di Paolo Repetto, 2009
Se non vuoi affrontare un problema la soluzione più spiccia (e la più diffusa nel nostro costume nazionale) è negare che il problema esista. Ma si può anche andare oltre, arrivare ipocritamente a sostenere che anziché di un problema si tratta di una risorsa.
È esattamente ciò che accade oggi nella scuola quando ci si confronta con la presenza degli allievi stranieri. Le fette di political correct con le quali ci copriamo gli occhi sono diventate così spesse da consentirci di definire “risorsa” ogni situazione problematica, il che riesce doppiamente offensivo, perché in fondo maschera dietro la prospettiva di uno sfruttamento positivo il fatto che i ragazzi non sono “risorse”, ma individui (e quelli stranieri sono individui che vivono singolarmente una particolare condizione di disagio), e perché non rispetta, negando il riconoscimento di una problematicità, coloro che ne sono portatori.
Con queste premesse è evidente che tratterò il rapporto tra la scuola e gli allievi stranieri come problematico. Che poi da una criticità si possa anche ricavare qualcosa di buono, nel mentre la si affronta e soprattutto se e quando la si supera, mi sembra ovvio. Si impara qualcosa anche battendo la testa contro uno stipite, la prossima volta ci si abbasserà: ma la situazione attuale mi sembra più paragonabile ad una emicrania che ad una zuccata, e dalle emicranie si impara molto poco. C’è un disagio che cresce lentamente ma inesorabilmente, non un trauma violento che tra qualche tempo sarà assorbito e dimenticato.
La verità è che ci siamo trastullati per un sacco di tempo a fingere (quegli apparati che avrebbero dovuto normare l’afflusso) e ad idealizzare (gli operatori, o almeno quelli un po’ più motivati, che non hanno subito liquidato il fenomeno con un “ci mancavano anche questi!”), a inventare belle enunciazioni di principi e buone pratiche. Ma oggi ci rendiamo conto che la situazione è quasi ingestibile su un piano logistico e soprattutto che è diventata ingovernabile sotto il profilo della chiarezza dei rapporti. Cercherò di riassumerla in poche righe e di sintetizzare le diverse tipologie di reazione che ha suscitato.
In Italia ci sono attualmente 6 milioni di stranieri, cioè di persone non nate nel nostro paese o figlie di persone non nate nel nostro paese. Sono rappresentate una cinquantina di etnie diverse, provenienti dai quattro angoli del mondo: Asia, Africa, America Latina, Europa orientale. Queste persone sono portatrici di tradizioni, di costumi e di religioni diversissimi, spesso in aperta contrapposizione, e a differenza di quanto avveniva sino a due decenni fa non sono affatto disponibili ad abdicare al loro passato per assimilarsi ai costumi e alla cultura occidentale (non sto dicendo che dovrebbero esserlo, sto constatando che per vari motivi, che non possiamo approfondire in questa sede, un tempo lo erano e ora non più). Alcune di queste etnie, magrebini, latinoamericani, romeni, cinesi, ecc… hanno raggiunto una consistenza numerica tale da costituire vere e proprie comunità autonome, all’interno delle quali si perpetuano regole, lingua, costumi, stile di rapporti sociali e familiari del paese d’origine, con una certa tendenza, tipica dell’atteggiamento di autodifesa delle comunità di minoranza, ad una professione identitaria “integralista”.
Una fetta consistente di questi 6 milioni, circa un quinto, sono bambini, adolescenti e giovani in obbligo scolastico o in età comunque scolare. Una parte sono nati in Italia, e in teoria non dovrebbero incontrare grossi problemi linguistici o culturali: in realtà non è così, perché a casa o nel quartiere, in seno alla loro comunità, questi ragazzi parlano normalmente la lingua nativa familiare, l’italiano è per loro una seconda lingua, vivono un certo tipo di cultura dei rapporti e da questa sono influenzati e condizionati (soprattutto ne sono condizionate, molto controvoglia, le ragazze). Per coloro che in Italia sono arrivati già in età scolare i problemi sono naturalmente ben maggiori. Oltre alle difficoltà linguistiche vivono infatti anche il trauma dello sradicamento. Per gli uni e per gli altri, marcatamente più per i secondi, c’è di norma alle spalle una situazione economica precaria, molto spesso un nucleo familiare inesistente o quasi. Le famiglie stesse mostrano nei confronti della scuola, a seconda delle etnie, una differente disposizione, che va dalla quasi assenza dei latino-americani alla presenza quasi ossessiva dei mussulmani, ad una aspettativa forte di integrazione e di riscatto sociale da parte degli immigrati dell’est europeo, fino ad una sorta di invisibilità da parte degli estasiatici.
Queste condizioni oggettive e questi diversi atteggiamenti si scaricano sulla scuola, ed è indubbio che pesino sulla possibilità e sulla velocità dell’integrazione. Ma il fattore determinante di criticità non è costituito in realtà dalla lingua, e neppure dal disagio economico. Questi sono problemi che, allo stato attuale delle cose, possiamo considerare comuni: fatte le debite proporzioni, la precarietà economica e familiare interessa tutti o quasi i nostri studenti, così come la scarsa dimestichezza con la lingua. La scuola in qualche modo li ha sempre affrontati, fino a quando si sono mantenuti al di sotto di una certa soglia quantitativa.
Il vero scoglio è un altro. Sta nel fatto che il superamento della soglia critica non è stato solo quantitativo. Hegel diceva che se perdi due o tre capelli sei uno che perde capelli, se li perdi tutti sei un calvo: a significare che i fenomeni quantitativi, al di là di un certo limite, diventano qualitativi. Nel nostro caso la criticità qualitativa è stata determinata dal costituirsi di comunità etniche o culturali abbastanza forti da raccogliere, controllare e isolare il più possibile nei confronti dell’esterno i singoli individui. Quello che era all’inizio un compattamento spontaneo di autodifesa ha assunto in breve tempo le caratteristiche di un padrinaggio, che si esprime in forme diverse, dalla protezione forzosa all’integralismo religioso, ma sortisce comunque lo stesso esito: quello di rendere sempre più improbabile l’ipotesi di una pacifica coesistenza “multiculturale”. Alla pressione crescente all’interno delle diverse comunità corrisponde infatti la rivendicazione più o meno esplicita verso l’esterno di “statuti speciali”, contrabbandata sotto le insegne del rispetto delle diverse tradizioni e culture, ma in realtà mirante ad alzare tra le stesse delle barriere in ingresso e in uscita.
La richiesta di uno statuto speciale può essere avanzata quando si ha una forza contrattuale strategicamente acquisita (il controllo di interi quartieri, ad esempio), ma solo se si ha di fronte un interlocutore disposto quanto meno ad ascoltarla. Nel nostro caso abbiamo uno stato, una società civile, una cultura che hanno elaborato nell’ultimo mezzo secolo un atteggiamento passivamente “tollerante”, figlio a dire il vero più del pensiero debole che di una reale consapevolezza, e che sconta un più o meno sincero senso di colpa per il passato (e il presente) coloniale. È una situazione in linea teorica positiva, perché prevede l’accettazione su un piano di pari dignità delle ragioni altrui, ma all’atto pratico estremamente complessa, perché la pari dignità deve appunto poggiare su un piano, e rispetto a quest’ultimo c’è un sacco di confusione.
Vorrei ribadire che in queste considerazioni non c’è alcun giudizio di valore. Non parto dal presupposto che la cultura ospitante sia superiore a quella degli ospitati, ritengo legittime dal punto di vista di questi ultimi le loro rivendicazioni, probabilmente le farei mie se fossi dall’altra parte. Ma deve anche essere chiaro che se si conosce un po’ la storia e se ne sono capiti i meccanismi non si ragiona sulla base dei sensi di colpa, perché questo gioco, andando all’indietro, ci riporterebbe sino ad Adamo ed Eva, o addirittura a un Dio che ci ha malignamente fregati con la tentazione; e che un atteggiamento aperto e tollerante non deve per forza implicare un relativismo rinunciatario o possibilista rispetto all’affermazione dei valori essenziali della vita, della libertà e della dignità.
Andiamo ora a considerare come questa situazione si rifletta sulla scuola, e a valutare se rispetto agli allievi stranieri esistano strategie di inclusione non dico risolutive, ma almeno parzialmente applicabili ed efficaci. Partiamo dagli atteggiamenti che la scuola ha sperimentato sino ad oggi, in assenza di reali indirizzi dall’alto che non fossero banalissime “indicazioni per l’accoglienza”, all’interno delle quali per un certo periodo era vietato persino l’uso del termine “integrazione”, considerato politicamente scorretto, mentre oggi è stato riabilitato e va per la maggiore.
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la prima fase è stata quella della sorpresa. Arrivano in tanti, tutti assieme, di colpo, e non siamo attrezzati a riceverli. Trionfa l’arte di arrangiarsi, si parcheggiano albanesi e magrebini nelle classi iniziali dei vari cicli aspettando che si sveglino e imparino un po’ di italiano. Li si traghetta bene o male fino alla terza media, poi fuori. Tutto sommato ha funzionato, soprattutto con gli albanesi.
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la seconda fase è stata quella della ideologizzazione. È lì che è nata la palla delle “risorse”. Lo straniero va accolto ed accudito, stando attenti a non “integrarlo”, che è una brutta cosa. Sotto sotto c’è una forma micidiale di razzismo, subdolo perché “di sinistra”, in base alla quale non c’è bisogno di forzare perché sarà poi il “barbaro” a capire qual è il sistema migliore, e a sceglierlo, o addirittura a scegliere gli aspetti migliori del sistema. Si normalizzerà, insomma.
C’è anche la versione più spinta, quella dell’antioccidentalismo degli occidentali: finalmente arriva qualcuno a portarci modelli di vita più genuini, costumi più sobri, maggiore equità e solidarietà sociale. Un sacco di gente, e non solo terzomondisti laici o religiosi e new agers di complemento, ma anche operatori scolastici seri, preparati e motivati, ha cavalcato questa onda.
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La terza fase, quella attuale, è dominata da una “de-ideologizzazione” altrettanto razzista, anche se apparentemente meno stupida. Il modello è: accogliamoli cercando di far meno danni possibile (quote per classe), applichiamo criteri valutativi diversificati che consentano di non doverli tenere a scuola sino a trent’anni e offriamo loro la possibilità di coltivare la loro lingua e la loro cultura (tradotto: lasciamoli cuocere nel loro brodo).
A parte l’evidente assurdità di proposte come quella di coltivare le diverse lingue native a scuola (cosa si fa, si istituiscono corsi di 10 lingue per ogni classe? Si formano classi monoetniche?) che è paragonabile solo all’altrettanto idiota proposta dell’introduzione dell’insegnamento del dialetto, si consente in questo modo alla comunità esterna di mettere il becco anche all’interno di quello che dovrebbe essere l’unico santuario contro i condizionamenti e le costrizioni nei confronti dei singoli. Il “coinvolgimento attivo” delle diverse comunità, alla luce della situazione reale e alla faccia dei buoni propositi e delle feste etniche, non può che produrre ulteriori problemi.
Il primo è di carattere logistico: come la mettiamo ad esempio col rispetto delle festività varie (il sabato ebraico, il ramadan musulmano, ecc…), della diversa percezione degli orari, dei cibi tabù da evitarsi nelle mense scolastiche per non offendere la sensibilità, dei simboli di ogni sorta che possono essere considerati offensivi, delle diverse tradizioni nell’abbigliamento, ecc.? È evidente che i ritmi attuali della scuola, come del resto quelli di tutte le altre attività, economiche, politiche, culturali, sportive, ecc… sono ancora scanditi da festività, ricorrenze, anniversari tutti riferibili alla cultura cristiana e alla storia del nostro paese o dell’occidente in genere, dal Natale al Primo Maggio. Ma intanto la gran parte di queste ricorrenze affonda le sue radici in epoche antecedenti la liturgia cattolica o la storia sociale recente, nelle quali le scansioni erano dettate dal succedersi delle stagioni e delle attività connesse: e quindi si potrebbe dire che hanno una base naturale, un’origine “laica” legata alla natura particolare dei luoghi, del clima e dei modi di produzione, e come tale universalmente condivisibile. Inoltre è già in atto, a partire dalle attività economiche, una “laicizzazione” dei ritmi che non guarda in faccia a nessuna tradizione culturale, e crea semmai il problema opposto, perché sacrifica alla ragione economica ogni altra considerazione. Mentre noi ci poniamo il dilemma del se e del come dare spazio alle tradizioni altrui, quelle indigene sono tranquillamente buttate o stravolte, e non all’interno di un illuministico processo di razionalizzazione, ma all’insegna di una semplice e brutale profanazione.
Il secondo punto è che in questo modo vengono come al solito addossati alla scuola problemi e attribuiti ruoli e significati che in realtà non sono di sua competenza, o sono di sua competenza solo nella misura in cui li può gestire in piena autonomia, senza condizionamenti esterni.
E questo ci porta finalmente al nocciolo. La questione non concerne in realtà gli stranieri, ma investe la scuola nel suo complesso, o meglio la definizione della sua identità, della sua funzione e dei presupposti minimi per un suo corretto funzionamento. Va chiarito in sostanza quali aspettative famiglie ed allievi debbano nutrire nei suoi confronti e quali la scuola deve avere nei confronti di chi la frequenta. Occorre farlo perché nell’attuale confusione ci sta tutto e il contrario di tutto, mentre a volerlo il discorso sarebbe molto semplice, soprattutto se tornassimo ad usare i termini nel loro significato più quotidiano e immediato, anziché in quelli virgolettati del tecnicismo pedagogico, docimologico e ministeriale.
Mi spiego: la scuola deve proporre a chi la frequenta (e non “fornire agli utenti”; agli “utenti” si forniscono gas, acqua o energia elettrica) strumenti per sviluppare competenze. Questi strumenti sono costituiti essenzialmente dalle conoscenze, ma anche da esperienze di rapporti, da una crescente responsabilizzazione, da stimoli al confronto, da tutto ciò insomma che induce un arricchimento spirituale e un consolidamento del carattere. Le competenze sviluppate possono poi essere giocate su vari fronti, da quello professionale a quello dei rapporti civici o privati, ma devono essere accomunate in queste declinazioni da un’unica finalità, quella di una consapevolezza sempre più alta della propria dignità, e conseguentemente di quella altrui. Ciò significa imparare a distinguere quello che è giusto fare da quello che non lo è, sulla base dell’elementare precetto del non fare agli altri quello che non si vorrebbe fosse fatto a noi, e di dare agli altri quello che vorremmo ci fosse dato; imparare che il valore di quello che facciamo sta nel modo in cui lo facciamo, e che quindi lo determiniamo noi, con la nostra coscienza e la nostra volontà; arrivare in definitiva a compiere scelte davvero autonome, ed accettarne la conseguente responsabilità.
Per imparare tutto ciò non sono necessari né la fede religiosa né i convincimenti politici, non sono determinanti i ruoli sociali o i livelli economici, non c’entrano le tradizioni, ecc… La dignità viene prima di ogni determinazione, anzi, ne prescinde. Per accedervi, o meglio ancora per riconquistarla, visto che una embrionale coscienza di ciò che ritengono per se stessi accettabile e dignitoso è comune a tutti gli umani, è paradossalmente più necessario sottrarre che sommare. Piuttosto che rivendicare un’eguale rilevanza per tutte le culture parrebbe oggi importante affermare l’eguale irrilevanza di tutte le sovrastrutture culturali rispetto a quella coscienza.
Ciò di cui sto parlando si chiama semplicemente laicità. Si tratta di quel principio di autonomia per il quale qualsiasi attività legittima, che non ostacoli o renda impossibili le altre, deve potersi svolgere secondo regole proprie, senza imposizioni o condizionamenti dall’esterno. L’educazione alla dignità è un’attività non solo legittima, ma doverosa, e non possono essere invocate contro di essa le eccezioni del relativismo, per cui ogni cultura ne dà una sua diversa interpretazione. Se correttamente intesa, la dignità può costituire il minimo comune denominatore per l’incontro tra le culture, e diventare al tempo stesso il massimo patrimonio condiviso: ma può, naturalmente, quando e solo se la sua affermazione sia libera da ogni condizionamento. Quando cioè sia garantita all’origine da una reale condizione paritaria, che consenta a ciascuno di sentirsi a livello di tutti gli altri e lo induca a considerare gli altri al proprio.
Credo fermamente che questa condizione, ovvero un rapporto tra soggetti che godono di pari opportunità di crescita, possa essere offerta oggi soltanto dalla scuola. Ma essere sullo stesso piano significa, oltre che avere gli stessi diritti, riconoscere ed accettare la necessità di uguali doveri, ovvero delle stesse regole: che hanno da essere poche, semplici, chiare, ma debbono esserci, così come in qualsiasi forma di interrelazione umana. Le attività sportive si prestano benissimo ad esemplificare ciò che voglio dire: il divertimento e la gratificazione che ne derivano sono infatti totalmente legate al rispetto delle regole di gioco. Non sto parlando di risultati o di punteggi, che attengono ad un’altra dimensione. Sto dicendo che dietro qualche centinaio di tennisti professionisti che giocano sui campi di Wimblendon ci sono centinaia di milioni di appassionati che lo fanno tutti i giorni senza alcuna speranza di entrare nel racing mondiale, e la metà di coloro che giocano sono sconfitti, senza che questo li induca immediatamente a smettere: perché in realtà ciò che interessa loro è giocare, confrontarsi con se stessi oltre che con l’altro, e l’antagonista lo rispettano, che vinca o che perda, purché lo faccia secondo le regole.
Le regole non concernono direttamente la qualità del gioco (nel caso della scuola, la sostanza delle conoscenze trasmesse); sono la formalizzazione dell’accordo che rende possibile giocare (nel nostro caso, trasmettere dei saperi). Ora, persino all’interno della metafora sportiva sappiamo che tutto questo è vero solo in teoria, e più che mai è tale nella scuola: se stendo un binario o traccio una strada, pur non condizionando totalmente la velocità, o la scelta della fermata, o quella del mezzo stesso, impongo pur sempre una certa direzione. Allo stesso modo le regole di una istituzione educativa saranno necessariamente il frutto, il distillato di quella particolare cultura che dell’istituzione si serve per perpetuarsi e per accrescersi. E se anche di volta in volta dovranno adeguarsi alle nuove condizioni create dal confronto con altre culture, non possono scendere sotto una certa soglia di rigidità, pena la dissoluzione totale.
È rispetto a questa soglia dunque che occorre avere idee un po’ più chiare, e applicare quella laicità alla quale mi appellavo sopra. Le regole, pur essendo come si diceva il frutto di una certa cultura, non devono discendere da alcun particolare credo o convincimento: devono attenere alla funzionalità e alla correttezza. Non può essere una regola, almeno nella scuola di stato, quella della preghiera da recitarsi all’inizio delle lezioni, mentre lo è quella di arrivare in orario, di frequentare con continuità, di non disturbare le lezioni, di non danneggiare strutture o arredi, di non molestare o insolentire compagni, di usare un abbigliamento decente. E fin qui, sembrerebbe di rimanere nell’ambito dell’ovvio. Ma la nuova situazione le rende un po’ meno ovvie. Prendiamo ad esempio l’abbigliamento. È da consentirsi l’uso del burka, in omaggio al rispetto per una cultura altra? E se lo è, perché allora non dovrebbe essere accettabile indossare minigonne o top miniaturizzati, in omaggio all’uso corrente tra i giovani nella nostra? O ancora: è consentito tenere copricapo di varia foggia? E se no, come la mettiamo con i turbanti dei Sikh? E perché questi ultimi dovrebbero rinunciare ai loro pugnali? Sembra che stia parlando solo di bazzecole, ma ancora una volta la somma delle bazzecole ci parla di una concezione totalmente diversa dei rapporti, dei ruoli, della socialità.
Non voglio proseguire oltre con le esemplificazioni, perché non è questione di normare ogni singolo comportamento o aspetto della vita e dell’interrelazione scolastica: si finirebbe per scadere nell’assurdo, cosa peraltro che sta già accadendo, che accade anzi ogni volta che viene posto un nuovo problema rispetto a usi, comportamenti, sensibilità da non offendere, ecc… C’è un solo modo per evitarlo, ed è la riconduzione di tutto ad una serie di regole della casa uguali per tutti, basate su un buon senso minimo, che facciano della scuola davvero quell’oasi autonoma all’interno della quale il confronto e il gioco delle culture diventi possibile. Delle “culture”, però, ovvero dell’essenza davvero caratterizzante, e condivisibile, di ogni forma di civilizzazione: e non di tutte quelle derive ideologiche o integralistiche o politiche o opportunistiche che ogni cultura purtroppo si trascina appresso. Tutto questo dalla scuola deve rimanere fuori: dentro i vangeli, fuori le chiese. Solo sui primi è possibile il confronto, e non tanto sulle risposte che offrono, quanto sulle domande che pongono. La scuola è il luogo dove si dovrebbe imparare a porsi correttamente le domande, il che già risolverebbe il problema delle convivenze e delle compatibilità, perché consentirebbe di poggiare i piedi sull’originario terreno comune, quello degli identici bisogni, delle identiche paure, speranze ed esigenze di senso dalle quali in ogni tempo e luogo ha mosso e continua a muovere l’umanità. Dovrebbe fornire anche soccorso nella ricerca delle risposte: ma non è tenuta a fornire risposte di alcun tipo. Chi desidera trovare queste ultime già confezionate non ha che da scegliere, fuori. L’offerta è immensa. A chi intende invece farsi il suo percorso in autonomia, educare in sé la capacità di valutare e scegliere e la forza di assumersi delle responsabilità, la scuola deve dare modo di farlo in un ambiente non neutro ed asettico, ma rispettoso della dignità del singolo, del diritto che non spetta né per natura né per appartenenza o nascita, o paradossalmente addirittura per differenza, ma che ha da essere individualmente conquistato.
In questo senso la scuola non deve garantire diritti: deve garantire le condizioni perché maturi la coscienza del diritto, e queste condizioni non possono prescindere dalla coscienza e dall’assunzione del dovere. Il diritto allo studio è un diritto a studiare, non genericamente a frequentare le aule scolastiche: e si accompagna in automatico al dovere di consentire anche ad altri di farlo, rispettando tutte le regole che sono garanti delle condizioni necessarie per lo studio.
Che c’entra tutto questo con gli stranieri? mi si obietterà. È semmai un discorso che vale per tutti. Appunto. Proprio perché dovrebbe valere per tutti, e già si stenta a farlo passare, non dobbiamo metterci nella condizione di operare dei distinguo e delle eccezioni, se non vogliamo far saltare l’intero l’impianto. È necessario, ripeto, limitare il più possibile ogni condizionamento esterno. Che non significa vivere sulle nuvole, creare campane di vetro o fingere che la realtà attorno non esista, ma frapporre un filtro che consenta di leggere criticamente questa realtà, di non considerarla come ineluttabile.
Non sto dicendo nulla di nuovo. È il ruolo che la scuola ha svolto da sempre, pur senza esserne investita. La trasmissione stessa di conoscenze, che è una consacrazione della realtà, si è tradotta in ogni epoca in educazione di competenze critiche, e quindi in una dissacrazione. È un ruolo che deve continuare a svolgere, oggi più che mai, perché ad educare al consenso si dedicano già con fervore una miriade di altre fonti: ma per farlo deve difendere con i denti la sua autonomia, anzi, deve conquistarsene una che non ha, e può cominciare proprio dal modo in cui affronterà il problema stranieri.
Ecco, magari in questo senso, se ci imporremo di considerare i nostri studenti come individui, e non come “portatori di culture”, nostra o altre che siano, potrebbero davvero rivelarsi una “risorsa”.