accademico», d’altra parte, il Viale (in uno con i suoi colleghi) fa rientrare anche il fatto che si esiga «un criterio di qualificazione professionale nella preparazione del curriculum». Secondo lui (e i suoi colleghi) ciascuno studente dovrebbe esser libero di programmarsi detto curriculum «a proprio piacimento». Onde «la preparazione universitaria diventa l’autoprogrammazione del proprio curriculum di studi che ciascuno studente fa in modo non individuale, ma sottoponendolo almeno parzialmente alla discussione dell’assemblea». Tra corsi, controcorsi, discussioni di ogni curriculum individuale e esami plebiscitari, davvero è un’università «di pieno impiego» che questi giovani sembrano avere in mente. Tutto ciò partendo dalla «critica del concetto di cultura come dato oggettuale reperibile in qualsiasi sede».

Al qual punto, c’è veramente da domandarsi di che cosa si stia parlando. Perché, certo, la cultura non è patrimonio dell’università, né tanto meno dei singoli docenti. E certo la cultura non è un «dato oggettuale» da andar «reperendo». Ma se si tratta di questo, si ammetta una volta per tutte che all’università si va per acquistare alcune nozioni e compiere alcuni esercizi, e che la cultura -la vera- è quella che ognuno si fa da sé e nella libera compagnia degli individui che si sceglie per amici e maestri, e la si smetta di chiedere alla scuola al tempo stesso una formazione professionale efficace e una cultura disinteressata. Le due cose non vanno insieme. E il gran problema della scuola d’oggi sta proprio lì, non nel fatto che gli ingegneri formati dal Politecnico di Torino vadano poi per lo più a lavorare alla Fiat, fatto di scarsissima importanza culturale, ma insomma, praticamente parlando, positivo, dato che, a Torino, a Mosca o all’Avana, quel che la maggior parte degli ingegneri cerca è un impiego. E se proprio dovessimo dir la nostra su questa situazione di base della scuola nella società odierna, la quale non può esistere se non fornisce a tutti un certo grado piuttosto alto d’istruzione, noi diremmo che in essa la cultura «disinteressata», la conoscenza per amore della conoscenza sono diventate praticamente impossibili tranne in privato. Il problema, quindi, sembra duplice: da una parte organizzare una «scuola per tutti» che funzioni, ma essendo chiaramente inteso che una tal scuola non può fornire che nozioni da usare in officine, laboratori o altre scuole (per fabbricare nuovi specialisti e formatori di specialisti, includendo in questa categoria anche i cultori delle cosiddette «scienze umane»); dall’altra, creare una scuola senza obblighi né sanzioni né diplomi, il cui unico scopo sia la cultura disinteressata e l’acquisizione di conoscenze pure, cioè «inutili»

Oggi come oggi, crediamo che nessuno Stato, capitalista, neocapitalista, demosocialista, comunista o altro, darebbe il suo accordo a un tal principio. Né alcun Comitato di agitazione studentesca. Perché quel che tutti vogliono è precisamente la cultura che «serve»: la cultura serva. La quale è, più o meno bene organizzata, già a loro disposizione, e se non vi provvede l’università vi provvede l’industria culturale.

Fatto che, d’altra parte, non dà allo studente Viale il diritto di uscirsene a dichiarare che «come nella società medievale chi decideva se una teoria era vera o falsa era il papa, così in quella industriale chi decide della validità delle teorie scientifiche è il Pentagono». Questo è un genere di volgarità molto stantio, se ne renda conto Guido Viale.

Nicola Chiaromonte

Carissimo Andrea…

Provenienza: Archivio privato Adriana Bianco

Pubblicata in Dedicato a Nicola Chiaromonte nel trentennale della morte, quaderni dell’altra tradizione, 1, Una Città, 2002

New York, 10 aprile 1946

Carissimo Andrea,

mi perdoni se non ho risposto prima alla sua lettera, così incantevole (penso alla messa in guardia contro le “sirene”… suvvia, davvero pensa che il bravo Husserl abbia una voce così pura e melodiosa?). Albert Camus è qui -gli faccio un po’ da guida per New York- talvolta questo mi prende una mezza giornata, e ho anche dovuto scrivere un articolo che mi ha affaticato oltre misura.

Aldo si scusa di non scriverle più spesso. E’ molto preso dalla faccenda di […] che fatica molto ad avviare.

Domenica scorsa, Camus è venuto a pranzo a casa mia. C’era Tucci (purtroppo si era invitato anche Santillana, ha prodotto l’impressione spiacevole, che lei ben conosce, di chi parla tanto per parlare). Si parlava del “che fare?” Mi ha colpito udire Camus insistere sulla necessità di creare “una società nella società”. Uomini legati da una solidarietà materiale spontanea – conducono vita semplice e modesta (ma senza regole ascetiche o sospetti di “falansterismo”) e si limitano, per lo meno all’inizio, a manifestare integralmente la loro opinione sui problemi della polis senza concedere nulla all’opportunismo politico, allo spirito di parte, o alla prudenza pratica in conformità ad un limitato numero di principi chiaramente definiti, i quali, tanto per iniziare, avrebbero probabilmente una forma “negativa”. Mi ha detto che i suoi amici, Brice Parain e Pascal Pia, sono d’accordo con lui.

Non voglio aggiungere altro per paura di cadere nell’ottimismo (stimolato dalla grandissima simpatia personale che ho per Albert Camus). Le sottopongo questo episodio come un “segno”. Aggiungerò che Camus ha anche osservato che l’Assurdo e la Disperazione sono fatti “privati”, e come tali vanno considerati.

Le racconto tutto ciò perché, venendo da un uomo che mi sembra essere uno dei pochi (fra quelli che si rivolgono al “pubblico”) a prendere veramente sul serio i problemi di oggi, mi pare rilevante.

Riguardo ai miei rapporti con la filosofia, carissimo Andrea, il mio unico rimpianto è di essere così ignorante in storia, come in medicina e matematica. In altre parole, mi creda, il mio desiderio più profondo sarebbe riuscire a spiegarmi nella forma del linguaggio corrente e nutrito di esempi terra-terra. Se non ci riesco, è perché sono confuso ed ignorante. Il mio soggiorno in America mi avrà aiutato un po’ ad evitare il linguaggio astratto, ma non è così facile porre rimedio ad una pessima educazione.

La filosofia, desidero soprattutto servirmene per sistemare non tanto le mie conoscenze (che sono quanto di più frammentario e periclitante ci possa essere) quanto la mia esperienza personale, nella quale faccio fatica a mettere ordine, e che fatico a comprendere tout-court. Ciò detto, le analisi di Husserl sono alquanto affascinanti – anche quando cadono nel banale. Riguardo a “politics”, sono completamente d’accordo con lei. Ho messo a parte Dwight delle sue preoccupazioni. Anche lui si è detto d’accordo; ma lui, io lo conosco, le interpreta nel senso che potrebbe essere un po’ più “politica”, e non nel senso di spingere la critica molto lontano. Dwight è gentile e ingovernabile, gliel’ho già detto (nel senso del “timone” e non del “governo”), il che andava bene, perché risolutamente non conformista, durante la guerra; diventa inutile oggi. Devo insistere che la posizione anti-stalinista e anti-guerra di molti americani ha sempre avuto un che di astratto – un partito preso per fedeltà alla logica di una dottrina e alquanto privo di esperienza vissuta. Il “trotzkismo”, qui, è stato una setta, come tante altre che da sempre si costituiscono e si dissolvono in questa caotica società. Dwight non ne può più della setta – andava bene, ma oggi il puro e coraggioso “non conformismo” non ha molto senso, senza una chiara decisione intellettuale, c’è il rischio di non avere altro risultato che aggravare la confusione generale, se ne renderà conto di persona, del resto – perché la prima parte di “The root is man” sta per uscire. Il fatto, caro amico, è che se c’è qualcuno che avrebbe bisogno davvero di un’iniezione di “metafisica” questi sono proprio gli americani. Perché non hanno l’abitudine di provar stupore. Un abbraccio, Nicola   (traduzione dal francese di Marco Bellini)

 

Nicola Chiaromonte

Violenza e non violenza

Tratto da «Tempo presente», agosto 1968

Anche in Nicola Chiaromonte, La rivolta conformista. Scritti sui giovani e il 68, a cura di Cesare Panizza, Una città, 2009

Non è arbitrario far risalire l’impulso decisivo che condusse Tolstoi a fare del principio di «non resistenza al male» il fulcro del messaggio cristiano al I° marzo 1881, giorno in cui un gruppo di giovani terroristi fra i quali due donne, Sofia Perovskaia e Vera Figner, eseguirono la sentenza di morte pronunciata dal Comitato esecutivo della Narodnaia Volia contro lo zar Alessandro II.

Ciò che colpì Tolstoi nell’atto di quei giovani fu l’astrattezza del motivo: «Un assassinio di teorici, perpetrato senza odio, senza necessità reale, solo perché giusto in teoria…». Come si sa, Tolstoi rimase molti giorni sconvolto da quell’evento: pensava alle sue conseguenze politiche, ma soprattutto alla sorte che attendeva i giustizieri, e in particolare Sofia Perovskaia. Scrisse un appello al nuovo zar, Alessandro III, in cui lo supplicava: «Date al mondo il più grande esempio di sottomissione alla dottrina di Cristo: rendete bene per male…». La supplica fu fatta consegnare al procuratore del Santo Sinodo, Pobiedonesev, perché la rimettesse d’urgenza allo zar. Il procuratore la trattenne finché le sentenze di morte contro cinque degli imputati, compresa la Perovskaia, non furono eseguite, e poi la fece restituire allo scrittore senza neppure averla mostrata allo zar.

Tra l’astratta giustizia dei rivoluzionari e la bieca cecità del potere, che fare?

«Voi avete udito che fu detto: occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico: Non resistete al male; anzi, se alcuno ti percuote la guancia destra, volgigli anche l’altra. E se alcuno vuol contender teco, e toglierti la tunica, lasciagli anche il mantello… Voi avete udito che fu detto: Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a coloro che vi odiano, e pregate per coloro che vi fanno torto e vi perseguitano. Giacché siete figli del Padre vostro che è nei cieli, ed egli fa levare il suo sole sopra i buoni e sopra i malvagi, e piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti»: queste le parole del Sermone della Montagna sulle quali Tolstoi non cessò d’insistere dal 1881 fino alla morte, rifiutandosi di recedere anche minimamente, anzi ragionandole con sempre maggiore fermezza.

Nel 1908, l’interpretazione tolstoiana delle parole di Cristo raggiunse, attraverso una lettera di Tolstoi al direttore della rivista indiana Free Hindustan, l’avvocato Mohandas Karamciand Gandhi, allora impegnato nella difesa dei diritti degli immigrati indiani nel Transvaal. L’anno dopo, Gandhi scrisse a Tolstoi per dirgli quale profonda impressione gli avesse fatto il suo scritto e come l’avesse trovato d’accordo sul principio della «non violenza». L’incontro fra il messaggio di Tolstoi e la vocazione di Gandhi ebbe conseguenze non piccole. A parte l’azione propriamente politica che ne derivò, Gandhi ripensò a fondo, in termini propri alla tradizione indiana, il principio tolstoiano. Come si sa, nella sua predicazione, la «non violenza» divenne il satyagraha o «forza della verità».

Si potrebbe dunque dire che, per forti, anzi travolgenti che siano state nel corso del ventesimo secolo le tendenze contrarie, e anzi la vera e propria ripugnanza mostrata anche (se non soprattutto) dalla classe intellettuale per il principio della «non violenza», questo ha tuttavia avuto un’influenza tale che merita ampiamente di esser chiamata «storica», secondo il linguaggio culturale tuttora prevalente. Ciò senza parlare dei grandi predecessori, da Lao Tse al Budda alle molte sette cristiane, fino agli americani William Lloyd Garrison e David Henri Thoreau e oltre.

Insomma, l’idea che c’è qualcosa di assurdo nel voler combattere la violenza con la violenza, cioè la sopraffazione con la sopraffazione, per ottenere la libertà e la giustizia, è perlomeno altrettanto antica quanto il fatto stesso della violenza organizzata. Però, la verità è che il principio che Tolstoi credette di derivare dal Vangelo e chiamò «non resistenza al male», facendone un principio risolutivo di azione morale e sociale, è stato generalmente deriso come inefficace se non stolto (in quanto non farebbe che lasciar libero il campo alla malvagità dei malvagi) e sostanzialmente negativo (perché non potrebbe costituire né uno scopo né un ideale) sin da quando lo scrittore lo proclamò. Il fatto che Gandhi lo riprendesse con successo e lo portasse al trionfo, ottenendo alla fine lo scopo che si era prefisso, ossia la liberazione dell’India, non sembra convincente, dato che il trionfo dell’azione di Gandhi per la libertà del suo Paese significa non già il trionfo della non violenza, ma piuttosto la costituzione di uno Stato indipendente analogo agli Stati della società occidentale, dei quali Tolstoi aveva detto, senza che nessuno potesse smentirlo in sede di ragione, che erano «fondati sull’assassinio», ossia sulla repressione violenta dei propri sudditi all’interno, e sulla distruzione violenta dei rivali all’esterno. Senza parlare degli orrendi massacri cui procedettero senza tardare, appena proclamata l’indipendenza, i musulmani contro gli indù e gli indù contro i musulmani, in uno scoppio di fanatismo collettivo di cui Gandhi stesso cadde vittima; com’era, per chi consideri la follia intrinseca della cosiddetta Storia, degno destino di quel giusto.

L’ idea della «non violenza» conserva tuttavia qualche prestigio fra i gruppi di dissidenti che hanno cercato e cercano di applicarla, in forma di metodo d’azione non violenta alla lotta per il miglioramento della condizione dell’uomo nella società contemporanea, la quale è erosa non soltanto dal razzismo e da simili forme di oppressione brutale, ma da quel male anche più nefasto che è l’indifferenza al proprio destino e quindi, a maggior ragione, a quello delle minoranze (o maggioranze) reiette che vivono nel suo seno.

Questi movimenti, anche se son stati guardati con simpatia (come quello guidato da Martin Luther King), son rimasti tuttavia marginali: alla fine, sotto la pressione se non della violenza, dell’inerzia sociale, tendono a esaurirsi e, anche se non si esauriscono, vengono oscurati e almeno apparentemente sommersi da movimenti violenti i quali mirano a ottenere risultati tangibili nel minor tempo possibile; e in apparenza anche li ottengono, se non altro con la minaccia di esplosioni sempre più furiose e devastatrici che fanno pesare sulla società. Oggi come oggi, nel campo dei «rivoluzionari» (che è quello al quale si rivolgeva in special modo Tolstoi), la violenza è più che mai in onore, più che mai idealizzata. «Senza violenza, non si ottiene nulla» ha proclamato il capo degli studenti parigini in rivolta, Daniel Cohn-Bendit. Screditate le ideologie macchinose che tenevano il campo fino a pochi anni fa, l’idea della guerriglia, di origine cinese e vietnamita, e ulteriormente teorizzata da Ernesto Che Guevara e dal suo seguace Régis Debray, è quella che sembra affascinare i giovani ribelli europei. E, così com’è concepita attualmente, l’idea della guerriglia quale punto di partenza di ogni azione rivoluzionaria si riduce veramente all’esaltazione della violenza come un bene assoluto, e perdipiù assolutamente efficace, nella lotta contro il male capitalista. O meglio, la questione del male e del bene neppure si pone: si tratta di agire nel modo più risoluto e immediato possibile contro l’ingiustizia. Non per nulla, Ernesto Che Guevara, eroe e martire di quest’idea, ha potuto lasciar scritto: «In qualunque luogo ci sorprenda la morte, sia benvenuta, a condizione che questo nostro grido di guerra sia giunto a un orecchio ricettivo e che un’altra mano si levi per impugnare le nostre armi e gli uomini si apprestino a intonare i canti di lutto con il crepitare delle mitragliatrici e nuovi gridi di guerra e di vittoria».

In parole come queste si esprime un romanticismo della violenza che, quale che sia il rispetto che si deve avere per un uomo che ha testimoniato della sua convinzione sacrificando la vita, non può non suonare antiquato e sinistro al tempo stesso. Certo, esso non sarebbe stato condiviso dagli uccisori di Alessandro II, i quali concepivano la «lotta sanguinosa» come una «triste necessità» e per i quali -come si legge nelle memorie di Vera Figner- l’uccisione di un uomo, per tiranno che fosse, rimaneva tutta la vita un peso soffocante sulla coscienza.

Ma è qui il paradosso: la questione della violenza è in apparenza priva di contenuto, giacché la maggioranza delle persone diranno senz’altro che la violenza è certo deprecabile, ma talvolta necessaria, e crederanno con questo di aver parlato secondo il senso comune più irrefutabile. Ma, appunto, quest’atteggiamento dei più dimostra il contrario di quel che sembra dimostrare: dimostra, cioè, che la violenza, quali che ne siano le circostanze, non comporta, anzi non tollera, giustificazioni. Essa può scaturire da una situazione violenta, o di violenza accumulata e repressa, ma rimane sempre un fatto, non diventa mai un mezzo, per quanto ne dicano i suoi apologeti. Giacché nel momento in cui si parla di mezzo, bisogna anche discutere il fine, e che allora il mezzo appaia in qualche modo commisurato al fine. Ora, il solo fine chiaro della violenza è l’eliminazione fisica del nemico. Ma come si misurerà il male causato da ogni parte per ottenere un fine che da ultimo si rivela puramente fisico? Dov’è, qui, il contrappasso morale senza di cui un’azione umana rimane al di fuori di ogni possibilità di giudizio, quasi un fatto di natura o un «atto di Dio»?

Tale, seriamente parlando, sembra rimanere la violenza, sia considerata in sé e per sé, sia nella forma attuale di azione efficacemente organizzata a fine di distruzione sanguinosa. Ed è per questo -perché intendeva essere azione giusta e non semplicemente scoppio furioso- che a Tolstoi l’uccisione di Alessandro II apparve come «un assassinio di teorici»: una specie di contraddizione in termini, ma più enigmatica che assurda. Non si poteva condannarla o approvarla, solo rimanerne sbigottiti e cercar di capire.

Ci sono nell’uomo fatti più enigmatici della violenza, la quale anzi è uno dei moti più elementari e relativamente più comprensibili: enigmatiche sono le vie dell’amore e quelle dell’odio, la brama di possesso e di dominio, l’ambizione, il tradimento, il gusto del male. Queste sono passioni, e ognuno ammette che la ragione non vi ha parte. Mentre la violenza giustiziera ha questo di particolare, che si vuole razionale sia nei mezzi che nei fini. Nelle forme di violenza che si sentono teorizzare e esaltare oggi, che si tratti del «potere nero», della guerriglia in America Latina o persino del «potere studentesco», c’è poi un’assurdità supplementare: qui, infatti, la violenza viene considerata come l’inizio e l’origine di un atto di giustizia, l’incarnazione attiva di una volontà di riscatto che si rifiuta addirittura di dar conto delle sue operazioni perché si considera semplicemente ideologia in atto, libera finalmente da ogni scolastica e da ogni burocrazia organizzativa.

A questo punto, la violenza assume in pieno il carattere inconcepibile di «assassinio teorico» che sbigottiva Tolstoi, e sfugge a ogni argomento. Eppure, essa non può mai affermarsi fine a se stessa. Anzi, più terribili sono le forme che essa prende, più idealistica (nel senso di omaggio ipocrita al mondo delle idee) è la giustificazione che se ne deve dare.

Qual è, d’altra parte, il punto di vista dal quale la violenza può esser condannata senza che la condanna cada nel vuoto e nel risibile, dato che si tratta di un fatto che sfugge per natura a ogni presa della ragione?

Se continuiamo a seguire le tracce di Tolstoi, vediamo subito che tutta la sua argomentazione contro la violenza e in favore della «non resistenza» si basa sul postulato evangelico che impone di amare non solo il prossimo, ma anche i propri nemici. La parola di Cristo è l’autorità su cui si fonda esplicitamente la predicazione tolstoiana. La quale non si limita -notarlo è importante- a raccomandare l’insegnamento di Cristo come esemplare, ma ne deriva la «non resistenza» come norma d’azione pratica più efficace della violenza (anche se per vie diverse e a più lunga scadenza) ai fini di stabilire una società più giusta. In altri termini, Tolstoi faceva della «non resistenza» un imperativo di carattere universale applicabile non solo da pochi credenti, ma da qualunque individuo volesse comportarsi da vero cristiano, che per lui era sinonimo di vero uomo. Dopo di lui, Gandhi farà dello stesso imperativo un principio praticabile da grandi masse di popolo, e al quale perciò alla lunga nessun potere avrebbe potuto resistere, proprio come, secondo Marx e secondo Lenin, nessun potere avrebbe potuto resistere all’urto finale delle masse organizzate.

È su questo punto cruciale che verte la questione della violenza, oggi. Giacché, evidentemente, l’obiezione secondo la quale opporre il metodo dell’assassinio a un mondo fondato sull’assassinio è una contraddizione in termini, per quanto logicamente giusta, non tocca la questione principale, la quale è quella dell’efficacia, della praticabilità, del valore universale del principio della «non violenza»

Il principio su cui Tolstoi fondava il suo messaggio di «non resistenza al male» si trova espresso con grande semplicità fra gli altri testi in quello che toccò così profondamente l’animo di Gandhi: la «Lettera a un indiano». Si legge in questa, insieme ad argomenti di tolstoiana semplicità e forza, un passo in cui la difficoltà -per non dire la debolezza- principale del ragionamento di Tolstoi si manifesta, per così dire, allo stato puro: «La verità, naturale all’umanità, secondo la quale la vita umana dovrebbe esser guidata dalla sorgente spirituale che è il fondamento dell’umana esistenza e si manifestò nell’amore, per poter permeare la coscienza dell’uomo si è trovata a dover lottare con l’incompletezza della sua espressione e le distorsioni volute o involontarie di essa, come pure con la violenza istituzionale che costringe, mediante punizioni e persecuzioni, ad accettare le spiegazioni della legge religiosa sancite dall’autorità, e la quale contrasta con la verità rivelata. Tale distorsione e tale offuscamento della nuova, ma ancora imperfettamente rivelata, verità, si è verificata dovunque: nel confucianesimo, nel taoismo, nel buddismo, nel cristianesimo, nell’islamismo, come pure nel bramanesimo di cui voi siete seguace».

Si sono sottolineate, in questa citazione, le parole «naturale all’umanità», che non sono sottolineate nel testo, lasciando invece non sottolineata la frase che segue, sottolineata dallo scrittore, al fine di far risaltare la petizione di principio evidente che il passo contiene: è insomma l’umanità stessa che, secondo Tolstoi, ha, per umana perfidia da una parte e debolezza dall’altra, lasciato distorcere e offuscare la verità più naturale di tutte, fondamento di ogni altra, che sarebbe la legge dell’amore.

Dato che Tolstoi annette grande importanza al fatto che la legge dell’amore si ritrova in tutte le tradizioni religiose, ma unita sempre al fatto, pure da lui notato, che fin dal principio della storia conosciuta gli uomini hanno vissuto divisi in tribù e nazioni, discordi e rivali tra loro, e in seno alle quali la forza di coercizione di una minoranza s’imponeva alla gran maggioranza degli individui, egli stesso autorizza a concludere che non v’è ragione di sperare o anche pensare che la «non resistenza al male», corollario di quella legge dell’amore per tanto tempo così efficacemente (e bisognerebbe aggiungere: naturalmente) pervertita, non subirebbe la stessa sorte.

E allora? Da dove verrà la fiducia in un metodo d’azione così paradossale come quello proposto da Tolstoi? Forse dalla fiducia nel progresso morale dell’umanità più che dal messaggio cristiano esso stesso; nella sostanza del quale, tuttavia, Tolstoi certamente credeva, il sentimento d’amore per il prossimo essendo considerato da lui fin dai primi scritti come segno e sinonimo di gioia traboccante. Giacché, mentre l’orgoglio dell’uomo moderno per il progresso materiale non trovava in lui altra risposta che il più sprezzante sarcasmo, gli rimaneva certo tenacemente ancorata nell’animo la fiducia nella possibilità di un progresso morale se non unanime, però almeno generale, dell’umanità. E questa gli veniva, sì, dal sentimento cristiano della vita, ma forse ancor più dalla philosophie des lumieres di cui era profondamente impregnata la sua mente. In questo senso, la «non resistenza» si potrebbe considerare la risposta razionale al fatto irrazionale della violenza organizzata, e a quello ancora più irrazionale e contraddittorio della violenza sistematica concepita come mezzo di stabilire sulla terra il regno di una giustizia concreta.

Tuttavia, se il progresso materiale, fondato sulla scienza e sulla tecnica, appare poca cosa quando lo si confronta al vero problema, che è quello di un mutamento stabile per il meglio della disposizione di intere masse d’individui, i suoi effetti, per quanto grossolani li si giudichi, hanno almeno il vantaggio di essere tangibili. Mentre il progresso morale armonico dell’umanità tutta intera appare, più che improbabile, inconcepibile. Tranne, beninteso, che non lo si voglia postulare come conseguenza automatica del progresso materiale, cosa che Tolstoi non era certo disposto ad ammettere.

Qual è dunque il vero movente della predicazione tolstoiana contro la violenza, e quale il fondamento vero del principio di «non resistenza»?

Per chi legga oggi i suoi scritti morali senza prevenzioni, la risposta non è dubbia: la contestazione veramente globale che Tolstoi opponeva alla societa contemporanea, la quale era secondo lui «fondata sull’assassinio» non solo perché fondata sulla divisione delle genti in tribù nazionali armate le une contro le altre, e ognuna contro i propri soggetti, ma soprattutto perché la violenza ne costituiva l’anima e il principio ispiratore; ed era una violenza che cominciava con l’esercitarsi sull’animo del fanciullo nella cosiddetta «educazione» e continuava con i costumi e i vizi della classe privilegiata, alimentati grazie alla violenza fatta agli «inferiori», per finire in quella delle istituzioni politiche e della scienza stessa, tutta tesa a far violenza sia alla natura che all’uomo stesso, in nome di una supposta razionalità. Al che bisognava aggiungere, secondo Tolstoi, la profonda vanità della cultura ufficiale e dell’arte stessa.

Dal punto di vista di tale contestazione davvero globale, l’idea che, usata contro una società radicata in modo così essenziale nella violenza, la violenza stessa, purché impiegata efficacemente da un determinato gruppo di persone, potesse riuscire ad altro che a perpetuare una tale pessima condizione di cose, non poteva che apparire assurda.

Insomma, quella contro cui Tolstoi si ribellava in nome di una religione che chiamò in un primo tempo cristianesimo, ma per la quale si può dire (sulla base di ciò che si legge nei diari degli ultimi anni della sua vita) che alla fine non trovava più nome, era la falsa religione della scienza.

Nella «Lettera a un indiano» si leggono su questo parole di una virulenza particolare: «Con la parola scientifico -scrive Tolstoi- s’intende la stessa cosa che era implicita un tempo nella parola religione, e cioè tutto quello che si chiamava religione si supponeva fosse sempre indubitabilmente vero per la sola ragione che si chiamava appunto religione. Esattamente nello stesso modo, tutto ciò che oggi si chiama scienza è presunto essere indubitabilmente vero per la sola ragione che si chiama scienza. Sicché, in questo caso, l’antiquata giustificazione religiosa della violenza, che consisteva nell’unicità e divinità dei personaggi che si trovavano al potere, è stata sostituita dalla giustificazione che consiste nel dire che, siccome la coercizione c’è sempre stata, questa è la prova che tale violenza deve continuare indefinitamente. L’idea che l’umanità non debba vivere secondo ragione e coscienza, ma obbedendo a ciò che è avvenuto da molto tempo a questa parte, si manifesta in quella che la scienza denomina legge della Storia… La seconda giustificazione scientifica della violenza è che, siccome fra le piante e gli animali esiste una continua lotta per l’esistenza che culmina sempre nella vittoria del più adatto, la stessa lotta dovrebbe esistere fra gli uomini… La terza giustificazione scientifica della violenza, la più autorevole e, sfortunatamente, anche la più diffusa è, in realtà, la vecchia giustificazione religiosa leggermente modificata. L’argomento è il seguente: nella vita sociale, l’uso della violenza contro alcuni per il bene della maggioranza è inevitabile; quindi, per quanto desiderabile sia l’amore del prossimo, la coercizione è inevitabile. La differenza fra la giustificazione della violenza da parte della pseudo-scienza e quella della pseudo-religione consiste nelle diverse risposte che esse danno alla domanda: perché certe persone, e non altre, hanno il diritto di decidere contro chi la violenza possa e debba esser usata? La scienza non dice che tali decisioni sono giuste perché pronunciate da persone investite di un potere che viene da Dio, ma che esse rappresentano la volontà del popolo…». E, in un’irruenta perorazione finale, lo scrittore conclude: «L’indiano, come l’inglese, il francese, il tedesco, il russo, non ha bisogno di Costituzioni, di rivoluzioni, conferenze, congressi, di nuovi ingegnosi congegni per la navigazione sottomarina o aerea, di esplosivi potenti, o degli aggeggi d’ogni sorta per il piacere delle classi ricche e governanti; e neppure di nuove scuole e università che propinino istruzione in scienze innumerevoli, né dell’aumento del numero dei giornali e del libri, dei grammofoni e dei cinematografi, e neppure delle sciocchezze infantili e in gran parte corrotte che vanno sotto il nome di arti. Una sola cosa è necessaria: la conoscenza di quella semplice e chiara verità… secondo la quale la legge della vita umana è la legge dell’amore, e che essa dà sia al singolo individuo sia all’umanità tutta intera la più grande felicità possibile».

La contestazione non potrebbe essere più globale, né l’affermazione più netta. Ma, mentre la contestazione appare oggi in una luce singolarmente vivida, e quasi profetica, l’affermazione rimane soggetta a un grande se, il se supremo, se così si può dire. Tolstoi lo esprime in un’iterazione molto significativa: «Se la gente si liberasse dalla credenza di ogni specie di Ormuzd, Brama e Sabbaoth, con le loro incarnazioni in Krisna e Cristi… nonché dall’idea di un Dio che interferisce nella vita dell’universo; se la gente si liberasse anche dalla fede cieca in ogni sorta di dottrine scientifiche su infinitesimi atomi e molecole, e ogni sorta di mondi infinitamente grandi e infinitamente remoti, i loro movimenti, la loro origine, e le forze relative; se si liberasse dalla fede implicita in leggi scientifiche teoriche cui si suppone che l’uomo sia soggetto: le leggi storiche ed economiche, quella della lotta per vita, eccetera; se soltanto la gente riuscisse a liberarsi da questo terribile accumularsi d’inutile esercizio delle capacità inferiori della nostra mente e della nostra memoria che si chiama “scienza”, da tutte le innumerevoli branche d’ogni sorta di storie, antropologie, prediche morali, batteriologie, giurisprudenze, cosmologie, strategie, il cui nome è legione; se solo la gente si liberasse da questa intossicante e rovinosa zavorra… la semplice, esplicita legge d’amore accessibile a tutti e così naturale all’umanità… diventerebbe naturalmente chiara e impellente».

In altri termini, se l’umanità non fosse quella che è, e non fosse arrivata al punto in cui è arrivata, allora il messaggio tolstoiano sarebbe accolto unanimemente da tutti… Stando le cose come stanno, si potrebbe concludere che è la violenza, e non la legge d’amore, che è «naturale» all’umanità o, per essere più precisi, inerente alla situazione stessa dell’uomo nel mondo, oltre che alla sua «natura»; e che quindi un mutamento radicale -una metanoia- come quello postulato da Tolstoi è impensabile più ancora che impossibile.

Arrivati a una tale conclusione, però, il discorso non può essere chiuso. Se la violenza, infatti, è naturale all’uomo, non meno naturale in lui -o, meglio, in un certo numero di loro- è il disgusto per la violenza bruta, la sopraffazione, la coercizione. Ammesso pure che nessuno dei due impulsi possa esser elevato a legge universale, e con essi nemmeno la cristiana e tolstoiana «legge d’amore», bisogna pur rispondere alla domanda che cosa possano pensare e fare coloro che rifiutano per istinto la violenza come mezzo per rendere più giusta la società in cui vivono.

La conclusione relativamente scettica che si può trarre dal discorso di Tolstoi sulla «non resistenza» è che l’appello all’umanità in genere perché riconosca una volta per sempre la «legge d’amore» e adotti la «non violenza» come mezzo per realizzarla non è sufficientemente giustificato. Dal che consegue che -vigoroso come rimane per la radicalità stessa della tesi- il discorso di Tolstoi diventa però debole nella misura in cui implica l’idea che la «non violenza» sia un mezzo pratico per far fronte alla violenza di cui è capace uno Stato moderno tecnicamente efficiente. La sua autorità rimane, cioè, puramente morale.

Se torniamo al testo su cui Tolstoi fondava esplicitamente la sua tesi, e cioè il Vangelo di Matteo (5, 58-45), notiamo subito che le parole qui attribuite a Cristo non potrebbero essere più chiare su un punto, e cioè che in esse si rifiutano insieme il principio sancito dalla legge ebraica (Levitico, 24, 17-21) «occhio per occhio, dente per dente» e quello greco, non sancito da alcuna legge, ma accettato come naturale anche da Socrate e da Platone, secondo il quale «è giusto fare il massimo bene agli amici e il massimo male ai nemici». «Vi fu detto: ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici… poiché siete figli del Padre vostro che è nei cieli» risponde Cristo.

Che questa sia, in un certo senso almeno, l’essenza del messaggio cristiano non sembra si possa negare. Si noterà solo che nelle parole di Cristo si avverte anche l’eco di quell’universalismo «umanista» -o «cosmopolita»- già da tempo diffusi nella cultura ellenistica. È comunque certo che nel passo di Matteo si trova anche l’essenza di quella che Nietzsche chiamò con sovrano disprezzo «religione dei deboli».

Sorge a questo punto una delle domande cruciali che si sollevano di solito nel discutere di violenza e di non violenza: «Fino a che punto il debole è debole?».

Da una parte, quando a Tolstoi si obiettava che, non resistendo al male, non si otterrebbe altro che di lasciarlo trionfare, e quindi di lasciarsene distruggere, la risposta era che ciò sarebbe stato pur sempre male minore di una resistenza violenta dei deboli oppressi, la quale, mentre avrebbe causato male e distruzione aggiunti a quelli causati dai malvagi, non avrebbe neppure salvato i deboli dalla disfatta finale, dato che il potere organizzato è sempre più forte di quello che possono improvvisare gli oppressi inermi.

D’altra parte, però, oggi sappiamo bene che, quando si riesca con tecniche opportune a formarli in «masse», i «deboli» possono acquistare una forza insospettata e, scatenata da loro, la violenza può avere effetti alquanto devastatori. I deboli non sono deboli che quando sono oppressi e disarmati. E, d’altro lato, la forza dei moderni mastodonti meccanici non è neppur essa tanto forte quanto sembra. Nel fatto stesso dell’oppressione -di esser costretti a opprimere e reprimere- è implicito il timore di una forza latente incalcolabile, e di una violenza che, una volta scatenata, non ci saranno dighe capaci di arginarla.

Questo per sottolineare che l’argomento secondo cui la predicazione della «non resistenza al male» si fonda sulla debolezza dei deboli e sul fatto che essi sono disarmati è molto superficiale. Nella realtà delle situazioni sociali, debolezza e forza sono comunque dei fatti molto relativi; ed è stolto, in tale materia, fidarsi delle apparenze. Deboli erano i milioni di ebrei massacrati da Hitler; ma deboli anzitutto in quanto furono, per dir così, sorpresi nel torpore di un’esistenza pacifica: la rivolta del ghetto di Varsavia mostra che avrebbero anche potuto essere forti, perlomeno fino al punto da causare seri fastidi ai loro organizzatissimi carnefici. Forti, d’altra parte, contro il più forte Stato del mondo, si son dimostrati i guerriglieri vietnamiti. E oggi, la questione se la forza meccanizzata sia forte quanto sembra è diventata una questione molto seria. Uno dei fatti che sono apparsi chiari dalla gara per la strapotenza atomica è, ad esempio, che le forze contrapposte dei mezzi di distruzione moderni possono paralizzarsi (o atterrirsi come giustamente si dice) a vicenda.

Non si tratta dunque di forti e di deboli, ma di ben altro: di un principio da accettare o da rifiutare. Nel testo di Matteo, la «non resistenza al male» è espressa in forma di precetto universale fondato su una legge ugualmente universale: la legge secondo la quale gli uomini sono tutti figli di uno stesso Dio che fa «levare il suo sole sui buoni e sui malvagi, e piovere sopra i giusti e sopra gl’ingiusti».

Ma appunto per questo è d’altra parte chiaro in primo luogo che, parlando come parlava, Cristo non concepiva la non violenza come un metodo d’azione pratica da opporre alla pratica della violenza. Egli parlava evidentemente agli individui uno per uno, e concepiva le sue massime come norme di condotta individuale, da adottare senza considerazione alcuna d’efficacia. Si può dire, come è stato detto in sede di considerazioni storiche, che le sue parole avevano un senso molto preciso, rivolte com’erano a un popolo che aveva vivo il ricordo di rivolte sanguinose ed eroiche e della loro inutilità ai fini dell’abbattimento del potere di Roma.

Ma, in sostanza, ridotto in prosa esplicativa, il significato da attribuire alle parole di Cristo sembra essere questo: c’è l’oppressore armato e c’è l’oppresso disarmato; ci sono il potente, il ricco, il forte, e c’è l’indifeso, il povero, il debole. L’oppressore opprimerà finché ne avrà la forza. Che cosa potrà fare l’oppresso per rimaner fedele a se stesso e al Dio padre di tutti gli uomini nel quale crede? Non resistere al male perché è male in primo luogo, ma anche, al tempo stesso, perché non ne ha la forza. E non resistere non vorrà dire riconoscere il male e l’ingiustizia, ma anzi separarsi visibilmente dall’uno e dall’altra, mostrare negli atti che si è diversi dal malvagio. Il gesto di porger l’altra guancia a chi vi colpisce sarà appunto testimonianza visibile ed esempio di tale separazione e distanza. Ed esso non vorrà dire lasciare il campo libero al male, anzi fermarlo lì, non perpetuarlo opponendogli altro male, altro odio, altra violenza. D’altra parte, con questo il cristiano non pretenderà neppure di compiere un atto efficace, o di mettere in opera un metodo capace di vincere il male. Egli obbedirà alla legge del Dio in cui crede, e basta.

Qui sta forse la differenza fra il senso originario della parola di Cristo e la sua interpretazione da parte di Tolstoi, la quale assumeva la forma di un imperativo categorico non solo, ma anche di un principio efficace che si poteva validamente opporre al principio di violenza giustiziera predicato dai rivoluzionari. Donde i molti equivoci cui ogni movimento d’azione non violenta, da quello di Gandhi a quello di Martin Luther King, ha dato adito, primo fra tutti il tralignamento nella violenza cui è fatalmente soggetto. Ma più grave ancora dei dubbi e delle obiezioni teoriche è il residuo di impersuasione che permane anche dopo che siano state debellate le obiezioni teoriche.

La ragione prima di tale impersuasione è molto semplice: sta nell’impossibilita di fare appello a un gran numero di individui (anzi, in teoria, al genere umano in quanto tale) perché agisca in un dato modo senza in primo luogo fomentare la speranza di effetti immediati o comunque rapidi e, in secondo luogo -derivazione diretta di ciò- andare incontro a conseguenze imprevedibili: prima fra tutte, in questo caso, lo scoppio «naturale» della violenza nei momenti in cui «forti» e «deboli» si trovino faccia a faccia non individualmente, ma in massa. A questo punto, il diritto del debole a difendersi dalla violenza con la violenza rientra fatalmente in campo, come potè facilmente argomentare Martin Buber in risposta all’articolo nel quale, nel novembre 1938, Gandhi aveva consigliato agli ebrei tedeschi di adottare verso i nazisti il metodo della non violenza, anziché impegnarsi nella lotta per conquistarsi una patria in Palestina. Il che, d’altra parte, non significa che gli argomenti di Buber fossero logicamente più forti di quelli di Gandhi: quella che era forte era l’obiezione di fatto, accompagnata dal sentimento della giustizia offesa.

Ma, per tornare al Vangelo, quel che Cristo raccomanda nel Sermone della Montagna non è un metodo efficace, e neppure un comportamento di uomo «semplice» (il quale obbedisca, cioè, a un impulso irriflesso), bensì una condotta di uomo molto consapevole, dotato di una coscienza viva non solo del male che nasce dall’odio e dalla brutalità, ma anche della natura del vincolo sociale e delle condizioni in cui esso può essere mantenuto e ingentilito: un uomo, in altri termini, altamente «civile», o semplicemente «socievole», che è anche più chiaro. L’idea che Cristo si rivolgesse a folle ignare e rozze è certo fittizia: in primo luogo, egli parlava a pochi («Chi ha orecchi per intendere, intenda») e, in secondo luogo, questi pochi appartenevano a una società talmente provata dall’ingiustizia da una parte, e talmente ricca di fermenti spirituali dall’altra, che l’anelito verso una visione redentrice poteva assumervi forme addirittura febbrili.

Ma non è questo il punto cruciale del discorso. La questione che qui si vorrebbe chiarire per quanto possibile è un’altra, e cioè che senso si possa dare al principio cristiano di non resistenza al male in termini di vita morale e di effetto sulle coscienze.

C’è evidentemente, per primo, il rifiuto di agire come il malvagio e l’oppressore, la volontà di separarsi nettamente da lui: tanto nettamente da non tollerare neppure l’ombra del rancore o il pensiero nascosto della vendetta.

Ma in secondo luogo -sempre che non la si tratti come un’idea generale, bensì come un invito rivolto alla coscienza dell’individuo- c’è nella «non resistenza» il desiderio di preservare quel che è possibile preservare sia della vita fisica che della vita morale: una certa «integrità» non solo della persona singola, ma anche della società aggredita dal male; e il male non è soltanto la violenza vera e propria -quella armata- ma anche la prevaricazione smodata della ricchezza, l’arroganza dell’abilità tecnica (con il suo corollario: l’imposizione forzosa del cosiddetto «progresso»), nonché la presunzione della scienza, con il corollario della «culturalizzazione» coatta.

Si noti che queste conseguenze del principio evangelico riguardano tutte la difesa e la preservazione di una certa libertà «naturale», anzi puramente e semplicemente la libertà dell’animo umano: la dipendenza degli uomini dal Padre comune li affranca da ogni altra dipendenza e li incita a rifiutare ogni servitù temporale. Si noti però anche la parte che, nelle parole di Cristo, rimane paradossalmente «inattiva»: è quella contenuta nell’esortazione ad amare i propri nemici, la quale poi è parte integrante dell’universalismo del messaggio cristiano, del fatto, cioè, che esso si rivolge indistintamente a tutti gli uomini.

Non odiare -essere incapaci di odio- è un fatto morale semplice. Antigone sapeva che cosa fosse, quando si diceva «nata per amare, non per odiare». Ma «amare i propri nemici» che senso può avere, nella realtà dell’esperienza? Non si può amare che ciò che è amabile, e il carnefice, l’aguzzino, il prepotente non sono amabili. L’amante non corrisposto può dimostrare la forza del suo amore sacrificandosi per l’amata, distruggersi nel tentativo disperato di strapparle l’amore che essa non prova. Ma l’oppresso, che cosa può fare per vincere la brutalità dell’oppressore e renderlo più umano? Solo non resistergli, appunto, tentare di disarmarlo facendo cadere nel vuoto l’impeto della sua furia, della sua rapacità o della sua barbara sicurezza di essere nel giusto e di star esercitando un giusto potere. Ma questo non è un atto d’amore, né c’è necessità alcuna che lo sia. È un esempio di umanità che toccò raramente gli antichi persecutori e non sembra abbia mai toccato i persecutori moderni, ben altrimenti addestrati alla cecità morale.

L’atto di non resistere al male è, a considerarlo nella sua singolarità, un atto negativo che afferma, senza speranza alcuna di riuscire efficace, la presenza, nell’uomo, di una realtà che trascende ogni evento materiale, compresa la distruzione fisica. Tale atto potrà avere l’effetto inatteso di riuscire a stabilire col «nemico» un rapporto umanamente tollerabile, ma non è a tal fine, comunque, che sarà stato compiuto, bensì, come ogni atto umano autentico, per inevitabile necessità interiore. Il suo valore morale non dipenderà certo dal fatto di far parte di un «metodo d’azione» supposto efficace.

Ma, alla fine, che cos’è dunque realmente quest’atto negativo di non resistenza? È un atto col quale si riconosce il fatto della forza maggiore senza per questo umiliarsi a giustificarla o a guadagnarsi il favore del più forte, ma tuttalpiù per ottenere, in cambio del riconoscimento della strapotenza di quello, la nuda sopravvivenza.

Ora, questa era l’intenzione che ritroviamo all’origine del gesto greco del «supplice»: ikétes. Il supplice non si umiliava: era già umiliato dalla sventura, colpito dagli Dei, sacro. Il suo atto era un primo molto umano tentativo di risollevarsi, un chinarsi per poter alzare di nuovo il capo, e si esprimeva nel gesto di abbracciare le ginocchia del vincitore o del potente. Il gesto era considerato già di per se stesso audace, tanto che Ecuba, in Euripide, si domanda se non sia già troppo osare avanzarsi fino a stringere le ginocchia di Agamennone: il gesto comportava infatti un contatto fisico e, con questo, l’evidenza della comune umanità, rendendo empio di fronte a Zeus chi si fosse rifiutato di far grazia.

Se non la si idealizza facendone un principio universale astratto e un metodo d’azione, la «non resistenza al male» finisce dunque col somigliare alla «non resistenza al Destino» che, per il greco, era non già un principio etico, ma un semplice riconoscimento della realtà di fatto. Giacché, a ben riflettere, Destino e Male, che si tratti di azioni umane o di catastrofi naturali, sono la stessa cosa.

he nell’uomo e nella sua «storia» sia all’opera la stessa necessità che agisce nella natura, e che dunque il male che viene all’uomo dalle azioni dell’uomo stesso sia altrettanto misterioso e inevitabile quanto quello causato dallo scatenarsi delle forze della natura (le quali noi chiamiamo «cieche» unicamente perché non hanno aspetto umano), questa è la verità contro cui recalcitra l’uomo moderno, ostinato com’è nella convinzione insolente che l’uomo è, in ultima analisi, l’autore e l’origine prima delle sue azioni, e quindi anche del suo destino. Ma se si torna a riflettere sul modo di vedere degli antichi greci, secondo cui il fondo delle cose è uno ed eternamente oscuro, e non è neppure possibile dire di che natura sia la necessità che governa ogni moto, allora quello che noi chiamiamo «male» e che consideriamo errore o colpa fatale, sì, ma in teoria pur sempre eliminabile per via d’astuzia, d’abilità tecnica o di opportuna violenza, ci apparirà della stessa natura del Destino; e l’ordine umano, allora, non ci parrà ultimamente meno arcano di quello dell’Universo; e quindi, da ultimo, neppure più docile di esso alla nostra volontà demiurgica. La lezione appresa per questa via sarà una lezione di misura, non di inerzia.

Ma l’uomo contemporaneo rimane, almeno nelle sue dichiarazioni e azioni pubbliche, convinto che la forza dei meccanismi, delle armi e del potere organizzato lo rende ormai capace di opporsi efficacemente sia al Male che al Destino, riducendone progressivamente gli effetti fino ad annullarli del tutto, o almeno a ridurli e contenerli a tal punto da poter dire di averli praticamente eliminati.

L’idea di mobilitare la Forza per abolire il Male sulla terra (e specialmente nella società) è la grande idea moderna. Essa continua a far strage da quasi due secoli, e da cinquant’anni a questa parte a un ritmo pazzamente accelerato. Giacché, facendosi signore della Forza, l’uomo si fa anche signore e arbitro del Male, avanzando di fatto la pretesa di onnipotenza, o almeno di rappresentare lui l’unica potenza efficace, in quanto dotata d’intelligenza. Così egli rischia di far tornare ogni cosa al caos primigenio attraverso lo scatenamento della violenza, dell’ingiustizia e del Male allo scopo finale di far regnare il Bene assoluto.

È di fronte a questa arroganza assoluta che il principio di non violenza, proprio mentre si mostra inefficace come metodo d’azione, viene ad assumere il significato semplicissimo di affermazione di un modo di concepire la vita e di viverla tutt’altro da quello contemporaneo: un modo che non si esprime né in messaggi evangelici né in catechismi né in manifesti politici, ma consiste per cominciare nella fiducia che solo ciò che nasce, cresce e si forma secondo il suo proprio ritmo e la legge inscrutabile che opera in ogni cosa è vera e vale, mentre i mutamenti sono tanto più illusori quanto più repentini, violenti e totalitari. Ciò non significa rifiutarsi di partecipare alle vicende della vita associata, ma solo dare alla politica la sua parte e negarle ciò che non le spetta.

Questo si può esprimere anche nelle parole di Lao Tse: «Chi agisce con violenza può ottenere il suo scopo, ma solo ciò che rimane fermo al suo posto dura».

Nicola Chiaromonte

Stato e minoranze rivoluzionarie

Tratto da «Tempo presente», marzo-aprile 1968

Ci è giunto, con questo titolo, un comunicato che porta l’indicazione «Faro – Agenzia stampa», con sede a Vigevano, e della quale è direttore responsabile Gian Franco Invernizzi. Non conoscevamo l’agenzia Faro, né conosciamo il suo direttore, ignoranza di cui ci scusiamo. L’articolo che porta il suddetto titolo, ed è da lui siglato, ci è parso comunque interessante, in quanto, nella non poca confusione di motivi che accompagna la sommossa degli studenti, c’è qualcuno che ha voluto mettere i punti su qualche i e cercare di distinguere ciò che va distinto, anche se poi le distinzioni si prestano secondo noi a critiche sostanziali. Lo pubblichiamo perciò qui di seguito per intero, facendolo seguire da alcune osservazioni.

Le recenti manifestazioni studentesche che si sono sviluppate in Europa e in America sui temi della “contestazione globale” ad opera di minoranze insofferenti alla organizzazione della società quale si è venuta configurando in Occidente, rappresentano un fenomeno politico di tipo nuovo nel sistema occidentale. Nonostante le apparenze, è sbagliato vedere analogie fra il movimento politico studentesco in Occidente e la “rivoluzione culturale” in Cina. Anche nei Paesi occidentali il moto autonomo e spontaneo dei gruppi studenteschi si è manifestato contro la burocrazia politica. Ma, mentre la “rivoluzione culturale” cinese non contesta il sistema vigente, limitandosi a prenderne di mira alcuni aspetti, alcune frange riformiste e autoritarie, in Occidente il movimento studentesco mette in discussione l’organizzazione della società, il “sistema”. Il movimento studentesco in Cina vuole perfezionare il sistema, purificandolo di alcune “tare” autoritarie, in Occidente il movimento studentesco rifiuta il sistema in quanto basato, a suo dire, sulla logica autoritaria e sulla logica dell’alienazione. L’uno infine è un fatto di massa, l’altro un fatto di élite, di avanguardia. È altrettanto sbagliato vedere analogie fra le manifestazioni studentesche in Occidente e quelle dei Paesi dell’Est europeo, Polonia e Cecoslovacchia in particolare. L’ispirazione politica dei movimenti studenteschi occidentali contesta un tipo di sistema che ha raggiunto una avanzata fase “consumista” nel quadro della società industrializzata. L’ispirazione politica dei movimenti studenteschi dell’Est europeo, contesta un sistema sclerotico, burocratizzato, lento e inefficace sul piano delle riforme economiche e nel promuovere il benessere del Paese, e chiede, insieme alla formale creazione di istituti che in Occidente cominciano a non nascondere l’usura e l’inadeguatezza, la libertà, tout court. Il movimento politico studentesco in Occidente si presenta in realtà più “avanzato” nei suoi contenuti di tutta una fase storica rispetto ai movimenti politici studenteschi dell’Est europeo. In questa differenza di “qualità” e di “quantità” nei fenomeni politici giovanili delle aree comuniste, moscovita e cinese e dell’area occidentale, c’è spazio per un discorso franco e obbiettivo. La violenza delle manifestazioni di alcuni gruppi politici in Occidente sembra direttamente proporzionale al grado di “integrazione” delle varie classi sociali nel sistema. Più il sistema “integra”, più sembra radicalizzarsi nei Paesi industrializzati dell’Occidente l’azione di alcune minoranze, fino all’uso della violenza, da parte di alcuni gruppi più ristretti, come strumento di protesta e di lotta politica. Non serve il richiamo riformista, poiché da parte di queste minoranze il rifiuto del sistema è totale. Si perviene quindi, ed è bene parlarne, ad uno dei temi più delicati e cruciali, quello cioè del rapporto fra lo Stato e l’azione di alcuni gruppi quando questa sfocia nella violenza. Nelle moderne società industrializzate, l’apparato produttivo raggiunge un alto grado di efficienza e sempre più complessa diviene l’organizzazione civile. L’azione irresponsabile di gruppi violenti, che potrebbe arrecare all’una e all’altro danni gravi, non può essere tollerata. Vi è pertanto un problema di prevenzione, di “democratizzazione” e un problema di repressione. Vi è la necessità di dotare gli apparati e i servizi di sicurezza dello Stato di dispositivi idonei ed efficienti di controllo e di intervento, pur nella garanzia della più assoluta libertà di espressione. Occorre prevenire e reprimere le azioni di violenza, lasciando la più ampia libertà di espressione a tutti. Purtroppo, a considerare da come ci si è mossi nei Paesi europei occidentali nei confronti delle manifestazioni studentesche, v’è da temere che da parte delle vecchie classi politiche che si trovano a gestire (male) il “sistema”, si assumano atteggiamenti radicalmente sbagliati. Reprimendo cioè libere e lecite manifestazioni di cittadini e mostrandosi deboli, incerti, persino paurosi e codardi nei confronti delle azioni di violenza di alcuni gruppi politici minoritari. In America ogni gruppo politico gode della più piena libertà di espressione, certamente molto maggiore di quanto non se ne goda in qualsiasi altra parte del mondo (è meglio ogni tanto ricordarlo), ma i pubblici poteri intervengono con prontezza e decisione a stroncare ogni atto di violenza.

È bene che, per cominciare, il direttore dell’agenzia Faro abbia tenuto a dire chiaramente che «è sbagliato vedere analogie fra il movimento politico studentesco in Occidente e la “rivoluzione culturale” in Cina». Quando però egli aggiunge che «il movimento studentesco in Cina vuole perfezionare il sistema, purificandolo di alcune “tare” autoritarie», mentre «in Occidente il movimento studentesco rifiuta il sistema in quanto basato, a suo dire, sulla logica autoritaria e sulla logica dell’alienazione», è difficile non rilevare che, per quanto se ne sa, e quali che siano peraltro stati i suoi effetti e meriti eventuali, la «rivoluzione culturale» cinese ha avuto in ogni caso il carattere di un movimento scatenato dall’alto, sostenuto dal meccanismo statale non poco autoritario che regge attualmente la Cina e in particolare dal formidabile centro di potere costituito dal dittatore Mao Tse Tung e dai suoi fedeli.

Tale movimento è d’altra parte tornato nell’alveo prestabilito non appena detto centro di potere -e più particolarmente il potere militare- ha ritenuto che le cose fossero andate abbastanza avanti, gli scopi prefissi più o meno raggiunti, e i pericoli del preordinato straripamento più grandi ormai dei possibili vantaggi che esso poteva offrire, al fine di sgominare la resistenza di certi quadri del partito e del regime al potere del dittatore Mao Tse Tung. Chiudere le scuole, scatenare quaranta milioni di ragazzi sulle strade e nelle città della Cina, mettendo a loro disposizione le ferrovie e gli altri mezzi pubblici di trasporto e procurando che venissero nutriti e alloggiati a spese dello Stato, sono misure forse politicamente geniali, ma che non sembrano caratteristiche di un movimento spontaneo destinato a «purificare» un regime delle sue «tare autoritarie». Si direbbe piuttosto che un tal movimento è tipico di un moderno e assai astutamente concepito regime di massa. E regime di massa è sinonimo, ci sembra, di regime non solo autoritario, ma totalitario. Ciò non soltanto, nella fattispecie, per la mostruosa fanatizzazione condotta in base al famoso libretto dei pensieri di Mao, ma semplicemente perché manovrare le masse (e in particolare le masse giovanili) per mezzo di meccanismi ideologico-burocratici, anche e soprattutto quando le si scatenano contro obbiettivi prestabiliti, è il segno non equivoco dei regimi totalitari moderni, passati, presenti e (probabilmente) futuri.

Ribellarsi contro un «sistema» -quello occidentale- definito «autoritario» e «alienante» basandosi su tali esempi e su tali definizioni sembra parecchio contraddittorio. A meno, naturalmente, che la «rivoluzione» auspicata non sia di specie massiccia e totalitaria: un’ideocrazia sostenuta da una burocrazia, diretta (come sembra suggerire la nota di Gian Franco Invernizzi) a sgominare ogni bieco «riformismo ».

Ma in qual modo d’altra parte conciliare un simile ideale (se di esso si tratta), o quanto meno un simile giudizio e la logica in esso implicita, con l’affermazione che, contrariamente a quello cinese, il movimento studentesco occidentale è un «fatto di élite, di avanguardia»? Sarà esso per caso qualcosa di analogo all’«avanguardia del proletariato» secondo Lenin (diciamo «secondo Lenin» e non «secondo Marx» perché la concezione che aveva Marx dell’avanguardia rivoluzionaria era alquanto più complessa di quella nettamente minoritaria e autoritaria, propria di Lenin)? Ma, in tal caso, sarebbe pur sempre a un regime di massa che si aspirerebbe, a quella dittatura del proletariato della quale già prima del 1914 Charles Peguy diceva che gli sarebbe piaciuto sapere chi -quale individuo particolare- l’avrebbe impersonata e esercitata.

Una dittatura, quale che sia il motto sulla sua bandiera, ha, fra le altre conseguenze, quella di «alienare» duramente non solo tutti coloro che non l’applaudono e non se ne lasciano irreggimentare, ma anche (e forse soprattutto) quelli che la applaudono e la seguono entusiasti: basta il fatto di vestire un’uniforme, di agitare un libretto, di sfilare in parata, di alzare il braccio nell’una o l’altra forma di saluto al «capo geniale» per essere alienati e asserviti in quanto individui autonomi e possibilmente pensanti. Sarebbe interessante conoscere l’opinione del direttore responsabile dell’agenzia Faro su questo punto, con aggiunta la dimostrazione della superiorità dell’alienazione proletaria, socialista, comunista, o comunque denominata, su quella attribuita al neocapitalismo «consumista».

D’altra parte, con generoso impulso, il direttore responsabile dell’agenzia Faro prende partito in favore dell’attuale rivolta della gioventù e degli intellettuali in Cecoslovacchia e in Polonia (e insomma anche in Russia) contro i rispettivi regimi totalitari, affermando che «l’ispirazione politica dei movimenti studenteschi dell’Est europeo contesta un sistema sclerotico, burocratizzato, lento e inefficace sul piano delle riforme economiche e nel promuovere il benessere del Paese, e chiede, insieme alla formale creazione di istituti che in Occidente cominciano a non nascondere l’usura e l’inadeguatezza, la libertà tout court». Il quale fatto sembra peraltro, all’autore di questa nota, indicare che il movimento occidentale è «più avanzato, nei suoi contenuti, di tutta una fase rispetto ai movimenti politici studenteschi dell’Est europeo».

Strana argomentazione. La «formale creazione di istituti» di cui si tratta in Cecoslovacchia e in Polonia è, in sostanza, esigenza di democrazia effettiva nella gestione degli affari pubblici e di «libertà tout court» quanto al diritto di comunicare con i propri simili sia per mezzo della parola parlata che della stampa e degli altri mezzi d’espressione. In che senso in Occidente tali diritti e istituti «cominciano a non nascondere l’usura e l’inadeguatezza»? In che senso, poi, tale usura e inadeguatezza sarebbero prove del carattere più avanzato dei movimenti studenteschi occidentali? Sarebbe per caso ormai, in Occidente, la «libertà tout court» «un cadavere putrefatto», secondo la celebre asserzione fatta nel 1922 da un notevole manovratore di masse di nazionalità italiana, del quale certo il direttore responsabile dell’agenzia Faro non ha bisogno che gli si ricordi il nome? E sarebbe d’altra parte per caso l’«alienazione» di cui tanto si parla altro che asservimento e mancanza di libertà? Non potrebbe per avventura darsi che ogni rivendicazione politica, quale che ne sia l’impulso ispiratore, fosse sempre una rivendicazione di «libertà tout court», di libertà senza aggettivi, e che un tal fatto andasse riconosciuto una volta per tutte da tutti coloro che si dicono «rivoluzionari», e i quali invece oggi indulgono in una distinzione fra «vera libertà» e «falsa libertà», «libertà concreta» e «libertà astratta» che non può non confondere le idee e far dimenticare il senso della cosa di cui si tratta? La quale è proprio la libertà tout court, anzi la libertà formale, la libertà come forma del vivere civile, eguale per tutti e a disposizione effettiva di tutti: la libertà che Rosa Luxembourg rivendicava fieramente di fronte a Lenin nell’ora del trionfo della dittatura del proletariato, e cioè di quella «libertà concreta» rappresentata, secondo il medesimo Lenin, dal «fucile sulla spalla dell’operaio».

Ma, se non sembra avere idee molto chiare quanto alla libertà e alla democrazia, il direttore responsabile dell’agenzia Faro, bisogna riconoscerlo, si rende conto della china pericolosa su cui si può scivolare seguendo il richiamo del mito rivoluzionario. Questa china è secondo lui, quella della violenza, la quale apparirebbe tanto più attraente, come strumento di lotta politica, quanto più forte diventa «il grado d’integrazione del sistema». E di fronte a questa attrattiva sempre più grande della violenza, «non serve il richiamo riformista, poiché da parte di queste minoranze il rifiuto del sistema è totale».

La conclusione di Gian Franco Invernizzi è che esiste, nelle nostre società, «un problema di prevenzione, di democratizzazione e un problema di repressione», quindi «la necessità di dotare gli apparati e i servizi di sicurezza dello Stato di dispositivi idonei e efficienti di controllo e di intervento, pur nella garanzia della più assoluta libertà di espressione». Ad esempio di buona soluzione di un tal problema, il direttore dell’agenzia Faro non esita a proporre quello dell’America, «dove ogni gruppo politico gode della più piena libertà di espressione, certamente molto maggiore di quanto non se ne goda in qualsiasi altra parte del mondo (è meglio ogni tanto ricordarlo), ma i pubblici poteri intervengono con prontezza e decisione a stroncare ogni atto di violenza».

Conclusione altrettanto sensata quanto inattesa. E tuttavia poco convincente. Non solo perché ci sarebbe pur qualcosa da dire sui metodi usati dalla polizia americana quando si trova dinanzi a scoppi di violenza di massa, ma soprattutto per l’ovvio non sequitur del ragionamento. Il quale non sequitur si riduce a questo: se il «richiamo riformista» è inutile, e quel che le minoranze rivoluzionarie studentesche vogliono è il mutamento totale del «sistema», la violenza è il mezzo non solo logico ma inevitabile a cui esse devono ricorrere, correndo al tempo stesso il rischio -è evidente- della violenza contraria dell’apparato repressivo statale. Non si può volere tutto, e volerlo nel futuro immediato, senza perciò stesso volere la violenza: la violenza è già nell’idea, e dall’idea al fatto il passo è più che breve.

Ma se poi «rifiuto del sistema» e «contestazione globale» sono dei modi di dire massimalisti (come in fin dei conti sembra il caso nella sommossa degli studenti), e si tratta invece in sostanza di «richiamo riformista», e di «lasciare a tutti la più ampia libertà d’espressione», allora non siamo forse nell’«ambito del sistema» (il quale, in Italia come in altri luoghi d’Occidente, è a dir poco alquanto ambiguo sia quanto a energia riformista che quanto a libertà di espressione), ma siamo certo fuori dal rivoluzionarismo senza oggetto di cui tanto abuso s’è fatto, e per tanti anni, assai prima che dai giovani, dai loro pessimi maestri e falsi pastori intellettuali.

Chiaromonte, l’America e “l’etica del limite” nell’età dell’estremismo

Sono onorato di essere qui oggi a condividere alcune riflessioni su Nicola Chiaromonte, eroica figura antifascista della “Generazione della Resistenza”, la vita e l’opera del quale, saranno presto, così spero, celebrate e studiate con maggiore ampiezza sia in Italia, suo paese natale, che in altri paesi. Nello specifico, vorrei parlarvi dell’impatto che Chiaromonte ebbe su un gruppo influente di americani mentre si trovava in esilio a New York negli anni ’40. Il suo umanesimo, che lasciò una traccia così profonda, fu il frutto di una dura esperienza di vita durante l’era di Hitler e Mussolini e delle ideologie che giustificarono il genocidio durante la seconda guerra mondiale; rappresentò la speranza che potesse esistere un’alternativa, che la giustizia, il dialogo e l’idea di comunità fossero ancora praticabili pur nell’ombra dell’Olocausto e di Hiroshima. Io sono convinto che le idee di Chiaromonte, fondate sul principio etico classico del “limite”, siano più attuali che mai oggi, a trent’anni dalla sua morte, non solo per gli americani, ma per molti altri che fanno parte della comunità globale, specie in quest’epoca caratterizzata dall’estremismo e dagli abusi di potere.

  1. Ho scoperto Nicola Chiaromonte una decina di anni fa, mentre facevo ricerche per la mia dissertazione di dottorato: uno studio sulla figura del dissidente newyorkese Dwight Macdonald, giornalista e critico. Macdonald era un membro del gruppo della “Partisan Review” che nel 1930 si occupava di marxismo -prima che le purghe di Stalin lo inducessero a rifiutarne le pretese utopistiche. Macdonald mi interessava in quanto il più vivace, iconoclasta -e quindi meno datato- degli intellettuali newyorkesi di quel periodo. Chiaromonte una volta lo descrisse affettuosamente come un’”intelligenza libera”, “un americano vecchio stile, un individualista esuberante e ricco di immaginazione”, come da miglior tradizione del paese che, per carattere e convinzioni, risultava incapace di ortodossia ideologica (questo andava con l’idea di Chiaromonte che “nessuna ideologia preconfezionata poteva avere presa sulla realtà americana”). Altri furono meno indulgenti sulle eccessive esuberanze di Macdonald. Un esasperato Leon Trotsky, alla fine degli anni ’30, mentre rifiutava con rabbia le domande sugli esordi sanguinosi della Rivoluzione bolscevica, commentava il suo atteggiamento con queste parole rimaste famose: “ognuno ha diritto alla propria stupidità ma il compagno Macdonald abusa di questo privilegio”. All’interno dell’atmosfera di conformismo patriottico e di autocensura che caratterizzò l’entrata degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale, Macdonald fu uno dei pochi che rifiutò di mettere a tacere le sue facoltà critiche. Nel 1944 aveva lasciato la “Partisan Rewiew” per mettere in piedi un proprio giornale di opinione, chiamato semplicemente “Politics”, che doveva servire come forum di discussione sulle politiche degli stati alleati, per dar voce ai rifugiati europei e ai veterani della Resistenza e per incoraggiare il dialogo fra le alternative democratiche alle potenze militarizzate che, come giustamente aveva predetto, si sarebbero trovate l’una di fronte all’altra dopo la fine della guerra.

Fu durante questo periodo di sperimentazione che Macdonald incontrò e divenne amico di Nicola Chiaromonte, nuovo ingresso nella crescente comunità di esuli a New York. L’influenza fu immediata e così totale da far dire in seguito a Macdonald che la rivista “Politics” era “una coproduzione italo-americana”. Anche la scrittrice Mary McCarthy entrò a far parte di questo gruppo di amici. Per lei “parlare con Chiaromonte fu un’esperienza nuova e così stimolante che non si esaurì mai”. McCarthy ricordava con particolare tenerezza le discussioni dell’estate ’45 su Shakespeare, Tolstoj e la misteriosa scrittrice contemporanea Simone Weil, durante una vacanza a Cape Cod la cui tranquillità fu distrutta dalla notizia della bomba atomica. Chiaromonte ammirava l’apertura e l’entusiasmo dei suoi amici americani che, a loro volta, erano affascinati dalla calma saggezza, dalla profondità e dalla “serietà” di “questo bell’uomo, scuro di pelle, che sembrava un monaco”.

Come altri esuli del gruppo Macdonald-McCarthy, legati alla rivista “Politics” (importante era la presenza di Hannah Arendt), Chiaromonte aveva portato con sé il peso di anni di lotta al fascismo e alle sue orribili conseguenze. La maggior parte di voi conosce la sua storia. Nato nel 1905 nel sud, nella cittadina di Rampolla, Chiaromonte non perse mai l’amore per la forza, la dignità e l’innato anarchismo dell’ambiente contadino che l’aveva circondato nei suoi primi anni. Durante gli studi a Roma, presso i gesuiti, preferì l’umanesimo classico alle astrazioni teologiche in voga allora, sia cattoliche sia marxiste. Seguì l’esilio da Mussolini a Parigi, sotto la tutela di Andrea Caffi e del gruppo “Giustizia e Libertà”, e la pericolosa partecipazione alla guerra di Spagna con André Malraux. Il saggio di Chiaromonte che rendeva omaggio all’idealismo dei repubblicani a fianco dei quali aveva combattuto apparve nel 1939 negli Stati Uniti sulla rivista “Atlantic Monthly”.

“Stando insieme a queste persone talvolta uno ha l’impressione di essere in mezzo a tanti Patrick Henrys (eroe della rivoluzione americana del 1776, Ndr) -scriveva Chiaromonte- ‘Libertà o morte’ sembra essere il motto generale. Essi hanno in comune l’urgenza di liberare il mondo intero dalla minaccia fascista e questo spesso si esprime col darsi delle arie e assumere degli atteggiamenti. Ma c’è anche la fede, una fede fanatica fondata su un concetto semplicissimo: un paese libero e una società fatta di persone oneste, che non debbano patire la fame né vestire di stracci. Esiste qualcosa di più semplice di tutto questo?”.

Poi venne quella che Chiaromonte definì “l’ora zero dell’umanità”, ovvero le prime sconvolgenti vittorie della guerra-lampo nazista. Con la caduta di Parigi nella tragica primavera del 1940 Chiaromonte fu costretto a scappare di nuovo, perdendo la sua prima moglie durante il difficile viaggio verso sud, ma traendo un po’ di conforto dalla generosità e dalla resistenza degli amici rifugiati in quelle comunità improvvisate.

“A Toulouse c’erano degli amici, c’erano compaesani che parlavano il proprio dialetto, c’erano gli amici degli amici; un uomo poteva trovare un letto e qualcosa da mangiare. Arrivavano da ogni luogo: dalle loro case, da reggimenti stranieri, da gruppi di lavoro forzato, da campi di concentramento, dalla Lorena, dall’Alsazia e anche dai sobborghi di Parigi, dal Belgio e finanche dall’Inghilterra, via Dunkerque… Ci stringevamo tutti intorno ad un tavolo in uno scantinato distrutto e non c’era mai posto a sufficienza né al tavolo né a sedere. Dal più abissale sconforto risorgevano gli spaghetti e si organizzava la mensa. Sulla più elementare delle basi comuni -ovvero la necessità di mangiare- nasceva una piccola comunità o piuttosto si formava una famiglia alquanto composita”.

La sua destinazione successiva fu il Nordafrica, dove nel 1941 incontrò Albert Camus, con cui avrebbe condiviso molte affinità artistiche e politiche. Chiaromonte ricordò l’intensità dell’incontro con Camus e con la sua “famiglia” di compatrioti algerini: “Hitler aveva appena occupato la Grecia e la svastica sventolava sull’Acropoli -scriveva-. Soffrivo di una nausea continua per questi avvenimenti. Ma solo e sradicato com’ero, in quel momento ero l’ospite di questi giovani. Per conoscere veramente il valore dell’ospitalità uno deve essersi trovato solo e senza casa”.

  1. Chiaromonte portò tutte queste esperienze con sé quando finalmente arrivò alla salvezza in America, dando inizio ben presto al sodalizio con l’instancabile Dwight Macdonald. Ebbe una grandissima influenza sulla rivista “Politics” di Macdonald proprio nel modo di affrontare la violenza delle ultime fasi della guerra e, più tardi, cercando di articolare una “terza via” di opposizione post-marxista nella prima fase della Guerra fredda. Condannò l’ideologia della “responsabilità dei popoli”, la nozione disumana della colpa collettiva, del “noi contro loro”, che faceva sì che i civili diventassero obiettivi legittimi di armamenti da giudizio universale (che già allora includevano le opzioni nucleari). Introdusse i lettori della rivista al pensiero di Simone Weil, la cui riscoperta della concezione greca del “limite” sembrava arrivare al momento giusto per essere applicata al rinnovato estremismo ideologico. La Weil, come anche Chiaromonte, rifiutava ogni schematismo -specialmente il determinismo marxista e la fede dell’Occidente nel “progresso” materiale- che trasformava gli individui in unità disponibili per un grande calcolo storico, a giustificazione dell’uso cieco del potere. Chiaromonte capì molto bene come la Weil avesse colto l’aspetto malato della modernità, l’”hubris” di quella che lei chiamava la nostra “era tecnologica che si autocelebra”. “I concetti del limite, della misura, dell’equilibrio che dovrebbero determinare la condotta della nostra vita -scriveva con parole che sono valide oggi come allora- nell’Occidente sono relegati ad una funzione servile nel vocabolario della tecnica”.

Chiaromonte, inoltre, presentò le idee di Albert Camus a Macdonald e ai lettori americani della rivista. Quando Camus arrivò a New York per una lunga visita nella primavera del 1946, Chiaromonte lo accolse al suo arrivo al molo. Si trovarono d’accordo sull’impegno a non diventare “né vittime né carnefici” in tempi di violenta polarizzazione e Chiaromonte registrò con approvazione il monito di Camus alla Columbia University: “il veleno di cui era impregnato Hitler (rimane) presente in ciascuno di noi”.

Le parole di Camus continuano a risuonare ancor oggi: “Viviamo nel terrore perché la persuasione non è più possibile, perché non riusciamo più a tirar fuori quella parte di noi che recuperiamo contemplando la bellezza della natura e dei volti umani, perché viviamo in un mondo di astrazioni, scrivanie e macchine, di idee assolute e di rozzo messianesimo. Soffochiamo in mezzo a questa gente che pensa di avere assolutamente ragione sia rispetto alle loro macchine che alle loro idee. E per tutti coloro che riescono a vivere solo in un’atmosfera di dialogo e socialità fra gli uomini, questo silenzio è la fine del mondo”.

Chiaromonte lavorò con Camus alla fine degli anni ’40 per costruire una cultura cosmopolita del “dialogo e della socialità” che operasse “al di fuori” delle istituzioni ufficiali, governo e partito, fuori dalla politica convenzionale, attraversando le frontiere indurite delle nazioni e delle ideologie nei primi giorni della Guerra fredda. Queste idee descritte da Gino Bianco come “il pensare al di fuori della politica” dovevano molto al mentore di Chiaromonte, Andrea Caffi, che aveva parlato di creare “una società nella società”. E’ un approccio ricorrente nella nostra storia: per esempio in Polonia, dove Chiaromonte veniva letto ed ammirato durante le repressioni degli anni ’70 e ’80, e il dissidente Gÿorgy Konrad lanciò un appello molto simile alla solidarietà internazionale spontanea, dichiarando che “coloro che pensano violano le frontiere”.

Con l’aiuto di Macdonald, Mary McCarthy e altri intellettuali newyorkesi alla ricerca di una “terza via”, fuori dalla minaccia di una terza guerra mondiale, Chiaromonte co-produsse “Europe-America Groups”, un progetto che prevedeva l’invio di aiuti materiali e incoraggiava la creazione di reti di comunicazione e solidarietà oltre l’Atlantico (cosa che allora, senza gli aerei, i satelliti e internet costituiva un problema per la grande distanza).

Chiaromonte ritornò in Europa nel 1947, insieme alla moglie americana Miriam, e lavorò come punto di collegamento di questo progetto che ancora oggi, nonostante sia stato definitivamente chiuso, è un modello per i movimenti transnazionali impegnati per la pace e la democrazia. Al momento della partenza da New York, Macdonald (che aveva dato ad uno dei suoi figli il nome di Chiaromonte) riassunse così l’impatto che l’italiano aveva avuto su di lui: “Ho imparato molto da te, Nick, e tu hai cambiato interamente le mie idee (tu e la bomba atomica)”.

  1. Nei successivi venticinque anni Chiaromonte, Macdonald e Mary McCarthy mantennero i legami d’amicizia, scambiandosi visite e corrispondendo su tutto, dalle cose personali alle controversie politico-letterarie del momento. Ho avuto il piacere voyeuristico di leggere gran parte di questa documentazione dattiloscritta, che viene conservata nei “Macdonald Papers” all’università di Yale e all’archivio McCarthy presso il Vassar College, e il calore e l’intimità del loro rapporto brilla oltre il tempo e la distanza. Chiaromonte apprezzava molte cose dell’America, ma confessava di sentirsi meglio a casa dopo tanti anni all’estero. “L’Europa si trova in uno stato disastroso -scriveva a Macdonald nel 1947- ed intellettualmente non è molto interessante, pur tuttavia l’Europa è una società, strade alberate, cose strane e belle, mentre per me New York vuol dire qualche amico qua e là, molto cemento ed un’incredibile… mancanza di qualità in tutto”.

Per un breve periodo Chiaromonte visse in Francia, lavorando presso la sede dell’Unesco di Parigi, ma trovò piuttosto demoralizzante quella routine “vuota ed assurda” della vita burocratica. “Così mi trovo qui -scriveva in un’altra lettera a Macdonald lamentandosi- a fare poco o niente ma… legato agli orari d’ufficio, ai discorsi idioti da camicia inamidata, con la sensazione di perdere giorno dopo giorno il controllo sulla mia vita e sul mio cervello…”.

Finalmente, nel 1953, i Chiaromonte arrivarono a Roma, dove Nicola trovò lavoro come critico per il settimanale “Il Mondo” diventando, a metà degli anni ’50, coeditore con Ignazio Silone del giornale “Tempo presente”.

Nicola, Dwight e Mary mantennero ostinatamente la propria autonomia critica anche nei giorni più “frigidi” della Guerra fredda. Condannarono i crimini dello Stato sovietico, ma contemporaneamente misero in evidenza i limiti dei sistemi occidentali. Ben presto, per esempio, si resero conto dell’assoluta follia della guerra americana in Vietnam. “C’è qualcosa di particolarmente nauseante nella brutalità americana -scriveva Chiaromonte a Macdonald nel 1965- non solo perché si accompagna ad un discorso ipocrita sulla democrazia, sulla libertà e sulla pace ma anche perché è così scoperta, cruda, così fine a se stessa, un gioco, una questione tecnica”.

A proposito degli architetti della guerra osservava: “Potere, potere, potere. Non gli viene neppure il sospetto che il potere possa essere speso molto più velocemente e male dei soldi?”.

Richiamando la Simone Weil dei due decenni precedenti, Chiaromonte metteva in guardia sulla possibilità che l’impresa avesse un esito disastroso per gli Stati Uniti poiché andava incontro a quel tipo di “punizione meritata” causata “dalla corruzione, dalla brutalità e dalla volgarità che si manifestano nello stesso momento in cui il potere viene usato come fine a se stesso”. Nello stesso tempo, tuttavia, lamentava che gli europei, così come altri paesi, guardassero allo stile tecnocratico americano con invidia e paura al contempo. In discussione c’era la definizione della vera identità americana e il suo ruolo nel mondo. In una lettera del 1965, Chiaromonte concludeva: “C’è una questione che ha a che fare con la guerra del Vietnam ed è stabilire che tipo di America si vuole. Se si vuole un’America superpotente, super ricca, supermeccanizzata, completamente tecnologicizzata e programmata elettronicamente e che corrisponde a quello che alcuni vorrebbero, … allora (il Presidente) Johnson ha ragione… ma se uno pensa che il potere dell’America debba avere un significato e uno scopo completamente diversi e che l’imperialismo sia del tutto estraneo alla sua natura, perché si fonda su un processo di ‘espansione naturale’ e non di forza militare, allora si deve essere fermamente decisi e contrari a qualsiasi discorso di ‘prestigio nazionale’ o di ‘salvare la faccia’ o di propria convenienza”.

Nel 1966 Chiaromonte fece una serie di conferenze all’Università di Princeton conservate nel volume The Paradox of History (trad. it. Credere e non credere) in cui riassumeva la sua critica all’assolutismo ideologico e all’abuso di potere che ne derivava. Chiaromonte ancora una volta rifiutava le scuole di pensiero -marxista, liberale o conservatrice- che sacrificavano il popolo per realizzare i grandiosi schemi del “Progresso”, salvo poi inondarli con la sanguinosa “rappresentazione spettacolare” della guerra. In scrittori come Stendhal e Tolstoj, come pure nella poesia epica greca, Chiaromonte trovava una conferma di come l’impulso a imporre razionalità, leggi consolidate, storie di eroi o un senso di “unità finale” sulla “molteplicità inesauribile” dell’esperienza umana si rivelasse una delusione irrispettosa, condannata al fallimento e a periodiche catastrofi, come dimostrato dagli sconvolgimenti del XX secolo. Il potere e la forza devono essere usati con limitazione, riconoscendo i limiti della conoscenza umana. In realtà, dal suo punto di vista, queste limitazioni costituiscono la base della nostra autonomia.

Chiaromonte scriveva: “Se riuscissimo a conoscere tutte le conseguenze delle nostre azioni, la storia non sarebbe nient’altro che un intreccio armonico ed idilliaco di volontà libere o lo svolgersi infallibile di un disegno razionale. Così non faremmo altro che agire sempre razionalmente ovvero non agiremmo proprio dal momento che non faremmo altro che seguire uno schema sterile e prestabilito. In questo modo però non saremmo liberi. Ma noi siamo liberi, e questo significa letteralmente che non sappiamo quello che stiamo facendo”.

E’ importante notare che Chiaromonte riscontrava questa “hubris”, questa pericolosa “volontà di potere”, non solo all’interno di ideologie politiche rigide, ma anche nella fede dell’Occidente in un inevitabile progresso materiale, con relativo consumismo e feticismo tecnologico, e nel “culto dell’auto, della televisione e della prosperità derivata dalle macchine”. Questo modo di vivere si fonda su una visione molto impoverita dell’individuo come “animale completamente dedito alla soddisfazione dei propri appetiti e ad una illimitata autoesaltazione”. In un mondo di tal fatta, la cultura diventa “parte di una ricerca mortifera e automatica della novità”, con le persone che si muovono superficialmente “da una vanagloria all’altra, da sazietà a sazietà, di noia in noia”. Chiaromonte illustra l’alienazione con un esempio della vita di tutti i giorni: “L’immagine che più colpisce in questa inflazione egomaniacale dell’individuo prodotta dall’estensione indiscriminata del potere fisico nella società moderna è il volto di un uomo al volante. Tutto teso nello sforzo di sostenere il peso ed il prestigio del potere a sua disposizione, procede con arroganza a tutta velocità, prepotente e sprezzante di qualsiasi cosa lenta o ferma: ha tutto l’aspetto di un essere… soprannaturale”.

(Ci si può solo immaginare cosa direbbe oggi Chiaromonte delle nostre autostrade americane e dell’”inflazione egomaniacale” di automobilisti che sfrecciano aggressivi in Suv dopate “dominati” da cellulari e da stereo a tutto volume). Per contrastare questo clima di paura e di egoismo, Chiaromonte proponeva una cultura dell’umiltà, della proporzione, della limitazione, del “limite”, basata sul dialogo e sul rispetto reciproco. Altrimenti “diventiamo stranieri nella nostra società, niente più che unità numeriche all’interno di un calcolo trascendentale”.

  1. Nei suoi ultimi anni Chiaromonte si trovò in disaccordo, talvolta anche aspro, con i suoi amici americani, Macdonald e McCarthy, ma l’amore e l’amicizia fra loro non venne mai meno. Per esempio, criticò severamente Dwight Macdonald per quello che giudicò un appoggio insensato ai manifestanti della Nuova Sinistra alla Columbia University nel 1968. Mentre capiva la protesta contro un “Establishment” corrotto ed autocratico, Chiaromonte trovò le ribellioni studentesche di quell’anno “sterili” ed inconcludenti, troppo spesso caratterizzate da slogan insignificanti e gratificazioni immediate e che riproducevano il nichilismo delle istituzioni contro cui erano dirette. Ancora una volta si trattava di una questione di proporzioni, misura, limite. Chiaromonte paragonava il fermento nell’Europa dell’Est, che ammirava, ai sussulti messianici dell’Occidente. “La libertà che stanno chiedendo gli studenti polacchi è una sfida chiara e precisa ad un regime chiaramente oppressivo, mentre lo ‘scontro generale’ di cui parlano gli studenti italiani e tedeschi è una formula tanto generica quanto violenta”. Il “rifiuto totale” teorizzato da molti manifestanti costituiva per Chiaromonte una strada senza sbocco, “una ribellione contro tutto e contro nulla”.

Scrivendo a Mary McCarthy in questo periodo, Macdonald si preoccupava del crescente pessimismo del suo amico italiano; gli rimase comunque sempre fedele cadendo in una grande crisi personale quando, nel 1972, giunse notizia della sua morte improvvisa.

McCarthy giudicò significativo che da molti paesi, come da tutta la stampa italiana, giungessero tributi alla figura di Chiaromonte e che tutti sembrassero sinceri e spontanei, “solo qualcuno aveva un tono ufficiale e convenzionale”. Più tardi avrebbe concluso che le idee di Chiaromonte “non rientravano in alcuna categoria: non erano di destra né di sinistra. Non significava per questo che fosse di centro: era semplicemente se stesso”. E’ forse per una tragica ironia che proprio questo suo “essere se stesso”, questo rifiuto di seguire la massa, questa difficoltà ad “incanalare” il suo pensiero spiegano perché oggi ci sia una conoscenza così limitata della figura di Chiaromonte.

  1. Nicola Chiaromonte era un moralista e i suoi umanissimi istinti, il suo rifiuto delle ideologie assolute a favore di un’etica del “limite”, la sua voce dall’”ora zero” del trionfo fascista e della guerra mondiale ci possono parlare ancora oggi, in questo nuovo secolo di tecnologie pericolose, fedi messianiche (sacre e secolari) e di altri possibili “ground zero” ancora più devastanti di quello sperimentato dal mio Paese lo scorso settembre. Le sue idee sono particolarmente importanti per gli americani. Infatti, quali cittadini della superpotenza mondiale, dobbiamo agire con misura, proporzione e intelligenza anche di fronte al terrore. Dobbiamo evitare di rimanere intossicati dal nostro potere e di reagire incuranti delle nostre azioni. Dobbiamo rifiutarci, come disse Camus decenni fa, di essere o “vittime” o ” carnefici” e così diventare simili ai mostri contro cui combattiamo.

Chiaromonte, nonostante i tanti difetti, mantenne la sua fiducia nella “promessa” dell’America, suo rifugio in tempo di guerra, e le sue critiche, talvolta severe, vollero essere un contributo costruttivo alla lotta del paese per la propria identità, un tentativo di aiutare la sua gente a vivere per i propri ideali migliori, vera alternativa alla neo-imperialista pax americana. Come scrisse in una recensione di scritti di Macdonald per “L’Espresso”, nel 1970. “In termini politici si tratta di porre le basi di una nuova democrazia. Cosa che non sarà possibile se non si riuscirà a dare al gigantismo americano… una dimensione umanamente accessibile e controllabile”.

Il messaggio di Chiaromonte è senza tempo e noi lo ignoriamo a nostro rischio e pericolo.

Testo di Sumner Gregory tradotto da Enrica Casanova – 2006

Da:  http://www.unacitta.it/newsite/altritesti

[1] Stokely Carmichael (1941-1998), originario di Trinidad, ma emigrato negli Stati Uniti giovanissimo, uno dei leader del Student Nonviolent Coordinating Comittee (Sncc), organizzazione impegnata nella promozione dei diritti civili degli afroamericani, inizialmente su posizioni integrazioniste, spostatosi via via su posizioni più radicali, espulso nel 1967 dallo stesso Sncc, assunse una notevole celebrità divenendo il portavoce del Black Panter Parthy, che, influenzato dal marxismo, oppose al principio della non violenza, proprio dell’azione di Martin Luther King, quello della autodifesa come strumento di lotta, teorizzando per i neri non già l’integrazione nella società bianca, ma il suo rifiuto e la conquista violenta del potere. (Nota del curatore)