Camera con vista sul futuro

di Paolo Repetto, 9 aprile 2020

Da un mese e mezzo vivo confinato in un terrazzino al settimo piano. Fortunatamente è orientato a sud, e aggetta su un fazzoletto triangolare di verde, al di là del quale corre un ampio viale e si allarga poi una distesa periferica di costruzioni basse. Non mi è quindi impedita la vista in lontananza, a centottanta gradi, dei profili dell’Appennino retrostante Genova: del Tobbio, delle alture della Val Borbera e di quelle della valle dell’Orba. Consolazione magra, ma di questi tempi ci si aggrappa a tutto.

Più che all’orizzonte, però, anche per non rinfocolare troppo la nostalgia, quando alzo la testa dai libri guardo in questi giorni di sotto, in cerca di forme di vita che si muovano tra lo spalto e il rettilineo di via Testore e mi rassicurino che non è esplosa una bomba al neutrino. La via appare sgombra e inutilmente scorrevole, mentre di norma è intasata da auto in doppia fila, ed è vuoto e silenzioso anche il marciapiede sul quale estate e inverno sostano e schiamazzano gli avventori del bar (e proprietari delle auto in doppia fila), tutti rigorosamente col bicchiere in mano. Solo negli orari consentiti dal decreto c’è una piccola e compostissima fila davanti al minimarket d’angolo.

Quando riguadagno l’interno cerco di rimpicciolirmi il più possibile e di muovermi come un astronauta, lento e levitante. La condizione di quarantena impone naturalmente di trovare linee nuove di compromesso con lo spazio in cui vivi e con chi lo condivide con te. Tre persone per ventiquattro ore al giorno per cinquanta giorni sono più di tremilacinquecento persone, anche al netto delle uscite per i rifornimenti o per le mie mezz’ore quotidiane d’aria attorno all’isolato: uno sproposito, per ottanta metri quadri. A breve saranno a rischio di crollo i palazzi più ancora che i viadotti – anche se questi ultimi, pur sgravati del traffico, continuano allegramente ad afflosciarsi,). Diventa un’arte lo scansarsi.

Non solo: il “distanziamento sociale” induce a cercare nella televisione un surrogato di quel contatto con l’esterno che è venuto drammaticamente a mancare. Ti riduci, non fosse altro per l’aggiornamento sulle perdite giornaliere e sul progredire del contagio, a sedere davanti alla televisione, e stenti poi a rialzarti, perché in effetti non hai altro di urgente da fare. Insomma, se si conserva un po’ di coscienza critica si può verificare su noi stessi cosa significa rimbambimento depressivo.

Questo spiega forse perché mi sforzo di rappresentare invece la mia attuale condizione come un’opportunità, secondo la moda ormai invalsa di considerare opportunità qualsiasi disgrazia o accidente capiti. Non è facile, e infatti ci sto girando attorno senza risolvermi sin dall’esordio di questo pezzo: ma voglio provarci.

Mettiamola così: io godo di un punto d’osservazione privilegiato, rispetto a tutti gli amici che vivono in campagna o dispongono almeno di un piccolo giardino, e soffrono in maniera molto attutita gli “effetti collaterali” di questa crisi. Io vivo nel cuore della battaglia, come un reporter di guerra. Loro non sanno cosa si perdono, perché quando il tran tran quotidiano muta così drasticamente si attivano, per forza di cose, dei sensori diversi, e si colgono aspetti del reale che nella normalità sfuggono o appaiono assolutamente insignificanti.

Ora, senza pretendere a discorsi filosofici o ad analisi psicologiche o sociologiche, per i quali conviene rivolgersi ad altri, vorrei limitarmi a fornire qualche esempio di ciò che una condizione di normalità non ci indurrebbe mai a considerare significativo. Vado in ordine sparso, e lascio aperte queste pagine, come già i miei precedenti interventi antivirali, a ogni sorta di integrazione, correzione e aggiunta.

 

1)    Parto proprio dalla televisione. Non mi sarei mai atteso di scoprire attraverso la tivù quanto è grande il patrimonio librario degli italiani. Con questa storia dello streaming, per cui si interviene da casa, vedo fiorire ovunque insospettabili librerie domestiche. Mi si obietterà che è abbastanza normale, uno non si collega dando le spalle al lavandino della cucina o alla cassetta dello sciacquone, ed è vero: ma vi invito a fare caso, nel corso dei collegamenti, non all’intervistato, che in genere non ha granché di interessante da dire, ma al tipo di scaffalature che ha alle spalle e alla disposizione dei volumi, anche senza cadere nella mia maniacale pretesa di riconoscere dal dorso le case editrici, e quindi gli orientamenti culturali del proprietario, o di leggere addirittura i titoli (questo si può fare meglio sul monitor del computer, ingrandendo e mettendo a fuoco i particolari). A volte il gioco è davvero mal condotto. Ieri ho visto una povera Billy nella quale pochi volumi totalmente anonimi, tipo quelli usati dai mobilieri nelle esposizioni, erano sparsi in assembramenti ridottissimi su ripiani per il resto desolatamente vuoti (non c’erano nemmeno vasi o teste di legno africane o altre suppellettili), e questo solo nella colonna immediatamente alle spalle del parlante. Avendo il tizio calibrato male l’inquadratura si scorgevano le colonne ai lati completamente deserte.  Penso che a un certo punto abbia preso coscienza dell’assurdità della situazione, o qualcuno gliela abbia fatta notare, perché ha cominciato a impappinarsi e ha chiuso frettolosamente il collegamento. Sono rimasto con l’angoscia per quegli scaffali vuoti.

In altri casi, invece, regìe più accorte predispongono una inquadratura di sghimbescio, facendoci intravvedere infilate di scaffali grondanti libri lungo tutta una parete. In realtà ci tolgono l’unico piacere, quello appunto del gioco al riconoscimento.  Si tratta in genere di filosofi o liberi pensatori. I rappresentanti della vecchia guardia, le figure istituzionali, si coprono invece le spalle con solide enciclopedie, trentacinque volumi tutti uguali e tutti ugualmente intonsi, forse per mantenere un profilo neutrale, o trasmettere un’immagine di solidità, ma più probabilmente perché non possono esibire altro. Mentre i direttori di riviste e quotidiani sono preferibilmente incorniciati dalle raccolte cartacee delle loro creature, alla faccia di tutti gli archivi digitali, o dalle intere collane edite in allegato. Insomma, tutto piuttosto pacchiano. C’è un futuro per giovani che volessero specializzarsi in Scenografia delle Screaming, anziché in Storia. Elisa ha perso un’occasione.

Comunque, non mi si venga a dire che l’editoria è in crisi. Non so se gli italiani leggono, ma senz’altro hanno comprato libri. Forse lo hanno fatto recentemente, avendo sentore della crisi e prevedendo i collegamenti in remoto. Ma lo hanno fatto.

In compenso, mia figlia Chiara, che lavora in Inghilterra nel settore finanziario, mi racconta che nelle videoconferenze i suoi colleghi si presentano quasi sempre dando la schiena a quadri di autori in qualche modo riconoscibili e riconosciuti (almeno a livello locale). In Inghilterra va l’arte, in Italia la letteratura (ma proprio stasera, nel salotto-streaming della Gruber, alle spalle della vicepresidente della Confindustria campeggiava un’opera di Gilardi, mentre dietro tutti gli altri convitati virtuali le librerie sembravano in terapia intensiva, tanto il loro respiro era artificiale).

Mi sono anche chiesto come me la caverei io, dovendo collegarmi da casa (non dal terrazzino di Alessandria, ma da Lerma). Sarei in grave imbarazzo, perché in qualunque ambiente e da qualsiasi angolatura avrei alle spalle libri, e tutti libri ai quali tengo e che farebbero la gioia di un riconoscitore, nonché scaffalature autoprodotte. Quindi, o dovrei programmare una serie di interventi con inquadrature diverse, o sarei tenuto per equità a rinunciare. Forse mi conviene adottare quest’ultima soluzione.

 

2)   Per dimostrare che non sono poi così prevenuto nei confronti della televisione, eccomi a riconoscerle dei meriti, quando ci sono. Uno dei più grandi, nella gestione di questo terribile momento, è senz’altro l’oscuramento di Sgarbi. Lo stiamo pagando ad un prezzo altissimo, trattandosi tra l’altro solo di una parziale e tardiva riparazione a una schifezza che andava avanti da anni, ma insomma, aggrappiamoci anche alle piccole consolazioni. Se assieme al virus avessimo dovuto sopportare anche lui la tragedia sarebbe diventata del tutto insostenibile. Rimane purtroppo il timore che non appena cessata l’emergenza possa ricomparire. Dicono che usciremo da questa prova migliori: bene, il suo ritorno o meno sui teleschermi sarà la cartina di tornasole.

 

3)   Un altro merito della tivù è quello di aver dato fondo al magazzino dei film western (quelli veri, intendo). Purtroppo però sto scoprendo che li avevo già visti tutti, e non solo la gran parte, come pensavo. Mara si diverte, ogni volta che durante lo zapping si imbatte in un cappello a larghe tese e in un cavallo, a chiamarmi per verificare se lo riconosco, e a sentirsi elencare all’istante titolo e interpreti, spesso anche il regista. A molti questo esaurimento delle scorte non parrà una cosa di particolare rilievo, ma per me lo è. È sintomatico, simbolico di un ciclo che si è esaurito e di un mondo che ha fatto il suo tempo. Può andare definitivamente in archivio (non mi riferisco solo al western). Il fatto è che dentro quel mondo ci sono anch’io.

 

4)   Cambiano i rituali. Fino a un paio di mesi fa nella mia liturgia mattutina, subito dopo il caffè e la prima sigaretta, veniva il siparietto di Paolo Sottocorona, con le previsioni meteo fino a due giorni avanti, offerte con garbo e ironia, sottintendendo sempre: “se non andrà proprio così non prendetevela con me, faccio quello che posso”. Ho smesso completamente di seguirlo, anche perché di come sarà il tempo nei prossimi due giorni non mi può fregare di meno, visto che li trascorrerò comunque in casa. Ho introdotto invece un rituale vespertino, quello del collegamento con la Protezione Civile, con tanto di snocciolamento delle cifre dei contagi e dei decessi. So che le cifre sono approssimate e virtuali, e che i costi umani reali di questo dramma li conosceremo davvero, forse, solo dopo che si sarà totalmente consumato: ma mi dà l’illusione di partecipare in qualche modo ad una cerimonia collettiva di addio, assieme ad altri milioni di telespettatori, per evitare che sei o settecento persone ogni giorno se ne vadano insalutate, senza un funerale, senza qualcuno che le accompagni, inghiottite immediatamente dalle statistiche.  Che è esattamente il contrario di quanto cercano di fare, ed è anche comprensibile perché lo facciano, coloro che danno l’informazione.

 

5)   Ho provato a tenere una conta differenziata per età e per genere delle persone che incontro al supermercato, che vedo passare dal terrazzino o che incrocio durante i duemila passi quotidiani extra moenia. È probabile che le mie statistiche siano viziate da una deformazione prospettica, da un campionamento troppo parziale, ma io riporto solo quanto ho potuto constatare, e cioè che le percentuali per genere sono inversamente proporzionali a quelle ufficialmente rilevate dei tassi di contagio.  Le donne in sostanza contraggono il virus due volte meno degli uomini, e stanno in giro due volte di più. Forse proprio perché rassicurate dalle statistiche, o forse più semplicemente perché nelle situazioni critiche sono meno ipocondriache e più spicce dei maschi, o magari perché nel fare la spesa non si fidano dei mariti e vogliono avere l’ultima parola nella scelta dei prodotti. Sia come sia, sono protagoniste nella quotidianità dell’emergenza.  Mi faceva notare Nico Parodi che al di là della crisi il tema del nuovo ruolo femminile e delle prospettive che disegna sarebbero da affrontare non più con il cazzeggio degli psicologi e dei sociologi da talk show, ma andando a sommare tutta una serie di evidenze e di proiezioni scientifiche. Credo che qualcuna, di tipo nuovo, verrà fuori anche da questa situazione.

Per quanto concerne invece le classi di età, gli anziani sembrano decisamente molto più girovaghi dei giovani, a dispetto del fatto di essere maggiormente a rischio. Probabilmente anche questo dato ha spiegazioni plurime, compatibili comunque l’una con l’altra. Intanto, già sotto il profilo prettamente demografico in città come Alessandria vivono molti più anziani che giovani, per motivi logistici. Questi ultimi tendono a decentrarsi nella cintura dei paesi attorno, hanno maggiore facilità di spostamento e frequentano probabilmente anche in questo periodo, per gli approvvigionamenti, i grandi centri commerciali periferici. Poi sembra che gli anziani abbiano perfettamente inteso il senso del messaggio lanciato dal governo e rimbalzato da tutte le reti televisive, che non è “Abbiate riguardo per la vostra salute” ma “Non cercatevi guai perché non abbiamo le risorse per curarvi”, e vogliano ribaltarlo, dimostrando di sapersela cavare comunque. Infine c’è il fatto che i giovanissimi, anche se liberi da incombenze scolastiche, non li si incontra al supermercato, perché sono esentati per statuto dal farsi carico del vettovagliamento o di altre incombenze spicciole. È probabile abbiano escogitato luoghi e modi diversi per ritrovarsi, oppure si brasano beatamente davanti al computer o al telefonino (come del resto facevano anche prima).

6)   E i cani, che avevamo lasciato come grandi protagonisti della resistenza allo stress da quarantena?  Continuano stoicamente a reggere agli straordinari cui sono sottoposti, ma rilevo un calo nella frequenza delle uscite, forse connesso a quanto dicevo sopra. Erano infatti soprattutto i giovani a offrirsi come conduttori, e nel frattempo questi hanno trovato scuse diverse per le uscite, o si sono definitivamente poltronizzati. Un’altra cosa piuttosto voglio segnalare. È naturale vedere nelle aiuole qui sotto solo animali di piccola taglia, come si addice a bestiole che vivono in appartamento.  Ma allora, mi chiedo, che fine hanno fatto i pittbull e i mastini tibetani che giravano un tempo? Dispongono tutti di confortevoli giardini? E se no, dove li portano a pisciare? E se si, che ci facevano in giro, prima?

 

7)   Chiudo, per il momento, accennando al rischio molto concreto per tutti dell’abitudine all’ozio. L’ozio forzato snerva, per due principali motivi: da un lato perché dopo aver scatenato una prima insofferenza insinua sottilmente l’idea che i progetti che avevi in mente non siano poi così importanti e così urgenti, visto che comunque non puoi dare loro corso e devi fartene una ragione. Dall’altro, la prospettiva di molto altro tempo vuoto a disposizione spinge a rimandare anche le cose che potresti fare subito, e che ti eri sempre chiesto se mai sarebbe capitata l’opportunità di farle. È quanto mi sta accadendo con tutti i propositi di completamento dei lavori lasciati a metà sul computer, o di lettura dei libri accumulati, cose per le quali persino quando ancora ero in servizio riuscivo a trovare un paio d’ore la sera o di notte, mente adesso giro attorno e inseguo da un libro o da un sito all’altro sempre nuove distrazioni. Sono al punto che l’idea di quel che mi aspetta al rientro a Lerma, dei lavori di riassetto del giardino e del frutteto sconciati dai nubifragi autunnali mi spaventa, e ad ogni nuova dilazione imposta tiro quasi un sospiro rassegnato di sollievo. Non è una sindrome da poco, e non credo di essere l’unico a viverla.  Se un po’ può servire a smorzare l’ansia di accelerazione continua che si viveva in precedenza, oltre un certo limite rischia di convincere alle beatitudini del letargo.

In me quest’ultima pulsione sta già vincendo. Spero di non averla indotta anche in chi, già fiaccato dalla noia, ha provato sin qui a seguirmi.