Buoni propositi

di Paolo Repetto, 31 dicembre 2021

Sono le otto del mattino del 31 dicembre e ho deciso di accettate la sfida. La sfida è con me stesso, e consiste nel riuscire a buttar giù entro le prossime dodici ore un elenco di possibili temi di discussione con i quali festeggiare (insomma) la dipartita di questo ennesimo anno funesto. È una cosa da fare entro le venti per consentire a Fabrizio di postare il tutto sul sito, ed entro oggi perché immagino una serata in tono minore (o maggiore, a seconda dei punti di vista) per un sacco di gente, soprattutto per gli amici che non godranno della mia compagnia: un capodanno trascorso mestamente in casa, col rischio di intossicazione alcoolica o televisiva. Ho quindi in mente come destinatarie di questo messaggio riunioni amicali o familiari ristrette, di quelle in cui lo spazio per la comunicazione di eventi quotidiani positivi o negativi (accoppiamenti/separazioni, promozioni/problemi sul lavoro, ecc. ) o di gossip ordinario è molto ridotto, perché si sa già tutto di tutti, mentre è per una volta un po’ più ampio quello temporale per affrontare argomenti di stampo diverso. Ma potrebbe anche essere il caso di un capodanno solitario, o di coppia, e in questo caso l’interlocutore potrebbe diventare magari il computer (sono un po’ scettico sul livello del dibattito domestico, a prescindere dall’oggetto dibattuto).

I temi che propongo alla discussione non sono in effetti quelli scelti di solito per riempire l’attesa di un’ora tanto simbolica. Ma anche gli argomenti apparentemente meno distensivi possono essere trattati con un filo di leggerezza, come si conviene alla specifica occasione: ad esempio, riflettendo sul fatto che nelle varie parti del globo quell’ora è diversa, che in Australia quando noi facciamo fare il botto allo spumante si accingono al primo pranzo dell’anno nuovo, mentre a New York escono dal lavoro dell’ultimo giorno di quello vecchio. E che per altri ancora, più della metà dell’umanità, il capodanno arriva in un altro giorno (quello ortodosso, ad esempio, il 14 gennaio) o addirittura in un altro mese (quello cinese il 1 febbraio). Il che sarebbe già più che sufficiente a togliere ogni sacralità e legittimità al nostro festeggiamento, e a farci laicamente decidere di andare a letto (col che il problema di riempire l’attesa non si porrebbe).

Buoni propositi 02Mettiamo però che per qualche loro ragione, fosse anche solo per abitudine, il gruppetto, la coppia o il singolo decidano di tirare dritto e approdare alla mezzanotte. Non possono rimanere con forchetta e coltello in mano dalla cena all’ora x, almeno qui in Piemonte, dove il pasto serale inizia alle 20. Bisogna mettere sul tavolo, oltre ai ravioli, alle lenticchie, ai panettoni e alle bevande, anche qualcos’altro. E non è necessario farlo in maniera ufficiale, dichiarando il tema della serata e inducendo subito tutti a lasciar cadere le braccia e le posate. Si può buttare l’amo con leggerezza, innescandovi un banale riferimento o una battuta: che so, la nascita di un nipote o il rifiuto sempre più diffuso di responsabilità familiari da parte dei figli potrebbe aprire la strada a un dibattito sulla sovrappopolazione; una considerazione sul tipo di fauna che monopolizza i programmi televisivi potrebbe far scivolare verso la questione gender, ecc. L’importante è che poi la discussione e le argomentazioni rimangano su un piano di assoluta levità: ovvero, non scadano nel litigio o nella volgarità, e l’occasione non venga sfruttata per tenere conferenze o impartire lezioni.

Confesso però che quello dell’attesa “impegnata” è solo un escamotage. Non sono così sadico da voler rovinare a qualcuno la serata. Il vero scopo di questo elenco non è quello di nobilitare “culturalmente” la vigilia. L’ho pensato come un’agenda da trasmettere al prossimo anno: una serie di punti che vorrei vedere trattati nell’immediato futuro sul sito, con tutta la serietà possibile, che significa con ragionevolezza e con un po’ di cognizione di causa. La sfida in questo caso non è al tempo, ma agli amici e a tutti i frequentatori del nostro sito. Esistono senza dubbio innumerevoli altri argomenti di altrettanta rilevanza, ma quelli che troverete elencati già bastano ed avanzano per giustificare l’attività di riflessione di un intero anno, e anche di quelli successivi, se verranno. Ed è evidente che nessuno ha la presunzione di dare risposte o scovare formule che salvino il mondo o ne correggano anche in infinitesima parte le storture: semplicemente, si tratta di viverci, in questo mondo, per quel poco di tempo che ci è dato, in maniera per quanto possibile consapevole e dignitosa. Di provarci, almeno.

Col che, bando alle chiacchiere e passiamo a considerare questi possibili argomenti. Non li elenco secondo un qualche criterio di rilevanza, ma semplicemente in ordine di apparizione (alla mia mente)

Buoni propositi 031. L’intelligenza artificiale, ad esempio. Viene per prima perché è lo stimolo che ha fatto scattare tutta questa operazione. Ne ragionavo ieri con Nico, e mi è rimasto in testa. Non è, come dicevo sopra, uno degli argomenti di cui si parla normalmente a tavola, soprattutto in questo periodo, nel quale la pandemia ha fatto uscire semmai allo scoperto un grave deficit di intelligenza naturale. Ma il motivo vero per cui non se ne parla è che le competenze in proposito sono decisamente poco diffuse. Preferiamo lasciare che se ne occupino i matematici, gli informatici e i cognitivisti.

Eppure, con l’intelligenza artificiale già conviviamo da un pezzo. È applicata in campo medico, nel controllo della finanza, nella traduzione e nell’elaborazione di testi. Abbiamo a che farci quotidianamente guidando le automobili di ultima generazione, segnatamente quelle elettriche, e stanno arrivando quelle a guida totalmente autonoma. Oppure, nella comunicazione, interloquiamo costantemente con assistenti telefonici automatici, mentre oltreoceano troviamo addirittura quotidiani già diretti da un software. Il fatto è che, a differenza di quanto accade per i mutamenti climatici, questa presenza non la notiamo granché, ad essa ci stiamo rapidamente assuefacendo. Ma non è nemmeno questo il nocciolo del problema. La domanda è: sarà in grado l’intelligenza artificiale di superare quella umana? E se si, quali possono essere le conseguenze? Io naturalmente qualche idea ce l’ho, e la butto lì come innesco alla riflessione. L’intelligenza artificiale è in grado di viaggiare, nell’elaborazione dei dati e nella formulazione delle risposte, a una velocità infinitamente superiore a quella del cervello umano. Il suo vantaggio è questo. Il suo handicap, paradossalmente, è invece costituito dal fatto che non può sbagliare, almeno in relazione alle cose per le quali è programmata. E noi sappiamo che le conquiste umane, l’evoluzione stessa, si basano sulla possibilità di errore: ogni mutazione biologica è frutto di un errore di duplicazione cromosomica, ogni grande scoperta è frutto di uno scarto da quella che appariva la giusta strada. Quindi: l’intelligenza artificiale, per complessa che sia, non dovrebbe arrivare a superare quella umana. Ma senz’altro può mettere fuori gioco quest’ultima, proprio in ragione della velocità. Abbiamo sempre più bisogno di questa velocità, ma a questo punto l’intelligenza artificiale è diventata autoreferenziale ed è essa stessa a indurre questo bisogno, lasciandoci sempre più indietro. Già si stanno creando le condizioni per le quali non riusciremo più a tenerla a bada. Inoltre, proprio perché organizzata in modo da non contemplare l’errore, l’intelligenza artificiale sviluppa e impone una logica tutta sua, lineare, con la quale interpreta un mondo che lineare non è affatto, che è invece dominato da forze che sfuggono a qualsiasi riduzione ad algoritmo, e abitato da uomini che agiscono in maniera tutt’altro che logica e prevedibile. L’unica cosa che possiamo ragionevolmente prevedere è che, comunque la si metta, non ne verrà fuori nulla di buono.

Buoni propositi 042. Altro argomento poco affrontato all’ora di cena, ma anche in tutte le altre, è quello del sovrappopolamento del pianeta, In questo caso a indurci a glissare sono diversi fattori. Intanto la convinzione che si tratti di un fenomeno ineluttabile, rispetto al quale non c’è politica o scelta che tenga, e che sarà semmai la natura stessa presto o tardi a farsene carico. Poi il disagio, un fastidio da un lato e quasi un senso di colpa dall’altro, che proviamo nel renderci conto come in realtà dalle nostre parti sia in atto già da un pezzo un decremento demografico, mentre altrove, nelle aree che un tempo erano definite sottosviluppate e che in gran parte sono effettivamente tali ancora oggi, la direzione si inverte. Di oggettivo ci sono solo alcuni dati: ci stiamo approssimando agli otto miliardi, e a questo ritmo il prossimo capodanno li avremo superati, perché la popolazione mondiale è cresciuta nell’ultimo anno di oltre ottantun milioni: negli ultimi trentacinque anni è rimasta pressoché stabile in Europa, è più che raddoppiata in Africa, è aumentata di oltre il cinquanta per cento in Asia e in America Latina, e del quaranta per cento nell’America del nord. In Italia il saldo demografico è negativo da dieci anni, il che significa che la popolazione è calata sotto i sessanta milioni, dopo averli abbondantemente superati: quello naturale, il rapporto cioè tra nati e morti, è stato lo scorso anno quasi di uno a due, le nascite sono state la metà dei decessi. Sulle cause di questi differenti fenomeni non mi dilungo, dovrebbero essere appunto il sale della discussione.

Lo stesso vale per le proiezioni: quelle più catastrofiche parlano di una popolazione mondiale che toccherà i dodici miliardi alla fine di questo secolo, altre più ottimistiche si fermano a quasi nove miliardi, prevedendo un picco verso la metà e un calo considerevole nell’ultimo quarto. Ma anche questa seconda prospettiva non modifica significativamente la portata del problema, perché il peso della popolazione è già oggi insopportabile per il globo, e considerando anche lo stato attuale di sfruttamento delle risorse, a partire dall’acqua, la stima di quello ottimale per ripristinare un equilibrio non va oltre i tre miliardi. E non basta appellarsi ad una distribuzione più equa delle risorse: comunque divisa, la torta rimane quella.

Bene, tutte queste cifre spiegano il perché del nostro senso di impotenza e il modo in cui la crescita si differenzia spiega invece il perché del nostro disagio. In sostanza: il decremento demografico in teoria ci va bene, solo vorremmo che si verificasse anche nelle altre parti del mondo. Ma il decremento comporta anche un invecchiamento medio della popolazione, quindi sempre meno lavorativi attivi in grado di garantire il benessere di quelli inattivi. Il che rimanda immediatamente al tema dell’immigrazione. In Italia, ad esempio, abbiamo bisogno di importare forza-lavoro, ma in questo modo importiamo anche culture non sempre compatibili con la nostra (con buona pace dei multiculturalisti): per garantire la sopravvivenza di quest’ultima (sempre che lo si ritenga necessario, e anche su questo le opinioni sono molto diverse) dovremmo invece favorire una politica di incentivazione delle nascite, sul tipo di quelle adottate nei paesi del nord Europa. Contravvenendo però in tal modo a quello che la natura suggerisce. Insomma, un gran pasticcio, del quale siamo decisamente poco consapevoli e meno ancora informati.

Buoni propositi 053. Si parla molto, invece, anche troppo, di identità di genere, e l’impressione è che lo si faccia sempre in termini sbagliati, o quantomeno ambigui. In realtà se ne sente parlare quasi esclusivamente da chi questa identità la vive come un problema, ciò che di per sé sarebbe più che giusto, o da chi l’ha ridotta allo stato “liquido” oggi tanto di moda, e questo invece ci irrita. A disturbarci sono prima di tutto i modi e i luoghi della discussione, l’esasperazione isterica e i salotti televisivi, la sua resa totale alla spettacolarizzazione. Nemmeno questo è dunque un argomento conviviale, sia pure per tavolate ristrette, perché affrontarlo ci mette in difficoltà: da un lato c’è sempre il rischio di urtare la sensibilità di qualcuno direttamente o indirettamente interessato, dall’altro abbiamo timore di essere fraintesi, oppure proviamo la sensazione di tradire la nostra vocazione “di sinistra”, progressista, che dovrebbe vederci disponibili alle più ampie aperture. Finisce così che quando capita di sbatterci contro liquidiamo la faccenda o assumendo posizioni ideologizzanti o trincerandoci sarcasticamente dietro banali battute.

Questo accade perché ancora una volta un problema reale, quello di educare alla parità e al rispetto delle differenze e a considerare le diversità un valore, è stato estremizzato sino all’affermazione dell’inesistenza di differenze tra i sessi biologici, dalla quale discenderebbe la possibilità di variare a piacimento la propria identità sessuale. Leggevo ieri che in Danimarca dall’anno entrante l“appartenenza” sarà anche ufficialmente quella “percepita” dal soggetto, sarà cioè sufficiente dichiararla per cambiare il proprio stato anagrafico. Le ricadute di carattere sociale, giuridico e psicologico sono difficili da immaginare, e infatti sino ad oggi l’esercizio è stato proprio quello di provare a immaginarle, troppo spesso però, anzi, quasi sempre, fermandosi al livello della barzelletta o del paradosso. Anche se personalmente non ritengo che al problema si debba dare una priorità assoluta (contrariamente a quanto abbiamo visto accadere con la legge Zan, che ha provocato addirittura tumulti in parlamento, mentre all’atto della discussione e dell’approvazione di una legge sull’eutanasia Montecitorio era deserto), forse varrebbe la pena di cominciare a trattarlo con un po’ di serietà, lasciando da parte ogni “politicamente corretta” ipocrisia.

Buoni propositi 064. In questo gioco delle ipocrisie la “sinistra”, o quel che ne resta, o quel che ancora si autoetichetta tale, senza dubbio primeggia. Non avendo uno straccio di idea, di progetto, di visione del presente e tanto meno del futuro, vive di continui apparentamenti, insegue movimenti e campagne d’opinione specifiche, cerca di stare al passo con un mondo in trasformazione ma non ha chiara nemmeno la direzione in cui muoversi. La miopia relativa al presente e al futuro nasce dalla rimozione del passato. Voglio dire che la sinistra, quella eterodossa non meno di quella tradizionale, non ha mai fatto una pulizia reale nella propria storia: nel secondo caso l’ha semplicemente messa in soffitta pensando di potersi riconvertire (in cosa?) senza pagare alcun dazio, nel primo continua a trastullarsi con scampoli di nostalgie o con cause abbracciate senza alcuno spirito critico, per avere una qualche bandiera, uno slogan, una kefiah da esporre, e un nemico su cui scaricare i mali del mondo. Mi piacerebbe poter sognare una “rifondazione” della sinistra a partire da alcune basilari prese d’atto, ad esempio quella relativa all’inesistenza di una “natura umana” positiva (alla Rousseau, per intenderci) e alla “naturalezza” invece delle soluzioni culturali escogitate dall’uomo per garantirsi la sopravvivenza, con tutto quel che nel bene e nel male ne è conseguito: ma sembra proprio si continui a viaggiare nella direzione opposta. Anzi, a marciare sul posto. L’antisemitismo sinistrorso riemergente e la riscoperta di un’antropologia ideologizzata (i pacifici cacciatori-raccoglitori del paleolitico, le società libere dei nomadi) sono lì a confermarmelo.

Questo si, è un argomento da tavolata, anche di fine anno. Lo è stato, almeno, ai vecchi tempi prepandemici (gli anni ormai sembrano secoli), quando le tavolate si facevano e parlare di sinistra sembrava avere ancora un senso. Potrebbe essere l’occasione per riprendere in piccolo l’abitudine, e il senso reinventarlo. Mi riferisco naturalmente non alla serata, ma all’anno che verrà, anche se nulla vieta di anticipare un po’ i tempi. Ma in questo caso va fatta attenzione al menù: la discussione sulla sinistra si concilia bene solo col cotechino.

Buoni propositi 075. Il cotechino rappresenta un piccolo tassello di conservazione della memoria. Rimanda al maiale, alla sua importanza nell’economia e nella dieta contadina, ai significati positivi che in quella alimentazione rivestivano i cibi molto grassi e alle simbologie ad essi connesse. Questo della conservazione della memoria è un altro tema particolarmente consono alla serata. In fondo si celebra un rituale tradizionale di rinnovamento, che sia pure in tempi diversi è presente presso tutti i popoli della terra.

Due letture recenti mi hanno indotto, attraverso sollecitazioni molto differenti, a soffermarmi proprio su questo tema. Nel saggio La memoria del futuro Alexander Stille analizza i modi in cui, nel vorticoso avvicendarsi dei mutamenti tecnologici, il nostro rapporto con il passato si sta trasformando. Questo rapporto dipende da come il passato lo registriamo, lo fissiamo, ed è naturalmente molto diverso farlo attraverso la tradizione orale, con la scrittura o con le tecnologie informatiche. Ciò può sembrare lapalissiano, ma la cosa si fa interessante quando consideriamo ad esempio la differente idea di conservazione presente nelle culture architettoniche del legno rispetto a quelle della pietra. I giapponesi, per citare un caso, ricostruiscono ritualmente ogni vent’anni tale e quale un tempio scintoista realizzato nel VII secolo d.C., e affidano la patente di antichità piuttosto all’idea che alla sua espressione concreta. Allo stesso modo in Cina prevale la cultura della copia: dal momento che la maggior parte dei dipinti cinesi erano eseguiti su carta, l’opera degli artisti maggiori ci è stata tramandata nei secoli attraverso la realizzazione di copie. Al contrario, in Occidente hanno prevalso tecniche come l’affresco, la pittura a olio e, in campo architettonico, le costruzioni in pietra. Ha prevalso la cultura dell’“autenticità” materiale.

Buoni propositi 08Ora, questo ha qualcosa a che vedere con le lenticchie e tutto il resto? In un certo senso si, e mi riferisco soprattutto alle modalità conservative orientali, dal momento che quelle che chiamiamo tradizioni son in realtà delle copie, nel nostro caso nemmeno tanto fedeli, di costumi antichi. Ma quel che trovo interessante non sono tanto i modi quanto i moventi alla conservazione. Voglio dire: ha senso tenere in vita queste testimonianze del passato, quando poi nella realtà, al di là di un interesse puramente affettivo o nostalgico (quando va bene), esse non ci parlano più?

Me lo chiedevo proprio ieri, dopo che gli effetti collaterali di una ricerca sul web mi avevano condotto ad un sito che ospitava storie a fumetti complete, tratte dal Vittorioso dei primi anni Cinquanta. Le ho scaricate tutte, di alcune avevo un vago ricordo, altre le ho scoperte per la prima volta, ed emanavano lo stesso fascino che mi aveva ammaliato quando le leggevo a sette o otto anni. Mi è parso di aver ritrovato un tesoro, ma appena l’entusiasmo ha cominciato a scemare ho realizzato che quel tesoro non era più spendibile, era tutto in valuta fuori corso, non avrei potuto trasmetterlo nemmeno a mio nipote.

A questo volevo arrivare. Il cotechino ci sta benissimo, e così i ravioli, o le lasagne, o qualsiasi altro piatto legato al rituale celebrativo. Ma manca l’ingrediente principale, non dico la fame, perché non l’ho mai conosciuta, ma almeno l’eccezionalità del menù, quella che creava e giustificava l’attesa. Vale lo stesso per la storia. Non c’è più fame di storia, perché la storia era un propulsore per l’avvenire, e oggi non c’è più avvenire. Quella che consumiamo è storia ripulita, precotta, offerta in confezioni plastificate, che si può congelare e scongelare a piacere. Spesso non nemmeno tale, è soltanto “memoria”, che oggi tira molto di più. Soprattutto ci viene servita in mezzo a innumerevoli altri piatti altrettanto appetitosi, e i gusti si perdono e si confondono. Qual è allora la vera ragione per la quale ci ostiniamo nell’opera di “conservazione”?

Mi sembra a questo punto che il menù sia già sin troppo ricco: può riuscire pesante. Ma volendo si potrebbero introdurre delle varianti: i temi cui attingere non mancano, soprattutto se si scende ai piatti poveri, e vanno dallo stato pietoso dell’informazione alla rinnovata fenomenologia della stupidità, dal breve risveglio ambientalista allo stordimento culturale ed emozionale da pandemia.

Manca solo il dessert, e quello lo offro io, assieme alla promessa (alla minaccia?) che su questi temi tornerò.

Buoni propositi 09Dunque. Due settimane fa sono andato a prendere mia figlia Chiara che sbarcava a Linate. Tra ritardi e controlli sanitari rafforzati ho atteso più di un’ora davanti al varco d’uscita, cosa che si verifica ogni volta e che tutto sommato non mi spiace più di tanto, perché mi consente una panoramica spesso assai divertente sul mondo dei traveller’s. Stavolta però a guastarmi il piacere c’erano sei cani, che giustamente per tutto il tempo dell’attesa hanno fatto cagnara, con sommo compiacimento dei loro padroni, che al contrario dei cani hanno subito fraternizzato. Non mi era mai capitato prima, credevo anzi che fosse loro interdetto l’accesso. Non solo, ma quando finalmente i passeggeri sono sbarcati, all’apparire dal varco il loro grido di gioia era rivolto non a genitori o fratelli o fidanzati, ma ai cani, e così anche il primo abbraccio. Ora, io mi chiedo, e vi chiedo: tutto questo, vorrà dire qualcosa?

Avete un anno per pensarci. Oppure, se pensare vi costa troppa fatica, prendetevi un cane.

Ma che bella giornata!

di Paolo Repetto, 23 giugno 2020

Scendo con la borsa dei rifiuti domenicali. Il cassettone della plastica è, come al solito, strapieno. Ai suoi piedi sono depositati una decina di sacchetti o di scatole di cartone stipati di ogni cosa. Faccio quattordici passi e arrivo all’altro contenitore, al lato opposto dell’esile striscia di “verde pubblico”. È praticamente vuoto. Sono undici metri esatti: lo so perché un tempo mi allenavo a battere i rigori, e la distanza la misuravo appunto in quattordici passi.
Per recuperare l’auto percorro un tratto di marciapiede lungo lo spalto. Lo scorso anno era presidiato da un simpatico e attivissimo ivoriano, armato di raspino e di paletta, col quale ci siamo anche bevuti un paio di caffè e che avrebbe potuto essere l’uomo ideale per la manutenzione del Capanno e del terreno attorno. Il ragazzo non c’è più, qualcuno deve aver segnalato che lavorava e lo avranno immediatamente rimpatriato. Ora le erbacce possono finalmente esplodere nelle crepe del marciapiede, dandoti la gioiosa sensazione di camminare in un sentiero di campagna. Quanto meno, nascondono le cacate dei cani portati a passeggio (avevo già scritto deiezioni, ma è troppo heideggeriano), così che uno le possa agevolmente calpestare ed apprezzare.
In compenso, al primo semaforo è ricomparso il tizio che passa di auto in auto col bicchierino di plastica per l’obolo. Ormai fa parte della segnaletica, ha memorizzato perfettamente i tempi, quando si ritira dalla strada puoi rimettere in moto. Un pulmino lo scarica puntuale ogni mattina assieme ad altri compagni di sventura e passa a recuperarlo la sera. Va avanti così da un paio d’anni. Tutto regolare, comunque: ha la mascherina. E intanto facciamo i flash mob contro lo schiavismo.
Percorro il viale che porta fuori dalla città. È stato appena riasfaltato, dopo essere rimasto chiuso per sei mesi per l’interramento dei cavi della banda larga. Il tempo sufficiente ai cinesi per costruire un’autostrada transafricana da un oceano all’altro. Qualcosa non ha comunque funzionato nella stesura del nuovo manto, perché sembra una pista da cross. A percorrerlo in bicicletta c’è da lasciarci la prostata, ma anche in macchina è una bella prova, sia per gli ammortizzatori che per le reni del conducente.
Alla rotonda finale un idiota inverte le precedenze e per un pelo non si schianta contro un’utilitaria. Non accenna minimamente a scusarsi e fila via sgommando. Vedo nel retrovisore che la ragazza sull’utilitaria, appena superata la rotonda, accosta di lato e scende a respirare. Se la deve essere fatta addosso.
Finalmente sono fuori città. Non accendo nemmeno la radio, non voglio sentir parlare di Conte o di Zanardi (siamo andati avanti per mesi, e ancora non è finita, con centinaia e centinaia di morti anomale e anonime ogni giorno: tutto questo clamore mi sembra un tantino fuori luogo). Voglio godermi il sole di una mattina radiosa, l’aria ancora frizzante e lo spettacolo di una campagna riesplosa ormai da un pezzo. Quest’ultimo però è un po’ disturbato. Nelle cunette ai lati della carreggiata l’erba è alta quasi un metro, e subito al di là c’è una vera e propria striscia di foresta incipiente che copre la vista sui campi. I proprietari decespugliano fino al limite del coltivo, la provincia ripulisce, quando lo fa, solo un metro di margine, rimane la terra di nessuno intermedia, libera di pullulare rigogliosamente e di occultare le schifezze lanciate dai finestrini. Tempo fa avevo proposto di organizzare per i cantonieri provinciali delle gite di istruzione in Austria, perché si vergognassero alla vista delle cunette rasate e pettinate ogni mattina, e per i coltivatori, che là saranno anche pagati per tenere in ordine i terreni, ma almeno lo fanno.
In compenso la strada è rimasta esattamente come lo scorso anno. Durante tutto l’inverno non è sceso un solo fiocco di neve, per cui le buche sono ancora quelle, solo un poco più profonde, perché ulteriormente erose dalla pioggia. Mentre mi esercito in uno slalom che ormai non è nemmeno più eccitante, perché conosco a memoria il tracciato ideale e gli ostacoli, ripenso a ieri sera. Sono andato a prendere mia figlia alla stazione, in tarda serata. Nel piazzale antistante ho assistito ad una lite tra un paio di ragazze di colore e tre loro connazionali che per certo non appartenevano all’esercito della salvezza, con urla e pianti e minacce. Nell’atrio della stazione due poliziotti non si sono lasciati distrarre, hanno continuato a presidiare stancamente lo sbocco del sottopassaggio, dal quale peraltro non sbucava nessuno, perché i treni erano regolarmente tutti in ritardo. Per fare un flash mob eravamo decisamente pochi.
Sotto la pensilina esterna dove ero tornato per fumare, visto che i treni se la prendevano con calma, tre teppistelli di età e di provenienza incerta, di quelli che portano il cavallo dei pantaloni sotto le ginocchia, stavano motteggiando con toni pesanti una ragazza visibilmente impaurita, implorante nervosamente qualcuno che avrebbe dovuto venire a prenderla ed era meno puntuale ancora delle ferrovie dello stato. Le ho fatto cenno di mettersi di fianco a me e ho provato ad incenerire con gli occhi, al di sopra della mascherina, quegli idioti. Qualcosa del disprezzo e della rabbia che mi agitavano deve comunque essere venuto fuori, perché si sono allontanati, sia pure sghignazzando e sputacchiando a destra e a manca, e centrando in pieno il parabrezza dell’auto di un’attempata signora che guidava col finestrino abbassato.
Quando ho recuperato Elisa la mia gamba destra stava ancora ballonzolando, e questo è sempre stato per me il segnale d’allarme del punto di rottura. Prima che ora la gamba riparta nuovamente cerco di cambiare registro, di riandare a cose più piacevoli. In mattinata ero tornato, dopo quattro mesi, al mercatino di Borgo d’Ale. Un sacco di gente, pochi vuoti anche nelle file dei banchi. Bene organizzato, tutti con la mascherina, igienizzanti per le mani dovunque, percorsi a senso unico lungo le file, guidati da enormi frecce bianche dipinte per terra, per evitare i contatti da incrocio. Peccato soltanto che nessuno li rispettasse.
A questo punto devo interrompere bruscamente il filo dei ricordi per inchiodare e lasciar rientrare un demente che mi sta superando in piena curva. È la stessa nella quale lo scorso anno ho scansato per miracolo un altro demente che stava facendo l’analoga bravata in senso opposto. Ormai sono però quasi in vista di Lerma. Ai lati scorre una fila di capannoni industriali uno più brutto e più fatiscente dell’altro. Ne conto trentaquattro, altri sono nascosti nella parte verso il fiume da provvidenziali macchie d’alberi. Di quelli che ho registrato almeno una dozzina sono abbandonati, qualcuno non è mai andato oltre lo scheletro. D’altro canto, qui tutti sanno che per la gran parte la vera destinazione d’uso non era quella sopra la superfice, ma quella sotto. Un paio d’anni fa l’ente che si occupa dei controlli ambientali ha registrato la presenza di strane sostanze nelle acque del Piota, che a monte di questo insediamento industriale non riceve scarichi di alcun tipo. Ma nessuno si è preso la briga di fare due conti e tirare le somme. In compenso noto che stanno invadendo un altro campo nel quale l’ottobre scorso c’era ancora il granoturco, e livellando il terreno. Chissà quanti rifiuti tossici si sono accumulati in questo periodo, a dispetto della quarantena.
Finalmente lascio la piana e salgo verso il paese. La manutenzione dei bordi della strada è sempre la stessa, ma qui non ci si fa più caso, è la natura che si riconquista i suoi spazi e può persino andar bene. Un ultimo sobbalzo all’ingresso in paese. Sul primo muretto, là dove fino a ieri c’era la scritta “W Bartali”, adesso c’è un logo indecifrabile tracciato con le bombolette spray. Ma stanno rimuovendo il vecchio intonaco, sparirà anche quello.
Quando scendo dall’auto, in cortile, e rivedo le mie piante di rose totalmente spoglie, e le peonie rinsecchite e minuscole (le noto perché lungo tutto il percorso ho visto roseti incredibili traboccare dalle recinzioni delle villette, con fiori grandi come piatti da portata e dalle sfumature di colore più stupefacenti), mi accorgo con sorpresa che sono totalmente rilassato. Davvero mi sorprendo, perché oggi lungo il percorso e ieri in Alessandria di rilassante non ho visto granché.
Poi, mentre salgo le scale di casa, finalmente capisco. Ora so il perché di questa sensazione di tranquillità. È che ho constatato come, al di là di tutte le profezie e le previsioni e le analisi socio-psicologiche, in questi quattro mesi nulla e nessuno è davvero cambiato, tranne forse me, che sono invecchiato di colpo di altri dieci anni. Certo, nel futuro prossimo ci saranno crisi economiche, nuove ondate pandemiche, proteste magari violente, ma noi nella sostanza siamo rimasti gli stessi. Non è necessario reggere cinque minuti di un notiziario o di una qualsiasi trasmissione televisiva per capirlo. Tutto è esattamente come prima, magari un po’ peggio.
In effetti la mia non è tranquillità, ma rassegnazione: e tuttavia, egoisticamente, significa che non sarà il caso di caricare le povere ossa di rinnovate speranze e illusioni. Il legno storto di kantiana memoria continuerà a crescere sghembo, fino a che gli sarà consentito crescere, e per me si tratterà invece di resistere solo un altro poco. Per adesso però mi godo questa splendida giornata di sole. Senza mascherina.

Camera con vista sul futuro

di Paolo Repetto, 9 aprile 2020

Da un mese e mezzo vivo confinato in un terrazzino al settimo piano. Fortunatamente è orientato a sud, e aggetta su un fazzoletto triangolare di verde, al di là del quale corre un ampio viale e si allarga poi una distesa periferica di costruzioni basse. Non mi è quindi impedita la vista in lontananza, a centottanta gradi, dei profili dell’Appennino retrostante Genova: del Tobbio, delle alture della Val Borbera e di quelle della valle dell’Orba. Consolazione magra, ma di questi tempi ci si aggrappa a tutto.

Più che all’orizzonte, però, anche per non rinfocolare troppo la nostalgia, quando alzo la testa dai libri guardo in questi giorni di sotto, in cerca di forme di vita che si muovano tra lo spalto e il rettilineo di via Testore e mi rassicurino che non è esplosa una bomba al neutrino. La via appare sgombra e inutilmente scorrevole, mentre di norma è intasata da auto in doppia fila, ed è vuoto e silenzioso anche il marciapiede sul quale estate e inverno sostano e schiamazzano gli avventori del bar (e proprietari delle auto in doppia fila), tutti rigorosamente col bicchiere in mano. Solo negli orari consentiti dal decreto c’è una piccola e compostissima fila davanti al minimarket d’angolo.

Quando riguadagno l’interno cerco di rimpicciolirmi il più possibile e di muovermi come un astronauta, lento e levitante. La condizione di quarantena impone naturalmente di trovare linee nuove di compromesso con lo spazio in cui vivi e con chi lo condivide con te. Tre persone per ventiquattro ore al giorno per cinquanta giorni sono più di tremilacinquecento persone, anche al netto delle uscite per i rifornimenti o per le mie mezz’ore quotidiane d’aria attorno all’isolato: uno sproposito, per ottanta metri quadri. A breve saranno a rischio di crollo i palazzi più ancora che i viadotti – anche se questi ultimi, pur sgravati del traffico, continuano allegramente ad afflosciarsi,). Diventa un’arte lo scansarsi.

Non solo: il “distanziamento sociale” induce a cercare nella televisione un surrogato di quel contatto con l’esterno che è venuto drammaticamente a mancare. Ti riduci, non fosse altro per l’aggiornamento sulle perdite giornaliere e sul progredire del contagio, a sedere davanti alla televisione, e stenti poi a rialzarti, perché in effetti non hai altro di urgente da fare. Insomma, se si conserva un po’ di coscienza critica si può verificare su noi stessi cosa significa rimbambimento depressivo.

Questo spiega forse perché mi sforzo di rappresentare invece la mia attuale condizione come un’opportunità, secondo la moda ormai invalsa di considerare opportunità qualsiasi disgrazia o accidente capiti. Non è facile, e infatti ci sto girando attorno senza risolvermi sin dall’esordio di questo pezzo: ma voglio provarci.

Mettiamola così: io godo di un punto d’osservazione privilegiato, rispetto a tutti gli amici che vivono in campagna o dispongono almeno di un piccolo giardino, e soffrono in maniera molto attutita gli “effetti collaterali” di questa crisi. Io vivo nel cuore della battaglia, come un reporter di guerra. Loro non sanno cosa si perdono, perché quando il tran tran quotidiano muta così drasticamente si attivano, per forza di cose, dei sensori diversi, e si colgono aspetti del reale che nella normalità sfuggono o appaiono assolutamente insignificanti.

Ora, senza pretendere a discorsi filosofici o ad analisi psicologiche o sociologiche, per i quali conviene rivolgersi ad altri, vorrei limitarmi a fornire qualche esempio di ciò che una condizione di normalità non ci indurrebbe mai a considerare significativo. Vado in ordine sparso, e lascio aperte queste pagine, come già i miei precedenti interventi antivirali, a ogni sorta di integrazione, correzione e aggiunta.

 

1)    Parto proprio dalla televisione. Non mi sarei mai atteso di scoprire attraverso la tivù quanto è grande il patrimonio librario degli italiani. Con questa storia dello streaming, per cui si interviene da casa, vedo fiorire ovunque insospettabili librerie domestiche. Mi si obietterà che è abbastanza normale, uno non si collega dando le spalle al lavandino della cucina o alla cassetta dello sciacquone, ed è vero: ma vi invito a fare caso, nel corso dei collegamenti, non all’intervistato, che in genere non ha granché di interessante da dire, ma al tipo di scaffalature che ha alle spalle e alla disposizione dei volumi, anche senza cadere nella mia maniacale pretesa di riconoscere dal dorso le case editrici, e quindi gli orientamenti culturali del proprietario, o di leggere addirittura i titoli (questo si può fare meglio sul monitor del computer, ingrandendo e mettendo a fuoco i particolari). A volte il gioco è davvero mal condotto. Ieri ho visto una povera Billy nella quale pochi volumi totalmente anonimi, tipo quelli usati dai mobilieri nelle esposizioni, erano sparsi in assembramenti ridottissimi su ripiani per il resto desolatamente vuoti (non c’erano nemmeno vasi o teste di legno africane o altre suppellettili), e questo solo nella colonna immediatamente alle spalle del parlante. Avendo il tizio calibrato male l’inquadratura si scorgevano le colonne ai lati completamente deserte.  Penso che a un certo punto abbia preso coscienza dell’assurdità della situazione, o qualcuno gliela abbia fatta notare, perché ha cominciato a impappinarsi e ha chiuso frettolosamente il collegamento. Sono rimasto con l’angoscia per quegli scaffali vuoti.

In altri casi, invece, regìe più accorte predispongono una inquadratura di sghimbescio, facendoci intravvedere infilate di scaffali grondanti libri lungo tutta una parete. In realtà ci tolgono l’unico piacere, quello appunto del gioco al riconoscimento.  Si tratta in genere di filosofi o liberi pensatori. I rappresentanti della vecchia guardia, le figure istituzionali, si coprono invece le spalle con solide enciclopedie, trentacinque volumi tutti uguali e tutti ugualmente intonsi, forse per mantenere un profilo neutrale, o trasmettere un’immagine di solidità, ma più probabilmente perché non possono esibire altro. Mentre i direttori di riviste e quotidiani sono preferibilmente incorniciati dalle raccolte cartacee delle loro creature, alla faccia di tutti gli archivi digitali, o dalle intere collane edite in allegato. Insomma, tutto piuttosto pacchiano. C’è un futuro per giovani che volessero specializzarsi in Scenografia delle Screaming, anziché in Storia. Elisa ha perso un’occasione.

Comunque, non mi si venga a dire che l’editoria è in crisi. Non so se gli italiani leggono, ma senz’altro hanno comprato libri. Forse lo hanno fatto recentemente, avendo sentore della crisi e prevedendo i collegamenti in remoto. Ma lo hanno fatto.

In compenso, mia figlia Chiara, che lavora in Inghilterra nel settore finanziario, mi racconta che nelle videoconferenze i suoi colleghi si presentano quasi sempre dando la schiena a quadri di autori in qualche modo riconoscibili e riconosciuti (almeno a livello locale). In Inghilterra va l’arte, in Italia la letteratura (ma proprio stasera, nel salotto-streaming della Gruber, alle spalle della vicepresidente della Confindustria campeggiava un’opera di Gilardi, mentre dietro tutti gli altri convitati virtuali le librerie sembravano in terapia intensiva, tanto il loro respiro era artificiale).

Mi sono anche chiesto come me la caverei io, dovendo collegarmi da casa (non dal terrazzino di Alessandria, ma da Lerma). Sarei in grave imbarazzo, perché in qualunque ambiente e da qualsiasi angolatura avrei alle spalle libri, e tutti libri ai quali tengo e che farebbero la gioia di un riconoscitore, nonché scaffalature autoprodotte. Quindi, o dovrei programmare una serie di interventi con inquadrature diverse, o sarei tenuto per equità a rinunciare. Forse mi conviene adottare quest’ultima soluzione.

 

2)   Per dimostrare che non sono poi così prevenuto nei confronti della televisione, eccomi a riconoscerle dei meriti, quando ci sono. Uno dei più grandi, nella gestione di questo terribile momento, è senz’altro l’oscuramento di Sgarbi. Lo stiamo pagando ad un prezzo altissimo, trattandosi tra l’altro solo di una parziale e tardiva riparazione a una schifezza che andava avanti da anni, ma insomma, aggrappiamoci anche alle piccole consolazioni. Se assieme al virus avessimo dovuto sopportare anche lui la tragedia sarebbe diventata del tutto insostenibile. Rimane purtroppo il timore che non appena cessata l’emergenza possa ricomparire. Dicono che usciremo da questa prova migliori: bene, il suo ritorno o meno sui teleschermi sarà la cartina di tornasole.

 

3)   Un altro merito della tivù è quello di aver dato fondo al magazzino dei film western (quelli veri, intendo). Purtroppo però sto scoprendo che li avevo già visti tutti, e non solo la gran parte, come pensavo. Mara si diverte, ogni volta che durante lo zapping si imbatte in un cappello a larghe tese e in un cavallo, a chiamarmi per verificare se lo riconosco, e a sentirsi elencare all’istante titolo e interpreti, spesso anche il regista. A molti questo esaurimento delle scorte non parrà una cosa di particolare rilievo, ma per me lo è. È sintomatico, simbolico di un ciclo che si è esaurito e di un mondo che ha fatto il suo tempo. Può andare definitivamente in archivio (non mi riferisco solo al western). Il fatto è che dentro quel mondo ci sono anch’io.

 

4)   Cambiano i rituali. Fino a un paio di mesi fa nella mia liturgia mattutina, subito dopo il caffè e la prima sigaretta, veniva il siparietto di Paolo Sottocorona, con le previsioni meteo fino a due giorni avanti, offerte con garbo e ironia, sottintendendo sempre: “se non andrà proprio così non prendetevela con me, faccio quello che posso”. Ho smesso completamente di seguirlo, anche perché di come sarà il tempo nei prossimi due giorni non mi può fregare di meno, visto che li trascorrerò comunque in casa. Ho introdotto invece un rituale vespertino, quello del collegamento con la Protezione Civile, con tanto di snocciolamento delle cifre dei contagi e dei decessi. So che le cifre sono approssimate e virtuali, e che i costi umani reali di questo dramma li conosceremo davvero, forse, solo dopo che si sarà totalmente consumato: ma mi dà l’illusione di partecipare in qualche modo ad una cerimonia collettiva di addio, assieme ad altri milioni di telespettatori, per evitare che sei o settecento persone ogni giorno se ne vadano insalutate, senza un funerale, senza qualcuno che le accompagni, inghiottite immediatamente dalle statistiche.  Che è esattamente il contrario di quanto cercano di fare, ed è anche comprensibile perché lo facciano, coloro che danno l’informazione.

 

5)   Ho provato a tenere una conta differenziata per età e per genere delle persone che incontro al supermercato, che vedo passare dal terrazzino o che incrocio durante i duemila passi quotidiani extra moenia. È probabile che le mie statistiche siano viziate da una deformazione prospettica, da un campionamento troppo parziale, ma io riporto solo quanto ho potuto constatare, e cioè che le percentuali per genere sono inversamente proporzionali a quelle ufficialmente rilevate dei tassi di contagio.  Le donne in sostanza contraggono il virus due volte meno degli uomini, e stanno in giro due volte di più. Forse proprio perché rassicurate dalle statistiche, o forse più semplicemente perché nelle situazioni critiche sono meno ipocondriache e più spicce dei maschi, o magari perché nel fare la spesa non si fidano dei mariti e vogliono avere l’ultima parola nella scelta dei prodotti. Sia come sia, sono protagoniste nella quotidianità dell’emergenza.  Mi faceva notare Nico Parodi che al di là della crisi il tema del nuovo ruolo femminile e delle prospettive che disegna sarebbero da affrontare non più con il cazzeggio degli psicologi e dei sociologi da talk show, ma andando a sommare tutta una serie di evidenze e di proiezioni scientifiche. Credo che qualcuna, di tipo nuovo, verrà fuori anche da questa situazione.

Per quanto concerne invece le classi di età, gli anziani sembrano decisamente molto più girovaghi dei giovani, a dispetto del fatto di essere maggiormente a rischio. Probabilmente anche questo dato ha spiegazioni plurime, compatibili comunque l’una con l’altra. Intanto, già sotto il profilo prettamente demografico in città come Alessandria vivono molti più anziani che giovani, per motivi logistici. Questi ultimi tendono a decentrarsi nella cintura dei paesi attorno, hanno maggiore facilità di spostamento e frequentano probabilmente anche in questo periodo, per gli approvvigionamenti, i grandi centri commerciali periferici. Poi sembra che gli anziani abbiano perfettamente inteso il senso del messaggio lanciato dal governo e rimbalzato da tutte le reti televisive, che non è “Abbiate riguardo per la vostra salute” ma “Non cercatevi guai perché non abbiamo le risorse per curarvi”, e vogliano ribaltarlo, dimostrando di sapersela cavare comunque. Infine c’è il fatto che i giovanissimi, anche se liberi da incombenze scolastiche, non li si incontra al supermercato, perché sono esentati per statuto dal farsi carico del vettovagliamento o di altre incombenze spicciole. È probabile abbiano escogitato luoghi e modi diversi per ritrovarsi, oppure si brasano beatamente davanti al computer o al telefonino (come del resto facevano anche prima).

6)   E i cani, che avevamo lasciato come grandi protagonisti della resistenza allo stress da quarantena?  Continuano stoicamente a reggere agli straordinari cui sono sottoposti, ma rilevo un calo nella frequenza delle uscite, forse connesso a quanto dicevo sopra. Erano infatti soprattutto i giovani a offrirsi come conduttori, e nel frattempo questi hanno trovato scuse diverse per le uscite, o si sono definitivamente poltronizzati. Un’altra cosa piuttosto voglio segnalare. È naturale vedere nelle aiuole qui sotto solo animali di piccola taglia, come si addice a bestiole che vivono in appartamento.  Ma allora, mi chiedo, che fine hanno fatto i pittbull e i mastini tibetani che giravano un tempo? Dispongono tutti di confortevoli giardini? E se no, dove li portano a pisciare? E se si, che ci facevano in giro, prima?

 

7)   Chiudo, per il momento, accennando al rischio molto concreto per tutti dell’abitudine all’ozio. L’ozio forzato snerva, per due principali motivi: da un lato perché dopo aver scatenato una prima insofferenza insinua sottilmente l’idea che i progetti che avevi in mente non siano poi così importanti e così urgenti, visto che comunque non puoi dare loro corso e devi fartene una ragione. Dall’altro, la prospettiva di molto altro tempo vuoto a disposizione spinge a rimandare anche le cose che potresti fare subito, e che ti eri sempre chiesto se mai sarebbe capitata l’opportunità di farle. È quanto mi sta accadendo con tutti i propositi di completamento dei lavori lasciati a metà sul computer, o di lettura dei libri accumulati, cose per le quali persino quando ancora ero in servizio riuscivo a trovare un paio d’ore la sera o di notte, mente adesso giro attorno e inseguo da un libro o da un sito all’altro sempre nuove distrazioni. Sono al punto che l’idea di quel che mi aspetta al rientro a Lerma, dei lavori di riassetto del giardino e del frutteto sconciati dai nubifragi autunnali mi spaventa, e ad ogni nuova dilazione imposta tiro quasi un sospiro rassegnato di sollievo. Non è una sindrome da poco, e non credo di essere l’unico a viverla.  Se un po’ può servire a smorzare l’ansia di accelerazione continua che si viveva in precedenza, oltre un certo limite rischia di convincere alle beatitudini del letargo.

In me quest’ultima pulsione sta già vincendo. Spero di non averla indotta anche in chi, già fiaccato dalla noia, ha provato sin qui a seguirmi.

Stickken: The story of a Dog (di John Muir)

Stickeen The Story of a dog (di John Muir)a cura di Paolo Repetto, 3 marzo 2020

Stickeen

Stikine: La storia di un cane

Stikine

Introduction

by Dan E. Anderson and Harold Wood

In 1880, John Muir made his second trip to Alaska. On this trip he explored Brady Glacier, which empties into Taylor Bay in what is now Glacier Bay National Park, with a friend’s dog, Stickeen. Muir was a great story teller and he told this story many times before writing it down in 1909 as a short story at the urging of several of his friends. Stickeen has been ranked as a classic dog story by many who have read it. John Muir’s Adventure with a Dog and a Glacier

 

Introduction

John Muir’s true story of what happened on an Alaskan glacier with a dog named Stickeen, in 1880, is one of Muir’s best-known writings, and is now considered a classic dog story. Although it can be read as a straight adventure story, it is much more than that. Muir’s story is most compelling because it revealed to Muir that man and dog were not so unlike each other. Stickeen was at first an unfriendly little dog, but after surviving a perilous journey across a glacier by crossing an ice bridge, Stickeen’s aloofness is replaced by rapturous emotion, revealing to Muir the fact that our “horizontal brothers” are not that much unlike us.

Muir wrote, “I have known many dogs, and many a story I could tell of their wisdom and devotion; but to none do I owe so much as to Stickeen. At first the least promising and least known of my dog-friends, he suddenly became the best known of them all. Our storm-battle for life brought him to light, and through him as through a window I have ever since been looking with deeper sympathy into all my fellow mortals.”

Muir spent years telling the story, and close to thirty years before he was able to put it in writing. Though the story itself is a simple one, Muir felt it was the hardest thing he ever tried to write. Muir saw Stickeen as “the herald of a new gospel” adding “in all my wild walks, seldom have I had a more definite or useful message to bring back.” Muir wanted to present that message in the best way possible.

When first published in Century magazine in 1897 (V. 54, no. 5, Sept. 1897, under the title “An Adventure with a Dog and a Glacier), it was heavily edited, with whole sections of what his editor called “digressions” deleted. For the original manuscript, painstakingly re-constructed from the Muir Papers, see Ronald Limbaugh’s book, John Muir’s “Stickeen” and the Lessons of Nature . Muir was able to restore some of his thoughts when he published the story in book form in 1909. It was revised and re-told again in his 1915 Travels in Alaska, and has been re-printed several times since then in all kinds of formats, in the 70’s, 80’s and 90’s.

Muir’s story has inspired several books with outstanding illustrations. The 1990 paperback edition published by Heyday Books, contains outstanding black-and-white illustrations by Carl Dennis Buell. The Donnell Rubay re-telling of 1998 (Dawn Publications) is accompanied by outstanding color illustrations by Christopher Canyon. Another childlren’s picture book of the story was illustrated by Karl Swanson, and written by Elizabeth Koehler-Pentacoff (Millbrook Press). Be sure to read about these these editions below.

See below for Muir’s actual Stickeen writings, plus links to a variety of pages about books, audio, and music that tells more about Muir and his remarkable canine friend, Stickeen.

Muir’s Writings

Books About Stickeen

John Muir’s “Stickeen” and the Lessons of Nature , by Ronald H. Limbaugh (Fairbanks, AK: University of Alaska Press, 1996) Black and White illustrations; Index. Appendix: “Notes on ‘Stickeen’ in John Muir’s Library.” 185 pp.

This scholarly examination of Muir’s famous dog story “Stickeen” helps greatly to illuminate Muir’s growth as a writer. Ron Limbaugh uses “Stickeen” to show how Muir’s literary creativity grew over time, and how it was influenced by major turn-of-the-century ideas and events such as the Darwinian debates and the emerging animal rights movement. Moreover, Limbaugh notes that “Stickeen” is the only literary product from Muir’s pen that can be directly and extensively linked to ideas formulated from the books of his personal library. Accordingly, “Studying its origin and evolution is essential to understanding Muir’s development as a writer and as an advocate for the moral equality of all species.”

John Muir and Stickeen: An Icy Adventure with a No-Good Dog by Julie Dunlap & Marybeth Lorbiecki; Illustrated by Bill Farnsworth. (2004)

A beautifully-illustrated children’s book based on Muir’s own book Stickeen, which tells the thrilling adventure of how Muir set off to explore an Alaskan glacier one day, with the unwelcome accompaniment of Stickeen, and ran into a storm. What happened on that terrifying day made Muir see domestic animals in a new light. For ages 5-8, Grades 1-4. The School Library Journal opines: “Although not the first picture-book version of this story about a harrowing 1880 expedition to Glacier Bay, this excellent rendition is the best treatment so far.” The Journal goes on to note: “The only flaw in the text is that the authors overplay the naturalist’s disdain for dogs in general. While Muir’s own Stickeen (Houghton, 1909) does confirm that he thought Sitckeen to be “small and worthless” and likely to “require care like a baby,” he also states plainly that he did generally like dogs. Apart from this minor mischaracterization, they do a fine job of conveying the wonder that inspired the man’s life work and the peril of this particular exploit. While some portions are condensed and others drawn out, they generally remain faithful to Muir’s own accounts.”

Stickeen: John Muir and the Brave Little Dog, as re-told by Donnell Rubay

This children’s picture book contains beautiful art work by Christopher Canyon. Muir’s story is re-told in simple language, while remaining true to Muir’s words.

John Muir and Stickeen: an Alaskan Adventure, by Elizabeth Koehler-Pentacoff, Illustrated by Karl Swanson.

This picture book is for younger children than Rubay’s book (K-3). The author tells the story in the present tense. Full-color illustrations by Karl Swanson highlight the hostility of the environment and the incredible courage of Muir and his canine companion.

 

 

Audio Renditions

Gerald Pelrine Presents “The Tale of Stickeen”

Gerald Pelrine’s riveting rendition is included on the John Muir Tribute CD.

Gerald Pelrine offers his critically acclaimed characterization of Muir as lecturer reliving the experience and the lessons learned: the great crevasse of the glacier as symbol of “the valley of the shadow of death.” little Stickeen perched atop its rim, the joy of deliverance, and his shattering view of eternity seen through the eyes of “the silent, philosophic Stickeen.”

“Stickeen,” performed by Lee Stetson, CD, 1990.

The icy storm story of a little dog named Stickeen is perhaps the most popular and most loved of John Muir’s many wilderness adventures. Your heart will race with excitement and anticipation as you listen to renowned actor Lee Stetson describe the thrilling adventure of this “little, black, short-legged bunchy-bodied, toy dog” on the Alaskan glacier. You’ll also hear Muir’s other thrilling – and true – animal encounters, with bears, rattlesnakes, pigeons and many more, including dogs, cats and sheep. All are extracted from Muir’s writing and woven by Stetson into a splendid performance. Always exciting, often humorous, these stories present Muir’s “gospel” of preaching the fundamental unity and kinship of all the earth’s life forms.

”Stickeen and John Muir’s Other Animal Adventures” by Storyteller Garth Gilchrist (Nevada City, CA: Dawn Publications, 2000)

Compact Disc.

From the CD cover: Storyteller Garth Gilchrist becomes John Muir, recounting the most beloved of all his adventure stories: bears, flying mountain sheep, a lightning squirrel, wise and hilarious farm animals and wondrous birds. The concluding story, Stickeen [24:22 minutes], is a tale of a life-and-death glacier crossing with an extraordinary dog, through whom Muir finds a window into the hearts of “all my fellow mortals.”

………………

John Muir’s story of Stickeen is also included in the various audio versions of his book, Travels in Alaska.

 

 

Stickeen

by John Muir

In the summer of 1880 I set out from Fort Wrangell in a canoe to continue the exploration of the icy region of southeastern Alaska, begun in the fall of 1879. After the necessary provisions, blankets, etc., had been collected and stowed away, and my Indian crew were in their places ready to start, while a crowd of their relatives and friends on the wharf were bidding them good-by and good-luck, my companion, the Rev. S. H. Young , for whom we were waiting, at last came aboard, followed by a little black dog, that immediately made himself at home by curling up in a hollow among the baggage. I like dogs, but this one seemed so small and worthless that I objected to his going, and asked the missionary why he was taking him.

“Such a little helpless creature will only be in the way,” I said; “you had better pass him up to the Indian boys on the wharf, to be taken home to play with the children. This trip is not likely to be good for toy-dogs. The poor silly thing will be in rain and snow for weeks or months, and will require care like a baby.” But his master assured me that he would be no trouble at all; that he was a perfect wonder of a dog, could endure cold and hunger like a bear, swim like a seal, and was wondrous wise and cunning, etc., making out a list of virtues to show he might be the most interesting member of the party.

Nobody could hope to unravel the lines of his ancestry. In all the wonderfully mixed and varied dog-tribe I never saw any creature very much like him, though in some of his sly, soft, gliding motions and gestures he brought the fox to mind. He was short-legged and bunch-bodied, and his hair, though smooth, was long and silky and slightly waved, so that when the wind was at his back it ruffled, making him look shaggy. At first sight his only noticeable feature was his fine tail, which was about as airy and shady as a squirrel’s , and was carried curling forward almost to his nose. On closer inspection you might notice his thin sensitive ears, and sharp eyes with cunning tan-spots above them. Mr. Young told me that when the little fellow was a pup about the size of a woodrat he was presented to his wife by an Irish prospector at Sitka, and that on his arrival at Fort Wrangell he was adopted with enthusiasm by the Stickeen Indians as a sort of new good-luck totem, was named “Stickeen” for the tribe, and became a universal favorite; petted, protected, and admired wherever he went, and regarded as a mysterious fountain of wisdom.

On our trip he soon proved himself a queer character–odd, concealed, independent, keeping invincibly quiet, and doing many little puzzling things that piqued my curiosity. As we sailed week after week through the long intricate channels and inlets among the innumerable islands and mountains of the coast, he spent most of the dull days in sluggish ease, motionless, and apparently as unobserving as if in deep sleep. But I discovered that somehow he always knew what was going on. When the Indians were about to shoot at ducks or seals, or when anything along the shore was exciting our attention, he would rest his chin on the edge of the canoe and calmly look out like a dreamy-eyed tourist. And when he heard us talking about making a landing, he immediately roused himself to see what sort of a place we were coming to, and made ready to jump overboard and swim ashore as soon as the canoe neared the bench. Then, with a vigorous shake to get rid of the brine in his hair, he ran into the woods to hunt small game. But though always the first out of the canoe, he was always the last to get into it. When we were ready to start he could never be found, and refused to come to our call. We soon found out, however, that though we could not see him at such times, he saw us, and from the cover of the briers and huckleberry bushes in the fringe of the woods was watching the canoe with wary eye. For as soon as we were fairly off he came trotting down the beach, plunged into the surf, and swam after us, knowing well that we would cease rowing and take him in. When the contrary little vagabond came alongside, he was lifted by the neck, held at arm’s length a moment to drip, and dropped aboard. We tried to cure him of this trick by compelling him to swim a long way, as if we had a mind to abandon him; but this did no good; the longer the swim the better he seemed to like it.

Though capable of great idleness, he never failed to be ready for all sorts of adventures and excursions. One pitch-dark rainy night we landed about ten o’clock at the mouth of a salmon stream when the water was phosphorescent . The salmon were running , and the myriad fins of the onrushing multitude were churning all the stream into a silvery glow, wonderfully beautiful and impressive in the ebon darkness. To get a good view of the show I set out with one of the Indians and sailed up through the midst of it to the foot of a rapid about half a mile from camp, where the swift current dashing over rocks made the luminous glow most glorious. Happening to look back down the stream, while the Indian was catching a few of the struggling fish, I saw a long spreading fan of light like the tail of a comet, which we thought must be made by some big strange animal that was pursuing us. On it came with its magnificent train, until we imagined we could see the monster’s head and eyes; but it was only Stickeen, who, finding I had left the camp, came swimming after me to see what was up.

When we camped early, the best hunter of the crew usually went to the woods for a deer, and Stickeen was sure to be at his heels, provided I had not gone out. For, strange to say, though I never carried a gun, he always followed me, forsaking the hunter and even his master to share my wonderings. The days that were too stormy for sailing I spent in the woods, or on the adjacent mountains, wherever my studies called me; and Stickeen always insisted on going with me, however wild the weather, gliding like a fox through dripping huckleberry bushes and thorny tangles of panax and rubus , scarce stirring their rain-laden leaves; wading and wallowing through snow, swimming icy streams, skipping over logs and rocks and the crevasses of glaciers with the patience and endurance of a determined mountaineer, never tiring or getting discouraged. Once he followed me over a glacier the surface of which was so crusty and rough that it cut his feet until every step was marked with blood; but he trotted on with Indian fortitude until I noticed his red track, and, taking pity on him, made him a set of moccasins out of a handkerchief. However great his troubles he never asked help or made any complaint, as if, like a philosopher, he had learned that without hard work and suffering there could be no pleasure worth having.

Yet none of us was able to make out what Stickeen was really good for. He seemed to meet danger and hardships without anything like reason, insisted on having his own way, never obeyed an order, and the hunter could never set him on anything, or make him fetch the birds he shot. His equanimity was so steady it seemed due to want of feeling; ordinary storms were pleasures to him, and as for mere rain, he flourished in it like a vegetable. No matter what advances you might make, scarce a glance or a tail-wag would you get for your pains. But though he was apparently as cold as a glacier and about as impervious to fun, I tried hard to make his acquaintance, guessing there must be something worth while hidden beneath so much courage, endurance, and love of wild-weathery adventure. No superannuated mastiff or bulldog grown old in office surpassed this fluffy midget in stoic dignity. He sometimes reminded me of a small, squat, unshakable desert cactus. For he never displayed a single trace of the merry, tricksy, elfish fun of the terriers and collies that we all know, nor of their touching affection and devotion. Like children, most small dogs beg to be loved and allowed to love; but Stickeen seemed a very Diogenes , asking only to be let alone: a true child of the wilderness, holding the even tenor of his hidden life with the silence and serenity of nature. His strength of character lay in his eyes. They looked as old as the hills, and as young, and as wild. I never tired of looking into them: it was like looking into a landscape; but they were small and rather deep-set, and had no explaining lines around them to give out particulars. I was accustomed to look into the faces of plants and animals, and I watched the little sphinx more and more keenly as an interesting study. But there is no estimating the wit and wisdom concealed and latent in our lower fellow mortals until made manifest by profound experiences; for it is through suffering that dogs as well as saints are developed and made perfect.

After exploring the Sum Dum and Tahkoo fiords and their glaciers, we sailed through Stephen’s Passage into Lynn Canal and thence through Icy Strait into Cross Sound, searching for unexplored inlets leading toward the great fountain ice-fields of the Fairweather Range. Here, while the tide was in our favor, we were accompanied by a fleet of icebergs drifting out to the ocean from Glacier Bay . Slowly we paddled around Vancouver’s Point, Wimbledon, our frail canoe tossed like a feather on the massive heaving swells coming in past Cape Spenser. For miles the sound is bounded by precipitous mural cliffs, which, lashed with wave-spray and their heads hidden in clouds, looked terribly threatening and stern. Had our canoe been crushed or upset we could have made no landing here, for the cliffs, as high as those of Yosemite , sink sheer into deep water. Eagerly we scanned the wall on the north side for the first sign of an opening fiord or harbor, all of us anxious except Stickeen, who dozed in peace or gazed dreamily at the tremendous precipices when he heard us talking about them. At length we made the joyful discovery of the mouth of the inlet now called “Taylor Bay,” and about five o’clock reached the head of it and encamped in a Spruce grove near the front of a large glacier.

While camp was being made, Joe the hunter climbed the mountain wall on the east side of the fiord in pursuit of wild goats, while Mr. Young and I went to the glacier. We found that it is separated from the waters of the inlet by a tide-washed moraine, and extends, an abrupt barrier, all the way across from wall to wall of the inlet, a distance of about three miles. But our most interesting discovery was that it had recently advanced, though again slightly receding. A portion of the terminal moraine had been plowed up and shoved forward, uprooting and overwhelming the woods on the east side. Many of the trees were down and buried, or nearly so, others were leaning away from the ice-cliffs, ready to fall, and some stood erect, with the bottom of the ice plow still beneath their roots and its lofty crystal spires towering huge above their tops. The spectacle presented by these century-old trees standing close beside a spiry wall of ice, with their branches almost touching it, was most novel and striking. And when I climbed around the front, and a little way up the west side of the glacier, I found that it had swelled and increased in height and width in accordance with its advance, and carried away the outer ranks of trees on its bank.

On our way back to camp after these first observations I planned a far-and-wide excursion for the morrow. I awoke early, called not only by the glacier, which had been on my mind all night, but by a grand flood-storm. The wind was blowing a gale from the north and the rain was flying with the clouds in a wide passionate horizontal flood, as if it were all passing over the country instead of falling on it. The main perennial streams were booming high above their banks, and hundreds of new ones, roaring like the sea, almost covered the lofty gray walls of the inlet with white cascades and falls. I had intended making a cup of coffee and getting something like a breakfast before starting, but when I heard the storm and looked out I made haste to join it; for many of Nature’s finest lessons are to be found in her storms , and if careful to keep in right relations with them, we may go safely abroad with them, rejoicing in the grandeur and beauty of their works and ways, and chanting with the old Norsemen, “The blast of the tempest aids our oars, the hurricane is our servant and drives us whither we wish to go.” So, omitting breakfast, I put a piece of bread in my pocket and hurried away.

Mr. Young and the Indian were asleep, and so, I hoped, was Stickeen; but I had not gone a dozen rods before he left his bed in the tent and came boring through the blast after me. That a man should welcome storms for their exhilarating music and motion, and go forth to see God making landscapes, is reasonable enough; but what fascination could there be in such tremendous weather for a dog? Surely nothing akin to human enthusiasm for scenery or geology. Anyhow, on he came, breakfastless, through the choking blast. I stopped and did my best to turn him back. “Now don’t,” I said, shouting to make myself heard in the storm. “now don’t, Stickeen. What has got into your queer noddle now? You must be daft. This wild day has nothing for you. There is no game abroad, nothing but weather. Go back to camp and keep warm, get a good breakfast with your master, and be sensible for once. I can’t carry you all day or feed you, and this storm will kill you.”

But Nature, it seems, was at the bottom of the affair, and she gains her ends with dogs as well as with men, making us do as she likes, shoving and pulling us along her ways, however rough, all but killing us at times in getting her lessons driven hard home. After I had stopped again and again, shouting good warning advice, I saw that he was not to be shaken off; as well might the earth try to shake off the moon. I had once led his master into trouble, when he fell on one of the topmost jags of a mountain and dislocated his arm ; now the turn of his humble companion was coming. The pitiful wanderer just stood there in the wind, drenched and blinking, saying doggedly , “Where thou goest I will go.” So at last I told him to come on if he must, and gave him a piece of the bread I had in my pocket; then we struggled on together, and thus began the most memorable of all my wild days.

The level flood, driving hard in our faces, thrashed and washed us wildly until we got into the shelter of a grove on the east side of the glacier near the front, where we stopped awhile for breath and to listen and look out. The exploration of the glacier was my main object, but the wind was too high to allow excursions over its open surface, where one might be dangerously shoved while balancing for a jump on the brink of a crevasse. In the mean time the storm was a fine study. There the end of the glacier, descending an abrupt swell of resisting rock about five hundred feet high, leans forward and falls in ice-cascades. And as the storm came down the glacier from the north, Stickeen and I were beneath the main current of the blast, while favorably located to see and hear it. What a psalm the storm was singing, and how fresh the smell of the washed earth and leaves, and how sweet the still small voices of the storm! Detached wafts and swirls were coming through the woods, with music from the leaves and branches and furrowed boles, and even from the splintered rocks and ice-crags overhead, many of the tones soft and low and flute-like, as if each leaf and tree, crag and spire were a tuned reed. A broad torrent, draining the side of the glacier, now swollen by scores of new streams from the mountains, was rolling boulders along its rocky channel, with thudding, bumping, muffled sounds, rushing toward the bay with tremendous energy, as if in haste to get out of the mountains; the winters above and beneath calling to each other, and all to the ocean, their home.

Looking southward from our shelter, we had this great torrent and the forested mountain wall above it on our left, the spiry ice-crags on our right, and smooth gray gloom ahead. I tried to draw the marvelous scene in my note-book, but the rain blurred the page in spite of all my pains to shelter it, and the sketch was almost worthless. When the wind began to abate, I traced the east side of the glacier. All the trees standing on the edge of the woods were barked and bruised, showing high-ice mark in a very telling way, while tens of thousands of those that had stood for centuries on the bank of the glacier farther out lay crushed and being crushed. In many places I could see down fifty feet or so beneath the margin of the glacier-mill, where trunks from one to two feet in diameter here being ground to pulp against outstanding rock-ribs and bosses of the bank.

About three miles above the front of the glacier I climbed to the surface of it by means of axe-steps made easy for Stickeen. As far as the eye could reach, the level, or nearly level, glacier stretched away indefinitely beneath the gray sky, a seemingly boundless prairie of ice. The rain continued, and grew colder, which I did not mind, but a dim snowy look in the drooping clouds made me hesitate about venturing far from land. No trace of the west shore was visible, and in case the clouds would settle and give snow, or the wind again become violent. I feared getting caught in a tangle of crevasses. Snow-crystals, the flowers of the mountain clouds, are frail, beautiful things, but terrible then flying on storm-winds in darkening, benumbing swarms or when welded together into glaciers full of deadly crevasses. Watching the weather, I sauntered about on the crystal sea. For a mile or so out I found the ice remarkably safe. The marginal crevasses mere mostly narrow, while the few wider ones were easily avoided by passing around them, and the clouds began to open here and there.

Thus encouraged, I at last pushed out for the other side; for Nature can make us do anything she likes. At first we made rapid progress, and the sky was not very threatening, while I took bearings occasionally with a pocket compass to enable me to find my way back more surely in case the storm should become blinding; but the structure lines of the glacier were my main guide. Toward the west side we came to a closely crevassed section in which we had to make long, narrow tacks and doublings, tracing the edges of tremendous traverse and longitudinal crevasses, many of which were from twenty to thirty feet wide, and perhaps a thousand feet deep–beautiful and awful. In working a way through them I was severely cautious, but Stickeen came on as unhesitating as the flying clouds. The widest crevasse that I could jump he would leap without so much as halting to take a look at it. The weather was now making quick changes, scattering bits of dazzling brightness through the wintry gloom at rare intervals, when the sun broke forth wholly free, the glacier was seen from shore to shore with a bright array of encompassing mountains partly revealed, wearing the clouds as garments, while the prairie bloomed and sparkled with irised light from myriads of washed crystals. Then suddenly all the glorious show would be darkened and blotted out.

Stickeen seemed to care for none of these things, bright or dark, nor for the crevasses, wells, moulins, or swift flashing streams into which he might fall. The little adventurer was only about two years old, yet nothing seemed novel to him. Nothing daunted him. He showed neither caution nor curiosity, wonder nor fear, but bravely trotted on as if glaciers were playgrounds. His stout, muffled body seemed all one skipping muscle, and it was truly wonderful to see how swiftly and to all appearance heedlessly he flashed across nerve-trying chasms six or eight feet wide. His courage was so unwavering that it seemed to be due to dullness of perception, as if he were only blindly bold; and I kept warning him to be careful. For we had been close companions on so many wilderness trips that I had formed the habit of talking to him as if he were a boy and understood every word.

We gained the west shore in about three hours; the width of the glacier here being about seven miles. Then I pushed northward in order to see as far back as possible into the fountains of the Fairweather Mountains, in case the clouds should rise. The walking was easy along the margin of the forest, which, of course, like that on the other side, had been invaded and crushed by the swollen, overflowing glacier. In an hour or so, after passing a massive headland, we came suddenly on a branch of the glacier, which, in the form of a magnificent ice-cascade two miles wide, was pouring over the rim of the main basin in a westerly direction, its surface broken into wave-shaped blades and shattered blocks, suggesting the wildest updashing, heaving, plunging motion of a great river cataract. Tracing it down three or four miles, I found that it discharged into a lake, filling it with icebergs .

I would gladly have followed the lake outlet to tide-water, but the day was already far spent, and the threatening sky called for haste on the return trip to get off the ice before dark. I decided therefore to go no farther and, after taking a general view of the wonderful region, turned back, hoping to see it again under more favorable auspices. We made good speed up the cañon of the great ice-torrent, and out on the main glacier until we had left the west shore about two miles behind us. Here we got into a difficult network of crevasses, the gathering clouds began to drop misty fringes, and soon the dreaded snow came flying thick and fast. I now began to feel anxious about finding a way in the blurring storm. Stickeen showed no trace of fear. He was still the same silent, able little hero. I noticed, however, that after the storm-darkness came on he kept close up behind me. The snow urged us to make still greater haste, but at the same time hid our way. I pushed on as best I could, jumping innumerable crevasses, and for every hundred rods or so of direct advance traveling a mile in doubling up and down in the turmoil of chasms and dislocated ice-blocks. After an hour or two of this work we came to a series of longitudinal crevasses of appalling width, and almost straight and regular in trend, like immense furrows. These I traced with firm nerve, excited and strengthened by the danger, making wide jumps, poising cautiously on their dizzy edges after cutting hollows for my feet before making the spring, to avoid possible slipping or any uncertainty on the farther sides, where only one trial is granted–exercise at once frightful and inspiring. Stickeen followed seemingly without effort.

Many a mile we thus traveled, mostly up and down, making but little real headway in crossing, running instead of walking most of the time as the danger of being compelled to spend the night on the glacier became threatening. Stickeen seemed able for anything. Doubtless we could have weathered the storm for one night, dancing on a flat spot to keep from freezing, and I faced the threat without feeling anything like despair; but we were hungry and wet, and the wind from the mountains was still thick with snow and bitterly cold, so of course that night would have seemed a very long one. I could not see far enough through the blurring snow to judge in which general direction the least dangerous route lay, while the few dim, momentary glimpses I caught of mountains through rifts in the flying clouds were far from encouraging either as weather signs or as guides. I had simply to grope my way from crevasse to crevasse, holding a general direction by the ice-structure, which was not to be seen everywhere, and partly by the wind. Again and again I was put to my mettle, but Stickeen followed easily, his nerve apparently growing more unflinching as the danger increased. So it always is with mountaineers when hard beset. Running hard and jumping, holding every minute of the remaining daylight, poor as it was, precious, we doggedly persevered and tried to hope that every difficult crevasse we overcame would prove to be the last of its kind. But on the contrary, as we advanced they became more deadly trying.

At length our way was barred by a very wide and straight crevasse, which I traced rapidly northward a mile or so without finding a crossing or hope of one; then down the glacier about as far, to where it united with another uncrossable crevasse. In all this distance of perhaps two miles there was only one place where I could possibly jump it, but the width of this jump was the utmost I dared attempt, while the danger of slipping on the farther side was so great that I was loath to try it. Furthermore, the side I was on was about a foot higher than the other, and even with this advantage the crevasse seemed dangerously wide. One is liable to underestimate the width of crevasses where the magnitudes in general are great. I therefore stared at this one mighty keenly, estimating its width and the shape of the edge on the farther side, until I thought that I could jump it if necessary, but that in case I should be compelled to jump back from the lower side I might fail. Now, a cautious mountaineer seldom takes a step on unknown ground which seems at all dangerous that he cannot retrace in case he should be stopped by unseen obstacles ahead. This is the rule of mountaineers who live long, and, though in haste, I compelled myself to sit down and calmly deliberate before I broke it.

Retracing my devious path in imagination as if it were drawn on a chart, I saw that I was recrossing the glacier a mile or two farther up stream than the course pursued in the morning, and that I was now entangled in a section I had not before seen. Should I risk this dangerous jump, or try to regain the woods on the west shore, make a fire, and have only hunger to endure while waiting for a new day! I had already crossed so broad a stretch of dangerous ice that I saw it would be difficult to get back to the woods through the storm, before dark, and the attempt would most likely result in a dismal night-dance on the glacier; while just beyond the present barrier the surface seemed more promising, and the east shore was now perhaps about as near as the west. I was therefore eager to go on. But this wide jump was a dreadful obstacle.

At length, because of the dangers already behind me, I determined to venture against those that might he ahead, jumped and landed well, but with so little to spare that I more than ever dreaded being compelled to take that jump back from the lower side. Stickeen followed, making nothing of it, and we ran eagerly forward, hoping we were leaving all our troubles behind. But within the distance of a few hundred yards we were stopped by the widest crevasse yet encountered. Of course I made haste to explore it, hoping all might yet be remedied by finding a bridge or a way around either end. About three fourths of a mile up stream I found that it united with the one we had just crossed, as I feared it would. Then, tracing it down, I found it joined the same crevasse at the lower end also, maintaining throughout its whole course a width of forty to fifty feet. Thus to my dismay I discovered that we were on a narrow island about two miles long, with two barely possible ways to escape: one back by the way we came, the other ahead by an almost inaccessible sliver-bridge that crossed the great crevasse from near the middle of it!

After this nerve-trying discovery I ran back to the sliver-bridge and cautiously examined it. Crevasses, caused by strains from variations in the rate of motion of different parts of the glacier and convexities in the channel, are mere cracks when they first open, so narrow as hardly to admit the blade of a pocket-knife, and gradually widen according to the extent of the strain and the depth of the glacier. Now some of these cracks are interrupted, like the cracks in wood, and in the opening the strip of ice between overlapping ends is dragged out, and may maintain a continuous connection between the side, just as the two sides of a slivered crack in wood that is being split are connected. Some crevasses remain open for months or even years, and by the melting of their sides continue to increase in width long after the opening strain has ceased; while the sliver-bridges, level on top at first and perfectly safe, are at length melted to thin, vertical, knife-edged blades, the upper portion being most exposed to the weather; and since the exposure is greatest in the middle. they at length curve downward like the cables of suspension bridges. This one was evidently very old, for it had been weathered and wasted until it was the most dangerous and inaccessible that ever lay in my way. The width of the crevasse was here about fifty feet, and the sliver crossing diagonally was about seventy feet long; its thin knife-edge near the middle was depressed twenty-five or thirty feet below the level of the glacier, and the up-curving ends were attached to the sides eight or ten feet below the brink. Getting down the nearly vertical wall to the end of the sliver and up the other side were the main difficulties, and they seemed all but insurmountable. Of the many perils encountered in my years of wandering on mountains and glaciers none seemed so plain and stern and merciless as this. And it was presented when we were wet to the skin and hungry, the sky dark with quick driving snow, and the night near. But we were forced to face it. It was a tremendous necessity.

Beginning, not immediately above the sunken end of the bridge, but a little to one side, I cut a deep hollow on the brink for my knees to rest in. Then, leaning over, with my short-handled axe I cut a step sixteen or eighteen inches below, which on account of the sheerness of the wall was necessarily shallow. That step, however, was well made; its floor sloped slightly inward and formed a good hold for my heels. Then, slipping cautiously upon it, and crouching as low as possible, with my left side toward the wall, I steadied myself against the wind with my left hand in a slight notch, while with the right I cut other similar steps and notches in succession, guarding against losing balance by glinting of the axe, or by wind-gusts, for life and death were in every stroke and in the niceness of finish of every foothold.

After the end of the bridge was reached I chipped it down until I had made a level platform six or eight inches wide, and it was a trying thing to poise on this little slippery platform while bending over to get safely astride of the sliver. Crossing was then comparatively easy by chipping off the sharp edge with short, careful strokes, and hitching forward an inch or two at a time, keeping my balance with my knees pressed against the sides. The tremendous abyss on either hand I studiously ignored. To me the edge of that blue sliver was then all the world. But the most trying part of the adventure, after working my way across inch by inch and chipping another small platform, was to rise from the safe position astride and to cut a step-ladder in the nearly vertical face of the wall,–chipping, climbing, holding on with feet and fingers in mere notches. At such times one’s whole body is eye. and common skill and fortitude are replaced by power beyond our call or knowledge . Never before had I been so long under deadly strain. How I got up that cliff I never could tell. The thing seemed to have been done by somebody else. I never have held death in contempt, though in the course of my explorations I have oftentimes felt that to meet one’s fate on a noble mountain, or in the heart of a glacier, would be blessed as compared with death from disease, or from some shabby lowland accident. But the best death, quick and crystal-pure, set so glaringly open before us, is hard enough to face, even though we feel gratefully sure that we have already had happiness enough for a dozen lives.

But poor Stickeen, the wee, hairy, sleekit beastie , think of him! When I had decided to dare the bridge, and while I was on my knees chipping a hollow on the rounded brow above it, he came behind me, pushed his head past my shoulder, looked down and across, scanned the sliver and its approaches with his mysterious eyes, then looked me in the face with a startled air of surprise and concern, and began to mutter and whine; saying as plainly as if speaking with words, “Surely, you are not going into that awful place.” This was the first time I had seen him gaze deliberately into a crevasse, or into my face with an eager, speaking, troubled look. That he should have recognized and appreciated the danger at the first glance showed wonderful sagacity. Never before had the daring midget seemed to know that ice was slippery or that there was any such thing as danger anywhere. His looks and tones of voice when he began to complain and speak his fears were so human that I unconsciously talked to him in sympathy as I would to a frightened boy, and in trying to calm his fears perhaps in some measure moderated my own. “Hush your fears, my boy,” I said, “ we will get across safe , though it is not going to be easy. No right way is easy in this rough world. We must risk our lives to save them. At the worst we can only slip, and then how grand a grave we will have, and by and by our nice bones will do good in the terminal moraine.”

But my sermon was far from reassuring him: he began to cry, and after taking another piercing look at the tremendous gulf, ran away in desperate excitement, seeking some other crossing. By the time he got back, baffled of course, I had made a step or two. I dared not look back, but he made himself heard; and when he saw that I was certainly bent on crossing he cried aloud in despair. The danger was enough to haunt anybody, but it seems wonderful that he should have been able to weight and appreciate it so justly. No mountaineer could have seen it more quickly or judged it more wisely, discriminating between real and apparent peril.

When I gained the other side, he screamed louder than ever, and after running back and forth in vain search for a way of escape, he would return to the brink of the crevasse above the bridge, moaning and wailing as if in the bitterness of death. Could this be the silent, philosophic Stickeen? I shouted encouragement, telling him the bridge was not so bad as it looked, that I had left it flat and safe for his feet, and he could walk it easily. But he was afraid to try. Strange so small an animal should be capable of such big, wise fears. I called again and again in a reassuring tone to come on and fear nothing; that he could come if he would only try. He would hush for a moment, look down again at the bridge, and shout his unshakable conviction that he could never, never come that way; then lie back in despair, as if howling, “O-o-oh! what a place! No-o-o, I can never go-o-o down there!” His natural composure and courage had vanished utterly in a tumultuous storm of fear. Had the danger been less, his distress would have seemed ridiculous. But in this dismal, merciless abyss lay the shadow of death, and his heart-rending cries might well have called Heaven to his help. Perhaps they did. So hidden before, he was now transparent, and one could see the workings of his heart and mind like the movements of a clock out of its case. His voice and gestures, hopes and fears, were so perfectly human that none could mistake them; while he seemed to understand every word of mine. I was troubled at the thought of having to leave him out all night, and of the danger of not finding him in the morning. It seemed impossible to get him to venture. To compel him to try through fear of being abandoned, I started off as if leaving him to his fate, and disappeared back of a hummock; but this did no good; he only lay down and moaned ill utter hopeless misery. So, after hiding a few minutes, I went back to the brink of the crevasse and in a severe tone of voice shouted across to him that now I must certainly leave him, I could wait no longer, and that, if he would not come, all I could promise was that I would return to seek him next day. I warned him that if he went back to the woods the wolves would kill him, and finished by urging him once more by words and gestures to come on, come on.

He knew very well what I meant, and at last, with the courage of despair, hushed and breathless, he crouched down on the brink in the hollow I had made for my knees, pressed his body against the ice as if trying to get the advantage of the friction of every hair, gazed into the first step, put his little feet together and slid them slowly, slowly over the edge and down into it, bunching all four in it and almost standing on his head. Then, without lifting his feet, as well as I could see through the snow, he slowly worked them over the edge of the step and down into the next and the next in succession in the same way, and gained the end of the bridge. Then, lifting his feet with the regularity and slowness of the vibrations of a seconds pendulum, as if counting and measuring one-two-three , holding himself steady against the gusty wind, and giving separate attention to each little step, he gained the foot of the cliff, while I was on my knees leaning over to give him a lift should he succeed in getting within reach of my arm. Here he halted in dead silence, and it was here I feared he might fail, for dogs are poor climbers. I had no cord. If I had had one, I would have dropped a noose over his head and hauled him up. But while I was thinking whether an available cord might be made out of clothing, he was looking keenly into the series of notched steps and finger-holds I had made, as if counting them, and fixing the position of each one of them in his mind. Then suddenly up he came in a springy rush, hooking his paws into the steps and notches so quickly that I could not see how it was done, and whizzed past my head, safe at last!

And now came a scene! “Well done, well done, little boy! Brave boy!” I cried, trying to catch and caress him; but he would not be caught. Never before or since have I seen anything like so passionate a revulsion from the depths of despair to exultant, triumphant, uncontrollable joy. He flashed and darted hither and thither as if fairly demented, screaming and shouting, swirling round and round in giddy loops and circles like a leaf in a whirlwind, lying down, and rolling over and over, sidewise and heels over head, and pouring forth a tumultuous flood of hysterical cries and sobs and gasping mutterings. When I ran up to him to shake him, fearing he might die of joy, he flashed off two or three hundred yards, his feet in a mist of motion; then, turning suddenly, came back in a wild rush and launched himself at my face, almost knocking me down. all the while screeching and screaming and shouting as if saying, “Saved! saved! saved!” Then away again, dropping suddenly at times with his feet in the air, trembling and fairly sobbing. Such passionate emotion was enough to kill him. Moses’ stately song of triumph after escaping the Egyptians and the Red Sea was nothing to it. Who could have guessed the capacity of the dull, enduring little fellow for all that most stirs this mortal frame? Nobody could have helped crying with him!

But there is nothing like work for toning down excessive fear or joy. So I ran ahead, calling him in as gruff a voice as I could command to come on and stop his nonsense, for we had far to go and it would soon he dark. Neither of us feared another trial like this. Heaven would surely count one enough for a lifetime. The ice ahead was gashed by thousands of crevasses, but they were common ones. The joy of deliverance burned in us like fire, and we ran without fatigue, every muscle with immense rebound glorying in its strength. Stickeen flew across everything in his way, and not till dark did he settle into his normal fox-like trot. At last the cloudy mountains came in sight, and we soon felt the solid rock beneath our feet, and were safe. Then came weakness. Danger had vanished, and so had our strength. We tottered down the lateral moraine in the dark, over boulders and tree trunks, through the bushes and devil-club thickets of the grove where we had sheltered ourselves in the morning, and across the level mudslope of the terminal moraine. We reached camp about ten o’clock, and found a big fire and a big supper. A party of Hoona Indians had visited Mr. Young, bringing a gift of porpoise meat and wild strawberries, and Hunter Joe had brought in a wild goat. But we lay down, too tired to eat much, and soon fell into a troubled sleep. The man who said, “The harder the toil, the sweeter the rest,” never was profoundly tired. Stickeen kept springing up and muttering in his sleep, no doubt dreaming that he was still on the brink of the crevasse; and so did I, that night and many others long afterward, when I was over-tired.

Thereafter Stickeen was a changed dog. During the rest of the trip, instead of holding aloof, he always lay by my side, tried to keep me constantly in sight, and would hardly accept a morsel of food, however tempting, from any hand but mine. At night, when all was quiet about the camp-fire, he would come to me and rest his head on my knee with a look of devotion as if I were his god. And often as he caught my eye he seemed to be trying to say, “Wasn’t that an awful time we had together on the glacier?”

Nothing in after years has dimmed that Alaska storm-day. As I write it all comes rushing and roaring to mind as if I were again in the heart of it. Again I see the gray flying clouds with their rain-floods and snow, the ice-cliffs towering above the shrinking forest, the majestic ice-cascade, the vast glacier outspread before its white mountain-fountains, and in the heart of it the tremendous crevasse,–emblem of the valley of the shadow of death,–low clouds trailing over it, the snow falling into it; and on its brink I see little Stickeen, and I hear his cries for help and his shouts of joy. I have known many dogs, and many a story I could tell of their wisdom and devotion; but to none do I owe so much as to Stickeen. At first the least promising and least known of my dog-friends, he suddenly became the best known of them all. Our storm-battle for life brought him to light, and through him as through a window I have ever since been looking with deeper sympathy into all my fellow mortals.

None of Stickeen’s friends knows what finally became of him. After my work for the season was done I departed for California, and I never saw the dear little fellow again. In reply to anxious inquiries his master wrote me that in the summer of 1883 he was stolen by a tourist at Fort Wrangell and taken away on a steamer. His fate is wrapped in mystery. Doubtless he has left this world–crossed the last crevasse–and gone to another. But he will not be forgotten. To me Stickeen is immortal.

 

 

Notes by Francis H. Allen

Fort Wrangel.

Now generally spelled Wrangell. Any good map of Alaska will show its location.

Rev. S. H.Young.

Samuel Hall Young, now superintendent of Alaska Presbyterian missions with office in New York City, but at that time a missionary in the field with headquarters at Fort Wrangel. Mr. Muir’s Travels in Alaska contains an interesting account of a mountain-climbing adventure in which Mr. Young nearly lost his life. Dr. Young (he received the degree of D.D. in 1899) has written entertainingly of this and other experiences with John Muir ( Outlook , May 26, June 23, and July 28, 1915). In the last of his three articles he tells about Stickeen, the subject of this story.

Tail . . . shady as a squirrel’s.

The Green word for squirrel, skiouros , from which our English word is derived, is formed from two words meaning “shadow” and “tail.” It is quite likely that Mr. Muir had this in mind.

The water was phosphorescent.

Some of the small and microscopic animal life of the sea becomes luminous at night when disturbed by the breaking of the waves, the churning of a boat’s propeller, the splashing of oars, the strokes of a swimmer, or any similar cause, as, in this case, the movements of the salmon. The surrounding water at such times glows and sparkles beautifully.

The salmon were running.

Salmon, though for most of the year living in the sea, spawn only in fresh running water, and every spring and summer they swarm up the streams to the breeding-grounds. This is the time when they are caught for sport and for the market,–in the East by rod and line, in Alaska, where they are found in vast numbers, with nets and spears. This migration up the streams is called “running.”

Panax.

Panax horridus , or Fatsia horrida , a dangerously prickly araliaceous shrub commonly called devil’s-club. It is abundant in Alaska.

Rubus.

The genus of plants to which the blackberry, raspberry, cloudberry, and salmonberry belong.

Wild-weathery.

One looks in the dictionaries in vain for this word, but the meaning is obvious. Mr. Muir was rather fond of coining playful words of this kind, such as are so common in his native Scotch.

Diogenes.

A celebrated Greek Cynic philosopher who despised riches and is said to have lived in a tub. Plutarch relates that when Alexander the Great asked Diogenes whether he could do anything for him he replied, “Yes, I would have you stand from between me and the sun.”

Sphinx.

“A spinxlike person; one of enigmatical or inscrutable character and purposes” (Webster’s New International Dictionary ). The Sphinx of Greek mythology propounded a riddle to all comers and, upon the failure of each one to guess it, speedily devoured him.

Tahkoo.

An Indian name, also spelled Taku.

Fountain ice-fields.

The ice-fields that formed the sources of the glaciers.

Glacier Bay.

The famous Muir Glacier , discovered by Mr. Muir in 1879, is at the head of this bay.

Yosemite.

The Yosemite Valley of California , where Mr. Muir made his home for years.

Storms.

John Muir was never afraid of bad weather. One of his most interesting papers is the account in The Mountains of California of how he climbed a tree in the forest during a wind-storm and remained there rocked wildly in the treetop while he studied the habits of the trees under such conditions.

Dislocated his arm.

See the account in Travels in Alaska .

Doggedly.

Note the play on the word.

“Where thou goest I will go.”

Doubtless suggested by Ruth’s reply to her mother-in-law, Naomi, “Whither thou goest, I will go” (Ruth 1:16).

Narrow tacks.

The word “tacks” is used in the nautical sense, as when a sailing vessel “tacks” to windward, taking a zigzag course because it is impossible to sail directly against the wind. By “narrow tacks” the author evidently means tacks in which little real progress was made, the crevasses coming very close together.

Fountains.

In the sense of sources; in this case the sources of glaciers.

Icebergs.

Icebergs are, of course, the natural discharge of a glacier into a lake or the sea.

Power beyond our call or knowledge.

This has been the experience of many who have extricated themselves from imminent dangers by their own unaided efforts. The emergency calls forth hitherto unsuspected supplies of reserve energy.

Wee, hairy, sleekit beastie.

This reminds one of Burns’s poem “To a Mouse,” which begins “Wee, sleekit, cow’rin’, tim’rous beastie.” “Sleekit” is doubtless used in its original sense of sleek, smooth. It is the past participle of the verb “to sleek.” Muir was fond of dropping occasionally into his native Scotch, especially when an affectionate diminutive was called for.

We will get across safe.

Here and at the top of the next page Mr. Muir follows the Scotch custom of using the word “will” where the best English usage demands “shall.”

Devil-club.

See note on Panax.

 

 

Stikine: La storia di un cane

di John Muir (1909)

Introduzione

da Dan E. Anderson e Harold Wood

Nel 1880, John Muir fece il suo secondo viaggio in Alaska. In questo viaggio ha esplorato Glacier Brady, che sfocia nel Taylor Bay in che cosa ora è il Glacier Bay National Park, con il cane di un amico, Stikine. Muir è stato un grande narratore e ha raccontato questa storia molte volte prima di scriverlo nel 1909 come un racconto sotto la spinta di molti dei suoi amici. Stikine è stato classificato come un racconto classico cane da molti che hanno letto. Avventura di John Muir con un cane e un ghiacciaio.

Introduzione

Storia vera di John Muir di quello che è successo su un ghiacciaio d’Alasca con un cane denominato Stikine, nel 1880, è uno dei più noti scritti di Muir e ora è considerato una classico cane storia. Anche se può essere letto come una storia di avventura dritto, è molto di più. Storia di Muir è più convincente perché è rivelato a Muir che uomo e cane non erano così a differenza di ogni altro. Stikine era inizialmente un piccolo cane scortese, ma dopo essere sopravvissuto a un pericoloso viaggio attraverso un ghiacciaio attraversando un ponte di ghiaccio, distacco di Stikine è sostituito da emotion estatico, rivelando a Muir il fatto che i nostri “fratelli orizzontali” non sono che molto a differenza di noi.

Muir ha scritto, “ho conosciuto molti cani e molti una storia che potrei dire della loro saggezza e devozione; ma a nessuno devo tanto da Stikine. In un primo momento il meno promettente e meno conosciuto dei miei amici-cane, improvvisamente divenne il più noto di tutti loro. La nostra tempesta-battaglia per la vita lo ha portato alla luce, e attraverso di lui come attraverso una finestra ho allora cercato con la più profonda simpatia in tutti i miei compagni mortali.”

Muir ha trascorso anni che racconta la storia e quasi trenta anni prima che fosse in grado di metterlo per iscritto. Anche se la storia in sé è un semplice, Muir sentivo che era la cosa più difficile, che ha mai provato a scrivere. Muir visto Stikine come “l’araldo di un nuovo Vangelo” aggiunta “in tutte le mie passeggiate selvaggi, raramente ho avuto un messaggio più preciso o utile per portare indietro.” Muir voluto presentare quel messaggio nel miglior modo possibile.

Quando in primo luogo pubblicato nel secolo rivista nel 1897 (V. 54, n. 5, settembre 1897, sotto il titolo “An Adventure con un cane e un ghiacciaio), è stato pesantemente modificato, con intere sezioni di quale suo editor chiamato”digressioni”eliminati. Per il manoscritto originale, faticosamente ricostruito dai giornali Muir, vedere il libro di Ronald Limbaugh, John Muir di “Stikine” e le lezioni della natura . Muir è stato in grado di ripristinare alcuni dei suoi pensieri, quando pubblicò il racconto in forma di libro nel 1909. Esso è stato rivisto e ri-ha detto ancora una volta nel suo 1915 viaggia in Alaskaed è stato ri-stampato più volte da allora in tutti i tipi di formati, negli anni 70, 80 e 90.

La storia di Muir ha ispirato diversi libri con illustrazioni eccezionali. L’edizione in brossura 1990, edito da Apogeo Books, contiene eccezionali illustrazioni in bianco e nero di Carl Dennis Buell. Donnell Rubay ri-raccontare del 1998 (Dawn Publications) è accompagnato da illustrazioni a colori eccezionale da Christopher Canyon. Libro dell’immagine di un altro childlren della storia è stato illustrato da Karl Swanson e scritto da Elizabeth Koehler-Pentacoff (Millbrook Press). Assicuratevi di leggere su questi queste edizioni qui sotto.

Vedi sotto per effettivo Stikine scritture di Muir, oltre a collegamenti ad una varietà di pagine di libri, audio e musica che dice di più su Muir e il suo amico canino notevole, Stikine.

Scritture di Muir

Libri su Stikine

John Muir di “Stikine” e le lezioni della natura, di Ronald H. Limbaugh (Fairbanks, AK: Università dell’Alaska Press, 1996) illustrazioni in bianco e nero; Indice. Appendice: “Notes on ‘Stikine’ nella libreria di John Muir.” 185 pp

Questo esame da studioso di storia del famoso cane di Muir “Stikine” aiuta notevolmente a illuminare la crescita di Muir come scrittore. Ron Limbaugh usi “Stikine” per mostrare come creatività letteraria di Muir è cresciuta nel tempo, e come è stato influenzato da major turn-of-the-secolo idee ed eventi come i dibattiti darwiniana e l’emergente movimento dei diritti degli animali. Inoltre, Limbaugh osserva che “Stikine” è il prodotto solo letterario dalla penna di Muir che possa essere collegato direttamente e ampiamente a idee formulate dai libri della sua biblioteca personale. Di conseguenza, “studiando la sua origine e l’evoluzione è essenziale per comprendere lo sviluppo di Muir come scrittore e come fautore per l’uguaglianza morale di tutte le specie.”

John Muir e Stikine: un’avventura ghiacciata con un cane buono a nulladi Julie Dunlap & Marybeth Lorbiecki; Illustrato da Bill Farnsworth. (2004)

Splendidamente illustrato libro per bambini basato sul libro di Muir Stikine, che racconta l’emozionante avventura di come Muir partì per esplorare un ghiacciaio d’Alasca un giorno, con l’accompagnamento sgradito di Stikine e incappò in una tempesta. Quello che è successo quel giorno terrificante Muir ha fatto vedere animali domestici sotto una nuova luce. Per tutte le età 5-8, classi 1-4. Opina School Library Journal: “Anche se non la prima versione di foto-libro di questa storia di una spedizione di 1880 straziante a Glacier Bay, questa resa eccellente è il trattamento migliore finora.” Il giornale fa poi per notare: “l’unica pecca nel testo è che gli autori overplay disprezzo del naturalista per i cani in generale. Mentre Stikine di Muir (Houghton, 1909) confermare che ha pensato di Sitckeen per essere “piccoli e privi di valore” e probabile che “richiedono cura come un bambino,” afferma chiaramente che egli generalmente come cani. A parte questa caratterizzazione minore, fanno un ottimo lavoro di veicolare la meraviglia che ha ispirato il lavoro di vita dell’uomo e il pericolo di questo exploit particolare. Mentre alcune parti sono condensati e altri tirato fuori, rimangono generalmente fedele ai conti di Muir”.

Stikine: John Muir e il coraggioso piccolo canecome ri-raccontata da Donnell Rubay

Questa foto libro per bambini contiene bellissime opere d’arte di Christopher Canyon. Storia di Muir è ri-raccontata in un linguaggio semplice, pur rimanendo fedele alle parole di Muir.

John Muir e Stikine: un’avventura in Alaska, da Elizabeth Koehler-Pentacoff, illustrato da Karl Swanson.

Questo libro è per i bambini più piccoli che il libro di Rubay (K-3). L’autore racconta la storia al presente. Illustrazioni a colori di Karl Swanson evidenziano l’ostilità dell’ambiente ed il coraggio incredibile di Muir e suo compagno canino.

Gerald Pelrine presenta “Il racconto di Stikine”

Resa di rivettatura di Gerald Pelrine è incluso nel CD di tributo di John Muir.

Gerald Pelrine offre la sua caratterizzazione acclamato dalla critica di Muir come conferenziere, rivivendo l’esperienza e le lezioni apprese: il grande crepaccio del ghiacciaio come simbolo della “Valle dell’ombra della morte.” little Stikine arroccato in cima il suo cerchio, la gioia di liberazione e la sua sconvolgente visione dell’eternità visto attraverso gli occhi di “il silenzio, filosofico Stikine.”

“Stikine,” eseguita da Lee Stetson, CD, 1990.

La storia di tempesta di ghiaccio di un piccolo cane di nome Stikine è forse il più popolare e più amato di molte avventure deserto di John Muir. Il tuo cuore correrà con l’eccitamento e anticipazione come si ascolta rinomato attore Lee Stetson descrivere l’emozionante avventura di questo “piccolo, nero, corto-zampe cane giocattolo bunchy-bodied,” sul ghiacciaio d’Alasca. Sentirete anche incontri con gli altri animali emozionante – e vero – di Muir, con orsi, serpenti a sonagli, piccioni e molte altre, tra cui cani, gatti e pecore. Tutti sono estratte dalla scrittura di Muir e tessuti by Stetson in una splendida performance. Sempre emozionante, spesso umoristico, queste storie presentano “Vangelo” di Muir di predicare l’unità fondamentale e la parentela di forme di vita di tutta la terra.

John Muir, Stikine (Haven Libri Audio)

Il classico racconto dell’uomo… e il migliore amico dell’uomo, dal grande naturalista. Dal cuore dell’Alaska viene fornito un racconto straziante in una sola volta ed edificante. Viaggio con il grande avventuriero John Muir come egli prende il suo viaggio più memorabile. Eseguita Alaska NPR voce attore protagonista Lee Salisbury e con effetti sonori e musica originale, questa è una delle storie più popolari in Alaska, uno dei più toccante di storie di animali e una veramente grande avventura per tutta la famiglia.

“Stikine e di John Muir altre avventure con animali” da Storyteller Garth Gilchrist (Nevada City, CA: pubblicazioni di Dawn, 2000)

Compact Disc.

Dal CD copertina: Storyteller Garth Gilchrist diventa John Muir, raccontando la più amata di tutte le sue storie di avventura: orsi, flying pecore di montagna, uno scoiattolo di fulmini, saggio e divertente animali e uccelli meravigliosi. La storia conclusiva, Stikine [24:22 minuti], è un racconto di una traversata del ghiacciaio di vita o di morte con un cane straordinario, attraverso il quale Muir trova una finestra nei cuori di”tutti i miei compagni mortali.”

Stikine

di John Muir

Nell’estate del 1880 ho deciso da Fort Wrangell in una canoa di continuare l’esplorazione della regione ghiacciata dell’Alaska sud-orientale, iniziata nell’autunno del 1879. Dopo le necessarie disposizioni, coperte, ecc., era stato raccolto e riposto, e il mio equipaggio indiano era nei loro luoghi pronti per iniziare, mentre una folla di loro parenti e amici sul molo sono state offerte loro addio e buona fortuna, mio compagno, il Rev. S. H. Young , per cui erano in attesa, finalmente è venuto a bordo, seguita da un piccolo cane nero, che immediatamente è fatto a casa di avvolgersi in una conca tra il bagaglio. Mi piacciono i cani, ma questo sembrava così piccolo e inutile che ho obiettato al suo corso e ha chiesto il missionario perché lui stava prendendo.

“Tali una piccola creatura indifesa sarà solo nel modo”, ho detto; “avuto meglio a passare lui fino a casa i ragazzi indiani sul molo, da adottare per giocare con i bambini. Questo viaggio non è probabile che sia buona per cani. La poveretta sciocca sarà in pioggia e neve per settimane o mesi e richiederà cure come un bambino.” Ma il padrone mi ha assicurato che non sarebbe stato nessun problema a tutti; che era una meraviglia perfetta di un cane, potrei sopportare freddo e fame come un orso, nuotare come un sigillo, ed era meraviglioso saggio e astuzia, ecc., facendo fuori un elenco delle virtù di mostrare lui potrebbe essere il membro più interessante del partito.

Nessuno poteva sperare di svelare le linee della sua ascendenza. In tutti meravigliosamente mista e variegata cane-tribù non ho mai visto una creatura molto simile a lui, anche se in alcuni dei suoi scivolante sly, morbido, movimenti e gesti ha portato la volpe alla mente. Egli era a zampe brevi e mazzo-bodied e aveva i capelli, anche se liscio, lungo e setoso e lievemente ondulato, così che quando il vento era alle sue spalle arruffato, farlo apparire irsuto. A prima vista la sua solo una caratteristica essenziale era la sua bella coda, che era circa come ariosa e ombroso come uno scoiattolo e fu portato avanti curling quasi al suo naso. Un esame più attento si potrebbe notare le sue orecchie sensibili sottili e affilati occhi con astuzia tan-macchie sopra di loro. Signor Young mi ha detto che quando l’omino era un cucciolo di circa le dimensioni di un woodrat che è stato presentato a sua moglie da un cercatore irlandese a Sitka e che al suo arrivo a Fort Wrangell fu adottato con entusiasmo dagli indiani Stikine come una sorta di nuovo totem di buona fortuna, è stato chiamato “Stikine” per la tribù ed è diventato un favorito universale; siamesi, protetta e ammirato ovunque andasse e considerata come una fontana misteriosa della saggezza.

Il nostro viaggio egli presto si dimostrò un carattere queer–dispari, celato, indipendente, mantenendo invincibilmente tranquilla e facendo tante piccole cose sconcertante che ha suscitato la mia curiosità. Come abbiamo navigato, settimana dopo settimana, attraverso i canali lungo intricati e insenature tra le innumerevoli isole e le montagne della costa, trascorse la maggior parte dei giorni sordo nella facilità pigro, immobile e a quanto pare come unobserving come se nel sonno profondo. Ma ho scoperto che in qualche modo ha sempre saputo cosa stava succedendo. Quando gli indiani stavano per sparare alle anatre o guarnizioni, o quando qualcosa lungo la riva era eccitante la nostra attenzione, avrebbe appoggiare il mento sul bordo della canoa e con calma Guarda come un turista dagli occhi sognanti. E quando ha sentito noi parlando di fare un atterraggio, egli suscitò immediatamente se stesso per vedere che tipo di un posto ci stavano arrivando a e reso pronti a saltare in mare e nuotare fino a Riva, non appena la canoa si avvicinava la panchina. Quindi, con una scossa vigorosa per sbarazzarsi della salamoia in suoi capelli, corse nel bosco per cacciare piccola selvaggina. Ma però sempre la prima fuori della canoa, lui era sempre l’ultimo a entrare in esso. Quando eravamo pronti per iniziare potrebbe mai essere trovato e ha rifiutato di venire al nostro appello. Abbiamo presto scoperto, tuttavia, che anche se non abbiamo potuto vedere lui in questi momenti, ci vide e dalla copertura dei rovi e huckleberry cespugli ai margini del bosco stava guardando la canoa con occhio diffidente. Per non appena siamo stati abbastanza fuori è venuto trotto lungo la spiaggia, immerso nel surf e nuotato dopo di noi, ben sapendo che avremmo cessano di canottaggio e portarlo. Quando il vagabondo poco contrario è venuto a fianco, lui è stato sollevato per il collo, tenuto a mano portata di un momento a gocciolare e sceso a bordo. Abbiamo provato a curarlo di questo trucco da costringere lui a nuotare un lungo cammino, come se avessimo una mente di abbandonarlo; ma questo fatto non va bene; il più a lungo la nuotata meglio egli sembrava piacere.

Anche se capace di grande pigrizia, non riuscì mai di essere pronti per ogni sorta di avventure ed escursioni. Una notte di pioggia oscurissima siamo sbarcati circa 10 alla foce di un salmone streaming quando l’ acqua era fosforescente . Il salmone erano in esecuzione e le pinne una miriade dell’accorrente moltitudine erano zangolatura tutti il flusso in un bagliore argenteo, meravigliosamente bello e impressionante nell’oscurità d’ebano. Per avere una buona visione dello spettacolo ho impostato con uno degli indiani e risalì in mezzo di esso al piede di una rapida circa mezzo miglio dall’accampamento, dove il focoso corrente veloce sopra le rocce reso il bagliore luminoso più glorioso. Accadendo a guardare indietro lungo il torrente, mentre l’indiano è stata la cattura alcuni dei pesci che lottano, vide un fan lunga diffusione di luce come la coda di una cometa, che abbiamo pensato che deve essere fatta da qualche grosso animale strano che ci stava inseguendo. Via è venuto con il suo magnifico treno, fino a quando non abbiamo immaginato che abbiamo potuto vedere il mostro testa e gli occhi; ma era solo Stikine, che, trovando che avevo lasciato l’accampamento, è venuto a nuotare dopo di me per vedere che cosa era finito.

Quando ci siamo accampati all’inizio, il miglior cacciatore dell’equipaggio è andato solitamente nel bosco per un cervo e Stikine era sicuro di essere alle calcagna, fornito che non ero andato. Per, strano a dirsi, anche se non ho mai portato una pistola, ha sempre seguito me, abbandonando il cacciatore e anche il suo padrone per condividere i miei dubbi. I giorni che erano troppo tempestosi per la vela che ho trascorso nei boschi o sulle montagne adiacenti, ovunque miei studi mi ha chiamato; e Stikine sempre insistito per andare con me, tuttavia selvaggio il meteo, scivolando come una volpe attraverso grondante huckleberry cespugli e spinosi grovigli di panax e rubus , scarse mescolando le loro foglie carichi di pioggia; piscinetta per bambini e rotolarsi nella neve, nuoto flussi ghiacciati, saltando sopra i registri e le rocce e i crepacci dei ghiacciai con la pazienza e la resistenza di un alpinista determinato, mai stancante o scoraggiarti. Una volta mi ha seguita nel corso di un ghiacciaio, la cui superficie era così croccante e ruvida che tagliare i piedi fino a quando ogni passo è stato contrassegnato con sangue; ma ha tirato su con forza d’animo indiano fino a quando ho notato la che sua pista rossa e, prendendo pietà di lui, lo ha reso un insieme di mocassini fuori un fazzoletto. Quanto grande i suoi guai non ha mai chiesto aiuto o presentato alcuna denuncia, come se, come un filosofo, che aveva imparato senza fatica e sofferenza non ci potrebbe essere alcun piacere vale la pena avere.

Ancora nessuno di noi era in grado di fare tutto ciò che era veramente buono per Stikine. Lui sembrava soddisfare pericolo e disagi senza nulla come la ragione, ha insistito per avere la sua strada, mai obbedito un ordine, e il cacciatore potrebbe mai metterlo su nulla, o fargli recuperare gli uccelli che ha sparato. Sua equanimità era così stabile che sembrava dovuto alla voglia di sentimento; ordinarie tempeste erano piaceri a lui, e quanto alla mera pioggia, egli fiorì in esso come un vegetale. Non importa quali progressi si potrebbe fare, scarso uno sguardo o una coda-wag hai preso per i dolori. Ma anche se lui era apparentemente freddo come un ghiacciaio e su come impermeabili per divertimento, ho cercato di fare la sua conoscenza, indovinando ci deve essere qualcosa vale la pena nascosto sotto tanto coraggio, la resistenza e amore di selvaggio-weatheryavventura. Nessun mastino vetuste o bulldog diventato vecchio in ufficio ha superato questo nano birichino in dignità stoico. A volte mi ha ricordato di un cactus del deserto piccolo, tozzo, incrollabile. Per lui mai visualizzata una singola traccia di divertimento allegro, furbata, elfish del Terrier e collies che tutti conosciamo, né di loro toccante affetto e devozione. Come i bambini, maggior parte dei cani di piccole taglia chiedono di essere amati ed ammessi all’amore; ma Stikine sembrava un molto Diogenes , chiedendo solo di essere lasciato da solo: un vero figlio del deserto, che tiene il tenore anche della sua vita nascosta con il silenzio e la serenità della natura. La sua forza di carattere risiede nei suoi occhi. Sembravano come vecchio come le colline e come i giovani e come selvaggi. Non ho mai stanchi di guardare in loro: è stato come guardare un paesaggio; ma erano piccole e piuttosto infossati e non aveva alcuna spiegazione linee intorno a loro per dare indicazioni. Ero abituato a guardare dentro le facce delle piante e degli animali, e ho visto la piccola Sfinge più acutamente come un interessante studio. Ma non c’è nessuna stima l’arguzia e la saggezza nascosta e latente in nostri compagni mortali inferiori fino al manifesto fatto di profonde esperienze; per esso è attraverso la sofferenza che cani come i Santi sono sviluppati e reso perfetti.

Dopo aver esplorato i fiordi Dum Sum e Tahkoo e loro ghiacciai, abbiamo navigato attraverso il passaggio di Santo Stefano in Lynn Canal e da lì attraverso Icy Strait in croce suono, alla ricerca di insenature inesplorate che conduce verso il grande Fontana di ghiaccio-campi della gamma Fairweather. Qui, mentre la marea era a nostro favore, siamo stati accompagnati da una flotta di iceberg alla deriva per l’oceano da Glacier Bay . Lentamente abbiamo paddled attorno al punto di Vancouver, Wimbledon, nostra fragile canoa gettato come una piuma sulla massiccia ansante si gonfia provenienti in passato Capo Spenser. Per miglia il suono è delimitato da scogliere murale precipitosa, che, frustato con onda-spray e le loro teste nascoste nelle nuvole, sembrava terribilmente minaccioso e stern. Era la nostra canoa stato schiacciato o sconvolto abbiamo non fatto nessun atterraggio qui, per le scogliere, alte come quelli di Yosemite , pura affondare in acque profonde. Con entusiasmo abbiamo scansionato il muro sul lato nord per il primo segno di un fiordo di apertura o il porto, tutti noi ansiosi tranne Stikine, che assopito in pace o guardava sognante precipizi tremendi quando noi ne ha sentito parlare di loro. A lungo abbiamo fatto la gioiosa scoperta della bocca dell’ingresso ora chiamato “Taylor Bay”, e circa 5 ha raggiunto la testa di esso e si accamparono in un Boschetto Spruce vicino alla parte anteriore di un grande ghiacciaio.

Mentre camp era stato fatto, Joe il cacciatore scalato la montagna parete sul lato est del fiordo nel perseguimento di capre selvatiche, mentre Mr. Young ed io siamo andati al ghiacciaio. Abbiamo trovato che è separata dalle acque dell’insenatura di una morena di marea-lavato e si estende, una barriera brusca, tutta la strada di fronte alla parete a parete dell’ingresso, una distanza di circa tre miglia. Ma la nostra scoperta più interessante era che ha avuto recentemente avanzato, anche se ancora leggermente sfuggente. Una parte della morena terminale era stata Arata fino e spinto in avanti, sradicamento e travolgente il bosco sul lato est. Molti di questi alberi erano giù e sepolto, o quasi così, gli altri erano piegato lontano il ghiaccio-scogliere, pronte a cadere, e alcuni levato in piedi eretti, con la parte inferiore dell’aratro ghiaccio ancora sotto le loro radici e le sue guglie alte cristallo torreggiante enorme sopra loro cime. Lo spettacolo presentato da questi alberi secolari in piedi vicino al lato di una parete spiry di ghiaccio, con i loro rami quasi toccarla, era la maggior parte del romanzo e sorprendente. E quando ho scalato intorno la parte anteriore e un po’ sul lato ovest del ghiacciaio, ho trovato che aveva gonfiato e aumentato in altezza e larghezza in conformità con la sua avanzata e portato via le fila esterne degli alberi sulla sua riva.

Al nostro ritorno in campo dopo queste prime osservazioni ho programmato un’escursione di livello e lontano per l’indomani. Mi sono svegliato presto, chiamato non solo dal ghiacciaio, che era stato sulla mia mente tutta la notte, ma da una grande inondazione-tempesta. Il vento soffiava un vento da nord e la pioggia stava volando con le nuvole in un diluvio di orizzontale larga appassionato, come se si trattasse di tutti passando sopra il paese invece di cadere su di esso. I principali corsi d’acqua perenni era in piena espansione in alto sopra le loro banche, e centinaia di nuovi, ruggendo come il mare, quasi coperto le alte mura grigie dell’entrata con bianche cascate e cascate. Avevo intenzione di preparare una tazza di caffè e ottenere qualcosa di simile una colazione prima di iniziare, ma quando ho sentito la tempesta e guardò fuori che ho fatto fretta ad unirsi ad essa; per molti della natura lezioni migliori si trovano nel suo tempeste , e se attenti a mantenere nei giusti rapporti con loro, possiamo andare tranquillamente all’estero con loro, rallegrandosi per la grandezza e la bellezza delle loro opere e modi e cantando con il vecchio Norsemen, “l’esplosione della tempesta nostra remi l’aids, l’uragano è un nostro servo e noi dove che vogliamo andare.” Così, omettendo la colazione, mettere un pezzo di pane in tasca e si allontanò.

Mr. Young e l’indiano erano addormentati, e così, ho sperato, era Stikine; ma non ero andato una dozzina barre prima ha lasciato il suo letto nella tenda e mi ha inseguito noioso attraverso l’esplosione. Che un uomo debba accogliere tempeste per loro esilarante musica e movimento e andare indietro vedere Dio fare paesaggi, è ragionevole abbastanza; ma quale fascino ci potrebbe essere in un tempo così tremendo per un cane? Sicuramente niente di simile a umano entusiasmo per il paesaggio o geologia. Comunque, su è venuto, breakfastless, attraverso l’esplosione di soffocamento. Mi sono fermato e ho fatto del mio meglio per lui tornare indietro. “Ora non,” ho detto, gridando per rendermi sentito nella tempesta. “non ora, Stikine. Che ha preso il tuo noddle queer ora? Devi essere stupido. Questo giorno selvaggio non ha nulla per te. Non c’è nessun gioco niente all’estero, ma tempo. Torna al campo e tenere al caldo, ottenere una buona prima colazione con il tuo padrone e per una volta di essere ragionevoli. Non riesco a portare tutto il giorno o da mangiare, e questa tempesta ti ucciderà.”

Ma natura, a quanto pare, era in fondo dell’affare, e lei guadagna lei finisce con i cani, così come con gli uomini, facendoci fare come le piace, spingendo e tirando a noi lungo i suoi modi, tuttavia grezzo, tutti, ma ci uccidendo a volte a ottenere le sue lezioni spinti duri a casa. Dopo che avevo smesso ancora e ancora, gridando buoni consigli di avviso, ho visto che lui non doveva essere scrollato di dosso; anche la terra potrebbe tentare di scrollarsi di dosso la luna. Una volta avevo condotto suo padrone nei guai, quando è caduto su una delle intaccature più in alto di una montagna e slogato il braccio ; Ora il turno del suo umile compagno stava arrivando. Il wanderer pietoso rimase lì nel vento, inzuppato e lampeggiante, dicendo caparbiamente , “dove tu andrai andrò.”Così alla fine che gli ho detto di venire, se necessario e gli diede un pezzo di pane che ho avuto nella mia tasca; poi abbiamo lottato su insieme e così ha cominciato il più memorabile di tutti i miei giorni selvaggi.

L’alluvione di livello, guida difficile nei nostri volti, battuto e ci ha lavati selvaggiamente fino a quando siamo entrati in al riparo di un boschetto sul lato est del ghiacciaio vicino alla parte anteriore, dove ci siamo fermati un po’ di respiro e di ascoltare e guardare fuori. L’esplorazione del ghiacciaio era mio oggetto principale, ma il vento era troppo elevato per consentire escursioni sopra la relativa superficie aperta, dove uno potrebbe essere pericolosamente spinto mentre il bilanciamento per un salto sull’orlo di un crepaccio. Nel frattempo la tempesta era uno studio fine. Lì alla fine del ghiacciaio, discendente di un brusco rigonfiamento di resistenza roccia circa cinquecento piedi di altezza, si appoggia in avanti e cade in Cascate di ghiaccio. E come la tempesta è venuto giù il ghiacciaio da nord, Stikine ed io eravamo sotto la corrente principale dell’esplosione, mentre una posizione favorevole per vedere e sentire. Che cosa stava cantando un Salmo la tempesta e come fresco l’odore della terra lavato e foglie e come dolce l’ancora piccole voci della tempesta! Turbinii e distaccata aleggia stavano arrivando attraverso il bosco, con musica dalle foglie e rami e solcata boles, e anche dall’overhead di rocce e ghiaccio-falesie scheggiato, molti dei toni morbidi e bassi e flauto-like, come se ogni foglia e albero, falesia e guglia erano un reed sintonizzati. Un ampio torrente, drenante sul lato del ghiacciaio, ora gonfiato da decine di nuovi flussi dalle montagne, stava rotolando massi lungo il canale roccioso, con thudding, urtando, attutiti suoni, correndo verso la baia con un’energia incredibile, come se in fretta di uscire le montagne; gli inverni sopra e sotto la chiamata a vicenda e tutto l’oceano, loro casa.

Guardando verso sud dal nostro rifugio, abbiamo avuto questo grande torrente e la parete di montagna boscosa sopra di esso alla nostra sinistra, spiry ghiaccio-falesie sulla nostra destra e liscio grigio gloom avanti. Ho provato a disegnare la scena meravigliosa nel mio taccuino, ma la pioggia offuscata la pagina nonostante tutti i miei dolori per proteggerla e lo schizzo è stato quasi inutile. Quando il vento cominciò a abate, ho rintracciato il lato est del ghiacciaio. Tutti gli alberi in piedi sul bordo del bosco erano latrati e contuso, mostrando alta ice marchio in maniera molto significativa, mentre decine di migliaia di coloro che avevano resistito per secoli sulla riva del ghiacciaio più lontano fuori lay schiacciato ed essere schiacciato. In molti posti che ho potuto vedere lungo cinquanta piedi o giù di lì sotto il margine del ghiacciaio-mulino, dove tronchi da uno a due piedi di diametro, qui, essendo terra alla polpa contro eccezionale rock-centine e boss della banca.

Circa tre miglia sopra la fronte del ghiacciaio che sono salito sulla superficie di esso per mezzo di ascia-passaggi reso facile per Stikine. Per quanto l’occhio potrebbe raggiungere, il ghiacciaio di livello, o pressoché livello, distanza allungata indefinitamente sotto il cielo grigio, una prateria apparentemente senza limito di ghiaccio. La pioggia continua e crebbe più fredda, che non mi dispiaceva, ma un look dim nevoso nelle nuvole cadenti mi ha fatto esitare circa avventurarsi lontano dalla terra. Nessuna traccia della sponda ovest era visibile e nel caso le nuvole sarebbero accontentarsi e dare neve, o il vento ancora diventare violenti. Avevo paura di essere scoperti in un groviglio di crepacci. Cristalli di neve, i fiori delle nuvole di montagna, sono fragile, belle cose, ma terribile poi volare su venti di tempesta in oscuramento, rimasto sciami o quando saldati insieme in ghiacciai pieni di crepacci mortale. Guardando il meteo, saltellando sul mare cristallino. Per un miglio o così fuori ho trovato il ghiaccio notevolmente sicura. I crepacci marginali semplici per lo più stretta, mentre i pochi quelli più ampia erano facilmente evitare passando attorno a loro, e le nuvole cominciarono ad aprire qui e là.

Così incoraggiati, ho finalmente spinto fuori per l’altro lato; per natura può farci fare qualcosa che le piace. In un primo momento abbiamo fatto rapidi progressi, e il cielo non era molto minaccioso, mentre ho preso cuscinetti occasionalmente con una bussola tascabile che mi permettesse di trovare la mia strada di ritorno più sicuramente nel caso della tempesta dovrebbe diventare accecante; ma le linee di struttura del ghiacciaio erano mia guida principale. Verso il lato ovest siamo venuti a una sezione strettamente crepacciata in cui abbiamo dovuto fare lunghe, strette aderenze e accoppiamenti, tracciare i bordi delle traverse tremenda e crepacci longitudinali, molti dei quali erano da venti a trenta piedi di larghezza, e Forse un migliaio di piedi profondi..–bella e terribile. Nel lavoro un senso attraverso di loro ero gravemente cauto, ma Stikine è venuto come senza tentennamenti come le nuvole volanti. Il crepaccio più ampio che avrei potuto saltare lui saltava senza così tanto come fermare per dare un’occhiata a questo. Il tempo ora stava facendo cambiamenti rapidi, pezzetti di scattering di luminosità abbagliante attraverso l’oscurità invernale a rari intervalli, quando il sole ha rotto indietro completamente libero, che il ghiacciaio è stato visto da Riva a Riva con una brillante gamma di che comprende montagne parzialmente rivelate, indossando le nuvole come capi, mentre la prateria fiorì e scintillavano con iridata luce da miriadi di cristalli lavati. Poi improvvisamente tutto il glorioso spettacolo sarebbe stato oscurato e cancellò.

Stikine sembrava cura per nessuna di queste cose, chiaro o scure, né per i crepacci, pozzi, moulins o swift lampeggiante flussi nella quale egli potrebbe cadere. L’avventuriero poco aveva solo circa due anni, ma nulla sembrava romanzo a lui. Nulla spaventare lui. Ha mostrato né attenzione né curiosità, meraviglia né paura, ma coraggiosamente trotto su come se i ghiacciai erano parchi giochi. Il suo corpo robusto ed ovattato sembrava tutto un muscolo di salto ed è stato veramente meraviglioso vedere quanto rapidamente e in apparenza heedlessly ha mostrato attraverso nervo-cercando voragini sei o otto largo piedi. Suo coraggio era così incrollabile che sembrava di essere a causa di ottusità della percezione, come se fosse solo ciecamente grassetto; e continuavo a avvisandolo di stare attenti. Per siamo stati stretti compagni su così tanti viaggi deserto che avevo formato l’abitudine di parlare con lui come se fosse un ragazzo e capito ogni parola.

Abbiamo guadagnato la sponda occidentale in circa tre ore; la larghezza del ghiacciaio qui essere circa sette miglia. Poi ho spinto verso il nord per vedere quanto più indietro possibile nelle Fontane dei Monti Fairweather, nel caso in cui le nuvole dovrebbero aumentare. La distanza era facile lungo il margine della foresta, che, naturalmente, come che da altra parte, era stato invaso e schiacciato dal ghiacciaio gonfio, trabocca. In un’ora o così, dopo aver superato un massiccio promontorio, siamo venuti improvvisamente su un ramo del ghiacciaio, che, sotto forma di una magnifica cascata di ghiaccio due miglia di larghezza, pioveva a dirotto sopra l’orlo del bacino principale in direzione ovest, la sua superficie suddivisi in lame a forma di onda un d in frantumi blocchi, suggerendo la più selvaggia updashing, ansante, immergendo il movimento di una cataratta del grande fiume. Rintracciando giù tre o quattro miglia, ho trovato che scarichino in un lago, riempiendolo di iceberg.

Volentieri avrebbe seguito l’outlet Lago di acqua di marea, ma il giorno era già trascorso lontano, e il cielo minaccioso chiamato di fretta durante il viaggio di ritorno a scendere il ghiaccio prima che faccia buio. Ho deciso quindi di andare no più lontano e, dopo aver preso una vista generale della meravigliosa regione, tornata indietro, sperando di vederlo ancora una volta sotto auspici più favorevoli. Abbiamo fatto buona velocità fino il cañon del torrente grande ghiaccio e fuori sul ghiacciaio principale finché non abbiamo lasciato la sponda occidentale circa due miglia dietro di noi. Qui siamo entrati in una rete difficile di crepacci, le nuvole di raduno cominciarono a cadere frange nebbiose e presto la neve temuta è venuto volante spessa e veloce. Ora ho cominciato a sentire ansiosi di trovare un modo nella tempesta sfocatura. Stikine ha mostrato alcuna traccia di paura. Egli era ancora lo stesso eroe poco silenzioso, in grado. Ho notato, tuttavia, che, dopo la tempesta-oscurità è venuto teneva vicino dietro di me. La neve ci ha esortato a fare in fretta ancora maggiore, ma allo stesso tempo nascose il nostro modo. Ho spinto come meglio potevo, saltando innumerevoli crepacci e per ogni cento canne o giù di lì di anticipo diretto viaggiare un miglio in raddoppio su e giù nel tumulto delle voragini e blocchi di ghiaccio slogati. Dopo un’ora o due di questo lavoro siamo venuti per una serie di crepacci longitudinali di larghezza spaventoso e quasi dritto e regolare in tendenza, come solchi immensi. Questi ho rintracciato con costante del nervo, eccitato e rafforzato dal pericolo, fare salti largo, rettilineo con cautela sui loro bordi vertigini dopo il taglio di incavi per i miei piedi prima di fare la primavera, per evitare possibili scivolamenti o qualsiasi incertezza sul lato più lontano, dove viene concessa solo una prova..–esercitare contemporaneamente spaventosi e stimolante. Stikine seguita apparentemente senza sforzo.

Molti un miglio che abbiamo viaggiato così, per lo più facendo su e giù, ma poco reale progresso in traversata, in esecuzione invece di camminare il più delle volte come il pericolo di essere costretti a passare la notte sul ghiacciaio è diventato minaccioso. Stikine sembrava essere in grado per qualsiasi cosa. Senza dubbio abbiamo potuto hanno resistito alla tempesta per una notte, ballando su un appartamento posto al teme il gelo, e ho dovuto affrontare la minaccia senza sentire nulla come disperazione; ma eravamo affamati e bagnato e il vento dalle montagne era ancora spesso con neve e freddo pungente, così naturalmente quella notte sarebbe sembrato una molto lunga. Non riuscivo a vedere lontano abbastanza attraverso la neve sfocatura per giudicare in quale direzione generale il percorso meno pericoloso posare, mentre i pochi scorci dim, momentanee che ho preso delle montagne attraverso spaccature tra le nuvole volanti erano tutt’altro che incoraggiante come segni del tempo o come Guide. Ho dovuto semplicemente brancolare mio modo da crepaccio di crepaccio, tenendo una direzione generale di ghiaccio-struttura, che non doveva essere visto ovunque, e in parte dal vento. Ancora e ancora mi hanno messo al mio coraggio, ma Stikine seguita facilmente, suo nervo apparentemente in crescita più inflessibile come il pericolo maggiore. Così è sempre con gli alpinisti quando è duro assediato. Difficile correre e saltare, che tiene ogni minuto della luce diurna rimanente, povero come era, prezioso, abbiamo caparbiamente perseverato e provato a sperare che ogni crepaccio difficile che abbiamo superato risulterebbe per essere l’ultimo della sua specie. Ma al contrario, come abbiamo avanzato divennero più mortale cercando.

A lungo il nostro modo era sbarrata da un crepaccio molto ampio e diritto, che ho rintracciato rapidamente verso il nord un miglio o così senza trovare un incrocio o la speranza di uno; poi giù il ghiacciaio su quanto, a cui ha unito con un altro crepaccio invalicabile. In tutta questa distanza di forse due miglia c’era solo un posto dove avrei potuto eventualmente saltare esso, ma la larghezza di questo salto era il massimo che ho osato tentare, mentre il pericolo di scivolamento sul lato più lontano era così grande che ero restio a provare. Inoltre, il lato che ero era circa un piede più alto di altra, e anche con questo vantaggio il crepaccio sembrava pericolosamente ampio. Uno rischia di sottovalutare la larghezza di crepacci dove le magnitudini in generale sono fantastici. Quindi guardavo questo possente acutamente, stimando la sua larghezza e la forma del bordo sul lato più lontano, fino a quando ho pensato che avrei potuto saltare, se necessario, ma che nel caso in cui io dovrei essere costretto a saltare indietro dal lato inferiore potrei avere esito negativo. Ora, un alpinista cauto raramente fa un passo su terreno sconosciuto che sembra affatto pericoloso che egli non può ripercorrere nel caso in cui egli deve essere interrotto da ostacoli invisibili avanti. Questa è la regola di alpinisti che vivono a lungo, e, anche se in fretta, sono costretto a me stesso di sedersi e deliberare con calma prima l’ho rotto.

Ripercorrendo il mio percorso subdola in immaginazione come se si fossero disegnato su un grafico, ho visto che stavo riattraversare il ghiacciaio un miglio o due più lontano a monte rispetto al corso perseguito la mattina, e che ora stavo impigliato in una sezione che non avevo visto prima. Devo rischiare questo salto pericoloso, o cercare di riconquistare i boschi sulla sponda occidentale, fare un fuoco e hanno solo fame di sopportare durante l’attesa di un nuovo giorno! Avevo già attraversato un così vasto tratto di ghiaccio pericoloso che ho visto che sarebbe stato difficile tornare nel bosco attraverso la tempesta, prima che faccia buio, e il tentativo comporterebbe probabilmente una lugubre notte-danza sul ghiacciaio; mentre appena oltre la barriera presente sulla superficie sembrava più promettente, e la sponda orientale ora era più vicino forse circa come l’Occidente. Quindi ero impaziente di andare avanti. Ma questo grande salto era un terribile ostacolo.

A lungo, a causa dei pericoli già dietro di me, ho deciso di avventurarsi nei confronti di coloro che potrebbero venire, saltò e atterrato bene, ma con così poco di ricambio che ho temuto sempre più costretti a prendere quel salto indietro dal lato inferiore. Stikine seguita, fare nulla, e ci siamo imbattuti con entusiasmo in avanti, sperando che ci hanno lasciato tutte le nostre angosce. Ma trovano alcune cento yarde di distanza abbiamo hanno fermati il crepaccio più ampio ancora incontrati. Naturalmente ho fatto fretta per esplorarlo, sperando che tutto potrebbe ancora essere sanate trovando un ponte o un senso intorno a entrambe le estremità. Circa tre quarti di miglio fino streaming che ho trovato che ha unito con quello che aveva appena attraversato, come temevo che sarebbe. Poi, rintracciando giù, ho trovato che ha aderito il crepaccio stesso all’estremità inferiore, inoltre, conservando per tutto l’intero corso una larghezza di quaranta-cinquanta piedi. Così per il mio sgomento ho scoperto che eravamo su un’isola stretta circa due miglia di lunghezza, con a malapena possibili due modi per fuggire: uno indietro dal modo in cui siamo venuti, l’altro avanti di un quasi inaccessibile scheggia-ponte che ha attraversato il grande crepaccio da vicino al centro di esso!

Dopo questa scoperta del nervo-cercando corsi indietro al nastro-ponte e cautamente esaminato esso. Crepacci, causate da ceppi da variazioni del tasso di movimento delle diverse parti del ghiacciaio e convessità nel canale, sono semplici crepe quando in primo luogo aprire, così strette come difficilmente per ammettere la lama di un coltello da tasca e gradualmente ampliare secondo il misura dello sforzo e la profondità del ghiacciaio. Ora alcune di queste crepe sono interrotti, come le crepe nel legno, e nell’apertura la striscia di ghiaccio tra le estremità di sovrapposizione viene trascinata e può mantenere una connessione continua tra il lato, proprio come i due lati di una crepa scaglie in legno essendo divisa ar e collegato. Alcuni crepacci rimangono aperte per mesi o addirittura anni e per la fusione dei loro lati continuano ad aumentare in larghezza lungo dopo lo sforzo di apertura ha cessato; mentre lo scheggia-ponti, livello in cima al primo e perfettamente sicuro, a lungo si fondono a lame sottili, verticali e acuminate, parte superiore essendo più esposta alle intemperie; e dal momento che l’esposizione è più grande nel mezzo. essi a curva di lunghezza verso il basso come i cavi dei ponti sospesi. Questo era evidentemente molto vecchio, che era stato esposto all’aria e sprecato fino a quando è stato il più pericoloso e inaccessibile che azzardi a modo mio. La larghezza del crepaccio era qui circa cinquanta piedi, e l’attraversamento di scheggia in diagonale era circa settanta piedi di lunghezza; sua sottile coltello vicino al centro era depresso venticinque o trenta piedi sotto il livello del ghiacciaio, e le estremità in su-curvatura sono state fissate ai piedi i lati otto o dieci sotto l’orlo. Scendendo la parete quasi verticale all’estremità del nastro e l’altro lato sono state le principali difficoltà, e sembravano tutti, ma insormontabili. Dei molti pericoli incontrati nei miei anni di vagabondaggio su montagne e ghiacciai, nessuno sembrava così semplice e severo e spietato come questo. Ed è stato presentato quando eravamo bagnati per la pelle e affamati, il cielo scuro con neve Guida rapida e la notte nei pressi. Ma siamo stati costretti ad affrontarlo. È stata una tremenda necessità.

A partire, non immediatamente sopra l’affondata fine del ponte, ma un po’ da un lato, ho tagliato una profonda cavità sull’orlo per mie ginocchia a riposare in. Quindi, che si appoggia sopra, con la mia ascia manico corto ho tagliato un passo sedici o diciotto pollici qui sotto, che a causa di sheerness del muro era necessariamente superficiale. Tale passaggio, tuttavia, era ben fatta; suo piano inclinato leggermente verso l’interno e formata una buona tenuta per i miei tacchi. Quindi, scivolare con cautela su di essa e che si accovaccia più in basso possibile, con il mio lato sinistro verso il muro, assestato me stesso contro il vento con la mano sinistra in una tacca lieve, mentre con la destra ho tagliato altri passaggi simili e tacche in successione, difendendosi perdita di equilibrio da scintillante dell’ascia o da raffiche di vento, per vita e la morte erano in ogni colpo e la gentilezza di finitura di ogni appiglio.

Dopo che è stata raggiunta la fine del ponte scheggiato e giù fino a quando avevo fatto una piattaforma di livello sei o otto pollici di larghezza ed era una cosa cerca di equilibrio su questa piattaforma poco scivoloso mentre si piega in avanti per ottenere in modo sicuro da ambo i lati del nastro. Incrocio quindi era relativamente facile da chipping spento il bordo tagliente con colpi brevi, attenta e aggancio avanti un pollice o due alla volta, mantenere il mio equilibrio con le mie ginocchia premuto contro i lati. L’enorme abisso su entrambe le mani che ho diligentemente ignorato. Per me il bordo di quel nastro blu era poi tutto il mondo. Ma la parte più difficile dell’avventura, dopo aver lavorato mio modo attraverso pollice dal pollice e chipping un’altra piccola piattaforma, era a salire dalla posizione sicura da ambo i lati e tagliare uno step-ladder in faccia quasi verticale della parete, — chipping, arrampicata, aggrappandosi con i piedi e le dita nelle tacche di mere. In questi momenti di uno tutto il corpo è occhio. e abilità e forza d’animo comuni sono sostituite da potere oltre ogni nostra chiamata o la conoscenza . Mai ero stato così a lungo sotto il ceppo mortale. Come mi sono alzato quella scogliera mai potrei dire. La cosa sembrava essere stato fatto da qualcun altro. Mai ho tenuto morte in disprezzo, anche se nel corso del mio esplorazioni spesso ho sentito che per soddisfare il proprio destino su una montagna nobile, o nel cuore di un ghiacciaio, sarebbero state benedette rispetto a morte da malattia o da qualche incidente pianura squallido. Ma la morte migliore, rapida e cristallo-puro, impostata così vistosamente aperta davanti a noi, è abbastanza difficile da affrontare, anche se siamo convinti con gratitudine che abbiamo già avuto abbastanza felicità per la vita di una dozzina.

Ma povero Stikine, wee, pelosi, sleekit beastie , pensare a lui! Quando avevo deciso di osare il ponte, e mentre ero sulle mie ginocchia chipping una cavità sulla fronte arrotondata sopra di esso, è venuto dietro di me, ha spinto la testa passata mia spalla, guardato giù e da altra parte, analizzato il nastro e nei suoi approcci con i suoi occhi misteriosi , poi mi guardò in faccia con un aria fatto sussultare di sorpresa e preoccupazione e cominciò a mutter e piagnucolare; dicendo chiaramente come se parlasse con le parole, “sicuramente, non si sta in quel posto orribile.” Questa era la prima volta che avevo visto lo sguardo deliberatamente in un crepaccio, o nella mia faccia con uno sguardo ansioso, che parlano, turbato. Che egli dovrebbe hanno riconosciuto e apprezzato il pericolo al primo sguardo ha mostrato sagacia meraviglioso. Mai prima aveva il nano audace sembrava sapere che il ghiaccio era scivoloso o che c’era una cosa del genere come pericolo ovunque. Suoi sguardi e toni di voce quando ha iniziato a lamentarsi e parlare le sue paure erano così umani che inconsciamente gli ho parlato in simpatia come vorrei un ragazzo spaventato, e nel tentativo di calmare la sue paure forse in qualche misura moderato mio. “Hush tue paure, ragazzo mio,” ho detto, “ ci metteremo in cassetta di sicurezza , anche se non sara ‘ facile. Nessun modo giusto è facile in questo mondo agitato. Noi dobbiamo rischiare la vita per salvarli. Nel peggiore dei casi possiamo solo scivolare, e quindi quanto grande una tomba avremo, e via via le nostre ossa bella farà bene nella morena terminale.”

Ma il mio sermone era tutt’altro che rassicurante lui: ha iniziato a piangere, e dopo aver preso un altro sguardo penetrante al Golfo tremendo, scappato in eccitazione disperata, alla ricerca di qualche altro incrocio. Con il tempo che e ‘ tornato, sconcertato naturalmente, avevo fatto un passo o due. Non ho osato guardare indietro, ma si è fatto sentire; e quando vide che io era vòlto in certamente incrocio che gridò ad alta voce in preda alla disperazione. Il pericolo è stato sufficiente a tormentare qualcuno, ma sembra meraviglioso che avrebbe dovuto essere in grado di peso e apprezzarlo così giustamente. Nessun alpinista potrebbe avere visto più rapidamente o giudicati più saggiamente, discriminare fra il pericolo reale e apparente.

Quando ho guadagnato da altro lato, si mise a gridare più forte che mai e dopo correre avanti e indietro inutile ricerca di una via di fuga, sarebbe tornato sull’orlo del crepaccio sopra il ponte, gemiti e lamenti come se nell’amarezza della morte. Questo potrebbe essere lo Stikine silenzioso, filosofico? Ho gridato incoraggiamento, dicendogli che il ponte non era così male come sembrava, che avevo lasciato piana e sicura per i suoi piedi, e che poteva camminare facilmente. Ma aveva paura di provare. Strano, un animale così piccolo dovrebbe essere capace di tali timori grande, saggi. Ho chiamato nuovamente in un tono rassicurante per venire e aver paura di nulla; che poteva venire se solo avrebbe provato. Egli sarebbe silenzio per un attimo, guarda giù nuovamente presso il ponte e gridare sua incrollabile convinzione che non potesse mai, mai cosi ‘ che arrivano; poi si trovano indietro in preda alla disperazione, come se urlando, “O-o-oh! che posto! No-o-o, non riesco mai andare-o-o laggiù!” Sua naturale compostezza e coraggio era scomparso completamente in una tumultuosa tempesta di paura. Il pericolo era stato meno, sua angoscia sarebbe sembrato ridicolo. Ma in questo lugubre, spietato abisso giaceva nell’ombra di morte, e sue grida strazianti potrebbe ben chiamato cielo in suo aiuto. Forse hanno fatto. Così nascosto prima, ora era trasparente, e si poteva vedere il funzionamento del suo cuore e la mente come i movimenti di un orologio dalla custodia. Sua voce e gesti, speranze e timori, erano così perfettamente umana che nessuno potrebbe confondere loro; mentre sembrava di capire ogni parola mia. Ero turbato al pensiero di dover lasciare lui fuori tutta la notte e il pericolo di non trovare lui la mattina. Sembrava impossibile farlo per avventurarsi. Per costringerlo a provare per paura di essere abbandonato, ho iniziato come se lasciarlo al suo destino e scomparve dietro un hummock; ma questo fatto non va bene; Egli solo stabilire e gemeva male indicibile miseria senza speranza. Così, dopo aver nascosto a pochi minuti, sono tornato sull’orlo del crepaccio e in un tono grave di voce gridato attraverso a lui che ora devo lasciare certamente lui, non potrei attendere non più, e che, se lui non sarebbe venuto, tutto quello che potuto promettere era che mi piacerebbe ritornare in lo cercano il giorno successivo. L’ho avvertito che se e ‘ tornato nel bosco i lupi lo avrebbero ucciso e terminato da esortandolo ancora una volta con le parole e i gesti a venire su, andiamo.

Sapeva molto bene quello che significava e finalmente, con il coraggio della disperazione, sommesso e senza fiato, si appiattò sull’orlo nella cavità che avevo fatto per le ginocchia, premuto il suo corpo contro il ghiaccio, come se cercasse di ottenere il vantaggio dell’attrito di ogni capello , fissato il primo passo, mettere i suoi piccoli piedi insieme e li scivolò lentamente, lentamente sopra il bordo e giù in esso, Trefolatura tutti e quattro in esso e quasi in piedi sulla sua testa. Quindi, senza sollevare i piedi, così come ho potuto vedere attraverso la neve, ha lentamente lavorato li sopra il bordo del gradino e giù in quella successiva ed il successivo in successione nello stesso modo e acquisita alla fine del ponte. Quindi, sollevamento suoi piedi con la regolarità e la lentezza delle vibrazioni di un pendolo a secondi, come se di conteggio e misura uno-due-tre , che tiene lo stesso stabile contro il vento rafficato, e dando attenzione separata per ogni piccolo passo, si guadagnò il piede della scogliera, mentre ero sulle mie ginocchia che si appoggia sopra per dargli un ascensore lui dovrebbe riuscire a ottenere alla portata del mio braccio. Qui ha fermato in silenzio, e fu qui che ho temuto che potrebbe avere esito negativo, per cani sono poveri scalatori. Ho non avuto nessun cavo. Se avessi avuto uno, sarebbe sceso un cappio sopra la sua testa e lui trascinato. Ma mentre stavo pensando se un cavo disponibile potrebbe essere fatto di abbigliamento, fu acutamente esaminando la serie di passaggi dentellate e dito-tiene che avevo fatto, come se li contiamo e fissare la posizione di ciascuno di essi nella sua mente. Poi improvvisamente up egli è venuto in fretta ed elastica, aggancio suo paws in passaggi e tacche così in fretta che non ho potuto vedere come era fatto e ha inviato oltre la mia testa, sicuro, finalmente!

E ora è venuto una scena! “Ben fatto, ben fatto, ragazzino! Ragazzo coraggioso!” Ho pianto, cercando di prendere e accarezzare lui; ma egli non sarebbe stato catturato. Mai prima o da allora ho visto nulla di simile così appassionato una repulsione dalla profondità della disperazione di gioia esultante, trionfante, incontrollabile. Egli balenò e guizzavano qua e là come se abbastanza demente, urlando e gridando, vorticoso giro ed il giro in loop vertiginoso e cerchi come una foglia in un vortice, sdraiato e di rotolamento più e più volte, lateralmente e talloni sopra la testa e versando via un tumultuoso alluvione di grida isteriche e singhiozzi e ansimante borbottii. Quando mi sono imbattuto a lui per agitare lui, temendo che potesse morire di gioia, ha mostrato fuori due o tre cento iarde, i piedi in una nebbia di movimento; poi, svolta improvvisamente, è tornato in una corsa selvaggia e lanciò la mia faccia, quasi mi bussa. nel frattempo stridore e urlando e gridando come se dicendo, “Saved! salvati! salvato!” Poi via di nuovo, cadere improvvisamente a volte con i piedi in aria, tremante e abbastanza singhiozzando. Tale emozione appassionata era abbastanza per ucciderlo. Il brano maestoso Mosè di trionfo dopo la fuga gli egiziani e il mar rosso era niente di che. Chi potrebbe avere indovinato la capacità dell’omino sordo, duratura per tutto ciò che più suscita questo telaio mortale? Nessuno avrebbe potuto aiutare piangere con lui!

Ma non c’è niente come lavoro per smorzare eccessiva paura o di gioia. Così mi sono imbattuto avanti, chiamandolo in come burbero una voce come io potrei comando di venire a interrompere la sua assurdità, per noi era troppo lontano andare e sarebbe presto egli scuro. Nessuno di noi temevano un altro processo come questo. Cielo sarebbe sicuramente contare uno abbastanza per tutta la vita. Il ghiaccio avanti era squarciato da migliaia di crepacci, ma erano più comuni. La gioia della liberazione bruciato in noi come il fuoco, e ci siamo imbattuti senza fatica, ogni muscolo con rimbalzo immenso vanto nella sua forza. Stikine volò attraverso tutto ciò che a suo modo, e non fino a buio egli sistemazione in suo trotto volpe-come normale. Le montagne nuvolosa giunse in vista, e abbiamo presto sentito la roccia solida sotto i nostri piedi ed erano al sicuri. Poi è arrivata la debolezza. Pericolo era scomparso, e così aveva la nostra forza. Siamo schiacciati lungo la morena laterale al buio, su massi e tronchi d’albero, attraverso i cespugli e boschetti di diavolo-club del boschetto dove abbiamo noi stessi avevamo riparato al mattino e da altra parte il livello mudslope della morena terminale. Abbiamo raggiunto circa 10 di camp e trovato un grande fuoco e una grande cena. Una festa degli indiani Hoona aveva visitato il signor Young, portando un regalo di focena carne e fragoline di bosco, e Hunter Joe aveva portato in una capra selvatica. Ma abbiamo stabiliscono, troppo stanchi per mangiare molto e presto cadde in un sonno agitato. L’uomo che ha detto, “più difficile la fatica, più dolce il resto,” non è mai stato profondamente stanchi. Stikine mantenuto sorgendo e borbottando nel sonno, sognando non c’è dubbio che egli era ancora sull’orlo del crepaccio; e anch ‘ io, quella notte e molti altri molto tempo dopo, quando ero troppo stanco.

Da allora in poi Stikine era un cane modificato. Durante il resto del viaggio, invece di tenere in disparte, sempre giaceva al mio fianco, ha cercato di tenermi costantemente in vista e difficilmente avrebbe accettato un boccone di cibo, tuttavia allettante, da qualsiasi mano ma la mia. Di notte, quando tutto era tranquillo circa il falò, avrebbe venire da me e riposare la testa sul mio ginocchio con uno sguardo di devozione, come se fossi il suo Dio. E spesso come ha catturato la mia attenzione che sembrava essere cercando di dire, “non era che un tempo terribile che abbiamo avuto insieme sul ghiacciaio?”

Niente nel dopo anni ha smorzato quel Alaska Tempesta-giorno. Mentre scrivo tutto arriva correndo e ruggente in mente come se fossi di nuovo nel cuore di esso. Ancora una volta vedo il grigio volante nuvole con le loro piene di pioggia e neve, il ghiaccio-scogliere torreggianti sopra la foresta di contrazione, la maestosa cascata di ghiaccio, il vasto ghiacciaio tese prima sua montagna bianca-fontane e nel cuore di esso il crepaccio tremendo,… emblema della valle dell’ombra della morte, –nuvole basse finali sopra esso, la neve che cade in esso; e il suo orlo vedo poco Stikine, e ho sentito le sue grida per aiuto e sua grida di gioia. Ho conosciuto molti cani e molti una storia che potrei dire della loro saggezza e devozione; ma a nessuno devo tanto da Stikine. In un primo momento il meno promettente e meno conosciuto dei miei amici-cane, improvvisamente divenne il più noto di tutti loro. La nostra tempesta-battaglia per la vita lo ha portato alla luce, e attraverso di lui come attraverso una finestra ho allora cercato con la più profonda simpatia in tutti i miei compagni mortali.

Nessuno degli amici di Stikine sa che cosa è diventato infine di lui. Dopo che è stato fatto il mio lavoro per la stagione partii per la California, e non ho mai visto il caro piccino nuovamente. In risposta a richieste ansiosi suo padrone mi ha scritto che nell’estate del 1883 egli fu rubato da un turista a Fort Wrangell e portato via su un piroscafo. Suo destino è avvolta nel mistero. Senza dubbio ha lasciato questo mondo..–ha attraversato l’ultimo crepaccio..–e andato ad un altro. Ma non sarà dimenticato. A me Stikine è immortale.

Note da Francis H. Allen

[dall’edizione di The Riverside Press]

Fort Wrangel.

Ora generalmente scritto Wrangell. Qualsiasi buona mappa dell’Alaska mostrerà la sua posizione.

Rev. S. H.Young.

Samuel Hall Young, ora sovrintendente della Alaska presbiteriana missioni con ufficio a New York City, ma a quel tempo un missionario nel campo con quartier generale a Fort Wrangel. Viaggia in Alaska di Mr. Muir contiene un interessante resoconto di un’avventura alpinismo in cui Mr. Young perse quasi la vita. Dr. Young (ha ricevuto il grado di D.D. nel 1899) ha scritto entertainingly di questa e di altre esperienze con John Muir ( Outlook , 26 maggio, 23 giugno e 28 luglio 1915). Nell’ultimo dei suoi tre articoli racconta Stikine, oggetto di questa storia.

Coda… ombroso come uno scoiattolo.

La parola verde per scoiattolo, skiouros , da cui deriva la nostra parola inglese, è formata da due parole significato “ombra” e “coda”. È abbastanza probabile che Mr. Muir aveva questo in mente.

L’acqua era fosforescente.

Alcuni dei piccola e microscopica vita animale del mare diventa luminosa di notte quando disturbato dalla rottura delle onde, la zangolatura dell’elica di una barca, gli schizzi dei remi, i tratti di un nuotatore, o qualsiasi causa simile, come, in questo caso, i movimenti del salmone. L’acqua circostante a volte risplende e brilla splendidamente.

Il salmone erano in esecuzione.

Salmone, anche se per la maggior parte dell’anno vivono in mare, depongono le uova solo in acqua corrente fresca, e in primavera e in estate brulicano i flussi per il breeding-grounds. Questo è il momento quando vengono catturati per lo sport e per il mercato, –a est con la canna e la linea, in Alaska, dove sono trovati in gran numero, con reti e Lance. Questa migrazione i flussi è chiamata “in esecuzione”.

Panax.

Panax horridus, o Fatsia horrida , un arbusto araliaceous pericolosamente spinoso, comunemente chiamato del diavolo-club. È abbondante in Alaska.

Rubus.

Il genere di piante a cui appartengono la mora, lampone, rovo e lamponi.

Wild-weathery.

Uno sembra nei dizionari invano per questa parola, ma il significato è ovvio. Mr. Muir era piuttosto affezionato di coniare parole giocosi di questo genere, come sono così comuni nel suo nativo Scotch.

Diogenes.

Un celebre filosofo cinico greco che disprezzava le ricchezze ed è detto di aver vissuto in una vasca. Plutarco racconta che quando Alessandro Magno chiesto Diogenes se poteva fare niente per lui rispose, “Sì, avrei si levano in piedi tra me e il sole.”

Sfinge.

“Una persona di spinxlike; una delle enigmatiche o imperscrutabile carattere e finalità”(Webster New International Dictionary ). La Sfinge della mitologia greca proposto un enigma per tutti i visitatori e, dopo il fallimento di ciascuno a indovinarla, rapidamente divorato lui.

Tahkoo.

Un nome indiano, anche ortografato Taku.

Fontana-campi di ghiaccio.

I campi di ghiaccio che formano le fonti dei ghiacciai.

Glacier Bay.

Il famoso Muir Glacier , scoperto da Mr. Muir nel 1879, è a capo di questa baia.

Yosemite.

Yosemite Valley della California , dove Mr. Muir ha reso la sua casa per anni.

Tempeste.

John Muir ha mai avuto paura di maltempo. Uno dei suoi scritti più interessanti è l’account in The Mountains della California di come ha scalato un albero nella foresta durante una tempesta di vento e vi rimase scosso selvaggiamente negli alberi mentre ha studiato le abitudini degli alberi sotto tali condizioni.

Slogato il braccio.

Vedere l’account in viaggi in Alaska.

Accanitamente.

Si noti il gioco di parole.

“Dove tu andrai andrò.”

Senza dubbio suggerito dalla risposta di Ruth a sua suocera, Naomi, “dove tu andrai, io andrò” (Ruth 01:16).

Virate strette.

La parola “Chiodini” viene utilizzata in senso nautico, come quando una nave a vela “Chiodini” di bolina, un corso a zig-zag, perché è Impossibile navigare direttamente contro il vento. Per “stretta tacks” l’autore intende evidentemente Chiodini in cui pochi veri progressi, i crepacci arrivando molto vicini tra loro.

Fontane.

Nel senso delle fonti; in questo caso le fonti dei ghiacciai.

Iceberg.

Gli iceberg sono, naturalmente, lo scarico naturale di un ghiacciaio in un lago o il mare.

Potere che supera la nostra chiamata o la conoscenza.

Questa è stata l’esperienza di molti che hanno districato da pericoli imminenti con le proprie forze senza aiute. L’emergenza suscita finora insospettate forniture di energia di riserva.

Sleekit Wee, pelosi, beastie.

Questo ricorda la poesia di Burns “Per un Mouse”, che inizia “Wee, sleekit, cow’rin’, tim’rous beastie.” “Sleekit” viene utilizzato senza dubbio nel suo senso originale di elegante, liscio. È il participio passato del verbo ““elegante. Muir era affezionato a cadere occasionalmente nel suo nativo Scotch, soprattutto quando è stato chiamato un diminutivo affettuoso.

Ci metteremo in cassaforte.

Qui e nella parte superiore della pagina successiva Mr. Muir segue l’usanza di Scotch di usare la parola “sarà” dove meglio uso inglese richiede “shall”.

Diavolo-club.

Vedere nota su Panax.

Stikine(Boston: Houghton Mifflin Co., 1909), copyright © 1909 John Muir; Introduzione copyright © 1995 Dan Anderson. Trascritto da Dan Anderson da copia al capitolo di San Diego, Sierra Club della biblioteca [Riverside letteratura serie numero 231, The Riverside Press, Cambridge, Massachusetts (fuori stampa)]. Ultimo aggiornamento 18 novembre 1996.

Chissà cosa sognano i cani

di Paolo Repetto, febbraio 2018, da sguardistorti n. 02 – aprile 2018

Me lo ha chiesto mio nipote, mentre guardavamo Olaf correre in giardino, annusare, fermarsi  di botto, tornare indietro per una seconda sniffata. Dice che di notte russa come un cinghiale e ha degli strani scatti, muove le zampe come stesse fuggendo o rincorrendo qualcosa.

Non ho saputo rispondergli; o meglio, gli ho risposto con le solite banalità. Gli ho detto che sogna un mondo dove attorno agli ossi rimanga molta più polpa, dove i gatti non trovino sempre un albero su cui rifugiarsi e dove dentro la cuccia ci siano una bella coperta calda e poche pulci.

Mi è parso poco convinto, e mi sono reso conto che in effetti non stavo parlando di Olaf o degli altri cani suoi contemporanei. Stavo parlando dei miei cani, che non ho mai sentito russare perché di dormire in casa potevano appunto sognarselo, e per i quali un osso non era un giocattolo di plastica puzzolente, ma un evento da salutare con entusiasmo.

Ne ho avuti tre, tutti bastardini e tutti dotati di una personalità spiccatissima. Dolce, devota a mia madre e un po’ zoccola Cilla (ha sfornato sedici cuccioli, tutti di padre ignoto), spavaldo e dispettoso Ciccio, sul quale pendeva una taglia messa dai cacciatori, feroce e incazzosissimo l’incredibile Hulk, che per fortuna era grande poco più di un topo, ma aveva una buona percentuale di geni del foxterrier (entro il suo territorio aveva rispetto solo per me e per Chiara, all’epoca piccolissima, che poteva seviziarlo in ogni modo senza scatenare la minima reazione: per gli altri, se non facevano attenzione, scattava l’attacco a tradimento al polpaccio). Un quarto, Neal, l’ho condiviso con mio figlio: questo era di razza, un terranova di ottanta chili, e non permetterò a nessuno di affermare che i terranova sono cani intelligenti.

Ciascuno a modo suo si sono fatti amare, persino Hulk, che avrebbe invece preferito essere solo temuto. E credo che liberi di scorrazzare per il cortile e il giardino, a dare la caccia ai gatti e ai topi, o nel vigneto, dove stanavano donnole e faine, oltre che la selvaggina, abbiano tutto sommato vissuta bene la loro vita da cani.

Mi rivolgevo loro in dialetto per impartire ordini, e in italiano per i complimenti. Capivano al volo in entrambe le lingue e non chiedevano coccole, solo di potermi seguire quando andavo in campagna o al fiume. Ho usato qualche volta il guinzaglio soltanto per Neal, che essendo grosso come un orso poteva diventare pericoloso anche nelle manifestazioni d’affetto: ma in campagna lo lasciavo libero, e malgrado fosse un pacioccone seminava il terrore con la sua sola presenza. Per il resto piena fiducia. Ciccio spariva a volte per intere giornate, e tornava poi ammaccato per aver attaccato briga con tutti gli altri vagabondi come lui: ma non mi ha mai creato grane, e le sue se le sbrigava da solo.

La casa ha visto transitare anche tre o quattro generazioni di gatti, con le stesse regole dello ius soli. Ospiti abituali alle ore dei pasti (Nina, la gatta della mia infanzia, apriva da sola le porte attaccandosi alle maniglie), ma pigionanti esterni, nel magazzino o nella stalla, durante la notte, in cortile o nel giardino di giorno. Fino a quando sul territorio ha regnato Vito, che incuteva rispetto persino ad Hulk, tutta la zona attorno a casa è stata un paradiso. Al tramonto calava il coprifuoco e le rarissime volte in cui arrivavano gli echi di brevi scontri sapevi che qualche incauto aveva tentato di fare il furbo, ma non ci avrebbe riprovato. Dopo la sua scomparsa hanno cominciato a farsi avanti gli eredi (aveva sparso i geni in tutto il paese, creando una nuova razza rossiccia e semiselvatica) ed è scoppiata una snervante guerra civile, nella quale sono stato costretto più volte, nel cuore della notte, a intervenire.

In realtà dubito persino che i miei cani e miei gatti sognassero. A spasso tutto il giorno, all’aria aperta estate e inverno, quando arrivava la sera crollavano come sassi. Persino Ciccio, che durante il giorno sembrava morso da una tarantola, piombava nel sonno del giusto: una volta per curiosità l’ho caricato su una carriola e gli ho fatto fare più giri del cortile senza che muovesse una palpebra.

Questo è il rapporto che ho sempre tenuto con i miei amici animali. Non ho mai preteso da un cane o da un gatto comportamenti che non fossero nella loro natura, e se qualche volta parlavo loro come con un umano non avevo la pretesa che capissero, mi bastava che ascoltassero (cosa che a differenza degli umani facevano sempre). Ho potuto rapportarmi così senz’altro per la situazione materiale in cui vivevo, la casa col terreno attorno, la campagna, ecc …, al centro di un paese dove non c’era modo di farsi investire da un’auto nemmeno a sdraiarsi sullo stradone (mio figlio a sei anni giocava a nascondino nei viottoli sino alle undici di sera): ma anche perché ho conosciuto un mondo nel quale i confini e i ruoli erano ben definiti, quello tra genitori e figli, ad esempio, tra insegnanti e allievi, tra giovani e anziani e, appunto, tra umani e animali (anche se a volte distinguere era davvero difficile).

Quei ruoli non li ho inventati io, sono quelli che detta la storia naturale. All’origine c’è una catena alimentare che funziona in un certo modo da centinaia di milioni di anni, e dalla quale discendono tutti gli altri rapporti e comportamenti. Ad un certo punto in questa catena si è inserito l’uomo, che ne ha modificato i meccanismi e l’ha adattata allo sue esigenze. In questo nuovo modello, chiamiamolo “culturale”, è evidente che i ruoli non li scelgono gli animali, sono gli umani a sceglierli per loro: ma anche prima della “domesticazione” i polli non avevano scelto di essere prede per le volpi e predatori per i lombrichi. Mettere in discussione queste evidenze mi sembra insensato: significa mettere in discussione tutta la storia evolutiva, e nella fattispecie quella dell’uomo, a partire dalla conquista del fuoco fino ad arrivare alla coltivazione della terra. Tutto ciò che caratterizza la “storia culturale” è una correzione di quella naturale, e allora o deprechiamo la comparsa della specie umana, e ci auguriamo che il suo passaggio su questa terra sia breve, oppure cerchiamo di valutare con un po’ di buon senso il suo rapporto con le altre specie. Certo, i nuovi ruoli sono dettati dalle esigenze umane, ma nella sostanza introducono solo una variabile nella scala gerarchica. Anziché esserci solo predatori o prede è entrata nel quadro anche una categoria intermedia, quella degli animali al servizio o al fianco dell’uomo.

A partire da questi dati di fatto, e senza dimenticare il buon senso, si può poi discutere di come questo rapporto sia stato interpretato, storicamente e individualmente. Ma c’è il rischio che ne esca un sermone. Quindi mi limito a un paio di riflessioni su ciò che vedo accadere attorno a me. Dove andrò a parare immagino lo si sia già capito.

 

Quello che vedo è un atteggiamento insensato e ipocrita.

È insensato perché pretende di attribuire agli animali un comportamento etico che è invece prerogativa degli umani (e neppure di tutti). Non che gli animali non abbiano i loro codici comportamentali, ma questi non si fondano sulla libertà di scelta, che è la base di ciò che noi appunto chiamiamo etica. Credo non lo pensi nessun etologo serio. I comportamenti degli animali sono determinati dall’istinto, anche quando sembrano sforare: siamo noi a leggere nelle loro manifestazioni di intelligenza e di affetto, che ci sono e che giustamente ci commuovono o ci sorprendono, una intenzionalità che sembra rimandare ad una autonomia morale. Confondiamo cioè una capacità intellettiva ed una “sensibilità” affettiva con l’esercizio di un libero arbitrio.

È difficile in questo rapporto mantenere le giuste misure. L’interazione con gli animali, soprattutto con alcune specie e soprattutto dopo la domesticazione, è sempre stata carica di ambiguità, e comunque improntata all’antropomorfizzazione, all’attribuzione ad essi di caratteri, qualità e sentimenti tipicamente umani. Già a partire da Aristotele la fisiognomica ha utilizzato tratti morfologici e comportamentali degli animali per creare parallelismi con quelli umani, che sono stati tradotti poi in letteratura spicciola e popolare dalle  favole di Fedro, di La Fontaine, di Perrault e dei Grimm. Addirittura fino alla metà dell’Ottocento si sono celebrati processi, sia ecclesiastici che penali, contro gli animali. Insomma, la tentazione di considerarli esseri pienamente senzienti e responsabili è sempre esistita.

Il problema è che nella nostra epoca questa tentazione ha imboccato una deriva inquietante. Quando tutti i valori e tutte le conoscenze sono considerati relativi, le linee di confine tra la realtà e la favola saltano, in ogni direzione. Sarà difficile ora ripristinarle per chi è cresciuto in un universo disneyano, circondato da pelouche di cani, gatti e orsetti e nutrito di fumetti, di cartoni animati, di film e di documentari che “umanizzano” gli animali. Non mi riferisco naturalmente solo al mondo di Topolinia, ma anche e soprattutto a film di animazione, da Bambi a L’Era Glaciale, e a quelli pseudo-naturalistici come Perri. E a letture adolescenziali come La collina dei conigli.

 

La novità è che questo mondo si configura come autonomo. È pensato a immagine e somiglianza di quello umano, ma popolato da animali. Mentre la letteratura precedente, ad esempio gli universi paralleli immaginati da La Fontaine, da Leopardi nei Paralipomeni o da Swift nel paese dei cavalli sapienti, raccontava gli uomini, e gli animali erano solo un travestimento satirico, nel mondo di Disney questa sorta di filtro che mantiene visibili le distanze non c’è. La caratterizzazione dei personaggi rispetta una certa convenzione fisiognomica e letteraria classica (i malviventi hanno volti di faina, i topolini, specie quelli di campagna, sono saggi, ecc …), ma gli sviluppi narrativi e l’ambientazione sono né più né meno quelli delle normali (insomma) vicende umane. E soprattutto, queste cose sono narrate per immagini in movimento, che coinvolgono più sensi e calamitano un’attenzione totale, disattivando ogni difesa critica. La sovrapposizione uomo-animale diventa così scontata e naturale che ad un certo punto non sappiamo (o non vogliamo) più distinguere tra i due mondi. (Va detto che i cartoons rivali, quelli della Warner ad esempio, presentano una situazione almeno in parte diversa. Lì i protagonisti mantengono intatte alcune delle loro peculiari caratteristiche animali: la caccia testarda di Silvestro a Titti e del Vilcoyote al Bip Bip, al di là di tutte le complicazioni e contaminazioni che vivacizzano la storia, rientra perfettamente nell’ordine naturale delle cose, nel rapporto predatore-preda).

 

Allo stesso modo, e più ancora, i film che vedono protagonisti gli animali (non solo quelli che ho citato prima, ma anche i vari Lassie e Rin tin tin e Flipper, o un classico come Il cucciolo, per rimanere a quelli della mia infanzia) hanno contribuito ad accreditarli di una complessità emozionale e di una attitudine razionale che, letteralmente, li “snaturano”. Non ho nulla contro Rin tin tin o contro Francis, il mulo parlante, che mi era anche particolarmente simpatico: ma mi sembra ineluttabile che una generazione già educata dal magnetismo dello schermo, grande o piccolo, a confondere e intersecare la dimensione reale con quella virtuale, vedendo in azione questi fenomeni e avendo nel contempo sempre minori occasioni di rapportarsi ad animali reali secondo le modalità naturali, finisca poi col perdere ogni senso della differenza.

E infatti. L’antropomorfizzazione mediatica ha persino trovato un supporto teorico nel pensiero “animalista” e “antispecista”. Qui la deriva diventa addirittura paranoide. Non è più questione di un rispetto che dovrebbe scaturire dal buon senso comune, e che oggettivamente è andato maturando nel tempo (Un ripensamento sul nostro rapporto col resto del regno animale era in corso da secoli: senza risalire sino a san Francesco, mi fermo alla Introduzione ai principi morali di Jeremy Bentham, nella quale già si parla di “diritti degli animali” – e siamo nella prima metà dell’Ottocento). Sulla scorta anche dell’interesse che si è diffuso in Occidente per il buddismo, sia pure in versione molto new age, è nata una vera e propria filosofia animalista che tende a rovesciare le posizioni nel rapporto. Non vale la pena spendere nemmeno una riga per personaggi come Peter Singer, il guru del movimento (quello di Liberazione animale), che arriva ad affermare che tra un bambino malformato e un vitello sano sia da salvaguardare quest’ultimo: ma temo che posizioni di questo tipo siano ormai più diffuse di quanto vorremmo credere. Anni fa una mia collega, affiliata alla LIPU (la Lega per la Protezione degli Uccelli) e disposta ad incatenarsi ad un albero per difendere un rifugio naturale, rifiutò sdegnosamente di sottoscrivere una petizione di Amnesty International per sottrarre alla pena di morte un condannato per reati politici: non voleva avere “implicazioni politiche”. Non è un caso singolo e raro di paranoia. La scelta di un animalismo integralista coincide frequentemente col rifiuto di assumere nei confronti degli umani qualsiasi responsabilità o di provare la minima compassione. D’altro canto, per intenderci, non è casuale che tra gli animalisti più convinti del secolo scorso ci fossero Hitler e Himmler.

 

 

Mi interessa molto di più però ragionare sull’ipocrita presunzione che sta sotto tutto questo, perché è un aspetto che tocca da vicino anche coloro che non professano un animalismo dottrinale. Coloro che semplicemente si rapportano ad un animale domestico negando i ruoli naturali. La presunzione è quella di una possibilità di conoscenza empatica che ci consente di entrare in sintonia profonda con specie diverse dalla nostra, e stravolge tutto l’ordine dei valori. Ora, è indubbio che un cane, un gatto, per qualcuno persino un boa, possano fare più compagnia di molti esseri umani: ma questo dipende dalla natura e dalla condizione di chi di questa compagnia ha bisogno. Gli animali sono solo un nostro specchio, non possono essere forzati a diventare degli interlocutori. Se ci appaiono a volte più intelligenti e più comprensivi degli umani è solo perché non ci contraddicono. E questo può anche gratificarci, ma non ci aiuta certo a crescere. Ci induce anzi a rifiutare le relazioni complesse, a scegliere la strada più comoda. Tanto è razionale dunque il rispetto loro dovuto, quanto è irrazionale la pretesa di stabilire con essi un rapporto alla pari (che spesso si sposa appunto con il rifiuto di rapportarsi ai propri simili, e di rispettarli), umanizzandoli e attribuendo loro una dignità etica di cui credo non sentano affatto il bisogno. L’esigenza di una compagnia è legittima, ma forse andrebbe prima cercata e coltivata con i conspecifici.

L’ipocrisia consiste nel volerci autoconvincere che l’attenzione esasperata nei confronti degli animali sia mossa da un altruistico amore. In realtà come ho detto sopra quello che si manifesta nel rapporto falsato è un atteggiamento molto egoistico: da un lato perché pretende appunto che gli animali rispondano alle nostre esigenze con un comportamento che è per loro innaturale, dall’altro perché il rapporto con gli animali è, almeno superficialmente, molto meno rischioso. L’animale non è mai in competizione con noi: la sua rimane comunque una completa dipendenza. E noi inneggiamo magari alla libera vita nei boschi, e poi costringiamo loro alla reclusione tra le quattro mura di un appartamento, li castriamo o li sterilizziamo, inibiamo ogni loro istinto di caccia e ogni capacità di sopravvivenza autonoma rimpinzandoli di porcherie addizionate con vitamine.

Non solo: questo amore è anche molto condizionato dalle mode. Basta considerare ad esempio quanti collie ci sono in giro oggi, mentre negli anni cinquanta, all’epoca del successo di Lassie, non si vedeva altro. In buona parte dei casi che conosco direttamente la compagnia di un animale è un ornamento, spesso un capriccio, talvolta persino uno status symbol. Non si spiega altrimenti il proliferare di levrieri afgani, di mastini tibetani, di ridgeback rodhesiani o di pitt-bull. Questo non c’entra con l’integralismo animalista, ma non ha nulla a che vedere nemmeno con l’amore.

Il fatto che gli animali non abbiano un comportamento etico non significa naturalmente che non dobbiamo assumerlo noi nei loro confronti. Ma questo dovrebbe andare da sé, conseguire da una corretta conoscenza di quale è il posto dell’uomo nella natura e dei doveri che ha nei confronti della stessa. Non sarà certo una carta dei diritti riconosciuta dall’ONU a far cambiare la mentalità e gli atteggiamenti. Anzi, aggiunge ipocrisia ad ipocrisia, nel momento in cui vengono sempre meno applicati e riconosciuti quelli degli esseri umani. Ancora una volta una parola di buon senso arriva da Kant che, pur non riconoscendo agli animali diritti derivanti dalla loro condizione di esseri viventi e senzienti, riteneva che l’uomo dovesse rispettarli perché la crudeltà nei loro confronti predisponeva ad un uguale comportamento verso i nostri simili. Io sarei ancora più esplicito: bisogna rispettarli perché ogni crudeltà, ogni mancanza di rispetto nei loro confronti è un segno di viltà e di assenza di dignità.

 

Ecco, il sermone alla fine è venuto fuori lo stesso. Ma voglio chiuderlo con un aneddoto. Una volta, ero ancora un ragazzino, ho organizzato una spedizione di commando per liberare un povero cane che stava alla catena da quando era nato, in un cascinale dall’altra parte della valle. Lo sentivo uggiolare tutto il santo giorno mentre lavoravo nel vigneto, e mi strappava il cuore. Con due amici ho allora studiato un piano: ci siamo attrezzati di tenaglioni per tranciare la catena e di lardo per rabbonirlo, e abbiamo atteso che il padrone, un uomo torvo e ferocissimo, si allontanasse per recarsi nei campi. La cosa si risolse in un disastro, perché quell’idiota alla nostra vista si mise ad abbaiare furiosamente, richiamando la figlia del contadino, e dovemmo battercela di corsa prima di essere riconosciuti. Di lontano, dall’albero sotto il quale ci eravamo nascosti, vedevamo il cane camminare ringhiando avanti e indietro per l’aia, trascinandosi dietro la catena, ma fiero del suo successo. Fu in quell’occasione che cominciai a dubitare che gli schiavi vogliano davvero essere liberati, o quantomeno a rendermi conto che ad un certo punto si immedesimano totalmente nel loro ruolo. Non so se stavo umanizzando il cane o animalizzando gli uomini: comunque, una lezione da quell’avventura l’ho tratta. Non ho mai più creduto nelle avanguardie rivoluzionarie.