Ancora su “Biografie e bibliografie”

Copertina per incontri tematici2di Carlo Prosperi, 27 gennaio 2023

La mostra “sentieri in utopia“ è tutt’altro che conclusa: prosegue semmai virtualmente. Continuiamo infatti a proporre le trascrizioni o le rielaborazioni degli interventi effettuati dagli amici in occasione dei tre “incontri” di conversazione.

È la volta ora di Carlo Prosperi, che con la consueta puntualità e acutezza allarga il campo d’indagine al rapporto vita-opere negli intellettuali di ogni epoca. Il tema in effetti è sempre “caldo”, ed è decisamente insidioso. Come scriveva in un precedente intervento Maurizio Castellaro, a proposito dei nostri eroi letterari: “[…] la loro vita reale aveva un qualche rapporto con quello che scrivevano? Davvero, da queste domande non ne esco vivo, e allora provo a semplificare”. Bene, ci provo anch’io, limitandomi però per il momento a rilanciare, anzi, a riformulare la domanda. Ovvero: dando per scontato che un rapporto tra come si vive e cosa si scrive esiste sempre, la linearità o la contraddittorietà di questo rapporto hanno una qualche rilevanza “oggettiva” come strumenti di interpretazione (e diciamolo pure, di valutazione) dell’opera? Detto più brutalmente: visto che l’autore scompare e l’opera rimane, devo leggere quest’ultima senza lasciarmi influenzare da eventuali incoerenze biografiche e dalle insofferenze che queste mi ingenerano? Personalmente ho dei dubbi in proposito, ma mi riservo di argomentarli in altra occasione: e lascio spazio a Carlo, che molti di quei dubbi me li ha già sciolti.
P.S. Non tutte le immagini che abbiamo inserite sono associabili a questo testo. Ma al tema, indubbiamente, si. (Paolo Repetto)

Sono convinto che la biografia sia importante per comprendere l’opera di un autore o, meglio, le motivazioni che l’hanno indotto a scrivere e magari a scegliere certe tematiche invece di altre. Ma nella biografia vanno comprese le influenze che cultura e letteratura, cioè le letture fatte, la bibliografia esperita, hanno esercitato su di lui. Il compianto Giorgio Barberi Squarotti soleva dire che, sì, la realtà storica, le milieu et le moment, e la stessa vita, la psicologia dell’autore valgono a spiegarne gli orientamenti ideali e ideologici, le idiosincrasie, a volte anche la mentalità, la preferenza per taluni argomenti, ma non sono decisivi. Al limite, i soggetti trattati sono indifferenti: quello che conta è come vengono trattati, la forma che assumono, i generi in cui si inseriscono (dialogicamente), lo stile. Senza contare che spesso lo scrittore si misura e fa i conti con l’immaginario collettivo, con il patrimonio di storie, di idee, di miti, di topoi e di suggestioni (anche figurative, musicali e cinematografiche) che lo alimentano. Tra questo – che costituisce il mondo delle forme – e la realtà c’è un continuo rimpallo, un assiduo rimbalzo, una contaminazione perenne: in altre parole, un rapporto dialettico permanente. Fondamentale, insomma, è l’intertestualità, perché la letteratura è un inesauribile gioco di specchi.

Di Omero, ma anche degli autori della Bibbia, de Le mille e una notte, di tante altre opere mitografiche, epiche o narrative, come, ad esempio, il Kalevala, La storia di Gilgamesh, i Veda, poco o nulla sappiamo, ma la contestualizzazione storica e geografica ci aiuta a comprenderne lo spirito: segno che lo Zeitgeist lascia sempre un’impronta notevole sulla produzione estetica. Nessuno sfugge al proprio tempo, alla realtà materiale e culturale che lo informa. Negli stessi classici è possibile cogliere la temperie dell’epoca, tracce di colore locale e temporale; se sono classici, però, è perché il loro respiro li trascende, perché più di altre opere sanno scavare a fondo nel cuore e nell’anima dell’uomo, cogliere e testimoniare quanto c’è in essi di perenne, oserei dire di eterno. Chi non crede nella “natura umana”, chi la nega, chi ritiene che l’uomo sia un animale come gli altri, vale a dire un prodotto della storia e dell’evoluzione, la penserà diversamente.

Ciò considerato, possiamo affrontare il problema della coerenza tra vita e opera. Che è anche il problema dell’identità. Ora, solo Dio – se esiste e se è fuori del tempo – può vantare un’identità perfetta, stabile e assoluta, non soggetta agli inconvenienti dell’esistenza. Ma per chi vive nel mondo sublunare l’identità deve scendere a patti col divenire, declinarsi come processo: è quindi un punto che si fa linea. E la coerenza coincide sostanzialmente con la rettitudine: concetto che potremmo spiegare come un accordo tra il prima e il poi, come un adeguamento non conflittuale o comunque in grado di riassorbire senza traumi ogni contrasto in una sintesi di vecchio e nuovo che si configuri come un arricchimento progressivo. Come una crescita della persona. Senza degenerare, senza tralignare, senza tradire. Ovviamente, dal momento che lo spirito è forte, ma la carne è debole, dinanzi agli infiniti bivi o trivi che la vita ci presenta sono sempre possibili dubbi, esitazioni, errori, smarrimenti. Tale evenienza era dagli antichi raffigurata nell’immagine di Ercole al bivio. L’importante è ravvedersi per tempo. Errare è umano, diabolico perseverare. La coerenza esige tempestivi aggiustamenti di rotta, al di là, appunto, dei possibili traviamenti. Solo all’intransigenza dei moralisti sfugge che l’uomo è un “legno storto”. Nel loro astratto rigore, essi non perdonano all’uomo le sue contraddizioni, ma il mondo in bianco e nero che essi vedono non è quello, ricco di infinite nuances (e di colori), che ci sta davanti agli occhi: è un mondo daltonico. O manicheo. La coerenza che essi pretendono alberga solamente nell’iperuranio. Questo per dire che, quando si parla di coerenza, non si deve esagerare. Noi ci accontentiamo di un’onesta rettitudine.

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Poi, anche qui, si può discettare di evoluzione e di involuzione. Ma non è detto che a distinguere la prima dalla seconda non concorra l’orientamento ideologico di chi giudica, guardando da fuori. Mettiamo che il punto di partenza, anzi il presupposto, alla luce dell’esperienza via via maturata si riveli sbagliato: sarà più onesto, allora, proseguire sulla via intrapresa in nome di una presunta coerenza o invertire marcia? O imboccare un’altra strada, anche a costo di rinnegare le scelte fatte in precedenza, in buona fede ma senza averne adeguata contezza? La coerenza nel perseguire la verità in questo caso fa aggio sull’ostinazione, che è coerenza ingiustificata e quindi solo apparente. Per spiegarmi meglio, voglio portare qualche esempio. Prendiamo Dante, passato dall’aristotelismo radicale del Convivio, incentrato su una fede assoluta nelle potenzialità della ragione, vista come unica bussola per chi voglia «seguir virtute e canoscenza», alla fede nella teologia incarnata da Beatrice, disdegnata invece dall’amico Guido Cavalcanti. La Divina commedia, sotto tale aspetto, si presenta come una palinodia del trattato, rimasto non a caso incompiuto. Nel Purgatorio il poeta taccia di follia la presunzione della ragione: «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone»; e pertanto ammonisce i lettori: «State contenti, umana gente, al quia, / ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria, // e desiar vedeste sanza frutto / tai che sarebbe lor disio quetato, / ch’etternalmente è dato lor per lutto» (ed accenna ad Aristotele, a Platone e a “molti altri”). Invece di imitare Ulisse nel «folle volo»[1] che lo porta a perdersi senza risultato, ingannando con la sua splendida retorica[2] i pochi compagni superstiti, Dante si ravvede e alla hybris della ragione preferisce l’umiltà (ne è simbolo il giunco di cui lo cinge Catone sul lido del Purgatorio), la pietas di Enea che tanto contrasta con l’empietà di Ulisse (esemplificata non solo dall’aver trascurato i suoi doveri di padre, di marito e di figlio, sì anche dall’aver violato i limiti posti da Ercole «acciò che l’uom più oltre non si metta»).

La fraudolenza che condanna il Laertiade all’inferno è nelle parole, anzi nell’«orazion picciola», con cui egli convince la «compagna / picciola» a seguirlo nell’impresa dissennata: le nobili motivazioni da lui addotte sono mistificanti. Quale “virtù” può infatti animare chi trasgredisce consapevolmente le leggi divine e umane? Non certo quella che deriva, a suo dire, dal «divenir del mondo esperto / e delli vizi umani e del valore», giacché sa bene di avventudi di avventurarsi in un «mondo sanza gente». Ed anche la sua profana curiositas rimarrà delusa: egli non avrà contezza alcuna né della montagna «bruna / per la distanza» che riuscirà solo a intravedere né della vera ragione del suo naufragio. Si renderà nondimeno conto – per dirla in termini zanzottiani – dell’“oltraggio” rappresentato dalla sua “oltranza”, ma non dell’identità del suo punitore, che resterà per lui un’oscura forza del destino: «come altrui piacque». La via scelta da Dante, all’insegna della humilitas, è per contro destinata al successo. E il poeta ne ha (e ne dà) un segno nel giunco che miracolosamente, proprio «come altrui piacque», spunta al posto di quello strappato da Catone per munirne Dante sulla spiaggia del Purgatorio. Il viaggio ultraterreno del poeta – che sa benissimo di non essere né Enea né San Paolo – si realizza nel segno della grazia, non della sfida.

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Ancora su Biografie e bibliografie (5)Un altro esempio, piuttosto clamoroso, di apparente incoerenza o, se vogliamo, di involuzione è quello di Giosue Carducci: giacobino sfrenato (basti pensare ai sonetti del Ça ira) e anticlericale (fino a rasentare la blasfemia nell’Inno a Satana) in gioventù, nell’ultima fase della sua vita giungerà a riconoscere i meriti sia della monarchia sia del cristianesimo (cfr. La chiesa di Polenta) e in ogni caso i bollori rivoluzionari della giovinezza si stempereranno in una visione più pacata e pacificata della realtà. Vi contribuiranno pure le sventure familiari, come la morte del fratello e del figlioletto, ma anche l’incontro con la regina Margherita, dal cui fascino femminile resterà ammaliato. Parafrasando un detto famoso, mi verrebbe da dire: chi non è stato “rivoluzionario” a vent’anni non è mai stato giovane, chi continua ad esserlo in seguito non ha mai raggiunto la maturità. Ma a questo punto si può ancora parlare d’incoerenza o, peggio, di involuzione? Troppo facile per “gli storici del dopo” rinvenire nella storia una razionalità e un rapporto causa-effetto che a chi l’ha vissuta da dentro, nell’hic et nunc, di rado appare come tale: speranze, illusioni, cecità e fraintendimenti ne fanno parte e la visione d’insieme che ne ha il singolo individuo è spesso “falsa” (nel senso spinoziano del termine, cioè parziale e incompleta), quando non anche viziata da egoismi o da ideologismi. Non voglio credere che quegli intellettuali e quegli scrittori che, dopo avere militato, alcuni per anni, nelle file del fascismo, all’indomani della sua caduta passarono armi e bagagli alla corte di Togliatti, fossero tutti opportunisti e in malafede, ma nel novero molti furono tali. E non esitarono a saltare sul carro del vincitore.

Ancora su Biografie e bibliografie (6)Ma il discorso non riguarda solo gli italiani. Se prendiamo in considerazione Wystan Hugh Auden, è facile accorgersi di come suoni a vuoto (per non dire falsa) la campana dell’”impegno” di cui negli anni Trenta fu il portabandiera.

Auden fu infatti l’incarnazione di quella Auden Generation, di cui il rosso ideologico fu il colore politico dominante. Fu lui nella poesia Spain a parlare di poeti «rombanti come bombe» e della «consapevole accettazione della colpa di fronte al delitto necessario». Una frase simile – ebbe a notare George Orwell – avrebbe potuto scriverla «solo una persona per la quale l’assassinio è al massimo una parola. Il tipo di amoralità di Auden è possibile soltanto se siete il genere d’uomo che si trova sempre in un altro posto nel momento in cui si preme il grilletto». Parole profetiche: non a caso, nel settembre 1938, mentre era in corso la Conferenza di Monaco, il poeta inglese si affrettò a preparare i bagagli per emigrare negli USA. Molti intellettuali del suo calibro, in effetti, al di là delle prese di posizione a favore dei più nobili ideali, trovano difficile aderire ad altro che a se stessi. Ma qui andiamo ben oltre l’umana incoerenza: qui c’è anche del cinismo e della malafede. Cose che invece non ravvisiamo, ad esempio, nella “conversione” del Manzoni, che pure lo portò a un profondo cambiamento di poetica, oltre che di vita. E tanto meno nel progressivo accentuarsi e affinarsi del pessimismo di Leopardi nel passare dalla fase “storica” a quella “cosmica”, a quella “agonistica” della Ginestra.

Ancora su Biografie e bibliografie (7)Un certo opportunismo è stato denunciato da taluni critici anche nel Segretario fiorentino, che, da tecnico della politica, dopo essersi speso al servizio della Repubblica, mise le sue indubbie competenze a disposizione dei Medici. In questo c’è indubbiamente qualcosa di vero, ma, a ben guardare, si può rilevare una profonda e sotterranea coerenza tra il Machiavelli dei Discorsi e quello del Principe, dal momento che per lui lo Stato è comunque il bene primario, anzi l’unico fine che davvero giustifichi i mezzi [«Faccia dunque uno principe di mantenere lo Stato, e i mezzi saranno ritenuti laudevoli e da ciascuno laudati»]. E questo perché egli ha una visione antropologica negativa: l’uomo è malvagio di natura, egoista, smanioso di potere e di piacere, avido di ricchezze, tanto che «sdimentica più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio». Senza la maestà dello Stato che tiene a freno la violenza, regnerebbe l’anarchia e con essa la legge del più forte. Come i pesci di cui parlava Sant’Ireneo di Lione, il più grande mangerebbe il più piccolo. Per questo la preservazione dello Stato può richiedere pure il ricorso a mezzi estremi: non si tratterebbe di immoralità, ma di sacrifici necessari. Come quello del giocatore di scacchi che per vincere la partita deve all’uopo saper rinunciare a qualche pezzo. Come quello del chirurgo, che per salvare una vita deve essere pronto, all’occorrenza, ad amputare qualche membro. La moralità della politica, se così si può dire, è garantita dall’augusto suo compito.

Qualcuno fa notare che, nello scrivere il Principe, Machiavelli abiura la sua fede repubblicana: in realtà così non è. Egli rimane pur sempre dell’idea che la forma repubblicana di governo sia migliore del principato, in quanto, dove a governare è un Consiglio, la morte di uno degli amministratori non comporta la crisi dello Stato, mentre, se muore un principe, può crearsi una vacanza di potere e non è detto che il successore sia all’altezza del ruolo. E resta comunque il fatto che i fondatori degli Stati sono, in genere, persone singole, dotate di carisma: una qualità che non è tuttavia trasmissibile ereditariamente.

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Ma, a proposito di malafede, credo che la palma di primo della categoria, vada assegnata a Jean-Jacques Rousseau, il quale negli scritti si distinse sempre per il suo umanitarismo buonista e sempre inneggiò alla sacra triade liberté, égalité, fraternité, non esitando però ad abbandonare nei brefotrofi dell’epoca i figli nati dalle sue liaisons sentimentali. Ciò non significa che le sue opere non meritino di essere lette e tenute in considerazione; è tuttavia il caso di ricordare che molti predicano bene ma razzolano male. Per cui bisogna guardarsi da una identificazione troppo stretta tra biografia e bibliografia. Se l’arte – come abbiamo detto – è sempre un gioco di specchi, è fatale che la realtà ne riesca talora travisata. A volte redenta, a volte dannata, raramente qual essa è. Erano il Latini a dire: lasciva nobis pagina, sed vita proba. Né si può sempre presumere che un autore sia costantemente all’altezza della sua opera. Di conseguenza è lecito non provare alcuna simpatia per lui, senza per questo cessare di apprezzarne genio e talento. Almeno quando non manchino. E basterebbe, allora, fare un nome: Céline.

[1] La metafora del “folle volo”, con i remi della barca divenuti “ali”, rimanda chiaramente alla vicenda di Icaro, da tempo assunta come immagine o simbolo di hybris, d’intemperanza se non proprio di tracotanza, contro ogni classico ammonimento alla metriotes, all’est modus in rebus. La metafora s’inserisce perfettamente nell’atmosfera del canto, connotata appunto da tutta una serie di voli: da quello della trista nomea di Firenze che si spande nell’inferno a quelli delle lucciole che subentrano, a sera, alle zanzare, dal volo di Elia sul carro di fuoco alle fiammelle volitanti per la bolgia in cui ardono i fraudolenti.

[2] Si noti come Ulisse tenda artatamente ad attenuare la portata del suo discorso (quattro parole parenetiche ovvero – dice lui – una «orazion picciola») enfatizzandone però gli effetti (a fatica avrebbe potuto trattenere i suoi compagni – quattro gatti ormai, una «compagna / picciola») – dopo averli istigati). Poco resta loro da vivere (una «picciola vigilia» dei sensi e niente più): perché dunque non togliersi lo sfizio di andare ad  esperire il «mondo sanza gente»? Le motivazioni sono all’apparenza nobilissime, se l’impresa non fosse temeraria e non comportasse una sfida per certi versi prometeica e quindi sacrilega (Ercole era stato assunto fra gli Dèi). Senza contare che dove non ci sono uomini difficilmente sarà dato rinvenire «vizi umani» e umano «valore»: nel discorso c’è dunque un fondo di malafede. D’altra parte l’«orazion picciola» si apre con una captatio benevolentiae: Ulisse, il capo, apostrofa i compagni chiamandoli “fratelli” e prosegue con una iperbole («per cento miglia / perigli») ed una anfibologia («siete giunti all’occidente»: l’occidente qui non è solo un’indicazione geografica, ma sta pure a indicare il tramonto, la fase declinante della vita), con una perifrasi metaforica (appunto la «così picciola vigilia / de nostri sensi, ch’è del rimanente») e una litote («non vogliate negar»); tutto è infine suggellato dalla gnomica considerazione finale, che tanti critici hanno preso per oro colato, dimenticando che di nobili intenzioni è lastricata la strada dell’inferno. Sono i guasti della retorica. Ulisse riesce a guadagnarsi la solidarietà o, meglio, la complicità dei compagni ammannendo loro un piccolo capolavoro di mistificazione.

Natura e letteratura per cammini di viandanza

Copertina per incontri tematici2di Fabrizio Rinaldi, 10 dicembre 2022

Pubblichiamo la trascrizione di un momento dell’incontro “Natura e letteratura”, nell’ambito della mostra sentieri in utopia.

Ad avvicinare coloro che sarebbero poi diventati i Viandanti delle Nebbie, prima ancora che nascesse l’amicizia, furono le comuni letture di libri nei quali il rapporto con la natura veniva proposto senza eccessive epiche parolaie. È stato quindi decisivo per ciascuno, oltre alla frequentazione di Paolo, individuare le coordinate per le proprie letture in scrittori che avevano messo al centro della narrazione il rapporto con il bosco, la montagna, il mare o semplicemente con la quotidianità contadina, magari con approcci differenti e in tempi non troppo lontani.

C’era chi si riconosceva nella tendenza di Hemingway a raccontare la lotta con gli elementi e quindi le resistenze, le sconfitte o le pochezze umane. Chi si ritrovava nelle parole di Chatwin, per il quale le descrizioni dello spazio naturale (anche cantato, come per l’Australia) erano l’espediente per indagare la propensione umana all’inquietudine, l’irrequietezza che assale quando si è costretti a sostare in un posto per troppo tempo e a soffocare l’istinto di cercare ciò che sta oltre il conosciuto (magari – come nel suo caso – dormendo a scrocco da amici accondiscendenti). Oppure chi amava i racconti di Conrad e Melville, nei quali le superfici acquee su cui si svolgevano le cacce all’uomo o alla balena permettevano di immergersi nelle linee d’ombra dell’anima. C’era anche chi si immedesimava nel vivere appartato (ma non troppo) di Thoreau, che aveva fatto scuola (wilderness) con la sua propensione a ricaricare i neuroni vivendo nel bosco, eludendo la crescente frenesia della modernità e la compulsione a fagocitare tutto ciò che ci sta attorno, senza badare alle reali necessità.

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I miei occhi sono nuovi.
Tutto quello che vedo è come non veduto mai;
e le cose più vili e consuete,
tutto m’intenerisce e mi dà gioia.

Personalmente a queste vette della letteratura mondiale accosto due autori italiani. Nelle antologie scolastiche Camillo Sbarbaro è inserito tra i poeti del Novecento con una smilza paginetta e con una poesia dedicata al padre, legata ancora a quella metrica classica che appariva superata rispetto al suo contemporaneo Ungaretti. Traduttore dei classici greci, Sbarbaro ha saputo conciliare una vita estremamente ritirata con le intense amicizie che lo legavano a intellettuali come Montale, Campana e Pound; ma soprattutto inviava e riceveva dagli Stati Uniti dei pacchi contenenti croste secche apparentemente insignificanti, con indecifrabili nomi in latino, tanto che venne indagato dalla polizia fascista per atti ostili al regime. Dietro la sua pacatezza nello stare al mondo celava un’immensa conoscenza del mondo dei licheni. Autodidatta, ne divenne uno dei più importati esperti, tanto che la sua collezione è suddivisa oggi tra il museo di Storia Naturale di Genova e altre collezioni sparse nel mondo. Uno così non poteva non entrare nel novero degli ispiratori del nostro pensiero, per la sua propensione verso le cose insignificanti che gli capitavano e che vedeva. Oltretutto, era stato anche un gran camminatore lungo i sentieri liguri, sempre alla ricerca delle sue amate e naturali esistenze in sordina.

  • Il lichene prospera dalla regione delle nubi agli spruzzati dal mare. Scala le vette dove nessun altro vegetale attecchisce. Non lo scoraggia il deserto; non lo sfratta il ghiacciaio; non i tropici o il circolo polare. Sfida il buio della caverna e s’arrischia nel cratere del vulcano. Teme solo la vicinanza dell’uomo. Per questa sua misantropia, la città è la sola barriera che lo arresta. Se lo varca ci rimette i connotati. Il lichene urbano è sterile, tetro, asfittico. Il fiato umano lo inquina.
  • Più tardi, preso a mano dalla mia predilezione per le esistenze in sordina, mi volsi a forme più scartate di vita.
  • Mi ingombra la stanza, la impregna di sottobosco un erbario di licheni. Sotto specie di schegge di legno, di scaglie, di pietra contiene pocomeno un Campionario del Mondo. Perché far raccolta di piante è farla di luoghi.

159 Mario Rigoni Stern

Il momento culminante della mia vita non è quando ho vinto premi letterari o scritto libri, ma quando sono partito dal Don con 70 alpini e ho camminato verso occidente per arrivare a casa. Sono riuscito a sganciarmi dal mio caposaldo senza perdere un uomo, riuscire a partire dalla prima linea organizzando lo sganciamento, quello è stato il capolavoro della mia vita.

L’altro mio autore di riferimento è Mario Rigoni Stern. È conosciuto soprattutto per Il sergente nella neve, in cui ha descritto il “capolavoro” della sua vita, l’aver riportato in patria tutti i suoi commilitoni durante la ritirata dalla Russia. Ma al di là di questo ci è affine soprattutto per la denuncia dei dissesti ambientali (quando ancora non era una moda), per le attente descrizioni di ciò che avviene nel bosco, e soprattutto per la corrispondenza fra ciò che scriveva e ciò che faceva: una coerenza esemplare, che quasi metteva soggezione perché presente in ogni suo gesto, a partire da come accatastava la legna o coltivava l’orto.

  • inserto dolomitiCome vivere? Allora questa domanda ce la dobbiamo porre non soltanto alla fine di un millennio, di un secolo, di un anno, ma tutti i giorni, e tutti i giorni svegliandoci, si dovrebbe dire: “Oggi che cosa ci aspetta?”. Allora io considero che si dovrebbero fare le cose bene, perché non c’è maggiore soddisfazione di un lavoro ben fatto. Un lavoro ben fatto, qualsiasi lavoro, fatto dall’uomo che non si prefigge solo il guadagno, ma anche un arricchimento, un lavoro manuale, un lavoro intellettuale che sia, un lavoro ben fatto è quello che appaga l’uomo. Io coltivo l’orto, e qualche volta, quando vedo le aiuole ben tirate con il letame ben sotto, con la terra ben spianata, provo soddisfazione uguale a quella che ho quando ho finito un buon racconto. E allora dico anche questo: una catasta di legna ben fatta, ben allineata, ben in squadra, che non cade, è bella; un lavoro manuale quando non è ripetitivo è sempre un lavoro che va bene, perché è anche creativo: un bravo falegname, un bravo artigiano, un bravo scalpellino, un bravo contadino. E oggi dico sempre quando mi incontro con i ragazzi: voi magari aspirate ad avere un impiego in banca, ma ricordatevi che fare il contadino per bene è più intellettuale che non fare il cassiere di banca, perché un contadino deve sapere di genetica, di meteorologia, di chimica, di astronomia persino. Tutti questi lavori che noi consideriamo magari con un certo disprezzo, sono lavori invece intellettuali.

  • Per diventare amici, prima bisogna annusarsi, come i cani poi, se non ci si è morsi, può nascere l’amicizia.

Con Primo Levi e Nuto Revelli sognava di andare per boschi e montagne, in silenzio. Ecco, credo che non si potrebbe desiderare nulla di meglio che questa visione di sobria eternità: vagare con le persone care facendo esperienze. Era il suo “pensiero anarchico”.

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È questo che – istintivamente e senza una dichiarazione esplicita – ispira l’immagine dei due viandanti nella locandina della mostra sentieri in utopia. L’uno indica all’altro ciò che attrae la sua attenzione: in questo caso una luce conduce fuori dalla nebbia, ma da sempre i Viandanti hanno segnalato ai sodali degli “stupa”, quelle letture che sapevano essere di comune interesse. Non è un semplice consigliare libri, ma il desiderio di condividere un percorso da fare assieme, uno accanto all’altro. Per questo la maggior parte delle pubblicazioni dei Viandanti è accompagnata da una bibliografia, e nella rivista “ufficiale”, sguardistorti, la rubrica finale Punti di vista segnala anche i luoghi per i quali vale la pena mettersi in viaggio.

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Questa carrellata di “maestri” non può concludersi  senza citarne uno di fantasia, il Ken Parker creato da Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo. Lui viveva il west che stava ormai scomparendo, cacciando per sopravvivere e rifiutando un progresso di cui intravvedeva le incongruenze. È lui che ci ha accompagnato durante le escursioni e nelle letture, grazie al fatto che i suoi album sono zeppi di allusioni ai classici della letteratura di viaggio. E poi, era l’unico protagonista del west che pensava prima di premere il grilletto e che la sera, davanti al fuoco, leggeva un libro.

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Questi, naturalmente assieme a molti altri, sono stati gli intermediari fra storie personali spesso molto distanti. Senza di loro probabilmente non sarebbe stato intrapreso alcun percorso comune. La loro conoscenza è stata il nostro mezzo per “individuare ciò che non è inferno e dargli spazio”, come direbbe Calvino. E per dare vita a una forma genuina di amicizia.

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Faccio una parentesi di commento sulla mostra. L’altro giorno mi sono concesso il privilegio di guardarmela senza che ci fosse nessuno. A dire il vero la possibilità mi è stata data spesso, perché non l’abbiamo promossa nei canali mediatici, non abbiamo fatto comunicati stampa, non abbiamo invitato le rappresentanze pubbliche, ma abbiamo volutamente diffuso l’evento semplicemente con il passaparola tra amici, conoscenti e simpatizzanti del nostro viatico. Risultato? Non l’hanno vista in molti.

È snobismo, questo? Non credo. È semplicemente coerenza con l’intento di raggiungere solo chi è realmente interessato a visioni del mondo magari divergenti, ma accomunate dalla consapevolezza che viviamo in una realtà complessa. E che quindi il pensiero, per coglierla, non può essere semplicistico e sbrigativo: nessuna delle nostre pubblicazioni si potrebbe liquidare con un twitter.

Ebbene, esaminando la mostra mi sono stupito di quanto materiale sia stato prodotto in tutti questi anni. Lo sapevo già, naturalmente, perché ne ho curato la grafica, ma nel vedere esposte tutte assieme le copertine di 79 Quaderni, 31 Album, 30 numeri fra Sottotiro review e sguardistorti, per un totale di oltre 7200 pagine, senza contare un bel po’ di articoli sparsi e i 14 testi della Biblioteca, mi ha impressionato l’incredibile varietà dei temi trattati.

Quella mole di riflessioni e l’idea del tempo che sta alle loro spalle mi ha confermato che i Viandanti hanno occupato una parte importante della nostra vita: di quella di Paolo senz’altro, visto che ha scritto o curato molti di questi testi, ma non solo della sua. Negli anni hanno contribuito in molti, attivamente o come semplici fruitori: e questo ha fatto sì che le nostre pubblicazioni continuino ad essere gratuite e siano stampabili liberamente. Per apprezzarle necessita solo una sufficiente dose di curiosità per ciò che non appare sotto i riflettori dei consueti media.

Si potrà notare che nessuno degli scrittori di cui ho parlato prima è originario dei nostri luoghi: non si tratta di un intenzionale rifiuto del campanilismo. Non ho citato Fenoglio e Pavese, che sono comunque nostri riferimenti imprescindibili, solo perché non volevo farla troppo lunga, e perché in qualche modo li do per scontati, in quanto hanno raccontato colline e storie simili alle nostre. Che è quello che anche i Viandanti hanno cercato di fare, narrando un territorio che viene spesso dimenticato.

Concludo con le parole delle mie figlie che alla domanda su cosa stessimo combinando Paolo ed io nell’altra stanza, risposero: “Stanno facendo la mostra. Si divertono così”. In effetti “divertire” significa volgere altrove, deviare. Ecco, questo facciamo: non marciamo lungo percorsi obbligati, muovendoci in branco verso mete che altri hanno fissato, ma camminiamo di lato, ai margini, pronti a deviare sui sentieri che ci danno maggiore soddisfazione. Quelli anche dell’amicizia, che sono la realizzazione della nostra utopia.

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Biografie e bibliografie

Copertina per incontri tematici2di Maurizio Castellato, 8 dicembre 2022

Pubblichiamo la trascrizione di un momento dell’incontro “Biografie e bibliografie”, nell’ambito della mostra “sentieri in utopia“.

Provo ad andare al nocciolo della questione. Perché si scrive? Camillo Sbarbaro, presente nell’ultimo Ritratti di famiglia dei Viandanti, risponde ironicamente: “si scrive per essere notati, e si continua a scrivere perché si è noti”. Proprio lui che per cercare di fare i conti con la figura paterna ha scritto poesie che valgono vent’anni di sedute psicoterapiche. Non scherziamo. Scrivevano eroi come Levi, Fenoglio, Leopardi, Foscolo, Dante. Ma scrivevano anche borghesi tranquilli come Gozzano, Montale, Eco, Saba. Se proviamo a mettere in relazione le loro biografie e le loro bibliografie alla ricerca di qualche filo conduttore ci perdiamo nel labirinto. Scrivevano per essere notati dagli altri? Scrivevano per se stessi? E soprattutto, visto il tema di partenza, la loro vita reale aveva un qualche rapporto con quello che scrivevano? Davvero, da queste domande non ne esco vivo, e allora provo a semplificare. Forse alla base del bisogno di comunicare in forma artistica (scrittura, ma non solo) ci sono motivazioni profonde e personalissime, legate a ferite non curabili, a ossessioni segrete, ognuno alle proprie dà del tu. Quella è la lava incandescente che sempre ribolle nel profondo, e non dà mai pace. La cultura entra in gioco solo dopo, sotto forma di farmaco, e così per gli autori si aprono i cantieri infiniti della costruzione dello stile, del tono di voce, della musicalità interna, dei temi (cioè dei buchi che più amiamo scavare). Forse il segreto del rapporto tra biografie e bibliografie è proprio da cercare in quello squilibrio originario che sta alla base dei percorsi esistenziali di ciascuno, e che porta poi gli autori a scegliere il canale espressivo a loro più congeniale (parola, musica, immagini, ma anche semplicemente ricerca della bellezza, ecc.). È quello squilibrio originario il gran pentolone dentro il quale rimestare il mistero di quello che siamo. È una semplificazione, ma è interessante, perché consente di estendere la questione del rapporto tra biografia e bibliografia anche al campo dei lettori (e in fondo ogni autore è prima di tutto un lettore). La nostra biografia ha anch’essa una personale bibliografia segreta, che si evolve nel tempo e che cambia sulla base degli interessi, dei bisogni, dei dolori e delle gioie. Come le nostre letture ci hanno illuminato e ci hanno cambiato? Quali gli incontri che hanno dato una svolta ai nostri percorsi (“la vita, amico, è l’arte dell’incontro” diceva il poeta)? Anche al fondo della nostra storia di lettori c’è sempre lo stesso squilibrio originario, lo stesso ribollire profondo, che non trova mai pace. Ai nostri testi fondatori diamo del tu, come alle nostre ossessioni, e a questo livello originario autori e lettori non possono che sentirsi fratelli, a prescindere da quello che son riusciti a fare delle loro vite, brevi come i sogni che le hanno orientate, nutrite e significate.

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Ritratti di famiglia

La storia è una galleria di quadri,
dove ci sono pochi originali e molte copie.

Ritratti di famiglia copertinaIn concomitanza con la mostra-rassegna delle loro attività (la prima, e con ogni probabilità anche l’unica) i Viandanti delle Nebbie offrono ai “followers” una strenna natalizia. L’idea iniziale prevedeva una plaquette sul modello dei vecchi calendarietti profumati dei barbieri, per i quali proviamo tanta nostalgia (per i libretti, ma anche per i barbieri): poi abbiamo optato per una linea meno frivola.
Distribuiremo quindi cinquanta libretti (il che significa presumere, molto ottimisticamente, un numero di lettori doppio rispetto a quelli del Manzoni) che vogliono suggerire da dove arrivano i Viandanti, chi c’è idealmente alle loro spalle. Certi dell’impunità, perché quasi tutti gli interessati non sono più in vita, ci siamo permessi di vantare nobili ascendenze.
Rispetto a molti dei personaggi evocati i gradi di separazione sono almeno quattro o cinque. Il sesto ci avrebbe portato direttamente a Gesù, e ci pareva un tantino esagerato. E tuttavia …

03 Quadri in mostraL’albero genealogico dei Viandanti è fittissimo e composito. Risalendo di due secoli (non abbiamo voluto andare oltre, era già abbastanza complicato così) si incontrano un po’ tutte le tipologie e le varietà umane: scrittori, artisti, esploratori, viaggiatori, rivoluzionari, filosofi, storici, fumettisti, ecc…). In un modo o nell’altro coloro che abbiamo rintracciato hanno contribuito a indicare percorsi, a suggerire svolte, a portare ristoro e a orientarci nella nebbia. Non sono gli unici, naturalmente, perché la nostra è una famiglia molto allargata. Potremmo citarne almeno altrettanti, e anzi, quella dei gradi meno prossimi di parentela potrebbe già essere un’idea per una strenna futura.

Abbiamo volutamente omesso ogni indicazione biografica o bibliografica relativa ai personaggi presentati. Il bello del gioco sta proprio qui: ciascuno potrà fare eventuali ricerche di approfondimento per conto proprio.
Questo è lo spirito dei Viandanti.

Nella Galleria non hanno trovato posto figure femminili. Chiamatelo maschilismo, se volete, ma di fatto non ci è venuta in mente alcuna protagonista significativa dei nostri percorsi culturali. Questo non significa che non abbiamo incontrato donne eccezionali: significa solo che queste donne non hanno lasciato il segno. Per un difetto nostro di sensibilità, indubbiamente: ma ci sembrava terribilmente ipocrita inserirne qualcuna solo in ossequio al politicamente corretto.01a Tin Tin

P.s: Il fatto che Tintin o Milù compaiano sia in prima che in quarta di copertina non è casuale: sono tra gli antenati più nobili, non potevano mancare all’appello.

04 Bustin in mostra

Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo

Isaiah Berlin

Camillo Berneri

Renzo Calegari

Albert Camus

Nicola Chiaromonte

Stig Dagermann. 12

Charles Darwin

Franz De Waal

Hans Magnus Enzensberger

Patrick Leith Fermor

Caspar David Friedrich

Piero Gobetti

Knut Hamsun

William Henry Hudson

Alexander von Humboldt 20

Pëtr Kropotkin

Furio Jesi

Toni Judt

Gustav Landauer

Giacomo Leopardi

Primo Levi

Jack London

Herman Melville

Albert Frederic Mummery

George Orwell

Hugo Pratt

Élisée Reclus

Mario Rigoni Stern

Albert Robida

J.D. Salinger

Camillo Sbarbaro

Erwin Schrödinger

Johann Gottfied Seume

George  Steiner

Robert Louis Stevenson

Henry David Thoreau

Sebastiano Timpanaro

Alexis De Tocqueville

Sergio Toppi

Alfred Wallace

Charles Waterton

Titn Tin con bandiera dei pirati con sfondo uniforme

Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo

08 Ken Parker06 Milazzo05 BerardiHo impugnato il fucile per tutta la vita, eppure, il mio popolo è stato distrutto, la mia sposa torturata a morte…
Se mio figlio vivrà dovrà trovare un altro modo di combattere…Addio, “Lungo fucile” …

Isaiah Berlin

12 Isaiah BerlinGarantire la libertà ai lupi significa condannare a morte le pecore.

Non esiste alcuna istanza primaria in base a cui la verità, una volta scoperta, debba per forza essere anche interessante

11 Isaiah Berlin

Camillo Berneri

14 Camillo BerneriL’anarchismo è il viandante che va per le vie della Storia, e lotta con gli uomini quali sono e costruisce con le pietre che gli fornisce la sua epoca. Egli si sofferma per adagiarsi all’ombra avvelenata, per dissetarsi alla fontana insidiosa. Egli sa che il destino, che la sua missione è riprendere il cammino, additando alle genti nuove mete.

 

16 Camillo Berneri

Renzo Calegari

17 Renzo CalegariQuesta storia è finita come doveva, con dei vincitori e dei vinti … il mio guaio è che non appartengo né agli uni né agli altri.

19 Renzo Calegari

Albert Camus

21 Albert CamusPerché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime. Bisogna che si cambi in esempio.


Nicola Chiaromonte

25 Nicola ChiaromonteQuando giunge l’ora in cui la morte comincia a guardarci negli occhi con una certa continuità, e quindi noi lei, se non vogliamo distogliere lo sguardo e far finta che tutto è come prima e non c’è niente da cambiare, la domanda che per pri-ma ci si articola nella mente è: Che cosa rimane?… Rimane, se rimane, quello che si è, quello che si era: il ricordo d’esser stati “belli”, direbbe Plotino… Rimane, se rimane, la capacità di mantenere che ciò che è bene è bene, ciò che è male è male, e non si può fare che sia diversa-mente (e non si deve fare che appaia diversamente).

24 Nicola Chiaromonte

La nostra non è un’epoca di fede, ma neppure d’incredulità. È un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine. 

Stig Dagermann

26 Stig DagermanLe auguro due cose che spesso ostacolano il successo esteriore e hanno tutto il diritto di farlo perché sono più importanti: l’amore e la libertà.

  27 Stig Dagerman

L’inconfutabile segno della mia libertà è che il timore arretra e lascia spazio alla calma gioia dell’indipendenza. Sembra che io abbia bisogno della dipendenza per provare infine la consolazione d’essere un uomo libero, e questo sicuramente è vero.

 

Charles Darwin

30 Charles DarwinNella lunga storia del genere umano (e anche del genere animale) hanno prevalso coloro che hanno imparato a collaborare ed a improvvisare con più efficacia.

  

 

32 Charles Darwin

Lo stadio più elevato di cultura morale si ha quando riconosciamo che dovremmo controllare i nostri pensieri.

 

Franz De Waal

33 Franz de WaalTutti sanno che gli animali hanno emozioni e sentimenti, e che prendono decisioni simili alle nostre. Gli unici a fare eccezione, sembrerebbe, sono alcuni universitari. 

35 Franz de Waal

Tutto conferma la mia visione della morale “venuta dal basso”. La legge morale non è né imposta dall’alto, né dedotta da principi accuratamente razionalizzati, ma nasce da valori ben radicati, presenti da tempo immemorabile. Il più fondamentale deriva dal valore della vita collettiva per la sopravvivenza. Il desiderio di appartenenza, la voglia di capirsi, di amarsi e di essere amati ci spingono a fare tutto ciò che possiamo per restare nel miglior rapporto possibile con le persone dalle quali dipendiamo.


Hans Magnus Enzensberger

38 Han Magnus EnzesbergerLa televisione è puro terrorismo. La parola scompare, e con la parola ogni possibilità di riflessione.

39 Han Magnus Enzesberger e Umberto Eco

Negli ultimi duecento anni le società più evolute hanno suscitato attese di uguaglianza che non si possono soddisfare; e al contempo hanno fatto sì che ogni giorno per ventiquattro ore la disuguaglianza venga dimostrata su tutti i canali televisivi a tutti gli abitanti del pianeta. Ragione per cui la delusione umana è aumentata con ogni progresso.

Al perdente, per radicalizzarsi, non basta quello che gli altri pensano di lui, siano essi concorrenti o sodali… Egli stesso deve metterci del suo; deve dirsi: io sono un perdente e basta. L’estinzione non solo di altri, ma anche di se stesso, è la sua soddisfazione estrema.

 

Patrick Leith Fermor

44 Patrick Leith FermorUna magica pace vive nelle rovine dei templi greci. Il viaggiatore si adagia tra i capitelli caduti e lascia passare le ore, e l’incantesimo gli vuota la mente di ansie e pensieri molesti e a poco a poco la riempie di un’estasi tranquilla.

45 Patrick Leith FermorNon si parte per andare da nessuna parte senza aver prima di tutto sognato un posto. E viceversa, senza viaggiare prima o poi finiscono tutti i sogni, o si resta bloccati sempre nello stesso sogno.

 

Caspar David Friedrich

47 Caspar David friedrichL’unica vera sorgente dell’arte è il nostro cuore, il linguaggio di un animo infallibilmente puro. Un’opera che non sia sgorgata da questa sorgente può essere soltanto artificio.

 

49 Caspar David friedrichPerché, mi son sovente domandato, scegli sì spesso a oggetto di pittura la morte, la caducità, la tomba? È perché, per vivere in eterno, bisogna spesso abbandonarsi alla morte.


Piero Gobetti

52 Piero GobettiIl fascismo è il governo che si merita un’Italia di disoccupati e di parassiti ancora lontana dalle moderne forme di convivenza democratiche e liberali, e che per combatterlo bisogna lavorare per una rivoluzione integrale, dell’economia come delle coscienze.

51 Piero Gobetti

Nessun cambiamento può avvenire se non parte dal basso, mai concesso né elargito, se non nasce nelle coscienze come autonoma e creatrice volontà rinnovarsi e di rinnovare.

Knut Hamsun

53 Knut HamsunQuando parlo con un uomo, non ho bisogno di guardarlo per seguire esattamente quello che dice; sento subito se egli mi dà a bere qualche cosa o me ne nasconde qualche altra; la voce, credetemi, è un apparecchio pericoloso

54 Knut Hamsun

  “Amo tre cose”, dico allora.
“Amo il sogno d’amore di un tempo, amo te e amo quest’angolo di terra.”
“E cosa ami di più?”
“Il sogno.”

 

William Henry Hudson

57 William Henry HudsonProvo un sentimento d’amicizia verso i maiali in generale, e li considero tra le bestie più intelligenti. Mi piacciono il temperamento e l’atteggiamento del maiale verso le altre creature, soprattutto l’uomo. Non è sospettoso o timidamente sottomesso, come i cavalli, i bovini e le pecore; né impudente e strafottente come la capra; non è ostile come l’oca, né condiscendente come il gatto; e neppure un parassita adulatorio come il cane. Il maiale ci osserva da una posizione totalmente diversa, una specie di punto di vista democratico,

58 William Henry Hudson


Alexander von Humboldt

61 Alexander von HumboldtCi sono popoli più acculturati, avanzati e nobilitati dall’educazione di altri, ma non esistono razze più valide di altre, perché sono tutte egualmente destinate alla libertà.

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La visione del mondo più pericolosa di tutte è quella di coloro i quali il mondo non l’hanno visto.

 

Pëtr Kropotkin

65 Petr KropotkinL’evoluzione non è lenta e uniforme come si vuol sostenere. Evoluzione e rivoluzione si alternano, e le rivoluzioni – i periodi cioè di evoluzione accelerata – appartengono all’unità della natura esattamente come i periodi in cui l’evoluzione è più lenta.

 

Non appena avrai scorto un’ingiustizia e l’avrai compresa – un’ingiustizia nella vita, una menzogna nella scienzao una sofferenza imposta da altri – ribellati contro di essa!  LottaRendi la vita sempre più intensa!

66 Petr Kropotkin

E così tu avrai vissuto, e poche ore di questa vita valgono molto di più di anni interi passati a vegetare.

 

 Milioni di esseri umani hanno lavorato per creare questa civiltà, della quale oggi andiamo gloriosi. Altri milioni, sparsi in tutti gli angoli del mondo, lavorano per mantenerla. Senza di essi, fra cinquanta anni non ne rimarrebbero che le rovine.

Furio Jesi

67 Furio JesiLa cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche  Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire. La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra.

68 Furio Jesi

Toni Judt

71 Toni JudtIl problema è che i socialisti hanno sempre nutrito una fiducia incondizionata nella razionalità degli uomini.

70 Toni Judt

Lo stile materialista ed egoísta della vita contemporánea non è inerente alla condizione umana. Gran parte di quello che a noi pare “naturale” data dalla decade del 1980: l’ossessione per la creazione di ricchezza, il culto della privatizzazione e del settore privato, le crescenti differenze tra ricchi e poveri. E, soprattutto, la retorica che li accompagna: un’acrítica ammirazione per i mercati sregolati, il disprezzo per il settore pubblico, l’illusione della crescita infinita.

 

Gustav Landauer

73 Gustav LandauerLo Stato non è qualcosa che si può distruggere con una rivoluzione, dato che esso esprime una condizione, una certa relazione tra gli esseri umani, una modalità del comportamento umano; lo possiamo distruggere solo contraendo altri tipi di relazioni, assumendo altri tipi di comportamento.

 L’anarchia non riguarda il futuro, riguarda il presente; non è questione di ciò che speri, è questione di come vivi.

 


Giacomo Leopardi

74 Giacomo LeopardiPasseggere: Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Venditore: Speriamo.

  La ragione è un lumela Natura vuol essere illuminata dalla ragionenon incendiata. 75 Giacomo Leopardi

Primo Levi

153ab Primo LeviPerché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità? A che serve la memoria?”

 

 Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo.

 

Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra. Ma questa è una verità che non molti conoscono.

156 Primo Levi

Jack London

77 Jack LondonNon era della loro tribù, non poteva parlare il loro gergo, non poteva far finta di essere come loro. La maschera sarebbe stata scoperta e, per altro, le mascherate erano estranee alla sua natura.

78 Jack London

Dalla creazione del mondola barbarie umana non ha fatto un solo passo verso il progressoNel corso dei secolil’abbiamo soltanto ricoperta  con una mano di vernice, nient’altro.


Herman Melville

154 Herman MelvilleNoi non possiamo vivere soltanto per noi stessi. Le nostre vite sono connesse da un migliaio di fili invisibili, e lungo queste fibre sensibili, corrono le nostre azioni come cause e ritornano a noi come risultati.  

157 Herman Melville

Io sono tormentato da un’ansia continua per le cose lontane. Mi piace navigare su mari proibiti e scendere su coste barbare.

156 Herman Melville

Dell’amicizia a prima vista, come dell’amore a prima vista, va detto che è la sola vera.

 

Albert Frederic Mummery

81 Albert Frederic MummeryLa via più difficile alle cime più difficili è sempre la cosa giusta da tentare, mentre i pendii di sgradevole pietrisco vanno lasciati agli scienziati. Il Grépon merita di essere salito perché da nessuna altra parte l’alpinista troverà torrioni più arditi, fessure più selvagge, precipizi più spaventosi.
Assolutamente impossibile con mezzi leali.

 

George Orwell

85 George OrwellSapere dove andare e sapere come andarci sono due processi mentali diversi, che molto raramente si combinano nella stessa personaI pensatori della politica si dividono generalmente in due categorie: gli utopisti con la testa fra le nuvole, e i realisti con i piedi nel fango.

  

Così come per la religione cristiana, anche per il socialismo la peggior pubblicità sono i suoi seguaci.

86 George Orwell

Ciò che le masse pensano o non pensano incontra la massima indifferenzaA loro può essere garantita la libertà intellettuale proprio perché non hanno intelletto.

 

 

Hugo Pratt

88 Hugo PrattQuelli che sognano ad occhi aperti sono pericolosi, perché non si rendono conto di quando i sogni finiscono.

89 Hugo Pratt - Corto Maltese

Forse sono il re degli imbecilli, l’ultimo rappresentante di una dinastia completamente estinta che credeva nella generosità!… Nell’eroismo…

Élisée Reclus

92 Elisée ReclusL’Anarchia è la più alta espressione dell’ordine. 

93 Elisée Reclus

Se noi dovessimo realizzare la felicità di tutti coloro che  portano una figura umana e destinare alla morte tutti coloro che hanno un muso e che non differiscono da noi che per un angolo facciale meno aperto, noi non avremmo certo realizzato il nostro ideale. Da parte mia, nel mio affetto di solidarietà socialista, io abbraccio anche tutti gli animali.


Mario Rigoni Stern

159 Mario Rigoni SternI ricordi sono come il vino che decanta dentro la bottiglia: rimangono limpidi e il torbido resta sul fondo. Non bisogna agitarla, la bottiglia. 

 

163 Mario Rigoni SternDomando tante volte alla gente: avete mai assistito a un’alba sulle montagne? Salire la montagna quando è ancora buio e aspettare il sorgere del sole. È uno spettacolo che nessun altro mezzo creato dall’uomo vi può dare, questo spettacolo della natura.

 

160 Mario Rigoni SternIl tempo, nella vita di un uomo, non si misura con il calendario ma con i fatti che accadono; come la strada che si percorre non è segnata dal contachilometri ma dalla difficoltà del percorso.

 

Albert Robida

96 Albert RobidaMio caro Mandibola – diceva quasi sempre Farandola terminando – abbandono definitivamente ogni idea di riforma sociale, e mi lancio con tutte le vele spiegate, nella più vasta industria. Gli affari, il commercio, ecco ciò che mi occorre; e dal momento che le grandi imprese sono necessarie alla mia salute, avanti con le gigantesche speculazioni commerciali! 

  Il vecchio telegrafo permetteva di comunicare a distanza con un interlocutore. Il telefono permise di sentirlo. Il telefonoscopio superò entrambi rendendo possibile anche vederlo. Che si può volere di più?

99 Albert Robida

J. D. Salinger

100 J D SalingerIo sono una specie di paranoico alla rovescia. Sospetto le persone di complottare per rendermi felice.

 

101 J D Salinger - Il giovane HoldenLa più spiccata differenza tra la felicità e la gioia è che la felicità è un solido e la gioia è un liquido.

 

Camillo Sbarbaro

103 Camillo SbarbaroSe potessi promettere qualcosa
se potessi fidarmi di me stesso
se di me non avessi anzi paura,
padre, una cosa ti prometterei:
di viver fortemente come te
sacrificato agli altri come te
e negandomi tutto come te,
povero padre, per la fiera gioia
di finir tristemente come te.

 

 Nella vita come in tram quando ti siedi è il capolinea.

 Si comincia a scrivere per essere notati, si seguita perché si è noti.

105 Camillo Sbarbaro

Erwin Schrödinger

107 Erwin SchrödingerIl mondo è una sintesi delle nostre sensazioni, delle nostre percezioni e dei nostri ricordi. È comodo pensare che esista obiettivamente, di per sé. Ma la sua semplice esistenza non basterebbe, comunque, a spiegare il fatto che esso ci appare.

Se questi dannati salti quantici dovessero esistere, rimpiangerò di essermi occupato di meccanica quantistica.

  106 Erwin Schrödinger

Johann Gottfied Seume

110 Johann Gottfied SeumeCamminare è l’attività più libera e indipendente, niente vi è di peggio che star seduti troppo a lungo in una scatola chiusa. 

113 Johann Gottfied Seume

In tutta la mia vita non mi sono mai abbassato a chiedere qualcosa che non abbia meritato, e nemmeno chiederò mai quel che ho meritato finché esistono in questo mondo tanti mezzi di vivere onestamente: e quando poi anche questi finissero, ne resterebbero alcuni altri per non vivere più.

115 Johann Gottfied Seume

 

George  Steiner

116 George SteinerTutta la metafisica è un ramo della letteratura fantastica.

Un genio degli scacchi è un essere umano che concentra doni mentali ampi e poco compresi, e lavora su un’impresa umana alla fine insignificante.

L’etichetta di homo sapiens, a parte pochi casi, probabilmente è solo un’infondata millanteria.

120 George Steiner

Robert Louis Stevenson

121 Robert Louis StevensonNon chiedo ricchezzené speranze, né amorené un amico che mi comprenda; tutto quello che chiedo è il cielo sopra di me e una strada ai miei piedi.
Io non ho viaggiato per andare da qualche parte, ma per il gusto di viaggiare.
La questione è muoversi.

122 Robert Louis Stevenson

La politica è forse l’unica professione per la quale non viene ritenuta necessaria alcuna preparazione specifica.


Henry David Thoreau

125 Henry David ThoreauNon c’è valore nella vita eccetto ciò che scegli di mettere in essa e nessuna felicità in nessun posto eccetto ciò che gli apporti tu.

126 Henry David Thoreau

Sebastiano Timpanaro

128 Sebastiano TimpanaroScrivere significa svolgere un ragionamento che deve servire a illuminare un problema e a convincere delle intelligenze. Senza esibizioni, senza narcisismi, senza trucchi o effetti speciali. Seguendo la logica e le procedure della ragione, senza gli orpelli della retorica e senza gli appelli alle emozioni. Chi scrive offre al lettore la propria coerenza di ragionamento e lo invita ad analoga coerenza.


Alexis De Tocqueville

135 Alexis De TocquevilleSe cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente all’infanzia; ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi. Non potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare e la pena di vivere?

137 Alexis De Tocqueville 

In una rivoluzione, come in un raccontola parte più difficile è quella di inventare un finale.

 

Sergio Toppi

138 Sergio ToppiIo detesto essere chiamato artista: sono disciplinato, come tutti quelli che fanno fumetti. Considero il fumetto un lavoro molto artigianale, in certi casi di ottimo livello, ma sempre artigianale. È chiaro che non siamo pelatori di patate, è un lavoro per cui occorre una certa sensibilità, ma il fumetto rispetto a quello che viene considerato la creazione artistica è molto più severo.

 

139 Sergio ToppiIl suo lavoro tende alla perfezione, per semplice senso del dovere. Il dovere di essere sempre più bravo, il dovere di continuare ad imparare, perché non si finisce mai d’imparare a questo mondo, specie per chi si è assunto l’incarico di creare immagini, di mettere la propria fantasia e le proprie risorse al servizio degli altri.

 

Alfred Wallace

142 Alfred WallaceQuesta progressione, per piccoli passi, in varie direzioni, ma sempre controllata ed equilibrata dalle condizioni necessarie, soggette alle quali solo l’esistenza può essere preservata, può, si crede, essere seguita in modo da concordare con tutti i fenomeni presentati da esseri organizzati, la loro estinzione e successione nelle epoche passate, e tutte le straordinarie modificazioni di forma, istinto e abitudini che esibiscono.

146 Alfred Wallace

 

Charles Waterton

147 Charles WatertonMentre mi avvicinavo all’orango questi mi venne incontro a mezza strada e ci accingemmo subito ad un esame delle rispettive persone. Ciò che mi colpì più vivamente fu la non comune morbidezza dell’interno delle sue mani. Quelle di una delicata signora non avrebbero potuto essere di una grana più fine. Egli si impossessò del mio polso e scorse con le dita le vene azzurrine che vi si trovavano; io per parte mia, mi ero perso nella contemplazione della sua enorme bocca prominente. Con la massima cortesia egli lasciò che gliela aprissi, cosicché potei esaminare a mio bell’agio le sue magnifiche file di denti. Poi ci mettemmo l’un l’altro una mano intorno al collo, restando per un po’ in questa posizione.

Tin Tin si avvia

Ariette 13.0

Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». (n.d.r).

di Maurizio Castellaro, 28 novembre 2022

Beppe

Fenoglio è morto a quarant’anni, e chissà quante righe meravigliose avrebbe scritto ancora se fosse vissuto più a lungo, come il suo amico Calvino, ad esempio. Però fumava come un turco, tutto il giorno e tutte le notti che passava sveglio a scrivere nella sua casa di Alba, e queste cose alle volte le paghi care. Fenoglio e le sue parole sono piantate come un ciocco nelle nostre colline, e anch’io, che sono figlio adottato di questa terra grazie alle tante vendemmie e al profumo delle acacie in fiore, sono stato come tutti folgorato dalla sua voce. Fenoglio ti incanta per i tagli secchi di marasso con cui ti restituisce l’essenziale, ti incanta per quello che non dice, nella sua scrittura che sembra tutta cose e che invece è tutta spirito, perché lo spirito è la verità delle cose. E che sia così lo capisci anche di fronte a casa sua, dove hanno messo un monumento e ci hanno scritto: “Johnny pensò che un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina guardando la città la sera della sua morte. Ecco l’importante: che ne rimanesse sempre uno”. Quel monumento tra 100 anni potrebbe non esserci più, ma quelle parole saranno di ispirazione alle resistenze dei prossimi duemila anni. Attraversando Alba la ricca in cerca delle parole di Beppe Fenoglio ho una volta di più la conferma che siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, grazie a dio.

Passati prossimi e futuri imminenti

di Stefano Gandolfi, 10 ottobre 2022

In pancia alla balena

di Paolo Repetto, 8 novembre 2021

La ricognizione nelle letture della scorsa estate mi sta prendendo la mano. Davvero non mi ero accorto che la stagione fosse stata così ricca. Ero distratto dai nostri successi sportivi (la raccolta continua: ori mondiali nel ciclismo su pista, nella ginnastica a corpo libero e in quella ritmica e nel nuoto: uno persino in matematica; manca più solo il rugby), dall’uscita allo scoperto dei neo-squadristi e dall’epidemia di coming out televisivi.

Riparto dunque dall’acquisizione più recente, quel Balene nella pancia che è comparso poco tempo fa sul sito. Non voglio mettere il becco dappertutto, ma la lettura mi ha intrigato “attivamente”, mi ha indotto a spingere un po’ più in là lo sguardo, e credo fosse ciò che chi lo ha scritto si augurava. L’ho fatto a modo mio, senza scendere in profondità e limitandomi a cercare altri esempi letterari di soggiorni più o meno prolungati nelle pance di mostri marini: il che magari non risponde esattamente agli intenti dell’autore, ma soddisfa piuttosto la mia maniacale sindrome dei repertori. E tuttavia, qualcosa è venuto fuori anche da questa scorribanda in superficie. Le considerazioni che seguono non sono quindi riservate solo a chi è affetto dalla stessa mia malattia.

Per cominciare, ho verificato che la condizione dalla quale il saggio prende spunto, la prigionia nel ventre di un mostro, di un pesce o di un cetaceo, è talmente ricorrente da costituire un vero e proprio tòpos, le cui costanti sono una situazione iniziale negativa, l’essere ingoiato, e una soluzione finale positiva, l’uscirne vivo (e la singolarità sta proprio nel fatto che i protagonisti rimangono incolumi, passano per la bocca senza essere triturati dai denti, scivolano senza essere soffocati in gola e non sono bruciati dagli acidi dello stomaco). Non voglio inseguirne qui tutte le diverse fenomenologie, perché una cosa del genere porterebbe solo ad un elenco arido e inutile: le narrazioni mitologiche e le letterature di tutti i popoli del mondo sono piene di mostri marini di dimensioni immani e dalle forme più fantasiose, balene-isola, serpenti di mare, piovre giganti, draghi, ecc…. Mi limito pertanto a ricordare alcune delle più famose (dando per scontate naturalmente le storie di Giona, di Pinocchio e della balena bianca, che sono già state ampiamente rievocate in Balene nella pancia), cercando di lasciar parlare il più possibile i testi. Credo che anche quelli che ai fini dell’indagine sulla “leviatanologia” paiono irrilevanti possano in realtà diventare rivelatori.

Ciò che veramente importa è infatti quel che accade alle vittime, una volta dentro. La condizione e il tipo di reazione possono variare, ma sono tutte riconducibili grosso modo a due filoni: uno che potremmo definire mistico-biblico (anche se la storia di Giona non è affatto un archetipo, riprende miti mesopotamici molto più antichi) e un altro di matrice greco-razionalistica. Nel primo caso l’incidente è vissuto come occasione di riflessione, di espiazione e di redenzione rispetto ad una colpa originaria, il pesce è uno strumento di Dio e la soluzione arriva dall’esterno, per volontà appunto divina; nel secondo è sofferto come prigionia soffocante da cui evadere, il pesce-mostro è ucciso dall’interno, e la liberazione è frutto della intelligenza e dello spirito di sopravvivenza umani.

In pancia alla balena 02In sostanza, la vicenda viene usata spesso come metafora di una condizione di disagio psicologico, talvolta come simbolico passaggio di rigenerazione, di norma come espediente fantasioso per insaporire l’avventura.

Un esempio di reazione “razionale” (le virgolette qui ci stanno tutte) è offerto, nella letteratura classica, dalla Storia Vera di Luciano di Samosata. Di vero nella Storia di Luciano c’è in effetti ben poco, anzi, proprio nulla, e quindi andrebbe gustata esclusivamente per l’abilità nel tenere sempre alta la curva dell’iperbole, senza pretendere significati reconditi. Ma il confronto con il trattamento biblico della stessa situazione diventa inevitabile.

Vedo di riassumere. L’autore e i suoi compagni, che si sono messi per mare in cerca di avventure, ne trovano più di quante vorrebbero, tanto da finire addirittura sulla luna. Di ritorno dal nostro satellite (dove peraltro le cose vanno esattamente come da noi, tra guerre continue) scendono sulla Terra, o meglio planano sull’oceano, e quasi subito la loro nave viene inghiottita da un’enorme balena. All’interno del cetaceo trovano un grande mare, e in mezzo ad esso un’isola abitata da tribù cannibali e primitive. Lasciamo però la parola al protagonista:

Due soli giorni navigammo con buon tempo, al comparire del terzo dalla parte che spuntava il sole a un tratto vediamo un grandissimo numero di fiere diverse e di balene, e una più grande di tutte lunga ben millecinquecento stadi venire a noi con la bocca spalancata, con larghissimo rimescolamento di mare innanzi a sé, e fra molta schiuma, mostrandoci denti più lunghi dei priapi di Siria, acuti come spiedi, e bianchi come quelli d’elefante. Al vederla: – Siamo perduti –, dicemmo tutti quanti, e abbracciati insieme aspettavamo; ed eccola avvicinarsi, e tirando a sé il fiato c’inghiottì con tutta la nave; ma non ebbe tempo di stritolarci, ché fra gl’intervalli dei denti la nave sdrucciolò giu.

Come fummo dentro la balena, dapprima era buio, e non vedevamo niente; ma dipoi avendo essa aperta la bocca, vediamo una immensa caverna larga e alta per ogni verso, e capace d’una città di diecimila abitanti. Stavano sparsi qua e là pesci minori, molti altri animali stritolati, e alberi di navi, e ancore, e ossa umane, e balle di mercanzie. Nel mezzo era una terra con colline, formatasi, come io credo, dal limo inghiottito; sovr’essa una selva con alberi d’ogni maniera, ed erbe e ortaggi, e pareva coltivata; volgeva intorno un duecento quaranta stadi, e ci vedevamo anche uccelli marini, come gabbiani e alcioni, fare i loro nidi su gli alberi.

Allora venne a tutti un gran pianto, ma infine io diedi animo ai compagni, e fermammo la nave. Essi battuta la selce col fucile accesero del fuoco, e così facemmo un po’ di cotto alla meglio. Avevamo intorno a noi pesci d’ogni maniera, e ci rimaneva ancora acqua di Espero. Il giorno appresso levatici, quando la balena apriva la bocca, vedevamo ora terre e montagne, ora solamente cielo, e talora anche isole, e così ci accorgemmo che essa correva veloce per tutte le parti del mare.

Poiché ci fummo in certo modo abituati a vivere così, io presi sette compagni e andai nella selva per scoprire il paese. […] Affrettato il passo giungemmo a un vecchio e un giovinetto, che con molta cura lavoravano un orticello, e l’annaffiavano con l’acqua condotta dalla fonte.

In pancia alla balena 03Compiaciuti insieme e spauriti, ci fermammo; e loro, come si può credere, commossi del pari, rimasero senza parlare. Dopo alcun tempo il vecchio disse: Chi siete voi, o forestieri? forse geni marini o uomini sfortunati come noi? ché noi siamo uomini, nati e vissuti su la terra, e ora siamo marini, e andiamo nuotando con questa belva che ci chiude, e non sappiamo che cosa siamo diventati, ché ci par d’essere morti, e pur sappiamo di vivere.

A queste parole io risposi: Anche noi, o padre, siamo uomini, e siamo arrivati poco fa, inghiottiti l’altro ieri, con tutta la nave. Ci siamo inoltrati volendo conoscere com’è fatta la selva, che pareva grande e selvaggia […] Ma narraci i casi tuoi: chi sei tu, e come qui entrasti.

Quando fummo sazi, ci domandò di nostra ventura, e io gli narrai distesamente ogni cosa della tempesta, dell’isola, del viaggio per l’aria, della guerra, fino alla discesa nella balena.

Egli ne fece le meraviglie grandi, e poi a sua volta ci narrò i casi suoi, dicendo: Fino alla Sicilia navigammo prosperamente, ma di là un vento gagliardissimo dopo tre giorni ci trasportò nell’Oceano, dove abbattutici nella balena, fummo uomini e nave inghiottiti; e morti tutti gli altri, noi due soli scampammo. Sepolti i compagni, e rizzato un tempio a Nettuno, viviamo questa vita coltivando quest’orto, e cibandoci di pesci e di frutti. La selva, come vedete, è grande, e ha molte viti, dalle quali facciamo vino dolcissimo; ha una fonte, forse voi la vedeste, di chiarissima e freschissima acqua. Di foglie, ci facciamo i letti, bruciamo fuoco abbondante, prendiamo con le reti gli uccelli che volano, e peschiamo vivi i pesci che entrano ed escono per le branchie della balena; qui ci laviamo ancora, quando ci piace, che c’è un lago non molto salato, di un venti stadi di circuito, pieno d’ogni sorta di pesci, dove nuotiamo e andiamo in una barchetta che io stesso ho costruito. Son ventisette anni da che siamo stati inghiottiti, e forse potremmo sopportare ogni altra cosa, ma troppo grave molestia abbiamo dai nostri vicini, che sono intrattabili e selvatici.

A sistemare i vicini ci pensano Luciano e i suoi compagni. Secondo un costume che già all’epoca era consolidato l’equipaggio stermina tutti i selvaggi, ma si ritrova poi ad assistere ad una battaglia tra giganti che combattono stando su isole lunghissime, che spostano a remi come fossero piroghe. I greci capiscono allora che la faccenda può diventare delicata e cominciano a studiare come filarsela.

Da allora in poi, non potendo io sopportare di rimanere più a lungo nella balena, andavo mulinando come uscirne. In prima ci venne il pensiero di forare nella parete del fianco destro, e scappare. Ci mettemmo a cavare; ma cava, e cava quasi cinque stadi, era niente: onde smettemmo, e pensammo di bruciare il bosco, e così far morire la balena. Riuscito questo, ci sarebbe facile uscire. Cominciando dunque dalle parti della coda vi mettemmo fuoco, e per sette giorni ed altrettante notti non sentì bruciarsi; nell’ottavo ci accorgemmo che si risentiva, ché più lentamente apriva la bocca, e come l’apriva la richiudeva. Nel decimo e nell’undecimo era quasi incadaverita, e già puzzava. Nel dodicesimo appena noi pensammo che se in un’apertura di bocca non le fossero puntellati i denti mascellari da non farglieli più chiudere, noi correremmo pericolo di morir chiusi dentro la balena morta: onde puntellata la bocca con grandi travi, preparammo la nave, vi riponemmo molta provvigione d’acqua, e destinammo Scintaro a fare da pilota. Il giorno appresso era già morta, noi varammo la nave, e tiratala per l’intervallo dei denti, e ad essi sospesala dolcemente la calammo nel mare.

Usciti a questo modo, salimmo sul dorso della balena, e fatto un sacrificio a Nettuno, ivi rimanemmo tre dì, ché era bonaccia, e il quarto ci mettemmo alla vela. (Luciano di Samosata, Storia vera, libri I e II)

Al di là degli intenti di Luciano, che cerca solo di catturare e mantenere viva la meraviglia del lettore con gli effetti speciali, e quindi usa toni e modi che con la vicenda biblica di Giona hanno niente a che vedere, vengono fuori dei particolari che segnano una differenza significativa. Il luogo buio ma ricco di pesci, relitti di navi e ossa umane, piuttosto che a un loculo dove giacere per tre giorni in attesa della rinascita (che è il caso di Giona, a cui si rifarà poi dichiaratamente quello di Cristo) somiglia molto ad un possibile aldilà, abitato da uomini cui “pare d’essere morti, e pur sanno di vivere”. Anche se non è lecito leggere nella narrazione romanzesca di Luciano troppi significati simbolici, è pur vero che presso le culture classiche la tomba è un luogo ricco di oggetti e cibo, corredo necessario ad accompagnare il defunto nella sua nuova condizione. Come a dire che di qui o di là, non c’è poi molta differenza. Non è certo quello che pensavano gli eroi omerici, a giudicare dalle interviste che Ulisse realizza durante la discesa nell’Ade, ma si attaglia invece perfettamente all’epicureismo che Luciano professa. I tempi eroici sono finiti da un pezzo, e questo è lo specchio del mondo in cui Luciano vive.

In pancia alla balena 04Anche lui fa però riferimento ad una preesitente mitologia classica che di mostri acquatici ne propone a bizzeffe, o che propone lo stesso con fattezze diverse (è quello che viene denominato kētos; da cui successivamente, nella tradizione cristiana, il cetaceo per eccellenza, identificato nella balena). Perseo, ad esempio, lo combatte per salvare Andromeda (e in alcune versioni del mito lo uccide dopo essersi fatto ingoiare. In altre è invece Eracle ad uccidere ketos).

Particolarmente temuti sono poi i serpenti marini e le piovre. Nel secondo libro dell’Eneide sono proprio due serpenti usciti dal mare ad aggredire sulla spiaggia di Troia Laocoonte ed i suoi due figli. Riporto l’episodio, facendolo però raccontare non da Virgilio, ma da un autore leggermente più tardo, Petronio, perché nella sua narrazione c’è un interessante parallelo tra due tipi di mostruosità, quella naturale rappresentata dai serpenti che ingoiano i figli di Laocoonte e dilaniano il padre accorso in loro aiuto, e quella artificiale, rappresentata dal cavallo, (che tale appare subito ai Troiani, un mostrum, come dice Enea), nella cui pancia si nascondono i Greci per riuscire a penetrare in Troia.

Laocoonte ministro di Nettuno fende urlando la folla, vibra la lancia, la scaglia nel ventre del mostro, ma il volere dei numi gli fa debole il braccio, e il colpo rimbalza attutito, e dà credito all’inganno. Ma ancora egli chiede vigore alla mano spossata e saggia con l’ascia i concavi fianchi. Trasalgono i giovani chiusi nel ventre panciuto, e al loro sussurro la mole di quercia palpita d’estranea angoscia. Quei giovani presi andavano a prendere Troia, finendo per sempre la guerra con frode inaudita. Ma ecco un altro prodigio là dove Tenedo sorge dal mare, i flutti si gonfiano turgidi, rimbalzano le onde, si gonfiano di schiuma che la spiaggia ribatte, quale un tonfo di remi arriva nel cuore sereno della notte, quando solca una flotta le acque del mare che fervide gemono sotto l’impeto delle chiglie. Là noi volgiamo gli occhi e vediamo due draghi, che torcendosi spingono l’onda agli scogli, e coi petti impetuosi vorticano schiume intorno ai fianchi, come alte navi. Il mare percuotono con le code, le sciolte criniere lampeggiano come gli occhi, un bagliore di folgore incendia il mare e le onde sono tutte un tremolio di fremiti. Ogni cuore è sgomento. Cinti di sacre bende e con addosso il costume frigio i due figli gemelli di Laocoonte stavano lì sulla spiaggia. A un tratto li avvinghiano nelle loro spire i due draghi di fiamma, e quelli protendono ai morsi le piccole mani. Ciascuno non sé ma il fratello aiuta, e pietà si scambiano, finché morte li coglie in un mutuo terrore. Alla strage si aggiunge anche il padre, ben debole aiuto, che i due draghi già sazi di morte assalgono e trascinano sul lido. Giace vittima il sacerdote tra le are e il suo corpo percuote la terra. Cosi venne profanato il sacro e Troia affacciata sulla rovina perse per prima cosa gli dèi. (Satyricon, 88.9.4)

In pancia alla balena 05

Anche in questo caso lo scotto per il successo è la permanenza nel ventre buio di un animale. Quasi una forma di iniziazione. Ma, come dice Petronio, quella che si compie qui è una dissacrazione. E la dissacrazione vera è quella operata attraverso la téchne, la capacità di artificio degli umani. Il cavallo è una macchina: non è la prima, esistono altre macchine da guerra, ma questa nasconde uomini nella sua pancia. Prelude a mostri di altro tipo.

In pancia alla balena 06Le creature marine mostruose diventano una presenza fissa nelle mappe tardo-medioevali del mondo, soprattutto in quelle nordiche. Ma perdono per strada la loro valenza simbolica, per assumere invece sempre più una funzione narrativa o decorativa. Non esistono per punire chi si è macchiato di qualche colpa o dubita della giustizia divina, ma rientrano nel folklore paesaggistico e nei rischi dell’avventura. Sono significative in questo senso le immagini di draghi marini che corredano la Storia dei popoli settentrionali di Olao Magno (una delle perle della mia biblioteca: In Vinegia, appresso Francesco Bindoni, MDLXI) o la Carta Marina realizzata dallo stesso tra il 1527 ed il 1539, immagini che sono poi state trasferite pari pari nelle carte di Ortelio agli inizi del secolo successivo. I mostri sono rappresentati nel loro rapporto con gli umani, che rimane sempre ambiguo: nell’immagine di fianco, ad esempio, i naviganti hanno agganciato con l’ancora una creatura mostruosa, scambiandola per un’isola, e sono poi scesi tranquillamente dalla nave per accendere un fuoco sulla sua schiena. In questo caso nella situazione paradossale è evidente la linea di discendenza da Luciano: nelle caratteristiche fisiche attribuite al mostro c’è invece quella dalle antiche mitologie norrene, che al mare, e nella fattispecie all’oceano, associavano pericoli di ogni tipo, e quei pericoli li traducevano e li ibridavano visivamente nelle figurazioni più bizzarre.

In pancia alla balena 08Una vera balena in grasso ed ossa la ritroviamo invece nella letteratura cavalleresca tra Quattrocento e Cinquecento. Nel quarto dei Cinque Canti che Ariosto aggiunse e poi ritolse all’Orlando furioso, a finire nel suo ventre è Ruggero, perseguitato dalla maga Alcina.

Avea Ruggier lasciato poche miglia
Tariffa a dietro, e dalla destra sponda
Vede le Gade, e più lontan Siviglia,
E nelle poppe avea l’aura seconda;
Quando a un tratto di man, con maraviglia,
Un’isoletta uscir vide dell’onda:
Isola pare, ed era una balena
Che fuor del mar scopría tutta la schiena.

Nel panico che segue la nave prende fuoco, e Ruggero tra il morire bruciato e l’annegare sceglie la seconda opzione e si butta in mare con tutte le armi. Ma

Qual suol vedersi in lucida onda e fresca
Di tranquillo vivaio correr la lasca
Al pan che getti il pescatore, o all’esca
Ch’in ramo alcun delle sue rive nasca;
Tal la balena, che per lunga tresca
Segue Ruggier, perché di lui si pasca,
Visto il salto, v’accorre, e senza noja
Con un gran sorso d’acqua se lo ingoja.
Ruggier, che s’era abbandonato e al tutto
Messo per morto, dal timor confuso,
Non s’avvide al cader, come condutto
Fosse in quel luogo tenebroso e chiuso;
Ma perché gli parea fetido e brutto,
Esser spirto pensò di vita escluso.
Era come una grotta ampia e capace
L’oscurissimo ventre ove era sceso (…)
Brancolando, le man quanto può stende
Dall’un lato e dall’altro, e nulla prende.
Un picciol lumicin d’una lucerna
Vide apparir lontan per la caverna.

In pancia alla balena 09Chi sopravviene è un vecchio dalla lunga barba bianca, che alla domanda di Ruggero: sono vivo o sono morto? risponde:

Figliuol, rispose il vecchio, tu sei vivo,
Come anch’io son; ma fôra meglio molto
Esser di vita l’uno e l’altro privo,
Che nel mostro marin viver sepolto.
Tu sei d’Alcina, se non sai, captivo;
Ella t’ha il laccio teso, e al fin t’ha côlto,
Come côlse me ancora, con parecchi
Altri che ci vedrai, giovani e vecchi.

Tra questi altri, presso i quali il vecchio conduce Ruggero, e che si sono organizzati come in un camping, c’è anche Astolfo.

Tosto che pon Ruggier là dentro il piede,
Vi riconosce Astolfo paladino,
Che mal contento in un dei letti siede,
Tra sè piangendo il suo fiero destino.
Lo corre ad abbracciar, come lo vede:
Gli leva Astolfo incontra il viso chino:
E come lui Ruggier esser conosce,
Rinnôva i pianti, e fa maggior l’angosce.

I due si confidano vicendevolmente le proprie sventure, e poi si mettono a tavola, per un banchetto imbandito dai compagni di Astolfo. Come siano alla fine usciti dal ventre della balena non lo sappiamo. Ariosto li liquida così:

Ma di Astolfo e Ruggier più non vi sego:
Diròvvi un’altra volta i lor successi.
Finch’io ritorno a rivederli, ponno
Cenare ad agio, e di poi fare un sonno.

In pancia alla balena 10

Non ce lo dirà mai perché nella versione definitiva dell’Orlando l’episodio che ho appena raccontato non compare: compare sì la balena, ma Astolfo viaggia sul suo dorso accanto ad Alcina, della quale è follemente innamorato. Ruggero si lancia inutilmente in mare per sottrarlo all’incantesimo amoroso, ma è respinto dalle onde. La differenza tra le due versioni è sostanziale: quella da me riportata è stata elaborata da Ariosto in un momento di ripensamenti morali e religiosi (siamo nella fase più calda della riforma protestante), e si fondava sulla possibilità di riscatto dalla pazzia umana attraverso la fede. Sono propenso a credere che non sia estraneo l’influsso dell’Elogio della follia di Erasmo. Questo spiega la riesumazione del modello biblico, declinato alla luce dell’etica cavalleresca, per cui i due eroi, prigionieri della follia umana e redenti dalla follia della Croce, diventano soldati di Cristo.

Il motivo per il quale i cinque canti non sono stati inseriti è comunque evidente. Ripensamenti o no, Ariosto si è reso conto che non c’entravano affatto con lo spirito e con la temperie del poema, e ce li ha risparmiati.

Esistono però, se non nella mitologia almeno nella tradizione popolare, anche dei pesci buoni, come quello che nella quinta giornata del Pentamerone di Giovan Battista Basile sottrae la giovane Nennella all’annegamento, ingoiandola, e la risputa poi fuori dopo averla condotta in salvo. Nennella e il fratello Ninnillo sono stati lasciati nel bosco per volontà di una matrigna cattiva (un pescecane maledetto, la definisce Basile), Dopo varie vicende finiscono separati, e mentre Ninnillo è adottato da un principe, Nennella, rapita da un corsaro, è coinvolta nel naufragio dell’imbarcazione di quest’ultimo, nel quale tutti muoiono tranne lei.

In pancia alla balena 11Solo Nennella […] scampò questo pericolo perché proprio in quel momento si trovò vicino alla barca un grande pesce fatato, che, aprendo un abisso di bocca, se l’inghiottì. E quando la ragazza credeva di avere finito i suoi giorni proprio allora trovò cose da trasecolare nella pancia di questo pesce, perché c’erano campagne bellissime, giardini deliziosi, una casa signorile con tutte le comodità, dove se ne stava da principessa.

Ora accadde che quel pesce la portasse di peso a uno scoglio, dove […] il principe era venuto a prendere il fresco. E Ninnillo s’era posto a un verone del palazzo. Nennella lo vide attraverso le fauci aperte del pesce e gridò: “fratello mio, fratello mio”. […]

Il principe gli disse di accostarsi a pesce e vedere che cosa fosse […] E Ninnillo si avvicinò al pesce e quello, poggiata la testa sopra uno scoglio e aperti sei palmi di bocca, ne fece uscire Nennella, così bella che sembrava proprio una ninfa che, in un intermezzo, usciva, per incanto di qualche mago, da quella bestia. (Pentamerone, V giornata, favola VII)

Per completezza di informazione, c’è il lieto fine: il principe combina per entrambi dei matrimoni da favola, mentre la matrigna finisce sfracellata dentro una botte fatta rotolare giù da una rupe.

Quasi due secoli dopo un altro eroe letterario fa quest’esperienza: è il barone di Münchausen (a proposito: andando a sfogliare per l’ennesima volta il libro delle sue avventure ho ritrovato l’episodio della trombetta da postiglione che si era congelata e che una volta al caldo della stufa si scongela ed emette le sue note. Qui l’autore si è chiaramente ispirato all’episodio di Gargantua che ho riportato ne L’estate tra i ghiacci). Il barone, o meglio, il suo biografo, Rudolf Erich Raspe, pesca a piene mani dai racconti di Luciano e dell’Ariosto, compreso il viaggio sulla luna, e non può certo mancare di fare la sua esperienza col cetaceo. Anzi, è quasi un habitué degli incontri molto ravvicinati con balene o con pesci comunque enormi. Li racconta ad una maniera che sarà un secolo dopo quella di Mark Twain, perentoria ed essenziale, quasi a non lasciare il tempo al lettore di riprendersi dallo stupore. Come a dire: se non mi credi, cosa stai a fare qui, puoi andare a bere da un’altra parte.

Ma è anche il modello sul quale si fondano i cartoni animati del Vicoyote e di Silvestro, di un mondo paradossale, opposto a quello razionale e reale, nel quale l’inverosimile sconfigge di continuo il verosimile, le situazioni sono rovesciate, i rapporti distorti. In fondo questo cumulo continuo di frottole non fa che anticipare la tecnica persuasiva della pubblicità e del dibattito politico moderni. Procede per accumulo di enfatizzazioni, iperboli, pure invenzioni ed esasperazioni, fino a farci accettare la menzogna come norma. Ma almeno, nella bocca del barone tutto il racconto è simpaticamente surreale, le fanfaronate si susseguono come fuochi d’artificio, esplodono a raffica senza accampare alcuna pretesa di credibilità.

Riporto quasi per intero i passi, che traggo da una vecchia traduzione per Marzocco a cura di Giuseppe Fanciulli, perché difficilmente potrete trovare nelle edizioni moderne una versione così fedele all’originale di Raspe (oggi circolano solo “adattamenti”, e tremo a pensare a cosa succederà quando i “politicamente corretti” si ricorderanno del barone).

Errammo per oltre tre mesi senza sapere dove andavamo, non avendo bussola, finché ci trovammo in un mare che appariva tutto nero. Ne assaggiammo l’acqua e scoprimmo con grandissimo stupore che era ottimo vino, così che ci volle tutta la nostra autorità per impedire ai marinai di ubriacarsi. Purtroppo il nostro pensiero fu presto distolto da questa inezia, perché ci trovammo circondati da immense balene e da altri mostri marini smisurati, uno dei quali era talmente lungo che non riuscii a vederne la coda, neanche con l’aiuto dei migliori cannocchiali.

Per disgrazia ci accorgemmo della sua presenza quando gli eravamo già troppo vicini, e in men che non si dice tutta la nostra nave con le vele spiegate e gli alberi ritti passò nella sua gola.

Là dentro errammo per qualche tempo, finché, avendo il mostro inghiottito una prodigiosa massa d’acqua, la nave seguì la corrente, e ci trovammo in un momento nello stomaco della bestia. L’aria per la verità, era laggiù piuttosto calda, e tuttavia gettammo l’ancora in un sicuro porto e ci guardammo in giro. Vi era un gran numero di ancore, gomene, scialuppe e di navi cariche e vuote inghiottite dal mostro. L’oscurità profonda ci costringeva all’uso continuo delle torce: due volte al giorno galleggiavamo e due eravamo a secco: quando il mostro beveva era il flusso e quando risputava l’acqua era il riflusso. Secondo i nostri calcoli l’acqua immessa era ordinariamente in quantità maggiore di quella contenuta nel lago di Ginevra, che ha trenta chilometri di circonferenza.

Il secondo giorno della nostra prigionia volli tentare, col capitano e gli altri ufficiali, un’escursione durante il periodo del riflusso. Muniti di torce scoprimmo tanta altra gente che si trovava nelle stesse condizioni nostre. Ve n’era di ogni nazione: saranno state più di diecimila persone, che si disponevano appunto a tener consiglio per decidere sul mezzo migliore per uscire da quella prigione.

Vi erano persino dei bambini che non avevano mai visto il mondo, essendo nati là dentro […]

Proposi subito un tentativo di salvataggio con l’introdurre due alberi maestri legati insieme nella gola del pesce, in modo che non potesse più chiudere la bocca. (…) Il mostro sbadigliò, e l’asta lunghissima venne subito piantata nella sua gola, quindi il passaggio rimase per noi definitivamente aperto, e non appena giunse l’ora del reflusso disponemmo un ottimo servizio di scialuppe per rimorchiare tutte le navi fino alla luce del sole.

Potete immaginare con quale gioia lo salutammo dopo quindici giorni di prigionia e di tenebre. […] dopo molte profonde osservazioni io potei riconoscere che ci trovavamo nel Mar Caspio. Come mai potevamo essere giunti a questo mare che è come un gran lago chiuso da ogni parte? … il mostro che ci aveva ospitato nel suo stomaco per due settimane doveva averci trascinato fin là traversando qualche passaggio sottomarino.

In pancia alla balena 12

Ci ha preso gusto, perché nella seconda parte del libro, quella dedicata alle avventure di mare, Münchhausen racconta della collisione con una balena addormentata lunga ottocento metri, una botta talmente violenta che un marinaio che stava ammainando la vela maestra è sbalzato in aria di quindici chilometri, e riesce a tornare sulla nave solo aggrappandosi alla coda di un gabbiano. La balena, giustamente risentita, prende in bocca l’ancora e trascina la nave a velocità folle per un sacco di tempo, fino a quando la catena si spezza. Ma il bello viene dopo.

Mentre è al comando di una guarnigione a Marsiglia, il barone decide di concedersi una bella nuotata in mare. Ma:

Ad un tratto, veloce come un lampo, vidi venire verso di me un pesce enorme che mostrava già la bocca spalancata intenzionato a divorarmi. Non avevo via di scampo: fuggire era impossibile. Dovevo escogitare una soluzione al più presto possibile. Impulsivamente mi feci il più piccino possibile, cacciando la testa fra le spalle e stringendo più che potevo le braccia contro il corpo. Mi fu così possibile passare tra le ganasce del pesce e scivolare nel suo stomaco senza finire maciullato dalla sua affilata dentatura.

Puoi immaginare l’oscurità nella quale piombai una volta all’interno di quel corpo, ma ciò che mi risultò veramente insopportabile fu il calore. Di lì a poco sarei morto soffocato. Presi, dunque, una decisione drastica: provocare un tale dolore alle viscere del pesce da indurlo a una qualsiasi reazione! Iniziai, infatti, a ballare, ad agitarmi e a dimenarmi come un pazzo furioso lungo tutto il ventre dell’animale.

L’animale, a sua volta, fece la stessa cosa. Poi cominciò a urlare e a gemere in un modo spaventoso; infine si alzò, emergendo per metà dall’acqua. L’equipaggio di un bastimento mercantile italiano, che usciva allora dal porto, rallentò per ammirare quello spettacolo curioso e mai visto prima. I marinai si armarono di ferri e uncini e attaccarono il pesce, che in pochi minuti fu ucciso. Quindi la preda venne condotta a riva e io udii distintamente quegli uomini che si consultavano su come farla a pezzi per ottenere la maggiore quantità possibile di olio pregiato. II pericolo che stavo correndo era veramente grande. Rischiavo di essere squartato assieme all’animale. Cercai di non farmi prendere dal panico e di ragionare. Avrei atteso pazientemente che i ferri affondassero nella carne del pesce e avrei poi calcolato la direzione del taglio, nascondendomi altrove.

Dapprima i marinai lacerarono il ventre dell’animale cosicché, appena intravidi la punta dell’arpione bucare le viscere, andai a rifugiarmi nella coda dell’animale. Poi, quando la luce naturale illuminò la cavità, presi a gridare con tutta la forza dei miei polmoni. Mi è impossibile descriverti la meraviglia che si dipinse su tutti i volti nel momento in cui la mia voce si fece strada fra le viscere del pesce. Quella meraviglia fu anche più grande quando videro uscire un uomo vivo e completamente nudo come il nostro primo padre Adamo.

In pancia alla balena 13

Il topos dell’ingoiamento torna con frequenza nella letteratura romantica e tardo-romantica, sia pure sotto spoglie rinnovate. Può rientrarci infatti anche la vicenda raccontata da Edgard Allan Poe in Una discesa nel Maelström, così come Le avventure di Gordon Pym, che ci fanno incontrare un altro essere mostruoso, la sfinge dei ghiacci.

In pancia alla balena 14Nel primo racconto una violenta tempesta sospinge tre pescatori norvegesi, tre fratelli, verso un enorme vortice: il maelström. La loro imbarcazione è risucchiata in un abisso che si apre a cono rovesciato e viene attirata verso il fondo. Alla fine uno solo dei tre si salva, aggrappandosi ad un barile vuoto che è risputato fuori. Le correnti lo spingono a questo punto verso la riva, e lì può raccontare la terribile esperienza che ha vissuto: ma ne è uscito trasformato, i suoi capelli si sono completamente sbiancati e il suo equilibrio psichico è distrutto.

Qui dominante è il tema della potenza distruttiva della natura, dalla quale nella sua fragilità l’essere umano viene divorato. Ma, al di là dello sgomento, c’è una certa rassegnata identificazione:

“Ora che eravamo in mezzo al gorgo, mi sentivo più calmo … Avendo compreso che oramai non avevamo più alcuna speranza, mi ero liberato di gran parte del terrore … Penso che fosse la disperazione a distendere i miei nervi.”

che può diventare addirittura attrazione:

“Trovavo fosse una cosa meravigliosa morire in quel modo e folle dare tanta importanza alla mia vita personale di fronte a quella manifesta ne della potenza di Dio.”

Un Poe decisamente biblico, così come biblico è il suo contemporaneo Melville. C’è però anche qualcos’altro. L’orrore viene dall’abisso, e l’abisso sul quale ci affacciamo può essere anche quello degli strati più profondi del nostro animo, nel quale albergano sentimenti che non vorremmo conoscere e che escono allo scoperto nei momenti estremi. Due dei fratelli, ad esempio, si ritrovano a disputarsi l’unico appiglio per la salvezza:

“… Si lanciò verso l’anello dal quale, nella sua agonia di terrore, cercò di strappar via le mie mani, non essendoci posto per due.”

Si torna ai mostri nella pancia di cui parla il saggio dal quale siamo partiti. Ma per prendere subito un’altra direzione, meno intimista.

In pancia alla balena 15Infatti: dove conduce l’abisso? Non necessariamente all’inferno, malgrado le due immagini siano strettamente associate. È possibile che Poe si sia ispirato per questi due racconti alla teoria della “terra cava”, diffusa nella prima metà dell’ottocento da alcuni esploratori, che si cimentarono anche in improbabili spedizioni polari. La versione più fantasiosa di questa teoria postulava che una razza umana abitasse nella pancia della terra, in qualche caso disputandola a residuali mostri preistorici. Anche se Poe non ne fa mai menzione esplicita, direi che la cosa era senz’altro nelle sue corde, e che proprio attraverso la sua opera sia stata trasmessa a diversi autori da lui fortemente influenzati.

A Poe si rifà infatti esplicitamente Verne in Ventimila leghe sotto i mari, facendo inghiottire il Nautilus da un gigantesco maelström (ma il sottomarino riesce a salvarsi, e lo ritroveremo poi in una grotta de L’isola misteriosa.) Il richiamo è ancora più esplicito ne La sfinge dei ghiacci, concepito come un seguito de Le Avventure di Arthur Gordon Pym.

I mostri marini in Verne sicuramente non mancano, ma direi che il più interessante è proprio il Nautilus. Tale appare all’opinione pubblica, visto che i superstiti delle navi da esso affondate raccontano “di avere visto una ‘cosa enorme’, strana, lunga, fusiforme, talvolta fosforescente, infinitamente più grande e più veloce di una balena”, che lancia sbuffi d’acqua a grandi altezze; ma in un primo momento appare tale anche al professor Aronnax, che lo scambia per un enorme narvalo. In effetti il Nautilus è un mostro: un mostro artificiale, che ha un lontano progenitore nel cavallo di Troia. Nel suo ventre dimorano e viaggiano per ottantamila chilometri i tre protagonisti, incontrando calamari giganti ed esplorando foreste sottomarine. Ma hanno anche modo di meditare, confrontandosi col capitano Nemo, che ritorce le conquiste del progresso contro la coscienza sporca della società del profitto. Ed anche loro escono dal soggiorno nella pancia del mostro molto cambiati.

A Verne l’idea di cacciare i protagonisti delle sue storie in caverne, cunicoli, anfratti del sottosuolo piace parecchio (così come quella di farli volare nello spazio: anche lui li manda sulla Luna). Non vuole lasciare spazi inesplorati, si picca dare una spiegazione razionale di tutto (la Sfinge dei ghiacci si rivela alla fine del suo romanzo essere una montagna ghiacciata) ma un gusto particolare lo prova quando può uscire dal binario del verosimile e aprire alla scoperta paesaggi totalmente inediti. Il Viaggio al centro della terra è un’esplorazione dell’abisso che strizza l’occhio alla teoria della terra cava. Tradotto nel linguaggio usato per queste riflessioni, il titolo potrebbe essere Nella pancia del mondo.

Cos’hanno in comune tutte queste vicende? Più di quanto non si pensi. L’unica differenza tra il calarsi nelle viscere della terra e l’entrare nello stomaco di una balena sta nel fatto che nel secondo caso di norma non si sceglie. Non è una differenza da poco, ma l’esito è lo stesso. È la vertigine creata dall’ignoto, dal non sentire sotto i piedi la terra (“sente che sotto i piedi arena giace,/ Che cede, ovunque egli la calchi, al peso” scrive Ariosto), dal roteare e precipitare nel vuoto. Racconta più il disagio della civiltà che non l’epopea del progresso. Come del resto hanno fatto, in maniere diverse, tutti i suoi predecessori.

Per chiudere almeno momentaneamente il cerchio dovrei parlare ora di altri epigoni di Poe, di Edward Bulwer-Lytton e del suo Vril (ne La razza ventura), ad esempio, o di Lovecraft, che ne Il tumulo immagina l’esistenza da tempi remotissimi nel sottosuolo terrestre di un mondo abitato da esseri terribili: ma sono cose di cui ho già trattato più o meno diffusamente altrove, e non voglio ripetermi.

L’impressione rimane quella: che in ogni epoca (anche in quelle nelle quali nasceva o si affermava la fiducia nel progresso) la letteratura abbia espresso, più che i timori per le incognite negative del futuro, i rimpianti per la perdita progressiva di dimensioni misteriose e inesplorate, della possibilità di essere sorpresi o di trovare in esse rifugio. Di qui l’ambiguità. Gli uomini a temono ma al contempo amano tanto il mistero quanto i pericoli che esso può celare: non possono fare a meno di una certa dose di adrenalina, e in un mondo totalmente disvelato e per la gran parte messo in sicurezza il rischio se lo vanno comunque a cercare, come testimoniano gli sport estremi. Oppure cercano i surrogati della vertigine, sulle montagne russe o nel bungee jumping ,

Concludo con una vicenda sulla cui autenticità lascio libero di decidere il lettore, e che in caso positivo non può non produrre qualche riflessione.

Il fatto sembra essere accaduto nel 2019, ed è stato raccontato da un sub che nuotava al largo delle coste sudafricane (pare comunque che esista anche una documentazione fotografica esterna, per quanto confusa). Era intento ad osservare il comportamento degli squali che gli nuotavano attorno (questo la dice già lunga sul personaggio), per cui troppo tardi si è reso conto di quello che gli stava accadendo:

[…] improvvisamente intorno è diventato buio. Ho capito che ero stato inghiottito da qualche animale. Ho trattenuto il respiro perché pensavo che si sarebbe immerso e mi avrebbe liberato molto più profondamente nell’oceano, era buio pesto dentro. Ovviamente poi l’animale si è reso conto che non ero quello che voleva mangiare, quindi mi ha sputato fuori. Una volta che sei preso da qualcosa che pesa oltre 15 tonnellate e si muove molto veloce nell’acqua, ti rendi conto che in realtà sei solo così piccolo in mezzo all’oceano. Ho sentito una pressione pazzesca ai fianchi ed è stato quando la balena si è accorta di aver sbagliato boccone. Lentamente ha spalancato le fauci per liberarmi e sono stato letteralmente spazzato via, insieme a quello che mi è sembrato una tonnellata d’acqua.

Ho confrontato questo racconto con quello di Münchausen. Quand’anche la si accetti come vera, la vicenda in definitiva non ci trasmette nulla. Semmai conferma quel che scrivevo prima a proposito del pericolo volutamente rincorso. Non è nemmeno spettacolare, e neppure lo sarebbe se fosse stata integralmente ripresa in soggettiva dal protagonista: senza i relitti, la possibilità di incontri straordinari, i banchetti a base di pesce e frutta, l’interno di questo pesce è solo una scatola buia e stretta. La dissacrazione delle paure e delle fantasie ancestrali ha lasciato il posto solo a quelle virtuali e artificialmente indotte. Il risultato è che non sappiamo più di cosa davvero dovremmo aver paura, e abbiamo paura di tutto.

P.S. In realtà non è finita qui. Rimane in sospeso il confronto con chi ha scritto un saggio intitolato “Nella pancia della balena”, ovvero George Orwell. Ma Orwell, come Cervantes, non può essere liquidato nelle poche righe di una rassegna come questa. Anche per lui do quindi appuntamento ad una prossima puntata.

Mi arriva notizia nel frattempo che siamo anche campioni d’Europa nel Football americano. Adesso il rugby non ha più scusanti. E io nemmeno.

Ma non sono così sicuro di voler davvero uscire dalla balena.

In pancia alla balena 16

Senza vero desiderio di andare

di Marcello Furiani

Premessa. Scolpire con la lingua

di Paolo Repetto, 14 marzo 2020

Nella biblioteca virtuale che sto assemblando settimana dopo settimana (non c’era un disegno iniziale, mi accorgo solo ora che si va componendo da sola) propongo questa volta due brevi estratti di “Senza vero desiderio di andare” di Marcello Furiani (del quale sono già presenti sul sito sia le raccolte poetiche che i saggi), pubblicato nello scorso autunno. Nel “risvolto” on line è presentato come un romanzo, ma non si tratta di un romanzo: è qualcosa di più e qualcosa di diverso. Credo non ci sia un’etichetta adatta a classificarlo, e comunque non penso ci tenga ad essere etichettato e classificato. Per quel che mi riguarda, se fosse solo un romanzo nemmeno lo avrei letto. Negli ultimi trent’anni mi sono perso tutti i premi Strega e Viareggio e Goncourt e Cervantes e Man Booker, nonché i Campiello e Bancarella, sempre che ancora esistano, senza rammarichi o sensi di colpa. Semplicemente perché ho pochissimo tempo a disposizione e una pila altissima e traballante di altre cose in attesa. Per distrarmi o rilassarmi preferisco fare quattro salti nel passato attraverso le riletture, da Verne e Woodehouse a Camus e al Don Chisciotte. Bene, quella del “romanzo” di Marcello è stata in qualche modo una rilettura: volevo ritrovarci l’amico col quale ho condiviso uno spezzone della mia vita, e in effetti era lì, tutto intero, squadernato senza filtri o ritrosie o autocensure.

O meglio. Un filtro c’è, e mica tanto sottile. È quello del suo linguaggio. Fossi un critico letterario lo vivisezionerei e andrei a dire un sacco di inutili stupidaggini, perché la giustificazione delle sue scelte semantiche (di quelle lessicali, soprattutto, perché il registro compositivo è poi limpidamente classico) Marcello ce la offre già bella e pronta ed esauriente. “Io voglio una lingua precisa, esatta, variegata, screziata e cangiante. Anzi, voglio una lingua che inchiodi, che imbulloni, voglio parole che mettano alle strette, che mettano alle corde, capaci di imprimere, di radicare, di marchiare, di urticare. Voglio una lingua di parole rifondate, da maneggiare con cura, affilate e acuminate, arrotate e molate dall’etica e dalla fatica, parole da sudare, da espugnare, da guadagnare come un approdo, come un ormeggio, come la cima di una scalata.

Sì, io sono per la violenza della parola, visto che la parola dei poeti è esiliata, e quella dei visionari, degli allucinati, dei congedati, degli indifesi, degli intimiditi e intimoriti e sgomenti, tra manganelli e sfollagente, tra nuovo medioevo terminale e libero mercato imperante in odore di catastrofe”.

È proprio così. Confesso che questa lingua l’ho sempre sofferta, tanto nelle sue poesie come nei sui saggi. La trovavo esasperata, ed esasperante. Sono una persona tutt’altro che paziente e ho sempre seguito dettami semplificatori: se hai qualcosa da dire, dillo alla svelta. Senza girarci troppo attorno.

Ora forse ho capito. Sono partito alla lettura del libro di Marcello col proposito di reggere fino in fondo, perché la lealtà amicale me lo imponeva, se volevo poi poterne discutere: ma col mio solito spirito di corsa. Mi sono invece trovato poco alla volta a procedere disciplinando il passo su quello dell’autore, come camminassimo assieme in un viottolo di campagna, rallentando con lui, ascoltando le sue confessioni, fermandomi ogni tanto per lasciarlo sfogare, divertendomi anche, stavolta, nel vederlo affastellare roghi linguistici. Ho capito la differenza tra chi, come me, incalzato costantemente dalla fretta, si serve della lingua come materiale da costruzione, pur nella coscienza che non è solo quello, e chi, come Marcello, la usa come scalpello per fare emergere quello che sta dentro la materia. Io costruisco case (anzi, capanni): lui scolpisce statue. E lo fa scavando nei materiali più duri, nel granito, nella pietra.

I brani che propongo sono la dimostrazione che dalla pietra dura non si ricavano necessariamente solo statue equestri. Quando si ferma a sognare o a ricordare, depositando lo zaino carico di pur legittime indignazioni ed esecrazioni, Marcello riesce a scolpirci in altorilievo paesaggi interiori e scenari esterni che appaiono sorprendentemente animati.

Se scrivere non è solo la prosecuzione della chiacchera con altri mezzi, questo è scrivere.

da “Senza vero desiderio di andare”

di Marcello Furiani, 14 marzo 2020Senza vero desiderio di andare

19.

Le mie estati di ragazzo – trascorse nella campagna argillosa di un paese a una manciata dal mare – erano sconfinate e avvincevano sui sentieri polvere e sole, mentre i gatti si stendevano all’ombra di cespi di ginestre selvatiche o ai piedi dei ginepri.

Ero un ragazzo magro, scagliato a sfidare il sole di agosto intessendo disordinatamente i nervosi viottoli deserti costeggiati di piccoli botri, in quei giorni asciutti come visi scarni molati dal sole.

Passavano le ore, distese su giorni di sole, di niente, di vuoto, su un trascinato crocidare di rane dietro a siepi e sugli sciami inebriati delle api attorno ai fiori gridati. Una pace affilata ma senza dolore assediava gli albicocchi carichi come animali da soma.

Mai più negli anni le giornate da giugno a settembre mi sarebbero sembrate più lunghe. Né le sere così indolenti nel fiaccarsi, perché l’adolescenza imbastisce un tempo mitico: una folata di anni si dilata all’infinito e si vagheggia smisurata. Le estati della giovinezza durano una perennità, sono immortali come chi le attraversa: essere giovani è sentirsi immensi dentro una stanza, avvertire il sangue muoversi veloce, contare sul futuro senza sapere l’acino agro del cordoglio che contiene.

In quelle ore, sospinto da un desiderio cui non consegnavo un nome, andavo alla ricerca di qualcosa di indistinto che ancora non conoscevo, di un momento forse di lontananza, di un gesto che si aprisse oltre l’angoscia del finito, oltre il forse e il quasi di ogni giorno, il qui e l’ora di ogni istante, proteso da domande totali e fulminanti. E questo desiderio si traduceva nell’impeto di vederla tutta quella campagna, nell’attraversarla da cima a fondo, nel percorrerla come per averla dentro, nel valicarne confini e frontiere, estremità di pinete e piccoli bugni di colline.

Le strade erano una maglia strappata attraverso cui immaginare un’epifania, un ordito dischiuso davanti agli occhi da esplorare.

Credo che questa mia abitudine a camminare – a differenza della maggior parte delle consuetudini che svelano un’inerte pigrizia – discenda da quelle estati gonfie dei richiami di sirene nascoste dietro una radura o dall’altro versante di un’altura. Era un abbandonare la retta via, cedere alla malia, era disobbedienza di sangue indocile, occhio che non abbassa lo sguardo, superbia e vanità di clandestino, fuga da Cacania, esodo senza Itaca, cantilena di bastian contrario senza proprietà, senza bandiere, senza confini.

E forse qualcosa perdura ancora oggi di tutti i pomeriggi che ho passato a camminare per i boschi della mia adolescenza, sostando ai piedi di un rovere o scalando colline spingendo sui pedali di una bicicletta fino alla stanchezza che si allungava nelle ossa come un lago, di ogni sera consumata ad afferrare lo sguardo di ragazze che sapevano di erba recisa e di terra di sola andata. Tropici e lontananze, abissi e voglie, eldorado e atlantide che talora ritornano alla rinfusa con l’affanno di un esilio durato ottant’anni.

Perché la chiarezza dell’estate è spietata e non, come credeva John Donne, “coraggiosa”: c’è indiscrezione nella luce che abbaglia i contorni e confonde il profilo delle cose, come in uno sguardo insistito che s’impunta a fissare un gesto. L’orizzonte si sfuma in un’immobilità indifferente che muta il tempo in spazio, la durata in distanza, il prima e il dopo in uno sprofondato presente dove è facile abbandonarsi all’inerzia senza domande, perché “se tutto il tempo è eternamente presente, tutto il tempo è irredimibile” (Thomas Stearns Eliot, Quattro quartetti, Burt Norton I.).

La luce è facile nella sua illusione di rischiarare ogni cosa, ogni recesso, ogni riparo e nel pensarsi come rimedio alla tenebra, difesa dall’opaco, soccorso alla mancanza. Ma l’ombra è segreto e mistero per cui nutrire riguardo, percorrendola con il solo bagliore del proprio sguardo e le uniche suole dei propri sandali, con il rischio di incespicare e di perdersi, saggiandone gli imprevisti e gravandosi delle ferite della sua intimità. Come quando, salendo l’erta di un monte, non si ha sapienza della vetta, ma si schiudono con fatica le pietre e gli arbusti dell’ascesa, e le schegge dell’arrampicata diventano la trama del sangue.

Ma, a ben vedere – dietro la frenesia di camminarla tutta questa campagna, oltre la smania di varcare ogni giorno immaginari confini, prima dell’impazienza di corteggiare un punto di non ritorno – credo che io fraintendessi la solitudine cui questo andare mi consegnava e che vagheggiavo con il puberale orgoglio del rifiuto di sedermi alla mensa di casa, laddove mi sembrava che le parole imbandite ammaestrassero alla rassegnazione, alla sottomissione, alla rinuncia. A quale sottomessa e rassegnata rinuncia intendessero istruirmi non era così trasparente, anzi, a dire il vero, ogni tentativo di dare forma alle origini dei miei rifiuti vacillava ancora prima di trovare una via, lasciandomi malfermo a metà strada tra il genio incompreso e il grullo sventato. Non che non avessi ragioni, ma il mio era solo istinto e non ragione, impulso e non riflessione. Peraltro l’essenza dell’adolescenza è quanto di più incerto e sconnesso si possa immaginare: pura aritmia di senso, vertigine che impasta scorie d’infanzia e lacerti di un avvenire sospirato e temuto, è tempo che rigetta la misura, fiera del pathos della sua solitudine, del suo furore dispersivo, delle sue sfide, della sua nobiltà d’intenti. Si esce e si rientra in se stessi un’infinità di volte, ci si affaccia al mondo come lumache dopo la pioggia per poi ritrarsi come lucertole tra le crepe di un muro amico.

Questa altalena di lumache e lucertole durò fino al giorno in cui cominciai a uscire di casa per salire lungo le gambe di ragazze di cui nemmeno ricordo il nome o l’odore: da allora non rientrai più nelle fenditure dei muri, più non sedetti al banchetto domestico dove la mortificazione della carne e del pensiero fluttuava nell’effluvio di cavoli e di bietole, più non mi rinvenne in gola quel farisaico reflusso da senso di colpa così simile a uno stagno d’acqua morta. Questo accadde perché il corpo delle donne, con le sue rotondità e le sue cavità, sembra fatto apposta per occultare confessioni, offuscare segreti, alveo di fiume dove annidare misteri. Nulla di più esatto per coltivare un’inesausta seduzione. Ambivalenza del femminile per un adolescente: da madre che trattiene ad amante che invita tra le lenzuola di un letto sconosciuto, da amorevole carceriera a inebriante musa del mare.

Ma non si pensi a un intreccio scorrevole e disinvolto, piuttosto fu un transito tutto laceramenti e sdruciture e crepe come in ogni educazione da autodidatta, dove si arraffa, si abbranca, si agguanta quello che la sorte ci mette a disposizione con la smania e l’inquietudine di chi avverte un’impazienza e non sa ancora come governarla ed è incapace di accomodamenti.

Eppure ancora oggi ricordo con una sorta di turbamento le mie fughe a piedi o in bicicletta lungo l’Appennino e la solitudine fiera che le fecondava di pensieri affioranti per la prima volta, mischiandosi con un respiro ora d’affanno, ora di quiete. Mi capita ancora talvolta quando cammino di inspirare un soffio di quello stato d’animo, di quell’aria dello spirito. Lo sguardo non è più quello di ieri, ma i pensieri si assiepano come allora nella mente, accordando il loro germogliare ai passi, il loro schiudersi alla cadenza dell’incedere. Solo nel vagabondare i miei pensieri trovano la strada per affacciarsi tra le siepi della coscienza, in questo girandolare senza un fine determinato, senza uno scopo risoluto.

*****

20.

[….] Altro motivo abituale delle lezioni di don Ippolito – a cui comunque andava riconosciuta una certa autorevolezza – era il concetto di libertà, strettamente correlato alla salvezza, anzi direi subordinato a quest’ultima: non esiste vera, autentica e sana libertà se non quella che ci fa scegliere di salvarci. La libertà che ci perde, che ci allontana dalla salvezza è solo arbitrio, abuso e profanazione di un dono ricevuto dall’alto, irriconoscenza, scelleratezza ed eresia. Ora, che si potesse chiamare libertà una libertà che di libero aveva solo il nome, che era libera sub condicione conferatur era un’obiezione che don Ippolito faceva fatica anche solo a comprendere: lo strizzare degli occhi e il rincaro della salivazione ribadivano che nella scala gerarchica dei suoi valori non c’era spazio per variazioni pur minime e il fatto che questa inflessibilità deprivasse ogni concetto della sua totalità non lo turbava affatto. Ma che libertà era una libertà che non poteva scegliere, che, in virtù di un bene decretato a priori, aveva la stessa libertà dei topolini di Pavlov?

L’unico uso plausibile della libertà – che cioè fa onore al concetto e lo declina senza inibizioni – è quello estremo, eccessivo, sfrenato e sregolato, in altre parole: puro e incorrotto, quindi spaventevole. La libertà, nel suo senso più ampio e compiuto, è deroga dalla regola, dal limite, finanche dall’etica, è fare i conti con tutto il possibile inclusa la follia: quando si parla di libertà, la si rivendica e la si reclama, bisognerebbe avere consapevolezza che si discute di un surrogato, di uno scampolo di quella condizione che non ammette confini e non conosce soglie davanti alle quali doversi fermare.

Per questo la vita della maggioranza delle persone si muove dentro argini e confini, è transennata da barriere, sconta divieti di sosta, di svolta e di inversione; per questo le loro giornate si modellano sulla ripetitività di gesti, parole e sentimenti che tengono a bada l’estro, la fantasia, la velleità, l’insubordinazione. Qualcuno dirà che la libertà e il suo esercizio sono – secondo etica e giustizia – vincolati alla libertà altrui e alla convivenza civile, ed è ovviamente vero, ma quello che mi preme dire appartiene a un altro punto di vista, è come una superficie iridescente che, illuminata, assume un ventaglio di tonalità differenti.

A ben guardare l’umanità che ha goduto di una libertà assoluta ne ha fatto generalmente un uso criminoso. È come se solo dietro a qualche tipo di sbarre, solo con una caviglia impedita da qualche catena, l’uomo possa avere della libertà un’idea nobile, un’immagine ideale, una visione elevata. Appena quell’asservimento si allenta come le maglie di un tessuto, ci si disperde – nel migliore dei casi – o si sbriglia quella feroce volontà di potenza, inestinguibile gioco di accumulo e prevaricazione, dove “i sùbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata”. Nulla, nell’epilogo di questo gioco, è sufficiente a opporsi al potere della soverchieria e agli uomini “cupidi di guadagno”: né l’etica, né l’umanità, né la paura: chi ha la forza di commettere un sopruso, ordinariamente, prima o poi lo compie. Perché non c’è acqua che disseti quella sete, quella bramosia di potere: quando l’uomo si scopre illimitato, diventa efficiente solo nell’esibire muscolarmente la propria intelligenza e la propria forza.

Ma non si dà libertà senza rischio di deriva, senza azzardo di perdizione, senza incognita di dannazione.

Non si tratta di rimpiangere l’ottusità di vincoli e divieti, la cui paura persuade gli animi alla viltà, inibisce la dignità, ingessa i pensieri dentro la stessa costrizione dei corpi, svilendo la maggioranza dei gesti – insieme alla codardia e alla corruzione del quieto vivere – a una qualità così misera e infelice da guastare il piacere di averli compiuti. Si tratta di prendere atto dell’ambivalenza mai soluta dell’umano, di quella contraddizione tragica – poiché inabile a risolversi in alcuna conciliazione – che confonde il giudizio e annebbia lo sguardo di chi ambirebbe sottoscrivere il bianco o il nero dell’esperimento umano, che confonde il bene con il male, il sacro con il blasfemo, che mescola le carte delle buone intenzioni con quelle delle minute meschinità, che assimila la sorte del giusto e dell’empio, abbandonati col tempo allo stesso oblio.

Stickken: The story of a Dog (di John Muir)

Stickeen The Story of a dog (di John Muir)a cura di Paolo Repetto, 3 marzo 2020

Stickeen

Stikine: La storia di un cane

Stikine

Introduction

by Dan E. Anderson and Harold Wood

In 1880, John Muir made his second trip to Alaska. On this trip he explored Brady Glacier, which empties into Taylor Bay in what is now Glacier Bay National Park, with a friend’s dog, Stickeen. Muir was a great story teller and he told this story many times before writing it down in 1909 as a short story at the urging of several of his friends. Stickeen has been ranked as a classic dog story by many who have read it. John Muir’s Adventure with a Dog and a Glacier

 

Introduction

John Muir’s true story of what happened on an Alaskan glacier with a dog named Stickeen, in 1880, is one of Muir’s best-known writings, and is now considered a classic dog story. Although it can be read as a straight adventure story, it is much more than that. Muir’s story is most compelling because it revealed to Muir that man and dog were not so unlike each other. Stickeen was at first an unfriendly little dog, but after surviving a perilous journey across a glacier by crossing an ice bridge, Stickeen’s aloofness is replaced by rapturous emotion, revealing to Muir the fact that our “horizontal brothers” are not that much unlike us.

Muir wrote, “I have known many dogs, and many a story I could tell of their wisdom and devotion; but to none do I owe so much as to Stickeen. At first the least promising and least known of my dog-friends, he suddenly became the best known of them all. Our storm-battle for life brought him to light, and through him as through a window I have ever since been looking with deeper sympathy into all my fellow mortals.”

Muir spent years telling the story, and close to thirty years before he was able to put it in writing. Though the story itself is a simple one, Muir felt it was the hardest thing he ever tried to write. Muir saw Stickeen as “the herald of a new gospel” adding “in all my wild walks, seldom have I had a more definite or useful message to bring back.” Muir wanted to present that message in the best way possible.

When first published in Century magazine in 1897 (V. 54, no. 5, Sept. 1897, under the title “An Adventure with a Dog and a Glacier), it was heavily edited, with whole sections of what his editor called “digressions” deleted. For the original manuscript, painstakingly re-constructed from the Muir Papers, see Ronald Limbaugh’s book, John Muir’s “Stickeen” and the Lessons of Nature . Muir was able to restore some of his thoughts when he published the story in book form in 1909. It was revised and re-told again in his 1915 Travels in Alaska, and has been re-printed several times since then in all kinds of formats, in the 70’s, 80’s and 90’s.

Muir’s story has inspired several books with outstanding illustrations. The 1990 paperback edition published by Heyday Books, contains outstanding black-and-white illustrations by Carl Dennis Buell. The Donnell Rubay re-telling of 1998 (Dawn Publications) is accompanied by outstanding color illustrations by Christopher Canyon. Another childlren’s picture book of the story was illustrated by Karl Swanson, and written by Elizabeth Koehler-Pentacoff (Millbrook Press). Be sure to read about these these editions below.

See below for Muir’s actual Stickeen writings, plus links to a variety of pages about books, audio, and music that tells more about Muir and his remarkable canine friend, Stickeen.

Muir’s Writings

Books About Stickeen

John Muir’s “Stickeen” and the Lessons of Nature , by Ronald H. Limbaugh (Fairbanks, AK: University of Alaska Press, 1996) Black and White illustrations; Index. Appendix: “Notes on ‘Stickeen’ in John Muir’s Library.” 185 pp.

This scholarly examination of Muir’s famous dog story “Stickeen” helps greatly to illuminate Muir’s growth as a writer. Ron Limbaugh uses “Stickeen” to show how Muir’s literary creativity grew over time, and how it was influenced by major turn-of-the-century ideas and events such as the Darwinian debates and the emerging animal rights movement. Moreover, Limbaugh notes that “Stickeen” is the only literary product from Muir’s pen that can be directly and extensively linked to ideas formulated from the books of his personal library. Accordingly, “Studying its origin and evolution is essential to understanding Muir’s development as a writer and as an advocate for the moral equality of all species.”

John Muir and Stickeen: An Icy Adventure with a No-Good Dog by Julie Dunlap & Marybeth Lorbiecki; Illustrated by Bill Farnsworth. (2004)

A beautifully-illustrated children’s book based on Muir’s own book Stickeen, which tells the thrilling adventure of how Muir set off to explore an Alaskan glacier one day, with the unwelcome accompaniment of Stickeen, and ran into a storm. What happened on that terrifying day made Muir see domestic animals in a new light. For ages 5-8, Grades 1-4. The School Library Journal opines: “Although not the first picture-book version of this story about a harrowing 1880 expedition to Glacier Bay, this excellent rendition is the best treatment so far.” The Journal goes on to note: “The only flaw in the text is that the authors overplay the naturalist’s disdain for dogs in general. While Muir’s own Stickeen (Houghton, 1909) does confirm that he thought Sitckeen to be “small and worthless” and likely to “require care like a baby,” he also states plainly that he did generally like dogs. Apart from this minor mischaracterization, they do a fine job of conveying the wonder that inspired the man’s life work and the peril of this particular exploit. While some portions are condensed and others drawn out, they generally remain faithful to Muir’s own accounts.”

Stickeen: John Muir and the Brave Little Dog, as re-told by Donnell Rubay

This children’s picture book contains beautiful art work by Christopher Canyon. Muir’s story is re-told in simple language, while remaining true to Muir’s words.

John Muir and Stickeen: an Alaskan Adventure, by Elizabeth Koehler-Pentacoff, Illustrated by Karl Swanson.

This picture book is for younger children than Rubay’s book (K-3). The author tells the story in the present tense. Full-color illustrations by Karl Swanson highlight the hostility of the environment and the incredible courage of Muir and his canine companion.

 

 

Audio Renditions

Gerald Pelrine Presents “The Tale of Stickeen”

Gerald Pelrine’s riveting rendition is included on the John Muir Tribute CD.

Gerald Pelrine offers his critically acclaimed characterization of Muir as lecturer reliving the experience and the lessons learned: the great crevasse of the glacier as symbol of “the valley of the shadow of death.” little Stickeen perched atop its rim, the joy of deliverance, and his shattering view of eternity seen through the eyes of “the silent, philosophic Stickeen.”

“Stickeen,” performed by Lee Stetson, CD, 1990.

The icy storm story of a little dog named Stickeen is perhaps the most popular and most loved of John Muir’s many wilderness adventures. Your heart will race with excitement and anticipation as you listen to renowned actor Lee Stetson describe the thrilling adventure of this “little, black, short-legged bunchy-bodied, toy dog” on the Alaskan glacier. You’ll also hear Muir’s other thrilling – and true – animal encounters, with bears, rattlesnakes, pigeons and many more, including dogs, cats and sheep. All are extracted from Muir’s writing and woven by Stetson into a splendid performance. Always exciting, often humorous, these stories present Muir’s “gospel” of preaching the fundamental unity and kinship of all the earth’s life forms.

”Stickeen and John Muir’s Other Animal Adventures” by Storyteller Garth Gilchrist (Nevada City, CA: Dawn Publications, 2000)

Compact Disc.

From the CD cover: Storyteller Garth Gilchrist becomes John Muir, recounting the most beloved of all his adventure stories: bears, flying mountain sheep, a lightning squirrel, wise and hilarious farm animals and wondrous birds. The concluding story, Stickeen [24:22 minutes], is a tale of a life-and-death glacier crossing with an extraordinary dog, through whom Muir finds a window into the hearts of “all my fellow mortals.”

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John Muir’s story of Stickeen is also included in the various audio versions of his book, Travels in Alaska.

 

 

Stickeen

by John Muir

In the summer of 1880 I set out from Fort Wrangell in a canoe to continue the exploration of the icy region of southeastern Alaska, begun in the fall of 1879. After the necessary provisions, blankets, etc., had been collected and stowed away, and my Indian crew were in their places ready to start, while a crowd of their relatives and friends on the wharf were bidding them good-by and good-luck, my companion, the Rev. S. H. Young , for whom we were waiting, at last came aboard, followed by a little black dog, that immediately made himself at home by curling up in a hollow among the baggage. I like dogs, but this one seemed so small and worthless that I objected to his going, and asked the missionary why he was taking him.

“Such a little helpless creature will only be in the way,” I said; “you had better pass him up to the Indian boys on the wharf, to be taken home to play with the children. This trip is not likely to be good for toy-dogs. The poor silly thing will be in rain and snow for weeks or months, and will require care like a baby.” But his master assured me that he would be no trouble at all; that he was a perfect wonder of a dog, could endure cold and hunger like a bear, swim like a seal, and was wondrous wise and cunning, etc., making out a list of virtues to show he might be the most interesting member of the party.

Nobody could hope to unravel the lines of his ancestry. In all the wonderfully mixed and varied dog-tribe I never saw any creature very much like him, though in some of his sly, soft, gliding motions and gestures he brought the fox to mind. He was short-legged and bunch-bodied, and his hair, though smooth, was long and silky and slightly waved, so that when the wind was at his back it ruffled, making him look shaggy. At first sight his only noticeable feature was his fine tail, which was about as airy and shady as a squirrel’s , and was carried curling forward almost to his nose. On closer inspection you might notice his thin sensitive ears, and sharp eyes with cunning tan-spots above them. Mr. Young told me that when the little fellow was a pup about the size of a woodrat he was presented to his wife by an Irish prospector at Sitka, and that on his arrival at Fort Wrangell he was adopted with enthusiasm by the Stickeen Indians as a sort of new good-luck totem, was named “Stickeen” for the tribe, and became a universal favorite; petted, protected, and admired wherever he went, and regarded as a mysterious fountain of wisdom.

On our trip he soon proved himself a queer character–odd, concealed, independent, keeping invincibly quiet, and doing many little puzzling things that piqued my curiosity. As we sailed week after week through the long intricate channels and inlets among the innumerable islands and mountains of the coast, he spent most of the dull days in sluggish ease, motionless, and apparently as unobserving as if in deep sleep. But I discovered that somehow he always knew what was going on. When the Indians were about to shoot at ducks or seals, or when anything along the shore was exciting our attention, he would rest his chin on the edge of the canoe and calmly look out like a dreamy-eyed tourist. And when he heard us talking about making a landing, he immediately roused himself to see what sort of a place we were coming to, and made ready to jump overboard and swim ashore as soon as the canoe neared the bench. Then, with a vigorous shake to get rid of the brine in his hair, he ran into the woods to hunt small game. But though always the first out of the canoe, he was always the last to get into it. When we were ready to start he could never be found, and refused to come to our call. We soon found out, however, that though we could not see him at such times, he saw us, and from the cover of the briers and huckleberry bushes in the fringe of the woods was watching the canoe with wary eye. For as soon as we were fairly off he came trotting down the beach, plunged into the surf, and swam after us, knowing well that we would cease rowing and take him in. When the contrary little vagabond came alongside, he was lifted by the neck, held at arm’s length a moment to drip, and dropped aboard. We tried to cure him of this trick by compelling him to swim a long way, as if we had a mind to abandon him; but this did no good; the longer the swim the better he seemed to like it.

Though capable of great idleness, he never failed to be ready for all sorts of adventures and excursions. One pitch-dark rainy night we landed about ten o’clock at the mouth of a salmon stream when the water was phosphorescent . The salmon were running , and the myriad fins of the onrushing multitude were churning all the stream into a silvery glow, wonderfully beautiful and impressive in the ebon darkness. To get a good view of the show I set out with one of the Indians and sailed up through the midst of it to the foot of a rapid about half a mile from camp, where the swift current dashing over rocks made the luminous glow most glorious. Happening to look back down the stream, while the Indian was catching a few of the struggling fish, I saw a long spreading fan of light like the tail of a comet, which we thought must be made by some big strange animal that was pursuing us. On it came with its magnificent train, until we imagined we could see the monster’s head and eyes; but it was only Stickeen, who, finding I had left the camp, came swimming after me to see what was up.

When we camped early, the best hunter of the crew usually went to the woods for a deer, and Stickeen was sure to be at his heels, provided I had not gone out. For, strange to say, though I never carried a gun, he always followed me, forsaking the hunter and even his master to share my wonderings. The days that were too stormy for sailing I spent in the woods, or on the adjacent mountains, wherever my studies called me; and Stickeen always insisted on going with me, however wild the weather, gliding like a fox through dripping huckleberry bushes and thorny tangles of panax and rubus , scarce stirring their rain-laden leaves; wading and wallowing through snow, swimming icy streams, skipping over logs and rocks and the crevasses of glaciers with the patience and endurance of a determined mountaineer, never tiring or getting discouraged. Once he followed me over a glacier the surface of which was so crusty and rough that it cut his feet until every step was marked with blood; but he trotted on with Indian fortitude until I noticed his red track, and, taking pity on him, made him a set of moccasins out of a handkerchief. However great his troubles he never asked help or made any complaint, as if, like a philosopher, he had learned that without hard work and suffering there could be no pleasure worth having.

Yet none of us was able to make out what Stickeen was really good for. He seemed to meet danger and hardships without anything like reason, insisted on having his own way, never obeyed an order, and the hunter could never set him on anything, or make him fetch the birds he shot. His equanimity was so steady it seemed due to want of feeling; ordinary storms were pleasures to him, and as for mere rain, he flourished in it like a vegetable. No matter what advances you might make, scarce a glance or a tail-wag would you get for your pains. But though he was apparently as cold as a glacier and about as impervious to fun, I tried hard to make his acquaintance, guessing there must be something worth while hidden beneath so much courage, endurance, and love of wild-weathery adventure. No superannuated mastiff or bulldog grown old in office surpassed this fluffy midget in stoic dignity. He sometimes reminded me of a small, squat, unshakable desert cactus. For he never displayed a single trace of the merry, tricksy, elfish fun of the terriers and collies that we all know, nor of their touching affection and devotion. Like children, most small dogs beg to be loved and allowed to love; but Stickeen seemed a very Diogenes , asking only to be let alone: a true child of the wilderness, holding the even tenor of his hidden life with the silence and serenity of nature. His strength of character lay in his eyes. They looked as old as the hills, and as young, and as wild. I never tired of looking into them: it was like looking into a landscape; but they were small and rather deep-set, and had no explaining lines around them to give out particulars. I was accustomed to look into the faces of plants and animals, and I watched the little sphinx more and more keenly as an interesting study. But there is no estimating the wit and wisdom concealed and latent in our lower fellow mortals until made manifest by profound experiences; for it is through suffering that dogs as well as saints are developed and made perfect.

After exploring the Sum Dum and Tahkoo fiords and their glaciers, we sailed through Stephen’s Passage into Lynn Canal and thence through Icy Strait into Cross Sound, searching for unexplored inlets leading toward the great fountain ice-fields of the Fairweather Range. Here, while the tide was in our favor, we were accompanied by a fleet of icebergs drifting out to the ocean from Glacier Bay . Slowly we paddled around Vancouver’s Point, Wimbledon, our frail canoe tossed like a feather on the massive heaving swells coming in past Cape Spenser. For miles the sound is bounded by precipitous mural cliffs, which, lashed with wave-spray and their heads hidden in clouds, looked terribly threatening and stern. Had our canoe been crushed or upset we could have made no landing here, for the cliffs, as high as those of Yosemite , sink sheer into deep water. Eagerly we scanned the wall on the north side for the first sign of an opening fiord or harbor, all of us anxious except Stickeen, who dozed in peace or gazed dreamily at the tremendous precipices when he heard us talking about them. At length we made the joyful discovery of the mouth of the inlet now called “Taylor Bay,” and about five o’clock reached the head of it and encamped in a Spruce grove near the front of a large glacier.

While camp was being made, Joe the hunter climbed the mountain wall on the east side of the fiord in pursuit of wild goats, while Mr. Young and I went to the glacier. We found that it is separated from the waters of the inlet by a tide-washed moraine, and extends, an abrupt barrier, all the way across from wall to wall of the inlet, a distance of about three miles. But our most interesting discovery was that it had recently advanced, though again slightly receding. A portion of the terminal moraine had been plowed up and shoved forward, uprooting and overwhelming the woods on the east side. Many of the trees were down and buried, or nearly so, others were leaning away from the ice-cliffs, ready to fall, and some stood erect, with the bottom of the ice plow still beneath their roots and its lofty crystal spires towering huge above their tops. The spectacle presented by these century-old trees standing close beside a spiry wall of ice, with their branches almost touching it, was most novel and striking. And when I climbed around the front, and a little way up the west side of the glacier, I found that it had swelled and increased in height and width in accordance with its advance, and carried away the outer ranks of trees on its bank.

On our way back to camp after these first observations I planned a far-and-wide excursion for the morrow. I awoke early, called not only by the glacier, which had been on my mind all night, but by a grand flood-storm. The wind was blowing a gale from the north and the rain was flying with the clouds in a wide passionate horizontal flood, as if it were all passing over the country instead of falling on it. The main perennial streams were booming high above their banks, and hundreds of new ones, roaring like the sea, almost covered the lofty gray walls of the inlet with white cascades and falls. I had intended making a cup of coffee and getting something like a breakfast before starting, but when I heard the storm and looked out I made haste to join it; for many of Nature’s finest lessons are to be found in her storms , and if careful to keep in right relations with them, we may go safely abroad with them, rejoicing in the grandeur and beauty of their works and ways, and chanting with the old Norsemen, “The blast of the tempest aids our oars, the hurricane is our servant and drives us whither we wish to go.” So, omitting breakfast, I put a piece of bread in my pocket and hurried away.

Mr. Young and the Indian were asleep, and so, I hoped, was Stickeen; but I had not gone a dozen rods before he left his bed in the tent and came boring through the blast after me. That a man should welcome storms for their exhilarating music and motion, and go forth to see God making landscapes, is reasonable enough; but what fascination could there be in such tremendous weather for a dog? Surely nothing akin to human enthusiasm for scenery or geology. Anyhow, on he came, breakfastless, through the choking blast. I stopped and did my best to turn him back. “Now don’t,” I said, shouting to make myself heard in the storm. “now don’t, Stickeen. What has got into your queer noddle now? You must be daft. This wild day has nothing for you. There is no game abroad, nothing but weather. Go back to camp and keep warm, get a good breakfast with your master, and be sensible for once. I can’t carry you all day or feed you, and this storm will kill you.”

But Nature, it seems, was at the bottom of the affair, and she gains her ends with dogs as well as with men, making us do as she likes, shoving and pulling us along her ways, however rough, all but killing us at times in getting her lessons driven hard home. After I had stopped again and again, shouting good warning advice, I saw that he was not to be shaken off; as well might the earth try to shake off the moon. I had once led his master into trouble, when he fell on one of the topmost jags of a mountain and dislocated his arm ; now the turn of his humble companion was coming. The pitiful wanderer just stood there in the wind, drenched and blinking, saying doggedly , “Where thou goest I will go.” So at last I told him to come on if he must, and gave him a piece of the bread I had in my pocket; then we struggled on together, and thus began the most memorable of all my wild days.

The level flood, driving hard in our faces, thrashed and washed us wildly until we got into the shelter of a grove on the east side of the glacier near the front, where we stopped awhile for breath and to listen and look out. The exploration of the glacier was my main object, but the wind was too high to allow excursions over its open surface, where one might be dangerously shoved while balancing for a jump on the brink of a crevasse. In the mean time the storm was a fine study. There the end of the glacier, descending an abrupt swell of resisting rock about five hundred feet high, leans forward and falls in ice-cascades. And as the storm came down the glacier from the north, Stickeen and I were beneath the main current of the blast, while favorably located to see and hear it. What a psalm the storm was singing, and how fresh the smell of the washed earth and leaves, and how sweet the still small voices of the storm! Detached wafts and swirls were coming through the woods, with music from the leaves and branches and furrowed boles, and even from the splintered rocks and ice-crags overhead, many of the tones soft and low and flute-like, as if each leaf and tree, crag and spire were a tuned reed. A broad torrent, draining the side of the glacier, now swollen by scores of new streams from the mountains, was rolling boulders along its rocky channel, with thudding, bumping, muffled sounds, rushing toward the bay with tremendous energy, as if in haste to get out of the mountains; the winters above and beneath calling to each other, and all to the ocean, their home.

Looking southward from our shelter, we had this great torrent and the forested mountain wall above it on our left, the spiry ice-crags on our right, and smooth gray gloom ahead. I tried to draw the marvelous scene in my note-book, but the rain blurred the page in spite of all my pains to shelter it, and the sketch was almost worthless. When the wind began to abate, I traced the east side of the glacier. All the trees standing on the edge of the woods were barked and bruised, showing high-ice mark in a very telling way, while tens of thousands of those that had stood for centuries on the bank of the glacier farther out lay crushed and being crushed. In many places I could see down fifty feet or so beneath the margin of the glacier-mill, where trunks from one to two feet in diameter here being ground to pulp against outstanding rock-ribs and bosses of the bank.

About three miles above the front of the glacier I climbed to the surface of it by means of axe-steps made easy for Stickeen. As far as the eye could reach, the level, or nearly level, glacier stretched away indefinitely beneath the gray sky, a seemingly boundless prairie of ice. The rain continued, and grew colder, which I did not mind, but a dim snowy look in the drooping clouds made me hesitate about venturing far from land. No trace of the west shore was visible, and in case the clouds would settle and give snow, or the wind again become violent. I feared getting caught in a tangle of crevasses. Snow-crystals, the flowers of the mountain clouds, are frail, beautiful things, but terrible then flying on storm-winds in darkening, benumbing swarms or when welded together into glaciers full of deadly crevasses. Watching the weather, I sauntered about on the crystal sea. For a mile or so out I found the ice remarkably safe. The marginal crevasses mere mostly narrow, while the few wider ones were easily avoided by passing around them, and the clouds began to open here and there.

Thus encouraged, I at last pushed out for the other side; for Nature can make us do anything she likes. At first we made rapid progress, and the sky was not very threatening, while I took bearings occasionally with a pocket compass to enable me to find my way back more surely in case the storm should become blinding; but the structure lines of the glacier were my main guide. Toward the west side we came to a closely crevassed section in which we had to make long, narrow tacks and doublings, tracing the edges of tremendous traverse and longitudinal crevasses, many of which were from twenty to thirty feet wide, and perhaps a thousand feet deep–beautiful and awful. In working a way through them I was severely cautious, but Stickeen came on as unhesitating as the flying clouds. The widest crevasse that I could jump he would leap without so much as halting to take a look at it. The weather was now making quick changes, scattering bits of dazzling brightness through the wintry gloom at rare intervals, when the sun broke forth wholly free, the glacier was seen from shore to shore with a bright array of encompassing mountains partly revealed, wearing the clouds as garments, while the prairie bloomed and sparkled with irised light from myriads of washed crystals. Then suddenly all the glorious show would be darkened and blotted out.

Stickeen seemed to care for none of these things, bright or dark, nor for the crevasses, wells, moulins, or swift flashing streams into which he might fall. The little adventurer was only about two years old, yet nothing seemed novel to him. Nothing daunted him. He showed neither caution nor curiosity, wonder nor fear, but bravely trotted on as if glaciers were playgrounds. His stout, muffled body seemed all one skipping muscle, and it was truly wonderful to see how swiftly and to all appearance heedlessly he flashed across nerve-trying chasms six or eight feet wide. His courage was so unwavering that it seemed to be due to dullness of perception, as if he were only blindly bold; and I kept warning him to be careful. For we had been close companions on so many wilderness trips that I had formed the habit of talking to him as if he were a boy and understood every word.

We gained the west shore in about three hours; the width of the glacier here being about seven miles. Then I pushed northward in order to see as far back as possible into the fountains of the Fairweather Mountains, in case the clouds should rise. The walking was easy along the margin of the forest, which, of course, like that on the other side, had been invaded and crushed by the swollen, overflowing glacier. In an hour or so, after passing a massive headland, we came suddenly on a branch of the glacier, which, in the form of a magnificent ice-cascade two miles wide, was pouring over the rim of the main basin in a westerly direction, its surface broken into wave-shaped blades and shattered blocks, suggesting the wildest updashing, heaving, plunging motion of a great river cataract. Tracing it down three or four miles, I found that it discharged into a lake, filling it with icebergs .

I would gladly have followed the lake outlet to tide-water, but the day was already far spent, and the threatening sky called for haste on the return trip to get off the ice before dark. I decided therefore to go no farther and, after taking a general view of the wonderful region, turned back, hoping to see it again under more favorable auspices. We made good speed up the cañon of the great ice-torrent, and out on the main glacier until we had left the west shore about two miles behind us. Here we got into a difficult network of crevasses, the gathering clouds began to drop misty fringes, and soon the dreaded snow came flying thick and fast. I now began to feel anxious about finding a way in the blurring storm. Stickeen showed no trace of fear. He was still the same silent, able little hero. I noticed, however, that after the storm-darkness came on he kept close up behind me. The snow urged us to make still greater haste, but at the same time hid our way. I pushed on as best I could, jumping innumerable crevasses, and for every hundred rods or so of direct advance traveling a mile in doubling up and down in the turmoil of chasms and dislocated ice-blocks. After an hour or two of this work we came to a series of longitudinal crevasses of appalling width, and almost straight and regular in trend, like immense furrows. These I traced with firm nerve, excited and strengthened by the danger, making wide jumps, poising cautiously on their dizzy edges after cutting hollows for my feet before making the spring, to avoid possible slipping or any uncertainty on the farther sides, where only one trial is granted–exercise at once frightful and inspiring. Stickeen followed seemingly without effort.

Many a mile we thus traveled, mostly up and down, making but little real headway in crossing, running instead of walking most of the time as the danger of being compelled to spend the night on the glacier became threatening. Stickeen seemed able for anything. Doubtless we could have weathered the storm for one night, dancing on a flat spot to keep from freezing, and I faced the threat without feeling anything like despair; but we were hungry and wet, and the wind from the mountains was still thick with snow and bitterly cold, so of course that night would have seemed a very long one. I could not see far enough through the blurring snow to judge in which general direction the least dangerous route lay, while the few dim, momentary glimpses I caught of mountains through rifts in the flying clouds were far from encouraging either as weather signs or as guides. I had simply to grope my way from crevasse to crevasse, holding a general direction by the ice-structure, which was not to be seen everywhere, and partly by the wind. Again and again I was put to my mettle, but Stickeen followed easily, his nerve apparently growing more unflinching as the danger increased. So it always is with mountaineers when hard beset. Running hard and jumping, holding every minute of the remaining daylight, poor as it was, precious, we doggedly persevered and tried to hope that every difficult crevasse we overcame would prove to be the last of its kind. But on the contrary, as we advanced they became more deadly trying.

At length our way was barred by a very wide and straight crevasse, which I traced rapidly northward a mile or so without finding a crossing or hope of one; then down the glacier about as far, to where it united with another uncrossable crevasse. In all this distance of perhaps two miles there was only one place where I could possibly jump it, but the width of this jump was the utmost I dared attempt, while the danger of slipping on the farther side was so great that I was loath to try it. Furthermore, the side I was on was about a foot higher than the other, and even with this advantage the crevasse seemed dangerously wide. One is liable to underestimate the width of crevasses where the magnitudes in general are great. I therefore stared at this one mighty keenly, estimating its width and the shape of the edge on the farther side, until I thought that I could jump it if necessary, but that in case I should be compelled to jump back from the lower side I might fail. Now, a cautious mountaineer seldom takes a step on unknown ground which seems at all dangerous that he cannot retrace in case he should be stopped by unseen obstacles ahead. This is the rule of mountaineers who live long, and, though in haste, I compelled myself to sit down and calmly deliberate before I broke it.

Retracing my devious path in imagination as if it were drawn on a chart, I saw that I was recrossing the glacier a mile or two farther up stream than the course pursued in the morning, and that I was now entangled in a section I had not before seen. Should I risk this dangerous jump, or try to regain the woods on the west shore, make a fire, and have only hunger to endure while waiting for a new day! I had already crossed so broad a stretch of dangerous ice that I saw it would be difficult to get back to the woods through the storm, before dark, and the attempt would most likely result in a dismal night-dance on the glacier; while just beyond the present barrier the surface seemed more promising, and the east shore was now perhaps about as near as the west. I was therefore eager to go on. But this wide jump was a dreadful obstacle.

At length, because of the dangers already behind me, I determined to venture against those that might he ahead, jumped and landed well, but with so little to spare that I more than ever dreaded being compelled to take that jump back from the lower side. Stickeen followed, making nothing of it, and we ran eagerly forward, hoping we were leaving all our troubles behind. But within the distance of a few hundred yards we were stopped by the widest crevasse yet encountered. Of course I made haste to explore it, hoping all might yet be remedied by finding a bridge or a way around either end. About three fourths of a mile up stream I found that it united with the one we had just crossed, as I feared it would. Then, tracing it down, I found it joined the same crevasse at the lower end also, maintaining throughout its whole course a width of forty to fifty feet. Thus to my dismay I discovered that we were on a narrow island about two miles long, with two barely possible ways to escape: one back by the way we came, the other ahead by an almost inaccessible sliver-bridge that crossed the great crevasse from near the middle of it!

After this nerve-trying discovery I ran back to the sliver-bridge and cautiously examined it. Crevasses, caused by strains from variations in the rate of motion of different parts of the glacier and convexities in the channel, are mere cracks when they first open, so narrow as hardly to admit the blade of a pocket-knife, and gradually widen according to the extent of the strain and the depth of the glacier. Now some of these cracks are interrupted, like the cracks in wood, and in the opening the strip of ice between overlapping ends is dragged out, and may maintain a continuous connection between the side, just as the two sides of a slivered crack in wood that is being split are connected. Some crevasses remain open for months or even years, and by the melting of their sides continue to increase in width long after the opening strain has ceased; while the sliver-bridges, level on top at first and perfectly safe, are at length melted to thin, vertical, knife-edged blades, the upper portion being most exposed to the weather; and since the exposure is greatest in the middle. they at length curve downward like the cables of suspension bridges. This one was evidently very old, for it had been weathered and wasted until it was the most dangerous and inaccessible that ever lay in my way. The width of the crevasse was here about fifty feet, and the sliver crossing diagonally was about seventy feet long; its thin knife-edge near the middle was depressed twenty-five or thirty feet below the level of the glacier, and the up-curving ends were attached to the sides eight or ten feet below the brink. Getting down the nearly vertical wall to the end of the sliver and up the other side were the main difficulties, and they seemed all but insurmountable. Of the many perils encountered in my years of wandering on mountains and glaciers none seemed so plain and stern and merciless as this. And it was presented when we were wet to the skin and hungry, the sky dark with quick driving snow, and the night near. But we were forced to face it. It was a tremendous necessity.

Beginning, not immediately above the sunken end of the bridge, but a little to one side, I cut a deep hollow on the brink for my knees to rest in. Then, leaning over, with my short-handled axe I cut a step sixteen or eighteen inches below, which on account of the sheerness of the wall was necessarily shallow. That step, however, was well made; its floor sloped slightly inward and formed a good hold for my heels. Then, slipping cautiously upon it, and crouching as low as possible, with my left side toward the wall, I steadied myself against the wind with my left hand in a slight notch, while with the right I cut other similar steps and notches in succession, guarding against losing balance by glinting of the axe, or by wind-gusts, for life and death were in every stroke and in the niceness of finish of every foothold.

After the end of the bridge was reached I chipped it down until I had made a level platform six or eight inches wide, and it was a trying thing to poise on this little slippery platform while bending over to get safely astride of the sliver. Crossing was then comparatively easy by chipping off the sharp edge with short, careful strokes, and hitching forward an inch or two at a time, keeping my balance with my knees pressed against the sides. The tremendous abyss on either hand I studiously ignored. To me the edge of that blue sliver was then all the world. But the most trying part of the adventure, after working my way across inch by inch and chipping another small platform, was to rise from the safe position astride and to cut a step-ladder in the nearly vertical face of the wall,–chipping, climbing, holding on with feet and fingers in mere notches. At such times one’s whole body is eye. and common skill and fortitude are replaced by power beyond our call or knowledge . Never before had I been so long under deadly strain. How I got up that cliff I never could tell. The thing seemed to have been done by somebody else. I never have held death in contempt, though in the course of my explorations I have oftentimes felt that to meet one’s fate on a noble mountain, or in the heart of a glacier, would be blessed as compared with death from disease, or from some shabby lowland accident. But the best death, quick and crystal-pure, set so glaringly open before us, is hard enough to face, even though we feel gratefully sure that we have already had happiness enough for a dozen lives.

But poor Stickeen, the wee, hairy, sleekit beastie , think of him! When I had decided to dare the bridge, and while I was on my knees chipping a hollow on the rounded brow above it, he came behind me, pushed his head past my shoulder, looked down and across, scanned the sliver and its approaches with his mysterious eyes, then looked me in the face with a startled air of surprise and concern, and began to mutter and whine; saying as plainly as if speaking with words, “Surely, you are not going into that awful place.” This was the first time I had seen him gaze deliberately into a crevasse, or into my face with an eager, speaking, troubled look. That he should have recognized and appreciated the danger at the first glance showed wonderful sagacity. Never before had the daring midget seemed to know that ice was slippery or that there was any such thing as danger anywhere. His looks and tones of voice when he began to complain and speak his fears were so human that I unconsciously talked to him in sympathy as I would to a frightened boy, and in trying to calm his fears perhaps in some measure moderated my own. “Hush your fears, my boy,” I said, “ we will get across safe , though it is not going to be easy. No right way is easy in this rough world. We must risk our lives to save them. At the worst we can only slip, and then how grand a grave we will have, and by and by our nice bones will do good in the terminal moraine.”

But my sermon was far from reassuring him: he began to cry, and after taking another piercing look at the tremendous gulf, ran away in desperate excitement, seeking some other crossing. By the time he got back, baffled of course, I had made a step or two. I dared not look back, but he made himself heard; and when he saw that I was certainly bent on crossing he cried aloud in despair. The danger was enough to haunt anybody, but it seems wonderful that he should have been able to weight and appreciate it so justly. No mountaineer could have seen it more quickly or judged it more wisely, discriminating between real and apparent peril.

When I gained the other side, he screamed louder than ever, and after running back and forth in vain search for a way of escape, he would return to the brink of the crevasse above the bridge, moaning and wailing as if in the bitterness of death. Could this be the silent, philosophic Stickeen? I shouted encouragement, telling him the bridge was not so bad as it looked, that I had left it flat and safe for his feet, and he could walk it easily. But he was afraid to try. Strange so small an animal should be capable of such big, wise fears. I called again and again in a reassuring tone to come on and fear nothing; that he could come if he would only try. He would hush for a moment, look down again at the bridge, and shout his unshakable conviction that he could never, never come that way; then lie back in despair, as if howling, “O-o-oh! what a place! No-o-o, I can never go-o-o down there!” His natural composure and courage had vanished utterly in a tumultuous storm of fear. Had the danger been less, his distress would have seemed ridiculous. But in this dismal, merciless abyss lay the shadow of death, and his heart-rending cries might well have called Heaven to his help. Perhaps they did. So hidden before, he was now transparent, and one could see the workings of his heart and mind like the movements of a clock out of its case. His voice and gestures, hopes and fears, were so perfectly human that none could mistake them; while he seemed to understand every word of mine. I was troubled at the thought of having to leave him out all night, and of the danger of not finding him in the morning. It seemed impossible to get him to venture. To compel him to try through fear of being abandoned, I started off as if leaving him to his fate, and disappeared back of a hummock; but this did no good; he only lay down and moaned ill utter hopeless misery. So, after hiding a few minutes, I went back to the brink of the crevasse and in a severe tone of voice shouted across to him that now I must certainly leave him, I could wait no longer, and that, if he would not come, all I could promise was that I would return to seek him next day. I warned him that if he went back to the woods the wolves would kill him, and finished by urging him once more by words and gestures to come on, come on.

He knew very well what I meant, and at last, with the courage of despair, hushed and breathless, he crouched down on the brink in the hollow I had made for my knees, pressed his body against the ice as if trying to get the advantage of the friction of every hair, gazed into the first step, put his little feet together and slid them slowly, slowly over the edge and down into it, bunching all four in it and almost standing on his head. Then, without lifting his feet, as well as I could see through the snow, he slowly worked them over the edge of the step and down into the next and the next in succession in the same way, and gained the end of the bridge. Then, lifting his feet with the regularity and slowness of the vibrations of a seconds pendulum, as if counting and measuring one-two-three , holding himself steady against the gusty wind, and giving separate attention to each little step, he gained the foot of the cliff, while I was on my knees leaning over to give him a lift should he succeed in getting within reach of my arm. Here he halted in dead silence, and it was here I feared he might fail, for dogs are poor climbers. I had no cord. If I had had one, I would have dropped a noose over his head and hauled him up. But while I was thinking whether an available cord might be made out of clothing, he was looking keenly into the series of notched steps and finger-holds I had made, as if counting them, and fixing the position of each one of them in his mind. Then suddenly up he came in a springy rush, hooking his paws into the steps and notches so quickly that I could not see how it was done, and whizzed past my head, safe at last!

And now came a scene! “Well done, well done, little boy! Brave boy!” I cried, trying to catch and caress him; but he would not be caught. Never before or since have I seen anything like so passionate a revulsion from the depths of despair to exultant, triumphant, uncontrollable joy. He flashed and darted hither and thither as if fairly demented, screaming and shouting, swirling round and round in giddy loops and circles like a leaf in a whirlwind, lying down, and rolling over and over, sidewise and heels over head, and pouring forth a tumultuous flood of hysterical cries and sobs and gasping mutterings. When I ran up to him to shake him, fearing he might die of joy, he flashed off two or three hundred yards, his feet in a mist of motion; then, turning suddenly, came back in a wild rush and launched himself at my face, almost knocking me down. all the while screeching and screaming and shouting as if saying, “Saved! saved! saved!” Then away again, dropping suddenly at times with his feet in the air, trembling and fairly sobbing. Such passionate emotion was enough to kill him. Moses’ stately song of triumph after escaping the Egyptians and the Red Sea was nothing to it. Who could have guessed the capacity of the dull, enduring little fellow for all that most stirs this mortal frame? Nobody could have helped crying with him!

But there is nothing like work for toning down excessive fear or joy. So I ran ahead, calling him in as gruff a voice as I could command to come on and stop his nonsense, for we had far to go and it would soon he dark. Neither of us feared another trial like this. Heaven would surely count one enough for a lifetime. The ice ahead was gashed by thousands of crevasses, but they were common ones. The joy of deliverance burned in us like fire, and we ran without fatigue, every muscle with immense rebound glorying in its strength. Stickeen flew across everything in his way, and not till dark did he settle into his normal fox-like trot. At last the cloudy mountains came in sight, and we soon felt the solid rock beneath our feet, and were safe. Then came weakness. Danger had vanished, and so had our strength. We tottered down the lateral moraine in the dark, over boulders and tree trunks, through the bushes and devil-club thickets of the grove where we had sheltered ourselves in the morning, and across the level mudslope of the terminal moraine. We reached camp about ten o’clock, and found a big fire and a big supper. A party of Hoona Indians had visited Mr. Young, bringing a gift of porpoise meat and wild strawberries, and Hunter Joe had brought in a wild goat. But we lay down, too tired to eat much, and soon fell into a troubled sleep. The man who said, “The harder the toil, the sweeter the rest,” never was profoundly tired. Stickeen kept springing up and muttering in his sleep, no doubt dreaming that he was still on the brink of the crevasse; and so did I, that night and many others long afterward, when I was over-tired.

Thereafter Stickeen was a changed dog. During the rest of the trip, instead of holding aloof, he always lay by my side, tried to keep me constantly in sight, and would hardly accept a morsel of food, however tempting, from any hand but mine. At night, when all was quiet about the camp-fire, he would come to me and rest his head on my knee with a look of devotion as if I were his god. And often as he caught my eye he seemed to be trying to say, “Wasn’t that an awful time we had together on the glacier?”

Nothing in after years has dimmed that Alaska storm-day. As I write it all comes rushing and roaring to mind as if I were again in the heart of it. Again I see the gray flying clouds with their rain-floods and snow, the ice-cliffs towering above the shrinking forest, the majestic ice-cascade, the vast glacier outspread before its white mountain-fountains, and in the heart of it the tremendous crevasse,–emblem of the valley of the shadow of death,–low clouds trailing over it, the snow falling into it; and on its brink I see little Stickeen, and I hear his cries for help and his shouts of joy. I have known many dogs, and many a story I could tell of their wisdom and devotion; but to none do I owe so much as to Stickeen. At first the least promising and least known of my dog-friends, he suddenly became the best known of them all. Our storm-battle for life brought him to light, and through him as through a window I have ever since been looking with deeper sympathy into all my fellow mortals.

None of Stickeen’s friends knows what finally became of him. After my work for the season was done I departed for California, and I never saw the dear little fellow again. In reply to anxious inquiries his master wrote me that in the summer of 1883 he was stolen by a tourist at Fort Wrangell and taken away on a steamer. His fate is wrapped in mystery. Doubtless he has left this world–crossed the last crevasse–and gone to another. But he will not be forgotten. To me Stickeen is immortal.

 

 

Notes by Francis H. Allen

Fort Wrangel.

Now generally spelled Wrangell. Any good map of Alaska will show its location.

Rev. S. H.Young.

Samuel Hall Young, now superintendent of Alaska Presbyterian missions with office in New York City, but at that time a missionary in the field with headquarters at Fort Wrangel. Mr. Muir’s Travels in Alaska contains an interesting account of a mountain-climbing adventure in which Mr. Young nearly lost his life. Dr. Young (he received the degree of D.D. in 1899) has written entertainingly of this and other experiences with John Muir ( Outlook , May 26, June 23, and July 28, 1915). In the last of his three articles he tells about Stickeen, the subject of this story.

Tail . . . shady as a squirrel’s.

The Green word for squirrel, skiouros , from which our English word is derived, is formed from two words meaning “shadow” and “tail.” It is quite likely that Mr. Muir had this in mind.

The water was phosphorescent.

Some of the small and microscopic animal life of the sea becomes luminous at night when disturbed by the breaking of the waves, the churning of a boat’s propeller, the splashing of oars, the strokes of a swimmer, or any similar cause, as, in this case, the movements of the salmon. The surrounding water at such times glows and sparkles beautifully.

The salmon were running.

Salmon, though for most of the year living in the sea, spawn only in fresh running water, and every spring and summer they swarm up the streams to the breeding-grounds. This is the time when they are caught for sport and for the market,–in the East by rod and line, in Alaska, where they are found in vast numbers, with nets and spears. This migration up the streams is called “running.”

Panax.

Panax horridus , or Fatsia horrida , a dangerously prickly araliaceous shrub commonly called devil’s-club. It is abundant in Alaska.

Rubus.

The genus of plants to which the blackberry, raspberry, cloudberry, and salmonberry belong.

Wild-weathery.

One looks in the dictionaries in vain for this word, but the meaning is obvious. Mr. Muir was rather fond of coining playful words of this kind, such as are so common in his native Scotch.

Diogenes.

A celebrated Greek Cynic philosopher who despised riches and is said to have lived in a tub. Plutarch relates that when Alexander the Great asked Diogenes whether he could do anything for him he replied, “Yes, I would have you stand from between me and the sun.”

Sphinx.

“A spinxlike person; one of enigmatical or inscrutable character and purposes” (Webster’s New International Dictionary ). The Sphinx of Greek mythology propounded a riddle to all comers and, upon the failure of each one to guess it, speedily devoured him.

Tahkoo.

An Indian name, also spelled Taku.

Fountain ice-fields.

The ice-fields that formed the sources of the glaciers.

Glacier Bay.

The famous Muir Glacier , discovered by Mr. Muir in 1879, is at the head of this bay.

Yosemite.

The Yosemite Valley of California , where Mr. Muir made his home for years.

Storms.

John Muir was never afraid of bad weather. One of his most interesting papers is the account in The Mountains of California of how he climbed a tree in the forest during a wind-storm and remained there rocked wildly in the treetop while he studied the habits of the trees under such conditions.

Dislocated his arm.

See the account in Travels in Alaska .

Doggedly.

Note the play on the word.

“Where thou goest I will go.”

Doubtless suggested by Ruth’s reply to her mother-in-law, Naomi, “Whither thou goest, I will go” (Ruth 1:16).

Narrow tacks.

The word “tacks” is used in the nautical sense, as when a sailing vessel “tacks” to windward, taking a zigzag course because it is impossible to sail directly against the wind. By “narrow tacks” the author evidently means tacks in which little real progress was made, the crevasses coming very close together.

Fountains.

In the sense of sources; in this case the sources of glaciers.

Icebergs.

Icebergs are, of course, the natural discharge of a glacier into a lake or the sea.

Power beyond our call or knowledge.

This has been the experience of many who have extricated themselves from imminent dangers by their own unaided efforts. The emergency calls forth hitherto unsuspected supplies of reserve energy.

Wee, hairy, sleekit beastie.

This reminds one of Burns’s poem “To a Mouse,” which begins “Wee, sleekit, cow’rin’, tim’rous beastie.” “Sleekit” is doubtless used in its original sense of sleek, smooth. It is the past participle of the verb “to sleek.” Muir was fond of dropping occasionally into his native Scotch, especially when an affectionate diminutive was called for.

We will get across safe.

Here and at the top of the next page Mr. Muir follows the Scotch custom of using the word “will” where the best English usage demands “shall.”

Devil-club.

See note on Panax.

 

 

Stikine: La storia di un cane

di John Muir (1909)

Introduzione

da Dan E. Anderson e Harold Wood

Nel 1880, John Muir fece il suo secondo viaggio in Alaska. In questo viaggio ha esplorato Glacier Brady, che sfocia nel Taylor Bay in che cosa ora è il Glacier Bay National Park, con il cane di un amico, Stikine. Muir è stato un grande narratore e ha raccontato questa storia molte volte prima di scriverlo nel 1909 come un racconto sotto la spinta di molti dei suoi amici. Stikine è stato classificato come un racconto classico cane da molti che hanno letto. Avventura di John Muir con un cane e un ghiacciaio.

Introduzione

Storia vera di John Muir di quello che è successo su un ghiacciaio d’Alasca con un cane denominato Stikine, nel 1880, è uno dei più noti scritti di Muir e ora è considerato una classico cane storia. Anche se può essere letto come una storia di avventura dritto, è molto di più. Storia di Muir è più convincente perché è rivelato a Muir che uomo e cane non erano così a differenza di ogni altro. Stikine era inizialmente un piccolo cane scortese, ma dopo essere sopravvissuto a un pericoloso viaggio attraverso un ghiacciaio attraversando un ponte di ghiaccio, distacco di Stikine è sostituito da emotion estatico, rivelando a Muir il fatto che i nostri “fratelli orizzontali” non sono che molto a differenza di noi.

Muir ha scritto, “ho conosciuto molti cani e molti una storia che potrei dire della loro saggezza e devozione; ma a nessuno devo tanto da Stikine. In un primo momento il meno promettente e meno conosciuto dei miei amici-cane, improvvisamente divenne il più noto di tutti loro. La nostra tempesta-battaglia per la vita lo ha portato alla luce, e attraverso di lui come attraverso una finestra ho allora cercato con la più profonda simpatia in tutti i miei compagni mortali.”

Muir ha trascorso anni che racconta la storia e quasi trenta anni prima che fosse in grado di metterlo per iscritto. Anche se la storia in sé è un semplice, Muir sentivo che era la cosa più difficile, che ha mai provato a scrivere. Muir visto Stikine come “l’araldo di un nuovo Vangelo” aggiunta “in tutte le mie passeggiate selvaggi, raramente ho avuto un messaggio più preciso o utile per portare indietro.” Muir voluto presentare quel messaggio nel miglior modo possibile.

Quando in primo luogo pubblicato nel secolo rivista nel 1897 (V. 54, n. 5, settembre 1897, sotto il titolo “An Adventure con un cane e un ghiacciaio), è stato pesantemente modificato, con intere sezioni di quale suo editor chiamato”digressioni”eliminati. Per il manoscritto originale, faticosamente ricostruito dai giornali Muir, vedere il libro di Ronald Limbaugh, John Muir di “Stikine” e le lezioni della natura . Muir è stato in grado di ripristinare alcuni dei suoi pensieri, quando pubblicò il racconto in forma di libro nel 1909. Esso è stato rivisto e ri-ha detto ancora una volta nel suo 1915 viaggia in Alaskaed è stato ri-stampato più volte da allora in tutti i tipi di formati, negli anni 70, 80 e 90.

La storia di Muir ha ispirato diversi libri con illustrazioni eccezionali. L’edizione in brossura 1990, edito da Apogeo Books, contiene eccezionali illustrazioni in bianco e nero di Carl Dennis Buell. Donnell Rubay ri-raccontare del 1998 (Dawn Publications) è accompagnato da illustrazioni a colori eccezionale da Christopher Canyon. Libro dell’immagine di un altro childlren della storia è stato illustrato da Karl Swanson e scritto da Elizabeth Koehler-Pentacoff (Millbrook Press). Assicuratevi di leggere su questi queste edizioni qui sotto.

Vedi sotto per effettivo Stikine scritture di Muir, oltre a collegamenti ad una varietà di pagine di libri, audio e musica che dice di più su Muir e il suo amico canino notevole, Stikine.

Scritture di Muir

Libri su Stikine

John Muir di “Stikine” e le lezioni della natura, di Ronald H. Limbaugh (Fairbanks, AK: Università dell’Alaska Press, 1996) illustrazioni in bianco e nero; Indice. Appendice: “Notes on ‘Stikine’ nella libreria di John Muir.” 185 pp

Questo esame da studioso di storia del famoso cane di Muir “Stikine” aiuta notevolmente a illuminare la crescita di Muir come scrittore. Ron Limbaugh usi “Stikine” per mostrare come creatività letteraria di Muir è cresciuta nel tempo, e come è stato influenzato da major turn-of-the-secolo idee ed eventi come i dibattiti darwiniana e l’emergente movimento dei diritti degli animali. Inoltre, Limbaugh osserva che “Stikine” è il prodotto solo letterario dalla penna di Muir che possa essere collegato direttamente e ampiamente a idee formulate dai libri della sua biblioteca personale. Di conseguenza, “studiando la sua origine e l’evoluzione è essenziale per comprendere lo sviluppo di Muir come scrittore e come fautore per l’uguaglianza morale di tutte le specie.”

John Muir e Stikine: un’avventura ghiacciata con un cane buono a nulladi Julie Dunlap & Marybeth Lorbiecki; Illustrato da Bill Farnsworth. (2004)

Splendidamente illustrato libro per bambini basato sul libro di Muir Stikine, che racconta l’emozionante avventura di come Muir partì per esplorare un ghiacciaio d’Alasca un giorno, con l’accompagnamento sgradito di Stikine e incappò in una tempesta. Quello che è successo quel giorno terrificante Muir ha fatto vedere animali domestici sotto una nuova luce. Per tutte le età 5-8, classi 1-4. Opina School Library Journal: “Anche se non la prima versione di foto-libro di questa storia di una spedizione di 1880 straziante a Glacier Bay, questa resa eccellente è il trattamento migliore finora.” Il giornale fa poi per notare: “l’unica pecca nel testo è che gli autori overplay disprezzo del naturalista per i cani in generale. Mentre Stikine di Muir (Houghton, 1909) confermare che ha pensato di Sitckeen per essere “piccoli e privi di valore” e probabile che “richiedono cura come un bambino,” afferma chiaramente che egli generalmente come cani. A parte questa caratterizzazione minore, fanno un ottimo lavoro di veicolare la meraviglia che ha ispirato il lavoro di vita dell’uomo e il pericolo di questo exploit particolare. Mentre alcune parti sono condensati e altri tirato fuori, rimangono generalmente fedele ai conti di Muir”.

Stikine: John Muir e il coraggioso piccolo canecome ri-raccontata da Donnell Rubay

Questa foto libro per bambini contiene bellissime opere d’arte di Christopher Canyon. Storia di Muir è ri-raccontata in un linguaggio semplice, pur rimanendo fedele alle parole di Muir.

John Muir e Stikine: un’avventura in Alaska, da Elizabeth Koehler-Pentacoff, illustrato da Karl Swanson.

Questo libro è per i bambini più piccoli che il libro di Rubay (K-3). L’autore racconta la storia al presente. Illustrazioni a colori di Karl Swanson evidenziano l’ostilità dell’ambiente ed il coraggio incredibile di Muir e suo compagno canino.

Gerald Pelrine presenta “Il racconto di Stikine”

Resa di rivettatura di Gerald Pelrine è incluso nel CD di tributo di John Muir.

Gerald Pelrine offre la sua caratterizzazione acclamato dalla critica di Muir come conferenziere, rivivendo l’esperienza e le lezioni apprese: il grande crepaccio del ghiacciaio come simbolo della “Valle dell’ombra della morte.” little Stikine arroccato in cima il suo cerchio, la gioia di liberazione e la sua sconvolgente visione dell’eternità visto attraverso gli occhi di “il silenzio, filosofico Stikine.”

“Stikine,” eseguita da Lee Stetson, CD, 1990.

La storia di tempesta di ghiaccio di un piccolo cane di nome Stikine è forse il più popolare e più amato di molte avventure deserto di John Muir. Il tuo cuore correrà con l’eccitamento e anticipazione come si ascolta rinomato attore Lee Stetson descrivere l’emozionante avventura di questo “piccolo, nero, corto-zampe cane giocattolo bunchy-bodied,” sul ghiacciaio d’Alasca. Sentirete anche incontri con gli altri animali emozionante – e vero – di Muir, con orsi, serpenti a sonagli, piccioni e molte altre, tra cui cani, gatti e pecore. Tutti sono estratte dalla scrittura di Muir e tessuti by Stetson in una splendida performance. Sempre emozionante, spesso umoristico, queste storie presentano “Vangelo” di Muir di predicare l’unità fondamentale e la parentela di forme di vita di tutta la terra.

John Muir, Stikine (Haven Libri Audio)

Il classico racconto dell’uomo… e il migliore amico dell’uomo, dal grande naturalista. Dal cuore dell’Alaska viene fornito un racconto straziante in una sola volta ed edificante. Viaggio con il grande avventuriero John Muir come egli prende il suo viaggio più memorabile. Eseguita Alaska NPR voce attore protagonista Lee Salisbury e con effetti sonori e musica originale, questa è una delle storie più popolari in Alaska, uno dei più toccante di storie di animali e una veramente grande avventura per tutta la famiglia.

“Stikine e di John Muir altre avventure con animali” da Storyteller Garth Gilchrist (Nevada City, CA: pubblicazioni di Dawn, 2000)

Compact Disc.

Dal CD copertina: Storyteller Garth Gilchrist diventa John Muir, raccontando la più amata di tutte le sue storie di avventura: orsi, flying pecore di montagna, uno scoiattolo di fulmini, saggio e divertente animali e uccelli meravigliosi. La storia conclusiva, Stikine [24:22 minuti], è un racconto di una traversata del ghiacciaio di vita o di morte con un cane straordinario, attraverso il quale Muir trova una finestra nei cuori di”tutti i miei compagni mortali.”

Stikine

di John Muir

Nell’estate del 1880 ho deciso da Fort Wrangell in una canoa di continuare l’esplorazione della regione ghiacciata dell’Alaska sud-orientale, iniziata nell’autunno del 1879. Dopo le necessarie disposizioni, coperte, ecc., era stato raccolto e riposto, e il mio equipaggio indiano era nei loro luoghi pronti per iniziare, mentre una folla di loro parenti e amici sul molo sono state offerte loro addio e buona fortuna, mio compagno, il Rev. S. H. Young , per cui erano in attesa, finalmente è venuto a bordo, seguita da un piccolo cane nero, che immediatamente è fatto a casa di avvolgersi in una conca tra il bagaglio. Mi piacciono i cani, ma questo sembrava così piccolo e inutile che ho obiettato al suo corso e ha chiesto il missionario perché lui stava prendendo.

“Tali una piccola creatura indifesa sarà solo nel modo”, ho detto; “avuto meglio a passare lui fino a casa i ragazzi indiani sul molo, da adottare per giocare con i bambini. Questo viaggio non è probabile che sia buona per cani. La poveretta sciocca sarà in pioggia e neve per settimane o mesi e richiederà cure come un bambino.” Ma il padrone mi ha assicurato che non sarebbe stato nessun problema a tutti; che era una meraviglia perfetta di un cane, potrei sopportare freddo e fame come un orso, nuotare come un sigillo, ed era meraviglioso saggio e astuzia, ecc., facendo fuori un elenco delle virtù di mostrare lui potrebbe essere il membro più interessante del partito.

Nessuno poteva sperare di svelare le linee della sua ascendenza. In tutti meravigliosamente mista e variegata cane-tribù non ho mai visto una creatura molto simile a lui, anche se in alcuni dei suoi scivolante sly, morbido, movimenti e gesti ha portato la volpe alla mente. Egli era a zampe brevi e mazzo-bodied e aveva i capelli, anche se liscio, lungo e setoso e lievemente ondulato, così che quando il vento era alle sue spalle arruffato, farlo apparire irsuto. A prima vista la sua solo una caratteristica essenziale era la sua bella coda, che era circa come ariosa e ombroso come uno scoiattolo e fu portato avanti curling quasi al suo naso. Un esame più attento si potrebbe notare le sue orecchie sensibili sottili e affilati occhi con astuzia tan-macchie sopra di loro. Signor Young mi ha detto che quando l’omino era un cucciolo di circa le dimensioni di un woodrat che è stato presentato a sua moglie da un cercatore irlandese a Sitka e che al suo arrivo a Fort Wrangell fu adottato con entusiasmo dagli indiani Stikine come una sorta di nuovo totem di buona fortuna, è stato chiamato “Stikine” per la tribù ed è diventato un favorito universale; siamesi, protetta e ammirato ovunque andasse e considerata come una fontana misteriosa della saggezza.

Il nostro viaggio egli presto si dimostrò un carattere queer–dispari, celato, indipendente, mantenendo invincibilmente tranquilla e facendo tante piccole cose sconcertante che ha suscitato la mia curiosità. Come abbiamo navigato, settimana dopo settimana, attraverso i canali lungo intricati e insenature tra le innumerevoli isole e le montagne della costa, trascorse la maggior parte dei giorni sordo nella facilità pigro, immobile e a quanto pare come unobserving come se nel sonno profondo. Ma ho scoperto che in qualche modo ha sempre saputo cosa stava succedendo. Quando gli indiani stavano per sparare alle anatre o guarnizioni, o quando qualcosa lungo la riva era eccitante la nostra attenzione, avrebbe appoggiare il mento sul bordo della canoa e con calma Guarda come un turista dagli occhi sognanti. E quando ha sentito noi parlando di fare un atterraggio, egli suscitò immediatamente se stesso per vedere che tipo di un posto ci stavano arrivando a e reso pronti a saltare in mare e nuotare fino a Riva, non appena la canoa si avvicinava la panchina. Quindi, con una scossa vigorosa per sbarazzarsi della salamoia in suoi capelli, corse nel bosco per cacciare piccola selvaggina. Ma però sempre la prima fuori della canoa, lui era sempre l’ultimo a entrare in esso. Quando eravamo pronti per iniziare potrebbe mai essere trovato e ha rifiutato di venire al nostro appello. Abbiamo presto scoperto, tuttavia, che anche se non abbiamo potuto vedere lui in questi momenti, ci vide e dalla copertura dei rovi e huckleberry cespugli ai margini del bosco stava guardando la canoa con occhio diffidente. Per non appena siamo stati abbastanza fuori è venuto trotto lungo la spiaggia, immerso nel surf e nuotato dopo di noi, ben sapendo che avremmo cessano di canottaggio e portarlo. Quando il vagabondo poco contrario è venuto a fianco, lui è stato sollevato per il collo, tenuto a mano portata di un momento a gocciolare e sceso a bordo. Abbiamo provato a curarlo di questo trucco da costringere lui a nuotare un lungo cammino, come se avessimo una mente di abbandonarlo; ma questo fatto non va bene; il più a lungo la nuotata meglio egli sembrava piacere.

Anche se capace di grande pigrizia, non riuscì mai di essere pronti per ogni sorta di avventure ed escursioni. Una notte di pioggia oscurissima siamo sbarcati circa 10 alla foce di un salmone streaming quando l’ acqua era fosforescente . Il salmone erano in esecuzione e le pinne una miriade dell’accorrente moltitudine erano zangolatura tutti il flusso in un bagliore argenteo, meravigliosamente bello e impressionante nell’oscurità d’ebano. Per avere una buona visione dello spettacolo ho impostato con uno degli indiani e risalì in mezzo di esso al piede di una rapida circa mezzo miglio dall’accampamento, dove il focoso corrente veloce sopra le rocce reso il bagliore luminoso più glorioso. Accadendo a guardare indietro lungo il torrente, mentre l’indiano è stata la cattura alcuni dei pesci che lottano, vide un fan lunga diffusione di luce come la coda di una cometa, che abbiamo pensato che deve essere fatta da qualche grosso animale strano che ci stava inseguendo. Via è venuto con il suo magnifico treno, fino a quando non abbiamo immaginato che abbiamo potuto vedere il mostro testa e gli occhi; ma era solo Stikine, che, trovando che avevo lasciato l’accampamento, è venuto a nuotare dopo di me per vedere che cosa era finito.

Quando ci siamo accampati all’inizio, il miglior cacciatore dell’equipaggio è andato solitamente nel bosco per un cervo e Stikine era sicuro di essere alle calcagna, fornito che non ero andato. Per, strano a dirsi, anche se non ho mai portato una pistola, ha sempre seguito me, abbandonando il cacciatore e anche il suo padrone per condividere i miei dubbi. I giorni che erano troppo tempestosi per la vela che ho trascorso nei boschi o sulle montagne adiacenti, ovunque miei studi mi ha chiamato; e Stikine sempre insistito per andare con me, tuttavia selvaggio il meteo, scivolando come una volpe attraverso grondante huckleberry cespugli e spinosi grovigli di panax e rubus , scarse mescolando le loro foglie carichi di pioggia; piscinetta per bambini e rotolarsi nella neve, nuoto flussi ghiacciati, saltando sopra i registri e le rocce e i crepacci dei ghiacciai con la pazienza e la resistenza di un alpinista determinato, mai stancante o scoraggiarti. Una volta mi ha seguita nel corso di un ghiacciaio, la cui superficie era così croccante e ruvida che tagliare i piedi fino a quando ogni passo è stato contrassegnato con sangue; ma ha tirato su con forza d’animo indiano fino a quando ho notato la che sua pista rossa e, prendendo pietà di lui, lo ha reso un insieme di mocassini fuori un fazzoletto. Quanto grande i suoi guai non ha mai chiesto aiuto o presentato alcuna denuncia, come se, come un filosofo, che aveva imparato senza fatica e sofferenza non ci potrebbe essere alcun piacere vale la pena avere.

Ancora nessuno di noi era in grado di fare tutto ciò che era veramente buono per Stikine. Lui sembrava soddisfare pericolo e disagi senza nulla come la ragione, ha insistito per avere la sua strada, mai obbedito un ordine, e il cacciatore potrebbe mai metterlo su nulla, o fargli recuperare gli uccelli che ha sparato. Sua equanimità era così stabile che sembrava dovuto alla voglia di sentimento; ordinarie tempeste erano piaceri a lui, e quanto alla mera pioggia, egli fiorì in esso come un vegetale. Non importa quali progressi si potrebbe fare, scarso uno sguardo o una coda-wag hai preso per i dolori. Ma anche se lui era apparentemente freddo come un ghiacciaio e su come impermeabili per divertimento, ho cercato di fare la sua conoscenza, indovinando ci deve essere qualcosa vale la pena nascosto sotto tanto coraggio, la resistenza e amore di selvaggio-weatheryavventura. Nessun mastino vetuste o bulldog diventato vecchio in ufficio ha superato questo nano birichino in dignità stoico. A volte mi ha ricordato di un cactus del deserto piccolo, tozzo, incrollabile. Per lui mai visualizzata una singola traccia di divertimento allegro, furbata, elfish del Terrier e collies che tutti conosciamo, né di loro toccante affetto e devozione. Come i bambini, maggior parte dei cani di piccole taglia chiedono di essere amati ed ammessi all’amore; ma Stikine sembrava un molto Diogenes , chiedendo solo di essere lasciato da solo: un vero figlio del deserto, che tiene il tenore anche della sua vita nascosta con il silenzio e la serenità della natura. La sua forza di carattere risiede nei suoi occhi. Sembravano come vecchio come le colline e come i giovani e come selvaggi. Non ho mai stanchi di guardare in loro: è stato come guardare un paesaggio; ma erano piccole e piuttosto infossati e non aveva alcuna spiegazione linee intorno a loro per dare indicazioni. Ero abituato a guardare dentro le facce delle piante e degli animali, e ho visto la piccola Sfinge più acutamente come un interessante studio. Ma non c’è nessuna stima l’arguzia e la saggezza nascosta e latente in nostri compagni mortali inferiori fino al manifesto fatto di profonde esperienze; per esso è attraverso la sofferenza che cani come i Santi sono sviluppati e reso perfetti.

Dopo aver esplorato i fiordi Dum Sum e Tahkoo e loro ghiacciai, abbiamo navigato attraverso il passaggio di Santo Stefano in Lynn Canal e da lì attraverso Icy Strait in croce suono, alla ricerca di insenature inesplorate che conduce verso il grande Fontana di ghiaccio-campi della gamma Fairweather. Qui, mentre la marea era a nostro favore, siamo stati accompagnati da una flotta di iceberg alla deriva per l’oceano da Glacier Bay . Lentamente abbiamo paddled attorno al punto di Vancouver, Wimbledon, nostra fragile canoa gettato come una piuma sulla massiccia ansante si gonfia provenienti in passato Capo Spenser. Per miglia il suono è delimitato da scogliere murale precipitosa, che, frustato con onda-spray e le loro teste nascoste nelle nuvole, sembrava terribilmente minaccioso e stern. Era la nostra canoa stato schiacciato o sconvolto abbiamo non fatto nessun atterraggio qui, per le scogliere, alte come quelli di Yosemite , pura affondare in acque profonde. Con entusiasmo abbiamo scansionato il muro sul lato nord per il primo segno di un fiordo di apertura o il porto, tutti noi ansiosi tranne Stikine, che assopito in pace o guardava sognante precipizi tremendi quando noi ne ha sentito parlare di loro. A lungo abbiamo fatto la gioiosa scoperta della bocca dell’ingresso ora chiamato “Taylor Bay”, e circa 5 ha raggiunto la testa di esso e si accamparono in un Boschetto Spruce vicino alla parte anteriore di un grande ghiacciaio.

Mentre camp era stato fatto, Joe il cacciatore scalato la montagna parete sul lato est del fiordo nel perseguimento di capre selvatiche, mentre Mr. Young ed io siamo andati al ghiacciaio. Abbiamo trovato che è separata dalle acque dell’insenatura di una morena di marea-lavato e si estende, una barriera brusca, tutta la strada di fronte alla parete a parete dell’ingresso, una distanza di circa tre miglia. Ma la nostra scoperta più interessante era che ha avuto recentemente avanzato, anche se ancora leggermente sfuggente. Una parte della morena terminale era stata Arata fino e spinto in avanti, sradicamento e travolgente il bosco sul lato est. Molti di questi alberi erano giù e sepolto, o quasi così, gli altri erano piegato lontano il ghiaccio-scogliere, pronte a cadere, e alcuni levato in piedi eretti, con la parte inferiore dell’aratro ghiaccio ancora sotto le loro radici e le sue guglie alte cristallo torreggiante enorme sopra loro cime. Lo spettacolo presentato da questi alberi secolari in piedi vicino al lato di una parete spiry di ghiaccio, con i loro rami quasi toccarla, era la maggior parte del romanzo e sorprendente. E quando ho scalato intorno la parte anteriore e un po’ sul lato ovest del ghiacciaio, ho trovato che aveva gonfiato e aumentato in altezza e larghezza in conformità con la sua avanzata e portato via le fila esterne degli alberi sulla sua riva.

Al nostro ritorno in campo dopo queste prime osservazioni ho programmato un’escursione di livello e lontano per l’indomani. Mi sono svegliato presto, chiamato non solo dal ghiacciaio, che era stato sulla mia mente tutta la notte, ma da una grande inondazione-tempesta. Il vento soffiava un vento da nord e la pioggia stava volando con le nuvole in un diluvio di orizzontale larga appassionato, come se si trattasse di tutti passando sopra il paese invece di cadere su di esso. I principali corsi d’acqua perenni era in piena espansione in alto sopra le loro banche, e centinaia di nuovi, ruggendo come il mare, quasi coperto le alte mura grigie dell’entrata con bianche cascate e cascate. Avevo intenzione di preparare una tazza di caffè e ottenere qualcosa di simile una colazione prima di iniziare, ma quando ho sentito la tempesta e guardò fuori che ho fatto fretta ad unirsi ad essa; per molti della natura lezioni migliori si trovano nel suo tempeste , e se attenti a mantenere nei giusti rapporti con loro, possiamo andare tranquillamente all’estero con loro, rallegrandosi per la grandezza e la bellezza delle loro opere e modi e cantando con il vecchio Norsemen, “l’esplosione della tempesta nostra remi l’aids, l’uragano è un nostro servo e noi dove che vogliamo andare.” Così, omettendo la colazione, mettere un pezzo di pane in tasca e si allontanò.

Mr. Young e l’indiano erano addormentati, e così, ho sperato, era Stikine; ma non ero andato una dozzina barre prima ha lasciato il suo letto nella tenda e mi ha inseguito noioso attraverso l’esplosione. Che un uomo debba accogliere tempeste per loro esilarante musica e movimento e andare indietro vedere Dio fare paesaggi, è ragionevole abbastanza; ma quale fascino ci potrebbe essere in un tempo così tremendo per un cane? Sicuramente niente di simile a umano entusiasmo per il paesaggio o geologia. Comunque, su è venuto, breakfastless, attraverso l’esplosione di soffocamento. Mi sono fermato e ho fatto del mio meglio per lui tornare indietro. “Ora non,” ho detto, gridando per rendermi sentito nella tempesta. “non ora, Stikine. Che ha preso il tuo noddle queer ora? Devi essere stupido. Questo giorno selvaggio non ha nulla per te. Non c’è nessun gioco niente all’estero, ma tempo. Torna al campo e tenere al caldo, ottenere una buona prima colazione con il tuo padrone e per una volta di essere ragionevoli. Non riesco a portare tutto il giorno o da mangiare, e questa tempesta ti ucciderà.”

Ma natura, a quanto pare, era in fondo dell’affare, e lei guadagna lei finisce con i cani, così come con gli uomini, facendoci fare come le piace, spingendo e tirando a noi lungo i suoi modi, tuttavia grezzo, tutti, ma ci uccidendo a volte a ottenere le sue lezioni spinti duri a casa. Dopo che avevo smesso ancora e ancora, gridando buoni consigli di avviso, ho visto che lui non doveva essere scrollato di dosso; anche la terra potrebbe tentare di scrollarsi di dosso la luna. Una volta avevo condotto suo padrone nei guai, quando è caduto su una delle intaccature più in alto di una montagna e slogato il braccio ; Ora il turno del suo umile compagno stava arrivando. Il wanderer pietoso rimase lì nel vento, inzuppato e lampeggiante, dicendo caparbiamente , “dove tu andrai andrò.”Così alla fine che gli ho detto di venire, se necessario e gli diede un pezzo di pane che ho avuto nella mia tasca; poi abbiamo lottato su insieme e così ha cominciato il più memorabile di tutti i miei giorni selvaggi.

L’alluvione di livello, guida difficile nei nostri volti, battuto e ci ha lavati selvaggiamente fino a quando siamo entrati in al riparo di un boschetto sul lato est del ghiacciaio vicino alla parte anteriore, dove ci siamo fermati un po’ di respiro e di ascoltare e guardare fuori. L’esplorazione del ghiacciaio era mio oggetto principale, ma il vento era troppo elevato per consentire escursioni sopra la relativa superficie aperta, dove uno potrebbe essere pericolosamente spinto mentre il bilanciamento per un salto sull’orlo di un crepaccio. Nel frattempo la tempesta era uno studio fine. Lì alla fine del ghiacciaio, discendente di un brusco rigonfiamento di resistenza roccia circa cinquecento piedi di altezza, si appoggia in avanti e cade in Cascate di ghiaccio. E come la tempesta è venuto giù il ghiacciaio da nord, Stikine ed io eravamo sotto la corrente principale dell’esplosione, mentre una posizione favorevole per vedere e sentire. Che cosa stava cantando un Salmo la tempesta e come fresco l’odore della terra lavato e foglie e come dolce l’ancora piccole voci della tempesta! Turbinii e distaccata aleggia stavano arrivando attraverso il bosco, con musica dalle foglie e rami e solcata boles, e anche dall’overhead di rocce e ghiaccio-falesie scheggiato, molti dei toni morbidi e bassi e flauto-like, come se ogni foglia e albero, falesia e guglia erano un reed sintonizzati. Un ampio torrente, drenante sul lato del ghiacciaio, ora gonfiato da decine di nuovi flussi dalle montagne, stava rotolando massi lungo il canale roccioso, con thudding, urtando, attutiti suoni, correndo verso la baia con un’energia incredibile, come se in fretta di uscire le montagne; gli inverni sopra e sotto la chiamata a vicenda e tutto l’oceano, loro casa.

Guardando verso sud dal nostro rifugio, abbiamo avuto questo grande torrente e la parete di montagna boscosa sopra di esso alla nostra sinistra, spiry ghiaccio-falesie sulla nostra destra e liscio grigio gloom avanti. Ho provato a disegnare la scena meravigliosa nel mio taccuino, ma la pioggia offuscata la pagina nonostante tutti i miei dolori per proteggerla e lo schizzo è stato quasi inutile. Quando il vento cominciò a abate, ho rintracciato il lato est del ghiacciaio. Tutti gli alberi in piedi sul bordo del bosco erano latrati e contuso, mostrando alta ice marchio in maniera molto significativa, mentre decine di migliaia di coloro che avevano resistito per secoli sulla riva del ghiacciaio più lontano fuori lay schiacciato ed essere schiacciato. In molti posti che ho potuto vedere lungo cinquanta piedi o giù di lì sotto il margine del ghiacciaio-mulino, dove tronchi da uno a due piedi di diametro, qui, essendo terra alla polpa contro eccezionale rock-centine e boss della banca.

Circa tre miglia sopra la fronte del ghiacciaio che sono salito sulla superficie di esso per mezzo di ascia-passaggi reso facile per Stikine. Per quanto l’occhio potrebbe raggiungere, il ghiacciaio di livello, o pressoché livello, distanza allungata indefinitamente sotto il cielo grigio, una prateria apparentemente senza limito di ghiaccio. La pioggia continua e crebbe più fredda, che non mi dispiaceva, ma un look dim nevoso nelle nuvole cadenti mi ha fatto esitare circa avventurarsi lontano dalla terra. Nessuna traccia della sponda ovest era visibile e nel caso le nuvole sarebbero accontentarsi e dare neve, o il vento ancora diventare violenti. Avevo paura di essere scoperti in un groviglio di crepacci. Cristalli di neve, i fiori delle nuvole di montagna, sono fragile, belle cose, ma terribile poi volare su venti di tempesta in oscuramento, rimasto sciami o quando saldati insieme in ghiacciai pieni di crepacci mortale. Guardando il meteo, saltellando sul mare cristallino. Per un miglio o così fuori ho trovato il ghiaccio notevolmente sicura. I crepacci marginali semplici per lo più stretta, mentre i pochi quelli più ampia erano facilmente evitare passando attorno a loro, e le nuvole cominciarono ad aprire qui e là.

Così incoraggiati, ho finalmente spinto fuori per l’altro lato; per natura può farci fare qualcosa che le piace. In un primo momento abbiamo fatto rapidi progressi, e il cielo non era molto minaccioso, mentre ho preso cuscinetti occasionalmente con una bussola tascabile che mi permettesse di trovare la mia strada di ritorno più sicuramente nel caso della tempesta dovrebbe diventare accecante; ma le linee di struttura del ghiacciaio erano mia guida principale. Verso il lato ovest siamo venuti a una sezione strettamente crepacciata in cui abbiamo dovuto fare lunghe, strette aderenze e accoppiamenti, tracciare i bordi delle traverse tremenda e crepacci longitudinali, molti dei quali erano da venti a trenta piedi di larghezza, e Forse un migliaio di piedi profondi..–bella e terribile. Nel lavoro un senso attraverso di loro ero gravemente cauto, ma Stikine è venuto come senza tentennamenti come le nuvole volanti. Il crepaccio più ampio che avrei potuto saltare lui saltava senza così tanto come fermare per dare un’occhiata a questo. Il tempo ora stava facendo cambiamenti rapidi, pezzetti di scattering di luminosità abbagliante attraverso l’oscurità invernale a rari intervalli, quando il sole ha rotto indietro completamente libero, che il ghiacciaio è stato visto da Riva a Riva con una brillante gamma di che comprende montagne parzialmente rivelate, indossando le nuvole come capi, mentre la prateria fiorì e scintillavano con iridata luce da miriadi di cristalli lavati. Poi improvvisamente tutto il glorioso spettacolo sarebbe stato oscurato e cancellò.

Stikine sembrava cura per nessuna di queste cose, chiaro o scure, né per i crepacci, pozzi, moulins o swift lampeggiante flussi nella quale egli potrebbe cadere. L’avventuriero poco aveva solo circa due anni, ma nulla sembrava romanzo a lui. Nulla spaventare lui. Ha mostrato né attenzione né curiosità, meraviglia né paura, ma coraggiosamente trotto su come se i ghiacciai erano parchi giochi. Il suo corpo robusto ed ovattato sembrava tutto un muscolo di salto ed è stato veramente meraviglioso vedere quanto rapidamente e in apparenza heedlessly ha mostrato attraverso nervo-cercando voragini sei o otto largo piedi. Suo coraggio era così incrollabile che sembrava di essere a causa di ottusità della percezione, come se fosse solo ciecamente grassetto; e continuavo a avvisandolo di stare attenti. Per siamo stati stretti compagni su così tanti viaggi deserto che avevo formato l’abitudine di parlare con lui come se fosse un ragazzo e capito ogni parola.

Abbiamo guadagnato la sponda occidentale in circa tre ore; la larghezza del ghiacciaio qui essere circa sette miglia. Poi ho spinto verso il nord per vedere quanto più indietro possibile nelle Fontane dei Monti Fairweather, nel caso in cui le nuvole dovrebbero aumentare. La distanza era facile lungo il margine della foresta, che, naturalmente, come che da altra parte, era stato invaso e schiacciato dal ghiacciaio gonfio, trabocca. In un’ora o così, dopo aver superato un massiccio promontorio, siamo venuti improvvisamente su un ramo del ghiacciaio, che, sotto forma di una magnifica cascata di ghiaccio due miglia di larghezza, pioveva a dirotto sopra l’orlo del bacino principale in direzione ovest, la sua superficie suddivisi in lame a forma di onda un d in frantumi blocchi, suggerendo la più selvaggia updashing, ansante, immergendo il movimento di una cataratta del grande fiume. Rintracciando giù tre o quattro miglia, ho trovato che scarichino in un lago, riempiendolo di iceberg.

Volentieri avrebbe seguito l’outlet Lago di acqua di marea, ma il giorno era già trascorso lontano, e il cielo minaccioso chiamato di fretta durante il viaggio di ritorno a scendere il ghiaccio prima che faccia buio. Ho deciso quindi di andare no più lontano e, dopo aver preso una vista generale della meravigliosa regione, tornata indietro, sperando di vederlo ancora una volta sotto auspici più favorevoli. Abbiamo fatto buona velocità fino il cañon del torrente grande ghiaccio e fuori sul ghiacciaio principale finché non abbiamo lasciato la sponda occidentale circa due miglia dietro di noi. Qui siamo entrati in una rete difficile di crepacci, le nuvole di raduno cominciarono a cadere frange nebbiose e presto la neve temuta è venuto volante spessa e veloce. Ora ho cominciato a sentire ansiosi di trovare un modo nella tempesta sfocatura. Stikine ha mostrato alcuna traccia di paura. Egli era ancora lo stesso eroe poco silenzioso, in grado. Ho notato, tuttavia, che, dopo la tempesta-oscurità è venuto teneva vicino dietro di me. La neve ci ha esortato a fare in fretta ancora maggiore, ma allo stesso tempo nascose il nostro modo. Ho spinto come meglio potevo, saltando innumerevoli crepacci e per ogni cento canne o giù di lì di anticipo diretto viaggiare un miglio in raddoppio su e giù nel tumulto delle voragini e blocchi di ghiaccio slogati. Dopo un’ora o due di questo lavoro siamo venuti per una serie di crepacci longitudinali di larghezza spaventoso e quasi dritto e regolare in tendenza, come solchi immensi. Questi ho rintracciato con costante del nervo, eccitato e rafforzato dal pericolo, fare salti largo, rettilineo con cautela sui loro bordi vertigini dopo il taglio di incavi per i miei piedi prima di fare la primavera, per evitare possibili scivolamenti o qualsiasi incertezza sul lato più lontano, dove viene concessa solo una prova..–esercitare contemporaneamente spaventosi e stimolante. Stikine seguita apparentemente senza sforzo.

Molti un miglio che abbiamo viaggiato così, per lo più facendo su e giù, ma poco reale progresso in traversata, in esecuzione invece di camminare il più delle volte come il pericolo di essere costretti a passare la notte sul ghiacciaio è diventato minaccioso. Stikine sembrava essere in grado per qualsiasi cosa. Senza dubbio abbiamo potuto hanno resistito alla tempesta per una notte, ballando su un appartamento posto al teme il gelo, e ho dovuto affrontare la minaccia senza sentire nulla come disperazione; ma eravamo affamati e bagnato e il vento dalle montagne era ancora spesso con neve e freddo pungente, così naturalmente quella notte sarebbe sembrato una molto lunga. Non riuscivo a vedere lontano abbastanza attraverso la neve sfocatura per giudicare in quale direzione generale il percorso meno pericoloso posare, mentre i pochi scorci dim, momentanee che ho preso delle montagne attraverso spaccature tra le nuvole volanti erano tutt’altro che incoraggiante come segni del tempo o come Guide. Ho dovuto semplicemente brancolare mio modo da crepaccio di crepaccio, tenendo una direzione generale di ghiaccio-struttura, che non doveva essere visto ovunque, e in parte dal vento. Ancora e ancora mi hanno messo al mio coraggio, ma Stikine seguita facilmente, suo nervo apparentemente in crescita più inflessibile come il pericolo maggiore. Così è sempre con gli alpinisti quando è duro assediato. Difficile correre e saltare, che tiene ogni minuto della luce diurna rimanente, povero come era, prezioso, abbiamo caparbiamente perseverato e provato a sperare che ogni crepaccio difficile che abbiamo superato risulterebbe per essere l’ultimo della sua specie. Ma al contrario, come abbiamo avanzato divennero più mortale cercando.

A lungo il nostro modo era sbarrata da un crepaccio molto ampio e diritto, che ho rintracciato rapidamente verso il nord un miglio o così senza trovare un incrocio o la speranza di uno; poi giù il ghiacciaio su quanto, a cui ha unito con un altro crepaccio invalicabile. In tutta questa distanza di forse due miglia c’era solo un posto dove avrei potuto eventualmente saltare esso, ma la larghezza di questo salto era il massimo che ho osato tentare, mentre il pericolo di scivolamento sul lato più lontano era così grande che ero restio a provare. Inoltre, il lato che ero era circa un piede più alto di altra, e anche con questo vantaggio il crepaccio sembrava pericolosamente ampio. Uno rischia di sottovalutare la larghezza di crepacci dove le magnitudini in generale sono fantastici. Quindi guardavo questo possente acutamente, stimando la sua larghezza e la forma del bordo sul lato più lontano, fino a quando ho pensato che avrei potuto saltare, se necessario, ma che nel caso in cui io dovrei essere costretto a saltare indietro dal lato inferiore potrei avere esito negativo. Ora, un alpinista cauto raramente fa un passo su terreno sconosciuto che sembra affatto pericoloso che egli non può ripercorrere nel caso in cui egli deve essere interrotto da ostacoli invisibili avanti. Questa è la regola di alpinisti che vivono a lungo, e, anche se in fretta, sono costretto a me stesso di sedersi e deliberare con calma prima l’ho rotto.

Ripercorrendo il mio percorso subdola in immaginazione come se si fossero disegnato su un grafico, ho visto che stavo riattraversare il ghiacciaio un miglio o due più lontano a monte rispetto al corso perseguito la mattina, e che ora stavo impigliato in una sezione che non avevo visto prima. Devo rischiare questo salto pericoloso, o cercare di riconquistare i boschi sulla sponda occidentale, fare un fuoco e hanno solo fame di sopportare durante l’attesa di un nuovo giorno! Avevo già attraversato un così vasto tratto di ghiaccio pericoloso che ho visto che sarebbe stato difficile tornare nel bosco attraverso la tempesta, prima che faccia buio, e il tentativo comporterebbe probabilmente una lugubre notte-danza sul ghiacciaio; mentre appena oltre la barriera presente sulla superficie sembrava più promettente, e la sponda orientale ora era più vicino forse circa come l’Occidente. Quindi ero impaziente di andare avanti. Ma questo grande salto era un terribile ostacolo.

A lungo, a causa dei pericoli già dietro di me, ho deciso di avventurarsi nei confronti di coloro che potrebbero venire, saltò e atterrato bene, ma con così poco di ricambio che ho temuto sempre più costretti a prendere quel salto indietro dal lato inferiore. Stikine seguita, fare nulla, e ci siamo imbattuti con entusiasmo in avanti, sperando che ci hanno lasciato tutte le nostre angosce. Ma trovano alcune cento yarde di distanza abbiamo hanno fermati il crepaccio più ampio ancora incontrati. Naturalmente ho fatto fretta per esplorarlo, sperando che tutto potrebbe ancora essere sanate trovando un ponte o un senso intorno a entrambe le estremità. Circa tre quarti di miglio fino streaming che ho trovato che ha unito con quello che aveva appena attraversato, come temevo che sarebbe. Poi, rintracciando giù, ho trovato che ha aderito il crepaccio stesso all’estremità inferiore, inoltre, conservando per tutto l’intero corso una larghezza di quaranta-cinquanta piedi. Così per il mio sgomento ho scoperto che eravamo su un’isola stretta circa due miglia di lunghezza, con a malapena possibili due modi per fuggire: uno indietro dal modo in cui siamo venuti, l’altro avanti di un quasi inaccessibile scheggia-ponte che ha attraversato il grande crepaccio da vicino al centro di esso!

Dopo questa scoperta del nervo-cercando corsi indietro al nastro-ponte e cautamente esaminato esso. Crepacci, causate da ceppi da variazioni del tasso di movimento delle diverse parti del ghiacciaio e convessità nel canale, sono semplici crepe quando in primo luogo aprire, così strette come difficilmente per ammettere la lama di un coltello da tasca e gradualmente ampliare secondo il misura dello sforzo e la profondità del ghiacciaio. Ora alcune di queste crepe sono interrotti, come le crepe nel legno, e nell’apertura la striscia di ghiaccio tra le estremità di sovrapposizione viene trascinata e può mantenere una connessione continua tra il lato, proprio come i due lati di una crepa scaglie in legno essendo divisa ar e collegato. Alcuni crepacci rimangono aperte per mesi o addirittura anni e per la fusione dei loro lati continuano ad aumentare in larghezza lungo dopo lo sforzo di apertura ha cessato; mentre lo scheggia-ponti, livello in cima al primo e perfettamente sicuro, a lungo si fondono a lame sottili, verticali e acuminate, parte superiore essendo più esposta alle intemperie; e dal momento che l’esposizione è più grande nel mezzo. essi a curva di lunghezza verso il basso come i cavi dei ponti sospesi. Questo era evidentemente molto vecchio, che era stato esposto all’aria e sprecato fino a quando è stato il più pericoloso e inaccessibile che azzardi a modo mio. La larghezza del crepaccio era qui circa cinquanta piedi, e l’attraversamento di scheggia in diagonale era circa settanta piedi di lunghezza; sua sottile coltello vicino al centro era depresso venticinque o trenta piedi sotto il livello del ghiacciaio, e le estremità in su-curvatura sono state fissate ai piedi i lati otto o dieci sotto l’orlo. Scendendo la parete quasi verticale all’estremità del nastro e l’altro lato sono state le principali difficoltà, e sembravano tutti, ma insormontabili. Dei molti pericoli incontrati nei miei anni di vagabondaggio su montagne e ghiacciai, nessuno sembrava così semplice e severo e spietato come questo. Ed è stato presentato quando eravamo bagnati per la pelle e affamati, il cielo scuro con neve Guida rapida e la notte nei pressi. Ma siamo stati costretti ad affrontarlo. È stata una tremenda necessità.

A partire, non immediatamente sopra l’affondata fine del ponte, ma un po’ da un lato, ho tagliato una profonda cavità sull’orlo per mie ginocchia a riposare in. Quindi, che si appoggia sopra, con la mia ascia manico corto ho tagliato un passo sedici o diciotto pollici qui sotto, che a causa di sheerness del muro era necessariamente superficiale. Tale passaggio, tuttavia, era ben fatta; suo piano inclinato leggermente verso l’interno e formata una buona tenuta per i miei tacchi. Quindi, scivolare con cautela su di essa e che si accovaccia più in basso possibile, con il mio lato sinistro verso il muro, assestato me stesso contro il vento con la mano sinistra in una tacca lieve, mentre con la destra ho tagliato altri passaggi simili e tacche in successione, difendendosi perdita di equilibrio da scintillante dell’ascia o da raffiche di vento, per vita e la morte erano in ogni colpo e la gentilezza di finitura di ogni appiglio.

Dopo che è stata raggiunta la fine del ponte scheggiato e giù fino a quando avevo fatto una piattaforma di livello sei o otto pollici di larghezza ed era una cosa cerca di equilibrio su questa piattaforma poco scivoloso mentre si piega in avanti per ottenere in modo sicuro da ambo i lati del nastro. Incrocio quindi era relativamente facile da chipping spento il bordo tagliente con colpi brevi, attenta e aggancio avanti un pollice o due alla volta, mantenere il mio equilibrio con le mie ginocchia premuto contro i lati. L’enorme abisso su entrambe le mani che ho diligentemente ignorato. Per me il bordo di quel nastro blu era poi tutto il mondo. Ma la parte più difficile dell’avventura, dopo aver lavorato mio modo attraverso pollice dal pollice e chipping un’altra piccola piattaforma, era a salire dalla posizione sicura da ambo i lati e tagliare uno step-ladder in faccia quasi verticale della parete, — chipping, arrampicata, aggrappandosi con i piedi e le dita nelle tacche di mere. In questi momenti di uno tutto il corpo è occhio. e abilità e forza d’animo comuni sono sostituite da potere oltre ogni nostra chiamata o la conoscenza . Mai ero stato così a lungo sotto il ceppo mortale. Come mi sono alzato quella scogliera mai potrei dire. La cosa sembrava essere stato fatto da qualcun altro. Mai ho tenuto morte in disprezzo, anche se nel corso del mio esplorazioni spesso ho sentito che per soddisfare il proprio destino su una montagna nobile, o nel cuore di un ghiacciaio, sarebbero state benedette rispetto a morte da malattia o da qualche incidente pianura squallido. Ma la morte migliore, rapida e cristallo-puro, impostata così vistosamente aperta davanti a noi, è abbastanza difficile da affrontare, anche se siamo convinti con gratitudine che abbiamo già avuto abbastanza felicità per la vita di una dozzina.

Ma povero Stikine, wee, pelosi, sleekit beastie , pensare a lui! Quando avevo deciso di osare il ponte, e mentre ero sulle mie ginocchia chipping una cavità sulla fronte arrotondata sopra di esso, è venuto dietro di me, ha spinto la testa passata mia spalla, guardato giù e da altra parte, analizzato il nastro e nei suoi approcci con i suoi occhi misteriosi , poi mi guardò in faccia con un aria fatto sussultare di sorpresa e preoccupazione e cominciò a mutter e piagnucolare; dicendo chiaramente come se parlasse con le parole, “sicuramente, non si sta in quel posto orribile.” Questa era la prima volta che avevo visto lo sguardo deliberatamente in un crepaccio, o nella mia faccia con uno sguardo ansioso, che parlano, turbato. Che egli dovrebbe hanno riconosciuto e apprezzato il pericolo al primo sguardo ha mostrato sagacia meraviglioso. Mai prima aveva il nano audace sembrava sapere che il ghiaccio era scivoloso o che c’era una cosa del genere come pericolo ovunque. Suoi sguardi e toni di voce quando ha iniziato a lamentarsi e parlare le sue paure erano così umani che inconsciamente gli ho parlato in simpatia come vorrei un ragazzo spaventato, e nel tentativo di calmare la sue paure forse in qualche misura moderato mio. “Hush tue paure, ragazzo mio,” ho detto, “ ci metteremo in cassetta di sicurezza , anche se non sara ‘ facile. Nessun modo giusto è facile in questo mondo agitato. Noi dobbiamo rischiare la vita per salvarli. Nel peggiore dei casi possiamo solo scivolare, e quindi quanto grande una tomba avremo, e via via le nostre ossa bella farà bene nella morena terminale.”

Ma il mio sermone era tutt’altro che rassicurante lui: ha iniziato a piangere, e dopo aver preso un altro sguardo penetrante al Golfo tremendo, scappato in eccitazione disperata, alla ricerca di qualche altro incrocio. Con il tempo che e ‘ tornato, sconcertato naturalmente, avevo fatto un passo o due. Non ho osato guardare indietro, ma si è fatto sentire; e quando vide che io era vòlto in certamente incrocio che gridò ad alta voce in preda alla disperazione. Il pericolo è stato sufficiente a tormentare qualcuno, ma sembra meraviglioso che avrebbe dovuto essere in grado di peso e apprezzarlo così giustamente. Nessun alpinista potrebbe avere visto più rapidamente o giudicati più saggiamente, discriminare fra il pericolo reale e apparente.

Quando ho guadagnato da altro lato, si mise a gridare più forte che mai e dopo correre avanti e indietro inutile ricerca di una via di fuga, sarebbe tornato sull’orlo del crepaccio sopra il ponte, gemiti e lamenti come se nell’amarezza della morte. Questo potrebbe essere lo Stikine silenzioso, filosofico? Ho gridato incoraggiamento, dicendogli che il ponte non era così male come sembrava, che avevo lasciato piana e sicura per i suoi piedi, e che poteva camminare facilmente. Ma aveva paura di provare. Strano, un animale così piccolo dovrebbe essere capace di tali timori grande, saggi. Ho chiamato nuovamente in un tono rassicurante per venire e aver paura di nulla; che poteva venire se solo avrebbe provato. Egli sarebbe silenzio per un attimo, guarda giù nuovamente presso il ponte e gridare sua incrollabile convinzione che non potesse mai, mai cosi ‘ che arrivano; poi si trovano indietro in preda alla disperazione, come se urlando, “O-o-oh! che posto! No-o-o, non riesco mai andare-o-o laggiù!” Sua naturale compostezza e coraggio era scomparso completamente in una tumultuosa tempesta di paura. Il pericolo era stato meno, sua angoscia sarebbe sembrato ridicolo. Ma in questo lugubre, spietato abisso giaceva nell’ombra di morte, e sue grida strazianti potrebbe ben chiamato cielo in suo aiuto. Forse hanno fatto. Così nascosto prima, ora era trasparente, e si poteva vedere il funzionamento del suo cuore e la mente come i movimenti di un orologio dalla custodia. Sua voce e gesti, speranze e timori, erano così perfettamente umana che nessuno potrebbe confondere loro; mentre sembrava di capire ogni parola mia. Ero turbato al pensiero di dover lasciare lui fuori tutta la notte e il pericolo di non trovare lui la mattina. Sembrava impossibile farlo per avventurarsi. Per costringerlo a provare per paura di essere abbandonato, ho iniziato come se lasciarlo al suo destino e scomparve dietro un hummock; ma questo fatto non va bene; Egli solo stabilire e gemeva male indicibile miseria senza speranza. Così, dopo aver nascosto a pochi minuti, sono tornato sull’orlo del crepaccio e in un tono grave di voce gridato attraverso a lui che ora devo lasciare certamente lui, non potrei attendere non più, e che, se lui non sarebbe venuto, tutto quello che potuto promettere era che mi piacerebbe ritornare in lo cercano il giorno successivo. L’ho avvertito che se e ‘ tornato nel bosco i lupi lo avrebbero ucciso e terminato da esortandolo ancora una volta con le parole e i gesti a venire su, andiamo.

Sapeva molto bene quello che significava e finalmente, con il coraggio della disperazione, sommesso e senza fiato, si appiattò sull’orlo nella cavità che avevo fatto per le ginocchia, premuto il suo corpo contro il ghiaccio, come se cercasse di ottenere il vantaggio dell’attrito di ogni capello , fissato il primo passo, mettere i suoi piccoli piedi insieme e li scivolò lentamente, lentamente sopra il bordo e giù in esso, Trefolatura tutti e quattro in esso e quasi in piedi sulla sua testa. Quindi, senza sollevare i piedi, così come ho potuto vedere attraverso la neve, ha lentamente lavorato li sopra il bordo del gradino e giù in quella successiva ed il successivo in successione nello stesso modo e acquisita alla fine del ponte. Quindi, sollevamento suoi piedi con la regolarità e la lentezza delle vibrazioni di un pendolo a secondi, come se di conteggio e misura uno-due-tre , che tiene lo stesso stabile contro il vento rafficato, e dando attenzione separata per ogni piccolo passo, si guadagnò il piede della scogliera, mentre ero sulle mie ginocchia che si appoggia sopra per dargli un ascensore lui dovrebbe riuscire a ottenere alla portata del mio braccio. Qui ha fermato in silenzio, e fu qui che ho temuto che potrebbe avere esito negativo, per cani sono poveri scalatori. Ho non avuto nessun cavo. Se avessi avuto uno, sarebbe sceso un cappio sopra la sua testa e lui trascinato. Ma mentre stavo pensando se un cavo disponibile potrebbe essere fatto di abbigliamento, fu acutamente esaminando la serie di passaggi dentellate e dito-tiene che avevo fatto, come se li contiamo e fissare la posizione di ciascuno di essi nella sua mente. Poi improvvisamente up egli è venuto in fretta ed elastica, aggancio suo paws in passaggi e tacche così in fretta che non ho potuto vedere come era fatto e ha inviato oltre la mia testa, sicuro, finalmente!

E ora è venuto una scena! “Ben fatto, ben fatto, ragazzino! Ragazzo coraggioso!” Ho pianto, cercando di prendere e accarezzare lui; ma egli non sarebbe stato catturato. Mai prima o da allora ho visto nulla di simile così appassionato una repulsione dalla profondità della disperazione di gioia esultante, trionfante, incontrollabile. Egli balenò e guizzavano qua e là come se abbastanza demente, urlando e gridando, vorticoso giro ed il giro in loop vertiginoso e cerchi come una foglia in un vortice, sdraiato e di rotolamento più e più volte, lateralmente e talloni sopra la testa e versando via un tumultuoso alluvione di grida isteriche e singhiozzi e ansimante borbottii. Quando mi sono imbattuto a lui per agitare lui, temendo che potesse morire di gioia, ha mostrato fuori due o tre cento iarde, i piedi in una nebbia di movimento; poi, svolta improvvisamente, è tornato in una corsa selvaggia e lanciò la mia faccia, quasi mi bussa. nel frattempo stridore e urlando e gridando come se dicendo, “Saved! salvati! salvato!” Poi via di nuovo, cadere improvvisamente a volte con i piedi in aria, tremante e abbastanza singhiozzando. Tale emozione appassionata era abbastanza per ucciderlo. Il brano maestoso Mosè di trionfo dopo la fuga gli egiziani e il mar rosso era niente di che. Chi potrebbe avere indovinato la capacità dell’omino sordo, duratura per tutto ciò che più suscita questo telaio mortale? Nessuno avrebbe potuto aiutare piangere con lui!

Ma non c’è niente come lavoro per smorzare eccessiva paura o di gioia. Così mi sono imbattuto avanti, chiamandolo in come burbero una voce come io potrei comando di venire a interrompere la sua assurdità, per noi era troppo lontano andare e sarebbe presto egli scuro. Nessuno di noi temevano un altro processo come questo. Cielo sarebbe sicuramente contare uno abbastanza per tutta la vita. Il ghiaccio avanti era squarciato da migliaia di crepacci, ma erano più comuni. La gioia della liberazione bruciato in noi come il fuoco, e ci siamo imbattuti senza fatica, ogni muscolo con rimbalzo immenso vanto nella sua forza. Stikine volò attraverso tutto ciò che a suo modo, e non fino a buio egli sistemazione in suo trotto volpe-come normale. Le montagne nuvolosa giunse in vista, e abbiamo presto sentito la roccia solida sotto i nostri piedi ed erano al sicuri. Poi è arrivata la debolezza. Pericolo era scomparso, e così aveva la nostra forza. Siamo schiacciati lungo la morena laterale al buio, su massi e tronchi d’albero, attraverso i cespugli e boschetti di diavolo-club del boschetto dove abbiamo noi stessi avevamo riparato al mattino e da altra parte il livello mudslope della morena terminale. Abbiamo raggiunto circa 10 di camp e trovato un grande fuoco e una grande cena. Una festa degli indiani Hoona aveva visitato il signor Young, portando un regalo di focena carne e fragoline di bosco, e Hunter Joe aveva portato in una capra selvatica. Ma abbiamo stabiliscono, troppo stanchi per mangiare molto e presto cadde in un sonno agitato. L’uomo che ha detto, “più difficile la fatica, più dolce il resto,” non è mai stato profondamente stanchi. Stikine mantenuto sorgendo e borbottando nel sonno, sognando non c’è dubbio che egli era ancora sull’orlo del crepaccio; e anch ‘ io, quella notte e molti altri molto tempo dopo, quando ero troppo stanco.

Da allora in poi Stikine era un cane modificato. Durante il resto del viaggio, invece di tenere in disparte, sempre giaceva al mio fianco, ha cercato di tenermi costantemente in vista e difficilmente avrebbe accettato un boccone di cibo, tuttavia allettante, da qualsiasi mano ma la mia. Di notte, quando tutto era tranquillo circa il falò, avrebbe venire da me e riposare la testa sul mio ginocchio con uno sguardo di devozione, come se fossi il suo Dio. E spesso come ha catturato la mia attenzione che sembrava essere cercando di dire, “non era che un tempo terribile che abbiamo avuto insieme sul ghiacciaio?”

Niente nel dopo anni ha smorzato quel Alaska Tempesta-giorno. Mentre scrivo tutto arriva correndo e ruggente in mente come se fossi di nuovo nel cuore di esso. Ancora una volta vedo il grigio volante nuvole con le loro piene di pioggia e neve, il ghiaccio-scogliere torreggianti sopra la foresta di contrazione, la maestosa cascata di ghiaccio, il vasto ghiacciaio tese prima sua montagna bianca-fontane e nel cuore di esso il crepaccio tremendo,… emblema della valle dell’ombra della morte, –nuvole basse finali sopra esso, la neve che cade in esso; e il suo orlo vedo poco Stikine, e ho sentito le sue grida per aiuto e sua grida di gioia. Ho conosciuto molti cani e molti una storia che potrei dire della loro saggezza e devozione; ma a nessuno devo tanto da Stikine. In un primo momento il meno promettente e meno conosciuto dei miei amici-cane, improvvisamente divenne il più noto di tutti loro. La nostra tempesta-battaglia per la vita lo ha portato alla luce, e attraverso di lui come attraverso una finestra ho allora cercato con la più profonda simpatia in tutti i miei compagni mortali.

Nessuno degli amici di Stikine sa che cosa è diventato infine di lui. Dopo che è stato fatto il mio lavoro per la stagione partii per la California, e non ho mai visto il caro piccino nuovamente. In risposta a richieste ansiosi suo padrone mi ha scritto che nell’estate del 1883 egli fu rubato da un turista a Fort Wrangell e portato via su un piroscafo. Suo destino è avvolta nel mistero. Senza dubbio ha lasciato questo mondo..–ha attraversato l’ultimo crepaccio..–e andato ad un altro. Ma non sarà dimenticato. A me Stikine è immortale.

Note da Francis H. Allen

[dall’edizione di The Riverside Press]

Fort Wrangel.

Ora generalmente scritto Wrangell. Qualsiasi buona mappa dell’Alaska mostrerà la sua posizione.

Rev. S. H.Young.

Samuel Hall Young, ora sovrintendente della Alaska presbiteriana missioni con ufficio a New York City, ma a quel tempo un missionario nel campo con quartier generale a Fort Wrangel. Viaggia in Alaska di Mr. Muir contiene un interessante resoconto di un’avventura alpinismo in cui Mr. Young perse quasi la vita. Dr. Young (ha ricevuto il grado di D.D. nel 1899) ha scritto entertainingly di questa e di altre esperienze con John Muir ( Outlook , 26 maggio, 23 giugno e 28 luglio 1915). Nell’ultimo dei suoi tre articoli racconta Stikine, oggetto di questa storia.

Coda… ombroso come uno scoiattolo.

La parola verde per scoiattolo, skiouros , da cui deriva la nostra parola inglese, è formata da due parole significato “ombra” e “coda”. È abbastanza probabile che Mr. Muir aveva questo in mente.

L’acqua era fosforescente.

Alcuni dei piccola e microscopica vita animale del mare diventa luminosa di notte quando disturbato dalla rottura delle onde, la zangolatura dell’elica di una barca, gli schizzi dei remi, i tratti di un nuotatore, o qualsiasi causa simile, come, in questo caso, i movimenti del salmone. L’acqua circostante a volte risplende e brilla splendidamente.

Il salmone erano in esecuzione.

Salmone, anche se per la maggior parte dell’anno vivono in mare, depongono le uova solo in acqua corrente fresca, e in primavera e in estate brulicano i flussi per il breeding-grounds. Questo è il momento quando vengono catturati per lo sport e per il mercato, –a est con la canna e la linea, in Alaska, dove sono trovati in gran numero, con reti e Lance. Questa migrazione i flussi è chiamata “in esecuzione”.

Panax.

Panax horridus, o Fatsia horrida , un arbusto araliaceous pericolosamente spinoso, comunemente chiamato del diavolo-club. È abbondante in Alaska.

Rubus.

Il genere di piante a cui appartengono la mora, lampone, rovo e lamponi.

Wild-weathery.

Uno sembra nei dizionari invano per questa parola, ma il significato è ovvio. Mr. Muir era piuttosto affezionato di coniare parole giocosi di questo genere, come sono così comuni nel suo nativo Scotch.

Diogenes.

Un celebre filosofo cinico greco che disprezzava le ricchezze ed è detto di aver vissuto in una vasca. Plutarco racconta che quando Alessandro Magno chiesto Diogenes se poteva fare niente per lui rispose, “Sì, avrei si levano in piedi tra me e il sole.”

Sfinge.

“Una persona di spinxlike; una delle enigmatiche o imperscrutabile carattere e finalità”(Webster New International Dictionary ). La Sfinge della mitologia greca proposto un enigma per tutti i visitatori e, dopo il fallimento di ciascuno a indovinarla, rapidamente divorato lui.

Tahkoo.

Un nome indiano, anche ortografato Taku.

Fontana-campi di ghiaccio.

I campi di ghiaccio che formano le fonti dei ghiacciai.

Glacier Bay.

Il famoso Muir Glacier , scoperto da Mr. Muir nel 1879, è a capo di questa baia.

Yosemite.

Yosemite Valley della California , dove Mr. Muir ha reso la sua casa per anni.

Tempeste.

John Muir ha mai avuto paura di maltempo. Uno dei suoi scritti più interessanti è l’account in The Mountains della California di come ha scalato un albero nella foresta durante una tempesta di vento e vi rimase scosso selvaggiamente negli alberi mentre ha studiato le abitudini degli alberi sotto tali condizioni.

Slogato il braccio.

Vedere l’account in viaggi in Alaska.

Accanitamente.

Si noti il gioco di parole.

“Dove tu andrai andrò.”

Senza dubbio suggerito dalla risposta di Ruth a sua suocera, Naomi, “dove tu andrai, io andrò” (Ruth 01:16).

Virate strette.

La parola “Chiodini” viene utilizzata in senso nautico, come quando una nave a vela “Chiodini” di bolina, un corso a zig-zag, perché è Impossibile navigare direttamente contro il vento. Per “stretta tacks” l’autore intende evidentemente Chiodini in cui pochi veri progressi, i crepacci arrivando molto vicini tra loro.

Fontane.

Nel senso delle fonti; in questo caso le fonti dei ghiacciai.

Iceberg.

Gli iceberg sono, naturalmente, lo scarico naturale di un ghiacciaio in un lago o il mare.

Potere che supera la nostra chiamata o la conoscenza.

Questa è stata l’esperienza di molti che hanno districato da pericoli imminenti con le proprie forze senza aiute. L’emergenza suscita finora insospettate forniture di energia di riserva.

Sleekit Wee, pelosi, beastie.

Questo ricorda la poesia di Burns “Per un Mouse”, che inizia “Wee, sleekit, cow’rin’, tim’rous beastie.” “Sleekit” viene utilizzato senza dubbio nel suo senso originale di elegante, liscio. È il participio passato del verbo ““elegante. Muir era affezionato a cadere occasionalmente nel suo nativo Scotch, soprattutto quando è stato chiamato un diminutivo affettuoso.

Ci metteremo in cassaforte.

Qui e nella parte superiore della pagina successiva Mr. Muir segue l’usanza di Scotch di usare la parola “sarà” dove meglio uso inglese richiede “shall”.

Diavolo-club.

Vedere nota su Panax.

Stikine(Boston: Houghton Mifflin Co., 1909), copyright © 1909 John Muir; Introduzione copyright © 1995 Dan Anderson. Trascritto da Dan Anderson da copia al capitolo di San Diego, Sierra Club della biblioteca [Riverside letteratura serie numero 231, The Riverside Press, Cambridge, Massachusetts (fuori stampa)]. Ultimo aggiornamento 18 novembre 1996.

Infausti anniversari

di Paolo Repetto, 30 dicembre 2019

Ragguaglio sull’agonia della lettura

“Questi risultati ci preoccupano perché è un problema che ci trasciniamo da troppo tempo. Se ora non interveniamo rischiamo di pregiudicare il futuro di una generazione. I dati non sono particolarmente diversi da quelli che abbiamo visto nella precedente rilevazione, ma sono molto peggiori di quelli di una ventina di anni fa. Se paragonati al Duemila si denota una significativa diminuzione della capacità di apprendimento dei giovani. Stiamo risentendo di un paio di decenni di poco interesse sull’istituzione scolastica. Serve un’inversione di tendenza importante: bisogna tornare a parlare di scuola, tornare a volergli bene, rafforzando anche il ruolo degli insegnanti”. (Lorenzo Fioramonti, ministro dell’Istruzione, commentando i risultati dell’indagine Ocse-Pisa 2018)

È un discorso che ho già sentito, più di una volta. Non ultima, in occasione del progetto di cui sopra. Non è certo questione di tornare a “parlare di scuola”: se ne è parlato sin troppo, senza mai arrivare al dunque. Per questo è ridotta così. Quanto al volerle (e non al volergli!) bene, passa appunto per il riconsiderare il ruolo degli insegnanti. E qui ci areniamo subito su un banco di sabbia. Questo è un paese nel quale il passaggio di cattedra dalla primaria alla secondaria superiore si ottiene con un corso-farsa di quaranta ore, magari per andare a insegnare matematica, filosofia o lingue, e dove ad auspicare una verifica periodica del livello di preparazione e di competenza dei docenti – e magari anche un accertamento psicologico, visto che il loro rischio di burnout ( che sarebbe il surriscaldamento cerebrale) è tre volte superiore a quello di qualsiasi altra categoria – ed una selezione che ne consegua, si viene tacciati d’infamia. Ma è anche il luogo dove la filosofia “aziendale” inaugurata dalla riforma Moratti e perseguita da tutte quelle successive, quella per la quale il cliente ha sempre ragione e i risultati si misurano sul suo gradimento, ha creato condizioni impossibili per l’insegnamento anche ai docenti più motivati.

Concentriamoci però per il momento sulla fattispecie che ha dato origine a questo pezzo, la disaffezione alla lettura. A distanza di due decenni i nodi del problema non sembrano granché cambiati, se non nel senso che lo sfascio è andato oltre le più fosche previsioni. Si scrive sempre di più, si pubblicano troppi libri, si legge sempre di meno. L’analfabetismo di ritorno dilaga. Sono cambiati invece, e parecchio, i fattori: a far concorrenza alla lettura non ci sono più solo il cinema o la televisione, sono subentrati altri media, assai più insidiosi. Che non hanno soltanto distratto dalla lettura, ma ne hanno modificato le modalità stesse, così come hanno modificato quelle della scrittura, facendone attività completamente altre rispetto a quelle tradizionali. La scrittura e la lettura si sono aperte a un numero infinitamente più grande di utenti, in teoria si sono “democratizzate”: nella realtà hanno perso quei caratteri (l’articolazione, la complessità) che ne facevano gli elementi chiave della formazione, della conservazione e della trasmissione delle conoscenze, e che agivano direttamente sul nostro cervello nella creazione dell’intelligenza.

Oggi si legge anche su supporti diversi dal libro, sul tablet, sul pc, sul lettore di ebook, sugli smartphone: ma già questo, di per sé, induce con lo strumento una consuetudine diversa, di ordine fisico oltreché mentale, che si riverbera poi anche sul testo: ciò che scorre su uno schermo, tattile o meno, rimanda a qualcosa di volatile, di superficiale. Appare destinato ad essere immediatamente spazzato via da altro, da ciò che lo circonda o da ciò che lo seguirà immediatamente. Ne riparleremo.

Prima fornisco qualche aggiornamento sulla situazione della lettura, nella scuola e fuori. Mi baso su dati concreti, e parto da quelli ufficiali relativi all’Italia, che tengono conto di tutte le diverse modalità di lettura. Non sono un appassionato delle indagini statistiche, ne conosco i limiti oggettivi e i rischi di manipolazione, ma penso comunque che rimangano al momento lo strumento più affidabile per misurare la temperatura culturale di un paese. E che quando segnalano stati permanenti di alterazione non ci si possa nascondere dietro i se e dietro i ma: un qualche allarme devono destarlo.

Dunque: il nostro paese è agli ultimi posti in Europa nella classifica dei lettori (inchiesta del Global English Editing). Nel 2018 solo il 40% degli italiani ha letto almeno un libro nel corso dell’anno. Nell’Italia meridionale il numero si riduce ancora, scendendo al 27,5%. Per avere dei termini di confronto, la percentuale è del 90% in Svezia, dell’82% in Danimarca, dell’80% nel Regno Unito, del 79% in Germania, del 73% in Francia e dell’86% nei Paesi Bassi. Non mi si obietti che i primi sono paesi freddi e noiosi, dove per nove mesi l’anno le alternative alla lettura sono ben poche, perché in India, dove tanto freddo non fa e la natura è più rigogliosa che da noi, il tempo settimanale mediamente dedicato alla lettura (oltre dieci ore) è esattamente il doppio che in Italia (cinque ore). Per non parlare della Cina, dove la media è di quattro o cinque libri letti ogni anno per abitante (e sono un miliardo e mezzo). Il caso India smentisce poi anche l’altra immancabile obiezione: che i libri siano troppo cari, e quindi sia una questione di spesa. Palle. Il reddito medio pro capite degli indiani è cinque volte inferiore a quello degli italiani, ma leggono due volte di più.

Non è finita qui. I dati degli ultimi venti anni relativi al nostro paese parlano di una crescita della percentuale di lettori nel primo decennio del nuovo secolo (dal 41% al 47 % tra il 2001 e il 2010), e di una discesa quasi in picchiata negli ultimi otto anni. Non credo proprio c’entrino per la prima fase i progetti di incentivazione alla lettura, e il loro naufragio per la seconda: anche se il calo concerne per l’appunto soprattutto le fasce più giovani. In soli tre anni, dal 2015 al 2016, la quota di lettori tra i quindici e i diciassette anni è diminuita dal 53,9% al 42,1%. E anche tra i venti e i ventiquattro anni si è scesi dal 48,9% al 44,7%. Nella loro aridità, e pur rendendo conto solo dell’aspetto quantitativo della lettura, questi numeri ci dicono parecchio.

Per dare un po’ di soddisfazione alle mie amiche sottolineo che per fortuna, ad evitarci di scendere dagli ultimi posti continentali a quelli mondiali, ci sono le donne. Sono loro le lettrici più forti, sia pure relativamente: il 47,1% legge almeno un libro nel corso dell’anno, contro il 33,5% dei maschi, e il 15% ne legge in media uno al mese, contro il 12,6% degli uomini. E non c’entra la disponibilità di tempo (altra possibile obiezione cretina): lo dimostra il fatto che il 58,7% delle ragazze tra gli undici e i diciannove anni, quindi in età scolare e con impegni esattamente simili a quelli maschili, ha letto almeno un libro, mentre i loro coetanei sono solo il 38%. Quelle di diciotto e diciannove anni si avvicinano addirittura alle medie europee, ben il 70,2% (contro un misero 36,5% dei maschi), mentre quelle tra i quindici e i diciassette arrivano al 68,8% (i loro pari età si fermano al 42%). Non esiste una sola fascia d’età in cui i lettori maschi siano superiori alle lettrici femmine. Non che questo sia di qualche conforto, ma è un dato da considerare.

Ciò che maggiormente sconforta, però, è che nel quadro di un trend mondiale tutto sommato stabile, il nostro, che era già messo male prima, è tra i paesi che accusano un calo maggiore. E le conseguenze si vedono. Una recente indagine sui livelli mondiali di alfabetizzazione (è quella cui si riferisce il ministro), realizzata dall’ OCSE e consistente in sei questionari relativi alla lettura, alla scrittura e al calcolo, ha dato risultati spaventosi. Sui ventisette Paesi presi in considerazione, l’Italia si piazza penosamente ultima.

Le risposte erano valutate sulla base di cinque livelli crescenti. Bene, intanto il 5% degli italiani non ha raggiunto neppure il primo livello, ciò che significa che è letteralmente analfabeta (e si parla di oltre due milioni!), mentre al primo livello, ovvero a rischio di analfabetismo, si è fermato complessivamente (cioè compresi gli analfabeti “certificati” di cui sopra) il 42%. Stiamo dicendo che quasi un italiano su due è un analfabeta funzionale di primo livello. Al secondo livello si ferma un altro 39%: sommiamo ai precedenti e constatiamo che quattro italiani su cinque sono sotto la soglia della mediocrità culturale. Al terzo livello si trova il 18,8%. A raggiungere il quarto e il quinto livello di competenza linguistica e matematica è una sparutissima pattuglia. Un quadro desolante, che spiega meglio di qualsiasi trattazione sociopolitica perché siamo messi così male.

Per contro, se andiamo invece a considerare l’editoria, troviamo che l’offerta libraria è in continuo aumento (dati AIE 2018). Nel 2017 sono stati pubblicati in Italia 70.159 titoli, per la gran parte prime edizioni. Se tuttavia prendiamo in considerazione il numero di copie stampate (attorno ai centosessanta milioni di copie nel 2017) ci accorgiamo che mentre rispetto a vent’anni fa i titoli pubblicati sono aumentati di una volta e mezza, le copie stampate sono diminuite della metà. Il che sarà una buona notizia per le foreste, ma ha significati meno positivi per la lettura. Significa che la corsa a proporre novità continue per attrarre i consumatori e rispondere a tutti i gusti, sulla falsariga delle politiche di vendita attuate negli altri settori, sacrificando l’attenzione alla qualità, nel mercato librario non paga. E significa anche per i lettori una sempre maggiore difficoltà ad orientarsi entro un’offerta spropositata e invadente.

Quanto al piano dal quale sono partito, quello dell’età scolastica, abbiamo anche qui dei dati significativi (dati Istat del 28 dicembre 2018). Tra i sei e i quattordici anni bambini e ragazzi sono discreti lettori: il 48,5 circa di loro legge almeno un libro l’anno (nulla di paragonabile con i loro coetanei scandinavi, ma insomma), mentre tra i quindici e i diciassette come abbiamo visto la percentuale scende, e si allinea quasi a quella nazionale. Ora, non c’è dubbio che l’adolescenza sia un’età ingrata, di norma piuttosto stupida, e che nella testa dei ragazzi di quell’età circolino un sacco di cose che con la lettura hanno poco a che vedere: ma è altrettanto vero che nei loro coetanei scandinavi la consuetudine con i libri non viene meno, e questo perché è sapientemente coltivata. Ci sono poi senz’altro ragioni storiche, che rendono poco raffrontabili paesi in cui saper leggere era d’obbligo sin dalla fine del medioevo, non fosse altro per motivi religiosi, e nei quali il primo esempio e lo stimolo maggiore arrivano proprio dalle famiglie, col nostro, che non aveva ancora sconfitto l’analfabetismo mezzo secolo fa e nel quale il 60% delle famiglie ha in casa meno di cinquanta libri (ma la metà di queste non arriva nemmeno a dieci), e solo il 6% ne possiede più di quattrocento. Qui però non si parla più della difficoltà di attirare nuovi giovani lettori, qui si parla di un calo: quindi le ragioni del ritardo storico non sono più sufficienti a fornire la spiegazione. Deve esserci dell’altro.

C’è per intanto una chiara responsabilità della scuola. Gran parte del disamore giovanile per la lettura nasce direttamente nelle aule scolastiche. Per tanti motivi. Anche se resto dell’idea che i “progetti di incentivazione” non siano sufficienti ad affrontare il problema (in Italia, quando va bene lasciano il tempo che trovano) mi rendo conto tuttavia che l’inerzia totale che ha caratterizzato le ultime politiche scolastiche non solo non aiuta a risolverlo, ma nemmeno consente di arginarlo o anche soltanto di inquadrarlo. I progetti in realtà, se impostati come si deve, qualche risultato lo danno. Dodici anni fa la Spagna, che navigava in acque politiche ed economiche ancor meno tranquille di quelle italiane, ha preso di petto la questione, ha costituito una rete che ingloba (ma soprattutto impegna a darsi da fare) tutti gli attori del mondo del libro, dagli editori alle biblioteche ai librai, e ha come terreno di gioco proprio la scuola, ha varato una legge ad hoc (il “Plan de fomento de la lectura”) e in un decennio è passata da percentuali simili alla nostra ad un 60%. Guarda caso, il successo di quel progetto ha coinciso con la scoperta e il lancio a livello internazionale di una schiera di autori di ottimo livello, che a partire da una particolare attenzione per la storia patria, tutta da ripensare dopo i quarant’anni di coma franchista, hanno sfornato opere in grado di sfidare in ogni campo il monopolio della narrativa di lingua anglofona (i cinque titoli più letti in Spagna nel 2018 erano tutti di autori spagnoli). Lo stesso sta avvenendo per le letterature scandinave, sia pure per motivazioni diverse. Tra l’altro, il numero di titoli pubblicati dalle case editrici spagnole è di pochissimo superiore a quello italiano, per un mercato quasi nove volte più ampio (i parlanti in lingua spagnola al mondo sono circa 520 milioni). Ciò significa aver operato una selezione intelligente e offrire al pubblico una produzione capace non solo di attrarre, ma di abituare e incentivare alla lettura.

Torniamo però alla nostra scuola. Da cosa nasce la disaffezione dei ragazzi? Certo, in primo luogo dall’effetto di distrazione operato dai nuovi media: ma anche da come il libro è usato nell’ottica famigerata del “programma”. Io non penso che non si debbano avviare e aiutare i ragazzi a leggere I promessi sposi, o la Divina Commedia: ma c’è modo e modo di presentare queste cose. Già il diluire in un’ora di “lettura guidata” settimanale le disavventure di Renzo e Lucia è insensato e controproducente: lascio immaginare quanto lo sia un triennio in compagnia di spezzoni danteschi. Personalmente ho dovuto attendere vent’anni prima di decidermi a riprendere in mano quei testi, e a proporli con una convinzione non prettamente professionale ai miei allievi. Ciò non mi ha impedito di diventare un lettore forte, anzi, probabilmente lo sono diventato perché ho cercato da subito qualcosa da contrapporre a quella che mi appariva come una pratica quasi punitiva. Insomma, quello che potrebbe riuscire stimolante, inizialmente magari solo a livello di esercizio enigmistico, nel confronto con la lingua, diventa con l’imposizione ripetitiva un vero deterrente. E appare comprensibilmente difficile che a rendere vivi questi autori possano essere docenti che a loro volta li hanno già odiati. C’è per contro anche il rischio che a vivacizzarli, ad attualizzarli troppo, si finisca per stravolgerne completamente il senso, la bellezza e la portata storica, e renderli ancor più indigesti.

Il fatto è che, al di là dei problemi spiccioli di competenza cui accennavo prima, noi paghiamo lo scotto di due atteggiamenti opposti che si sono storicamente succeduti, ottenendo gli stessi risultati negativi. Dapprima ha dominato un arroccamento intellettuale che potremmo definire di stampo crociano, ma che ha origine ben prima di Croce (e che comunque ha avuto una parte preponderante nelle politiche di organizzazione del nostro sistema educativo). Ne ho già parlato altrove: al fondo c’è la presunzione di appartenenza del letterato ad una dimensione quasi sacrale, alla quale si può accedere, come diceva di fare Machiavelli, solo dopo aver indossato i paramenti sacerdotali. Il che sarebbe persino in qualche misura giusto, se non si risolvesse in una celebrazione ritualistica da un lato e nello sprezzo per tutto ciò che resta fuori, che è profano, dall’altro. Per spiegarmi meglio: se ai tempi delle medie avessi confessato di adorare Salgari e Verne, e di trascorrere molte più ore settimanali di un indiano nella loro lettura, sarei stato redarguito e invitato a non sprecare il mio tempo. Per non parlare dei fumetti, che erano oggetto di totale scomunica. Ebbene, sono convinto che gli inglesi leggano molto perché hanno imparato ad amare la lettura su Lewis Carroll, su Stevenson e su Kipling, nessuno dei quali è stato mai bollato, a differenza di quanto accadeva qui da noi, come uno “scrittore per ragazzi”. Certo, tra Stevenson e Salgari c’è una bella differenza, ma il problema è che in Italia nessuno scrittore con le doti letterarie di Stevenson si sarebbe “abbassato” a scrivere di pirati. E comunque, entrambi ti facevano tenere gli occhi incollati ad un libro.

Il paradosso è che questo atteggiamento “elitario” è poi rimasto, di fatto, nei comportamenti dalle avanguardie contestatrici e decostruttrici della seconda metà del Novecento (il disprezzo crociano per la letteratura “borghese” è parente stretto di quello riservato alle “Liale” dalla cultura “impegnata”). Abbiamo assistito a cinquant’anni di dissacrazioni insensate, fini a se stesse, mai propositive di qualcosa che andasse bene o male a riempire i vuoti creati dall’opera di demolizione. E anche il venir meno della divisione tra cultura “alta” e cultura “bassa”, che altrove è sempre stata risolta in una accezione molto più comprensiva ed elastica del significato del termine, da noi ha dovuto passare attraverso cerimonie di “riabilitazione” che conferissero a tutto l’imprimatur “culturale”. Si pensi ad esempio alla vicenda dei fumetti: ho smesso di leggerli, e con me lo hanno fatto in blocco le generazioni successive, quando hanno cominciato a spiegarmi quali ideologie o idealità stavano dietro i cazzotti di Tex. Lo stesso vale per le letture giovanili. Come possono appassionarti Il richiamo della foresta o Kim (cito questi perché nella letteratura italiana non c’è un equivalente, e neppure ci sono opere che possano essere adattate alla lettura giovanile, come I viaggi di Gulliver o il Don Chisciotte), quando nell’intento di “legittimarli” culturalmente te li propongono sezionati senza anestesia, così che possa distinguere se la voce narrante è intradiegetica o extradiegetica, e non confondere la fabula con l’intreccio. Che leggere possa essere anche qualcosa di normale, e che nel momento stesso in cui offre piacere trasmetta in automatico degli stimoli alla conoscenza e alla consapevolezza, questo nella scuola non passa.

Il caso inglese cui mi sono appellato ci porta però nel cuore del problema. Abbiamo visto come gli inglesi leggano il doppio rispetto agli italiani, e questi ultimi infatti hanno a guidarli Di Maio e Salvini e quella incredibile corte dei miracoli che siede al governo o in parlamento. Ma anche gli inglesi hanno Boris Johnson, e in alternativa Corbin, e non si può certo dire che quanto a rappresentanza politica stiano molto meglio. Bisogna chiedersi allora se il rapporto più o meno forte con la lettura ha ancora a che vedere con la consapevolezza civica. E se così non fosse, perché.

Forse occorre andare più in profondità. Oppure chiamare un’altra volta in causa Baricco, anche se a questo punto la mia potrebbe sembrare un’ossessione persecutoria, o un gioco astioso a impallinarlo. Non è così: al contrario. É che Baricco si presta perfettamente al discorso che sto facendo, rimane al momento uno degli interlocutori più qualificati: o quantomeno, è tra i pochissimi che si mettono in gioco e affrontano seriamente (dal loro punto di vista) l’argomento. Il fatto poi che mi trovi d’accordo con lui quasi su nulla non significa che non gli riconosca questo merito.

 

Sulle bariccate

Con il format televisivo Pickwick (significativo il sottotitolo: del leggere e dello scrivere), poi ripreso in Totem, portato a teatro e adattato in molte performance live, Baricco ha inventato una modalità di trasmissione della cultura in cui è possibile isolare dei frammenti di senso provenienti dal patrimonio della tradizione e declinarli in un linguaggio compatibile con la grammatica mentale dell’umanità presente […]”.

Baricco descrive il mondo in cui viviamo come il risultato di una rivoluzione, quella digitale, che non ha conquistato i luoghi tradizionali del potere e del sapere, li ha aggirati e oltrepassati scavandogli sotto dei tunnel, per andare a costruire al di là una nuova dimensione dell’esistenza, in cui molti di quei poteri e di quei saperi sono disattivati. Contrariamente a quanto vorrebbe il senso comune, questo mondo non è il prodotto di strumenti che ci si sono inspiegabilmente attaccati addosso. Un’umanità nuova, modellata da una rivoluzione mentale, da uno scatto cognitivo, ha creato gli strumenti che le servivano per modificare il mondo secondo le proprie esigenze. Un’esigenza soprattutto: smaterializzare la realtà, comprimerla e compattarla per renderla disponibile a una migrazione epocale nata come una fuga e figlia della paura. Fuga da dove, paura di cosa? Fuga dal Novecento, e paura della teoria di catastrofi che l’organizzazione mentale della civiltà novecentesca aveva prodotto” (Paolo Gervasi, A che gioco giochiamo? Perché Baricco ha ragione e noi dovremmo smetterla di fare quella faccia – dal blog Che fare)

Non so se Baricco abbia isolato dei frammenti di senso, può darsi, all’epoca non ci ho fatto caso. Pickwik mi piaceva, almeno inizialmente, e consigliavo ai miei allievi di seguirlo. Per me era il modo di raccontare libri che avrei voluto incontrare quando frequentavo il liceo, e al quale ho cercato di attenermi per tutta la mia carriera di insegnante. Poi ha cominciato a irritarmi, lo trovavo sempre più insopportabilmente lezioso, e avvertivo che la presentazione si stava sovrapponendo al libro, che questo stava diventando solo un pretesto, e che lo spettacolo si stava divorando anche la letteratura. L’ho considerata un’occasione sprecata, come si poteva già evincere dalla bozza di presentazione di vent’anni fa.

Ma non è di Pickwik che intendo parlare, quanto della successiva evoluzione del pensiero di Baricco. Perché, a dispetto della puzza al naso dei circoli alti della cultura italiana, credo che Baricco vada preso sul serio, in quanto si è fatto alfiere di un modo di pensare (forse per la maggioranza non proprio di pensare, ma senz’altro di sentire) molto diffuso e a mio parere assai insidioso.

Nel 2006 Baricco raccoglieva sotto il titolo “I nuovi barbari. Saggio sulla mutazione”, una serie di riflessioni pubblicate quotidianamente, per diversi mesi, su “La Stampa”, dando loro la struttura di un vero e proprio trattato e dichiarando apertamente l’ambizione di spiegare il cambiamento di cui tutti siamo testimoni, ma del quale nessuno riesce a comprendere i modi e il verso.

Per Baricco non stiamo assistendo alla trasformazione interna di una civiltà, al passaggio da una fase all’altra, ma ad una vera e propria rivoluzione, che sancisce il tramonto di un’epoca e prelude a quella successiva. A definire una civiltà sono i modi della percezione, dell’esperienza del mondo, soprattutto quelli relativi allo spazio e al tempo: e hanno naturalmente una fondamentale importanza i mezzi che rendono possibili e indirizzano questi modi. La civiltà che sta nascendo è caratterizzata da tecnologie totalmente innovative, le TIC (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione), che non si limiteranno a potenziare, magari in modo esponenziale, le nostre facoltà conoscitive, ma ne cambieranno, anzi, ne stanno già cambiando, l’utilizzo e i parametri. L’esperienza del mondo che i cosiddetti nativi digitali faranno, limitandosi alla sua superfice, sarà facilitata dall’eliminazione degli attriti dello scavo, dell’approfondimento, dello studio, e li porterà a dar vita ad un rinnovamento radicale della società, e quindi a tagliare i ponti con tutto quanto fino ad ora è stato considerato imprescindibile per qualsivoglia crescita, in qualsiasi ambito. Avviene alla fine di ogni epoca: i “barbari” che irrompono stravolgono le vecchie regole, le vecchie istituzioni, fondano nuovi modelli di convivenza.

Fin qui, quanto all’analisi, nulla da eccepire. In fondo Baricco non fa che mettere in chiaro ciò che tutti quanti, più o meno confusamente, già avvertiamo. E lo fa in maniera efficace: quando non si perde davanti allo specchio è un grande comunicatore. Il problema si pone invece allorché passa a trattare dell’atteggiamento da assumere nei confronti di questa trasformazione. Pur chiamandosene personalmente fuori, dichiarando di esserne inquietato quanto tutti noi, Baricco la considera ineluttabile: ritiene pertanto che, ci piaccia o meno, dobbiamo prepararci ad affrontarla e, per quanto possibile, a governarla. Parole sensate: solo che poi questo modo di governarla sembra ridursi un po’ troppo ad una rassegnata acquiescenza. Ma non si limita a questo. Se la prende con gli apocalittici, coi profeti di sventura che in effetti ad ogni trasformazione, sin dai tempi biblici, hanno vaticinato sciagure e disastri, mentre poi il mondo è andato avanti come e meglio di prima. E anche questo è vero, o lo è almeno dal punto di vista dei vincitori, ovvero dei barbari che periodicamente hanno affossato le diverse civiltà. Ma non lo è altrettanto per gli affossati: perché le sventure non sono state soltanto predette, per loro si sono concretamente verificate. Voglio dire che il passaggio dei barbari ha sempre lasciato cataste di cadaveri, e rovine fumanti e tesori dispersi, e un occhio di considerazione per tutto questo bisognerebbe averlo, anche augurandoci che nel nostro caso si tratti solo di immagini metaforiche.

È a questo punto che mi diventa impossibile seguirlo. Il ritenere che tutto debba essere sacrificato all’avvento del nuovo suona molto deterministico, molto hegeliano, per non dire staliniano (“per fare le frittate bisogna rompere le uova”). Quindi, non discuto il fatto che sia in atto una mutazione antropologica, e che i nostri nipoti sentiranno e vivranno in maniera molto diversa dalla nostra. Penso anch’io che le cose andranno così: ma rivendico almeno che la direzione che hanno presa possa non piacermi, e che io debba fare il possibile per ostacolarla, senza sentirmi un reazionario abbarbicato a idealità e valori “romantici e borghesi”, che nell’accezione di Baricco sta a significare obsoleti e ipocriti.

Perché poi è lì che Baricco vuole arrivare, pur fingendo tutte le cautele e persino qualche falsa nostalgia per il mondo che fu. Non voglio mettere sotto accusa le intenzioni, soprattutto non voglio fargli dire quel che non ha detto: ma devo evidenziare le contraddizioni. Verso la fine de “I barbari” scrive “Nella grande corrente, (occorre) mettere in salvo ciò che ci è caro. È un gesto difficile perché non significa, mai, metterlo in salvo dalla mutazione, ma, sempre, nella mutazione. Perché ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi, ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perché ridiventasse se stesso in un tempo nuovo”. Verissimo: non fosse che ci ha raccontato sino ad ora il nuovo che avanza come una “fuga dagli orrori del Novecento”, e riesce difficile capire a questo punto cosa andrebbe recuperato dalle macerie.

Nel saggio che va a complemento del primo, “The Game”, pubblicato nel 2018, scrive: “L’insurrezione digitale è stata una mossa istintiva, una brusca torsione mentale. Reagiva a uno shock, quello del ‘900. L’intuizione fu quella di evadere da quella civiltà rovinosa infilando una via di fuga che alcuni avevano scoperto nei primi laboratori di computer science”. Quindi si evade da una “civiltà rovinosa” attraverso la breccia aperta dalla rivoluzione digitale: verrebbe da dire, dalla serpe che quella civiltà ha allevato in seno. Ma si evade per andare dove? Verso una filosofia della vita completamente nuova, che prevede “superficie al posto di profondità, viaggi al posto di immersioni, gioco al posto di sofferenza”. In altre parole: la cultura che sta emergendo dalla digitalizzazione del mondo non si fonda sulla discesa in profondità, alla ricerca del senso nascosto, ma sulla diffusione in orizzontale del nostro sguardo, delle nostre conoscenze, resa possibile proprio da un armamentario tecnologico che azzera i tempi e annulla le distanze. Il tema vero non è dunque in cosa consista la nuova cultura, ma come la si acquista e la si vive.

E qui Baricco esce allo scoperto. A suo parere la mutazione in corso si configura come un rifiuto della vecchia concezione “penitenziale” della cultura, alla quale viene contrapposta una concezione gioiosa e ludica. Da buoni “barbari”, i nuovi prediligono il movimento, “l’inseguimento del senso là dove è vivo in superfice”: ma un movimento soprattutto virtuale, visto che la “rivoluzione copernicana” di cui parla prevede “la dissoluzione della frontiera psicologica che separa come due momenti diversi dell’esperienza il mondo reale e quello digitale”. La superfice sulla quale si viaggia è quella dello schermo, del monitor, e non a caso la metafora della nuova realtà è il video-gioco: “Storicamente il videogame è uno dei miti fondativi dell’insurrezione digitale”.

In sostanza: “Il cuore della faccenda è lì: il resto è solo una collezione di conseguenze: la superficie al posto della profondità, la velocità al posto della riflessione, le sequenze al posto dell’analisi, il surf al posto dell’approfondimento, la comunicazione al posto dell’espressione, il multitasking al posto della specializzazione, il piacere al posto della fatica. Uno smantellamento sistematico di tutto l’armamentario mentale ereditato dalla cultura ottocentesca, romantica e borghese”.

Dunque, i nuovi barbari rifiutano l’eredità di un secolo scellerato, che ha conosciuto genocidi, massacri, stermini, intraspecifi e non: e il loro rifiuto passa innanzitutto per lo smascheramento di quell’anima (intesa in senso laico, borghese) che è per Baricco una creazione degli intellettuali romantici dell’ottocento, e in nome della quale, o quantomeno di una esasperazione e distorsione del suo senso, può essere giustificata ogni atrocità. Non che i soggetti della mutazione siano del tutto coscienti di questa motivazione (questo Baricco lo concede): piuttosto sono mossi da una paura istintiva di ripetere i disastri provocati dalle generazioni precedenti, e di esserne coinvolti. Ma la loro paura ha radici più ancestrali: “Hanno paura di pensare serio, di pensare profondo, di pensare il sacro: la memoria analfabeta di una sofferenza patita senza eroismi deve crepitare, da qualche parte, in loro”.

Ecco che viene fuori il mito dell’età dell’oro: “una sofferenza patita senza eroismi”, della quale è rimasta, in profondità, una “memoria analfabeta”. È bene che spieghi meglio. Nella vecchia concezione (quella romantico-borghese, la mia, per intenderci) il percorso di costante approssimazione al senso – che poi in realtà è già esso stesso il senso – offre un piacere che fa tutt’uno con la fatica, che nasce dall’applicazione, dalla volontà, dall’emozione continua della scoperta e della conquista sudata. In luogo del videogioco, la metafora qui potrebbe essere perfettamente rappresentata dalla montagna: non a caso l’alpinismo è nato proprio nell’8oo, e lo spirito che lo anima è lo stesso che informa la concezione del conoscere (e del vivere) messa sotto accusa dai “nuovi barbari”. La direttrice è comunque quella verticale, cambia solo il verso: salire in altezza, scendere in profondità. Chi ama la montagna capisce bene a cosa mi riferisco: scalare, o anche semplicemente ascendere, sono attività tra le più faticose, ma sono anche quelle che producono il piacere più genuino e più intenso. Che non ha a che fare con la “vittoria sull’Alpe”, perché l’Alpe rimane lì, tutt’altro che sottomessa, e se affrontata nella maniera giusta ti incute solo rispetto: e perché sai, per quante vette tu salga, che ne rimangono infinite altre, e non le salirai mai tutte. La vittoria è quella di un aspetto peculiare della nostra natura, “connaturato” (e non snaturante) al comportamento della nostra specie, che si chiama “cultura”.

Ed è tale da quando siamo diventati homo, non dall’Ottocento.

Mi sorprende che Baricco, che non nasconde la sua passione per le escursioni alpine, consideri penitenziale, o peggio ancora, un retaggio borghese, questo piacere. Che arrivi a pensare che la modalità di esistenza decisiva del nuovo mondo, il divertimento, sia il contrario della conoscenza. E che addirittura ascriva alla fatica e alla difficoltà di praticare individualmente questo percorso la spinta a intrupparsi in una sorta di spiritualità collettiva, a coltivare le idee di nazione o di razza. “Ciò che non era immediatamente rinvenibile nella pochezza dell’individuo, risultava evidente nel destino di un popolo, nelle sue radici mitiche, e nelle sue aspirazioni”.

Questo vale certamente per le forme degenerate di quello spirito, quelle che, per restare dentro la metafora dell’alpinismo, hanno preso la forma della “lotta con l’Alpe” di Giudo Rey o del “bagnar le labbra alla coppa della morte” di Guido Lammer. Ma le esasperazioni vanno messe in conto sempre, e sono appunto un distorcimento, un tradimento. Non sono intrinseche all’idea, ma alla fragilità di chi le professa. Con le idealità hanno nulla che vedere: ne costituiscono solo una declinazione paranoide, a volte caricaturale: quella che tra l’altro nella nostra epoca è indotta proprio dal trionfo della virtualità e dalla iperconnettività (ci sarebbe stata la corsa ai quattordici ottomila senza la visibilità televisiva, e quindi gli sponsor, ecc …?)

Insomma, Baricco ci prospetta un mondo nel quale la concatenazione delle vette alpine potrà essere fatta in orizzontale, facendosi posare su ciascuna di esse da un elicottero, o meglio ancora, realizzandola tranquillamente a casa, al caldo e al sicuro, davanti alla consolle di un videogioco. La fatica dilettevole di cui parla è in realtà rifiuto incondizionato e aprioristico della fatica. Non solo di quella di studiare, ma anche di quella di rapportarsi concretamente, fisicamente con gli altri, senza trincerarsi dietro lo scudo di uno strumento che deresponsabilizza e permette di entrare ed uscire all’istante in quelle che sono soltanto parodie di sentimenti e di affetti (chiedere l’amicizia a chi non si conosce, uscire da una relazione con un tweet, …), o di godere di una “interattività diffusa” che sta a significare soltanto una rete di legami effimeri e leggeri. Oggi ciascuno di noi può interagire con islandesi e filippini e aborigeni australiani: ma per condividere che?

Baricco però si rende conto che al momento di definire gli atteggiamenti da assumere la sua proposta di interpretazione rimane troppo vaga, che non basta auspicare una disposizione tutto sommato umanistica, con la quale “vivere e comprendere la tecnologia senza arroccarsi né tuttavia fare carta straccia della parola scritta, del pensiero complesso e non banale”. Forse nel frattempo si è guardato attorno e ha visto che i conti non tornano. Questo sembra potersi desumere da un piccolo saggio comparso recentemente su “La Repubblica” (10 gennaio 2019), dal titolo “E ora le élites si mettano in gioco”, che chiude così: “Smetterla di dare alla politica tutta l’importanza che le diamo: non passa da lì la nostra felicità. Tornare a fidarci di coloro che sanno, appena vedremo che non sono più gli stessi. Buttare via i numeri con cui misuriamo il mondo (primo fra tutti l’assurdo Pil) e coniare nuovi metri e misure che siano all’altezza delle nostre vite. Riacquistare immediatamente fiducia nella cultura, tutti, e investire sull’educazione, sempre. Non smettere di leggere libri, tutti, fino a quando l’immagine di una nave piena di profughi e senza un porto sarà un’immagine che ci fa vomitare”. Non è il massimo della concretezza, ma qualche indicazione la offre. Soprattutto, però, porta allo scoperto le contraddizioni di fondo.

Se ho davvero fiducia nella cultura, l’immagine di una nave piena di profughi e senza un porto non mi fa vomitare, mi fa riflettere. Vomitare significa liberarsi lo stomaco di qualcosa di indigesto lasciando che la reazione arrivi dal mio corpo, da una sua intolleranza naturale. Ma in verità questa intolleranza non è naturale. Non è presente in alcuna altra specie animale. In noi è dettata dalla cultura. Se vomito, dopo sono libero, ma vuoto. Se rifletto analizzo le cause del mio disagio, considero la vicenda sotto vari aspetti, compreso il modo in cui mi è raccontata e le strumentalizzazioni di varia provenienza di cui è oggetto, libero la mente da pregiudizi e cerco di definire un mio atteggiamento concretamente conseguente. Sono tutte cose in cui il mio stomaco non ha alcuna parte, e non per una freddezza o insensibilità particolare, ma perché, al contrario, considero un mio dovere etico fare lo sforzo di conoscere, per agire poi in ragione di questa conoscenza.

Questo processo, come dicevo sopra, non è nato ieri con l’idea romantica di anima. Va avanti da centinaia di migliaia di anni. Quindi l’idea di un ritorno a una attitudine “pre-borghese” nei confronti della natura, della vita, della conoscenza mi sembra frutto di un nichilismo molto “soft”, buonista, semplificatorio e mediatico, adatto ad un consumo superficiale e veloce. Molto in linea appunto con la nuova disposizione mentale “barbarica”.

Ora, se non posso che plaudire all’invito a “Non smettere di leggere libri, tutti”, trovo sia poi difficilmente compatibile con la “superfice al posto di profondità”, con i “viaggi al posto di immersioni”. Trovo soprattutto che mal si concili con la realtà che questa nuova attitudine di pensiero sta delineando. A meno che quel “tutti”, anziché ai potenziali lettori non si riferisca ai possibili libri, stando a significare che “va bene tutto, purché si legga”. Magari senza fare troppa fatica.

Il problema è che, segnatamente in Italia, si legge invece ben poco, come raccontano le indagini cui ho fatto riferimento sopra. E anche quel poco non lo si digerisce affatto. I dati sulla frequentazione dei libri vanno integrati infatti con quelli sulla comprensione della lettura. “Non sono dati incoraggianti quelli emersi dall’ultima indagine del rapporto Ocse-Pisa 2018 (l’indagine valuta le competenze in lettura, matematica e scienze di seicentomila quindicenni di tutto il mondo, divisi in settantanove paesi) sulle competenze dei quindicenni studenti italiani, sia in rapporto all’intero Paese sia in confronto con la classifica mondiale: gli alunni italiani vengono sonoramente bocciati in lettura (meglio le ragazze), vanno un po’ meglio in matematica mentre “crollano” in scienze, la materia “peggiore” secondo l’ultimo rapporto. Per l’Italia hanno partecipato alla prova d’indagine 11.785 studenti, divisi in cinquecentocinquanta scuole: ebbene, gli alunni italiani ottengono un pessimo punteggio in lettura – 476 – inferiore alla media Ocse fissata a 487, con un giudizio ancor più preoccupante: solo un quindicenne italiano su venti riesce a distinguere tra fatti e opinioni quando legge un testo di un argomento che non gli è familiare. La media Ocse è uno su dieci. Addirittura gli studenti italiani che hanno difficoltà di base nella lettura “semplice”, che non riescono cioè ad identificare l’idea principale di un testo di media lunghezza, sono uno su quattro”.

Qui occorre capirci. O gli studenti italiani sono già incamminati a percorrere le nuove sconfinate praterie di senso aperte dalla tecnologia digitale, avanguardie rivoluzionarie che si spingono ad esplorare le terre incognite armate di minuscoli smartphone, dopo essersi liberate del fardello di una cultura vetusta e inutile; oppure sono letteralmente allo sbando, e l’iperconnessione ha creato nei loro cervelli un enorme cortocircuito, del quale ci arriva l’odore di strine. E allora sono sì le avanguardie, ma di uno sfacelo imminente. Perché stazionano al disotto di una media OCSE che negli ultimi quindici anni è scesa a sua volta. Segno che qualcosa sta cambiando a livello globale, e non esattamente nella direzione profetizzata da Baricco.

In un saggio-pamphlet di qualche anno fa (Internet ci rende stupidi?, Raffaello Cortina 2011) l’economista e divulgatore scientifico Nicholas Carr sosteneva che l’utilizzo delle nuove tecnologie sta modificando profondamente l’attività e gli equilibri stessi del nostro cervello, dal momento che le aree coinvolte nella lettura di un libro cartaceo vengono sottoutilizzate, mentre quelle collegate alla lettura su schermo tendono all’ipertrofia. Il risultato inevitabile è che il pensiero logico-deduttivo, lo scavo interiore, l’esercizio della facoltà della memoria, e cioè le specifiche abilità e attività collegate alla cultura della pagina a stampa, che richiedono un notevole impegno di tempo, sono destinate a passare in secondo piano rispetto alle competenze fisiologiche necessarie per la fruizione dei nuovi media, i quali privilegiano invece lo svolgimento in contemporanea di più funzioni (il multitasking). Ci si attenderebbe che la conseguente liberazione di tempo sia andata a vantaggio quanto meno di una più intensa e aperta attività relazionale: che cioè i giovani emancipati dalla oppressiva cultura libresca sfruttino gli spazi temporali riconquistati per incontrare i loro coetanei, sia pure in un rapporto giocoso e superficiale. Invece pare non sia affatto così.

Torno alle cifre, perché se trattate con criterio sono più eloquenti di mille discorsi. Queste le traggo dall’inchiesta ISTAT Generazioni in Rete. Come abitiamo l’era digitale, aggiornata a tutto il 2017. I primi numeri riguardano lo stato della “rivoluzione digitale”. Per l’Italia, la media degli utenti giornalieri di Internet è del 65,3 % della popolazione. Nell’anno in cui usciva “I barbari”, tanto per intenderci, erano il 36%. In testa ci sono naturalmente i giovani: le generazioni nate tra il 1966 e il 1980 col 79,6%, quelle tra il 1981 e il 1995 con l’86,1%, e i nati tra il 1996 e il 2010 con il 73,6 % (tra i laureati le cifre si avvicinano al 100%). (Una rilevazione europea più recente indica però, per i giovani tra i sedici e i diciannove anni, una percentuale molto più alta, attorno al 91%: che è comunque la più bassa in Europa, dopo quella della Romania). L’accesso ad Internet avviene per il 78% via smartphone, per il 69% tramite computer, o notebook, per il 29% col tablet. E soprattutto gli adolescenti risultano utilizzare Internet in luoghi diversi (a casa propria, sul luogo di studio, a casa di altri, altrove) il che indica una fruizione giornaliera che non è più relegata alla propria abitazione e ad una postazione fissa (infatti, solo il 20% di loro si collega tramite computer).

Ancora una nota di genere: le ragazze tra gli undici e i diciassette anni risultano utilizzare più frequentemente dei coetanei maschi sia il telefono cellulare sia internet. C’era naturalmente da aspettarselo. Volendo, da questo dato si possono trarre una indicazione e un auspicio positivi, nel senso che di fronte ad un cambiamento radicale della mentalità e dei valori è l’elemento femminile a guadagnarci, oserei dire a trovarsi non solo in condizione di parità, ma addirittura di vantaggio – perché i valori e la mentalità in disarmo erano indiscutibilmente informati ad una dominanza maschile –, e che una “femminilizzazione” della civiltà ventura potrebbe eliminare o contenere proprio le derive criminali di quella precedente. Non lo ha fatto Baricco, lo faccio io. Anche se è una ipotesi tutta da verificare.

Si può dunque affermare che almeno per quanto concerne il primo momento, quello del passaggio a nuove tecnologie, la rivoluzione è già compiuta. Stiamo entrando nella fase “costituente”. E cominciamo a intravvederne gli effetti.

La stessa inchiesta mette infatti in evidenza un rapidissimo cambiamento nel modo di relazionarsi con i coetanei da parte degli adolescenti. La frequentazione quotidiana diretta, fisica, degli amici, fuori dall’ambito scolastico, riguarda una quota via via decrescente di giovani: si passa dal 60,1% del 2008, al 56% del 2011, arrivando nel 2014 al 53,2%. Negli ultimi cinque anni la percentuale è scesa ancora, al di sotto del 50%.

Fino a ieri l’esperienza della relazione con i pari età era considerata un passaggio fondamentale della crescita e della trasformazione in adulti. Non solo: era intesa come assolutamente naturale, indispensabile per una corretta maturazione. Dava l’occasione di confrontarsi in campo neutro, al di fuori dalle sicurezze famigliari e dei regolamenti scolastici, di smorzare eccessive presunzioni e sicurezze, di vincere paure e timidezze. Non mancavano naturalmente i possibili risvolti negativi, e in qualche caso poteva anche rivelarsi devastante. Ma di norma consentiva di instaurare il primo vero rapporto di tipo spontaneo, non mediato o controllato dagli adulti, e insegnava ad autoimporsi regole e limitazioni. Da cosa viene sostituita questa frequentazione al tempo della rivoluzione digitale?

A quanto risulta sopra, da una solitudine diffusa, che alimenta forzatamente il distacco dalla realtà ed una confusione crescente tra i due piani, quello reale e quello virtuale. Baricco come abbiamo visto ne parla, (“la dissoluzione della frontiera psicologica che separa come due momenti diversi dell’esperienza il mondo reale e quello digitale”), ma la cosa non sembra preoccuparlo più di tanto: è un aspetto della nuova attitudine psicologica, che in fondo rispecchia una dimensione economica e un futuro professionale già decisamente “virtualizzati” (si pensi alla “virtualità” della finanza, che ha in mano il mondo). La fine dei sodalizi fisici, profondi e duraturi è compensata a suo giudizio dal moltiplicarsi dell’apertura a relazioni multiple, occasionali, temporanee e superficiali, che corrono lungo i fili della rete per tutto il globo. E questo anzi, assieme alla facilità di informazione, aiuterà le nuove generazioni ad acquistare maggiore consapevolezza dei problemi sociali ed ambientali, e consentirà l’esercizio di una reale democrazia diretta, la creazione di movimenti spontanei, di grandi aggregazioni su tematiche specifiche, di forme di resistenza non manipolabili e non controllate dai vecchi sistemi di potere partitici e al tempo stesso dotate di una grande forza d’urto, di un grande peso (stava pensando ai i pentastellati, preconizzava Greta o le sardine?)

È questo modo di banalizzare il problema, di mettere cornici alle finestre per farle sembrare quadri, a riuscirmi particolarmente indigesto. Per il momento, l’unica cosa che sembra davvero crescere è una presunzione di irresponsabilità totale, alimentata sia dallo spostamento dei soggetti coi quali ci si relaziona in una dimensione virtuale, ciò che ne annulla la realtà fisica e psicologica, sia dal senso di leggerezza e transitorietà che ogni azione acquista in questo contesto. E ciò spiega le ultime drammatiche cifre che vado a proporre, pescandole dalla recente Indagine conoscitiva su bullismo e cyberbullismo prodotta dall’ISTAT (marzo 2019).

Nella presentazione si fornisce una descrizione essenziale del fenomeno: «Per bullismo si indicano generalmente le prepotenze perpetrate da bambini e ragazzi nei confronti dei loro coetanei. La definizione del fenomeno si basa su tre condizioni: intenzionalità, persistenza nel tempo, asimmetria nella relazione. Esso è pertanto contraddistinto da un’interazione tra coetanei caratterizzata da un comportamento aggressivo, da uno squilibrio di forza/potere nella relazione e da una durata temporale delle azioni “vessatorie”».

Nell’indagine, ai ragazzi da undici a diciassette anni è stato chiesto se nei dodici mesi precedenti l’intervista hanno subìto una o più prepotenze. Il fenomeno risulta in continua crescita ed evolve rapidamente: le nuove tecnologie sono divenute ulteriori potenziali strumenti attraverso cui compiere e subire soprusi. Da qui la necessità “di monitorare anche il cyberbullismo, che consiste nell’invio di messaggi offensivi, insulti o foto umilianti tramite sms, e-mail, diffuse in chat o sui social network, allo scopo di molestare una persona per un periodo più o meno lungo. Un aspetto che differenzia il cyberbullismo dal bullismo tradizionale consiste nella natura indiretta delle prepotenze attuate in rete: non c’è un contatto faccia a faccia tra vittima e aggressore nel momento in cui gli oltraggi vengono compiuti”.

Poi arrivano le cifre. “Più del 50% degli intervistati 11-17enni riferisce di essere rimasto vittima, nei 12 mesi precedenti l’intervista, di un qualche episodio offensivo, non rispettoso e/o violento. Una percentuale significativa, quasi uno su cinque (19,8%), dichiara di aver subìto azioni tipiche di bullismo una o più volte al mese. In circa la metà di questi casi (9,1%), si tratta di una ripetizione degli atti decisamente asfissiante, una o più volte a settimana. Le ragazze presentano una percentuale di vittimizzazione superiore rispetto ai ragazzi. Oltre il 55% delle giovani 11-17enni è stata oggetto di prepotenze qualche volta nell’anno mentre per il 20,9% le vessazioni hanno avuto almeno una cadenza mensile (contro, rispettivamente, il 49,9% e il 18,8% dei loro coetanei maschi). Il 9,9% delle ragazze subisce atti di bullismo una o più volte a settimana, contro l’8,5% dei maschi”.

Per quanto concerne il nostro tema specifico, “il cyberbullismo ha colpito il 22,2% di tutte le vittime di bullismo. Nel 5,9% dei casi si è trattato di azioni ripetute (più volte al mese). La maggior propensione delle ragazze/adolescenti a utilizzare il telefono cellulare e a connettersi a Internet probabilmente le espone di più ai rischi della rete e dei nuovi strumenti di comunicazione. Tra le 11-17enni si registra, infatti, una quota più elevata di vittime: il 7,1% delle ragazze che si collegano ad Internet o dispongono di un telefono cellulare sono state oggetto di vessazioni continue tramite Internet o telefono cellulare, contro il 4,6% dei ragazzi. Vi è inoltre un rischio maggiore per i più giovani rispetto agli adolescenti. Circa il 7% dei bambini tra 11 e 13 anni è risultato vittima di prepotenze tramite cellulare o Internet una o più volte al mese, mentre la quota scende al 5,2% tra i ragazzi da 14 a 17 anni”.

Proviamo ora a convertire le cifre in persone e in fatti. Dire che oltre il cinquanta per cento dei giovani ha subito atti di bullismo significa dire in concreto che più di due milioni e mezzo di ragazzi o ragazze in questo paese sono stati (e sono attualmente) vittime di questo tipo di violenza: e che ci sono in circolazione almeno altrettanti persecutori (considerando che l’incidenza di quelli seriali è compensata dal fatto che un atto di vigliaccheria viene commesso di solito in gruppo).

Facciamo pure la tara al fenomeno. Il bullismo è sempre esistito, dentro come fuori delle scuole. Probabilmente era meno intenso, senz’altro era meno visibile, perché non veniva raccontato in rete, documentato coi telefonini e ripreso dalla grancassa dei media. Ufficialmente, all’interno della scuola, era meno tollerato: di fatto, era forse subito in maggior silenzio dalle vittime. La sua recrudescenza in questi ultimi anni non è però soltanto frutto di un’impressione creata dalla maggiore visibilità: dentro la scuola stanno esplodendo le stesse dinamiche relazionali negative che già caratterizzano la quotidianità esterna, e che evidenziano un generalizzato imbarbarimento dei costumi. I nuovi barbari evidentemente non sono solo cacciatori orizzontali di senso: sono prima di tutto bulli a scuola, prevaricatori e violenti in famiglia, e rivendicano orgogliosamente una maleducazione ottusa.

Quel che è certo è che il cyber-bullismo non esisteva: è un prodotto specifico della rivoluzione digitale. E il fatto che il fenomeno sia in costante aumento ci dice che non si tratta di una semplice spellatura causata dai traumi del passaggio. È una ferita che si sta allargando. Ha un bel dire Baricco che “Ciò che è percepito dai più, soprattutto da noi di sinistra, come un’apocalisse imminente è, in verità, il vero annuncio del futuro” (appunto!). E che durante una rivoluzione di questa portata non può andare tutto liscio e i conflitti, le violenze, le sofferenze e le perdite vanno messi in conto, ma che alla fine i conti tornano, perché la migrazione ha fatto uscire l’umanità dall’inferno del Novecento. Stento davvero a credere che i piccoli bulli di oggi possano diventare cittadini responsabili, digitalizzati o meno, di un futuro mondo migliore. Ho invece l’impressione che a dispetto di tutte le azioni di contrasto che inchieste come quella appena citata immediatamente evocano, e che purtroppo hanno le stesse probabilità di successo del progetto da cui sono partito per queste riflessioni, il domani non riserverà ai nostri nipoti “esperienze autentiche, creatività e conoscenza”. Esperienze senz’altro sì: ma di un genere del quale farebbero volentieri a meno.

Non si tratta di essere “apocalittici”, ma di guardare in faccia la realtà. Al momento la gioiosa rivoluzione cui Baricco ci invita a partecipare senza storcere troppo il naso ha prodotto solo danni. Anche a volerli considerare uno scotto da pagare rimane poi il problema di fondo: da pagare per cosa? un obolo per dove? Per il paradiso dei surfers della conoscenza? Per un mondo nel quale tutti abbiano la possibilità di far sentire la loro voce, anche quando non hanno proprio nulla da dire, e ciò che hanno sarebbe meglio non lo dicessero? Perché questa, piaccia o meno, è la realtà con la quale si confronta chi nel quotidiano c’è immerso, e magari ha scarsa lungimiranza, non riesce a scrutare nel futuro, ma il presente lo vede benissimo. E, forse proprio perché ha poco futuro davanti, si sente in dovere di attribuire il giusto valore al passato. E di rivendicare il diritto alla sua difesa.

 

Qualcuno da incolpare

A dispetto delle apparenze non sono uno che si crogiola nelle nostalgie. Soltanto, di fronte ad una prospettiva che mi pare disastrosa mi ostino a cercare di capire, e nel caso sono disposto a mutare opinione, sempre che qualcuno riesca a farmi intravvedere spiegazioni plausibili e rimedi possibili. È chiaro che Baricco non mi ha convinto. Non mi ha convinto prima, col saggio sui barbari e con quello sul Game, e non mi convince nemmeno ora, quando torna col breve intervento su Repubblica ad affondare l’attacco contro le élites. Non per difetto di lucidità nel trattarli, che anzi, ce n’è sin troppa, ma perché siamo alle solite: a spiegarmi qual è il problema e cosa devo fare o pensare è chi il problema in qualche misura ha contribuito a crearlo, o almeno fa pienamente parte della casta che lo ha creato. E che adesso quella casta la mette sotto accusa, togliendomi anche la piccola soddisfazione di farlo dal di fuori, e addirittura invertendo le parti.

Sentiamo. “Capiamoci su chi sono queste famose élites. Il medico, l’insegnante universitario, l’imprenditore, i dirigenti dell’azienda in cui lavoriamo, il Sindaco della vostra città, gli avvocati, i broker, molti giornalisti, molti artisti di successo, molti preti, molti politici, quelli che stanno nei consigli d’amministrazione, una buona parte di quelli che allo stadio vanno in tribuna, tutti quelli che hanno in casa più di 500 libri: potrei andare avanti per pagine, ma ci siamo capiti. I confini della categoria possono essere labili, ma insomma, le élites sono loro, son quegli umani lì”.

Riassumendo: una minoranza ricca e molto potente […] Possono essere di sinistra come di destra. Una sorprendente cecità morale – mi sento di aggiungere – impedisce loro di vedere le ingiustizie e la violenza che tengono in piedi il sistema in cui credono”.

Andiamo con ordine. Intanto l’attacco era prevedibile. È un refrain da tempo nell’aria, lo fischiettavano molti già nel secolo scorso, nelle più disparate tonalità, da Charles Wright Mills a Christpher Lasch, Oggi viene ripreso con toni decisamente più beceri da un sacco di nuovi profeti della “rivolta delle masse”, giù giù a scendere, fino Trump e a Salvini e di Maio. Di nuovo c’è l’inclusione nel concetto di “élites del potere” di una nuova categoria, quella degli intellettuali. Ma è un’inclusione che, come vedremo, nasce da un grosso malinteso.

Baricco va dritto al bersaglio, per scoprire peraltro l’ovvio: le élites sono costituite da “coloro che contano”, una minoranza ricca e molto potente. Sono quelli, per dirla con una sua elegante espressione, che “tengono per i coglioni il mondo”. Il mondo sarebbe poi “la gente”: ovvero tutta la moltitudine esclusa dalla “zona protetta all’interno della quale quei privilegiati difendono la loro comunità, la tramandano ai figli e rendono estremamente improbabile l’intrusione, dal basso, di nuovi arrivi”. La gente (se preferite, il popolo) si è lasciata strizzare le palle sino a che le sono arrivate almeno le briciole del pasto: ma dopo che la crisi ultima ha inceppato la distribuzione, si è presentata a regolare i conti: “È andata, letteralmente, a riprendersi i propri soldi: il reddito di cittadinanza, o la cancellazione delle cartelle di Equitalia, non sono altro che quello. Sono riscossione crediti”.

Abbiamo già elementi sufficienti per capire a che profondità si spinga l’analisi di Baricco. La “gente” di cui parla non rappresenta affatto l’insieme multiforme del “popolo”. Perlomeno, non ancora. E comunque lo rappresenta male. La maggior parte di coloro che ricevono il reddito di cittadinanza o strappano le cartelle di Equitalia non riscuote crediti, perché non aveva mai maturati. Metterla giù in maniera diversa è appunto “populismo” della peggior specie.

Ma a me interessa qui il concetto baricchiano di élite. Il termine francese starebbe a indicare “coloro che sono stati scelti”. Scelti per cosa? Per rappresentare e guidare tutti gli altri. Che abbiano tradito questo mandato, è fuori di dubbio. Ma lo è altrettanto il fatto che tutta la storia è costellata di questi tradimenti, perché chi è stato scelto tende a rendere questa condizione stabile o addirittura ereditaria. E infatti, il cammino storico è anche costellato delle conseguenti rivoluzioni. Non mi sembra dunque così folgorante l’intuizione per cui la rivoluzione “digitale” “era una rivoluzione che si proponeva di azzerare proprio loro, le élites novecentesche, e di sostituirle con una nuova élite, una nuova intelligenza, una nuova moralità”. Mai sentito parlare della rivoluzione francese?

Veniamo però agli azzerandi. Intanto, nel lungo elenco che ho accluso le élites sono confuse con i VIP, con coloro cioè che “compaiono”, in un modo o nell’altro, nel mondo mediatizzato. Baricco sembra adottare una versione aggiornata e americanizzata del termine, nella quale l’idea di una scelta, di una responsabilità conferita, scompare, a favore del puro e semplice criterio della visibilità. E allora dovrebbe procedere di conseguenza. Non si capisce infatti cosa c’entrino i broker, gli artisti di successo e quelli che stanno nei consigli di amministrazione con coloro che hanno in casa più di cinquecento libri. Io ne ho almeno trenta volte tanti, ma non sono né un uomo di successo, né un influencer, né tantomeno un uomo di potere. E, al contrario di Baricco, non amo affatto comparire (nell’universo sconfinato dei social network e dei blog esiste una sola mia immagine, di spalle, ficcata lì quasi a tradimento da un amico. Di questo amico, e di tutti coloro che mi corrispondono, non ne compare nemmeno una).

Se le élites sono “quegli umani lì”, appartengo (apparteniamo) a un altro ramo della specie. Non uso i miei più di cinquecento libri come massa d’urto per sfondare, come carico per pesare o come suppellettili per stupire: non li ho ereditati da nessuno, li ho raccolti io, lungo una vita spesa da un lato a lavorare, nella scuola, in campagna e in altre attività che probabilmente Baricco nemmeno immagina esistano, dall’altro a cercare di capire anche attraverso loro il senso di quello che stavo facendo: mi hanno aiutato, e oggi li considero i miei migliori compagni di viaggio.

Ma il fatto davvero importante è che non sono l’unico. Esiste tutto un mondo di persone che possiedono centinaia di libri perché semplicemente trovano piacere e conforto nella loro compagnia. Costoro fanno il proprio lavoro senza esserne schifate, non hanno debiti con Equitalia, non sono complici dell’ingiustizia e della violenza del sistema, ma nemmeno credono nelle gioiose rivoluzioni che proprio i più autorevoli esponenti o rampolli delle élites vengono periodicamente a proporre loro.

Non sono “quegli umani lì”, moralmente ciechi. Sono umani che moralmente ci vedono benissimo: piuttosto, sono loro a risultare invisibili agli occhi dei “rivoluzionari”, barbari e no. Sono persone che all’ingiustizia e alla violenza oppongono quotidianamente, sui posti di lavoro, in famiglia, nelle relazioni sociali, un comportamento corretto, che non è dettato da un moralismo ottocentesco e ipocrita, ma dal buon senso, dalla razionalità, da un istinto positivo di sopravvivenza. Sono quelli che le macerie le rimuovono, che tacitamente ogni volta ricostruiscono, e lo hanno fatto da sempre nella storia.

Queste persone si sono guadagnate tutto ciò che possiedono, spesso persino una lingua che non hanno succhiato col latte materno, che è stata sudata sui banchi di scuola, ma che ha aperto loro un mondo infinito, proprio quello dei libri, e non le porte delle accademie, dei salotti buoni o della televisione. In quegli spazi non saprebbero nemmeno muoversi, e comunque non interessano loro, perché non hanno tempo da perdere. Non si riconoscono nella “gente”, non ambiscono ad accedere ai piani superiori, non sono etichettabili né come borghesi, né come ceto medio, né come proletari, anche perché queste categorie, nella loro accezione storica, non esistono più. Sono piuttosto degli aristocratici nel pensare, dei democratici (consapevoli) nell’agire.

Certo, queste persone vedono con raccapriccio la mutazione, e non perché temano di perdere il posto o la poltrona: in realtà sono loro i veri corpi d’élite, quelli che hanno portato da sempre avanti il mondo, che hanno davvero conferito un senso all’eccezionalità di essere homo. Non li ha mai scelti nessuno, si sono scelti sempre da soli. E la loro non è una scelta di sacrificio, al contrario, è una scelta di piacere, di divertimento, e di questo i libri sono una gran parte.

Io credo che “questi uomini qui” la rivoluzione l’abbiano già fatta, da sempre, al proprio interno, e l’abbiano esportata senza clamori, con umiltà, all’esterno. Hanno costruito con la carta muri di sostegno, o di contenimento delle slavine e della barbarie, e non i muri divisori di cui parla Baricco, che sono una specialità invece dell’élite di cui lui fa parte. E quindi si sottraggono senza alcuno sforzo al Game, non perché rifiutino ostinatamente le novità comunicative, ma perché hanno già imparato a farne un uso alternativo.

È naturale la loro resistenza di fronte ad “un mondo in cui la loro (nostra) mediazione non è più richiesta, e in cui non è più comprensibile il valore degli oggetti che crediamo di custodire, e che dovremmo tramandare”. Perché non sono oggetti quelli che si impegnano a tramandare, e nemmeno privilegi, capitali, poltrone, ma forme profonde di conoscenza e idee alte di moralità che il mondo non può permettersi il lusso di perdere.

Intendiamoci, questo almeno lo sa benissimo anche Baricco. “Il punto che a me, come a molti altri, risulta di un’evidenza solare è che una vittoria di questo genere avrebbe un prezzo devastante: non per le élites, chissenefrega, ma per tutti. Perché il mito di un accosto diretto, puro e vergine alle cose, opposto all’andatura decadente, complicata e anche un po’ narcisistica della riflessione colta, è una creatura fantastica che ci abbiamo messi secoli a smascherare: recuperarla sarebbe da dementi. Da un sacco di tempo abbiamo imparato che è meglio sapere molto delle cose prima di cambiarle, che è meglio conoscere molti uomini per capire se stessi, che è meglio condividere i sentimenti degli altri per gestire i nostri, che è meglio avere molte parole piuttosto che poche perché vince chi ne sa di più. Abbiamo un termine per definire questo modo di difenderci dalla durezza feroce della realtà grazie all’uso paziente e raffinato dell’intelligenza e della memoria: cultura. Sostituirla con l’apparente chiarezza di un pensiero elementare, quasi una sorta di furbizia popolare, equivale a disarmarsi volontariamente e andare al massacro. Voglio essere chiaro: ogni volta che ci facciamo bastare certe parole d’ordine di brutale semplicità, noi bruciamo anni di crescita collettiva spesi a non farci fottere dall’apparente semplicità delle cose: non noi élites, sto parlando di tutti quanti”.

Il problema nasce, come già dicevo, quando deve venire al dunque: cosa bisogna fare, allora? “Entrare nel Game, senza paura, affinché ogni nostra inclinazione, anche la più personale o fragile, vada a comporre la rotta che sarà del mondo intero. Usarlo, il Game, come una grande chance di cambiamento invece che come un alibi per ritirarci nelle nostre biblioteche o generare diseguaglianze economiche ancora più grandi. Ritirare su tutti i muri che abbiamo abbattuto troppo presto; abbatterli di nuovo non appena tutti saranno in grado di vivere senza di loro. Camminare. Smetterla di sventolare lo spettro del fascismo. Pensare in grande. Pensare. Niente che non si possa fare, in fondo, ammesso di trovare la determinazione, la pazienza, il coraggio”.

E Cioè? Non è che “loro”, lui, le élites consacrate dalla visibilità, “i più veloci che vanno avanti, creando il futuro”, potrebbero ad esempio rallentare un attimo, rimboccarsi le maniche e dare per una volta una mano a sgomberare le macerie, per poter poi ritirare su tutti i muri che hanno “gioiosamente” contribuito ad abbattere, magari diradando un po’ le marchette televisive e anche quelle teatrali e librarie? Ecco, per scendere nel concreto: non è che Baricco potrebbe seguire gli esempi, che già esistono, di un uso davvero “democratico” e innovativo del web, mettendo a disposizione gratuitamente le sue riflessioni, consentendo di scaricare i suoi libri, anziché limitarsi ad autografarli per un pubblico adorante e pagante? E stanando così anche quelli che si rifugiano nelle loro biblioteche? È un gesto piccolo, ma proprio in ragione della visibilità e dell’appartenenza di chi dovrebbe compierlo potrebbe riuscire, una volta tanto, davvero rivoluzionario.

Non può permetterselo? Ci fossero delle difficoltà, potrà sempre farsi ospitare sul sito dei Viandanti.

 

L’articolo-saggio di Baricco comparso su Repubblica ha prodotto naturalmente reazioni a catena, puntualmente registrate e pubblicate (almeno le più significative) sulla testata. A significare che almeno il merito di aver sollevato la questione Baricco ce l’ha. Tra le molte ho scelto di allegare a questo scritto quella di Mila Spicola, insegnante, pedagogista e scrittrice. Per due ragioni. Da un lato perché trovo più che condivisibili alcune osservazioni, quelle relative ad esempio ai criteri (inesistenti) di reclutamento degli insegnanti: dall’altro perché offre un esempio dei rischi introdotti proprio dalle nuove modalità di comunicazione, di scrittura. Rischi legati all’eccessiva velocità, che si traduce in superficialità, nello smantellamento gratuito di un sistema di regole che non sarà il verbo evangelico ma è stato costruito nei secoli, con molta fatica, proprio per arrivare a condividere una piattaforma linguistica comune chiara e precisa. Fare la democrazia non significa abbattere le porte per facilitare l’accesso, ma rendere tutti capaci di aprirle, magari con un minimo sforzo. Le porte abbattute prima o poi risultano d’intralcio, il libero accesso senza chiavi si risolve in una Babele. Quindi, cominciamo col dare l’esempio di un minimo di rigore, anche se il termine non va più di moda. Se si usa una voce latina, ad esempio, la si cita nella dizione corretta, per cui si scrive auctoritas, e non autoritas. Dopo “non ci riferiamo” si mette “ai ceti poveri”, e non “dei ceti poveri”. Imperfezioni di questo genere appaiono certamente veniali nel contesto di una scrittura per altri versi chiara, diretta e accattivante, almeno per chi ama lo stile sbarazzino. Ma, come diceva quel tale, parlando del pesto con le noci, occorre prestare attenzione anche ai particolari apparentemente insignificanti, perché si comincia così e si finisce poi a letto coi consanguinei.

Ciò su cui mi trovo meno d’accordo, però, è affermazione più volte ribadita che la cultura non ha offerto alle masse una possibilità di riscatto, ma è diventata al contrario strumento di ricatto. Perché non l’avrebbe offerta? Perché non ha consentito di azionare gli ascensori sociali, che hanno continuato ad essere gestiti da coloro che la cultura l’hanno sempre detenuta e indirizzata. Il che è vero, ma solo in parte, solo se si ritiene che il ruolo della cultura sia quello di far ascendere socialmente. Io ritengo debba essere piuttosto quello di fare crescere interiormente. E non mi si venga a dire che il messaggio delle élites era diverso. Sarà anche così, ma si poteva benissimo tradurlo diversamente: se l’ho fatto io, che non sono nemmeno troppo sveglio, possono farlo tutti.

Appendice

MILA SPICOLA – La ribellione delle masse, Baricco, Mazzucato e nemmeno io mi sento tanto (bene)

L’anima volgare, riconoscendosi volgare, ha l’audacia di affermare il diritto alla volgarità e lo impone ovunque”: Ortega y Gasset, La ribellione delle masse. 1930. Rileggetelo se lo avete letto, leggetelo se non lo avete fatto. E leggete anche qualche riflessione fatta intorno a quel libro, per avere chiaro cosa ha significato, in quel tempo e dopo.

Ho letto attentamente e più volte sia il libro, The Game, sia l’articolo di Alessandro Baricco comparso su Repubblica, e anche quello di Marina Mazzucato, uscito in replica a Baricco, sempre su Repubblica. Molte le cose che possiamo condividere, e come potrebbe essere altrimenti? Riflessioni necessarie. Decisive. Alcune no, ma molte da sviluppare.

Non oggi, né stamattina, né solo dal 2008 a oggi, le masse si ribellano alle élite, è il percorso della Storia. La mia tesi è che oggi le masse si ribellano sì, come ieri, a forti diseguaglianze sociali, ma che vi sia un ingrediente ulteriore e che l’analisi non è così semplice: si ribellano alla cultura come ricatto, brandita dalle élite, quando le élite stesse hanno distrutto l’idea della cultura come riscatto e dunque se la sono andata a cercare eccome la ribellione. Sono sotto gli occhi tu tutti le conferme a questa mia idea.

E non so nemmeno se infilarci quel periodico senso di rifiuto delle autoritas nella Storia quando le classi culturali egemoniche diventano solo strumenti di conservazione del potere e non cercatrici di verità e conoscenza per perseguire progetti di comunità ovvero di sincero bene comune capace di comprendere non solo le proprie ma soprattutto le altrui ragioni e sentimenti.

Ma siccome oggi ogni disegno d’avvenire, di crescita, di riorganizzazione della produzione e dunque della società e della cultura, è impensabile fuori da un discorso sui saperi, nuovi e vecchi, sulla conoscenza, nuova e vecchia, forse è lì che dobbiamo andare a scavare: sul sapere delle masse e sulle masse al sapere. Perché lo slogan la cultura alle masse è ancora uno slogan.

Ipse dixit ma lui chi è? Spostare la verità alla credibilità. Nell’era della diffidenza, conta più la persona credibile che il vero. No, non è la prima volta che accade. Cristo non è stato l’unico. E se la persona non è credibile, meglio il falso piuttosto che accettare il vero da persone di cui si diffida. Accade quando: ma che, me stai a fregà? Direbbero a Roma.

Le élite hanno fregato larghe fasce di società, non voglio chiamarlo popolo perché l’idea di popolo è un a priori o a posteriori alla bisogna, artificiale e abusata. Ma masse, sì. Possiamo chiamarle masse. C’è del buono nel populismo? C’è del giustificabile, però, sì. Le famose ragioni dell’avversario. E ne ha di ragioni l’avversario. A voglia. Bisognerebbe ammetterlo.

Il tradimento delle masse non è stato solo o soltanto sul terreno della ricchezza ma soprattutto sul tema culturale, per le masse, sul tema identitario, per quelle élite progressiste che facevano riferimento alle socialdemocrazie. Si sono tradite promesse non solo di benessere materiale, ma di riscatto, di meritocrazia, di onestà. E non ci riferiamo soltanto di ceti poveri, ma anche e soprattutto di ceto medio impoverito o privo di comfort zone relazionali. I nemici sono le lobby, gli amici degli amici che impediscono il regolare percorso del riscatto.

Le masse nel dopo guerra hanno avuto tutte l’accesso a scuola, ma la scuola non è riuscita a garantire il “successo scolastico”, chiamiamolo così, a tutta la massa. Non tanto per intenzione, sono enormi gli sforzi di scuole e docenti, al di là della vulgata, ma per disorganizzazione di sistema, per carenza di risorse, per mancata necessità di formare un ceto docente di professionisti da selezionare con cura e non di impiegati da campare e immettere a casaccio, delitto che parte dal vertice e da élite distratte. Altro tradimento.

Per mantenere una qualche parvenza di efficacia ed efficienza, si è conservata tale e quale la separatezza tutta reazionaria tra cultura manuale (definita non cultura, e dunque non degna di pari rigore, apprezzamento e qualità) e cultura teorica e, all’interno di quella teorica, identiche e ulteriori separazioni gerarchiche tra culture umanistiche, scientifiche, tecniche.

Come se il tecnico non dovesse pensare o l’umanista non dovesse sapere come si accende il mondo. Non solo: formazioni diverse, per vite diverse, per riconoscimenti economici diversi, per linguaggi diversi, anche di valore, hanno scavato abissi reazionari, spacciati per progressismo. Non lo è. Lungi ma molto dall’obiettivo dell’uomo completo che era la parte più illuminante del Marxismo. Dunque paratie tra élite e massa. “Scusa, chi vi vieta di studiare?” A chi lo chiediamo? A un bambino a cui abbiamo tolto prima di dare?

La prima ribellione contro le élite nasce dentro le scuole e contro le scuole quando non son capaci, non tanto per loro quanto per altrui responsabilità, di accogliere, supportare, motivare. Che il 50/60 % circa di studenti italiani abbia usufruito almeno una volta di lezioni private per recuperare insufficienze significa due cose: che la scuola è insufficiente e che chi non può permettersele rimane indietro senza che il sistema se ne occupi in modo sistematico e strutturato.

Quale riscatto? Quale ascensore? Quale mobilità? Ed ecco che la questione si complica e i piani si intersecano: la cultura diventa il ricatto di quelli che stanno più su, non il riscatto per quelli che stanno più giù. E una società di ascensori, bloccati o funzionanti, e non di orizzonti liberi, è la precondizione dei demagoghi. Luna, che fai in cielo, dimmi che fai, dice la massa errante.

“Hai dei dati per supportare ciò che dici?” dice l’élite. Dall’altro lato la rabbia. Che pare senza ragione ma ha mille ragioni. Masse enormi in preda l’analfabetismo funzionale. E sono proprio quelle masse a ribellarsi, non solo per questioni di fame, ma per farsi ascoltare.

Vero è, come ricorda Baricco, che l’accesso a tutte le informazioni oggi è consentito alle masse. Ma non è cultura e siamo in preda a babeli linguistiche. Leggono poche e superficiali notizie in rete e non comprendono perché la filosofia, la poesia, la letteratura, cioè il riflettere consapevolmente, l’approfondire, il legare i puntini, non è stato dato insieme al cacciavite nelle immense periferie della speranza, non si è coltivata fino in fondo l’utopia possibile dell’istruzione come riscatto. Siamo il paese che legge meno, fino ad oggi non è mica stato un problema.

C’era la fabbrica aperta e funzionante a dare comunque un posto nel mondo al pastore errante e a tenerlo buono e complice, oggi le crisi glielo hanno tolto quel posto e complice non può più esserlo. I libri potrebbero salvarlo. Promesse tradite insieme a lacerti di supposto bene comune puntualmente smentito da tutte le élite che si sono susseguite. E dunque la rabbia verso la cultura come ricatto a fronte di un sapere minimo che per molti non ha significato riscatto.

I demagoghi poi son bravi perché lo han tramutato nell’incolto al potere e nel potere degli incolti. Se lo meritano? Eppure son state per prime le nostre élite progressiste a tradire chi se lo meritava, se ormai milioni di diplomati e laureati eccellenti vanno a mostrare eccellenze altrove perché da noi il loro merito non viene né cercato, né individuato, né riconosciuto, né ripagato, in modo libero, economicamente o nel ruolo. Non è mica responsabilità delle masse, ma delle élite chiuse, se è la cooptazione a dettar le regole nella finta valutazione prevalente. Le masse si ribellano per come possono, col voto, scegliendo dunque gli incolti.

Lungi dal governarle quelle valanghe informative digitali che sono liane di una foresta amazzone buia e non districabile se si avanza raso terra, le masse rabbiose sono facili dall’esserne governate. Si muovono per sentito dire, per percezione, per branchi di fiducia necessaria a panzane insostenibili e le ignoranze sono il mezzo più efficace usato da abili manovratori di potere per goderne e nello stesso tempo apparire come salvifici.

Salvifici perché ne comprendono le paure, le emozioni, le ragioni, gli svaghi e gli stadi, cinematografici, musicali, digitali o sportivi. Vale per il pensionato del Galles che vota convinto per la Brexit, come vale per l’operaio dell’Arkansas, come per il disoccupato di Canicattì, come l’ultras dell’Olimpico, come per il pop singer un po’ spaesato, come il piccolo artigiano delle valli bergamasche. Accomunati spessissimo da un “quanti libri ha letto lei nell’ultimo anno?” “Nessuno”. O uno, al massimo due. E le élite progressiste che fanno? Langue sepolta in un campo di grano, non è la rosa, non è un tulipano, è un disegno di legge per la promozione della lettura.

Ci giro e ci rigiro: compito del popolo è istruirsi, diceva quello. Compito della sinistra, o delle élite progressiste e riformiste, o chiamiamole come vogliamo, era istruire il popolo, le masse. Non lo abbiamo fatto, abbiamo finto di farlo.

In realtà abbiamo messo un po’ di cipria a un sistema d’istruzione che è rimasto a invecchiare fascista, e cioè profondamente convinto, inconsapevolmente, per sciatteria, delle divisioni, mentre si ostinano a definirle unioni. E noi zitti. Divisioni ovunque, ovvero che la teoria dovesse essere totalmente separata dalle prassi, e che l’intelligenza è tutta teoria e la prassi è del poco intelligente e, da doppio binario a doppio binario, a chi offrire il primo e a chi il secondo e non entrambi? Vedi caso combinazione ai poveri. Porta dritto dritto a divisioni e poi a diseguaglianze sociali.

I poveri non han richieste in tal senso, mica vogliono gli asili e il tempo pieno, a ben riflettere non vorrebbero nemmeno l’obbligo scolastico eh; e dunque scordiamocene, a loro niente asili, niente tempo pieno, niente recupero delle insufficienze. Niente cultura perché non c’han testa e mica ci vuole Leopardi per avvitare bulloni. O montare pc. O lavare piatti.

Però serve a capire il bicameralismo perfetto e come si approva una legge di bilancio e come vengono sottratte libertà democratiche. Qualora noi volessimo sollecitare le masse su questi temi nessun stupore se ci ritroviamo senza gente intorno. Se non quelli del binario nostro. E i docenti? A volte élite, a volte massa, a volte esclusi, a volte ribelli, a volte, boh. A seconda da chi siano, da dove vengano e da come sono arrivati dietro una cattedra. Mille soli diversi, diceva un altro.

Dimenticando, o non sapendo, per primi proprio i docenti, oltre che le élite, che ci vuol scuola democratica e democrazia della cultura per mantenere la democrazia, oltre che pane. La cultura come riscatto e per il riscatto viene negata puntualmente dal sistema, non dai singoli, agli esclusi con ogni genere di ragioni o priorità altre.

Sic et simpliciter. L’uomo completo non lo abbiamo voluto. Marx, Gramsci, Trentin, Visalberghi, ma anche il Kennedy che avrebbe attuato una riforma della scuola pubblica democratica negli Stati Uniti come mezzo per recuperare alla democrazia radicale e piena le enormi masse povere hanno scritto e detto cose dimenticate da troppi e per troppo tempo. Di che parlo? Torniamo a studiare e a unire i puntini per capire, nemmeno le élite studiano più. Se non se stesse.

Un concetto fondamentalmente progressista che la sinistra ha tradito e non c’è stata élite progressista nei paesi dove oggi si ingrassa il populismo che fa eccezione: l’uguaglianza sociale ha come premessa l’uguaglianza culturale di ciascuno, va perseguita la seconda per conseguire la prima. Ma in realtà quell’uguaglianza sociale con premessa l’uguaglianza culturale le élite non l’hanno mai voluta né perseguita radicalmente, perché diciamocelo, mica il tacchino vota per il Natale.

Ed ecco a voi la ribellione delle masse alle élite. La più pericolosa, sull’ignoranza, dopo che le élite l’hanno nutrita.

Sono citati in queste pagine:
Indagine Ocse–Pisa sui livelli di competenza – 2018
Indagine conoscitiva su bullismo e cyberbullismo – ISTAT, 2019
Generazioni in Rete. Come abitiamo l’era digitale – ISTAT, 2018
Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia – AIE (Associazione Italiana Editori), 2018
Il mercato del libro in Italia 2016 – Giornale della libreria, 27/01/ 2017
The Ultimate Guide to Global Reading Habits – Global English Editing, 2018
Alessandro Baricco – I nuovi barbari. Saggio sulla mutazione – Fandango, 2006
Alessandro Baricco –The Game – Einaudi, 2018
Alessandro Baricco – E ora le élites si mettano in gioco su La Repubblica, 10/01/2019
Nicholas Carr – Internet ci rende stupidi? – Raffaello Cortina, 2011
Christopher Lasch – La ribellione delle élite – Il tradimento della democrazia – Feltrinelli, 2001
José Ortega y Gasset La ribellione delle masse – Il Mulino, 1962
Charles Wright Mills – L’élite del potere – Feltrinelli, 1986