di Paolo Repetto, 30 novembre 2020
Due lezioni sulla storia inglese (2016)
Il testo prende spunto da una conferenza tenuta agli studenti del Liceo Scientifico “Amaldi” e dell’Istituto Professionale “Boccardo” di Novi Ligure nel dicembre 2007. Non è la trascrizione letterale, ma non si discosta dai temi e dai modi della trattazione.
Prima lezione: Perché l’Inghilterra?
Seconda lezione: Una rivoluzione quasi perfetta
I presupposti politico-economici
La repubblica di Cromwell e la restaurazione monarchica
prima lezione
Perché l’Inghilterra?[1]
(una lettura economica)
Già, perché proprio l’Inghilterra? Perché la rivoluzione industriale ha avuto luogo lì, e non ad esempio nell’Italia rinascimentale, o nelle Fiandre, o nella Francia di Luigi XIV, che sotto certi aspetti apparivano altrettanto attrezzate per il grande balzo verso un nuovo modello produttivo? Ho accettato di trattare questo tema perché mi piacciono le belle sfide, ma confesso che a presumere di esaurirlo in una conversazione di un’ora occorrerebbe più faccia tosta di quanta io non abbia, e vi assicuro che non mi manca. È un argomento infatti già affrontato e sviscerato da mille punti di vista, da fior di storici come Landes, Hobsbawm, Chaunu, Cipolla e infiniti altri; e ciascuno di costoro, a seconda della prospettiva scelta, economica, politica, sociale, o culturale che fosse, ha finito per formulare ipotesi naturalmente altrettanto valide, ma che tiravano in ballo le cause e i fattori più disparati. È per questo che parlo di faccia tosta, perché già solo ad analizzarle, confrontarle e discuterle, anche limitandoci alle più importanti, si tirerebbe sino a notte. È pur vero che le diverse risposte non sono mai del tutto antitetiche, nel senso che nessuno, tranne gli Inglesi stessi, ha mai sostenuto che si trattasse di un disegno divino (Francesco Bacone diceva: “il nostro popolo è chiamato a portare a compimento l’opera divina di creazione”), o che gli inglesi abbiano una superiore predisposizione genetica (anche se loro in fondo ne sono convinti): ma proprio perché si tratta di spiegazioni fondate e serie, che sottolineano e ritengono fondamentali aspetti magari differenti, ma comunque interconnessi e concomitanti, è difficile privilegiare una lettura rispetto ad altre. Pertanto, dal momento che non siamo qui per avviare un dibattito storiografico, e per amore della par condicio, taglierò la testa al toro e azzarderò una spiegazione mia, che andrà a sommarsi a tutte le altre, e magari ne sarà anche un po’ il compendio.
Se dovessi rispondere a bruciapelo alla domanda “Perché l’Inghilterra?”, e a pormela fosse ad esempio mia figlia, che ha otto anni e vuole risposte concise e chiare, direi probabilmente “perché è un’isola”. So che è una risposta banale, anche il Madagascar, il Borneo e l’Islanda sono isole, e non hanno conosciuto fino a pochi decenni fa alcuna rivoluzione industriale (le prime due neanche oggi, a dire il vero): ma è meno stupida di quanto possa apparire. L’Inghilterra è infatti un’isola europea, con tutte le caratteristiche climatiche e ambientali del continente europeo, staccata dal continente stesso quel tanto che basta a non impedirle uno stretto rapporto economico, politico e culturale e a garantirle contemporaneamente una posizione difensiva privilegiata (l’hanno imparato a proprie spese Filippo II, Napoleone e Hitler) ed alcuni specifici vantaggi. In che consistano questi vantaggi lo vedremo nel corso della conversazione, ma per intanto un’idea potete già farvela, considerando che nessun punto del territorio inglese dista più di 80 miglia dal mare, poco più di 120 chilometri, e che un sistema di canali realizzato per la gran parte in età medioevale fa si che agli inizi del XVII secolo nessuna località disti comunque più di 20 miglia da una via d’acqua navigabile fino al mare. Ecco lì che se consideriamo l’importanza rivestita dalle vie d’acqua, fiumi, canali, mare che siano, per gli scambi e per l’economia tutta del medioevo e anche dell’età moderna, sino all’avvento della ferrovia, già cominciamo a renderci conto che cosa comporti, in positivo, essere un’isola.
Come vedete ho preso l’avvio dai fattori geografici. Da qualcosa bisogna pur partire, e questa mi sembra la strada più ovvia. Aggiungerò dunque che oltre ad essere un’isola l’Inghilterra è anche un’isola felice, sotto il profilo della ricchezza mineraria, perché il suo sottosuolo ospita giacimenti di minerali fondamentali, o almeno di quelli che sono stati fondamentali per la prima rivoluzione industriale. Carlo Maria Cipolla sosteneva che gli Inglesi sono quel popolo fortunato che ha sempre trovato al momento giusto nel proprio suolo le cose giuste; io aggiungerei “o le ha fatte diventare tali”. In effetti, se ci pensate, hanno ad esempio trovato il petrolio appena ha cominciato a scarseggiare, o i Beatles quando è esplosa la rivoluzione del rock, con tutto l’indotto economico che si è portata dietro. Fin dall’antichità avevano comunque potuto fare conto su ferro, sia pure di qualità scadente, carbone, piombo, rame e stagno. Questi ultimi, in particolare, se consideriamo che in fondo il medioevo era ancora un’età del bronzo, venivano utilizzati per ogni dove, dalle campane ai primi rudimentali cannoni, e costituivano una voce importante nella bilancia degli scambi commerciali. Anche se a tutto il medioevo i metalli vengono soprattutto esportati, piuttosto che lavorati, rimane il fatto che la consuetudine con essi induce una dimestichezza particolare con la metallurgia, e la cosa al momento opportuno tornerà utile.
Quanto al carbone, mi sembra persino superfluo sottolineare la sua rilevanza ai fini della rivoluzione industriale. Ne sarà il combustibile, la fonte energetica primaria. E tuttavia non sarà forse inutile ricordare che gli Inglesi non aspettano la seconda metà del Settecento per valorizzarne la presenza. L’estrazione carbonifera conosce in un secolo e mezzo, tra la metà del Cinquecento e la fine del Seicento, un incremento produttivo di quindici volte, ciò che consente all’economia inglese di sopperire alla progressiva liquidazione del patrimonio boschivo (e anche di limitarla), al contrario di quanto avviene per quelle delle potenze commerciali italiane o parzialmente per quella dei Paesi Bassi.
Se sotto la superficie è ricca, anche sopra l’Inghilterra non ha di che lamentarsi. Il clima umido favorisce le coltivazioni e fa dell’incolto un ottimo terreno da pascolo. Questa ricchezza di superficie è stata precocemente sfruttata dagli inglesi. Alla fine dell’XI secolo le terre coltivate erano già l’80% di quelle risultanti oggi. Il pascolo soprattutto era enormemente diffuso, tanto che per una popolazione che non raggiungeva i due milioni c’erano già tra i quindici e i diciotto milioni di pecore. Il che significa lana, come vedremo, ma significa anche una dieta ricca di carne e di latticini, fortemente proteica, e non riservata alla sola nobiltà, ma accessibile in diversa misura a tutti i ceti sociali. Se è vero che i popoli ad alimentazione carnivora sono più aggressivi, abbiamo già una mezza risposta al nostro quesito.
Ma il peso equilibrato dell’agricoltura e dell’allevamento significa anche un’altra cosa. Già prima della rivoluzione industriale si afferma in Inghilterra l’abitudine alla diversificazione degli investimenti, che si distribuiranno non solo sulla terra, ma sui commerci e sulle manifatture artigianali. In sostanza, i proprietari terrieri inglesi hanno una disinvolta consuetudine, attraverso l’allevamento, con i suoi indotti commerciali e manifatturieri, consuetudine che risulterà determinante quando si presenterà l’occasione di entrare in nuovi settori economici e in nuovi mercati.
Infine, la conformazione del territorio inglese, la possibilità di canalizzazione e la navigabilità dei fiumi favoriscono la circolazione delle merci, e di conseguenza le specializzazioni economiche regionali, sia agricole che manifatturiere. In sostanza, la facilità degli scambi interni farà si, al momento opportuno, che possano essere operate le conversioni alle colture o agli sfruttamenti del territorio più remunerativi, senza che ciò crei problemi per gli approvvigionamenti alimentari. Per intanto viene praticato, sin dal medioevo, un regime interno di libero scambio, che crea un habitus mentale già predisposto per gli sviluppi economici futuri.
L’essere un’isola che si affaccia sull’Atlantico assume anche un ulteriore significato al momento delle grandi scoperte geografiche e dell’espansione fuori dall’Europa. Lo spostamento dell’asse dei traffici commerciali dal Mediterraneo e dal Baltico all’Atlantico, la colonizzazione delle terre d’oltre oceano e la possibilità di lavorazione e commercializzazione dei prodotti di provenienza coloniale (tabacco, cotone e zucchero in primo luogo) saranno fattori determinanti per la nascita del nuovo modo di produzione, soprattutto se si tiene conto del fatto che nel periodo che a noi interessa, tra la metà del Cinquecento e quella del Settecento, le concorrenti più dirette, la Spagna prima, l’Olanda e la Francia dopo, erano impegnate a scannarsi nelle guerre per l’egemonia continentale o per la sopravvivenza. Ma questo è un aspetto che richiederebbe, per essere trattato anche solo a livelli superficiali, un’intera conferenza: in questa sede ci conviene darlo per acquisito.
Insomma, come potete constatare già l’insularità di per sé costituisce una condizione di partenza, una pre-condizione, tutt’altro che secondaria. Detto ciò, andiamo adesso a quello che vorrebbe essere il nocciolo vero del mio discorso: quale ruolo abbia svolto, cioè, la dinamica dei rapporti di classe, dei sistemi di proprietà e del confronto politico. Dovrò risalire un po’ indietro, per cogliere le tendenze sul lungo periodo, ma non intendo partire da Noé. Mi limito all’XI secolo.
Per stare sul concreto assumerò come riferimento di base l’andamento demografico. Come ho già detto, alla fine dell’XI secolo la popolazione dell’isola sfiora appena i 2 milioni, li supera di poco contando anche il Galles. Tra il XII e il XIV secolo si registra una crescita demografica costante, ininterrotta sin quasi al 1350. Crescita demografica significa aumento della domanda di generi alimentari, e quindi dei prezzi. Questo spinge molti signori, ecclesiastici o laici, a prendersi cura personalmente della conduzione dei terreni, cosa che non capita o capita molto più raramente nell’Europa continentale, dove invece persistono le concessioni agli affittuari e la percezione delle rendite, e l’occuparsi di economia comporta una sorta di declassamento. In una situazione di questo genere la tendenza inglese è all’allargamento dei latifondi e alla sparizione delle piccole concessioni, e quindi alla creazione di larga disponibilità di manodopera a basso costo. Tale disponibilità rende precocemente obsoleto il regime di servitù della gleba, e conveniente l’utilizzo della manodopera libera.
A partire dal secondo quarto del ‘300 il boom demografico rallenta. Sono venute meno le condizioni che lo avevano innescato, disponibilità di terra e resa maggiore dei coltivi, mentre si innesca un’incredibile sequenza negativa di condizioni meteorologiche pessime (si parla addirittura di mini-glaciazione), di carestie, di guerre, ecc… Poi ci si mette anche la peste nera. La popolazione inglese che era stimabile in oltre quattro milioni (col Galles) al 1348, è ridotta trent’anni dopo a due milioni e mezzo, e cresce molto lentamente per tutto il secolo successivo, tanto che raggiunge appena i 2,6 milioni nel 1526 (quella della sola Inghilterra). Naturalmente questo calo demografico sortisce l’effetto opposto: crollano i prezzi e diminuisce l’offerta di manodopera a basso prezzo. Ma i regimi di proprietà rimangono invariati, anzi, per supplire alle perdite i signori danno inizio alle recinzioni di quelli che erano tradizionalmente terreni comunitari, e di questo sono testimonianza le frequenti rivolte contadine che caratterizzano la fine del XIV e la prima metà del XV secolo.
La crescita demografica riparte nella prima metà del ‘500. Nel 1601 siamo a 4,1 milioni (più 1,9 tra Irlanda, Scozia e Galles) e nel 1650 a 5,3 milioni (più 2,4). Dalla metà del ‘600 c’è una certa stabilizzazione, o almeno un calo del tasso di crescita, legato soprattutto all’adozione di una sorta di pianificazione familiare. In sostanza gli Inglesi si sposano sempre più tardi (età media matrimoniale femminile tra i 26 e i 28 anni), in ossequio all’usanza consolidata di rendersi indipendenti prima di contrarre matrimonio, alla necessità quindi di accumulare quanto serve per mettere su casa, cosa sempre più difficile a fronte di una costante caduta dei salari. L’incremento a cavallo del ‘500 e del ‘600 provoca infatti una nuova fame di terra, rialzi dei prezzi, recinzioni a pioggia, e un ulteriore impoverimento per le classi più basse.
Sono significativi in questo senso i dati relativi al potere d’acquisto. Supponendo alla pari nel 1450 il rapporto tra i prezzi di un paniere dei beni fondamentali e il potere d’acquisto di un lavoratore salariato, nel 1550 questo rapporto è diventato 6 a 1 e nel 1610 è precipitato a 12 a 1. Ciò significa in pratica che un lavoratore, per mantenersi ai livelli del 1450, deve dapprima raddoppiare la produttività e le ore di lavoro, e poi, dato che anche in Inghilterra la giornata ha solo ventiquattro ore, dovrà mettere sotto torchio tutta la famiglia (si chiama domestic system). Per intanto, la riforma protestante ha già provveduto a dimezzare i giorni festivi, che in Francia rimarranno 186 fino alla Rivoluzione, mentre nell’isola sono già meno di settanta.
Non voglio annoiarvi con altre cifre. Mi sembra che queste bastino a darci un quadro della situazione. Teniamole però presenti mentre passiamo a considerare altri fattori, come ad esempio l’evoluzione del quadro politico. L’assetto politico particolare dell’Inghilterra nasce paradossalmente dai rovesci militari della Corona (paradossalmente perché è una delle poche corone che a suon di sconfitte hanno retto sino ad oggi). La Magna Charta è figlia della sconfitta di Bouvines; il ricambio nell’aristocrazia è favorito dalla guerra dei Cento anni e dell’appendice delle Due Rose; il definitivo consolidamento del parlamentarismo è consacrato dalla prima rivoluzione. Anche le scelte isolazioniste e atlantiche nella politica internazionale sono indotte dalle stesse motivazioni. Buttata fuori dal continente a metà del ‘400, l’Inghilterra comincia a perseguire una politica diversa, completa la sottomissione del Galles e avvia quelle della Scozia e dell’Irlanda, dà inizio all’espansione oltreoceano e prepara la piattaforma per l’apertura su un mercato mondiale. L’uscita di scena dai conflitti per l’egemonia continentale, o la partecipazione marginale, impediscono alla Corona di fare leva sulla necessità di un esercito (soprattutto, di un esercito moderno) col quale controllare la nazione e rinsaldare il proprio potere. Proprio l’assenza di un esercito vero e proprio, e la conseguente dipendenza della Corona dall’appoggio di una aristocrazia infida, favorirà il trionfo del Parlamento nella Rivoluzione, e quindi la vittoria della inedita coalizione tra le classi economicamente forti, i possidenti terrieri e la borghesia mercantile e imprenditoriale. Anche questi dati, se arriveremo poi a tirare le fila, ci saranno utili per dare una risposta al nostro quesito.
Vediamo ora i fattori socio-culturali. A mio avviso l’aspetto più importante, in questo ambito, è la presenza di un numero maggiore di uomini liberi rispetto a qualsiasi altra area del continente, a partire già dal Medioevo (anche in ragione delle congiunture economiche cui accennavo sopra, ma non solo). Questo comporta una maggiore facilità di movimento sia reale, cioè fisico, che figurato, cioè sociale. Ci sono minori resistenze nei confronti della scalata sociale e viene pertanto a crearsi una classe intermedia di ricchi che ottiene una sorta di consacrazione sociale, qualcosa di simile al Nobilato che Napoleone introdurrà nel suo impero – con la differenza che qui si autolegittima e trova espressione nella Camera dei Comuni. Sarà proprio questa classe a trarre i maggiori vantaggi dalla rivoluzione agricola.
Alla libertà si associa anche l’alfabetizzazione. È molto precoce, legata anche alla predicazione dei Lollardi e di Wycliff, che ispira la prima traduzione in inglese della Bibbia. All’inizio del ‘500 Tommaso Moro stima che il 50% degli inglesi sappia leggere e scrivere. Probabilmente è una stima un po’ troppo entusiasta, ma rimane comunque significativa. Significativa anche di un fortissimo orgoglio nazionale. Questo orgoglio ha radici soprattutto militari, è legato alla guerra dei Cento anni e alle ripetute vittorie contro gli imbattibili cavalieri francesi, ottenute non dai loro pari in nobiltà ma da arcieri appartenenti alla classe medio-bassa, cioè dal popolo tutto. Credo che da qui derivi molta della considerazione di sé che il popolo inglese nutre. Un visitatore italiano del ‘500 racconta di non aver mai trovato gente tanto spocchiosa e convinta della propria superiorità, tanto che, dice «Gli Inglesi amano moltissimo se stessi e qualunque cosa loro appartenga. Ritengono che non vi siano altri esseri umani al di fuori di loro; e alla vista di un bello straniero dicono che “sembra un inglese” e che “è davvero un peccato che non sia un inglese”».
E siamo finalmente a trarre le conclusioni. In sostanza, il XVI e il XVII secolo vedono la nascita della politica economica preindustriale britannica, che viene naturalmente pagata dalle classi più povere (come testimonia Moro nel primo libro dell’Utopia, dove lamenta il fatto che le pecore stiano mangiando gli uomini). A beneficiarne sono l’aristocrazia, la gentry e i ceti mercantili. Dopo il 1650 si stabilizza, oltre che il tasso di crescita, anche la produzione, e il paese vede venire meno in pratica lo spettro delle carestie (che invece sul continente continuano a imperversare). Tuttavia l’inflazione non cessa di correre, e i prezzi aumentano ancora più del doppio entro la fine del secolo. Per venire incontro alle maggiori richieste alimentari non ci sono terre nuove, e occorre razionalizzare l’uso di quelle già dissodate. In tal senso viene sfruttata soprattutto l’esperienza olandese, che era già stata esportata in Inghilterra anche prima, ma che ora è alimentata dai profughi delle guerre antispagnole. Si attua cioè quella che viene comunemente chiamata la rivoluzione agricola, ovvero la razionalizzazione dei metodi e dei criteri di coltivazione. Tutto questo è reso possibile solo dal concentramento delle terre nelle mani di pochi, e dalla possibilità di investire capitali.
La concentrazione dei possessi terrieri è legata per la gran parte alla pratica delle enclosures, che come abbiamo visto avevano preso l’avvio già nel Medioevo, si erano intensificate a fine ‘400 e conoscono un ulteriore forte incremento sotto gli Stuart. In sostanza si procede alla privatizzazione delle terre comuni e pubbliche e all’abolizione degli usi consuetudinari, operate dai grandi proprietari aristocratici e dalla gentry, e favorite anche dalla riforma anglicana (con conseguente secolarizzazione di molti beni ecclesiastici).
Sul piano sociale, la vera rivoluzione l’Inghilterra la conosce nei due decenni a cavallo della metà del XVII secolo. Nel 1660 si restaura la monarchia, ma i proprietari terrieri vengono liberati da ogni dipendenza nei confronti della corona. È confermata infatti l’abolizione dei vincoli feudali, il che significa che la terra non è più posseduta per concessione regia, ma per un acquisito diritto di proprietà. Anche se si tratta nella maggior parte dei casi soltanto della ratifica, per di più tarda, di una situazione di fatto, il mutamento dello statuto giuridico riveste un’enorme importanza, tanto sul piano pratico quanto per le ripercussioni sull’atteggiamento mentale. Esso comporta ad esempio una revisione del regime fiscale sulle successioni, che in precedenza era rimasto soggetto a variazioni arbitrarie. Non solo: elimina anche quella possibilità di “revoca” della tutela feudale cui aveva spesso fatto ricorso, ad esempio, un sovrano come Carlo I, per motivi sia politici che finanziari. Con l’affermarsi di un rapporto di possesso non mediato e automaticamente trasmissibile, senza il vincolo della riconferma regia, i proprietari sono ora in grado di programmare investimenti e riconversioni anche a lungo termine. Inoltre, l’approvazione dello Strict Settlement, che in pratica ribadisce il diritto ereditario del primogenito, è decisiva per la concentrazione ed il consolidamento della proprietà terriera. Non a caso i Livellatori si erano battuti decisamente contro di esso.
Al contrario di quanto si verificherà in occasione di altri grandi sconvolgimenti rivoluzionari, al termine della rivoluzione inglese la situazione nelle campagne si è evoluta nel senso di un incremento del latifondo e della grande proprietà, mentre gli appezzamenti medi e piccoli appaiono in via di estinzione. Questo perché in realtà l’abrogazione dei vincoli feudali diventa effettiva soltanto a livello del rapporto sovrano-signore, mentre è normalmente disattesa per quanto concerne le sub-concessioni. I copyholders, coloni che hanno ottenuto terre signorili da dissodare, continuano ad essere soggetti alla revocabilità della concessione, anche nel caso di insediamenti che datano da diverse generazioni e per i quali la consuetudine parrebbe ormai costituire un titolo di possesso effettivo. Essi tendono anzi a sparire o a ricadere in una condizione servile, in quanto il capitale che fa irruzione nelle campagne rivalorizza le terre agli occhi dei proprietari e li spinge a volerne disporre direttamente. Anche i freeholders, piccoli proprietari esenti da vincoli servili, sono poco alla volta soffocati per la loro scarsa competitività nei confronti dello sfruttamento del latifondo, sia a pascolo che a coltivo; e a ciò si aggiungono le spoliazioni operate a loro danno dalla gentry, spesso con mezzi semi-legali, falsificando titoli di proprietà o manovrando i tribunali di competenza.
L’opera di ristrutturazione è completata dall’ulteriore grave diminuzione delle terre comuni. Il risultato è che nel XVII secolo il paese conosce un arricchimento notevole, in termini di economia globale, ma un deciso impoverimento degli strati bassi della popolazione. Il concentramento della ricchezza consente di impiegarla sempre meglio nella produzione di altra ricchezza, e spinge a cercare nuove forme di investimento e di realizzazione. È il prologo dell’ultima grande rivoluzione inglese, quella industriale.
Si delinea in sostanza una “via inglese” alla ristrutturazione post-feudale, che vede la formazione di aziende agricole capitalistiche, e che si contrappone ad esempio a quella “francese”, caratterizzata invece dalla forte presenza di piccole aziende contadine. La prima è resa possibile dal controllo diretto del potere politico da parte delle classi economicamente dominanti, che possono quindi spazzare via i possessi consuetudinari e gli usi comunitari, e costituire latifondi estensivi che producono per il mercato internazionale (inizialmente, derrate e lana). Il cambiamento è radicale. La certezza e la natura integrale del possesso inducono investimenti di capitali e quindi innovazioni e alta resa produttiva. Attraverso la rivoluzione agricola (rotazioni, concimazioni, introduzione delle marcite, primi accenni di meccanizzazione) da importatrice di cereali l’Inghilterra diventa prima della fine del ‘600 esportatrice. L’alimentazione di base è garantita, mentre i contadini sono progressivamente spinti a procurarsi il necessario per pagare le tasse e i diritti signorili e per rimanere competitivi cedendo il proprio lavoro nell’industria a basso prezzo, ricorrendo al prestito usurario e infine vendendo la terra. In un primo tempo questa situazione favorisce però soprattutto lo sviluppo dell’industria domestica nelle campagne, nel tentativo da parte dei contadini di integrare in qualche modo i loro redditi insufficienti. È un’attività ancora artigianale, con una produzione non molto qualificata, ma la commercializzazione dei prodotti in mano a grossi mercanti avviene anche su grande scala e per l’esportazione, e non è più legata semplicemente al mercato locale. Questo forte sviluppo dell’industria rurale ha anche un altro effetto: aggira e mina le resistenze delle corporazioni artigiane cittadine, rispetto alle quali opera una concorrenza svincolata dagli obblighi di qualità e di contingentamento, e soprattutto a costi stracciati. In tal modo comincia ad essere avviato alla proletarizzazione anche l’artigianato urbano.
Il risultato di questo processo è che l’Inghilterra, che all’inizio del ‘600 basava ancora per il 90% il suo commercio estero sull’esportazione di lana grezza, diventa nel corso del secolo esportatrice di manufatti tessili di qualità, approfittando anche della crisi delle manifatture delle Fiandre e dell’apporto fornito da immigrati dei paesi Bassi e dagli ugonotti cacciati da Luigi XIV. Le scelte politiche a questo punto sono tutte determinate dai ceti dominanti, e mirano a liberare l’espansione inglese da ogni impaccio e concorrenza. (gli Atti di Navigazione contro gli Olandesi).
Altri fattori entrano a far parte della preistoria della rivoluzione industriale, ma sono probabilmente più noti, e ci verranno magari illustrati nelle successive relazioni. Mi riferisco ad esempio alla creazione di un sistema finanziario che fa della City di Londra già agli inizi del Settecento il cuore pulsante dell’economia mondiale, in sostituzione di Amsterdam, e che è legata senz’altro alla riammissione degli Ebrei sull’isola, voluta non casualmente da Cromwell e dal Parlamento. Questo ed altri ancora sono naturalmente fattori fondamentali, ma la loro disamina richiederebbe un’intera serie di incontri. Io desideravo soltanto approfondire un aspetto tradizionalmente meno considerato.
Un’ultima cosa volevo chiarire. Non c’è traccia nella mia trattazione del rapporto tra etica protestante e spirito del capitalismo, secondo l’interpretazione di Weber. Non si tratta di una dimenticanza. Io non credo che gli Inglesi siano stati forgiati nello spirito capitalistico dall’adozione di un’etica protestante; credo piuttosto che si siano forgiata l’etica più adatta per le condizioni di sviluppo di un’economia capitalistica. Il che suona simile, ma non significa affatto la stessa cosa.
seconda lezione
Una rivoluzione quasi perfetta
(una lettura politica)
Premessa
Una rivoluzione perfetta è un percorso col quale, dopo aver fatto un giro completo, si torna al punto di partenza. Se combiniamo il significato etimologico con quello apparentemente opposto che il termine ha assunto nel tempo possiamo considerare la great revolution inglese una rivoluzione quasi perfetta. Per più motivi.
Il primo è che né all’epoca né nella valutazione storica successiva è stata percepita come una vera rivoluzione. Come la perfetta eleganza consiste nel non apparire, la rivoluzione perfetta non deve suscitare entusiasmi o deprecazioni eccessivi. In effetti in Inghilterra, nel volgere di un secolo e mezzo, cambiano moltissime cose: ma l’abito nuovo che alla fine ne esce riprende e ricorda lo stile e le misure precedenti, non enfatizza la rottura ma suggerisce una continuità.
Il secondo è che anche nella sostanza non stravolge affatto gli assetti. Non si torna al punto di partenza, ma si compie un movimento vichiano, a spirale. Il che garantisce appunto una linea verticale di continuità, pur nel rinnovamento.
Il terzo è che, a differenza di quella francese, che anche se vince sul lungo periodo viene sconfitta nell’immediato, o di quella russa, che vince nell’immediato ed è sconfitta nel lungo periodo, quella inglese si conclude con il successo subitaneo e duraturo delle istanze rivoluzionarie, proprio per il fatto che tanto rivoluzionarie poi non sono. Non intendo dire che la rivoluzione inglese produca effetti di cambiamento trascurabili, tutt’altro: fa, prima e per certi aspetti meglio, almeno dal punto di vista dei costi umani, quello che tutte le altre rivoluzioni, giacobine, proletarie o nazionalfasciste, faranno: accelera cioè un cambiamento imposto dalle nuove condizioni economiche e sbarazza il campo dai residui feudali, per consentire al paese l’ingresso nella modernità. Questa modernità è rappresentata soprattutto da un modo di produzione, quello industriale, e da un sistema di relazioni socio-economiche, quello capitalistico, che necessitano di un assetto istituzionale adeguato. Nel caso dell’Inghilterra ritengo, e cercherò di argomentarlo, che tale assetto fosse già prefigurato dagli sviluppi particolari della sua storia medioevale, e che questo spieghi il successo della rivoluzione.
Alle spalle (o a fianco: dipende dall’ottica che si preferisce adottare) della trasformazione economica inglese di cui abbiamo parlato nella precedente lezione c’è infatti una trama complessa di vicende politiche, sociali, religiose e culturali. L’Inghilterra era già di per sé un paese particolare, per motivi geo-storici, nel quale si erano sviluppati nel corso del tardo medioevo un’economia, delle istituzioni, dei rapporti sociali sempre meno in linea con quelli continentali. Tra la metà del XV e quella del XVII secolo le differenze si approfondiscono, in concomitanza col nascere e con l’affermarsi di una sempre più spiccata vocazione atlantica. E all’uscita dal Seicento la nazione gode di un equilibrio che il resto d’Europa conoscerà solo oltre due secoli dopo, a prezzo di conflitti sociali e nazionali devastanti.
Non è soltanto questione di crisi anticipata dell’ancient régime, di precoce industrializzazione, di conquista dei mari e dei mercati e di espansione coloniale. Ciò che caratterizza gli Inglesi è il tipo di coscienza di sé (che non è consapevolezza, ma non può nemmeno essere liquidata come spocchia), come individui e come popolo, che maturano paradossalmente a partire da una sconfitta (quella della Guerra dei Cento Anni), e che è destinata ad accompagnarli sino ai nostri giorni. Non è stato un processo semplice, e neppure incruento. Gli inglesi si sono allegramente scannati tra di loro come tutti gli altri popoli, forse con un pizzico di moderazione in più e per motivazioni ideali più alte, se è lecito parlare di motivazioni alte per dei massacri[2]. Ma hanno smesso di farlo molto prima di tutti gli altri, e hanno potuto assistere alle secolari carneficine europee da una posizione non solo di potenza, ma anche di superiorità “civica”.
In queste pagine intendo tratteggiare, sia pure sommariamente, le vicende che hanno portato a questa particolare condizione, e che vanno sotto il nome di Grande Rivoluzione, facendole precedere da un quadro introduttivo e seguire da alcune sintetiche considerazioni. Partirò nella narrazione dal regno di Elisabetta. Per una migliore conoscenza dell’antefatto e per un inquadramento più generale nel contesto europeo sarà sufficiente rispolverare un qualsiasi vecchio manuale scolastico.
I presupposti politico-economici …
Le “pre-condizioni” politiche, sociali e culturali alle quali accennavo sopra e che ritengo determinanti rispetto all’andamento e agli esiti della grande rivoluzione sono in sostanza le seguenti:
- a) L’Inghilterra non è solo il primo il primo paese europeo ad entrare nella “modernità”; è stato anche il primo in cui si è avviata la svolta verso lo “stato” feudale. La conquista normanna ha messo infatti i nuovi dominatori nella condizione e nella necessità di assicurarsi attraverso vincoli precisi quella fedeltà dei sudditi che non potevano pretendere per tradizione storica. Anche i subvassalli dovevano giurare fedeltà al re, e questo impediva ai grandi feudatari di utilizzarli contro di lui. Il sovrano inglese godeva nel XII secolo, e non solo formalmente, di una sovranità ampia, esercitata soprattutto attraverso la facoltà di imporre tasse su tutto il territorio del regno e nel ruolo di garante del possesso legale delle terre.
Quando, nel secolo successivo, per vicende sia dinastiche che militari, la corona attraversa più di un momento di debolezza (Giovanni senza Terra e la Magna Charta del 1215, Enrico III e le Provisions of Oxford e le Provisions of Westminster nel 1258) il potere nobiliare ne trae in realtà un profitto limitato. È vero che a partire dai primi del Trecento la Camera dei Lords esercita un effettivo e condizionante diritto di veto sulle imposizioni fiscali e sulle dichiarazioni di guerra, ma il peso dei Pari comincia ad essere gradualmente bilanciato dall’ingresso in parlamento dei “Comuni” (dal 1239, due cavalieri per ogni contea e due borghesi per ogni città), e nell’assieme il paese accelera la sua trasformazione in stato, perché la presenza di un organismo parlamentare rappresentativo di più ceti contribuisce alla creazione e alla legittimazione delle istituzioni. Al contrario di quanto avviene altrove, dove l’aristocrazia si frappone come una barriera tra il popolo e le istituzioni statali, qui è forzata a partecipare in veste propositiva, o almeno come elemento equilibratore, al loro radicamento.
La presenza delle istituzioni nel paese è capillare già in età medioevale: vi è un territorio giudiziario uniformato dall’adozione di un corpus comune di leggi consuetudinarie (la Common Law), nel quale i giudici itineranti si appoggiano a giurie locali espresse dalle varie comunità per amministrare la giustizia secondo equità e imparzialità, e comunque senza gli abusi tipici delle giurisdizioni feudali. È una presenza, come si diceva sopra, legata alla necessità di mantenere un controllo sui poteri e sulle autonomie dei piccoli potentati locali: ma produce di converso, sempre nella direzione di un compattamento statale, anche assenze altrettanto significative. Ad esempio, non esiste in tutta l’Inghilterra un regime di dazi interni, la circolazione di uomini e merci è completamente libera.
D’altro canto, le stesse caratteristiche morfologiche del territorio, l’insularità, le limitate dimensioni e l’assenza di barriere naturali interne, non favorirebbero di per sé la persistenza di autonomie di fatto o istituzionali. È inevitabile che non appena si intensificano i traffici e i contatti si avvii un deciso processo di unificazione.
La storia medioevale inglese va letta quindi anche nel segno della contrapposizione tra il disegno centralizzatore della corona e un’ostinata resistenza centrifuga opposta dalle aree periferiche. Il Galles, la Cornovaglia e le marche del Nord mantengono a lungo, le ultime sino a tutto il Cinquecento, un’autonomia politica che trova riscontro e giustificazione nella diversità degli idiomi, delle tradizioni e dei costumi, e che dopo la Riforma si tradurrà in differenziazione religiosa. Testimoni di questa resistenza sono le rivolte che esplodono in occasione di ogni minima difficoltà del potere centrale, i contatti mantenuti dalle aristocrazie locali con gli antagonisti continentali dell’Inghilterra, e non ultimi i miti del banditismo sociale (Robin Hood), che raccontano in realtà lo scontro tra l’alta aristocrazia “normanna”, lunga mano di Londra, e la residuale piccola nobiltà sassone. Ancora nel XVII secolo, nel vivacissimo dibattito polemico che precede e accompagna la guerra civile, l’ala rivoluzionaria più radicale farà risalire all’usurpazione normanna l’origine di tutti i mali sociali, economici e spirituali del paese[3].
Va considerato anche un altro aspetto di questo dualismo. Fino a tutto il XVI secolo la tradizione parlamentare incide solo relativamente sulla vita politica effettiva del paese, che non si svolge in maniera preminente nelle Camere, ma nelle comunità di contea. Nel corso di una vita o di un mandato i delegati sono chiamati a Londra al massimo un paio di volte, e in queste occasioni hanno per la gran parte un ruolo di secondo piano, mentre in casa giocano la parte dei protagonisti, godono di una reale autorità e rappresentano la più tangibile e prossima espressione del potere. Quanto viene discusso in parlamento o decretato dalla corona giunge ai livelli locali filtrato dal consenso o dalla coincidenza o meno con gli interessi del singolo e del gruppo sociale di cui è espressione, e questo consente di disattendere con una certa facilità leggi e imposte. Proprio il tentativo di ridimensionare le autonomie periferiche e di interferire a questo livello amministrativo, attraverso le nomine dei giudici e il controllo sugli organismi locali, scatenerà la reazione delle classi dominanti locali e finirà per costare caro agli Stuart
La guerra civile che ne scaturisce non liquiderà l’antagonismo interno, ma lo trasferirà dalla dimensione amministrativa a quella economica. All’accentramento politico si accompagna infatti tra il XVI e il XVII secolo quello di tutte le attività più redditizie a Londra. La City raccoglie a metà Seicento circa un decimo della popolazione inglese, ma detiene l’80% dei traffici ed esercita un controllo diretto o indiretto, finanziario o commerciale, su tutta l’economia inglese, costituendo ancora l’unico grande e vero mercato del paese aperto al consumo. Il passaggio al modo di produzione industriale impone però un decentramento delle attività produttive e già le sue prime fasi aprono prospettive di uno sviluppo diverso per aree un tempo arretrate. Cambieranno quindi il terreno e le modalità dello scontro, ma soprattutto si capovolgeranno le motivazioni anticentraliste, che passano dal rifiuto di un progetto politico inclusivo al timore di una esclusione da quello economico.
- b) A dispetto del potere effettivo detenuto, in Inghilterra la figura del monarca non è mai stata circonfusa di quell’aura di sacralità che caratterizza invece la monarchia francese o l’impero. Le è mancato il carisma di una investitura discendente da una tradizione antica o da un’eredità classica. Dopo la conquista normanna la tavola dei sovrani inglesi continua ad essere rotonda, e la nobiltà non si fa scrupoli, appena se ne dia l’occasione, a sbarazzarsi di loro o a costringerli al compromesso. Più che mai quando trova compattezza di intenti in un organismo assembleare, che spesso e volentieri si trasforma in Merciless Parliament (parlamento spietato). Gli inglesi hanno in effetti deposto o ucciso re e principi con una regolarità che non ha eguali in alcun paese europeo (nel 1327, nel 1399, e poi in rapida successione nel 1461, nel 1471, nel 1483 e nel 1485). E non si tratta di congiure di palazzo, ma di deposizioni e di esecuzioni decretate o comunque avallate da un Parlamento.
Il tentativo di cucire addosso ad Elisabetta un’immagine quasi sacrale (la regina vergine, l’identificazione con Astrea, dea della giustizia e protettrice delle leggi) riesce, almeno in parte, proprio perché non è eccessivamente enfatizzato, ed è favorito dalla parallela elaborazione di un mito dei destini albionici, legato ad una rappresentazione al femminile dell’Inghilterra. La regina stessa è però molto più attenta a cercare il consenso del suo popolo (non necessariamente quello del suo parlamento) attraverso una consacrazione “laica: non insiste troppo, ad esempio, sulla legittimità del suo ruolo di capo della chiesa, mentre si appella al principio che “nessun principe, prelato, stato o potentato straniero possa avere autorità sul suolo inglese”.
Il grave errore degli Stuart è invece quello di credere che possa essere trapiantata in Inghilterra la concezione scozzese di un potere esercitato per mandato divino. Già nelle opere scritte prima di salire al trono Giacomo I si propone come teorico dell’assolutismo più integrale, non moderato da alcuna istituzione rappresentativa o religiosa[4]. Ora, agli occhi degli inglesi non si tratta neppure di un residuato d’altra epoca, ma di una pretesa affatto estranea alla loro tradizione pragmatica e disincantata, per la quale il potere o lo si prende in virtù della forza o lo si ottiene per elezione, ma dai propri pari, non da Dio.
Carlo, da parte sua, è prigioniero del sogno di un “nuovo rinascimento” ispirato al modello italiano del secolo precedente. Si mostra patrono delle arti, si fa immortalare da Van Dyck nella posa del Gattamelata, ma questo non è sufficiente per accreditare l’immagine di una monarchia forte presso un popolo che sta scoprendo nel commercio e nell’industria la sua vera vocazione. È insomma troppo convinto della bontà della sua causa per accettare qualsiasi compromesso o limitazione; men che mai quando, dopo essere stato battuto sul piano militare, si vedrà offerta da un parlamento spaventato dalla deriva rivoluzionaria l’occasione per rientrare in gioco, sia pure nel ruolo subordinato di garante della continuità legittimista, e quindi dello status quo.
La sua tragica fine, al di là del valore simbolico che le si è voluto attribuire, non ha in realtà nulla di speciale; non costituisce affatto un evento inedito nella storia dell’isola. Si inscrive piuttosto in una disinvolta consuetudine di rifiuto di ogni sacralità del potere.
- c) In Inghilterra si è affermata, in particolare dopo la Guerra delle Due Rose, una classe intermedia, che non è corretto definire una “borghesia agraria”, perché in fondo ambisce ad una patente di nobiltà, si fregia di titoli nobiliari, sia pure di secondo livello, ed ha in un primo momento, oltre che ambizioni e aspirazioni, anche comportamenti economici non dissimili da quelli nobiliari. Questa classe, la gentry, è costituita dalle famiglie di ricchi possidenti terrieri che attraverso l’acquisto di proprietà già infeudate, legate a quindi a titoli o privilegi concessi dalla corona, hanno messo un piede nei ranghi nobiliari[5]. In essa confluiscono anche gli esponenti di quell’aristocrazia minore alla quale, col tramonto (in Inghilterra piuttosto precoce) della cavalleria, non è rimasta alternativa all’estinzione se non l’imborghesimento. Sul piano demografico l’incidenza percentuale di questo ceto rispetto al totale della popolazione (che agli inizi del ‘600 supera di poco i cinque milioni) è piuttosto bassa[6], ma su quello economico risulta molto significativa, perché al termine della rivoluzione deterrà oltre il 60 % dei terreni coltivabili[7].
Il grande salto avviene nel corso del XVI secolo, quando si presenta l’occasione di acquisire a basso prezzo le terre sottratte alla chiesa e le concessioni di sfruttamento dei monasteri. La gentry fa in questo passaggio di proprietà la parte del leone, essendo la classe economicamente più solida e provvista di capitali. E comincia anche, in difesa dei propri interessi e a sanzione del proprio status, a pretendere una partecipazione sempre più attiva alla gestione politica (mentre in precedenza l’appartenenza ai Comuni era un privilegio ambito dalle famiglie senza pretese di nascita e con una modesta qualifica sociale, ma il compito di rappresentanza non era preso molto sul serio). Le circostanze remano in questa direzione, e danno luogo ad un costante gioco al rimbalzo tra la ormai autonoma Camera dei Comuni e la corona. Hanno l’una bisogno dell’altra, sono alleati naturali contro l’alta nobiltà, ma il tentativo, che si fa esplicito già sotto Elisabetta, di condizionare fortemente questo ramo del parlamento con l’imposizione di membri del Consiglio della Corona mette in allarme i Comuni, e genera quegli anticorpi che diverranno attivissimi nell’epoca degli Stuart.
- d) Fino al XVI secolo la campagna inglese è rimasta suddivisa tra proprietà della chiesa, proprietà della corona e proprietà dei latifondisti feudali, i landlords. Solo una piccola parte, meno del 10 % delle terre coltivabili, era detenuta, a titoli vari di proprietà, ma più spesso di per semplice diritto di sfruttamento, dai freeholders, i contadini liberi. Nella maggioranza dei casi chi lavorava la terra aveva con i proprietari un rapporto di affittanza “perpetua” (copyhold), tacitamente trasmissibile ai propri eredi; il canone era contenuto, normalmente veniva corrisposto in natura, e la concessione comprendeva anche il diritto di pascolo e di legnatico nelle terre incolte. Questa forma di rapporto era la più antica e tradizionale: ma ad essa si affiancava, dalla fine del Medioevo, l’“affittanza a piacere del signore” (i tenants at will), che prevedeva concessioni a tempo determinato, da rinegoziarsi periodicamente.
La situazione muta dopo le scoperte geografiche: da un lato si aprono prospettive commerciali altamente remunerative, per associarsi alle quali è necessario disporre di capitali liquidi che il vecchio sistema non consente di accumulare, dall’altro l’afflusso di merci e soprattutto, a partire dalla metà del ‘500, quello di metalli preziosi dà origine ad un processo inflattivo che destabilizza molti antichi patrimoni, mettendo sul mercato grosse porzioni di proprietà terriere. Ai latifondisti feudali, eredi dell’aristocrazia militare, si vanno poco alla volta affiancando o sostituendo i membri della vecchia e nuova gentry, che sulla terra investono e dalla terra si attendono un ritorno adeguato. Gli uni e gli altri premono per sostituire al rapporto di copyhold quello di leasehold, di una affittanza cioè a rendita non più fissa ma variabile, di durata limitata ad arbitrio del concedente, che non comprende i diritti collaterali sugli incolti e che consente al proprietario di intervenire sulla conduzione con investimenti per migliorare la resa delle coltivazioni. Di fatto, tendono a riprendere il pieno possesso dei loro terreni, sia giuridicamente, facendo ufficializzare come diritti di proprietà quelle che in origine erano in realtà concessioni di sfruttamento, sia sul piano pratico, trasformandosi da redditieri passivi in imprenditori attivi. A scapito, naturalmente, di chi quelle terre le aveva lavorate per secoli.
Il momento più intenso di questa trasformazione si ha proprio nella prima metà del XVII secolo, quando la lotta per cacciare i copyholders si fa spietata, ed è condotta attraverso l’applicazione letterale del diritto feudale, laddove sia a vantaggio del proprietario, e il suo disconoscimento nel caso opposto, operati da tribunali locali totalmente controllati dalla gentry o dall’aristocrazia, con l’imposizione di tasse o di corvées sul diritto di pascolo o di legnatico, e soprattutto con la recinzione progressiva dei terreni un tempo aperti allo sfruttamento collettivo. A sancire anche ufficialmente la vittoria dei latifondisti arriva nel 1646, in piena rivoluzione, un Atto speciale che libera tutta la terra fino ad allora soggetta a dipendenza feudale dalla corona, e la mette sul mercato.
- e) A fianco della gentry (in molti casi, come abbiamo visto, al suo interno) cresce nell’Inghilterra elisabettiana e ormai atlantica una grossa borghesia mercantile, che trova la sua più potente incarnazione nella Merchant Adventurers Company, detentrice del monopolio sulle esportazioni dei panni di lana semilavorati. Questa borghesia acquista dai Tudor il controllo delle dogane (quindi il ruolo di controllore di se stessa) ed è in grado di condizionare, attraverso i prestiti elargiti prima ai sovrani e poi, sino all’epoca della rivoluzione, al parlamento, l’emanazione di leggi che le garantiscono il monopolio su ogni forma di commercio dell’isola. Genera in questo modo anche un ceto finanziario e induce a sua volta il prosperare di una élite di professionisti (soprattutto avvocati), che trovano nelle sia nelle transazioni internazionali che nel contenzioso sulle proprietà terriere, sui diritti comunitari e sulle recinzioni grosse opportunità di arricchimento. E sono proprio mercanti ed avvocati ad affiancare nella Camera bassa la gentry come rappresentanti delle città.
La classe mercantile ha cominciato a beneficiare dei monopoli già con Enrico VIII, ma la cosa diventa particolarmente scandalosa sotto il regno di Elisabetta. I cartelli dei grandi importatori, spesso associati con gruppi stranieri (italiani prima, olandesi poi) arrivano a detenere la totalità dei traffici in ingresso o in uscita. Verso la fine del XVI secolo, però, la congiuntura economica cambia. Il rendimento dei capitali investiti nei commerci scende, anche per i rischi connessi al perdurare del conflitto antispagnolo, che si combatte tutto sul mare e che chiude i mercati della parte più ricca del nuovo mondo, e al nascere del fenomeno della pirateria (soprattutto francese e olandese).
Negli anni precedenti la rivoluzione, che sono quelli di maggiore povertà per l’Inghilterra, si innesca quindi un processo nuovo, che ha un andamento circolare: i salari bassi, e quindi le prospettive di alti tassi di rendimento, stimolano un iniziale ma crescente spostamento degli investimenti verso la produzione industriale, nella fattispecie verso il settore tessile; il boom della nascente industria tessile incoraggia le recinzioni per i terreni da pascolo (così come quello dell’estrazione carbonifera intensifica gli espropri). Gli sfratti, operati soprattutto nei confronti dei contadini concessionari di terreni di proprietà della gentry, creano un bacino di manodopera per l’industria e la possibilità di tenere bassi i salari. Tutto questo mentre la tendenza inflazionistica non solo perdura, ma si accentua, al punto che tra l’inizio e la fine del ‘500 il calo del potere d’acquisto è per i lavoratori salariati di oltre la metà.
In questa fase a trarre profitto dalla nuova situazione sono i medi commercianti, piuttosto che i grandi mercanti, e ciò avviene a dispetto delle scelte politico-economiche degli Stuart. Ad esempio, il divieto fatto nel 1614 di esportazione della lana greggia è mirato a liquidare la presenza e la concorrenza delle grosse compagnie straniere, ma nella sostanza va a favorire lo sviluppo dell’industria locale, e quindi i medi commercianti che operano sul mercato interno. Costoro prima si limitavano a rastrellare sul territorio il prodotto greggio da conferire ai monopoli dell’esportazione, mentre ora si trasformano in commissionanti di manufatti, e danno origine al domestic system. Allo stesso modo, i grossi artigiani si trasformano in mercanti o in imprenditori di stampo protoindustriale.
Gli intendimenti della corona non erano affatto questi. Nel 1616 vengono emanati una serie di provvedimenti che mirano a frenare, piuttosto che a promuovere, lo sviluppo industriale. Si cerca di costringere questo sviluppo all’interno delle città, vietando ad esempio alla gentry di campagna la produzione di manufatti di lana. Vengono rafforzate o addirittura create, là dove non esistevano, le corporazioni, è fatto divieto di possedere più di un certo numero di telai, vengono proibite certe tecniche di lavorazione e distrutte alcune nuove macchine. Si vuole impedire in pratica la nascita di una nuova classe, che non ha come l’aristocrazia un debito di fedeltà nei confronti del sovrano e che può rapidamente scalare le vette del potere economico, sconvolgendo il vecchio assetto sociale e politico.
A questa azione di contenimento non è naturalmente estraneo anche un gretto e disperato calcolo economico. Il susseguirsi di statuti e di norme restrittive emanate dal governo (e puntualmente abrogate dal parlamento), è infatti costantemente mitigato e contraddetto dalle esenzioni o dalle deroghe concesse dietro pagamento.
Il disegno politico-economico degli Stuart si scontra però con una resistenza parlamentare sempre più ostinata. Il tentativo di assoggettare ad un controllo monopolistico l’intera industria tessile è immediatamente respinto, con conseguenze peraltro disastrose. La libertà di iniziativa dà infatti origine ad una crisi di sovrapproduzione, e quindi al crollo dei prezzi e ad una pesante fase di disoccupazione. La responsabilità della crisi viene a questo punto paradossalmente addossata proprio alla corona e alle sue ingerenze “frenanti”, che nella circostanza avrebbero al contrario potuto svolgere una funzione equilibratrice.
La rivoluzione del 1640 ha come primo effetto proprio la distruzione della burocrazia regia, che in effetti, per conto del sovrano e più spesso in proprio, faceva mercato degli strumenti giuridici di controllo sull’economia. Assieme ad essa entrano nel mirino dei “rivoluzionari” tutti i beneficiari del sistema delle patenti di monopolio, e la categoria di “monopolio” è allargata, nell’interpretazione più radicale, dalle grandi compagnie commerciali alle oligarchie delle corporazioni, alle caste professionali (medici e avvocati in testa), al clero, ai grandi proprietari fondiari. È il trionfo delle nuove forze economiche e della libertà più assoluta di impresa, in largo anticipo sugli altri paesi. (Un paragone può essere fatto, più che con la rivoluzione francese dell’ottantanove, con quella del 1848, guidata dalle nuove forze industriali contro la borghesia mercantile e finanziaria.)
- f) Un importante fattore di spinta dello sviluppo economico è stato costituito per tutto il XVI secolo dall’incidenza globale della tassazione, molto bassa rispetto a quella applicata sul continente. Ciò era possibile perché la corona non doveva mantenere un esercito e disponeva dei cespiti derivanti dall’incameramento delle terre e delle rendite dei monasteri. Nel secolo successivo, però, quando le vendite ai privati, l’inflazione e la rivoluzione dei prezzi hanno eroso questi canali di finanziamento, la situazione precipita. La corona non è infatti in grado di drenare ricchezza dal settore del commercio, perché non dispone di strumenti fiscali adeguati e perché non esiste in Inghilterra una consuetudine di dazi commerciali; né è facile introdurla, perché ogni nuova imposta deve essere approvata dai Comuni, e questi oppongono una pregiudiziale resistenza ad ogni tentativo di riorganizzazione del sistema fiscale.
La tassazione è inoltre relativamente efficace nelle città, dove passa attraverso il controllo delle corporazioni, ma lo è molto meno nelle campagne, dove è invece affidata a quella stessa gentry che ha tutto l’interesse ad eluderla. L’assenza di una burocrazia statale simile a quella francese rende allo stesso modo difficile la riscossione delle royalites sulle miniere o sulle dogane: in questo caso le esazioni sono tutte affidate a privati, che ci speculano sfacciatamente in proprio. La principale accusa su cui si baserà la rovina di Strafford e di altri uomini forti dell’amministrazione monarchica sarà proprio quella di peculato. Ora, il peculato esiste da che mondo è mondo; ma in questa occasione la concomitanza della condanna etica che arriva dal rigorismo puritano e delle negative conseguenze economiche ne fa un formidabile strumento di lotta politica.
A fronte di un regime fiscale che non può essere riorganizzato e che non produce quindi maggiori entrate, gli oneri finanziari per le casse della corona vanno lievitando, perché cambia l’armamento delle milizie (fucili e cannoni al posto di archi e frecce, divise o livree per i soldati) e si moltiplicano gli impegni su vari fronti interni: l’Irlanda, soprattutto, ma anche la gestione dell’ordine pubblico, nella misura in cui viene sottratta agli aristocratici, il mantenimento di una flotta per la promozione e la difesa dei nuovi interessi atlantici, ecc…
… e quelli culturali
- g) La storiografia inglese del secondo novecento, ad orientamento prevalentemente marxista, ha sottolineato soprattutto i moventi economici e sociali della rivoluzione, relegando in secondo piano o considerando puramente strumentali quelli religiosi e ideologici.
In realtà la rivoluzione inglese produce una violenta accelerazione nella trasformazione dei modi della politica, ed è a sua volta in gran parte il frutto di due altre “rivoluzioni”: una è quella che va sotto il nome di Riforma, l’altra è quella che Elizabeth Eisentein ha definito la “rivoluzione della stampa”. L’una e l’altra sono determinanti per quanto concerne la nascita di un’opinione pubblica e di un pensiero libero, anche quando i risultati più immediati e tangibili, in entrambi i casi, sembrerebbero provare il contrario (né Lutero né Calvino possono certamente essere considerati campioni del libero pensiero, ma hanno quanto meno introdotto il diritto alla libera interpretazione dei testi sacri; allo stesso modo la stampa è uno strumento aggiuntivo di persuasione e di condizionamento, ma induce come effetto reversivo la possibilità di attingere informazioni da fonti diversificate, di operare un confronto e di maturare un’opinione individuale).
Le due cose sono peraltro strettamente legate: la riforma promuove un processo spontaneo di alfabetizzazione di massa, l’alfabetizzazione dà impulso alla crescita qualitativa e quantitativa, tanto per numero di pubblicazioni che per numero di copie, della nuova industria della stampa. A sua volta, la diffusione dei libri di preghiera supporta e radicalizza una religiosità fondata sulla conoscenza individuale dei testi sacri, ma fa anche da volano alla circolazione di ogni altro tipo di pubblicazioni, soprattutto di quelle a carattere politico.
Tra il 1525 e il 1640 vengono stampate e diffuse in Inghilterra seicentomila Bibbie, alle quali si aggiungono quattrocentoventimila “Bibbie dei Poveri”, che contengono solo il Nuovo Testamento. Questo significa che ogni famiglia possiede i testi sacri, e che la maggioranza degli inglesi è in grado di leggere. E naturalmente non legge solo la Bibbia. Nei vent’anni tra il 1641 e la restaurazione monarchica, dopo che è stata liberalizzata la stampa e abolita ogni censura preventiva[8], vengono pubblicati a Londra oltre trentamila opuscoli, manifesti, libri ecc…[9] Siamo quindi di fronte ad un popolo che non viene più passivamente coinvolto in vicende politiche rispetto alle quali non ha alcuna conoscenza o possibilità interpretativa, se non quelle trasmesse dal pulpito, ma che è ormai in grado di “farsi un’idea”, e al limite di scegliere con una certa cognizione da che parte schierarsi. Sto parlando di potenzialità, naturalmente: all’atto pratico è evidente che sulle scelte finiscono per pesare altri fattori condizionanti, dall’appartenenza territoriale a quella di classe, né più né meno come accade anche oggi. La gentry si scopre ad esempio ardente puritana perché l’episcopalismo anglicano potrebbe rimetterne in discussione, in qualsiasi momento, i diritti sulle proprietà ecclesiastiche espropriate, l’aristocrazia perché teme che una chiesa soggetta interamente al sovrano diventi uno strumento eccessivamente potente di controllo, la borghesia commerciale perché è gratificata dalla celebrazione calvinista del successo economico. Ma ciò non toglie che quell’idea che ciascuno è in grado di farsi, per alcuni legata alla professione di un puritanesimo integrale, per altri ad una estensione sul piano sociale del diritto ad una piena libertà individuale, per altri ancora ad una declinazione egualitaristica del concetto di giustizia, agisca in profondità nel motivare le coscienze alla ribellione. E questo accade, nella storia dell’occidente, per la prima volta.
C’è anche un terzo aspetto che non dovrebbe essere trascurato. La vivacissima battaglia polemica che caratterizza tutto il periodo della rivoluzione, e che inaugura in fondo un nuovo modello di lotta politica, si svolge tutta esternamente alle università. Lo stesso sta accadendo per gli aspetti più innovatori della rivoluzione scientifica, che passano piuttosto per le società scientifiche e per le Accademie private. Questo porta ad una sorta di privatizzazione della cultura, da intendersi in senso un po’ particolare, perché nella realtà poi queste società e queste accademie sono nella gran parte dei casi sostenute e finanziate proprio dal potere politico. Ma comporta anche l’adozione di un criterio del risultato, per cui gli studi devono produrre qualcosa di tangibile e concreto, spendibile sul piano politico, militare, industriale.
- h) Va anche riconsiderato il peso che il fattore religioso riveste di per sé, al netto delle ricadute in termini di autonomizzazione individuale del pensiero.
In Inghilterra la Riforma ha precursori importanti, una tradizione di resistenza alla chiesa romana (o avignonese) che aveva trovato i suoi portavoce più autorevoli in Guglielmo di Occam, difensore del primato politico imperiale, e in John Wycliff, sostenitore dell’interesse nazionale, oltre che di un ritorno alla purezza del cristianesimo primitivo. Wycliff aveva a suo tempo difeso le prerogative della corona inglese contro le pretese papali di riscossione integrale delle decime. Nel De dominio divino aveva attribuito la preminenza al potere civile, che in caso di necessità o di fronte ad abusi conclamati può revocare i diritti di sfruttamento e alienare i beni della chiesa. Tutta la nazione, con la nobiltà in testa, si era schierata in quel frangente al suo fianco, consentendogli di sottrarsi alle condanne decretate nei processi ecclesiastici. Wycliff aveva allora rincarato la dose, condannando la gerarchia papale ed episcopale, i sacramenti della cresima, dell’estrema unzione, della penitenza, i pellegrinaggi, il culto dei santi, le reliquie e il celibato ecclesiastico, suscitando in questo caso non pochi imbarazzi e una netta presa di distanze da parte dei suoi vecchi protettori. Wycliff in effetti è molto più figlio delle eresie medioevali che padre dei movimenti riformatori del XVI secolo, e questo appare evidente quando difende la rivolta dei contadini di Wat Tyler (1381) e attraverso i poor preachers (poi definiti lollardi) predica un egualitarismo religioso-sociale. Dirige comunque la prima traduzione integrale della Bibbia in lingua inglese, ciò che lo ricollega al punto precedente, e smantella a suon di citazioni testuali tutto l’armamentario di autolegittimazione che la Chiesa romana aveva elaborato in tredici secoli.
Quando arriva lo scisma, quindi, l’Inghilterra è già preparata. Wycliff e Occam hanno fornito i presupposti giuridici e teorici al contenzioso con Roma, e questo spiega la scarsissima resistenza opposta a Enrico VIII da parte delle alte gerarchie religiose. I contenuti dottrinali sono invece importati dai molti profughi dal continente, tra i quali diversi italiani, che approdano nell’isola prima della metà del secolo e che spingono lo scisma in una direzione decisamente calvinista, soprattutto durante il breve regno di Edoardo VI. I suoi quarantadue articoli sono in effetti una professione di fede “ginevrina”.
Va sottolineato che la quasi totalità di coloro che sono costretti alla fuga dalla successiva persecuzione di Maria Tudor appartiene alle classi medio-basse, operai specializzati o artigiani: solo nove su oltre trecento sono gentiluomini. Durante il periodo elisabettiano infatti il puritanesimo si diffonde nelle aree portuali, nelle zone industriali orientali e in quelle occidentali dove cresce l’industria tessile. Conosce quindi un’iniziale diffusione cittadina, in seno soprattutto alle classi mercantili, mentre i consensi che riscuote presso la gentry hanno motivazioni decisamente più opportunistiche, legate alla possibile spartizione dei possedimenti terrieri ecclesiastici. Ma dopo che i trentanove articoli di Elisabetta ripristinano di fatto l’episcopato e la liturgia cattolica, le istanze dei radicali elisabettiani, consapevoli che la loro riforma è stata tradita, e quelle della piccola e media nobiltà di campagna si cementano nel nome di un comune nemico. Da questo momento uno degli obiettivi prioritari del puritanesimo sarà l’abbattimento del sistema vescovile.
Minore successo riscuote il non conformismo presso l’alta aristocrazia, a dispetto della diffidenza nei confronti di una professione di fede, quella “anglicana”, che garantisce un formidabile strumento di controllo alla corona. Per la nobiltà latifondista è chiaro che ogni messa in discussione dell’assetto e dei poteri esistenti, siano essi religiosi o civili, prelude alle grane. Non ama l’anglicanesimo, ma teme molto di più le possibili derive sociali del riformismo radicale, che ha già dato prova dei suoi effetti sul continente con l’anabattismo. All’interno della Camera dei Lord la percentuale di coloro che rimangono fedeli alla chiesa di Roma è molto più alta rispetto a quella relativa all’intera popolazione: il che porta, in un clima di antipapismo viscerale sempre più acceso, ad un ulteriore discredito del ramo nobiliare del Parlamento.
Dal canto suo, il movimento non conformista si divide da subito in un’ala presbiteriana ed in una indipendente. La prima vuole sostituire alla gerarchia vescovile quella degli “anziani”, scelti tra i più facoltosi (perché la ricchezza è segno della benevolenza divina: Calvino applicato alla lettera). È un modo per la ricca borghesia di giustificare la propria pretesa a condividere la gestione del potere. Gli indipendentisti vogliono invece una sorta di autogestione da parte di ogni singola comunità. Ciò implica già a partire dalla fine del XVI secolo la frammentazione in numerosissime sette, fortemente destabilizzanti ma scarsamente capaci di esercitare una pressione unitaria nei confronti del potere. Almeno fino alla rivoluzione.
- i) Il diritto alla resistenza e alla ribellione è inteso dai puritani inglesi come un dovere religioso. È una concezione che ha origini lontane, nella predicazione lollarda, ma viene rinsaldata nei contatti che gli esuli hanno con gli ugonotti francesi. In sostanza, questi ultimi rivendicano un ruolo di legittima opposizione per le istituzioni rappresentative partendo dal presupposto che la società politica sia ordinata direttamente da Dio, ovvero da quello stesso presupposto che aveva legittimato un tempo l’ordine feudale. La resistenza all’assolutismo nasce cioè in difesa di un ordine antico, del principio per cui al sovrano è affidata una responsabilità, prima che un potere, e che ciò che Dio gli trasferisce non è un possesso, ma un semplice usufrutto. Qualora il monarca venga meno al suo compito o abusi delle sue prerogative va rimosso, è Dio stesso a volerlo: e a suffragare questa tesi c’è una copiosa raccolta delle fonti bibliche e di esempi antichi e medioevali, che raccontano ed esaltano la resistenza nei confronti di sovrani trasformatisi in tiranni. La battaglia a suon di citazioni bibliche vede, anche sul piano della legittimazione religiosa delle scelte politiche, la larga vittoria da parte dei ribelli puritani nei confronti dei lealisti anglicani e cattolici. Ma è una strana vittoria, perché nel corso della lotta sono andati dispersi sia l’assunto iniziale (l’ordinamento divino della società) che l’obiettivo (la costruzione di una società cristiana).
Il passaggio da dovere “religioso” a diritto “politico” alla resistenza avviene proprio nel corso della rivoluzione. La rivendicazione di un “diritto politico” ha paradossalmente origine dalle stesse basi dalle quali deriva la teoria assolutistica: dalla definizione cioè del concetto di Stato e di sovranità e dallo status del cittadino (o suddito). È soprattutto importante in questo senso la precisazione dei ruoli economici ed amministrativi dello stato, di una sua funzione relativa alla pacificazione interna piuttosto che alla conquista esterna. Ora, questa funzione viene riconosciuta già dal primo giusnaturalismo, quello di Grozio, che però intende ancora la natura come un ordine fondato sulla ragione divina. Da Hobbes in poi invece la concezione “convenzionalista” delle istituzioni politiche prevale rispetto a quella giusnaturalistica, dalla quale pure deriva: lo stato non ha alcun fondamento in natura o in Dio, ma è semmai lo strumento per contenere la belluinità dell’una e per ovviare alla latitanza dell’altro[10]. La sostanza non cambia, né il primo né il secondo ritengono lecita la ribellione dei cittadini anche contro eventuali arbitri, perché minerebbe il fondamento, la credibilità della convenzione: ma tra il ribellarsi ad un ordine che sia pure indirettamente fa capo a Dio, perché il diritto positivo poggia su quello naturale, e l’opporsi ad una istituzione che è frutto di un patto razionale tra uomini, corre una bella differenza.
La novità inglese è dunque quella del passaggio dalla rivendicazione di una legge “universale” (per cui le istituzioni rappresentative difendono una legge di natura) a quella della sovranità del parlamento (che quindi le leggi non solo le difende, ma le fa: dal momento che non c’è più Dio a provvedere, in quanto Dio ha altro da fare e non si interessa di politica, devono provvedere gli uomini). Il modello hobbesiano non è certo fondato sull’idea di libertà, che secondo il filosofo è negativa e distruttiva: ma riflette ugualmente i risultati della rivoluzione, perché rivendica un pieno dominio razionale sulla politica.
L’Inghilterra di Elisabetta I
Dopo la fine del tentativo dei Plantageneti di unire le terre dall’una e dall’altra parte della Manica (la Guerra dei Cento Anni), l’Inghilterra si apparta per quasi un secolo dalle vicende europee, impegnata com’è a metabolizzare prima il rivolgimento politico indotto dalla Guerra delle Due Rose, poi quello istituzionale e religioso provocato da Enrico VIII. Alla morte di quest’ultimo c’è un sussulto di reazione, col tentativo operato da Maria Tudor e del cardinale Pole di ricattolicizzare il paese, e si arriva persino ad un tentativo di unione politica con la Spagna attraverso Filippo II. Negli anni ‘60 del XVI secolo l’Inghilterra si stacca però definitivamente dal mondo cattolico e dalla politica filoasburgica.
Con l’ascesa al trono di Elisabetta I (1558), in concomitanza con una fase estremamente favorevole del commercio inglese e con l’apertura di nuove vie transeuropee (nel Baltico, verso la Moscovia, verso il Mediterraneo) ed atlantiche, l’Inghilterra riprende la propria vicenda autonoma di sviluppo interno e di politica internazionale; continua a far parte dell’Europa ma ne è un po’ discosta, è influenzata dalle vicende del continente ma risulta capace di produrre un’identità propria.
La nuova regina suscita un’ondata di entusiasmo e di speranze contraddittorie. Guardano a lei con simpatia i Comuni, quindi la gentry, e dietro di loro la grossa borghesia mercantile, perché si attendono la legittimazione morale del nuovo ruolo politico che vanno ricoprendo e quella materiale delle proprietà acquisite dopo la riforma o dei monopoli ottenuti in concessione. Ma guardano a lei con una certa serenità anche gli aristocratici, convinti che una corona in mani femminili sia minata da un’intrinseca debolezza, e non possa costituire un problema. Allo stesso modo, si riversano su di lei le speranze di un qualche riscatto dalla miseria del popolino, fiducioso che non vorrà intraprendere guerre d’espansione, e quindi non aggraverà il peso delle tasse, e quelle dei protestanti convinti, che auspicano venga portata fino in fondo la Riforma.
L’esempio più lampante dell’ambiguità della nuova situazione viene dai protestanti fuggiti sul continente per sottrarsi alle persecuzioni di Maria Tudor. Costoro hanno potuto sviluppare, nelle condizioni di autonomia consentite dall’esilio, delle esperienze religiose ed intellettuali che portano alla fondazione del puritanesimo inglese ed all’elaborazione della dottrina sulla legittimità della resistenza al potere. Sempre in quest’ambito è nata (o meglio, viene alimentata dalla distanza e consacrata attraverso l’elaborazione di una simbologia mitologica – il mito di Astrea) anche l’ideologia dell’Inghilterra come nazione eletta, ed entrambe queste acquisizioni avranno un peso considerevole negli anni successivi. Non mancano comunque le esitazioni da parte degli immigrati di fronte alla possibilità del ritorno in patria, perché temono, a ragion veduta, di non ritrovare le stesse condizioni; e non tutti in effetti rientrano. Quelli che lo fanno eserciteranno però una azione determinante, prima di tutto attraverso il parlamento e poi operando all’interno della chiesa e nella società.
Per intanto, Elisabetta non eredita una situazione politica favorevole. La guerra appena conclusa contro la Francia lascia la corona indebitata per 300.000 sterline, e le sue forze militari deboli e demoralizzate. In generale la posizione della sovrana è fortemente indebolita rispetto ai tempi di Enrico VIII, sia nell’ambito dell’amministrazione, sia in quello della giurisdizione sulla chiesa d’Inghilterra.
Partendo da queste difficoltà iniziali, tuttavia, il regno di Elisabetta – che abbraccerà più di quattro decenni – vedrà la realizzazione di un’unità politica ben maggiore di quella esistente in precedenza, e soprattutto la creazione di una monarchia che, abbandonati gli schemi e l’ottica medievali, si dà giustificazione e volto moderni. La corona inglese si proporrà da un lato come elemento di superiore mediazione e di coordinamento tra le nuove istanze politiche, religiose ed economiche che percorrono il paese, e di riferimento per le forze che ne sono portatrici; dall’altro utilizzerà direttamente queste forze per dare corso alla ristrutturazione amministrativa. In luogo del lealismo di matrice feudale va maturando nel paese un consenso dai tratti più profani, ma concretamente motivato nella coincidenza d’interessi della monarchia e della nazione.
Al consolidamento di un forte potere centrale, che le salvaguardi tanto dalle rivendicazioni dell’aristocrazia feudale quanto dalle pressioni dal basso, guardano volentieri, come abbiamo anticipato, soprattutto le oligarchie economiche cittadine. In questi ceti, nella borghesia mercantile e finanziaria, ma anche nei medi e grandi proprietari della campagna, è la base sociale più consapevole (anche se, all’occorrenza, più volubile) del consenso monarchico. Soprattutto la gentry, il ceto di proprietari-commercianti cresciuti a partire dalla guerra delle Due Rose sulle rovine del potere nobiliare, trova un completo riscontro ai propri interessi nella politica regia.
Memore della lezione paterna sulla religione come strumento per unificare e conformare il paese, Elisabetta interviene subito sulla chiesa promulgando un Atto di Supremazia (1559) sostanzialmente immutato rispetto al precedente del 1534, oltre ad un Atto di Uniformità, e restaura il Prayer Book e la liturgia anglicana. Dal momento che il potere sulla chiesa inglese le è conferito, almeno formalmente, dal parlamento, questa operazione non incontra opposizioni di rilievo. Quella dei cattolici è scontata, ma non costituisce un grosso problema, dal momento che sono pochi e non sono maggioritari né nell’aristocrazia né nella gentry. La maggioranza della popolazione è invece allineata sulla posizione scismatica di Enrico VIII. Anche quando nutre qualche perplessità rispetto alle modifiche apportate al rituale tradizionale non appare disposta a difendere oltre un certo limite le proprie posizioni, e soprattutto è restia a disobbedire alla regina. Le difficoltà vengono piuttosto dal protestantesimo radicale, che mentre apprezza la purezza della dottrina è invece ostile al mantenimento di determinati ornamenti liturgici, delle immagini e di certi aspetti di ritualità, oltre che al sistema dei vescovi. Malgrado ciò, con qualche contrasto e piccoli compromessi, l’organizzazione ecclesiastica anglicana rimane costituita e funziona sotto la giurisdizione della sovrana.
A determinare l’atteggiamento regio verso l’aristocrazia tradizionale sono soprattutto alcuni contrasti che sorgono al nord, dove si mescolano la questione della successione e quella del cattolicesimo. Secondo una scelta che ha anche la conseguenza di consolidare una nuova immagine di regno e di impero e di costruire un mito creatore di consenso, la regina non intende sposarsi. Questo accentua l’attenzione politica sui suoi possibili successori, in particolare su Maria Stuart, sovrana cattolica di Scozia, discendente per parte materna dall’importante famiglia di Guisa ed educata alla corte francese.
Nel 1568, per la crescita del calvinismo in Scozia, la regina Stuart è costretta ad abdicare e si rifugia nel nord dell’Inghilterra. Qui incontra una situazione di ribellione tra i magnati del nord, cattolici e tradizionalmente molto indipendenti dalla corona. L’anno successivo, sotto la spinta di due aristocratici, i conti di Nortumbria e di Westmoreland, scoppia un’insurrezione di livello locale che si allarga fino a Durham, dove viene restituita la messa nella cattedrale tra scene di entusiasmo popolare.
La rivolta non riesce però a riscuotere solidarietà tra la gentry e l’aristocrazia “minore”, ed è quindi contenuta facilmente dalle forze locali fedeli alla corona. Del resto, lo stesso programma dei rivoltosi è incerto: non si tratta di rovesciare la regina per instaurare una monarchia cattolica, piuttosto di difendere la persona di Maria e di ottenere il suo riconoscimento come erede. La sconfitta comporta invece una repressione piuttosto cruda e la fine dell’importanza delle due maggiori famiglie del nord. A partire poi dal 1572, sotto la guida del puritano conte di Huntington, il Consiglio del Nord inizia a cancellare sistematicamente tutte le consuetudini e gli atteggiamenti che mantenevano la peculiarità della regione.
Le conseguenze di maggior rilievo per tutto il paese sono però di tipo indiretto. Pio V, deciso propugnatore della controriforma, nel febbraio del 1570 promulga la bolla Regnans in Excelsis che dichiara Elisabetta eretica e falsa regina, e libera i sudditi dall’obbligo di obbedienza. Da questo momento sull’isola diffondere la bolla, o anche chiamare Elisabetta eretica o scismatica, diviene un atto di tradimento. È il periodo in cui giungono in Inghilterra i primi preti cattolici cresciuti nel seminario di Douai, creato appunto nella prospettiva di fornire forze che alimentino una ripresa di identità nel cattolicesimo inglese contro la conformity elisabettiana e l’incapacità dei preti di Maria. Per opera di questi uomini il cattolicesimo va definendosi come una viva minoranza nella società inglese. Ma l’atteggiamento pontificio apre un periodo di intensificata repressione, che ha come conseguenza l’indebolimento della gentry e dell’aristocrazia cattoliche, e soprattutto orienta il paese in senso protestante più deciso.
Anche il puritanesimo viene incanalato nell’alveo della costruzione unitaria del regno. I1 protestantesimo radicale, che ritiene insufficienti le riforme già attuate, rischia di assumere una posizione eversiva rispetto alla chiesa d’Inghilterra, soprattutto rispetto alla struttura episcopale, che è stata fermamente mantenuta. Nel 1573 un proclama reale ordina che vengano soppresse tutte le sette dissidenti. Nel 1585 viene istituzionalizzato, con la creazione della Corte di Alta Commissione, l’intervento contro l’opposizione puritana e presbiteriana.
Nell’opera di accentramento del potere regio Elisabetta ha dalla sua la favorevole congiuntura internazionale. La temporanea eclisse della Francia, dilaniata dalle guerre intestine di religione, e le pretese egemoniche di Filippo II conferiscono un deciso significato politico alla recente vocazione anti-spagnola, che sulle prime aveva conservato un carattere puramente confessionale. La contrapposizione alla Spagna sarà decisiva per fondare i destini coloniali dell’isola, e consente tra l’altro vantaggi economici immediati attraverso la guerra di corsa. Comunque, contribuisce sin dal principio a serrare le fila della nazione attorno alla corona.
All’interno Elisabetta sa mettere a frutto questi elementi, e riesce abilmente a destreggiarsi tra le difficoltà. Esercita il potere esecutivo in forma pressoché assolutistica, assistita soltanto dal consiglio della corona; e limita l’ingerenza parlamentare avvalendosi, quando è possibile, di interpretazioni elastiche della vecchia legislazione. Il parlamento è convocato solo eccezionalmente, e nel corso di più di quarant’anni rimane in seduta per soli trentacinque mesi effettivi. La sovrana ridimensiona soprattutto l’influenza della Camera dei Lord, mentre vede di buon occhio la crescita d’importanza dei Comuni, legati a doppio filo alla corona dall’assunto anti-nobiliare.
A livello locale, le contee e i distretti si sottraggono e si oppongono decisamente alla giurisdizione signorile, mentre si afferma la competenza amministrativa dei giudici di pace di nomina regia, reclutati per lo più tra la gentry. Questo passaggio di consegne sarà decisivo per gli sviluppi sociali della rivoluzione del secolo successivo, perché proprio ai giudici di pace competerà la gestione del contenzioso su diritti di proprietà, rapporti di concessione o di affittanza, legittimità delle recinzioni: con gli esiti che si possono immaginare
L’operazione di coesione interna e di accentramento richiede naturalmente anche la ristrutturazione dell’esercito, delle finanze e dell’amministrazione. Negli organi amministrativi, sia nel consiglio della corona che a corte, si avvia una rotazione nel corso della quale sono estromessi quanti avevano sostenuto Maria Tudor e vengono favoriti invece i magnati di vecchio tipo, di mentalità rigidamente inglese e poco propensi allo straniero, ed i nuovi nazionalisti protestanti.
Nel 1573 viene riorganizzata la milizia per il servizio militare interno, così che accanto al tradizionale servizio militare dell’aristocrazia viene formato in ogni contea un gruppo dei più abili, addestrati ed equipaggiati con le armi più moderne a spese della contea stessa. Questo sistema porta nel tempo al decadere della milizia aristocratica, mentre si rafforza il potere della corona, che controlla il reclutamento e la preparazione militare per mezzo di luogotenenti deputati, due o tre per contea. Anche i luogotenenti sono di regola membri delle principali famiglie della gentry. Questa trasformazione nell’ambito militare riassume perfettamente la crisi dell’aristocrazia che caratterizza in generale la società inglese, ma prepara nel contempo uno strumento che risulterà risolutivo nel braccio di ferro tra monarchia e parlamento.
Alla corona è indispensabile anche una buona disponibilità finanziaria, soprattutto per fronteggiare le elevate spese militari all’esterno, in tutti gli impegni che in un modo o nell’altro derivano dall’antagonismo con la Spagna. La sproporzione tra queste necessità ed i redditi tradizionali della corona costringe Elisabetta a ricorrere a tutti gli espedienti possibili. Vengono vendute terre della corona, tornano in vigore prestiti forzosi, si appaltano nuovamente le dogane a tassi più elevati, e si ricorre anche al parlamento per ottenere a più riprese imposizioni straordinarie. La conseguenza è duplice: nei primi anni del ‘600 la corona è ridotta all’esaurimento finanziario, ed i Comuni hanno preso sempre maggior consapevolezza di essere parte del normale meccanismo del governo e del potere.
Negli ultimi due decenni del secolo il potere regale può rafforzarsi ulteriormente grazie alla scoperta di due complotti che sollevano un’ondata di sentimenti anticattolici e provocano la promulgazione di un atto contro i gesuiti ed i sacerdoti, per il quale anche il semplice fatto dell’ordinazione romana costituisce tradimento. Maria Stuart, da tempo imprigionata, viene condannata e decapitata (1587).
A uscire vittoriosa da questa prima fase del confronto religioso, più che i puritani, la cui nuova generazione si mostra più disposta delle precedenti a sostenere il potere reale, è la chiesa inglese, alla quale nel 1594 Richard Hooker (Laws of Ecclesiastical Polity) fornisce un certo fondamento teorico.
In politica estera lo scontro militare con l’ambizioso progetto imperialistico di Filippo II è stato rimandato a lungo. Dapprima esso passa indirettamente attraverso gli aiuti inglesi ai Paesi Bassi che si sono ribellati alla Spagna. Per un certo periodo infatti Elisabetta, salita al trono in concomitanza con una capitolazione nei confronti della Francia, continua a vedere in quest’ultima l’avversario per eccellenza dell’Inghilterra. Essa preferirebbe una soluzione di compromesso, capace di soddisfare le istanze autonomistiche olandesi senza risultare una sconfitta troppo grave per la Spagna, sconfitta che andrebbe a tutto vantaggio dei francesi.
Le cose mutano però quando la Francia è messa in condizione di non nuocere sul piano internazionale da due decenni e più di feroci lotte intestine, e il pericolo agli inglesi viene dagli iberici, che stanno accentuando il loro interesse per l’Atlantico. I1 pretesto per lo scontro decisivo è offerto a Filippo II dalla decapitazione di Maria Stuart. È l’occasione da tempo attesa di infliggere una dura lezione all’Inghilterra, per avere finalmente via libera nella riconquista dei Paesi Bassi. La clamorosa vittoria inglese contro l’Invencible Armada (1588) rimane comunque un capitolo a sé stante, in quanto fuori delle acque della Manica gli spagnoli conservano, almeno sino alla fine del secolo, la supremazia anche sul mare.
La lotta prosegue nelle colonie, dove gli inglesi, resi più arditi, conducono una fastidiosissima e lucrosa guerra di corsa. Questa attività piratesca e commerciale insieme, svolta da uomini d’avventura su mari lontani, questa insistenza per inserirsi a tutti i costi sul commercio mondiale, nel giro di pochi decenni riuscirà a trasformare le stesse posizioni di potere dell’Inghilterra in Europa. L’ultimo giorno del 1600, dopo che attraverso il Capo sir James Lancaster ha raggiunto i portoghesi nelle Indie, Elisabetta fonda la Compagnia delle Indie Orientali: è quasi un emblema del futuro che attende il paese.
Da Giacomo I alla rivoluzione
Elisabetta muore ne1 1603. Poiché non lascia eredi, le succede Giacomo I Stuart, figlio di quella Maria che era divenuta per i cattolici una martire ed un simbolo di resistenza alla persecuzione protestante, e per i protestanti l’emblema stesso dell’insidia papista.
Giacomo proviene da un regno dove i potenti capi dei grandi clan detengono un forte potere politico, e possono contrastare la corona, o addirittura disputarsene il controllo con le armi: ma almeno sul piano formale riconoscono la sacralità della funzione regia. Al contrario il regno d’Inghilterra, per come è maturato soprattutto nell’età elisabettiana, costituisce un insieme politico più compatto, funzionante ed omogeneo, nel quale tuttavia, a dispetto della duplice sua veste religiosa e politica, il sovrano viene legittimato dal consenso del suo popolo. Lo Stuart non lo è già all’atto dell’incoronazione, perché viene considerato in fondo uno straniero, né lo sarà mai per la sua incapacità di adeguarsi alla concezione inglese della monarchia. Eredita inoltre lo spinoso problema dell’Irlanda, dove il regime di occupazione militare inglese non è riuscito ad aver ragione dei capi tribali irlandesi e dei loro popoli, o tribù, e il sistema britannico di governo e di proprietà terriera non si è diffuso oltre Dublino. Irrequieti sono anche il Nord e il Galles, i cui Consigli oscillano tra l’obbedienza al sovrano e la dipendenza dai potenti locali. In sostanza, il nuovo re parte male e continuerà col piede sbagliato.
Come aveva fatto Elisabetta, Giacomo accetta inizialmente di avere un rapporto con il parlamento, ed in particolare di dipendere da esso per ogni concessione di redditi straordinari. Appena eletto si affretta a porre fine alla guerra con la Spagna (1604), che si trascinava senza esito dissanguando le finanze regie. La decisione è presa però senza tener conto delle posizioni del parlamento. È un segno che indica la sua intenzione di orientarsi verso l’assolutismo, via difficile questa in un regno dove ormai è invalso l’equilibrio tra potere del sovrano e potere del parlamento. Anche la politica religiosa riflette questa tendenza: nello stesso anno la conferenza dei vescovi di Hampton Court condanna sia il cattolicesimo che il puritanesimo, a favore di quella chiesa anglicana che tradizionalmente costituiva il grande punto di forza del potere regio nel paese.
Nel 1605 viene scoperta una congiura cattolica mirante a far saltare in aria il Parlamento nel corso di una seduta (Congiura delle polveri). Ciò aliena a Giacomo le già scarse simpatie della maggioranza protestante del paese, malgrado la dura repressione anticattolica cui egli dà il via. Altre congiure consentono al sovrano di colpire anche la dissidenza presbiteriana e puritana, e lo inducono a rafforzare la struttura episcopale.
Giacomo si trova a reggere contemporaneamente tre paesi come l’Inghilterra, la Scozia e l’Irlanda, tutt’altro che omogenei per cultura, tradizioni e livello economico, divisi anzi da odi e conflitti secolari. La tendenza, almeno nei confronti della Scozia, ad un trattamento paritario, suscita le rimostranze degli inglesi per questioni di principio ma anche per il timore della concorrenza delle lane scozzesi.
Il disegno autocratico dello Stuart implica una crescita degli oneri amministrativi, che conoscono vere e proprie impennate ogniqualvolta si rendono necessari interventi repressivi, ad esempio in Irlanda. L’isola è percorsa costantemente da fermenti indipendentistici o sociali, e per un lungo periodo gli introiti fiscali non arrivano a coprire nemmeno la quinta parte dei costi dell’amministrazione civile e militare.
Mentre Elisabetta aveva in qualche modo potuto compensare il disavanzo con la confisca e la vendita dei beni ecclesiastici, agli inizi del secolo questi sono ormai stati totalmente alienati. Ha quindi inizio un lungo braccio di ferro tra la corona, impossibilitata ad aumentare il gettito fiscale senza l’approvazione parlamentare, e un parlamento deciso ad anteporre a qualsiasi ratifica legislativa la questione di principio di una netta distinzione delle competenze politiche. Il risultato è che gli Stuart, tanto Giacomo quanto Carlo I (che gli succede nel 1625), per non creare l’opportunità di rivendicazioni finiscono col governare per lunghi periodi senza il parlamento e sono costretti a subordinare la loro politica estera e interna ad una situazione finanziaria endemicamente deficitaria. Ciò spiega in qualche modo quella che potrebbe apparire una assoluta miopia nei confronti delle nuove esigenze commerciali e coloniali della nazione. Mentre l’Olanda va prepotentemente affermando il proprio monopolio nei mari asiatici, per ben due volte prima Giacomo e poi Carlo sono sul punto di sottoscrivere con le compagnie fiamminghe accordi pressoché suicidi, ma che consentono vantaggi finanziari immediati; solo la decisa opposizione dei Comuni può fermarli.
Anche l’atteggiamento filospagnolo (al di là delle simpatie per il modello assolutistico cattolico) imposto ad un paese che da Thomas Cromwell a John Pym ha sviluppato una sempre più feroce avversione per la Spagna, va inquadrato in quest’ottica. Mentre nel 1624 il parlamento si fa fautore di una decisa politica di espansione coloniale nelle Americhe a discapito della Spagna, Carlo I di sua spontanea iniziativa stringe patti segreti con quest’ultima in vista di un attacco congiunto all’Olanda e di una sua spartizione, probabilmente dietro pressioni della Compagnia delle Indie, che si trova il passo sbarrato dagli olandesi. Nel 1629 lo si ritrova invece fautore di aiuti agli ugonotti della Rochelle.
La stessa volubilità è rintracciabile nella concessione dei monopoli commerciali. Nel 1617 Giacomo concede ad una compagnia scozzese diritti di monopolio per il commercio con le Indie, contravvenendo ad una precedente e analoga concessione fatta alla compagnia londinese: quest’ultima è costretta a ricomprare dalla concorrente i propri diritti. Lo stesso avviene con Carlo, pronto ad esigere le immediate spettanze regie per le colonie americane e a disinteressarsene poi totalmente, a dispetto di ogni coerente disegno coloniale a lungo termine.
Più ancora del padre, Carlo I è deciso ad imporre la propria autorità assoluta con tutti i mezzi, non ultimo quello giudiziario. Dopo che la caduta della Rochelle e il successo olandese nel mar della Sonda hanno definitivamente minato la credibilità della sua politica, egli si trova praticamente in conflitto con la parte dominante del paese. Mette quindi in funzione tutti gli organismi autoritari di cui dispone, dalla Camera Stellata – un tribunale di giurisdizione posto sotto il suo diretto controllo, del quale vengono estese eccezionalmente le competenze – alla Corte di Alta Commissione, che Elisabetta aveva istituito a scopo di inquisizione religiosa ma che diventa uno strumento efficace per colpire gli avversari politici.
Per sovvenire alle esigenze finanziarie riesuma le ammende contro le operazioni abusive (caccia, legnatico …) nelle terre di diritto reale, previste negli antichi statuti feudali ma ormai da tempo desuete; impone una tassa, il Tonnage and poundage, su ogni barile di vino e su ogni libbra di merce importati ed esportati, fa gravare in maniera continuativa sulle città costiere la Ship Money, contribuzione straordinaria prevista per le esigenze della flotta, e la estende poi anche ai comuni dell’interno, che ne erano sempre stati esenti.
Il parlamento si oppone a questi aggravi, e nel 1628 ottiene il formale successo di far accettare dal re la Petition of Right, un documento ancora di stile medievale che denunciava le imposizioni contro la volontà parlamentare e l’incarceramento arbitrario. L’anno seguente, nella seconda sessione, di fronte a crescenti pretese di controllo da parte dei Comuni, il sovrano scioglie d’autorità l’assemblea, e viene obbedito.
Gli anni successivi sono caratterizzati da una forte impronta autoritaria: è un tentativo coerente di istituire una forma di stato assoluto, una scelta non dissimile da quella di molti altri regni europei ma che urterà con difficoltà ben più forti, con opposizioni ben altrimenti fondate e decise che non sul continente. La gestione del potere viene in pratica ristretta al Consiglio Privato dal sovrano, nella fattispecie ai due ministri per la politica interna e per quella religiosa, lord Wenworth conte di Strafford, e l’arcivescovo Laud. Sono entrambi uomini di grande capacità e valore, e profondono nei rispettivi campi un eccezionale impegno per l’attuazione di un disegno assolutistico che si fonda sulla difesa dell’ordine sociale, sul rafforzamento delle istituzioni amministrative e della chiesa, sulla supremazia della legge.
Non sono loro estranei anche un certo intento di difesa dei poveri, che si esprime nelle numerosi leggi sull’assistenza, e la nozione dell’eguaglianza dei diritti dei sudditi, non condivisa quest’ultima dal gruppo sempre più numeroso di quanti ritenevano che la protezione della proprietà doveva essere la prevalente funzione della legge. Strafford soprattutto, è particolarmente inviso alla gentry per il suo tentativo di frenare le enclosures e addirittura di invalidare quelle già attuate: la riaffermazione di un diritto pubblico consuetudinario contro il possesso privato, oltre che difendere i poveri consentirebbe all’autorità regia una ben diversa possibilità di controllo. Inoltre, lo spopolamento delle campagne che consegue alle recinzioni significa la perdita di soggetti tassabili regolarmente e di decime. Laud diventa invece l’aborrito simbolo della persecuzione per la dissidenza puritana.
La loro opera incontra le maggiori resistenze nelle province meridionali ed orientali, più ricche e tradizionalmente meno lealiste, anche nella componente aristocratica. A livello centrale l’opposizione parlamentare si coagula intorno alla rete delle congregazioni puritane. Emergono uomini nuovi, molti legati alle imprese commerciali che portano gli inglesi oltre Atlantico, e membri della gentry, attivi nella vita commerciale e in quella legale. John Pym, un gentleman del Somerset, e John Hampden, ricco proprietario terriero della contea di Buckingham divengono i simboli di un’opposizione che via via riesce a conquistare proprietari terrieri, clero, giuristi, cittadini importanti.
Quando Laud insiste per imporre la struttura episcopale anche alla Scozia presbiteriana, la reazione scozzese ha conseguenze tali che permette all’opposizione di trasformarsi in ostilità aperta. Contro l’arcivescovo gli scozzesi formano un blocco compatto. I gruppi direttamente interessati sono la nobiltà, le cui prerogative sono state ridimensionate da Strafford, e il clero presbiteriano, ma attorno ad essi si mobilita tutto il popolo. A partire dal 1639 è la guerra, particolarmente insidiosa perché l’esercito scozzese è tradizionalmente più forte e riesce ad invadere le province settentrionali. È una dimostrazione della disunione del regno di Carlo, ed anche dell’incapacità dei suoi eserciti.
Nel 1640, dopo dodici anni, il re è costretto a convocare il parlamento, confidando che la gravità della situazione spinga le Camere ad approvare i finanziamenti bellici senza richiedere contropartite politiche. Si trova invece di fronte ad una nuova Petizione dei diritti, ed alla richiesta della revoca di tutta la legislazione eccezionale. In risposta, il sovrano chiude il parlamento (Corto Parlamento).
La sconfitta subita in Scozia e il serpeggiare della rivolta tra la popolazione, al punto che i tribunali non ardiscono più procedere contro gli oppositori, lo costringono però di li a pochi mesi a riconvocare le Camere (novembre 1640). Questa volta i parlamentari, sotto la guida di John Pym, si mostrano ancor più decisi. Chiedono l’impeachment (procedimento giudiziario in cui il parlamento diventa corte di giustizia) e la destituzione di Strafford, che viene giustiziato nel maggio dell’anno successivo, e di Laud; esautorano la Camera Stellata e il Consiglio del Nord (le ultime istituzioni, come osserva Tawney, che potevano arrestare lo strapotere dei proprietari terrieri), e non riconoscono giuridicamente il Consiglio Privato; impongono una clausola in base alla quale il parlamento deve essere convocato almeno ogni tre anni e non può essere sciolto senza il proprio consenso. Inoltre sono abrogati tutti gli artifici fiscali di Carlo.
Le residue speranze del sovrano, momentaneamente costretto a cedere, si fondano sull’esercito di stanza in Irlanda. Ma gli irlandesi, che seguono con preoccupazione il trionfo delle tendenze parlamentari anticattoliche, e scorgono nelle difficoltà interne dell’Inghilterra un’occasione irripetibile, insorgono e massacrano i coloni inglesi tenendo impegnato sull’isola il corpo d’armata. Al tempo stesso si fa paradossalmente sentire per il sovrano la debolezza dell’appoggio di quelle forze nobiliari del nord e dell’ovest che i suoi predecessori avevano poco alla volta disarmato. Nel gennaio 1642, infine, il sovrano commette un grave errore tattico, recandosi personalmente in Parlamento per arrestare cinque leaders dell’opposizione, tra cui Pym ed Hampden. Questa patente violazione dei diritti parlamentari rende insanabile la frattura e fa precipitare la situazione. Da questo momento si entra nella vera e propria guerra civile, con due schieramenti armati contrapposti, quello regio (i cavalieri) e quello parlamentare (le teste rotonde). I1 sovrano deve trovare rifugio nelle fedeli contee dell’ovest.
Tuttavia, mentre nel 1640 Carlo II era praticamente isolato di fronte all’opinione pubblica, nel ‘42 gli è possibile raccogliere attorno a sé un esercito. L’episcopato anglicano non ha mai cessato di appoggiarlo: una parte dell’alta aristocrazia, ma anche una parte della gentry e della borghesia mercantile e finanziaria cominciano a preoccuparsi per i possibili sviluppi della lotta intestina. Soprattutto, li mette in sospetto l’insorgere tra la popolazione di istanze sempre più radicali, nelle quali la rivendicazione politica lascia il posto a quella sociale e religiosa. Sull’altro fronte si schiera invece la gentry più intraprendente, quella che aveva appoggiato sotto Elisabetta il rafforzamento del potere centrale, aspirando a sostituirsi nelle cariche periferiche all’aristocrazia, e che aveva poi trovato nei Comuni i portavoce del suo nuovo ruolo politico. Al suo fianco sono i ceti artigiani (per motivi religiosi, in quanto tra essi è maggiormente diffuso il puritanesimo), i proprietari, i mercanti delle città costiere e quasi tutta la popolazione della città di Londra.
La contrapposizione si delinea anche su scala regionale, da un lato l’est e il sud, parlamentari, dall’altro l’ovest e il nord, monarchici. Mentre le regioni sud-orientali, più ricche, hanno il controllo economico del paese, il sovrano ha il vantaggio della superiorità militare delle sue truppe, soprattutto della cavalleria; ma al tempo stesso deve i conti con la loro scarsa disponibilità a muoversi e a combattere lontano dalle proprie sedi. Nel 1643 le vicende militari sembrano volgere decisamente a favore del re. Il parlamento lavora lentamente, ma riesce ad acquistare migliori risorse di uomini, denaro e materiali. Inizialmente il peso della guerra della parte parlamentare è sostenuto da Londra e da alcune contee prossime; ben presto l’imposizione interessa in misura estremamente gravosa tutte le aree controllate dal parlamento. L’istituzione su tutto il territorio inglese dell’ordinamento presbiteriano vale al parlamento l’appoggio e l’entrata in campo dell’esercito scozzese. La situazione viene ribaltata e i parlamentari approfittano del vantaggio conseguito nella campagna del 1644 per tentare durante l’inverno successivo la riorganizzazione delle truppe, affidata a Oliver Cromwell. Al posto delle precedenti forze decentralizzate di autorità locali e di generali rivali, nasce l’esercito parlamentare. Il New Model Army è un esercito di nuova concezione, che prefigura le posteriori armate rivoluzionarie francesi e russe per la forte carica di idealità che lo anima (in questo caso, politico-religiosa), per la struttura organizzativa e per il ridimensionamento dei rapporti rigidamente gerarchici. Sotto il profilo tecnico, Cromwell ha il merito di tenere nel debito conto la cavalleria e di dotare le proprie truppe di una notevole potenza di fuoco d’artiglieria.
Nel maggio del 1646 il sovrano è sconfitto, ma riesce a rifugiarsi presso gli scozzesi. Costoro lo estradano l’anno seguente agli inglesi, e si ritirano. A questo punto il parlamento, pur dall’alto della sua posizione vittoriosa, sarebbe più che mai disponibile a raggiungere un accordo con Carlo I e a reintegrarlo appieno nelle sue funzioni, fatte salve naturalmente le prerogative e i diritti parlamentari. In realtà la Camera dei Comuni sta perdendo autorevolezza. Tesa dai conflitti interni essa non arriva a costruire un organismo di effettivo coagulo delle forze politico-sociali. Ciò riesce però al New Model Army, che diviene il luogo dove si costruisce la possibilità di una azione politica comune da parte delle diverse tendenze presenti nel regno, e secondo uno spettro più ampio di quelle rappresentate nel parlamento. Nell’esercito del New Model sono andate infatti maturando esperienze di autogoverno, di egualitarismo, di tolleranza confessionale che difficilmente possono essere fatte rientrare nel tradizionale schema parlamentare. Il tutto si esprime in forma essenzialmente religiosa, di richiesta della massima libertà di coscienza, ma sottende profondi significati politici e sociali.
L’ala più moderata del movimento parlamentare, che auspica la pacificazione, è costituita dai presbiteriani. Essa comprende molti aristocratici e proprietari terrieri che hanno maturato la propria adesione alla riforma soprattutto attraverso il saccheggio dei beni ecclesiastici, e sono poi stati spinti nel campo antimonarchico dagli attacchi legislativi di Strafford alle recinzioni, ma che in seguito non esiteranno a portare un esercito in aiuto al re, sostenuti da alcuni scozzesi. Essi propugnano la più assoluta intolleranza religiosa, contro il proliferare delle sette e dei liberi predicatori, che preoccupa più per le implicazioni sociali che per quelle dottrinarie. Anche il loro attacco all’episcopalismo, in nome del decentramento e di una maggiore autonomia periferica dell’organizzazione religiosa, è motivato soprattutto da un preciso calcolo politico: il regime presbiteriano offre indubbiamente a chi detiene l’autorità locale più ampie possibilità di controllo.
Vengono poi gli indipendenti, il gruppo di Cromwell, di Henry Ireton e degli alti ufficiali del New Model, che una volta preso il potere saranno conosciuti come i “santi”, per una certa sottolineatura fanatica del loro ruolo di “strumenti divini”. Sono i rappresentanti di un insieme di proprietari terrieri minori, che hanno ricevuto dalla guerra un potere senza paragone. Non sono democratici né egualitari: Cromwell ritiene che, poiché il governo riguarda fondamentalmente la proprietà, devono aver voce in esso solo quanti hanno interessi immobiliari stabili nel paese, anche se piccoli. Gli indipendenti non vogliono il sovvertimento delle tradizionali istituzioni politiche, anche se all’atto pratico ne saranno, almeno formalmente, gli artefici. “Conservatori a capo di un esercito di popolani e di settari, essi … instaurano la propria dittatura per salvare nell’unico modo possibile le conquiste della propria classe e le basi della propria società. La loro forza e la loro giustificazione storica è nella decisione di difendere la piramide politica e sociale esistente con la bandiera provvisoria di un moto potenzialmente diretto a capovolgerla – che non è astuzia, machiavellismo, disonestà, ma un naturale disporsi delle resistenze di classe in una svolta cruciale”. (Brailsford).
Ben più radicale è invece la frazione dei Livellatori[11], che chiedono l’estensione del suffragio, l’abolizione della monarchia e della Camera dei Lords, un decentramento amministrativo che dia spazio a forme di autogoverno locale, con magistrati, funzionari, ufficiali e parroci elettivi, la distinzione dei poteri, la separazione tra stato e chiesa, la libertà di confessione, di parola e di stampa; in definitiva, una revisione globale dei rapporti politici e giuridici su cui si regge la società inglese. A guidare il movimento, che irrompe sulla scena quasi all’improvviso nel marzo del 1647, per aggregazione spontanea in risposta alla frenata impressa dal parlamento alla rivoluzione, sono uomini molto diversi tra loro, ma solidali e in qualche modo complementari. Richard Overton è un tipografo che ha che ha vissuto diversi anni d’esilio in Olanda, dove è venuto a contatto con gli ambienti anabattisti[12], eccezionale ed instancabile polemista, maestro nella satira. William Walwyn, figlio di un gentiluomo e già socio della Merchands Adventures, è l’anima teorica del gruppo, mentre John Lilburne, cadetto di una famiglia appartenente alla gentry, reso popolare da una clamorosa fustigazione pubblica e da anni di carcere durissimo scontati per i suoi gesti di ribellione, ne è il braccio operativo, capace di imprese clamorose alla guida degli uomini del New Model; e il commerciante all’ingrosso Thomas Prince ne è il tesoriere. I luoghi di riunione nei quali vengono discusse e redatte le diverse Rimostranze al Parlamento o le varie formulazioni del Patto del Popolo sono le taverne e le locande, come la Windmill Tavern (Locanda del Mulino a vento), e dopo il 1650 le celle della Torre di Londra dove i capi dei Livellatori saranno sbattuti da Cromwell. Riescono anche ad editare un periodico settimanale, “The Moderate”, sul quale Overton ingaggia duelli polemici tanto con la stampa realista come con quella presbiteriana.
I Livellatori reclutano adepti soprattutto a Londra, nelle fasce urbane e nelle zone che conoscono la prima diffusione dell’industria tessile. Pur non arrivando mai ad una grossa consistenza numerica (nel periodo di maggior successo il movimento conta al più diecimila attivisti dichiarati e forse il doppio di simpatizzanti), riescono ad esercitare una grande influenza infiltrandosi nell’esercito, attraverso i consigli dei soldati, e organizzando gli agitatori, rappresentanti della truppa nei dibattiti interni con gli ufficiali e di fronte al parlamento; e sono i primi a tentare di dar vita nel paese ad un “partito unico”, anche se le caratteristiche dello spontaneismo democratico, che non contempla alcuna gerarchia o carica ufficiale, destinano il movimento ad una rapida dissoluzione. Per un breve periodo sono comunque efficientissimi nella propaganda, e stampano e distribuiscono a getto continuo pamphlet ed opuscoli non solo a Londra, ma in mezza Inghilterra.
I quadri dei Livellatori sono composti in genere da mercanti, tessitori, minatori, artigiani, piccoli proprietari, che vogliono ad un tempo ridimensionare e garantire il diritto di proprietà. Il limite delle loro rivendicazioni (e la ragione del rapido declino del movimento) sta in una connotazione astrattamente politica e libertaria, lontana da ogni ipotesi di rivoluzionamento del quadro sociale. I1 diritto di voto è rivendicato per tutti i maschi maggiorenni “di condizione non servile”, il che esclude i salariati e subordina l’esercizio dei diritti politici a parametri censitari[13]. Lo stesso Lilburne teme che “[…] osti e sciocchi ignoranti votino come suggerisce qualche lord o qualcuno dei signori, o si lasci comprare”. Inoltre, nato nei ranghi inferiori dell’esercito e diffusosi in mezzo ai ceti medio-bassi, il movimento livellatore si mostra scarsamente sensibile ai temi della questione agraria suscitata dalle recinzioni, ciò che gli impedisce di attingere consenso ad un vasto serbatoio di inquietudine e di organizzarla politicamente. La proprietà, sia pure più equamente distribuita, rimane per i Livellatori un dato sociale imprescindibile, ed è in funzione della sua sopravvivenza che essi lottano contro le decime e le servitù ancora gravanti sulla piccola azienda, contro i dazi interni, per l’abrogazione delle pene detentive per debiti, per l’applicazione di una imposta proporzionale sul reddito. La proposta sociale più avanzata è proprio quella relativa al sistema di tassazione: nell’Agreement of the People del 1647 propongono una riforma fiscale basata su “un’equa ripartizione delle imposte, commisurate ai beni immobili e personali della gente: il che esige che chi non ha beni superiori alle trenta sterline dovrà essere esentato […]”. È significativo, al di là di quella che sarebbe l’oggettiva difficoltà a determinarli, che non si parli di una tassazione dei redditi d’impresa. I Livellatori sono in fondo espressione di un ceto che aspira a fermare il tempo, a mantenere in vita un modello economico che va ormai scomparendo, e lo fa negando legittimità, o addirittura esistenza, a quello che sta subentrando. Non sono degli utopisti, ma dei nostalgici di forme di produzione e di rapporti sociali idealisticamente attribuiti all’Inghilterra pre-normanna.
Un ulteriore limite all’efficacia politica della loro azione sta infine nel fatto che insistono a considerare come legittimo interlocutore il Parlamento, anche quando ne denunciano la corruzione e ne affermano la non rappresentatività. Continuano a presentare petizioni per ottenere qualcosa che il Parlamento è ben lungi dal voler concedere. Per un certo periodo sono anche tentati di spostare il loro appoggio verso la corona, che su alcuni punti (ad esempio sul problema delle recinzioni) parrebbe persino più disponibile a concessioni: ma la barriera religiosa, anche se i capi sono per la gran parte piuttosto tiepidi su questo tema, o addirittura razionalisti, e se gli avversari interni al partito parlamentare, i presbiteriani, sono considerati sullo stesso piano dei papisti o degli anglicani, non può essere saltata.
Da una costola dei Livellatori, o almeno dalla stessa matrice anabattista, nasce il movimento dei “quintomonarchisti”[14], guidato da personaggi come l’eroico generale del New Model Thomas Harrison e da teorici come John Rogers, che vira decisamente la rivendicazione politica verso una sorta di “oligarchia teocratica” (un Sinedrio), nella quale il potere deve essere gestito da uomini scelti per il loro livello di moralità e di impegno religioso. Rappresentano una variante particolarmente agguerrita dell’anabattismo, del quale hanno completamente rimosso il pacifismo originario. La loro parabola è velocissima, perché dopo la decapitazione di Carlo I e il mancato avvento della “redenzione armata” il movimento perde la sua ragion d’essere e si dissolve completamente.
Decisamente oltre nella rivendicazione sociale si spingono invece i Diggers (Zappatori) o True Levellers (Veri Livellatori), gruppo effimero e di consistenza numerica esigua, che assume però notevole importanza se considerato in prospettiva, in quanto anticipa le linee fondamentali di quello che sarà il pensiero anarchico. I Diggers aspirano ad una vera e propria rivoluzione sociale che prenda l’avvio dal sovvertimento del regime di proprietà agraria, e chiedono una perequazione economica, oltre che politica e giuridica. Nelle elaborazioni teoriche più avanzate, come quelle di Gerard Winstanley, si arriva a vagheggiare una società comunistica fondata sulla libera e responsabile adesione: quindi il dissolvimento d’ogni rapporto di potere, di ogni forma di autorità, a partire dall’ambito familiare per arrivare a quello delle attività economiche e civili. “In ogni luogo vi saranno magazzini, sia in campagna che in città, a cui verranno portati tutti i prodotti della terra e le altre opere fatte dagli artigiani, e di lì consegnati alle varie famiglie e a quanti ne abbiano bisogno per il proprio uso… Come tutti lavorano per incrementare questo fondo comune, così ognuno potrà avere gratuitamente qualsiasi merce dal magazzino, per suo piacere e comodo sostentamento, senza comprare o vendere… Non vi saranno uomini che comanderanno agli altri, ma ciascuno sarà signore di se stesso, soggetto alla legge della ragione, che abiterà dentro lui, che lo governerà, che è il Signore”.
In questa visione di una società egualitaria si combinano le ascendenze culturali della tradizione letteraria utopistica, rinnovata proprio in Inghilterra da Moro, e quelle politiche del radicalismo democratico di cui erano imbevuti i livellatori: ma soprattutto vi hanno peso la predicazione anabattista e le dottrine più radicali del pensiero riformistico. Winstanley le traduce in termini secolari, interpretando Dio come ragione immanente nell’uomo e deducendone l’implicazione etica della capacità e del diritto all’autogoverno per ogni individuo, sul piano spirituale come su quello civile. All’affermarsi di tale capacità si oppone soltanto l’esistenza della proprietà privata: “La proprietà privata… prima ha tentato gli uomini a derubarsi l’un l’altro. Poi ha fatto leggi per impiccare coloro che hanno rubato. Tenta gli uomini a commettere una cattiva azione, e dopo li uccide per averla commessa”.
Sotto la guida di teorici come Winstanley o di capi carismatici come William Everard i Diggers tentano anche esperimenti agricoli comunitari, soprattutto nel Kent e nel Surrey. Taluni si dedicano ad una sorta di predicazione itinerante, percorrendo tutto il paese e organizzando nuclei di braccianti e di salariati disoccupati che rivendicano il diritto di coltivare i terreni comini e gli incolti. Essi non teorizzano comunque il ricorso alla forza e alla ribellione violenta. Sono convinti che solo la ragione, ridestata attraverso la persuasione e l’esempio, possa realmente emancipare l’uomo; propugnano quindi una resistenza passiva, sull’esempio del quietismo quacchero, e dirigono i loro simpatizzanti non verso le terre dei signori, ma appunto verso i terreni di possesso comune o le aree incolte. Probabilmente questo atteggiamento contribuisce a scoraggiare le adesioni. Le comuni sono presto sloggiate, gli occupanti le terre pubbliche sono dispersi e arrestati. Neppure i Diggers riescono quindi a diventare un polo aggregante della protesta contro gli abusi delle enclosures, divenuti più gravi proprio nel periodo rivoluzionario per il passaggio di numerose proprietà signorili ad una amministrazione borghese, molto più attenta a far fruttare i propri investimenti. Vere e proprie rivolte contadine per il ripristino dei diritti comunitari sui campi aperti e per l’abolizione delle servitù feudali si hanno già a partire dal 1640, e proprio sulle terre della corona, che in contraddizione con la politica agraria di Strafford erano tra le più toccate dall’opera di recinzione. Ma restano esplosioni isolate, e sono soffocate con facilità.
Ne1 1647, quando la riorganizzazione dell’esercito e la cattura del sovrano sembrano aver sancito la vittoria dei parlamentari, il conflitto divampa nuovamente, questa volta traendo esca dalle contrapposizioni interne allo stesso movimento “rivoluzionario”. Le crescenti simpatie che i Livellatori si sono conquistati tra le truppe creano allarme nel parlamento, e non appena lo stato di necessità sembra superato giunge al New Model l’ordine di scioglimento immediato, fatta eccezione per il contingente necessario a reprimere la rivolta irlandese.
A dispetto della professione di lealismo degli ufficiali superiori, tra cui Cromwell e Fairfax, che sembrano disposti ad obbedire, i bassi quadri dell’esercito oppongono allo scioglimento un compatto rifiuto: esso è motivato sia da ragioni finanziarie (i pagamenti alle truppe sono in arretrato di un anno) sia da preoccupazioni politiche, per il fondato timore che a carico degli agitatori e dei membri dei consigli si stiano concertando provvedimenti giudiziari.
Secondo un uso che nasce ora come pratica politica, ma che resterà poi comune a tutti i movimenti, insurrezioni e rivoluzioni, si moltiplicano gli opuscoli, i manifesti, i pamphlet, che unitamente ai discorsi diffondono tra la gente prese di posizioni, affermazioni, critiche, progetti. L’esercito e gli abitanti di Londra sono letteralmente sommersi da questa produzione.
Il grande tema del dibattito è quello relativo al rapporto tra diritti politici e proprietà. Il suo luogo diventa il New Model Army, che costituisce ormai un corpo rappresentativo a se stante. In una controversia a Putney (1647) si incontrano su base paritaria il consiglio degli ufficiali ed i semplici uomini dell’Army. I portavoce di questi ultimi avanzano la proposta di un vero e proprio contratto sociale: nessun uomo – affermano – è tenuto ad obbedire ad un governo che egli non ha contribuito a creare. Contro di loro prende la parola Henry Ireton, un indipendente, che si fa portavoce della sovranità parlamentare e difende la posizione di Cromwell, che vuole partecipino al potere solo quanti hanno proprietà consolidate nel paese (e teme che il richiamo all’uguaglianza naturale degli uomini possa portare all’abolizione della proprietà privata). È interessante notare che nel dibattito uno dei più accesi pamphlettisti e leaders dei Livellatori, John Lilburne, dà un’interpretazione originale del momento e delle sue possibilità: egli ritiene infatti che in conseguenza della rivoluzione gli inglesi si trovino sciolti da ogni vincolo politico ed immersi nell’originale legge di natura, che di conseguenza si possa creare uno stato ex novo, e che il New Model Army sia lo strumento con il quale realizzare tutto questo. Di fatto, grazie all’azione di Cromwell, il New Model sarà invece capace di costruire consenso e forza a favore della nuova classe privilegiata.
La situazione del paese diviene a questo punto caotica. La seconda fase della guerra vede contrapposti tre (e persino quattro) schieramenti, tra i quali corrono ambigui rapporti. I1 parlamento “presbiteriano” si affretta ad arruolare, dopo l’ammutinamento dell’esercito, una propria milizia, composta di sbandati, di ex-realisti e di aristocratici, ottiene l’appoggio degli scozzesi e cerca di arrivare velocemente ad un accordo col sovrano, dichiarandosi disponibile a patteggiarne la reintegrazione. Carlo I, dal canto suo, gioca al rialzo, puntando sul fatto che nel Kent, nell’Essex, in Cornovaglia e nella stessa Londra sono scoppiate rivolte filo-monarchiche, e che gli scozzesi, presbiteriani, aristocratici e fondamentalmente monarchici, stanno muovendo dal nord contro i “puritani” del New Model. L’esercito, infine, mentre da un lato cerca di evitare una rottura definitiva con il parlamento, dall’altro intavola trattative dirette col sovrano, sulla base di proposte molto più generose di quelle parlamentari. Tutte queste manovre non comportano affatto una attenuazione della violenza del conflitto, che conosce anzi in questo periodo i suoi momenti più feroci.
In un simile clima, caotico e cruento, trova spiegazione il riaccostamento di gran parte del paese al partito regio. Si diffonde, dopo che quasi dieci anni consecutivi di lotte, di stragi e di distruzioni sembrano aver solo peggiorato la situazione, la nostalgia per i tempi pur duri, ma tollerabili, degli Stuart. La guerra ha salassato le finanze, ha moltiplicato le imposizioni fiscali straordinarie divenute continuative, ha bloccato i traffici interni, ha creato un vuoto di potere del quale hanno saputo approfittare le città della costa per invalidare i monopoli e dar vita a compagnie commerciali concorrenti con quella londinese. Inoltre una parte della flotta, rimasta fedele a Carlo, conduce una estenuante guerra di corsa contro il naviglio commerciale inglese, aggravando ulteriormente la paralisi economica. Di qui la fretta del parlamento di arrivare ad una composizione col re, soprattutto sotto la pressione della oligarchia mercantile della City, che chiede una pace senza condizioni.
A sbloccare la situazione giunge l’inaspettata vittoria del New Model a Preston, sugli scozzesi (1648). Con questo successo Cromwell consacra il proprio prestigio di condottiero e trova la spinta per uscire dalla sua tattica politica attendista. Lo muove da un lato il timore di un’alleanza, di fronte alla sconfitta, tra realisti e presbiteriani, dall’altro la constatazione che il movimento livellatore va guadagnando adesioni anche fuori dall’esercito, soprattutto attorno al documento presentato ai dibattiti di Putney, il cosiddetto Patto del popolo, dai contenuti fortemente destabilizzanti.
Gli indipendenti si trovano a rappresentare a questo punto non soltanto le alte sfere dell’esercito, ma anche le classi possidenti turbate per la piega presa dagli avvenimenti. Nel dicembre del 1648 Cromwell passa decisamente all’azione. Occupa militarmente Londra ed epura il parlamento di tutti gli oppositori dell’esercito, dando vita al Rump Parliament (Coda di parlamento o, più letteralmente, Parlamento deretano), allineato sulle posizioni degli indipendenti. È questo parlamento addomesticato a votare e a far eseguire, agli inizi del 1649, la decapitazione del re; ma essa è già stata decisa in realtà in seno d’esercito, proprio dall’ala più estremista del movimento livellatore, che ha il suo portavoce in John Lilburne. In questo frangente sono scavalcate le incertezze di Cromwell e la decisa opposizione degli altri alti ufficiali, e senza dubbio si va contro lo stato d’animo generale del paese. L’atto in sé è eccezionale, non tanto per la morte violenta del sovrano (fenomeno tutto sommato abbastanza comune in quei secoli) quanto per il principio giuridico da cui è ispirato, quello della responsabilità dell’autorità di fronte al popolo, quale che sia il livello di potere detenuto. Viene affermata definitivamente per l’Inghilterra l’origine “contrattuale” del potere.
Con l’eliminazione non solo fisica, ma anche giuridica, della figura del sovrano, l’Inghilterra si trova in presenza di un regime repubblicano piuttosto anomalo. In realtà Carlo I non costituiva un punto di riferimento soltanto per le forze controrivoluzionarie; l’intero paese non aveva mai cessato di riconoscere alla monarchia, anche durante la rivoluzione, una suprema funzione politica: al più aveva inteso combatterne gli abusi. La nuova repubblica non è quindi frutto di un pronunciamento popolare, ma è imposta da un esercito che in un decennio di guerra e di vittorie ha maturato, assieme ad una eccezionale compattezza, anche una notevole presunzione del proprio ruolo politico di creatore ed impositore del consenso sociale. Di conseguenza la repubblica tende immediatamente a connotarsi secondo gli intendimenti del gruppo indipendente, vale a dire dello stato maggiore dell’esercito, dal quale sta emergendo sempre più segnatamente Cromwell.
Tutto questo non sfugge a Lilburne e agli altri capi dei LiveIlatori, che attaccano duramente la finzione parlamentare del Rump Parliament, contestano la sua stessa idoneità a deliberare sulla sorte del sovrano, ma soprattutto sottolineano lo iato che è venuto a crearsi tra l’esercito e il popolo, rivendicando a quest’ultimo il diritto di scegliersi le forme istituzionali e di governare attraverso una camera realmente rappresentativa. In risposta, Cromwell fa arrestare i teorici ed i maggiori rappresentanti del movimento (oltre a Lilburne, Richard Overton, William WaIwyn e Thomas Prince). Inoltre, per prevenire le inevitabili reazioni nell’esercito, cerca di impegnarlo lontano dai luoghi dello scontro politico, riprendendo la campagna contro gli scozzesi, che ne usciranno definitivamente sconfitti (Dumbar, 1650); al tempo stesso prepara una spedizione per la riconquista dell’Irlanda.
Le truppe sensibilizzate dai Livellatori non subiscono passivamente questa manovra; gran parte del contingente destinato all’Irlanda rifiuta di muoversi, affermando il diritto degli irlandesi alla libertà e all’indipendenza, e chiedendo al Parlamento una giustificazione morale della dominazione sull’isola.
La repubblica di Cromwell e la restaurazione monarchica
Nel 1649, prima di partire per l’Irlanda, Cromwell ha gettato le basi del consolidamento della repubblica sotto il controllo degli indipendenti e sulla linea da essi tracciata. Il Rump Parliament, che durerà fino al 1653, ha approvato l’abolizione della Camera dei Lords ed una serie di leggi restrittive della libertà, che colpiscono sia a destra i monarchici che a sinistra i Livellatori.
I tre distinti regni d’Irlanda, di Scozia e d’Inghilterra, che sotto gli Stuart godevano di amministrazioni autonome e separate, vengono unificati entro il 1652 in un Commonwealth governato da una sola Camera, la quale peraltro non verrà legalmente rinnovata, perché libere elezioni vedrebbero senz’altro il trionfo dei monarchici. Le funzioni esecutive sono esercitate da un Consiglio di Stato di quarantun membri, scelti tra gli ufficiali dell’Army da Cromwell, che in questo modo è già di fatto il vero e unico detentore del potere.
Con una campagna sanguinosa di due anni egli stronca la ribellione irlandese, e al suo ritorno in Inghilterra ha ormai la forza ed il prestigio per sciogliere la Camera e per farsi nominare Lord Protettore (1653) con tutte le prerogative di un dittatore. Invano per tutto il periodo di Cromwell l’Inghilterra cercherà di trovare la via a quella formula repubblicana (in realtà strettamente oligarchica) che sembrava venire tanto facile agli olandesi. I parlamenti, riuniti con vari criteri ma sempre osservando la franchigia della proprietà, si sciolgono senza funzionare, così che in realtà il centro permanente del potere e della carriera politica resta il Consiglio di Stato. L’opposizione livellatrice viene liquidata con l’imprigionamento e l’esilio dei capi; quella monarchica langue per mancanza di organizzazione e per lo sfaldamento seguito alla sconfitta militare. Quanto ai presbiteriani, non hanno in teoria alcun motivo di dissenso, in quanto ufficialmente tutta la chiesa inglese è dichiarata presbiteriana, anche se all’atto pratico quella che vige è una sorta di teocrazia puritana.
La vita quotidiana degli inglesi viene in effetti informata ad un pesante rigorismo morale: chiusi i teatri, le osterie, i luoghi di divertimento pubblico, perseguitata ogni forma di dissidenza religiosa, diffusi il sospetto reciproco e la delazione. Questo clima da coprifuoco è subìto dal paese soltanto in ragione del grande prestigio, della capacità politica e dell’assoluto potere militare di Cromwell che, una volta pacificato l’interno, non cessa di impegnarsi sul fronte esterno. Nel 1651 dà l’avvio ad una guerra corsara contro il Portogallo, che aveva aiutato la flotta monarchica durante la rivoluzione; e gli iberici saranno indotti nel 1654 a venire a patti, stringendo con l’Inghilterra un’alleanza destinata a protrarsi nei secoli.
Nel 1652 è la volta dell’Olanda. Con le Province Unite vigeva fin dai tempi di Elisabetta una consuetudine di alleanza. Tuttavia, dagli inizi del XVII secolo gli interessi delle due nazioni hanno cominciato a scontrarsi sempre più frequentemente, non soltanto in oriente o nelle Americhe, ma anche e soprattutto nella zona del Baltico.
La forza degli interessi mercantili inglesi spinge Cromwell a rimettere ordine nell’espansione commerciale, dopo la pausa forzata della guerra civile, cioè a fare i conti con l’effettivo monopolio dei traffici che gli olandesi si sono nel frattempo assicurati. Lo scontro è frontale. I Comuni votano alla fine del 1651 il Navigation Act, col quale si impone che le merci importate in Inghilterra viaggino soltanto su navi inglesi, o appartenenti alla flotta della nazione di provenienza delle merci stesse. Inoltre tutte le colonie inglesi, quale che sia il loro statuto di fondazione, debbono considerarsi subordinate al parlamento: vige quindi anche per esse l’obbligo di rifornirsi attraverso il naviglio della madrepatria. Si tratta di una dichiarazione di principio, perché al momento della promulgazione dell’Atto la flotta inglese non ha la capacità di tonnellaggio per sopperire a tutto il traffico diretto verso l’isola e le colonie; ma agli olandesi suona come una vera e propria dichiarazione di guerra. Il conflitto dura due anni, durante i quali la flotta delle Province Unite coglie numerosi successi, arrivando persino a risalire il Tamigi, ma nel 1654 l’Inghilterra ha la meglio.
Il Navigation Act costituisce la premessa per una coerente politica d’espansione commerciale, che sino a quel momento era mancata, e sottintende che tutto il traffico coloniale passi sotto il monopolio inglese.
L’offerta fatta all’Olanda di associare i mercanti inglesi implica a sua volta la volontà di spostare da Amsterdam a Londra il commercio di transito. Il governo repubblicano, sotto lo stimolo degli armatori e dei grossi mercanti, è ormai attento alla salvaguardia degli interessi economici inglesi che si sviluppano fuori dell’Inghilterra. Facendosi carico della protezione del commercio, esso libera i mercanti dalla necessità di darsi organizzazioni formalizzate, e al tempo stesso mira a creare una eccedenza delle esportazioni sulle importazioni, secondo i dettami di politica economica dell’epoca.
Con la morte di Cromwell, nel 1658, ha termine l’esperimento “repubblicano”. Non si è creato un modello politico in grado di sostituire la forma della monarchia; il Lord Protettore non è riuscito a crearsi una vera area di consenso nel paese. Malgrado alcuni interventi in favore delle classi inferiori, attraverso una semplificazione del diritto e la modifica della legislazione sulle pene per i debiti, egli rimane agli occhi del popolo un dittatore militare. Oltre ai realisti, in attesa della rivincita, e ai radicali delusi, anche il parlamento e le classi da esso rappresentate gli rimangono in pratica ostili. In particolare la City londinese, senza il cui appoggio finanziario nessun governo ormai può reggere, è favorevole alla restaurazione monarchica.
Il figlio di Cromwell, Riccardo, rimane al potere pochi mesi. Non possiede le doti politiche e militari del padre, e né l’esercito né tantomeno la popolazione hanno nei suoi confronti debiti di fedeltà. La nazione per un breve periodo ricade nell’anarchia, sino a quando un parlamento eletto nel 1660, nel quale la componente monarchica è maggioritaria, richiama dall’Olanda Carlo II, legittimo erede degli Stuart. Il neo-sovrano deve sottoscrivere una serie di condizioni, che sono in fondo la ratifica dello stato di fatto politico e sociale e dei regimi di proprietà: da parte sua, egli si concilia il favore del paese con promesse di amnistia generale, di rispetto dei diritti parlamentari, di tolleranza religiosa e di un sinodo per ricostituire la dottrina ufficiale.
La restaurazione monarchica avviene cosi in un clima di quasi unanime soddisfazione: l’esercito conta di ricevere finalmente il soldo arretrato, gli aristocratici ottengono il ripristino della Camera dei Lords e di una parte delle prerogative abolite da Cromwell, la borghesia mercantile e terriera non ha più di fronte lo spettro di nuovi sconvolgimenti rivoluzionari, i fedeli anglicani sono soddisfatti dalla restaurazione della loro chiesa, le minoranze religiose possono sperare nella libertà di coscienza, e il popolo, per il quale cambia poco, può perlomeno identificare il potere con una figura che si raccomanda per tradizione storica al suo lealismo.
Questa atmosfera di convivenza pacifica e di relativa libertà e tranquillità per tutta la nazione si protrae per una decina d’anni, favorita anche dall’elezione di un nuovo parlamento, a composizione ancor più decisamente filo-monarchica, che si mostra assolutamente docile nei confronti del sovrano (Parlamento Cavaliere). I successi in politica estera danno poi il loro contributo al rafforzamento della popolarità di Carlo II. Un nuovo conflitto con l’Olanda (1665), causato da un inasprimento dell’Atto di Navigazione, si conclude vittoriosamente con la pace di Breda (1667), nella quale l’Inghilterra ottiene anche le colonie olandesi dell’America del Nord.
Esistono però dei latenti motivi di contrasto, che non possono tardare a manifestarsi. Carlo II ha ereditato in realtà la disposizione assolutistica degli Stuart, e a dispetto delle dichiarazioni d’esordio comincia ben presto a lasciarla trasparire. Il parlamento, dal canto suo, dopo la consacrazione dell’esperienza rivoluzionaria è meno che mai disposto a farsi imbrigliare. Soprattutto sta molto attento a salvaguardare, sotto la facciata religiosa, i propri interessi politici. Per questo assume un atteggiamento di assoluta intolleranza nei confronti dei cattolici: cattolicesimo e assolutismo marciano ormai di conserva sul continente. Ne è riprova la Francia di Luigi XIV, e Carlo II appare molto legato ai francesi, in intrighi sospetti.
Nel 1672 il sovrano emana una dichiarazione d’indulgenza, con la quale riconosce la libertà di fede e di culto tanto ai cattolici quanto alla dissidenza protestante: questo dopo che il parlamento aveva invece promosso una epurazione dei quadri ecclesiastici, mirante ad isolare gli elementi non conformisti, e aveva comminato a quasi un quinto dei parroci l’interdizione a predicare e ad esercitare il ministero. Sentendosi scavalcata e paventando infiltrazioni dei “papisti” nell’amministrazione, la Camera corre ai ripari imponendo nel 1673 il Test Act (Atto di Prova), in base al quale per accedere a qualsiasi pubblico ufficio occorre dimostrare di professare le dottrine della Chiesa d’Inghilterra. Le strade della dinastia Stuart e del parlamento tornano a divergere. Carlo II si lascia attrarre, oltre che per simpatia politica per una venalità piuttosto meschina, nelle trame del disegno espansionistico di Luigi XIV, e stringe con la Francia una alleanza in funzione anti-olandese. Nei suoi calcoli è prevista anche l’eventualità di un intervento militare francese in Inghilterra, a sostegno della svolta autocratica. La pressione dell’opinione pubblica costringe però il re alla neutralità nel conflitto franco-olandese, e a recedere da ogni ipotesi di esautoramento della Camera.
Solo nel 1678, profittando della tensione creata da false voci su di un complotto cattolico (complotto che, a detta degli oppositori protestanti del sovrano – che era senza figli – avrebbe mirato a portare sul trono il fratello di Carlo, Giacomo, particolarmente inviso perché cattolico) e da un vero e proprio tentativo di colpo di stato di alcuni parlamentari, Carlo II può contare su di un ritorno di lealismo nei propri confronti e contrattaccare. Scioglie il Parlamento Cavaliere e ne fa eleggere un altro, ma con scarsi risultati, perché la nuova Camera non esita ad approvare un Atto di Esclusione col quale Giacomo viene escluso dalla successione. Nel 1679 viene poi proclamato l’Habeas Corpus Act, che riconosce ai cittadini la protezione contro gli imprigionamenti arbitrari, e la garanzia della libertà personale. Dopo un nuovo scioglimento della Camera (1681), Carlo II governa per gli ultimi quattro anni senza Parlamento. Alla sua morte, nel 1685, è proprio Giacomo a succedergli, a dispetto dell’Atto di esclusione. Il nuovo sovrano è assolutamente impopolare nel paese, in quanto filo-cattolico e filo-francese, ma riesce a salire sul trono senza gravi contrasti perché il timore di una ricaduta nella guerra civile è più forte di qualsiasi avversione. D’altra parte egli non ha figli maschi e le figlie sono andate entrambe spose a principi protestanti, Guglielmo d’Orange, stathouder d’Olanda, e Giorgio di Danimarca: ciò che sembra scongiurare il pericolo dell’insediamento di una dinastia cattolica sul trono inglese.
Giacomo II non si adopera minimamente per riconciliarsi l’animo dei suoi sudditi. Ignorando tranquillamente il Test Act nomina dei funzionari cattolici in alte cariche dello stato, destituisce un gran numero di giudici di pace e di amministratori locali, fa imprigionare arbitrariamente gli oppositori, promulga a più riprese dichiarazioni d’indulgenza nei confronti dei cattolici e dei dissenzienti. Il parlamento comincia a dare segni d’insofferenza, e nelle regioni di più radicata professione presbiteriana, soprattutto in Scozia e nell’est, si hanno delle sollevazioni. A colmare la misura arriva infine, nel 1688, l’erede maschio, dato alla luce dalla seconda moglie del sovrano. Di fronte a questa prospettiva il parlamento non ha più esitazioni. Dichiara decaduto Giacomo II e si accorda, quale alternativa, sulla persona di Guglielmo d’Orange, che offre ottime garanzie per la sua provata fede protestante e per essere un vecchio e irriducibile avversario di Luigi XIV.
Lo statholder accetta. Deve però sottoscrivere preventivamente una Dichiarazione dei Diritti, nella quale si fissano le condizioni per l’esercizio di una monarchia costituzionale. Nessuna legge o tassa può essere approvata se non dal parlamento; la Camera non può essere sciolta senza il suo consenso; le elezioni dei parlamentari debbono essere libere: i deputati sono tenuti a rispondere solo di fronte alla Camera del loro operato parlamentare, il re non può arruolare eserciti in tempo di pace. A Giacomo II è consentito, volutamente, di fuggire alla chetichella, rifugiandosi presso Luigi XIV. Così, quando il nuovo sovrano sbarca sul suolo inglese, la sua investitura ha luogo senza colpo ferire. La seconda rivoluzione, a differenza della prima e nel ricordo di quella, è vinta in maniera incruenta da una volontà di pace superiore ad ogni contrasto.
Dopo la tempesta
Se inseriamo la rivoluzione inglese in una tavola sinottica universale non ne ricaviamo l’impressione di un fenomeno isolato, in largo anticipo rispetto all’ingresso del resto d’Europa nell’epoca moderna. Le date cruciali (il 1640 e il 1648, soprattutto) suggeriscono una perfetta sincronia con quanto sta avvenendo ad esempio in Francia, dove i nobili e il parlamento scatenano la fronda contro la reggenza di Mazzarino, ma anche in Spagna, dove nel 1640 parte una rivolta contro la politica accentratrice di Olivares, o nei domini spagnoli dell’Italia meridionale, dove nel 1647-48 abbiamo un’insurrezione popolare e la proclamazione della repubblica: e grossi rivolgimenti sono in atto negli stessi anni anche in Germania, dove con la pace di Westfalia si chiude il ciclo dei conflitti generati da motivazioni o contrapposizioni religiose, nei Paesi Bassi, in Russia, nell’Europa orientale. La differenza sta nel fatto che solo in Inghilterra (e qui paradossalmente la motivazione religiosa continuerà a concorrere fino alla deposizione di Giacomo II) queste vicende hanno un esito “progressista”, mentre altrove (fatta eccezione per l’Olanda) spingono verso una definitiva affermazione dell’assolutismo. La metà del ‘600 è a tutti gli effetti un crocevia, al quale i popoli e gli stati arrivano provenendo da esperienze diverse, ma abbastanza comparabili, e dal quale si dipartono invece strade che condurranno per cammini differenti, spesso molto tortuosi e in qualche caso incompiuti, alla “modernizzazione”.
In Inghilterra la fase “rivoluzionaria” più acuta, come abbiamo visto, è quella compresa nei due decenni a cavallo della metà del secolo. E lo è nel senso compiuto del termine, perché questi anni vedono prodursi, con la democrazia militare del New Model Army, con i Livellatori, con l’effimera esplosione dei Diggers e dei gruppi radicali, gli sviluppi più avanzati del dibattito, sia sul piano politico che su quello sociale; ma vedono anche compiersi la parabola involutiva che ripristina l’equilibrio, mantenendo in sostanza immutato lo schema dei rapporti di forza e sostituendo soltanto gli attori.
Non è questa certamente la sede per un’analisi approfondita delle trasformazioni innescate o semplicemente ratificate dalla rivoluzione. Credo possa essere invece interessante riassumere la situazione in uscita, vedendo a quale ruolo la piega presa dagli eventi ha destinato sulla nuova scena i vecchi protagonisti.
Nel 1661 viene restaurata la monarchia. L’esperienza repubblicana si è rivelata traumatica per il paese, anche se si è trattato di una repubblica molto sui generis. Il fatto è che tra il venir meno del vecchio “foedus” tra il popolo e il sovrano e la non ancora definita modalità dell’esercizio rappresentativo del potere si apre lo spazio per una tirannide più che mai avvertita e sofferta come tale, tanto dai lealisti monarchici come dai “rivoluzionari” puritani, in quanto appunto non giustificata da un volere o da una legge divina ed esercitata in dispregio di quelle umane. Se l’autorità è frutto di una convenzione, sembrano pensare gli inglesi, salvaguardiamone almeno quegli aspetti formali che ne rendono più spontaneo il rispetto e che fungono allo stesso tempo da garanti dell’equilibrio, o almeno dell’osservanza delle regole, tra i veri protagonisti del gioco politico. L’esperimento non può funzionare con gli Stuart, troppo coinvolti nelle vicende precedenti e portati per disposizione genetica al disegno assolutistico, mentre riesce perfettamente con gli Orange. I nuovi sovrani, pur non essendo del tutto estranei alla storia inglese (Guglielmo III è nipote per parte di madre di Carlo I Stuart, Anna è figlia di Giacomo II), non hanno legami forti con particolari aree, clan o partiti. Sbarcano sul suolo inglese solo dopo aver fornito tutte la garanzie di un totale rispetto dell’autonomia parlamentare e soprattutto di quella delle nuove forze economiche. Inaugurano una nuova concezione del potere regio, frutto non di una delega divina ma di un mandato parlamentare (non è il caso di definirlo “popolare”): un mandato di rappresentanza, senza alcuna funzione correttamente “rappresentativa”. Ma di quale tipo di monarchia si tratta?
Non si può parlare certamente di una monarchia costituzionale, per il semplice motivo che non esiste alcuna costituzione che stabilisca ruoli, competenze e limiti delle diverse componenti istituzionali. Esiste semmai una molteplicità di fonti, scritte e non scritte (dalla Magna Charta del 1215 all’Habeas Corpus del 1679, al Bill of Rigths del 1689), a partire dalle quali si sono sviluppate rispetto ai rapporti istituzionali delle prassi consuetudinarie, passibili di integrazioni, evoluzioni e adattamenti, ma nella sostanza radicate e coerenti. L’Inghilterra non ha neppure oggi una carta costituzionale vera e propria, una formale e organica dichiarazione di principi ai quali ispirare e sui quali commisurare la validità di ogni atto giuridico e legislativo, ma ha un patrimonio di atti, appunto, coerente e storicamente fondato. Il palazzo della giustizia inglese è fatto di pietre posate dalla storia, allineate dal tempo e levigate dalla frequentazione, dal cui complesso spirano una autorevolezza e una solidità quali solo gli antichi edifici sanno trasmettere. Riflette da un lato la disposizione pragmatica cui si è già fatto cenno sopra, dall’altro la fiducia del paese nella propria capacità di autoregolamentarsi e la determinazione a resistere ad ogni tentativo di monopolizzare il potere. Ma riflette anche la resistenza feroce opposta dalle autonomie “sassoni” ad ogni disegno centralizzatore della corona “normanna”, resistenza che a volte si sposa con quella degli stessi baroni normanni, soprattutto nelle aree più periferiche, più spesso è conflittuale anche con questi.
Quindi abbiamo una monarchia “parlamentare”, nel senso che è voluta e sorretta dal parlamento, ma soprattutto che ne dipende. A dispetto delle prerogative altisonanti (capo dell’esecutivo, parte integrante del legislativo, capo del giudiziario, comandante in capo di tutte le forze armate e capo della chiesa anglicana) il monarca britannico è nella sostanza un sovrano che regna ma non governa. La corona si ridurrà progressivamente ad avallare atti proposti dai suoi ministri, che ne assumono la responsabilità, e dovrà agire di sponda, quando ne sarà capace o le sarà consentito, influendo semmai sulla scelta e offrendo sostegno al gabinetto.
L’avvio del nuovo corso è molto soft. Guglielmo III si muove con ogni precauzione per far dimenticare agli inglesi di essere nipote di un sovrano “legittimamente” decapitato: ma in realtà è troppo preso dalle vicende olandesi per potersi dedicare appieno a quelle inglesi, e in fondo è ciò che il parlamento desidera, anche perché in questa fase, chiuso il confronto per l’egemonia marittima, gli interessi dei Paesi Bassi coincidono, nella loro valenza antifrancese, con quelli dei britannici. Al sovrano viene chiesto semplicemente di tenere fuori dai giochi la moglie Anna, per spiazzare i lealisti che non cessano di macchinare per il ritorno sul trono della dinastia Stuart. Tutto sommato Guglielmo non suscita particolari simpatie tra i suoi nuovi sudditi, ma nemmeno ostilità, proprio in ragione del fatto la sua investitura rappresenta una soluzione transitoria. Anche quando gli succede la regina, infatti, l’assenza di un erede liquida ogni pretesa di continuità legittimista.
La soluzione di compromesso adottata con gli Orange, pragmatica ma decisamente ambigua, per tutte le possibili interpretazioni che sono lasciate aperte rispetto al ruolo della corona, viene reiterata con i primi tre Hannover. Non è solo praticabile, ma è resa addirittura necessaria dalla pochezza di Giorgio I, che non parla nemmeno la lingua e nutre interesse solo per l’appannaggio reale. Il governo è lasciato completamente nelle mani del parlamento, in quel periodo dominato dai whigs, e di ministri del calibro di Stanhope e Walpole. In questo modo viene però aperta una strada di non ritorno, tanto che anche il successore, Giorgio II, dovrà tollerare il premierato di Walpole, per il quale non nutre la minima simpatia.
Il passo decisivo si compie con Giorgio III. Il sovrano riesce in un primo momento a recuperare le prerogative che erano state sottratte alla corona per l’inerzia dei suoi predecessori, ma che non le erano state giuridicamente negate, e si gioca poi tutto nella vicenda coloniale, là dove ritiene di poter scavalcare tranquillamente il parlamento. Questa volta l’operato della corona e gli interessi della grande borghesia commerciale e industriale cozzano violentemente, e l’impasse generata dall’assenza di una vera e propria carta costituzionale è superata dall’urgenza di mettere riparo ad un disastro. Dopo l’umiliazione della pace di Parigi verrà infatti definitivamente affermata l’autonomia del gabinetto e del primo ministro, che non potranno più essere sfiduciati dalla corona, ma solo dal parlamento.
Si chiude in questo modo definitivamente per la corona inglese la stagione alterna del protagonismo politico, e se ne apre invece una durevole di gloriosa e amata (almeno nelle sue incarnazioni femminili) rappresentanza: nel momento in cui sono estromessi dal governo dello stato i monarchi inglesi ne diventano il simbolo, e assurgono finalmente a rappresentanti di tutto un popolo.
Una sorte analoga tocca in qualche misura alla vecchia “aristocrazia di spada”. La Camera dei Pari esce decisamente ridimensionata dalla lunga stagione rivoluzionaria, almeno sul piano della rappresentatività politica ed economica. Non è un tracollo improvviso, perché l’esautoramento del ceto nobiliare era già iniziato, come abbiamo visto, fin dal Cinquecento, o prima ancora, dall’insediamento dei Tudor. Anche se sul piano formale le prerogative erano rimaste immutate, su quello sostanziale si era verificata una progressiva erosione dei poteri effettivi, resa ancor più evidente dalla contemporanea crescita di importanza dei Comuni. Alla fine del regno di Elisabetta la Camera Alta era quasi ridotta ad un’appendice della corona, dal momento che la maggioranza dei suoi componenti erano di nomina Tudor, quindi legati alla dinastia, e non più eredi di una antica dignità gentilizia. Questa situazione aveva anche prodotto una profonda frattura all’interno del più antico ramo parlamentare: la nobiltà “originaria”, quella delle famiglie cofondatrici del regno, era profondamente irritata dai favori elargiti dai sovrani agli “arrampicatori”, e questo sentimento la induceva nei momenti delle scelte di campo decisive a porsi all’opposizione.
Sotto altri aspetti, invece, tutto quanto il ceto aristocratico aveva cominciato a godere a partire dalla metà del XVI secolo di una serie di nuovi privilegi, ad esempio di una sempre più scandalosa impunità giudiziaria; privilegi che venivano dispensati dalla corona proprio nella misura in cui i destinatari non erano più in grado di farne un uso politico, e che vincolavano questi ultimi alla sopravvivenza dell’istituzione garante. L’allargamento dei privilegi andava a sua volta ad alimentare quel processo di estraniazione dell’aristocrazia dal corpo più vivo della nazione che sarebbe arrivato a compimento nel periodo rivoluzionario, costantemente stigmatizzato non solo nei libelli polemici dei Livellatori, ma anche in quelli del parlamentarismo meno radicale. Si era innescato un processo irreversibile, che come vedremo condurrà ad un esito inedito e singolare.
Nel corso del ‘500 comunque i poteri del re e dell’insieme del parla-mento, pur rimanendo antagonisti, si erano andati rafforzando di conserva, nel senso che l’uno e l’altro stavano avendo gradualmente la meglio sulle autonomie e sui potentati locali. Questo valeva soprattutto per le aree del nord, ai confini con la Scozia, e per quelle dell’ovest, che avevano sempre goduto per la loro condizione di marche di confine o periferiche di margini di autonomia notevolissimi. La particolare situazione in cui era venuto a trovarsi Enrico VIII aveva indotto inoltre la necessità di continue ratifiche dei suoi atti, e questo aveva intensificato la frequenza delle riunioni del Parlamento. Le due camere erano in sostanza necessariamente chiamate dal sovrano ad un ruolo forte di legittimazione, e a quest’ultimo conveniva, tutto sommato, tanto di fronte al popolo inglese che nei confronti dell’esterno, riconoscere e rafforzare la loro autorevolezza.
La nuova dimensione “quantitativa” dell’impegno politico non contraddiceva il ritiro dalla scena di cui ho parlato sopra: perché da un lato sottraeva gli aristocratici alla cura delle loro terre, in un momento nel quale era in atto una trasformazione dei rapporti di proprietà e dei modi della conduzione che avrebbe preteso una presenza assidua, dall’altro la sempre maggiore propensione dei nobili a vivere a Londra era dettata soprattutto dalla volontà di partecipare da vicino al gioco delle cricche e delle fazioni e di conquistarsi i favori della corona. Avevano quindi perso di vista il campo nel quale si giocavano i veri rapporti di potere.
Va inoltre tenuto conto della tendenza ad un irrigidimento della mentalità aristocratica, che si accompagna alla nascita dello stato moderno e ne è una conseguenza, e che si manifesta soprattutto nell’ossessione dell’etichetta. I ritmi, le modalità dei rapporti e i costumi sono dettati in tutta l’Europa a partire dalla prima metà del XVI secolo da monsignor Della Casa e dal Cortegiano, e ribaditi in quello successivo da una miriade di epigoni. Sentendo venir meno il proprio peso sostanziale la nobiltà si aggrappa e si trincera su quello formale. Anche in Inghilterra come altrove vengono emanate leggi suntuarie, sono definite nelle più assurde minuzie le procedure e le precedenze, sono ricostruite genealogie e linee ereditarie di sangue. La corona asseconda, più o meno strumentalmente, questo auto-isolamento, non solo con gli interventi sull’etichetta di corte, ma modificando statuti e consuetudini dei governi locali, per limitare l’accesso delle nuove classi alle cariche amministrative. E nell’erigere queste barriere si serve della chiesa anglicana, che predica soprattutto l’obbedienza e l’ossequio dovuti ai superiori.
Al di là di questa alleanza congiunturale, la distanza dell’aristocrazia dalla realtà del paese si misura anche dalla posizione assunta nei confronti della riforma. L’aristocrazia è pregiudizialmente ostile ad ogni forma di innovazione, prima nella transizione all’anglicanesimo, poi di fronte all’emersione del puritanesimo. Anche quando, scegliendo il male minore, si professa lealista e accetta l’anglicanesimo, non può condividere la difesa della gerarchia vescovile. Si trova spiazzata di fronte ad ogni situazione nuova, e abbraccia di norma la causa persa, nella presunzione di poter ancora determinare la direzione del paese, o addirittura di avere l’opportunità per acquisire un ruolo ancor maggiormente significativo. Per questo la vediamo nella gran maggioranza schierata dalla parte di Carlo I, lasciando ai Comuni il ruolo di difensori della tradizione parlamentare contro le pretese assolutistiche degli Stuart. Si ritrova quindi completamente annichilita quando la dichiarazione della forma repubblicana del governo (Commonwealth) porta all’abolizione momentanea della Camera dei Pari e di tutti i titoli reali. E se con la restaurazione monarchica anche la Camera viene ripristinata, questa non solo non ha più la supremazia di un tempo nei confronti dei Comuni, ma ne è diventata una sorta di inutile doppione, destinata nel tempo ad assolvere solo a compiti di alta corte di giustizia.
All’indomani della restaurazione monarchica l’aristocrazia si attende in verità che tutto torni come prima. La Camera dei Lords e l’uso dei titoli nobiliari sono stati ripristinati, è stata avviata l’epurazione dalle cariche pubbliche dei “regicidi”, una parte delle proprietà terriere che erano state sottratte ai nobili realisti tornano ai legittimi proprietari. Ma l’illusione dura poco. Le resistenze dei nuovi ceti imprenditoriali e le leggi del mercato impongono soluzioni di compromesso; in molti casi la conduzione del latifondo, e l’introduzione di nuove regole e di nuovi investimenti, viene lasciata con un rapporto di affittanza proprio agli “usurpatori”. Una volta deplorato il declino delle grandi famiglie e l’invadente successo di individui di estrazione più bassa, non resta agli aristocratici che chiamarsi fuori dal gioco della mobilità sociale, in pratica da quello del potere, e impermeabilizzare la loro casta. “Cerimoniale e ordine” è il criterio suggerito dai suoi consiglieri a Carlo II, e riassume bene la nuova posizione della nobiltà: ordine, ovvero difesa strenua dell’assetto politico ed economico, e cerimoniale, ovvero ritualizzazione distintiva, in contrasto appunto coi modi troppo disinvolti dei rappresentanti delle classi in ascesa.
La separazione diventa naturalmente molto più marcata anche nei confronti della classe contadina. È venuto meno un rapporto fiduciario che aveva in molti casi i tratti della familiarità, all’interno del quale sia pure nel rispetto dei ruoli e delle distanze il padrone si prendeva cura della condizione dei suoi fittavoli e in qualche modo la condivideva, e questi ultimi gli erano devoti. Nel corso della guerra civile questo rapporto aveva spinto molti contadini ad arruolarsi volontariamente al seguito dei loro padroni, indipendentemente dalla scelta di campo. Ora invece il distacco viene sempre più sottolineato dall’alto, a partire dalla scelta di una vita decisamente più elegante, in manieri che nulla conservano dell’antica rusticità, il più possibile separati dalle fattorie; e conseguentemente è sempre peggio tollerato dal basso.
Anche i meno titolati “gentiluomini di campagna” restringono le loro frequentazioni e la loro confidenza, oltre che ai loro pari, alla piccola cerchia di professionisti che ruota attorno alla grande proprietà, e che spesso sono a loro volta proprietari di un certo livello. Nascono in questo periodo quei gruppi chiusi, caratteristici dei salotti delle dimore padronali di campagna di Sette-Ottocento, che comprendono il medico, il pastore, l’avvocato[15].
Insomma, a differenza di quanto accade per la nobiltà francese, che dopo la rivoluzione sparisce letteralmente dalla scena, quella inglese sopravvive al suo vecchio ruolo di equilibratrice politica ritagliandosene uno di contrasto, etico e stilistico, rispetto al nuovo quadro sociale. Al contrario del romanticismo francese, fondamentalmente antinobiliare, quello inglese fa appello ad un mondo, ad un modo d’essere tipicamente aristocratico, anche e soprattutto, come nel caso di Shelley, quando dichiara il contrario. Così come la monarchia, che ritirandosi, almeno in parte, dal gioco politico si garantisce nuovi margini di sopravvivenza, l’aristocrazia esce dal gioco apparentemente non cacciata, ma schifata dalla brutalità delle nuove classi rampanti, gentry in testa.
La rivoluzione ha visto come protagonista in tutte le sue fasi, ora in testa, ora in retroguardia a frenare, e da ultimo come vincitrice, proprio la gentry. La gentry non costituisce come abbiamo già visto una vera classe: è un ceto intermedio con una identità piuttosto economica che sociale, nel senso che raccoglie provenienze o appartenenze sociali eterogenee, e al contrario dell’aristocrazia conosce una forte mobilità interna. Nel solo periodo tra il 1600 e il 1680 la metà dei possessi terrieri cambia proprietario, mentre nel secolo precedente sono stati messi in vendita la gran parte dei possedimenti ecclesiastici, molte terre reali e numerose proprietà di signorotti cattolici, sui quali si sono avventati tanto la cosiddetta “gentry minore” quanto gli speculatori cittadini in cerca di investimenti redditizi (che si rivelano effettivamente tali, se è vero che mentre tra le due metà secolo il livello dei prezzi cresce 5 volte, i redditi agricoli aumentano a seconda delle zone da 5 a 8 volte).
Esiste insomma un ampio e diversificato spettro di appartenenze all’interno di questo gruppo. Ma fondamentalmente ci sono una parte minoritaria, che ha raggiunto un livello di considerazione sociale pari a quello dell’aristocrazia, e uno ben superiore sul piano economico, mentre la grande maggioranza degli esquires di campagna è più prossima invece ai liberi proprietari o alla classe mercantile e alto artigianale. Semplificando molto, nel corso della guerra civile la prima componente è lealista, mentre la seconda si schiera in prevalenza a fianco del parlamento. La scelta di schieramento è dettata in realtà anche da altri fattori – ci sono regioni che optano per ragioni storiche per uno schieramento o per l’altro, o contee all’interno delle regioni stesse, oppure prevale la motivazione religiosa, là dove c’è stata una forte penetrazione del puritanesimo o si è invece consolidato il presbiterianesimo -, ma in sostanza la classe che aveva approfittato di tutti i cambiamenti del secolo precedente adesso si trova nella necessità di difendere le proprie conquiste: e lo fa difendendo la situazione politica e sociale esistente sotto la bandiera di un movimento che potenzialmente parrebbe diretto a capovolgerla.
Lo scontro interno a questa classe coinvolge, in qualche caso in ruoli tutt’altro che secondari, anche altre componenti sociali, delle quali andremo a parlare di seguito. Se guardiamo comunque ai risultati, alcune cose risultano chiare. La composizione del ramo basso del parlamento, ad esempio, muta considerevolmente. Prima della rivoluzione ai Comuni prevaleva la gentry del livello “alto”, mentre dopo il 1650 siederanno sugli scranni soprattutto esponenti di quello medio. E non si tratta solo di un ricambio politico. Tra il 1640 e il 1660 si verificano numerosissimi passaggi di proprietà. Vengono confiscate le terre di quasi duemila “realisti”, che vengono poi messe in vendita quando si permette agli ex-proprietari di concordare il prezzo della loro “delinquenza”, e che finiscono normalmente nelle mani dei loro diretti concorrenti. Cambia anche la provenienza dei rappresentanti in parlamento. La camera bassa del 1640 è composta da quattrocento “borghigiani” e da un centinaio di rappresentanti delle contee, mentre in quella post-repubblicana aumenteranno considerevolmente i rappresentanti del mondo rurale (quelli che nell’Ottocento saranno espressi dai “borghi putridi”). Cambia infine anche il parametro economico della rappresentatività, perché dopo il 1688 le due camere votano una legge che riserva i seggi ai comuni ai soli “gentiluomini” con una rendita di almeno 500 sterline annue (che è quella di confine tra l’appartenenza “alta” e quella “media”). La legge incontra l’opposizione di Guglielmo III, ma il principio passa, e verrà poi ratificato giuridicamente sotto la regina Anna, con un abbassamento del limite minimo di reddito a 300 sterline.
Questo spiega perché, allorché nascono i primi blocchi partitici veri e propri, le adesioni non rispondano ad un automatismo degli schieramenti. Quando infatti dopo il 1678, a seguito della congiura contro Carlo II e la chiesa anglicana, comincerà ad evidenziarsi la contrapposizione tra tories e whigs (per inciso, entrambe denominazioni dispregiative, derivanti l’una dall’irlandese thòraid e l’altra dallo scozzese whigh, con il significato analogo di brigante, predone) la camera bassa non sarà necessariamente controllata dai secondi, ed anzi, a Londra e nelle città maggiori saranno i tories a conquistare la maggioranza. Il che ci dice che la classe imprenditoriale, che aveva guidato la rivolta parlamentare nella prima metà del secolo e che compatta, tories e whigs assieme, aveva deciso per la cacciata di Giacomo II, ha già assunto posizioni più conservatrici e mira piuttosto a consolidare quanto ha ottenuto che a portare avanti ulteriori istanze. La gestione dell’esistente è peraltro garantita dalla prevalenza dei Comuni, già ufficiosamente sancita nel breve intermezzo repubblicano, e ufficializzata in pratica dopo l’Act of Settlement del 1701, col quale oltre a regolare la successione e ad escludere i cattolici dalla linea dinastica si stabiliscono implicitamente anche la subordinazione del potere regio alla volontà del parlamento (e quindi l’origine terrena e non divina del potere) e la responsabilità, ovvero l’autonomia, dei gabinetti: non a caso saranno gabinetti whigs a gestire, sotto Giorgio I, questa transizione.
Della sconfitta di quei ceti medio-bassi, artigianali e mercantili soprattutto, rappresentati nella loro punta più estremistica dai Livellatori, che a cavallo della metà del secolo diventano i veri protagonisti e il nerbo della rivoluzione, abbiamo già parlato a lungo nel corso della narrazione delle vicende. Sono sconfitti, come si diceva, non solo dai moderati sul piano politico, ma anche e soprattutto da una mutazione globale dei costumi, dei rapporti e del modo di produzione su quello storico. Naturalmente non scompaiono dalla scena, ma il loro ruolo subisce un drastico ridimensionamento. A partire dalla prima metà del Settecento non saranno più questi ceti ad animare il confronto sociale. Sopravviveranno invece le idee dei Livellatori, gran parte delle quali saranno integrate nel patrimonio del moderno liberalismo, e alcune addirittura in quello in quello del socialismo.
Negli anni immediatamente successivi la fine dell’epoca Stuart, tra il 1690 e il 1700, un demografo ed economista inglese, Gregory King, raccolse un numero impressionante di dati sulla composizione della società inglese e li ordinò in una serie di tabelle schematiche[16]. Le tabelle di King ci forniscono uno spaccato incredibilmente esatto (la loro precisione è stata verificata da recenti indagini comparative) della suddivisione sociale ed economica della popolazione inglese al 1688, con tutti gli spunti di riflessione che ne conseguono; ma offrono anche, a mio giudizio, la conferma dell’assunto col quale è stato aperto questo saggio: del fatto cioè, che la rivoluzione inglese non rivoluzionò affatto l’assetto sociale, perché non fu motivata da uno scontro tra classi antagoniste, ma da un sommovimento interno alla classe dominante, prodotto dalla pressione in ingresso del nuovo sistema produttivo.
King divide fondamentalmente in due parti il suo schema: da un lato le categorie “che aumentano la ricchezza nazionale”, ai cui appartenenti spetta un appellativo[17], da quello di gentleman (che distingue chi non fa lavori manuali), di master o di esquire, sino a quello di yeomen (per i piccoli proprietari liberi, i freeholders), dall’altro quelle “che diminuiscono la ricchezza nazionale”, cui non spetta alcun appellativo. Anche se non ci sono espliciti riferimenti al peso politico, essi sono sottintesi nella valutazione censitaria: al di sotto di un certo reddito non si gode del diritto di voto. Lo spartiacque tra i due mondi è costituito proprio dal reddito: nella parte alta stanno coloro che possiedono un reddito annuo superiore alle trenta sterline, in quello inferiore tutti gli altri[18]. L’insieme della popolazione ascritta alla parte superiore del quadro, che comprende dall’alta aristocrazia sino agli artigiani, passando per la gentry, per i mercanti, per i professionisti, per i funzionari statali, gli ecclesiastici, gli ufficiali e i negozianti, assomma a circa due milioni e seicentocinquantamila; quella attribuita al quadro inferiore si aggira attorno ai due milioni e ottocentomila, e comprende braccianti e lavoranti agricoli, servitori e cottagers (cioè contadini poverissimi), oltre a marinai e soldati semplici.
Questo ci dice in pratica che più della metà della popolazione inglese è esclusa dalla partecipazione diretta alla vita politica, attraverso il meccanismo elettorale; e ci spiega perché nel corso della rivoluzione non sia stata coinvolta, se non marginalmente come massa d’urto, o in occasione di sporadiche sommosse per il pane. Semplicemente, perché non era la “sua” rivoluzione[19].
Eppure, se gli sconfitti della guerra civile sono i ceti artigiani e commerciali, perché vi hanno comunque recitato un ruolo da protagonisti, le vittime vere sono proprio i braccianti, i salariati, i fittavoli, i piccoli contadini, e non solo i freeholders che hanno combattuto sotto le bandiere di Cromwell e di Fairfox, ma tutti gli altri, quelli che in realtà del contrasto tra il sovrano e il parlamento hanno capito ben poco e non hanno avuto né modo né voglia né tempo di schierarsi; e che se lo avessero fatto avrebbero dovuto battersi senz’altro a fianco degli Stuart.
I contadini, sia quelli liberi che i copyholders, avevano potuto approfittare nel ‘500 della congiuntura inflattiva protrattasi sino al secondo decennio del XVII secolo. L’aumento dei prezzi delle derrate (in un secolo arrivano a triplicarsi) non era inizialmente bilanciato da quello dei canoni, che potevano essere ritoccati solo alla scadenza dei contratti. Questa congiuntura aveva colpito invece negativamente i gentiluomini che vivevano sulle rendite, o almeno quelli incapaci da un lato di variare il regime delle spese e dall’altro di aumentare le rendite. Gli altri, i sopravvissuti e i nuovi proprietari, erano pertanto più che mai determinati a valorizzare l’investimento agricolo, espandendo la coltivazione a grano e l’allevamento e sfruttando il legname e il sottosuolo. Ciò significava cacciare i copyholders, liquidare le concessioni consuetudinarie e passare ad un regime di affittanza a tempi brevissimi, spesso rinnovabile annualmente.
Di tutto questo, delle recinzioni che dilagano e stravolgono, oltre che il paesaggio, gli usi e gli equilibri economici delle comunità, della precarietà che viene a caratterizzare rapporti di concessione già secolari, della scarsa competitività dei freeholders nei confronti di un’agricoltura modernizzata e della frequente loro ricaduta nella condizione servile, abbiamo già parlato. Resta da aggiungere, o da rimarcare, che sull’espropriazione delle terre pesava anche la crescita dell’industria carbonifera. Il carbone è la base del passaggio di molte attività dallo stadio artigianale a quello industriale (carta, armamenti, raffinazione dello zucchero) e di innovazioni tecnologiche delle vecchie industrie (laterizi, vetro, sale, fermentazione della birra); e nella prima metà del ‘600, mentre il Belgio e la Ruhr si trasformavano in immensi campi di battaglia, l’Inghilterra era diventata la prima produttrice di carbone.
La ricchezza delle terre carbonifere e la resa degli investimenti nel settore minerario facevano si che venissero sempre più frequentemente messi in discussione i diritti di proprietà o di sfruttamento dei freeholders. Contro gli agrimensori – professione che si diffonde proprio a partire dalla prima metà del secolo – si era diffusa una feroce ostilità, sia per il loro ruolo nelle recinzioni, sia perché compivano prospezioni intese a verificare la ricchezza mineraria dei terreni. I liberi contadini avevano cominciato a vivere nel terrore che nei loro appezzamenti fossero identificati giacimenti carboniferi, perché non detenevano il diritto di sfruttamento della parte sommersa di terreno e perché non avrebbero comunque avuto i capitali per valorizzarlo.
Anche se il periodo tra il 1640 e il 1665 vede scoppiare diversi tumulti nelle aree rurali, non ci sono rivolte contadine di dimensioni paragonabili a quelle dei secoli precedenti (l’ultima nel 1549). I motivi non mancherebbero, perché la situazione nelle campagne è pesantemente aggravata, oltre che per le ragioni su esposte, da una incredibile serie consecutiva di raccolti pessimi, sia politiche, dai ripetuti passaggi di proprietà che accelerano la cacciata dei copyholder e dagli altri effetti collaterali della guerra, saccheggi, devastazioni delle colture, arruolamenti forzati, continui e rovinosi transiti dei due eserciti. Ma proprio il clima incerto della guerra civile in un primo momento, e la durezza del regime di Cromwell poi, impediscono il maturare e il diffondersi di movimenti spontanei di protesta. Le inquietudini del mondo rurale vengono in genere assorbite dall’uno o dall’altro contendente e incanalate nella guerra civile. Per contro, anche da parte delle frange più radicali l’attenzione prestata alle istanze del mondo contadino è scarsa: gli stessi Diggers, che in teoria si porrebbero come interpreti delle rivendicazioni degli ultimi, guardano piuttosto ad una società ideale, da ricostruirsi ex-novo, piuttosto che a quella reale.
Sulla scarsa combattività delle masse rurali influisce anche il fatto che un gran numero di contadini poveri, tra l’altro i più decisi e intraprendenti, prende la via dell’America. Nei trent’anni che seguono la fondazione del New England gli emigranti inglesi verso il nuovo mondo sono almeno centomila. Esiste quindi un’alternativa alla disperazione, che da un lato funge da valvola di sfogo e dall’altro crea un effetto psicologico di ritorno, perché la possibilità di trovare lavoro libero al di là dell’oceano influisce sul modo di concepire il lavoro stesso e il valore delle capacità artigiane anche nel vecchio. In una terra nella quale per sopravvivere ci si debbono rimboccare le maniche perde senso la distinzione nobiliare. Non è casuale che la rivolta scoppi a trent’anni dalle prime colonizzazioni.
Per intanto, però, per chi rimane in Inghilterra la situazione sociale si aggrava dopo la metà del secolo, e precipita addirittura nell’ultima parte. Nel 1656, venuta meno la resistenza opposta dagli Stuart, il parlamento boccia una legge che ribadiva il divieto alle recinzioni, e di fatto le liberalizza. Anche se alla fine della seconda rivoluzione i tre quinti dei terreni incolti non erano ancora stati recintati, l’operazione proseguirà sino ai primi decenni dell’800. Con l’Act of Settelment del 1662 inoltre le camere resuscitano virtualmente il servaggio medioevale, legando il lavoratore agricolo alla parrocchia, e inaspriscono le leggi sui poveri[20]. In pratica si sta creando una massa di proletari da avviare di lì a poco alle fabbriche.
In compenso, almeno sul piano strettamente materiale nel periodo della restaurazione le condizioni dei lavoratori paradossalmente migliorano, in primo luogo perché c’è un rallentamento nella crescita della popolazione, dovuto tanto alla guerra quanto all’emigrazione, poi perché viene avviata una modalità produttiva (ad esempio quella dei i prodotti in lana e poi in cotone, o di quelli in metallo) con caratteristiche e quindi i prezzi si abbassano. La forte crescita numerica dei venditori ambulanti, denunciata dai commercianti e dagli artigiani cittadini e mal tollerata dall’amministrazione per l’impossibilità di un controllo fiscale, dimostra che anche nelle campagne, dove in precedenza vigeva un regime di stretta autarchia famigliare, si diffondono i consumi di prodotti proto-industriali. Nei villaggi e nelle piccole città fioriscono i mercati e l’allargamento del bacino di potenziali compratori favorisce in una prima fase anche la produzione artigianale. Vanno in crisi invece i coltivatori di cereali, perché qui i prezzi rimangono bassi, e spariscono molte proprietà piccolo-contadine. Le reti stradali e quelle commerciali favoriscono lo scambio, ma finiscono per danneggiare le zone meno fertili e adatte alla coltivazione, o prive di miniere. È maggiormente favorito il nord-ovest
- h) Infine. La rivoluzione inglese è figlia (molto precoce) del cambia-mento di mentalità che tra fine Cinquecento e prima metà del ‘600 rifonda le basi gnoseologiche e ideologiche della scienza. La vicenda politica induce dei cambiamenti, ma più ancora traduce in una prassi (politica e non) e consacra nella quotidianità dell’agire, oltre che del pensare, un modello nuovo di rapporto con la realtà nel suo insieme.
Intanto il nuovo metodo scientifico suppone un allargamento “democratico” della conoscenza, che non è più riservata a pochi e non deve più essere difesa attraverso un linguaggio oscuro ed ermetico. Nell’Advancement of learning (1605) Francis Bacon sostiene l’eguaglianza delle intelligenze di fronte alla natura, e la conseguente possibilità (e necessità, se si vuole che il sapere non sia sterile) di ampliare il bacino degli utenti della conoscenza. È un atteggiamento che si discosta da quello dei filosofi della natura cinquecenteschi, o di maghi (Bacon li chiama “ciarlatani”) del calibro di Paracelso e Agrippa; ma anche da quello di Giordano Bruno, che pure nel corso del suo soggiorno inglese aveva esercitato una certa influenza sui circoli intellettuali britannici e sullo stesso Bacon[21]. Ora, riconoscere l’eguaglianza delle intelligenze è qualcosa di molto diverso rispetto ad asserire la generica eguaglianza spirituale di matrice cristiana: è la base per la fondazione di un diritto che procede dalla natura, e non da Dio (almeno sino ad Hobbes: dopo Hobbes, come abbiamo visto, si afferma l’assunto della matrice convenzionale), che viene inteso non già come prerogativa naturalmente spettante ad ogni individuo, quanto piuttosto come singolare conquista, col tramite appunto dell’intelligenza[22]. Il che ci porta a riconsiderare il senso della “democraticità”: si tratta di un diritto potenziale, da attuarsi nella pratica della conoscenza, ed è sufficiente sostituire al termine “diritto” quello di “grazia” per ritrovarci in pieno calvinismo.
In secondo luogo il modello conoscitivo proposto da Bacon è quello delle arti meccaniche, da sempre adottato da artigiani, tecnici e ingegneri, da coloro cioè che, a differenza dei filosofi, nel tempo hanno cumulato nozioni e scoperte a favore di tutta l’umanità. Questa modalità di conoscenza si basa su una lettura matematica del mondo, attraverso la quale vengono individuate per comparazione, ripetizione e somma dei fenomeni le leggi naturali. È quindi scientificamente fondata, educa un atteggiamento performativo nei confronti del mondo, e rimanda ad una concezione meccanicistica del mondo stesso. L’universo macchina è infatti figlio sia del sapere degli ingegneri e degli artigiani che della antica tradizione di Archimede. La meccanica comincia ad essere considerata “arte nobile et pregiata”, e l’artificio, la costruzione umana, viene valutato sullo stesso piano del prodotto naturale.
Si tratta di un vero e proprio ribaltamento dei valori. La concezione meccanicistica del mondo, la stessa che in definitiva sta alla base della filosofia di Hobbes[23], conduce ad un determinismo materialistico. La scienza fenomenica degli studiosi meccanicisti, ripudiando la ricerca delle essenze e dei principi vitali, privilegia nell’esame della materia la figura dei corpi, le loro reciproche relazioni e la loro esistenza in un tempo e in uno spazio determinato. Adotta pertanto quel linguaggio matematico che permette le necessarie astrazioni, riducendo tutte le categorie dell’essere a spazio, tempo, velocità, accelerazione, massa, peso e forza, così da poterle combinare in una geometria analitica (Cartesio) ed elaborare attraverso gli algoritmi (Newton e Leibnitz).
La “matematizzazione” viene gradualmente estesa da quello scientifico ad ogni altro ambito del pensare e dell’agire umano, e determina uno spostamento di interesse verso quelle discipline e quelle attività che meglio sembrano prestarsi ad un approccio razionale e statistico. In Hobbes sfocia in una concezione della politica come artificiale barriera contro il disordine della fisicità naturale, come calcolo matematico individuale delle possibilità di sopravvivenza che induce ad affidarsi, anzi, ad assoggettarsi allo Stato come male minore. La stessa logica aritmetica è però anche alla base della concezione “democratica” del potere propugnata dai Livellatori, per la quale il numero degli individui, come avrebbe detto Cicerone, viene a contare più del loro peso specifico, della loro qualità.
L’intreccio tra la rivoluzione politica inglese e la nascente scienza moderna è stato ampiamente documentato da storici come Cristopher Hill e Charles Webster, che hanno dimostrato come, a differenza di quanto avviene sul continente, la cultura scientifica abbia in Inghilterra una significativa circolazione anche a livello popolare. L’appello di Bacon ad un atteggiamento conoscitivo finalizzato alla prassi è accolto senza difficoltà in un paese che ha sviluppato da tempo una cultura diffusa, alternativa a quella tradizionalista delle università e rafforzata dopo la Riforma proprio dalla libera frequentazione delle Scritture. Almanacchi, opuscoli e vere e proprie pubblicazioni periodiche traducono già a partire dalla metà del XVII secolo in nozioni pratiche ogni nuova acquisizione astronomica o ricerca matematica che possa essere applicata alla navigazione, all’industria, all’agricoltura[24].
Un altro motivo della popolarità della scienza e del suo indotto tecnologico sta nella loro interpretazione come strumenti per un ritorno alla condizione antecedente la cacciata dal paradiso. Anche questo anelito alla riscossa escatologica trova il suo manifesto nell’opera di Bacon, ma è comunque già implicito nella versione ultracalvinista del puritanesimo inglese, che confida totalmente in Dio per la rigenerazione individuale, ma chiede agli uomini di attivarsi per crearne i presupposti. Nell’accezione puritana, insomma, la scienza e la tecnica devono creare le condizioni perché l’uomo possa, una volta ripristinato il dominio sulla natura e liberatosi dai condizionamenti del bisogno, aspirare con il soccorso della grazia alla riconquista dell’innocenza originaria.
A rivoluzione politica compiuta questa visione del ruolo della scienza è fatta propria dall’establishment, nella versione codificata da Newton (nei Principia Mathematica) di un universo-macchina tutto regolarità e di un ordine matematico che permea il creato. Al contrario, gli oppositori del nuovo assetto politico-sociale tendono, riprendendo spunti che già erano presenti dietro gli esiti più radicali del pensiero rivoluzionario (ad esempio nei Diggers), a recuperare quella magia e quell’astrologia dotta che Bacone aveva stigmatizzato come ciarlataneria e a postulare un universo vitalistico ed un ordine magico. Quello che nella formulazione ermetica cinquecentesca era un sapere aristocratico ed elitario viene adattato a “concezione popolare”, piuttosto che filosofica, e diffuso dai “liberi pensatori” in una versione divulgativa ed accessibile, che conosce un notevole successo. Contro Newton, e soprattutto contro i suoi epigoni, viene rispolvera la filosofia naturale del Cinquecento, magari filtrata attraverso Spinosa; e Bruno viene definitivamente consacrato nell’immaginario popolare a simbolo della resistenza intellettuale, opposta in questo caso alla modernità.
Un’attenzione del tutto nuova è testimoniata anche per l’economia, dalla crescente pubblicazione di libri specifici e dal fatto che queste letture cominciano ad essere considerate importanti nella formazione del “gentiluomo”. Shaftesbury sottolinea la necessità per gli appartenenti al “tipo superiore ed agiato” di trovarsi una “conveniente e appropriata occupazione”, ed elenca tra queste occupazioni, oltre alle lettere, alle scienze, alle arti, alla politica, anche l’agraria e l’economia. Il cambiamento di mentalità investe, in questo come negli altri ambiti, anche i fondamenti etici: se da un lato, da parte di “monarchici” come il vescovo Laud, c’è il rifiuto totale della nuova “etica economica”, dall’altro, da parte puritana, si arriva ad una sua giustificazione su basi religiose.
È un cambiamento che ha senz’altro a che fare col weberiano “spirito del capitalismo”, ma che origina da concrete trasformazioni in atto, nelle modalità della produzione e degli scambi e più in generale nella scala di priorità dei fattori economici. Il diffondersi di strumenti di pagamento e di transazione diversi (le lettere di cambio prima, le banconote poi – alla fine del XVII secolo nasce la Bank of England), la grande svalutazione dell’epoca Tudor, il prevalere dell’idea che la salute economica, pubblica e privata, vada misurata sulla base dei volumi del commercio e degli indici della produzione (o anche sulle rese, e non sull’estensione, dei terreni agricoli), fanno tramontare l’associazione della ricchezza con la moneta. La diffidenza nei confronti del denaro accomuna anzi, sia pure con motivazioni diverse, i Livellatori – Win-staley parla di serpente-denaro, i Diggers ne ripudiano l’uso – ai proprietari terrieri, che hanno patito in prima persona le conseguenze della lunga fase inflazionistica. La moneta viene identificata con la corona e con l’esecutivo in genere, che ne detengono il conio e la usano in funzione di riserva di valore, e quindi la immobilizzano, mentre i liberisti vogliono velocizzarne l’uso. Tesaurizzare la moneta significa sottrarla alla circolazione, alla sua specifica natura di strumento, per trasformarla in un fine.
In questo senso l’etica puritana della sobrietà e del risparmio, alla quale Mandeville opporrà il ruolo positivo del lusso, il nesso tra produzione e distruzione, non è in realtà assolutamente ispirata ad un qualsivoglia anelito alla tesaurizzazione. La rinuncia al consumo è concepita al contrario dai puritani in funzione dinamica: l’aumento della moneta deve tradursi in nuovi investimenti, concretizzarsi in azioni e cose che consentano una crescita quantitativa del benessere comune.
Lo spostamento generalizzato dell’attenzione dalla qualità alla quantità, nella teoria come nella produzione, riflette dunque un interesse sempre più ampio per la matematica, ma anche per ogni altra estensione o applicazione del metodo baconiano. Nel campo degli studi politici ed economici si registra ad esempio la presenza di molti medici (Locke e Mandeville saranno tra questi). Non è soltanto questione di un livello di studi superiore; c’entra anche una specificità pratica. Si direbbe infatti che ai medici riesca naturale traslare l’idea di organismo umano in quella di organismo sociale ed economico. La medicina sconfina inoltre nella sfera politica in relazione al problema demografico, che a sua volta ha un rapporto evidente con la matematica. L’aumento della popolazione, dovuto soprattutto ad una diminuzione della mortalità infantile, è riconosciuto come un successo dell’arte medica, ma viene positivamente valutato anche sotto il profilo politico ed economico (almeno sino a Swift e a Malthus). La crescita demografica, che in precedenza era caldeggiata soprattutto per finalità militari, risulta ora funzionale al fabbisogno di manodopera per la nascente industria. E non solo: si comincia anche a coglierne un altro aspetto, in una prospettiva economica decisamente moderna. Crescono infatti i potenziali consumatori, oltre che i produttori: e questo induce a volgere lo sguardo al mercato interno, oltre che a quello esterno, fino a questo momento riferimento unico nella valutazione dell’economia.
Sono soltanto alcuni esempi di come il cambiamento dell’approccio scientifico abbia ricadute in tutti gli ambiti, anche in quelli che parrebbero più estranei. Potrei citarne altri: la razionalizzazione del bilancio, la visibilità delle reali dimensioni del debito offerta dalle cifre, rende evidente la necessità di un contenimento della spesa pubblica: appare necessario mantenere meno nobili, meno ecclesiastici, meno giuristi, ecc… Allo stesso modo, il numero crescente dei poveri, o anche solo la diversa percezione che si ha del fenomeno nella società moderna, richiedono di tradurre in attivo (cioè in attività produttiva) il potenziale peso delle nuove masse: e danno origine alle leggi sui poveri, che prevedono una sorta di lavoro forzato. Il tutto all’insegna del modello fissato da Bacon: gente utile alla ricchezza nazionale. Ma ci fermiamo qui, perché ciò che si voleva sottolineare era solo la complessità e l’ampiezza dei risvolti indotti da un cambiamento dell’approccio conoscitivo.
Ogni lettura a posteriori consente naturalmente di individuare nelle vicende storiche dei sintomi che non apparivano affatto tali ai contemporanei, e spesso ne forza l’interpretazione. Questo vale tanto più per gli spunti di lettura sopra proposti, perché ho solo cercato di delineare in maniera molto impressionistica, e quindi in un’ottica decisamente personale, uno sfondo per gli eventi che ho raccontato. Mi sembra però di poter affermare che tutto sommato coloro che vissero la rivoluzione, anche quando non la percepirono come tale, erano abbastanza consapevoli della novità e dell’importanza di quanto stava accadendo. Abbastanza da averne in molti casi paura e da esserne quasi tutti sconcertati. Paradossalmente, la paura per una rivoluzione che non c’era stata, e che forse non era neppure stata sfiorata, agì nelle epoche successive da deterrente nei confronti di ogni possibile palingenesi, e indusse un numero sempre crescente di inglesi a guardare alle possibilità di cambiamento non più in chiave millenaristica, ma in termini di dialettica e di confronto politico.
Che è come dire in termini di modernità.
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[1] Il testo prende spunto da una conferenza tenuta agli studenti del Liceo Scientifico “Amaldi” e dell’Istituto Professionale “Boccardo” di Novi Ligure nel dicembre 2007. Non è la trascrizione letterale, ma non si discosta dai temi e dai modi della trattazione.
[2] Per la sola Inghilterra si stimano, nel periodo della guerra civile, tra il 1640 e il 1660, centomila vittime (nel computo non sono compresi irlandesi e scozzesi, che in effetti furono oggetto di una guerra di conquista). Rispetto ad una popolazione di 5 milioni, è una percentuale del 2%. In Germania e nell’Europa centrale il calo demografico dovuto alla Guerra dei Trent’anni è di quasi quattro milioni, su una popolazione di venti, pari ad una percentuale del 20% (e non sono computati i morti francesi, svedesi e spagnoli).
[3] Per John Lilburne, uno dei maggiori teorici dei Livellatori, “I re inglesi sono discendenti del Bastardo (Guglielmo il Conquistatore), ladro invasore e tiranno, che ha ripartito le terre dei padri inglesi tra i suoi scagnozzi predoni, furfanti e borsaioli, creandoli duchi, conti e baroni per averlo aiutato a sottomettere e ridurre in schiavitù il libero popolo inglese”.
[4] In The trew law of free monarchies, del 1598, e nel Basilicon Doron, del 1599.
[5] Lo storico settecentesco E. H. Clarendon riassume così lo sviluppo e le idealità della gentry: “I gentiluomini di antiche famiglie e proprietà erano per la maggior parte ben disposti verso il Re […] ma vi era un ceto di grado inferiore che, attraverso una buona agricoltura, l’industria e il commercio dei panni, ed altri mestieri rigogliosi, aveva accumulato grandi fortune e, occupando per gradi le terre dei gentiluomini, si adirava di non godere della stessa stima e reputazione di coloro di cui possedeva le tenute, e perciò, con maggiore industriosità degli altri, studiava tutti i modi possibili per rendersi importante: questo ceto, sin dall’inizio, sostenne con energia il Parlamento”. (Life)
[6] Le famiglie appartenenti alla gentry censite ai primi anni del XVII secolo sono circa tredicimila, delle quali tremila con redditi superiori alle mille sterline annue, le altre con redditi superiori alle duecentocinquanta sterline. Una stima per eccesso, che prenda in considerazione un modello di famiglia patriarcale allargata sino alla seconda generazione, può spingersi sino ad un massimo di duecentomila persone, il 4% della popolazione. Nello stesso periodo le famiglie appartenenti all’aristocrazia nobiliare non sono più di duecento.
[7] Già prima della rivoluzione, tuttavia, nel 1628, secondo i calcoli di un contemporaneo l’oligarchia plutocratica dei Comuni possedeva una ricchezza tre volte superiore a quella dei Lords.
[8] Sia pure con vari passi indietro. Il monopolio sulla stampa, con implicita facoltà di controllo e di censura preventiva, era stato concesso dalla regina Anna ad un gruppo ristretto di librai ed editori, ma nel tempo era stato regolarmente disatteso. Ripristinato da Laud, cancellato nel 1641 dal parlamento, sarà reintrodotto dal parlamento stesso nel 1643, suscitando tra le altre sdegnate reazioni anche l’appassionata perorazione della libertà di stampa di John Milton, l’Areopagetica. Una nuova liberalizzazione sarà operata nel 1646, mentre nel 1649 verrà ripristinata la censura. Ma il provvedimento non avrà mai molta efficacia.
[9] Tra le altre pubblicazioni, oltre a “The Moderate”, il periodico dei Livellatori di cui si parlerà più avanti, va segnalato il “Mercurius Pragmaticus” che è il portavoce del fronte realista.
[10] “Colui che desidera vivere in uno stato come quello della libertà e del diritto di tutti a tutto si contraddice. Infatti ogni uomo per naturale necessità desidera il proprio bene, al quale è contrario quello stato in cui noi supponiamo l’esistenza di una lotta tra uomini per natura eguali e in grado di distruggersi l’un l’altro. […] Da qua si capisce che le leggi naturali, non appena sono conosciute, nessuno riceve la sicurezza di poterle osservare senza danno.” (Hobbes, De cive, V,1.)
[11] Il termine deriva da una particolare forma di ribellione dei contadini scozzesi, che livellavano le siepi usate per recintare i terreni un tempo comuni. Era già stato usato, in senso negativo, nel 1607, in occasione di una rivolta contadina culminata appunto con l’abbattimento delle recinzioni.
[12] L’anabattismo è in realtà alle spalle di tutto il movimento, attraverso l’adesione diretta, come nel caso di Lilburne, o per filiazione. Ai tempi della Riforma si era diffuso in Inghilterra rapidamente e già nel 1535 erano stati bruciati sul rogo in un solo giorno 25 adepti. Gli esuli inglesi come Overton avevano poi conosciuto la confessione in Olanda nelle sue forme più evolute, attraverso i mennoniti. Nel 1647 c’erano comunque nella sola Londra ben 7 cappelle anabattiste.
[13] L’elettorato potenziale, agli inizi degli anni Quaranta, comprende comunque già tra il 30 e il 40% della popolazione adulta di sesso maschile.
[14] Dalla suddivisione della storia del mondo in cinque età, o monarchie, la penultima delle quali, quella vigente, sarebbe la monarchia dell’Anticristo romano, mentre l’ultima, prossima a venire, sarà quella dei giusti.
[15] Le trasformazioni economiche, gli innumerevoli passaggi di proprietà, le recinzioni, le dispute tra fittavoli e padroni, le petizioni rivolte ai sovrani, al parlamento o agli istituti amministrativi locali fanno assurgere a primaria importanza gli avvocati. Il resto lo fanno le trasformazioni politiche, il ruolo assunto dalla Camera dei Comuni, nella quale i giureconsulti sono presenti come rappresentanti delle città. Molti di essi si costruiscono vere e proprie fortune, e difendono tenacemente l’uso del latino o del francese nei tribunali, per rendere più cari i loro servizi. Assumono un grande peso, nel corso della guerra civile, per il ruolo di polemisti in controversie che si basano sulle citazioni bibliche, ma anche sul ricorso alla giurisprudenza consuetudinaria. In questo senso ottengono una vittoria piena. Vengono infatti abolite dopo la restaurazione le corti prerogative, che applicavano la legge secondo il diritto romano, mentre sono confermati i tribunali che la applicano secondo il diritto consuetudinario. In questo modo diventa molto più difficile e complesso padroneggiare la materia, basata su verdetti che si perdono nella notte dei tempi, ed è in compenso più facile manipolare la giurisprudenza.
[16] Natural and political conclusion upton the state and conditions of England, 1696. Il manoscritto venne in realtà pubblicato solo nel 1802.
[17] È interessante il fatto che un secolo prima sir Thomas Smith in The Commonwhealt of England (1590) considerava “cittadini, borgatari e Yeomen” non partecipi della fascia dei “politicamente attivi”, mentre William Harrison nella Description of England (1577) riservava l’attribuzione di un titolo a chi non era necessitato a lavorare o svolgeva un’attività intellettuale.
[18] La sintesi di King riassume le indagini conoscitive realizzate in tutte le contee del regno ai fini dell’applicazione di una cauta imposta progressiva sul reddito.
[19] Hobbes insiste sull’apatia popolare, che addebita naturalmente alla natura debole, quando non malvagia, degli uomini. “Erano ben pochi, fra il popolo comune, quelli che si appassionavano all’una o all’altra causa; ma si sarebbero schierati con chiunque, o per denaro, o in vista di saccheggi.” (Behemoth)
[20] La storia dell’organizzazione assistenziale e della legislazione sul pauperismo offre una possibilità paradigmatica di lettura. Il problema dei poveri era endemico nella società medioevale, ma era diventato esplosivo in Inghilterra dopo la soppressione dei monasteri, che aveva di fatto liquidato la tradizionale organizzazione caritativa senza sostituirla con qualcos’altro. Un decimo della popolazione era censita attorno alla metà del ‘500 come priva di mezzi autonomi di sussistenza, e tanto Enrico VIII come Edoardo VI avevano emanato leggi duramente repressive contro la mendicità e il vagabondaggio, che prevedevano pene corporali, gogna, marchiatura a fuoco e persino la riduzione in schiavitù. Naturalmente, questi provvedimenti non avevano minimamente ridotto il problema: erano solo il preludio ad un intervento legislativo ben più organico, la Poor Law elisabettiana, emanato nel 1598, nel quale alle misure repressive viene associato un modello organizzativo di soccorso, ma viene soprattutto affermato il concetto dell’assistenza attraverso il lavoro. I poveri validi debbono essere avviati al lavoro, i giovani all’apprendistato, con costi ripartiti su tutta la popolazione attraverso una specifica imposta. L’Act of settlement non aggiunge nulla di nuovo sul piano dell’assistenza, ma inasprisce i controlli e stabilisce parametri che allargano ulteriormente la fascia della povertà.
[21] Bruno scrive in Inghilterra lo Spaccio della bestia trionfante, schierandosi in sostanza al fianco di Elisabetta e dei vertici della chiesa anglicana contro i puritani, al momento dell’imposizione del Common prayer book. L’elemento polemico sostanziale nei confronti del puritanesimo riguarda la diversa valutazione dell’operosità intellettuale e manuale dell’uomo, che per B. è l’elemento caratterizzante appunto l’umanità, mentre per i primi puritani, ancora molto legati al luteranesimo, non concorre alla salvezza, che può essere ottenuta solo per fede. Diverso sarà il discorso nel secolo successivo, con un puritanesimo più orientato verso il calvinismo. Il dissenso di Bacon concerne invece la concezione sapienziale, il legame della filosofia di Bruno con l’ermetismo.
[22] Nella versione più avanzata di questa interpretazione antropologica Hobbes vede l’uomo non più come un essere dotato per nascita oltre che di senso, di istinti e di passioni, anche della ragione, ma come il risultato di un processo evolutivo nel corso del quale il costituirsi di inclinazioni e di capacità lo portano appunto a differenziarsi dagli animali e a qualificarsi come umano.
[23] Nel corso dei suoi numerosi viaggi sul continente Hobbes, oltre ad aver conosciuto personalmente Galileo, ha stretto legami soprattutto col gruppo francese di padre Mersenne, con Gassendi e coi circoli cartesiani. Di Cartesio condivide la valorizzazione della ragione come attributo proprio ed eminente dell’uomo: ma a differenza di Cartesio ritiene che questa funzione sia posseduta, sia pure al livello inferiore della previsione, da tutti gli animali. Ritiene inoltre che l’uomo sia un animale simbolico, per il quale la facoltà di ragionare è conseguenza dell’uso del linguaggio.
[24] Nell’epoca delle recinzioni acquistano ad esempio particolare importanza le tecniche di rilevazione dei terreni e di misurazione dei campi, e quindi gli studi sulla trigonometria: una delle nuove figure professionali di maggiore spicco nel panorama inglese del Seicento, e una delle più odiate dalle popolazioni rurali, a ragion veduta, è quella dell’agrimensore.