Ancora lui! Tutto il Bryson che dovreste conoscere

di Vittorio Righini e Paolo Repetto, 30 aprile 2024

Qualche tempo fa avevo chiesto a Paolo se non fosse il caso di fare un discorso un po’ più completo su Bill Bryson. In fondo lo aveva scoperto ben prima di me e lo aveva fatto conoscere a un sacco di gente. E poi, uno spazio come questo non dovrebbe essere riservato soprattutto a libri di viaggio e a viaggiatori? Detto fatto. Sollecitato dalla rilettura di uno dei primi lavori del nostro (America Perduta, 1989 circa) Paolo ha scritto il breve (breve? sì, breve) articolo che è comparso sul sito recentemente: articoletto simpatico (Un americano alla prova dei truck stop), ma che non basta a rendere l’idea del posto che questo autore occupa sia nella letteratura di viaggio che nella letteratura comica del XXI secolo.

Allora, con un chilo abbondante di presunzione, otto etti di prosopopea, e mezzo chilo di cazzutaggine, mi permetto di scavalcare il Prof. e di inondare il sito con un articolo sull’opera omnia di Bryson. Non lo farò seguendo un ordine cronologico, preferisco commentare alla buona, come viene, cosa ricordo, e magari con un pizzico dell’umorismo di Bryson, a cui sono avvezzo.

Il primo libro di Bryson che ho letto è Una passeggiata nei boschi (Guanda 1997, 306 pagine), definito “divertentissimo” da The Times e “illuminante e spassoso” dal Sunday Telegraph.

Trovo più completa la seconda definizione, per via di quell’“illuminante’”. Il nostro si spara a piedi l’Appalachian Trail, “3400 km. di sentieri attraverso 14 stati americani, dalla Georgia al Maine” (copio e incollo). Bill non è un cuor di leone, così si fa accompagnare dall’amico Stephen Katz (nome vero: Matt Angerer, con una gamba di legno) in un’avventura improbabile per due che di camminate, sentieri, vita nei boschi e far da sé sanno poco o niente.

Ancora lui 02Ecco perché ne esce un racconto illuminante, sincero, utile pure per qualcuno che volesse imitarli, divertente per chi, come me, non ci pensa nemmeno lontanamente. Interessante la figura di Stephen Katz (Angerer, che si definisce un reprobo ricalibrato). Il compagno di viaggi di Bryson aveva fatto dell’alcool l’unica ragione di vita, che lo aveva accompagnato fino al momento di conoscere Mary, sua moglie, durante una delle tante degenze in ospedale a causa degli eccessi alcolici. Angerer era poi diventato astemio (incredibile, ripete lui) e oggi, pur con mezza gamba in meno, vive in modo sano ed è un rispettabile cittadino dell’Iowa, famoso appunto per aver accompagnato Bryson nei boschi e aver ispirato il regista del film del 2015 “A Walk in the Woods”, con Robert Redford/Bryson e Nick Nolte/Angerer-Stephen Katz. Meglio il libro, as usual: che mi ha divertito, ma per il momento è finita lì.

Ancora lui 03Alla fine del 2001 però Guanda pubblica un librone di 366 pagine dal titolo In un paese bruciato dal sole (che sarebbe l’Australia). Pochi anni dopo parto per il mio primo viaggio a Sydney, per lavoro; e quale scelta migliore di questo libro, che, complice uno scalo di tre giorni a Hong Kong, leggo prima di arrivare nel paese dei canguri. Le descrizioni che Bryson fa non mi invitano a conoscere da vicino la natura o le coste dell’Australia (tipo i dieci serpenti più velenosi al mondo, i coccodrilli di mare che escono dai fiumi e ti strappano un arto sul bagnasciuga, le meduse più dolorose e mortali che si possano immaginare, i polpi velenosi, i granchietti nascosti sotto un centimetro di sabbia sulla spiaggia, che ti mandano una settimana all’Ospedale, e decine di altri modi di morire per una cazzata solo per voler fare il bagno in un mare stupendo. Pericoli che sono sempre e solo nei primi trenta metri dalla riva; dopo ci sono gli squali, di tutti i tipi), ma io vado a Sydney per lavoro, quindi chi se ne fotte. Oggi, a dispetto della lettura critica e ironica che Bryson ne fa, l’Australia è uno dei paesi che ama di più e che, tutto sommato, teme di meno. Il libro si legge bene, e mi induce a continuare e ad approfondire questo autore.

Ancora lui 04Mi avventuro dunque in Notizie da un’isoletta (Tea, prima edizione inglese del 1995, 320 pagg.,), libretto che procurerà al nostro parecchie strapazzate proprio da parte degli abitanti della Gran Bretagna. La copertina della mia copia, non certo una prima edizione, riporta una straordinaria fotografia in bianco e nero: una guardia della Regina, il primo della fila dei militari, sta svenendo e cadendo di faccia in terra. Facendo una ricerca in rete ho scoperto che una cosa del genere è successa molte volte, e che nel 2022 caddero addirittura in tre (ma gli danno da mangiare a ‘sti poveretti?). La foto rispecchia il metodo usato da Bryson nel libro, sferzante e simpatico al tempo stesso, ma apprezzabile solo se si dispone di una buona dose di humour. Questo comunque non è il suo libro migliore, perché l’uggiosa e piovosa Gran Bretagna che Bryson percorre a piedi, da Dover a John O’Groats, nei primi anni novanta, non è terra fertile di fatti “veramente” degni di nota, strambi, capaci di incuriosire il lettore. L’autore deve barcamenarsi con quel che trova lungo il cammino, e i britannici come ho detto non gli sono stati riconoscenti per i commenti particolarmente caustici. Il lettore italiano al contrario si diverte abbastanza, ma l’ultima parte risulta più ripetitiva e priva di mordente.

Ancora lui 05Per farsi perdonare dai locali, comunque, Bryson pubblicherà 20 anni dopo Piccola Grande Isola (Guanda 2016, 480 pagg.), una raccolta di articoli giornalistici a commento di un viaggio simile al primo, ma con altre motivazioni e destinazioni, sia nel percorso che nel contenuto. Un libro riconoscente nei confronti del paese che lo ha ospitato per oltre 20 anni (e poi, dopo un decennio negli USA, lo ha riaccolto), scritto con maggiore affetto (almeno apparente) e più delicatamente satirico.

Ancora lui 06Uno degli ultimi che ho letto è in realtà uno dei primi pubblicati: America Perduta (un Feltrinelli del 1989, con 300 pagine di comicità pura). Ne ha scritto Paolo recentemente, riportando quattro esempi dei rapporti difficili con le cameriere americane. Io voglio ricordare solo questa chicca: “Arrivai a New York e presi una stanza in un hotel, 110 dollari (per lo standard dell’epoca molto caro, come è sempre stata la Grande Mela, aggiungo io); la stanza era molto piccola; per girarmi su me stesso dovevo uscire in corridoio, e se allargavo braccia e gambe toccavo tutti e quattro i lati della stanza”. Trecento pagine a questo livello, che raccontano la monotonia dei paesaggi nei tanti Stati percorsi, i molti improbabili personaggi incontrati, e anche i rari scorci positivi. È un libro senz’altro datato, ma se avete una mezza voglia di andare negli USA, non leggetelo! Bryson fa riflettere i non americani sul fatto che là c’è veramente poco da vedere, la storia è troppo recente, trionfa solo la natura, quando non è imbrigliata dalle mani di chi la sfrutta in modo ottuso. Cita ad esempio negativo il modo in cui sono gestiti alcuni Parchi Naturali, o alcuni Musei, e lo squallore di cittadine che hanno perso anche quel poco di storia che si erano conquistate in 150 anni. Qualcosa da dichiarare: don’t go to USA! (cit. adattata dal film Snatch). Quando poi descrive lo Stato in cui è nato (l’Iowa) lo fa in un modo tale che non credo gli sarebbe convenuto ripresentarsi a breve, pena il linciaggio. Ma è così per molti altri luoghi, soprattutto per i grandi stati agricoli del Mid West.

Ho letto ultimamente una recensione che sminuiva questo libro, preferendogli Strade Blu di William Heat-Moon: che è un libro bellissimo, non ho dubbi (ho letto tutti e tre i libri di Heat-Moon), ma è molto serio, senza un velo di ironia, privo di quello spirito che pervade Bryson e ti permette di arrivare alla fine. Cosa più difficile con Strade Blu, che è enciclopedico ma meno caldo.

Ancora lui 07Anche in questo caso c’è una appendice. Dopo 20 anni in Gran Bretagna (la moglie è inglese) Bryson torna a vivere negli Stati Uniti con la famiglia. Pubblica di lì a poco Notizie da un grande paese, (Guanda 1917, 368 pagg.), uno dei suoi libri migliori. Ritrovarsi nel suo paese d’origine dopo tanti anni, a confrontare lo stile di vita britannico con quello americano, e trovare quest’ultimo molto diverso da quello che aveva lasciato, lo porta a scrivere un libro praticamente tragicomico. L’autore è sconcertato dalle differenze linguistiche che rileva, dalle assurde ossessioni tipicamente americane e dai vincoli a rigide regole di vita che in Gran Bretagna non esistono, ma non esistevano nemmeno negli Stati Uniti all’epoca in cui se n’era allontanato. Il che lo induce, con gran gioia di tutta la famiglia, a tornare ancora a vivere in Gran Bretagna, ove abita tutt’ora in una zona rurale.

Ancora lui 08All’inizio della carriera di scrittore di viaggi, intorno al 1992, Bryson ha scritto un altro libro interessante e, come sempre, divertente. Per un provinciale come me, poi, Una città o l’altra (Guanda, 2002, 350 pagg) è imprescindibile, dato che tratta anche dell’Italia. È il racconto di un Grand Tour continentale dei giorni nostri, alla scoperta di ciò che le guide turistiche, ma anche la gran parte dei narratori di viaggio, non prendono in considerazione: le manie, le bizzarrie dei diversi popoli europei alle differenti latitudini.

Zaino in spalla e taccuino alla mano Bryson scende dall’estremo nord del Baltico fino a Istanbul, utilizzando solo i mezzi pubblici. E scopre perfino paesi che gli stanno antipatici, lui che sembra sempre digerire tutto. L’Italia in compenso gli piace eccome, me n’ero già accorto da altri suoi libri, nei quali spesso portava ad esempio le bellezze del nostro paese per contrapporle alle brutture del suo. Non ne ignora gli aspetti meno entusiasmanti, ma li presenta in una luce sdrammatizzante. Degli automobilisti romani ad esempio scrive, correttamente: “Non è che vogliano investirti, come a Parigi, semplicemente t’investiranno. Questo in parte perché gli automobilisti italiani non prestano alcuna attenzione a ciò che succede sulla strada che hanno davanti. Sono troppo occupati a suonare il clacson, a gesticolare, a evitare che altri automobilisti taglino loro la strada, ad amoreggiare, a dare scappellotti ai figli sul sedile posteriore e a mangiare panini grandi come mazze da baseball; gli italiani sono un popolo di baciapile, e gli automobilisti romani non investirebbero mai una suora: ne vedi gruppi attraversare correndo viali a otto corsie con la più stupefacente impunità, come foglietti di carta bianchi e neri trasportati dal vento. Perciò, se vuoi attraversare in punti trafficati come piazza Venezia, la tua unica speranza è aspettare l’arrivo di qualche suora e appiccicarti a lei come una T-shirt sudata”.

Un editore italiano, non faccio nomi, all’uscita del libro, non avendo capito nulla dello spirito di Bryson, ha fatto cancellare la parte relativa al passaggio in Italia, ritenendola troppo offensiva e urticante per il nostro nobile popolo. Fortunatamente altre edizioni hanno reintegrato il testo: quindi se lo volete comprare, magari usato, fate attenzione che comprenda i quattro capitoletti relativi all’Italia.

Ancora lui 09Nel 2007 il nostro pubblica un’opera dal contenuto abbastanza particolare: Il Mondo è un teatro (Tea 2020, 240 pagg.). Tratta della vita e dell’opera di William Shakespeare. Nulla di nuovo, sul bardo sono stati scritte migliaia di pagine; quello che non sapevo, da ignorante letterario quale sono, è che si è arrivati perfino a dubitare dell’esistenza di Shakespeare. Della sua vita si sa poco o nulla, così come della sua famiglia e delle sue origini, la grafia del cognome non è certa, esiste un unico suo ritratto, se dobbiamo fidarci del pittore, e attorno al suo luogo di nascita si hanno rivendicazioni diverse, tutte egualmente poco attendibili. L’unica cosa inconfutabile è la grandezza dell’opera che ci è arrivata a suo nome, chiunque poi l’abbia scritta. Il libro comunque è uno splendido affresco della vita nell’Inghilterra del periodo Elisabettiano, tra il XVI e il XVII secolo, e del grande amore per il teatro diffuso in tutti i ceti sociali, con locali aperti al popolo dalle due del pomeriggio al prezzo di un penny, con venditori di frutta all’esterno per ricompensare gli attori, se non graditi…

Ancora lui 10Vestivamo da Superman, (Guanda 2007, 309 pagg.) è uno dei libri di Bryson preferiti da Paolo, come mi diceva recentemente, e non posso dargli torto. Essere ragazzi negli anni ‘50 negli Stati Uniti ha significato per una generazione vivere felici e inconsapevoli; è stato così anche in Italia, a mio fratello (del 1948) non invidio l’età, ma l’aver attraversato i cinquanta da adolescente, mentre io (del 1956) mi sono beccato gli anni sessanta (non che mi possa lamentarmi troppo, per carità: se penso ai giovani d’oggi …). Si, la generazione USA dei ‘50 aveva l’ossessione del comunismo, il terrore dell’atomica, ma godeva anche della romantica fiducia che poi, in fondo, tutto sarebbe andato per il meglio. Si era nutrita di sogni e illusioni con Walt Disney, poi naufragati dalla Corea al Vietnam. Tutto il libro è intriso dal sapiente umorismo del nostro, che nato nel 1951 e cresciuto a Des Moines, nell’Iowa, nel cuore degli States, è il rappresentante ideale per ravvivare i ricordi di quella generazione di americani.

Ancora lui 11Ora mi appresto a leggere L’estate in cui accadde tutto. America 1927 (Tea 2015, 556 pagg.). È l’ultimo che mi resta. Voglio concedermelo con calma, questa estate, spero su una poco conosciuta spiaggetta greca. Dall’ottobre 2020 Bryson ha deciso di non scrivere più nulla, e come dargli torto.

PS.: Esiste anche un Diario Africano (Guanda 2002, 96 pagg.) Non l’ho mai intercettato, ma ho la mia miniera, sulle colline dell’ovadese, dove trovare i funghi che cerco…

Ma non è finita: ci sono ancora tre libri particolari. Due non mi sono piaciuti particolarmente, uno invece è un capolavoro assoluto.

Ancora lui 12Il primo è Breve storia del corpo umano. Una guida per gli occupanti (Guanda 2019, 496 pagg.) Un mappamondo del corpo umano, un’esplorazione dalla testa ai piedi di quello che conteniamo, con una marea di informazioni, molte delle quali erano a me totalmente ignote. Però il libro si dilunga un po’ troppo, e dispetto dello humor onnipresente non avvince come gli altri di cui ho ‘parlato. Non di meno è quasi un testo scientifico spiegato ai bambini, lo capisco perfino io.

Ancora più particolare Breve storia della vita privata (Tea 2017, 564 pagg.) Non posso dire di averlo finito, o forse l’ho finito (non ricordo) ma con fatica. Si tratta dell’esplorazione, nei minimi dettagli, della sua abitazione, una canonica sconsacrata nel Norfolk, con l’esame microscopico, dico io, di ogni oggetto in essa contenuto e ogni storia ad esso riferita. Per completisti …

E poi arriviamo invece al capolavoro assoluto, uno dei libri più interessanti abbia mai letto (passato a mio figlio di 30 anni che mi ha detto la stessa cosa). Un libro che parla di fisica / matematica / chimica / biologia / astronomia / geologia e chi più ne ha più ne metta (tutte materie nelle quali sono sempre stato una schiappa), su come e “di cosa” è fatta la Terra in cui abitiamo, ma spiegato ai bambini, agli adolescenti, con il solito umorismo da adulti. Il libro si intitola Breve storia di (quasi) tutto (Guanda 2006, 744 pagg.) e lascio nelle righe a seguire l’onere e l’onore di far raccontare il libro a Paolo, che ne sa di più.

Spero che questo mio baedeker brysoniano sia di aiuto o di ispirazione per qualcuno; spero che qualcuno si faccia delle grasse risate nel leggere questo autore, ma attenzione: quando si inizia, è come con la malaria: ogni tanto ti vengono delle crisi e devi comprarne uno di corsa.

***

Quella sera, tutto eccitato, mi portai il libro a casa, e prima di cena cominciai a leggerlo dalla prima pagina, cosa che credo abbia spinto mia madre a posarmi una mano sulla fronte e a chiedermi se mi sentivo bene

Ancora lui 13Prima di raccogliere il testimone, una postilla alle pagine precedenti. Come ha in qualche modo anticipato Vittorio, nel settembre del 2002 Bryson ha fatto anche un salto in Africa, sia pure per soli otto giorni e limitatamente al Kenia. Il viaggio non era nei suoi programmi, vi era stato invitato da un’organizzazione umanitaria che si attendeva dal reportage un po’ di visibilità (ma anche un contributo economico: tutti i proventi della vendita del libro le sono poi stati devoluti). Dal breve diario che ha tratto da questa esperienza (Diario africano, Guanda 2003, 96 pagine) ho ricavato l’impressione che non lo abbia entusiasmato né ispirato granché. E credo di intuirne le ragioni. È vero, Bryson ce la mette tutta per mostrarci che il Kenia è (potrebbe essere) un paese fantastico, per le risorse naturali, per gli straordinari scenari, per l’indole dei suoi abitanti, e perché in fondo è stato la culla dell’umanità, come racconta la raccolta di fossili umani del suo museo nazionale: e vuole anche testimoniare come le organizzazioni umanitarie vi svolgano un lavoro preziosissimo. Ma è difficile tenersi sul piano dell’ironia davanti a situazioni come quelle che ha incontrato nel continente nero. La baraccopoli alla periferia di Nairobi, che ospita quasi un milione di persone in condizioni di vita inenarrabili, ma della quale ufficialmente il governo ignora l’esistenza; l’Aids, all’epoca dilagante, e ancora oggi endemico, contro il quale gli unici atteggiamenti della popolazione e di chi dovrebbe proteggerla sembrano essere la rassegnazione o il totale disinteresse; i campi profughi, gestiti in condizioni altrettanto terribili, nei quali i rifugiati sono ostaggio di una burocrazia corrotta e inconcludente, fantasmi senza alcuna speranza di un futuro . Queste cose inducono piuttosto allo sdegno, alla rabbia, alla denuncia, attitudine che non è nelle corde di uno scrittore volutamente “leggero” (inteso in senso positivo, calviniano) come lui.

Certo, è sempre Bryson, e il modo in cui racconta il tutto non può non far sorridere, soprattutto quando ci mostra la preparazione dell’avventura (il ricordo di Jim della Giungla, la visione de La mia Africa, le assicurazioni, le vaccinazioni, ecc.), o racconta i suoi spostamenti in aereo, in ferrovia o in auto. Al di là di questo, comunque, mi è stato sufficiente confrontare il modo di porsi di Bryson con quello che avevo incontrato in un vecchio reportage di Moravia (A quale tribù appartieni?, Bompiani 1963), per capire che il primo almeno si è accostato al continente con un sincero sentimento di simpatia, con l’umiltà di chi sa di non saperne nulla, con la voglia di imparare qualcosa: mentre l’altro ci si era recato con gli occhi fasciati dall’ideologia, e riconduceva tutto alle colpe del vecchio e del nuovo colonialismo, senza mai entrare empaticamente in rapporto con modi di pensiero che sentiva così lontani e con costumi che gli facevano palesemente un po’ schifo.

Veniamo però ora all’altro Bryson, quello cui già facevo cenno in un pezzo postato poche settimane fa, e del quale Vittorio mi ha appena ammollato il commento.

Dunque, devo premettere che da sempre io regalo solo libri, e che per decenni ho continuato a regalare a tutti gli adolescenti che mi capitavano tra i piedi, figli miei e di amici, cugini, studenti, Il giovane Holden (non proprio a tutti, a dire il vero. A quelli che ritenevo fossero in grado di apprezzarlo). Poi, ad un certo punto, ho realizzato che forse l’età di Salinger era finita, anche se Holden rimaneva un’ottima lettura, e ho smesso di regalarlo. Nel frattempo avevo però trovato un validissimo sostituto. Era la Breve storia di (quasi) tutto, di Bryson. A dispetto della sorpresa (ero abituato al Bryson viaggiatore) il libro mi ha conquistato sin dalle prime pagine, perché era divertente, ma anche per una motivazione molto personale. Per tutto il periodo delle scuole superiori ho inseguito infatti disperatamente (e invano) la sufficienza nelle materie scientifiche. Non che non mi impegnassi, proprio non c’era verso a capire qualcosa di matematica, per non dire di chimica o di fisica. Mi sono così appiccicato per anni alla mente dei post-it mandati giù a memoria, che naturalmente non servivano a nulla, e che il giorno successivo all’orale della maturità erano volati via come le foglie d’autunno, dandomi un senso di liberazione ma lasciandomi al tempo stesso in una totale ignoranza scientifica. Solo dopo l’università ho cominciato a vergognarmi di questo vuoto, e a cercare di coprirlo almeno parzialmente con un approccio volenteroso ma disordinato, perché privo di qualsiasi base sistematica. Quando ho letto Bryson ho finalmente capito che se avessi avuto tra le mani un libro simile a sedici anni la mia vita avrebbe potuto cambiare: non avrei dovuto ricorrere ai sotterfugi più squallidi o a patetiche e improbabili giustificazioni, né affidarmi alla clemenza del povero professor Giudice (ricordo come a volte mi guardava sconsolato: non riusciva a capacitarsi che uno bravo in greco e in filosofia potesse essere così irrimediabilmente negato nelle sue discipline) per evitare di finire a settembre. Avrei potuto dedicarmi agli atomi e alle cellule, e magari ambire a quel Nobel che dalla letteratura non mi verrà mai. Il tutto divertendomi, e senza rinunciare a viaggiare.

Ancora lui 14La Breve storia di (quasi) tutto è infatti un libro di viaggio, come quelli che già allora si prendevano tutto il mio interesse. Solo che è un viaggio dentro la scienza, che ci fa approdare alle spiagge per me esotiche della matematica, dell’astronomia, della fisica, della chimica, della biologia, della paleontologia, della geologia; e non si limita a toccarle, ma si inoltra anche all’interno. È un susseguirsi di scoperte, costellato di incontri con i personaggi più bizzarri, quelli noti ma anche quelli ingiustamente dimenticati, che impariamo a conoscere, oltre che per i loro meriti, per le loro stravaganze; e sono queste ultime ad imprimersi più facilmente nella memoria, e a farci ricordare anche il resto. Come può non intrigarti a saperne di più un Newton che «era un personaggio decisamente bizzarro, di una intelligenza smisurata, ma solitario, cupo, permaloso fino alla paranoia, famoso per quanto si lasciava distrarre dai pensieri che lo assorbivano (si racconta che, nel tirare i piedi fuori dal letto, al mattino, gli capitava a volte di restarsene a sedere così per ore, immobilizzato dall’improvvisa folla di pensieri che si precipitava nella sua mente) e capace delle più sorprendenti stranezze … una volta si infilò nell’orbita un lungo ago, di quelli usati per cucire i pellami, e se lo rigirò tutto intorno “tra l’occhio e l’osso, il più vicino possibile alla parte posteriore dell’occhio”, solo per vedere cosa succedeva.» Chi può dimenticarla, una cosa del genere.

O un J. B. S. Haldane che «comprò una camera di decompressione che battezzò “pentola a pressione”. Un cilindro metallico capace di ospitare sino a tre persone, che venivano sottoposte ad analisi di vario genere, tutte dolorose e quasi tutte pericolose. […] Anche la perforazione del timpano era abbastanza frequente ma, come lo stesso Haldane osservò con toni rassicuranti in uno dei suoi saggi ‘in genere il timpano cicatrizza; e se rimane bucato, e se uno si ritrova un po’ sordo, può comunque soffiare il fumo di tabacco dall’orecchio in questione. Il che in società può rivelarsi un talento apprezzabile. L’aspetto straordinario di questo non era tanto che Haldane fosse disposto a sottoporre se stesso a simili rischi e sofferenze per amore della scienza, quanto che non si facesse scrupoli a convincere colleghi e persone care a entrare dentro la camera. Sottoposta ad una simulazione di un’immersione in profondità, sua moglie ebbe una crisi che durò tredici minuti. Quando alla fine smise di contorcersi sul pavimento, la aiutò a rimettersi in piedi e poi la spedì a casa a preparare la cena.» Badate bene che Haldane non era un pazzo furioso o un aguzzino nazista, ma uno scienziato di altissimo livello, pur non avendo mai conseguito una laurea in scienze. Queste poche righe ne tracciano un ritratto che vale un’intera biografia.

E ancora: “Probabilmente non è una buona idea quella di interessarsi troppo ai microbi che convivono con noi. Louis Pasteur, il grande chimico e batteriologo francese, ne era così preoccupato che, a tavola, prese a scrutare criticamente con una lente d’ingrandimento ogni piatto che gli veniva presentato, abitudine che presumibilmente non doveva fruttargli molti inviti a cena.”

Mi limito a questi, ma la galleria dei personaggi eccentrici che incontriamo in queste pagine, delle loro stranezze e idiosincrasie, è sterminata: e non è mai fine a se stessa, non si ferma all’aneddotica divertente, ma ci fa immergere in una dimensione nella quale il confine tra il genio e l’instabilità è decisamente incerto, e solo entro la quale la conoscenza scientifica può svilupparsi.

Ancora lui 15Bryson ha inoltre la capacità di tradurre qualsiasi informazione che ci fornisce in esempi apparentemente peregrini, ma di una chiarezza immediata, che rendono possibile visualizzare fenomeni di qualsiasi ordine di grandezza, da quelli infinitesimali a quelli più macroscopici:

Il protone è una porzione infinitesimale di un atomo, che ovviamente è già di per sé un oggetto minuscolo. I protoni sono così piccoli, che un puntino di inchiostro come quello che sta su una “i” può contenerne qualcosa come 500.000.000.000. Insomma, i protoni sono microscopici all’eccesso, ed è ancora dir poco.”

“In un diagramma del sistema solare in scala, con la Terra ridotta al diametro di un pisello, Giove dovrebbe essere disposto a oltre trecento metri dal nostro pianeta e Plutone sarebbe a due chilometri e mezzo.”

 “Lo spazio è immenso, semplicemente immenso. Tanto per fare un esempio e divertirci un poco, immaginiamo di imbarcarci su una nave spaziale, senza andare troppo lontano, ci basterà arrivare ai confini del nostro sistema solare, tanto per farci un’idea di quanto è grande lo spazio e quanto è piccola la parte che ne occupiamo. Be’, mi spiace dirvelo, ma temo che non saremo a casa per l’ora di cena.”

Lo stesso vale per le citazioni che va a pescare: “Il fatto che anche una sola proteina possa essere sintetizzata grazie ad eventi casuali sembrerebbe dunque una circostanza spaventosamente improbabile. Per citare la colorita similitudine dell’astronomo Fred Hoyle, sarebbe come se una tromba d’aria attraversasse una discarica e uscisse dallo sconquasso lasciando dietro di sé un jumbo jet perfettamente funzionante.”

O per le spiegazioni che fornisce dei fenomeni:

Non credo che molti geologi, dovendo esprimere i loro desideri, vi includerebbero quello di vivere su un pianeta con l’interno fuso: di sicuro però, senza tutto quel magma che vortica sotto di noi, adesso non saremmo qui. A parte tutto il resto sono proprio le vivaci viscere della Terra ad averci fornito le esalazioni di gas necessarie alla formazione dell’atmosfera, e ad aver dotato il pianeta di un campo magnetico che lo protegge dalle radiazioni cosmiche. Anche la tettonica a placche è un dono del nucleo fuso della Terra. Se la Terra fosse liscia, sarebbe tutta ricoperta d’acqua fino ad una profondità di quattro chilometri. In un siffatto oceano solitario, potrebbe benissimo esserci la vita, ma di sicuro non ci sarebbero partite di calcio.”

Oppure: “Per consentire a me e a voi di essere qui in questo momento, trilioni di atomi, che vagavano ognuno per conto proprio, hanno avuto la gentilezza di assemblarsi in una combinazione molto complicata, e questo appositamente per creare noi […] Perché gli atomi si prendano questo disturbo resta ancora un mistero, Dal loro punto di vista, essere me o voi non è un’esperienza molto gratificante. In fondo … agli atomi non importa nulla di noi, anzi, non sanno neanche che esistiamo Per la verità, non sanno di esistere nemmeno loro. Dopotutto, sono solo delle stupide particelle e non sono neanche vive (è curioso notare che, se potessimo usare una pinzetta per scomporre il nostro corpo atomo per atomo, non otterremmo altro che un mucchietto di polvere – un mucchietto di atomi – i cui singoli granelli non sono mai stati vivi, ma, presi nel loro insieme, costituivano il nostro corpo). Eppure, per l’intera durata della nostra esistenza, non faranno altro che rispondere a un unico rigido impulso: fare in modo che noi continuiamo ad essere noi”.

Ma in definitiva, cosa tiene assieme questa marea di personaggi, di storie, di informazioni? Ce lo dice lui stesso:

Tutto questo vi fa girare un poco la testa? Be’, non preoccupatevi, sono qui per aiutarvi. Ho passato circa cinquant’anni ponendomi domande impegnative e alla fine ho deciso (dato che non mi muovo molto velocemente) di vedere se potevo trovare alcune risposte. Eccovi i risultati.

Il concetto di fondo, che permea tutto il libro e fa da filo conduttore, è quello dell’unicità della vita:

Ogni essere vivente è l’elaborazione di un unico progetto originario (che non va confuso col progetto intelligente). Noi esseri umani non siamo altro che il risultato di semplici, graduali migliorie: ognuno di noi è un polveroso archivio di ritocchi, adattamenti, modifiche e provvidenziali manipolazioni verificatisi negli ultimi 3,8 miliardi di anni. È sorprendente pensare che siamo parenti abbastanza stretti di frutta e verdura. All’incirca metà delle funzioni chimiche che hanno luogo in una banana sono identiche a quelle che avvengono in un organismo umano. Non lo si ripeterà mai abbastanza: la vita è una sola. (p. 454)

Siamo tutti delle reincarnazioni, sebbene alquanto effimere. Quando moriremo, gli atomi che compongono il nostro corpo si separeranno e seguiranno un nuovo destino: forse diventeranno parte di una foglia, di un altro essere umano o di una goccia di rugiada. Gli atomi, in quanto tali, hanno una vita praticamente illimitata. (p. 152)”.

E non nascondiamocelo, a suo modo è una prospettiva di eternità che ci conforta.

Basta. Sin qui ho pescato aprendo il libro a caso e potrei continuare a farlo all’infinito, trovando esempi altrettanto chiari e divertenti. Il modo di raccontare è questo. Bryson fa divulgazione col tono di chi ti dice: se questa cosa l’ho capita anch’io, può benissimo arrivarci anche tu. Che è il modo migliore per incentivare ad andare avanti. E questo ci riporta ai regali. Da quando ho scoperto questo libro ne ho fatto l’oggetto fisso delle mie regalie, A qualcuno probabilmente l’ho regalato più volte. Ne ho distribuite anche, negli ultimi anni di lavoro nella scuola, decine e decine di copie (forse centinaia, le edizioni Guanda mi sono ancora riconoscenti) come premio per gli allievi più brillanti o come stimolo a diventare tali. Gli uni e gli altri me ne sono stati grati.

Erano gli unici soldi ben spesi del Fondo d’Istituto.

Avrei però qualcosa da aggiungere anche sulla Breve storia della vita privata. Certo, si tratta di un libro un po’ particolare, che non sembrerebbe destinato ad un gradimento universale come il precedente. Ma è comunque una godibilissima miniera di informazioni, di aneddoti, di stravaganze, e una ennesima dimostrazione dell’arte brysoniana di raccontare. Mentre lo leggevo, in certi momenti mi sembrava di riascoltare la voce di mio padre, grandissimo affabulatore e maestro dello humor sarcastico. A partire dall’esplorazione della propria dimora Bryson riesce a parlare davvero di tutto, di architettura, di economia, di costumi, di tradizioni, ecc… E lo fa appunto alla sua maniera, apparentemente rapsodica, in realtà guidata da un sottile filo conduttore.

Anche in questo caso, per darne un’idea non trovo di meglio che pescare aprendo il libro a casaccio. E pesco subito aneddoti come questo:

Ancora lui 16Il tè non venne immediatamente capito da tutti. Il poeta Robetrt Southey racconta la storia di una signora di campagna che ne aveva ricevuto mezzo chilo in regalo da un’amica di città quando il tè era ancora una novità. Non sapendo bene cosa farne, lo bollì in pentola , ne spalmò le foglie sil pane tostato e imburrato e lo servì alle amiche, che lo sbocconcellarono con coraggio e lo giudicarono interessante ma non proprio di loro gusto.”

O ammiccamenti maliziosi: “Il nonno di Fralklin Delano Roosevelt, Warren Delano, accumulò gran parte delle ricchezze di famiglia col commercio dell’oppio, un dettaglio di cui i Rooesevelt non si sono mai propriamente vantati”.

… e gossip succosi: “Edison invitò un pubblico scelto a una dimostrazione delle sue nuove luci a incandescenza, quando gli invitati arrivarono .. rimasero a bocca aperta nel vedere i due edifici magnificamente illuminati. Ma non si accorsero che erano quasi tutte luci non elettriche. I soffiatori di vetro di Edison, oberati di lavoro, erano riusciti a preparare soltanto trentacinque bulbi, e gran parte dell’illuminazione era dunque fornita da lampade ad olio sapientemente distribuite.”

Quanto basta a invogliarmi ad una immediata rilettura, e a pregustare cinquecento pagine di rinnovato divertimento.

Ancora lui 17

Un americano alla prova dei truck stop

di Paolo Repetto, 11 aprile 2024

Avevo in mente da un pezzo di riprendere il discorso su Bill Bryson, discorso che in realtà sino ad ora è rimasto limitato a brevissimi accenni nei consigli di lettura. Non l’ho fatto prima perché davo Bryson per scontato, conosciuto da tutti i frequentatori di questo sito, un po’ come Chatwin. Mi sembrava ci fosse in fondo poco da dire, se non rinnovare l’invito a leggere i suoi spassosissimi diari di viaggio, a partire dal celeberrimo Una passeggiata nei boschi.

Bryson non ha scritto però solo taccuini di vagabondaggio. Nella sua bibliografia trovano posto anche opere di tutt’altro genere, cose come Breve storia di (quasi) tutto, Breve storia della vita privata, Breve storia del corpo umano, e ancora, Vestivamo da Superman o Il Mondo è un teatro. Trattano argomenti molto diversi, ma sono unite tra loro e anche ai racconti di viaggio da un piglio e uno stile paragonabili solo a quelli di Mark Twain, da un approccio apparentemente scanzonato ma in realtà capace di cogliere i dettagli essenziali e davvero significativi di ambienti, persone, vicende.

Non sono sicuro che questa parte del suo repertorio di scrittura sia altrettanto conosciuta. Conto dunque di tornarci su, ma non ora: mi piacerebbe allargare un po’ più in generale il discorso alla divulgazione narrativa, che qui da noi non è molto praticata, e per farlo ho bisogno di maggiore concentrazione. Per il momento mi limito invece a proporre una selezione di pagine tratte da America Perduta, libro d’esordio del nostro, che già contiene tutto il Bryson che cerchiamo quando prendiamo in mano un suo scritto.

A me è capitato di rileggerlo a distanza di quasi trent’anni dal primo incontro, e a differenza di quanto accade in genere con la rilettura di testi che ti avevano entusiasmato in un periodo particolare della tua vita, perché direttamente legati ad esperienze o a stati d’animo che stavi vivendo (tre decenni fa ero ancora nel pieno della mia attività di girovago), non mi ha affatto deluso. L’ho riletto naturalmente con occhi nuovi, cercandovi cose che alla prima lettura potevano essermi sfuggite; e mentre all’epoca ricordo di aver provato soprattutto il piacere della scoperta di un’America profonda, quella sterminata e semi-sconosciuta che sta tra le due coste, questa volta vi ho trovato soprattutto delle conferme e delle spiegazioni.

Un americano alla prova dei truck stop 02

Insomma, uno che ha amato la storia degli Stati Uniti in tutte le sue sfaccettature, che si è svezzato coi fumetti e col cinema western, che si è nutrito nell’adolescenza dei libri di Twain, di London e di Steinbeck, e poi di Kerouack e di Salinger, nonché dei gialli di Chandler e di Hammett, non può, a dispetto di tutto ciò che ha poi appreso sulla politica sporca, sulle attività della CIA, o di tutte le evidenze della superficialità dell’american way of life, non conservare in fondo all’anima tracce del mito americano. E allora tanto più si chiede come un paese così grande e così ricco di tradizione democratica possa essere arrivato negli ultimi decenni ad affidarsi a personaggi come Bush jr e come Trump, e a ritrovarsi addirittura quest’ultimo quale probabile futuro presidente per la seconda volta.

Bene, in America perduta era già prefigurato quanto stava per accadere. Dopo quasi vent’anni di assenza (si era trasferito in Inghilterra ventenne, aveva iniziato a lavorare lì come giornalista, lì si era sposato e aveva preso casa) o perlomeno di fugaci rimpatriate, Bryson torna a vagabondare per gli Stati Uniti nei tardi anni Ottanta, intenzionato a ritrovare suoni, sapori e immagini della sua infanzia. Naturalmente non ci riesce, perché è cambiata l’America e soprattutto è cambiato lui: ma con un tragitto a doppio anello di oltre ventimila chilometri, a bordo della vecchia Chevrolet della madre, batte quella parte del paese che ancora non conosceva (e sulla quale aveva tanto fantasticato), oltre a ripercorrere le strade lungo le quali aveva invece viaggiato per le rituali gite familiari. Non riconosce la “sua” America, o meglio, la conosce adesso sia per come veramente era all’epoca che per come è diventata. Non si può dire che non gli piaccia, e neppure che ne sia entusiasta. Parrebbe far suo il giudizio espresso da Jack Nicholson in Easy Rider: l’America è un grande paese, peccato che ci siano gli americani.

Comunque, America perduta è uno di quei libri che non tollerano riassunti e analisi critiche: vanno letti e basta. A coloro che ancora non lo avessero fatto (ma anche agli altri), propongo appunto una serie di frammenti che dovrebbero fornire almeno un’idea di quel che si sono persi. Ho scelto quattro momenti di sosta, quelli destinati alla cena, al rilassamento dopo ore di guida e ad un bilancio della giornata. Naturalmente i locali frequentati sono quelli tipici del viaggiatore di lungo corso. A mio parere qui Bryson dà davvero il meglio: non racconta, non spiega, non dà giudizi, apre dei siparietti spassosissimi ma tutt’altro che fini a se stessi, perché rivelano dei suoi interlocutori (in questo caso, delle sue interlocutrici) molto più di qualsiasi tentativo di descrizione. E rende facile anche a noi percepire attraverso le reazioni scocciate, meccaniche o ossessive (non solo quelle degli interlocutori, anche le sue) quell’atmosfera pregna di monotonia, di solitudine e di distanza che sembra caratterizzare la vita americana, quella che già abbiamo conosciuto attraverso i dipinti di Hopper e soprattutto attraverso innumerevoli film on the road.

Non nascondo infine che sulle scelte ha influito anche l’aver riconosciuto nei modi di fare e di pensare di Bryson certi atteggiamenti propri di un amico col quale ho viaggiato ultimamente (e che già avete potuto conoscere proprio su questo sito). Immaginarlo seduto in quegli improbabili posti di ristoro in mezzo al deserto o in cittadine quasi fantasma ha raddoppiato il divertimento.

Ma non vado oltre: meglio lasciar parlare l’originale.

(i numeri di pagina si riferiscono all’edizione Feltrinelli Traveller 1993)

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pag. 54 Carbondale (Illinois)

[…] Malinconicamente e faticosamente arrivai al Pizza Hut, e una cameriera mi fece accomodare a un tavolo con vista sul parcheggio.

Tutti mangiavano delle pizze grandi come ruote di un pullman. Proprio davanti a me – non c’era via di scampo – un uomo super-obeso, sui trent’anni, si ficcava in bocca intere fette di pizza, come un mangiatore di spade. C’era una tale gamma di tipi e dimensioni di pizze, tali varietà che mi sentii quasi perso. La cameriera si avvicinò: “Ha scelto?”

“Ancora un momento”, replicai. “Per favore.”

“Non si preoccupi,” aggiunse. “Ritorno più tardi.”

Sparì, uscì dal mio raggio visivo, contò fino a quattro e poi riapparve. “Vuole ordinare?”, chiese.

“Se non le dispiace”, dissi “vorrei aspettare ancora un po’.”

“OK”, disse seccata andandosene. Questa volta contò forse fino a venti, ma, quando si rifece viva, io vagavo ancora nel mare magnum di possibilità e opzioni che il Pizza Hut offriva.

“È un po’ lentino, Lei, vero?” asserì vivace.

Ero imbarazzato. “Mi dispiace. Sono un po’ stordito. Sa … sono appena uscito di prigione.”

Stralunò gli occhi. “Non dirà sul serio?”

“Eh, si. Ho ucciso una cameriera che mi metteva fretta.”

Abbozzando un sorriso indietreggiò, e mi lasciò tutto il tempo di cui avevo bisogno per decidere. Alla fine optai per una pizza media, ai peperoni, con doppia porzione di cipolle e funghi. Una pizza che vi consiglio vivamente di assaggiare.

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pag. 165 Littleton (New Hampshire)

[…] Entrai nel ristorante, il Topic of the Town. Gli altri clienti mi sorrisero, la signora alla cassa mi mostrò dove appendere la giacca e la cameriera, una signora piccola e grassottella, si prodigò in tutti i modi per offrirmi il servizio migliore. Era come se avessero somministrato a tutti un meraviglioso tipo di tranquillante.

Quando la cameriera mi portò il menù, commisi l’errore di dire grazie. “Prego”, rispose lei. Una volta innescato questo meccanismo non c’è modo di fermarlo. Poi la signora pulì il mio tavolo con uno straccetto umido. “Grazie”, dissi. “Prego”, rispose. Mi portò le stoviglie avvolte in un tovagliolo di carta. Esitai, ma non riuscii a trattenermi. “Grazie”, dissi. “Prego”, rispose. Quindi arrivò con la tovaglietta con sopra scritto Topic of the Town, poi con un bicchiere d’acqua, poi con un posacenere pulito, poi con un cestino con i salatini nella loro confezione di cellophane e a ogni gesto ci scambiammo quelle formali gentilezze. Ordinai del pollo fritto speciale. Mentre aspettavo incominciai a essere a disagio perché i miei vicini di tavolo mi osservavano e mi sorridevano in modo inquietante. Anche la cameriera mi stava osservando, appostata vicino alla porta della cucina. In un certo senso era snervante. A ogni piè sospinto lei veniva al mio tavolo per riempirmi il bicchiere di acqua ghiacciata e per dirmi che avrei dovuto aspettare ancora un minuto per la mia ordinazione.

“Grazie”, dicevo.

“Prego”, rispondeva lei.

Alla fine uscì dalla cucina reggendo un vassoio grande come un tavolo, e iniziò a disporre i piatti davanti a me: minestra, insalata, un piatto di pollo, un cestino di panini caldi. Tutto aveva l’aria di essere appetitoso. Improvvisamente mi resi conto di avere una fame da lupi.

“Desidera qualcos’altro?”

“No, grazie. Va tutto benone”, risposi, impugnando coltello e forchetta, pronto a buttarmi sul cibo.

“Desidera del ketchup?”

“No, grazie.”

“Gradisce ancora un po’ di condimento nell’insalata?”

“No, grazie.”

“Ha abbastanza salsina sul pollo?”

Ce n’era abbastanza per annegarci un cavallo. “Sì, c’è molta salsina, grazie.”

“Che ne direbbe di una tazza di caffè?”

“Şul serio, sono a posto così.”

“È sicuro di non desiderare nient’altro?”

“Potrebbe andarsene fuori dalle palle e lasciarmi mangiare in pace?” avrei voluto rispondere, ma ovviamente non dissi nulla. Mi limitai a sorridere garbatamente e a rispondere: “No, grazie”, e quella dopo un po’ si ritirò. La donna rimase in piedi con la brocca dell’acqua ghiacciata in mano, senza però togliermi gli occhi di dosso per tutto il pasto. Ogni volta che bevevo un sorso d’acqua, si avvicinava al tavolo e lo riempiva fino all’orlo. Quando allungai la mano per prendere il pepe la cameriera fraintese la mia mossa e avanzò con la brocca in mano, ma dovette fare dietrofront. Dopo di che, ogni volta che lasciavo le posate per un qualsiasi motivo, le mimavo ciò che stavo per fare, per esempio “Sto per imburrare il pane”, tanto per evitarle di correre al mio tavolo con la brocca in mano. Nel frattempo le persone del tavolo accanto mi osservarono mangiare con un sorriso d’incoraggiamento. Friggevo dalla voglia di andarmene.

Quando terminai il pasto, la cameriera mi propose i dessert:

“Le andrebbe una fetta di crostata? C’è ai mirtilli, alle more, ai lamponi, alle more selvatiche, ai mirtilli bianchi, ai ribes rossi, ai ribes neri e all’uva spina”.

“Caspita! No, grazie, ho mangiato fin troppo”, dissi mettendomi le mani sullo stomaco. Sembrava che mi fossi nascosto un cuscino sotto la camicia.

“Cosa ne direbbe invece di un bel gelato? Abbiamo stracciatella, cioccolato speciale, cioccolato amaro, cioccolato bianco, bacio, cioccolato e menta, riso soffiato e cioccolato con e senza stracciatella.”

“Non ha del cioccolato semplice?”

“No, mi dispiace, non c’è molta richiesta.”

“Allora credo che non prenderò niente.”

“Che ne dice di una fetta di torta? Abbiamo…”

“Guardi, proprio no, grazie.”

“Caffè?”

“No, grazie.”

“Sicuro?”

“Sì, grazie.”

“Le porterò ancora un po’ d’acqua allora”, e scattò a prendere l’acqua prima ancora che riuscissi a dirle di portarmi il conto. Le persone del tavolo accanto osservarono la scena con interesse, e sorrisero come volessero dire: “Noi siamo completamente fuori di testa. Lei come sta?”.

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pag 176 Elmira (Stato di New York)

[…] Erano quasi le nove quando mi fermai in un motel alla periferia di Elmira.

Andai direttamente fuori a cena ma, poiché quasi tutti i locali che incontravo erano chiusi, finii per mangiare nel ristorante di un bowling in aperta contravvenzione alla terza norma di Bryson sul cenare in una città sconosciuta. Generalmente non credo nel fare le cose per principio e poi si tratta di un principio tutto mio ma ho elaborato sei norme riguardanti la cena al ristorante che cerco di non trasgredire. Eccole:

  1. Mai cenare nei ristoranti che espongono le fotografie delle specialità. (E se lo si fa, mai credere alle fotografie.)
  2. Mai cenare nei ristoranti rivestiti con carta da parati ruvida.
  3. Mai cenare nei ristoranti dei campi da bowling.
  4. Mai cenare nei ristoranti dove si sente ciò che dicono in cucina.
  5. Mai cenare nei ristoranti che offrono intrattenimento dal vivo, il cui nome contenga una delle seguenti parole: Hank, Rhythm, Swinger, Trio, Combo, Hawaiian, Polka.
  6. Mai mangiare nei ristoranti che hanno i muri schizzati di sangue.

Nella fattispecie il ristorante del bowling risultò abbastanza accettabile. Attraverso le pareti si sentiva il rimbombo smorzato dei birilli che cadevano, le urla delle parrucchiere e dei carrozzieri di Elmira che si divertivano. Ero l’unico cliente del ristorante. Per cui ero l’unico ostacolo tra le cameriere e la fine del loro servizio. Mentre aspettavo di essere servito, le ragazze sparecchiarono gli altri tavoli, tolsero posacenere, zuccheriere e tovaglie, cosicché dopo un po’ mi trovai a cenare solo, in una grande sala, con una tovaglia bianca, una candela baluginante in una lampada rossa, in mezzo a un’arida distesa di tavoli di laminato.

Le cameriere, appoggiate alla parete, mi osservavano mentre masticavo. Dopo un po’ iniziarono a bisbigliare e ridacchiare, sempre senza togliermi lo sguardo di dosso, cosa che trovai francamente scocciante. Avrei dovuto immaginarmelo, ma ebbi anche la netta impressione che qualcuno stesse girando un interruttore, perché la luce della sala si abbassava gradatamente. Alla fine del pasto riconoscevo il cibo al tatto e, a volte, dovevo abbassare la testa sul piatto per annusare. Prima ancora di terminare, quando mi fermai un secondo per bere un bicchiere d’acqua ghiacciata, nel buio dietro il lume di candela, la cameriera mi sfilò via il piatto e mi lasciò il conto sul tavolo.

“Desidera altro?”, mi chiese, con un tono che suggeriva che sarebbe stato meglio rispondere di no. “No, grazie”, dissi gentilmente. Mi pulii la bocca con la tovaglia, dato che il mio tovagliolo si era perso nell’oscurità, e aggiunsi la settima norma alla mia lista: mai andare nei ristoranti dieci minuti prima dell’orario di chiusura. Tuttavia, un pessimo servizio non mi dà mai fastidio. Non mi fa sentire in colpa se non lascio la mancia.

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pag. 263 Sonora (California)

[…] D’umore perfido, presi l’auto e andai a cena in città in un ristorante da poco. Dopo un bel po’ arrivò la cameriera a prendere l’ordinazione. Aveva un’aria volgare e la fastidiosa abitudine di ripetere tutto ciò che le dicevo.

“Vorrei un petto di pollo impanato”, dissi.

“Desidera un petto di pollo impanato?”

“Sì. E un contorno di patatine fritte.”

“Desidera un contorno di patatine fritte?”

“Sì. E desidererei anche un’insalata ben condita.”

“Desidera anche un’insalata ben condita?”

“Sì, e una Coca Cola.”

“Desidera una Coca Cola?”

“Mi scusi signorina, ma ho avuto una brutta giornata e se non la smette di ripetere tutto ciò che dico, prendo la bottiglia di ketchup e gliela rovescio tutta sulla camicetta.”

“Prende quella bottiglia di ketchup e me la rovescia tutta sulla camicetta?” A dir la verità non la minacciai col ketchup; per il semplice fatto che la signorina poteva sempre avere un fidanzato grande e grosso che mi avrebbe picchiato. Inoltre, una volta conobbi una cameriera che mi disse che quando un cliente era maleducato con lei, andava in cucina e gli sputava nel piatto. Da allora non sono più stato sgarbato con una cameriera e non ho più mandato indietro un piatto poco cotto (perché in questo caso è il cuoco a sputare) ma ero così di malumore che appiccicai immediatamente la gomma da masticare nel posacenere, senza incartarla in un tovagliolino come mi ha sempre insegnato mia mamma, e la schiacciai col pollice cosicché non sarebbe caduta svuotando il posacenere, ma avrebbero dovuto staccarla con una forchetta. E sapete una cosa – che Dio mi perdoni – mi tolsi una piccola soddisfazione.

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Appendice bibliografica

Per dare una parvenza di “servizio pubblico” a questo articolo lo arricchisco di una breve e personalissima bibliografia, dedicata ai libri di viaggiatori che hanno percorso gli States alla maniera di Bryson, o anche in altri modi, e hanno comunque raccontato in epoche diverse quegli spazi e quelle genti. La bibliografia sull’argomento sarebbe in realtà sterminata. Io segnalo qui solo alcuni dei testi che conosco direttamente, scritti da indigeni o da viaggiatori provenienti d’oltreoceano, e del cui valore posso farmi garante.

Luigi Castiglioni – Viaggio Negli Stati Uniti Dell’ America Settentrionale, fatto negli anni 1785-1787 – Classic Reprint, 2019

Paolo Andreani – Viaggio in Nord America – Scheiwiller, 1994

René de Chateaubriand – Viaggio in America – Pintore, 2007

Washington Irving – Viaggio nelle praterie del West – Spartaco, 2013

Alexis de Tocqueville – Viaggio in America. Stati Uniti e Canada (1831-32) – Humboldt Books, 2023

Alexis de Tocqueville – Quindici giorni nel deserto americano – Sellerio, 1989

Giacomo Costantino Beltrami – La scoperta delle sorgenti del Mississippi – Biblioteca del Vascello, 1983

Xavier Marmier – Lettres sur l’Amérique, 2 vol. – Felix Bonnaire, 1851

Henry David Thoreau – Una settimana sui fiumi Concord e Merrimack – La Vita Felice, 2020

John Muir –Mille miglia in cammino fino al golfo del Messico – Ed.dei Cammini, 2015.

Mark Twain – La mia avventura nel West – Mattioli 1885, 2018

Rudyard Kipling – Oltre la porta d’oro. Un viaggio negli Stati Uniti da costa a costa – Muzzio, 1996

Maksim Gorkij – L’America – Mastellone Ed., 1952

Knut Hamsun – La vita culturale dell’America moderna – Arianna, 2009

Jack London – La strada – Elliot, 2015

John Steinbeck – Viaggio con Charley – Rizzoli, 1969 (o Bompiani, 2017)

William Least Heat Moon – Strade blu. Un viaggio dentro l’America –Einaudi, 1989

William Least Heat Moon – Nikawa – Einaudi, 2000

Bill Bryson – Notizie da un grande paese – Guanda, 2017

Alex Roggero – La corsa del levriero. In Greyhound da Pittsburgh a Los Angeles – Feltrinelli 2002

Alessandro Portelli – Taccuini americani – Manifestolibri, 1991

Emanuela Crosetti – Come ti scopro l’America. Da Sant Louis al Pacifico con i leggendari Lewis e Clark – Exòrma, 2016

Un americano alla prova dei truck stop 06

Viaggi, sesso e fantasia

di Paolo Repetto, 2 aprile 2023

Viaggi, sesso e fantasia - Quaderno copertinaAnni fa ho trattato in un paio di articoli il rapporto degli italiani col viaggio (cfr. Perché non esiste in Italia una letteratura di viaggio). All’epoca mi è stato rimproverato di declassare i nostri connazionali a viaggiatori di serie B, mentre in realtà sostenevo semplicemente che non è mai esistita in Italia una cultura diffusa del viaggio, paragonabile ad esempio a quella inglese: ed è una cosa di cui rimango tuttora convinto, anche se non ho naturalmente mai pensato che gli italiani, pur nei secoli meno luminosi della loro storia, tra il XVII e il XIX, non si siano mossi per il mondo, e nemmeno che abbiano lasciato scarsa traccia dei loro spostamenti. Le memorie e i diari si sprecano, e a quelli dei naviganti cinquecenteschi hanno fatto seguito nei secoli successivi quelle di missionari e diplomatici. Neppure sono mancati i viaggiatori per diletto o per spirito di avventura, ma (ed è questa la differenza di cui parlavo) costoro hanno trovato in patria un uditorio piuttosto limitato e tiepido. Per svariati motivi, che ho già elencati negli scritti di cui sopra e che non starò a ripetere.

I viaggiatori dunque ci sono stati, e hanno scritto anche parecchio. Solo oggi, però, le loro relazioni stanno poco alla volta riemergendo dall’oblio, in virtù del momento particolarmente positivo per la letteratura di viaggio in generale. E in queste relazioni c’è di tutto: avventura, critica sociale, religione, osservazione scientifica e naturalistica, etnografia, storia, economia, né più né meno come negli scrittori dei paesi di antica vocazione coloniale. Ma c’è anche di più, e qui volevo arrivare: c’è un’attitudine particolare che nei francesi e negli inglesi, ad esempio, è meno presente (almeno nei secoli cui faccio riferimento). Gli italiani parlano infatti volentieri di avventure galanti e di performances erotiche, spesso al limite o ben oltre il limite della credibilità. Il che non è una novità, e induce a pensare che nei secoli la mentalità dell’italica gente sia cambiata ben poco.

1. Questi temi non comparivano naturalmente nei resoconti dei viaggiatori medioevali, che erano quasi tutti dei religiosi. Lo stesso Marco Polo cerca nei limiti del possibile di evitarli; o meglio, racconta dei costumi “facili” delle diverse popolazioni orientali, ma con lo sguardo freddo dell’entomologo. A Pechino le donne, se il marito si assenta per più di venti giorni, possono cercarsi un altro uomo: nello Uiguristan i padroni di casa offrono con insistenza le loro mogli agli ospiti, e per non disturbare escono di casa: lo stesso a Kaindu. Stranezze orientali. Riferisce anche dell’incredibile numero di prostitute che ovunque prestano i loro servigi, cosa che peraltro avrebbe potuto constatare anche nella sua Venezia. Non ci dice però se si sia adeguato ai costumi locali e abbia fruito dell’offerta. Al contrario del grande viaggiatore arabo Ibn Battuta, che racconta volentieri delle sue quattro mogli e aggiunge che è sempre stato in grado di soddisfarle ampiamente, Marco sembra aver vissuto i suoi diciannove anni di permanenza asiatica in una castità monacale.

Viaggi, sesso e fantasia 02Dopo la scoperta del nuovo mondo, invece, l’attenzione ai possibili risvolti erotici dell’incontro con culture diverse si acuisce. Colombo non può fare a meno di apprezzare le grazie delle amerindie, e nel diario sottolinea il gradimento dei suoi marinai. La nudità fisica di uomini e donne è la prima cosa che nota, e gli pare del tutto anomala, segno di povertà, di semplicità e primitivismo: non però di lussuria. La stessa attitudine possibilista ritroviamo in tutti coloro che gli vanno in scia. Per i navigatori-esploratori del Cinquecento i corpi nudi esibiti con tanta disinvoltura non sono forse così scioccanti come lo saranno tre secoli dopo per i loro epigoni vittoriani, ma trasmettono pur sempre una bella scossa, soprattutto perché lo statuto speciale degli indigeni, che ancora non si è deciso se considerare uomini o no, e che comunque non sono soggetti alle leggi cristiane, consente di apprezzarli, e magari di fruirne, senza troppi sensi di colpa. Di fatto, ad esempio, presso gli spagnoli e i portoghesi approdati per primi al Nuovo Mondo non si sviluppa, almeno inizialmente, alcuna ripugnanza sessuale. Al contrario, cronisti e testimoni della conquista narrano sovente dell’attrazione degli spagnoli per le giovani indigene e dei portoghesi per le “mulatte”, sia pure come semplici oggetti di fornicazione. E comunque il compiacimento per la bellezza di queste donne e per la loro mancanza di inibizioni (sarà più tardi il caso delle tahitiane per Bougainville e Cook e delle amerindie urone e irochesi per il barone De La Hontan) aggiunge una sfumatura piccante all’Eden che viene raccontato.

Viaggi, sesso e fantasia 03La percezione “benevola” non dura a lungo, anche se naturalmente il commercio sessuale interrazziale non cesserà mai di essere praticato. Nelle nascenti colonie i missionari lo deprecano in difesa dell’innocenza dei nativi e della loro educazione morale, in patria ci si affretta a vietare le unioni miste e il riconoscimento di figli, soprattutto per scoraggiare l’eccesso di migrazioni, ma si lasciano ai religiosi le problematiche morali. Questo spiega probabilmente perché nei resoconti degli esploratori e dei colonizzatori tra il XVI e il XVIII secolo sulla sessualità si tenda a glissare. Non mi risulta sia mai stata tentata una storia generale delle esplorazioni e dei viaggi vista da questo angolo prospettico, perché la documentazione in effetti è scarsa e reticente. Non sarò io a provarci, ma penso che riserverebbe grosse sorprese.

In questa storia farei comunque senz’altro rientrare, sia pure per una porticina laterale, un paio di singolari viaggiatori italiani: Ludovico De Varthema e Pietro Della Valle. I due non sono dei protagonisti di primo piano, i loro nomi sono praticamente sconosciuti al di fuori della cerchia degli specialisti, e soprattutto non seguono le rotte atlantiche, ma vanno a cercare fortuna, conoscenza e avventure (di ogni genere) sulla via dell’Oriente. Il loro approccio è quindi diverso da quello degli scopritori, perché non si confrontano con una realtà antropologica inaspettata e sorprendente, ma con culture note da millenni, almeno sulla carta: e viaggiano portandosi appresso tutti gli stereotipi correnti alla loro epoca sui costumi degli orientali, compresi quelli sessuali. A costruire questi stereotipi (o meglio, a rafforzarli, perché in realtà già esistevano dai tempi di Erodoto) avevano contribuito nel medio evo i polemisti cristiani, insistendo soprattutto sulla lascivia del culto islamico, a prova della quale portavano la pratica della poligamia e il paradiso sensuale descritto nel Corano. Maometto stesso era tacciato di essere un lussurioso, e le biografie dedicategli al di qua del Mediterraneo e dei Pirenei si sbizzarrivano nell’aneddotica scandalistica.

Viaggi, sesso e fantasia 04Durante i loro viaggi i nostri protagonisti tendono spesso e volentieri a vedere confermata questa “dissolutezza morale”: ma sono anche curiosi di indagare a quali particolari esigenze ambientali o a quali motivazioni storiche rispondano le usanze più sorprendenti, e sono propensi in certa misura a giustificarle. Ciò che si aspettano, e che incontrano, non sono dunque corpi esibiti al naturale, o una sessualità libera e disinvolta: al contrario, vogliono penetrare il mistero che si cela dietro i veli e gli abiti castigatissimi, dentro gli harem e nei ginecei proibiti. Pur non essendo ancora apparse in Europa Le mille e una notte, l’esotismo importato da opere come Il milione ha acceso anche fantasie pruriginose. È soprattutto De Varthema a dare corpo a queste fantasie, a inverarle. Lo fa con un linguaggio spregiudicato ed esplicito, certamente molto più di quello dei suoi contemporanei Colombo e Vespucci, perché sa che il pubblico cui è destinato il suo racconto non si scandalizzerà affatto. Quello stesso pubblico decreterà pochi anni dopo il successo dell’Aretino e di Gerolamo Straparola. De Varthema non è però un precursore di quella letteratura pornografica che con l’affermarsi della stampa conoscerà nel Cinquecento una enorme diffusione. Nel suo racconto l’erotismo è solo un condimento, sparso qua e là ma senza esagerare, e soprattutto dal sapore genuino.

Per Pietro Della Valle invece, che si muove grosso modo sulle sue tracce, ma oltre un secolo dopo, le cose sono più complesse: tra i due c’è il concilio di Trento, c’è l’attività inquisitoria della Controriforma. Può solo accennare, raccontare fino ad un certo punto, lasciare spazio all’immaginazione: nemmeno questi accorgimenti varranno però a salvare la sua opera dalla messa all’indice.

Ho scelto di far parlare il più possibile direttamente i due attraverso le loro relazioni, perché dubito che qualcuno voglia prendersi la briga di andarle a leggerle. De Varthema se la sbriga in meno di duecento pagine, ma di non facile lettura; il diario di Della Valle ne occupa invece quasi tremila. E comunque, già attraverso i diversi linguaggi che usano è possibile farsi un’idea delle due differenti personalità.

2. Ma su questo tornerò. Ora seguiamoli nei loro vagabondaggi orientali. Il primo, Ludovico De Varthema, è una figura straordinaria di avventuriero, mercante, navigatore e impareggiabile affabulatore, che compare improvvisamente ai confini estremi dell’Oriente appena raggiunto dagli europei, e sembra anzi averli preceduti tutti. Quando dico affabulatore non intendo “contafrottole”: il nostro è senz’altro propenso a speziare alquanto le sue avventure, ma gli ingredienti di fondo sono tutti naturali. Sottoposti ad una analisi critica i suoi spostamenti hanno trovato totale riscontro, così come sono risultate verosimili le descrizioni dei luoghi e dei costumi. Può apparire eccessiva la parte che si riserva nelle varie vicende in cui è implicato, ma quando s’impara a conoscerlo si capisce che da uno così ci si può attendere davvero di tutto. E comunque, per quanto attiene ad esempio alla sua partecipazione allo scontro tra i potentati indiani e i lusitani e al ruolo che vi ha giocato, i riconoscimenti che gli sono stati tributati dalla corona portoghese testimoniano della veridicità complessiva del suo racconto.

Delle sue origini sappiamo poco. È probabilmente un bolognese (o ha vissuto per qualche tempo a Bologna), trasferitosi verso la fine del Quattrocento a Roma in cerca di opportunità, che dopo aver provato a studiare ed essersi reso conto che non gli entrava nulla (lo dice lui stesso) decide di mettersi per il mondo. Nell’introduzione all’“Itinerario nello Egypto nella Surria[Siria] nella Arabia deserta e felice nella Persia nella India e nella Ethiopia”, redatto al rientro dalle sue avventure e che per un certo periodo lo ha reso famoso in mezza Europa, scrive “Me disposi volere investigare qualche particella de questo nostro terreno giro; né avendo animo (cognoscendome de tenuissimo ingegno) per studio overo per conietture pervenire a tal desiderio, deliberai con la propria persona e con li occhi medesmi ceri costumi. car de cognoscere li siti de li lochi, le qualità de le persone, le diversità degli animali, le varietà de li arbori fruttiferi e odoriferi de lo Egitto, de la Surria, de la Arabia deserta e felice, de la Persia, de la India e della Etiopia, massime recordandome esser più da estimare uno visivo testimonio che diece de audito”.

Parte da Venezia in una data imprecisata, con ogni probabilità nel 1500. Ha poco meno di trent’anni, non è quindi più giovanissimo, ma è un uomo scafato, che ha già maturato anche esperienze militari ed è provvisto di suo di un sacco di fegato; soprattutto ha una incredibile capacità di adattarsi a tutti i luoghi e le situazioni, di fingere e di approfittare della buona fede o della dabbenaggine altrui. In sostanza considera lecito ogni mezzo pur di raggiungere il suo scopo, che è quello di vedere e conoscere più cose possibile e di portare a casa la pelle. Ciò lo fa apparire un grandissimo e a volte cinico opportunista, ma stanti le circostanze questo atteggiamento è l’unico che può consentirgli di sopravvivere.

Viaggi, sesso e fantasia 05La prima tappa del suo viaggio è in Egitto, dove però non rimane a lungo. Si sposta infatti quasi subito in Libano; poi da Beirut, via Tripoli e Aleppo, arriva a Damasco, dove si fa un’amante siriana, flessuosa come una gazzella, con la quale convive giusto il tempo per imparare un po’ di arabo. Arruolatosi come Mamelucco, (cioè come mercenario al servizio del sultano) si aggrega alla scorta di una carovana diretta alla Mecca, fingendosi mussulmano. Durante il viaggio è smascherato da un mercante, che però lo prende a benvolere e una volta arrivati alla città santa lo ospita nella sua casa. Ospitalità completa, offerta soprattutto dalla moglie: “La compagnia che mi fece la ditta donna non si poteria dire, e massime una sua nipote de quindici anni, quale mi promettevano, volendo io restare li, di farmi ricco”. Non è questo però ciò che Ludovico cerca: giusto il tempo di visitare le città sacre dell’Islam, poi lo spirito errabondo ha la meglio, per cui taglia la corda con l’intenzione di raggiungere l’India. In realtà arriva solo ad Aden, dove è arrestato come spia e rischia di trascorrere il resto dei suoi giorni in catene. Ma qui mette a frutto tutte le sue risorse, si finge pazzo e gioca sulla prestanza fisica, suscitando prima la compassione e poi il desiderio della moglie del sultano.

La Regina de continuo stava alla fenestra con le damigelle sue, e dalla mattina alla sera stava li per vederme, e per parlar con meco: e io da piuhominisbeffegiato cavandomi la camisa cosi nudo andava inanti alla Regina, laqual tanto havea piacere quanto me vedeva, e non voleva che io me partisse da lei, e davami de boni e perfetti cibi da mangiare, in modo che io triomphava”.

Riporto qui di seguito quasi per intero il “Capitolo della liberalita della Regina”, anche se piuttosto lungo, perché mi sembra un capolavoro di sottintesi e reticenze. De Varthema fa intravvedere tutte le delizie di un paradiso mussulmano, racconta la sua resistenza alle offerte peccaminose e alle lascivie, ma al tempo stesso lascia intendere che qui si tratta di salvare la pelle e che alla fine il sacrificio della sua purezza è giustificato: perche non voleva perdere lanimael corpo. Il tutto costellato da brani di conversazione in uno spassosissimo arabo alla romanesca, che dovrebbe conferire realismo al racconto, con tanto di traduzione simultanea.

Viaggi, sesso e fantasia 06La prima notte sequente la Regina mi venne a visitare con cinque o sei damicelle e comincio examinarme e io pian piano gli cominciava dare ad intendere che non era pazzo. Et lei prudente cognoscereel tutto mi non esser pazzo e cosicominciomicarezare con mandarme un bono letto alla loro usanza e mandomi molto ben da mangiare. El di sequente mi fece fare un bagno alla usanza pur loro con molti perfumi continuando queste carezze per dodeci giorni, comincio puoi a descendere e visitarme ogni sera a tre o quattro hore de notte e sempre mi portava de bone cose da mangiare. Et intrando lei dove ch’io era me chiamava: Iunus tale intelohancioe: Lodovico vien qua haitu fame? E io respondeva e vuallacioesi per la fame che havea de venire e mi levava in piedi e andava ad lei in camisa e lei diceva: Leislei scamisfochcioe non cosi, levate la camisa. Io li rispondeva:lasetiane maomigenon de laincioe o Signora io non son pazo adesso. Lei mi rispuose:Vualla anearf in te ha bedeuin te mige non intemaf duniameta loncioe, per Dio so ben che tu non fosti mai pazo anzi sei elpiuavi satohuomo che mai vedesse. Et io per contentarla me levai la camisa e ponevome la davanti per honesta e cosi me teneva due hore davanti a lei standome a contemplare come se io fussi stato una nympha e faceva una lamentatione inverso Dio in questo modo: Ialla in te stacal ade abiat me telsamps in te stacalaneauset: Ialla lanabi iosaneassiet: Villetaneauset ade ragela biath Insalla ade ragelIosane insalla oetbith mitlade cioe o Dio tu hai creato costui biancho come el sole el mio marito tu lo hai creato negro: el mio figliuolo anchora negro, e io negra. Dio volesse che questo homo fusseel mio marito: Dio volesse che io facesse uno figliuolo come e questo. Et dicendo tal parole piangeva continuamente e suspirava manegiando de continuo la persona mia e promettendomi lei che subito che fusse venuto el Soldano me faria cavar li ferri. Laltra notte venendo la ditta Regina venne con due damigelle e portomi molto bene da mangar e disse Tale Iunuscioe vien qua Lodovico, aneiglaudech Io li risposi: Leis seti ane Mahomethich fio cioe disse La Regina voi tu Lodovico che io venga a star con te un pezo: Io risposi che non, che ben bastava ch’io era in ferri senza che mi facesse tagliare la testa. Disse allhora lei Let caffane darchia larazane, cioe non haver paura che io ti fo la securta sopra la mia testa. In cane in te mayrithane Gazella in sich: ulle tegia in sichulle Galzerana insich cioe: Se tu non vuoi che venga io, verra Gazella, over Tegia, over Galzerana. Questo diceva lei solo per scambio de una de queste tre voleva venire essa e star con mieco, e io non volsi mai consentire per che questo pensai dal principio che lei mi comincio a far tante carezze. Considerando anchora che poi che lei havesse havutoel contento suo lei me haveria dato oro, e argento, cavalli, e schiavi, e cio che io havesse voluto. Et poi me haveria dato X schiavi negri li quali seriano stati in una guardia che mai non haveria possuto fugire del paese perche tutta la Arabia felice era advisata de mi cioealli passi. E se io fusse fugito una volta non mi mancava la morte, o veramente li ferri in mia vita. E per questo rispetto mai non volsi consentire a lei: e etiam perche non voleva perdere lanimael corpo. Tutta la notte io piangeva recomandandomi a Dio. De li a tre giorni venne el Soldano e la Regina subito mi mando a dire che se io voleva stare con lei che essa me faria riccho. Io li risposi che una volta mi facesse levare li ferri, e satisfare alla promessa che haveva fatta a Dio e a Mahometh, e puoi faria cio che volesse sua Signoria. Subito lei mi fece andare inanti al Soldano. Et lui mi dimando dove io voleva andare dappuoi che io havesse cavato li ferri. Io li risposi,Iasidiha bumafis una mafis, mereth mafis quelle mafis, ochumafis otta mafis alla al nabyinte bessidi in te iati iaculaneab dech cioe, O Signor io non ho padre, non ho madre, non ho mogliera, non ho figlioli, non ho fratelli ne sorelle, non ho se non Dio el Propheta e tu Signore, piace a te di darme da mangiare che io voglio essere tuo schiavo in vita mia: e di continuo lachrimava. Et la Regina sempre era presente e disse lei al Soldano. Tu darai conto a Dio de questo povero homo el quale senza cagione tanto tempo hai tenuto in ferri: guardate da la ira de Dio. Disse el Soldano hor su va dove tu voi che io te dono la liberta: e subito mi fece cavar li ferri e io me inginochiai e li basai li piedi e alla Regina li basai la mano la qual me prese pur anchora per la mano dicendo vien con me poveretto per che so che tu te mori de fame. E come fu nella sua camera me baso piu de cento volte: e poi mi dette molto ben da mangiare e io non haveva alchuna volunta de mangiare: la cagione era che io vidi la Regina parlare al Soldano in secreto e io pensava che lei me havesse dimandato al Soldano per suo schiavo: per questo lo dissi alla Regina mai non mangiaro se non me promettete de darmi la liberta. Lei respose: scur mi lanuinte ma arfesiati alla: cioe tace matto tu non sai quello che ti ha ordinato Dio: Incane in te mille in te amirra: cioe Se tu sarai buono sarai Signore. Gia io sapeva la Signoria che lei mi volea dare: ma io li respuosi che me lassasse un pocho ingrassare e ritornare el sangue che per le paure grande che io haveahavuto altro pensiero che de amore havea in petto: Lei respuose: Vulla intecalem milieane iaticulli onbeit e digege e aman e filfil e cherfa e gronfiliio sindi cioe: per Dio tu hai ragione ma io ti daro ogni giorno ova: galline: piccioni: e pepe: canella: garofoli: e noce moschate. Allhora mi rallegrai alquanto de le bone parole e promissione che lei mi ordino. Et per ristorarmi meglio stetti ben XV o XX giorni nel palazo suo. Un giorno lei me chiamo e disseme se io voleva andare a caza con lei. Io li risposi de si e andai con seco. Alla tornata poi finsi di cascare amalato per la stracheza e stetti in questa fintione VIII giorni e lei de continuo me mandava a visitare. Et io un giorno mandai a dire a lei che havea fatto promissione a Dio e a Mahomet de andare a visitare uno santo homo el qual era in Aden lo qual dicono che fa miracoli, e io lo confirmava esser vero per far il fatto mio, e lei me mando a dire che era molto contenta, e fecemi dar un cambello e XXV Seraphi doro, del che io ne fui molto contento.” Non ne dubitiamo.

Naturalmente appena libero De Varthema se la svigna. Va in Aden, fa visita al santo uomo e manda poi un messaggio alla concubina del Sultano annunciandole di essere stato completamente risanato e di voler ringraziare Allah col compiere un pellegrinaggio per tutte le terre arabe. Nel frattempo contatta segretamente il comandante di una nave che deve fare rotta per l’India, e in attesa dell’imbarco compie effettivamente un viaggio nello Yemen meridionale, fino a Sana’a. Poi, finalmente, prende il largo per il Golfo Persico e l’India, non prima però di essere spinto da un fortunale sulle coste somale, dove ha l’occasione di visitare la città di Berbera, sede di un fiorente mercato di schiavi e di avorio.

Viaggi, sesso e fantasia 07

All’inizio del 1504 lo troviamo a Diu, un porto indiano sulla costa alta occidentale del Deccan. Riparte quasi subito per il Golfo Persico, e di lì si addentra in Persia sino ad Herat, tentando invano di raggiungere anche Samarcanda. Nel frattempo ha stretto amicizia con un mercante persiano, col quale si accompagnerà sin quasi alla fine del viaggio. Colpito dalle ardenti professioni di fede musulmana alle quali De Varthema si abbandona senza troppi scrupoli, ed evidentemente affascinato dallo spirito curioso e avventuroso del finto mamelucco, costui lo prende a benvolere, al punto da offrirgli in sposa una sua parente: “Io ti voglio dare una mia nepote per moglie, la qual se chiama Samis, cioe Sole. Et veramente havea el nome conveniente allei, perche era bellissima …. Giunti che fossemo alla casa de costui subito mi monstro la ditta nepote sua della quale finsi de esserne molto contento anchora che lanimo mio fosse ad altre cose intento”. Sugli sviluppi ulteriori della vicenda Varthema è reticente, li salta a piè pari, anche se il fatto che il sodalizio col persiano sia durato altri tre anni porta a pensare che la cosa sia andata a buon fine. È senz’altro vero comunque che il suo animo è ad altre cose intento.

Infatti, tornato di lì a poco sul golfo, si imbarca nuovamente per l’India e discende via mare la costa occidentale, fermandosi in vari porti e addentrandosi spesso anche all’interno. Una delle soste più prolungate la effettua a Calicut, e lì annota, con sorpresa ma non senza un malcelato compiacimento, costumi che sono agli antipodi rispetto a quelli occidentali. Nella città invale una prassi esattamente opposta allo ius primaenoctis: evidentemente la verginità vi è considerata solo un fastidio: “Questi Bramini: sappiate che sono li principal della fede, come a noi li Sacerdoti, e quando el Re piglia mogliere cerca lo piu degno e lo piuhonorato che si sia de questi Bramini, e fallo dormire la prima notte con la moglie sua, accio che la svirgine: non crediate che ’l Bramino vada volentieri a far tal opera, anzi bisogna che ’l Re li paghi IIII o CCCCC ducati: e questo usa el Re solo in Calicut, e non altra persona”.

Ma non è tutto. Ancora più interessante è per De Varthema un’altra pratica che anticipa il moderno “scambismo”: (Capitolo: Come li Gentili alcuna volta scambiano le loro mogliere) “Li gentilhomini e mercadanti gentili hanno fra loro tal consuetudine. C’è tutta una serie di convenevoli, poi; Dice l’uno. In penna tonda gnan penna cortu, cioe. Cambiamo donne: dami la tua donna, io ti daro la mia. responde l’altro. Nipanta goccioli, cioe dicitu da senno? dice quell’altro Tamarani, cioe, Si per Dio. Responde el compagno e dice. Biti banno, cioe, vieni a casa mia. E poi ch’e arrivato a casa chiama la donna sua, e dicegli. Penna in gagaba ido con dopoi, cioe, Donna vien qua, va con questo che costui e tuo marito. responde la donna. E indi, cioe perche? Dituel vero per dio? Tamarani? Risponde el marito. Ho gran pantagocciolli, cioe, Dico el vero. Dice la donna. Perga manno, cioe, Me piace, Gnan poi, cioe, io vo, e cosi se ne va con el suo compagno alla casa sua. Lo amico suo dice poi alla sua moglie, che vada con quell’altro, e a questo modo scambiano le mogliere, e li figlioli rimangono a ciascuno li soi: fra le altre sorte de gentili prenominati una donna tene V, VI e VII mariti. E VIII anchora, e un ce dorme una notte, e l’altro l’altra notte, e quando la donna fa figlioli lei dice, che e figliolo a questo, o a quello, e cosi loro stanno al ditto della donna”.

Notare che la donna dice “perga manno”, ovvero. “Mi piace”: quindi in teoria lo scambio non può essere fatto senza il suo consenso. Ma secondo De Vartema il consenso è scontato, ed anzi entusiasta. L’altro aspetto notevole è che sia la donna a stabilire di chi sono i figli (cosa in effetti logica, ma sul piano del diritto a quel tempo non accettata ovunque, e meno che mai in Europa). Il nostro autore non ci dice se sia stato messo in condizione di farsene attribuire qualcuno, ma anche fosse sarebbe difficile chiamarlo alle sue responsabilità genitoriali. È già altrove.

Dopo aver doppiato il capo Comorin, cioè la punta inferiore della penisola del Deccan, ed aver visitato Ceylon, De Varthema risale la costa del Coromandel sino a Madras. Di lì attraversa il golfo del Bengala per sbarcare sulle coste dell’odierno Myanmar, scende poi lungo la penisola malese e arriva a Sumatra (io cerco di farla il più possibile breve, ma nel frattempo sono già trascorsi altri tre anni e i luoghi visitati sono decine. Siamo ora nel 1506). Non contento, fa il periplo completo delle isole della Sonda, tocca il Borneo e sbarca poi a Giava, stabilendo anche un record, perché arriva sino alle isole Mollucche, il punto più orientale mai raggiunto fino ad allora da un viaggiatore italiano, e mai toccato da un <occidentale proveniente da ovest.

Viaggi, sesso e fantasia 08Nel corso di questa peregrinazione incontra la città di Tarnassari, che non sono riuscito a identificare con precisione ma che comunque si segnala per una variante dell’usanza già trovata a Calicut: e stavolta viene coinvolto direttamente.

(Capitolo come el Re fa sverginare sua mogliere e cosi li altri gentili dela Citta).

El Re de ditta Citta non fa sverginare la sua moglie a li Bramini come fa el Re de Calicut anci la fa sverginare a homini bianchi, o siano christiani, overo mori, pur che non siano Gentili: liquali Gentili anchora loro inanzi che menino la sposa a casa sua trovano uno homo bianco, sia de che lingua se voglia, lo menano a casa loro pur a questo effetto per farse svirginar la moglie: e questo intervenne a noi quando arrivassemo in ditta Citta per ventura scontrammo III o IIII mercadanti, liquali comincion a parlar co’l mio compagno in questo modo, langelli ni pardesi, cioe, Amico siti voi forestieri? rispose lui, Si. Disser li mercadanti, Etheranali ni banno, cioe, quanti giorni sono che seti in questa terra? Li respondemmo, Munnalgnad banno, cioe, Sono III giorni che noi semo venuti: e cosi uno de quelli mercadanti ce disse, Biti banno gnanpigamanathon ondo, cioe, Veniti a casa mia, che noi siamo grandi amici de forestieri: e noi udendo questo andassimo con lui: giunti che fussemo in casa sua, lui ce dette a far collatione, e poi ce disse. Amici miei Patancinale banno gnan pena periti in penna orangono panna panni cortu, cioe de qui a XV giorni io voglio menar la donna mia, e uno de voi dormira con lei la prima notte, e me la svirginera. Intendendo noi tal cosa rimanemmo tutti vergognosi, disse allora el nostro Turcimano, non habbiate vergogna che questa e usanza dela Terra. Udendo poi questo disse el mio compagno, Non ci facciano altro male, che de questo noi ce contentaremo pure pensavamo de essere delegiati: El mercadante ce cognobbe star cosisuspesi, disse. O sangalli maranconi aille ochamane zaririchenu, cioe. O amici non habbiate melanconia che tutta questa terra usa cosi. Cognoscendo al fine noi che cosi era costume de tutta questa terra, si come ce affirmava uno, el quale era in nostra compagnia, e ne diceva, che non havessimo paura: el mio compagno disse al mercadante, che era contento de durar questa fatiga: allora el mercadante disse. Io voglio che stiate in casa mia, e che voi e li compagni e robbe vostre allogiate qui con meco fino a tanto che menaro la donna. Finalmente dapoi il recusar nostro per le tante carezze che ce faceva costui fussemo astretti V che eramo insieme con tutte le cose nostre alloggiare in casa sua. Da li a XV giorni questo mercadante meno la sposa, e el compagno mio la prima notte dormitte con essa, laqual era una fanciulla de XV anni, servite el mercadante de quanto gli haveva richiesto: ma dapoi la prima notte era periculo della vita se ce fusse tornato piu: ben e vero che le donne hariano voluto che la prima notte havesse durata un mese: li mercadanti poi che tal servitio da alcuno de noi haveano receputo volentieri ce haveriano tenuti III e V mesi a spese loro, perche la robba val pochi dinari, anchoraperche sono liberalissimi, e molto piacevoli huomini.

Credo di aver dato una sufficiente idea del tipo di narrazione di De Varthema e di come ha vissuto le sue esperienze. Il tono e i ritmi rimangono gli stessi quando descrive la traversata di un deserto, l’incontro con città, popoli e costumi diversi, i suoi stratagemmi di sopravvivenza. Si sente che la vicenda è ricostruita a posteriori, non sulla base di appunti scritti ma sulla sola memoria, che presenta buchi evidenti: ma tutto questo non rende affatto meno credibile il racconto. Quanto al nostro tema specifico, quello dell’erotismo, è trattato secondo uno schema quasi fisso. Da un lato c’è la presunzione di una superiore perizia amatoria degli europei, che assieme al colore della pelle conferisce loro un irresistibile fascino: “ben e vero che le donne hariano voluto che la prima notte havesse durata un mese”. Dall’altro ci sono femmine orientali passionali e disinibite, e maschi molto piacevoli uomini ed estremamente compiacenti e generosi. Gli orientali non sono comunque per lui dei barbari: sono figli di una cultura diversa, e con l’eccezione delle prestazioni sessuali sono né più né meno come gli europei.

Per completezza riassumo in poche righe gli ultimi anni della permanenza di De Varthema nel lontano Oriente, che sono se possibile ancor più avventurosi dei primi, ma nei quali entrano in gioco altre motivazioni. Lasciata la Malacca Ludovico riguadagna la costa del Coromandel, doppia nuovamente il capo Cormorin e risale sino a Calicut, Qui ai primi di dicembre del 1505 le sue sorti si incrociano con quelle di una flotta portoghese inviata ad imporre un “protettorato” sui piccoli potentati costieri. Abbandonato il mercante persiano col quale si accompagnava da tre anni, raggiunge praticamente a nuoto le navi europee e si mette al servizio dell’ammiraglio. Le sue informazioni prima e le sue capacità di combattente poi risultano preziose per i lusitani, che riescono a sconfiggere la flotta dello Zamorin locale e compensano l’avventuriero con la nomina a cavaliere e con l’incarico di dirigere una grande fattoria per la produzione delle spezie.

Viaggi, sesso e fantasia 09Alla fine del 1507 però De Varthema giudica che la sua assenza dall’Europa si sia protratta sin troppo. Si imbarca per tornare al Mediterraneo doppiando il Capo di Buona Speranza, quindi costeggia l’Africa orientale e fa scalo nell’odierno Kenya e in Mozambico. Una volta entrato nell’Atlantico il natante su cui viaggia è sballottato da furiose tempeste, che lo spingono fino all’altezza delle isole di Sant’Elena e di Ascensione; poi tocca le Azzorre e approda finalmente alla metà dell’anno successivo a Lisbona. Qui l’italiano viene accolto a corte con tutti gli onori, prima di intraprendere l’ultima tappa che lo riporta a Roma.

Anche in patria è caricato di riconoscimenti. Il papa stesso (è Giulio II, il papa guerriero) lo insignisce di un titolo nobiliare, e lo sollecita a scrivere e pubblicare nel 1510 l’Itinerario, che conosce immediatamente una enorme fortuna (verrà tradotto in decine di lingue). Varthema non si gode a lungo però la celebrità: muore nel 1517 (o perlomeno, in quell’anno risulta già morto), a meno di cinquant’anni, dopo essere sopravvissuto agli scontri con i predoni nei deserti dell’Hijiaz, alle prigioni orientali, alla caccia ai cristiani nel Deccan, alla battaglia navale di Cannanore contro lo Zamorin, ai fortunali dell’oceano. Evidentemente la vita tranquilla e monotona dell’Urbe non gli si addiceva. Oppure gli anni trascorsi in oriente gli sono stati conteggiati tripli dal fato.

L’eccezionalità della vicenda di De Varthema sta prima di tutto nelle date. Il suo viaggio ha inizio solo due anni dopo l’apertura della rotta per l’India da parte di Vasco Da Gama, nello stesso anno in cui Cabral scopre il Brasile, e si compie prima ancora che Balboa riconosca il Pacifico e Magellano porti a compimento la prima circumnavigazione del globo. E questi sono i nomi che ricordiamo. Ma evidentemente assieme a loro si muoveva tutta una turba di avventurieri o di disperati, in fuga o in cerca di opportunità, per motivi economici o religiosi o anche semplicemente, come il nostro, per voglia di cambiare aria e vedere come si respirava all’altro capo del mondo. Tra i meriti dell’Itinerario c’è anche quello di farceli intravvedere, dispersi nei luoghi più sperduti e impantanati nelle situazioni più improbabili, tanto da indurre a pensare che almeno per la via di terra dai tempi di Marco Polo e di Guglielmo di Rubruk i rapporti con l’Oriente non fossero mai cessati.

Nell’Itinerario c’è naturalmente molto altro, cui non ho fatto cenno perché non rientrava nell’assunto di queste pagine: ma ciascuno potrà scoprirlo con proprio comodo, perché dell’opera sono state fatte ultimamente addirittura due edizioni.

3. Il secondo protagonista della nostra storia, Pietro Della Valle, è di altro lignaggio rispetto a De Varthema. Appartiene ad una famiglia di antica nobiltà, è figlio unico, è molto versato nelle lingue classiche e a vent’anni ha già conosciuto la notorietà come musicista e compositore. Ma ha un debole: s’innamora facilmente e si fa trasportare dalla passione. Così, quando la giovane di cui si è innamorato va sposa ad un altro, anziché accoltellarla come farebbe oggi molla tutto, lascia Roma dov’era nato e dove la sua famiglia era potente. Vive per qualche tempo a Napoli e qui matura qualche esperienza militare, combattendo contro i barbareschi: ma si dà da fare anche sul piano sentimentale, se è vero quanto racconta ad un certo punto: “anche in Italia ho generato figliuoli prima di aver moglie … Quanto alla prima volta che io generai in tempo che beveva l’acqua …. E di un altro figliuolo che mi nacque poi un’altra volta già in tempo che io beveva l’acqua di anni prima, dicono che per essere stato generato in quell’abbondanza di umor freddo e umido, per questo non visse, se non pochi giorni, e morì di catarro.” È l’unico accenno che fa a queste circostanze.

Infine, a metà del 1614, parte da Venezia diretto in Oriente. Destinazione ufficiale, i Luoghi Santi. Che non si tratti semplicemente di un pellegrinaggio devozionale o espiatorio lo dicono però le modalità stesse con le quali organizza i suoi spostamenti.

Viaggia infatti in condizioni molto diverse da quelle di de Varthema: è accompagnato da tre servitori (in alcune biografie si parla anche di un pittore, ma nelle Lettere non è mai menzionato esplicitamente), dispone di mezzi pressoché illimitati, può esibire credenziali tali da farsi accogliere ovunque nei palazzi del potere, si porta appresso un bagaglio che nemmeno le pop star odierne. Anche quando affronta luoghi selvaggi, lontani dalle città, più che un pellegrino sembra un crocerista pieno di esigenze e di capricci: “La provvisione la facemmo per un mese, chè tanto appunto pensavamo di trattenerci, e la portammo un poco avvantaggiata per poterne dare a quelli che trovavamo per la via,. Non volli per noi provvisione di quelle carni salate, nè di legumi grossi, o d’altre porcheriacce che conferiscono poco alla sanità, alla quale io bado molto più che al gusto nel mangiare; ma, invece di queste cose, feci portare buone gabbie piene di polli vivi, come è mio solito, e quantità di farri e di risi … Avevamo anche i nostri ordigni da cucina, ed ogni sera, dove ci si faceva notte, piantata la tenda e fatto fuoco con qualche sterpo che per la via trovavamo, facevamo da mangiare e stavamo allegramente. Sotto la tenda poi, cenato che si era a lumi di candele, ci mettevamo a dormire, avendo ognuno di noi altri il suo materassetto con buone coperte che tenevano caldo, ma io ci volli ancora i lenzuoli e spogliarmici e mutarmici ogni sera, e mi dolse molto che non ci aveva ancora lo scaldaletto che mi era uscito di mente di farlo portare … ma un’altra volta non me lo dimenticherò più certo, e con buona provvisione di carboni piccoli solo a quell’effetto. Tuttavia non mi mancò mai la camicia calda e i panni quando la mattina mi vestiva, con l’acqua calda da lavare il viso, che di fuochi mattina e sera ne faceva fare in abbondanza. Gli Arabi dei camelli alle volte non avrebbono voluto che si fosse fatto fuoco, perchè temevano che di lontano non fosse veduto, e che non fosse venuto a quello gente, com’essi dicono, di malaffare …. Me ne fecero pregar più volte dal capigì, ma io rispondeva, che fuoco voleva in ogni modo, e che gli Arabi venissero pur allegramente…”. Porta inoltre con sé una dotazione per la scrittura che gli consentirà di redigere per anni un diario giornaliero, di prendere dettagliatissimi appunti e di riversare poi il tutto in chilometriche lettere, che invia al suo amico napoletano Mario Schipano e che una volta raccolte costituiranno il corpo dei suoi Viaggi.

Viaggi, sesso e fantasia 10

Non conosce la fretta. Costeggia la Grecia fino alle rive dell’Ellesponto, facendo ripetuti scali nelle isole dell’Egeo, e individua poi un sito di rovine che potrebbe essere quello di Troia. Di lì si sposta a Costantinopoli, dove si trova talmente bene da prolungare il suo soggiorno per oltre un anno. Non si dirige poi immediatamente in Palestina, ma la prende larga, approdando prima ad Alessandria e scendendo quindi lungo il Nilo sino al Cairo. Un’altra lunga sosta, per risalire poi via terra sino al Sinai e di qui a Gerusalemme.

In tutti questi luoghi, segnatamente a Costantinopoli e al Cairo, e in seguito a Bagdad, a Teheran e ad Isfahan, volge una intensissima attività di relazioni e di studio. Nelle missive, spedite quando possibile con una certa regolarità e articolate sempre con lo stesso schema, per temi, descrive luoghi, monumenti, costumi, tradizioni, ponendo particolare attenzione agli intrighi delle piccole e grandi corti locali e cercando di orientarsi nei labirinti dinastici e nei complessi meccanismi di potere orientali. Non risulta avere avuto alcun incarico speciale, ma guarda e racconta come fosse una spia inviata a scoprire i segreti del potere musulmano. “In quei pochi giorni che ci fermammo in Rodi, vidi di quel luogo quanto si poteva vedere, e feci quello che non ha fatto mai, nè potrà far cristiano alcuno in quella fortezza; cioè girai più volte le muraglie dentro e fuori, entrai nei fossi, nelle casematte ed in ogni parte, ricercandole, osservandole minutamente; vidi tutte le artiglierie ad una ad una, ne presi misura di alcune, mi feci dir quanto portavano, volli veder le misure de’ carichi, entrai dove tengono le munizioni, salii sopra il castello fino in cima e lo girai tutto”. Più avanti si auto-convincerà di essere l’uomo giusto per gettare le basi di un’alleanza trasversale in funzione anti-islamica, che coinvolga i Persiani e i Cosacchi, e solleciterà ripetutamente una qualche investitura semi-ufficiale che gli arrivi da Roma. Salvo poi rendersi conto che con l’avvento degli europei i giochi in Oriente sono completamente cambiati.

Comunque, corregge puntigliosamente le informazioni sui territori che attraversa, spesso ancora risalenti agli autori classici, e ogni volta che le riscontra errate o approssimative o superate dal tempo (vale a dire, quasi sempre), si compiace visibilmente di rimettere a posto le cose: “Le sette bocche del Nilo che si dicono e che c’erano anticamente, secondo Strabone, e tutti gli altri scrittori de’ tempi passati, oggidì io non le ritrovo, perchè due sole, che son le sopraddette, ve ne sono navigabili”.

Si dedica intensamente anche ad altre attività, volte ad accrescere in ogni campo la conoscenza. Al Cairo, ad esempio, acquista alcune mummie e a Costantinopoli acquisisce diversi documenti di valore storico, tutti materiali da inviare a Roma assieme alle lettere. Non solo: raccoglie le sementi di specie rare o sconosciute in Europa: “Ho gran desiderio di portare in Italia qualche cosa di nuovo; perchè è debito d’ognuno di arricchir la patria, quando può, delle bellezze straniere. Tra le altre cose, credo che di fiori mi sarebbe facile a trovar cose nuove, perchè qui ve ne sono molti, e se ne fa gran professione: ma io, come quegli che non so niente del mestiere, non sono informato quali in Italia vi siano e quali no”. Ed è lui a descrivere per primo e a introdurre poi concretamente in Europa il gatto d’angora.

Viaggi, sesso e fantasia 11Ha già contratto peraltro tutte le cattive abitudini del turista moderno: “Non ebbi men gusto a veder la piramide di fuori, perchè salii con qualche poco di fatica fino in cima dove si gode una bellissima vista, scoprendosi il mare e l’Egitto con molto paese attorno. Là su nel più alto, in quella parte che guarda verso Italia, mi presi piacere di lasciarvi intagliato il nome mio, con quello di qualche altra persona a cui io non voglio male”.

Ma anche quelle del saccheggiatore “orientalista”: “Di questa mummia spezzata, volli per me la testa tutta intera … Volli ancora, e la trovai nella medesima tomba,una testa di donna fatta di tela incollata molto grossa, concava dentro, e di fuori indorata il viso e il collo, con le ciglia d’ebano o d’altro simil legno nero ivi incastrate, e lavorato tutto il resto di pittura e d’oro, massimamente nel petto e nelle spalle, molto curiosamente, con diverse figurine d’idoli egizii, di altari, di caratteri edi altri geroglifici misteriosi … E Presi ancora un idoletto di creta cotta, che stava là per terra fra l’arena,ed era una testa del bue Api …”.

Viaggi, sesso e fantasia 12Nel frattempo cura comunque le proprie malinconie amorose. Già durante la prima traversata ha la prova che il viaggio rappresenta un’ottima terapia. “… mi trattenni in Scio nove o dieci giorni, col maggior gusto che abbia avuto mai in vita mia … Non si fa mai altro che cantare, ballare e stare in conversazione con le donne, e non solo il giorno, ma la notte ancora sino a quattro e cinque ore per le strade; che io mai a’ miei dì non ho provato vita più allegra; ed in quanto a me, v’impazziva di gusto. Io col mezzo degli amici e della lingua, che mi aiutava assai, presi in un tratto domestichezza grande; e già trovava innamorate e trattenimenti quanti ne voleva; e le donne veramente son belle, ed avvenenti assai”.

La sua attenzione per le donne non è inferiore a quella per le rovine e per i documenti. Al Cairo rimane abbagliato da una bellezza etiope, “nera come un carbone ma bella di fattezze al possibile” e la fa ritrarre (dal fantomatico pittore che dovrebbe accompagnarlo?) Quando si tratta di ragazze non ha pregiudizi riguardo al colore della pelle: anzi, sembra particolarmente attratto da quelle colorate: “L’altro ritratto è di una dama nata nella Mekka, ma di razza indiana, come io credo, ed è d’un colore giallo, come quello del grano; ma graziosissima, e di una carnagione la più dilicata che io mai abbia veduto in vita mia”.

Non sempre però l’impressione è quella: “Non ho veduto paese, dove tanto gli uomini quanto le donne tengano manco conto di mostrar le vergogne che in quieto. Stanno mezzo nudi, o tutti per dir meglio: la gente passa e guarda, e non se ne curano niente. E ben vero che queste contadine hanno carni bruttissime, sporche ed annerite dai continui soli, in guisa che piuttosto muovono stomaco che tentazione di concupiscenza”.

E non frequenta solo ambienti altolocati: “Delle donne ancora non posso lasciar di dire che se ne veggono di belle, e non solo delle bianche, fra le quali tuttavia corre voce che ci sia non poca infezion di mal francese, avendone i nostri Veneziani, come si dice, sparso qui copiosa mercanzia: ma delle Etiopesse ancora e brune e nere ce ne son di belle assai, e con fama di più pulite; come quelle che per lo colore dai nostri Europei non vengon tanto manomesse”.

Oppure: “Le cenghì sono una mano di donne ballatrici e tutte amiche mie, che questo carnevale spessissimo hanno anche favorito la mia casa, dove coll’autorità del capigì che tengo al mio servizio, si gode pubblicamente libertà di molte cose. Queste cenghì del Cairo sono diversissime da quelle di Costantinopoli, e procede per avventura dalla caldezza del paese che è maggiore, onde qui son più proclivi al male; insomma i balli loro non consistono in altro che in movimenti di vita, fatti in terra sopra un tappeto in diverse foggie e diverse positure, tutti rappresentanti atti osceni, ma cento volte più sfacciati che quelli delle ciaccone e saravandespagnuole”. Il che lo rivela piuttosto esperto nella materia.

A Costantinopoli bazzica il gran Bazar e le passeggiate lungo il Bosforo: “Noialtri vi andiamo spesso per veder delle dame turche, che a stuolo vi passeggiano, o per comprare, o, come io credo, piuttosto per esser vedute, quanto comportano i veli che ricuoprono loro la faccia, i quali però non celano sempre gli occhi, né impediscono affatto che, a chi vogliono, non si possano far conoscere. Vanno esse tese e dritte come pali, con le mani messe, per nasconderle, in certe fessure della veste esteriore che hanno dinanzi, a guisa de’nostri borsellini, e con le braccia inarcate in fuori, che paiono tanti manichi di orcioletti. Quando incontrano alcuno di noi altri stranieri, con cui sanno di potere usar più libertà, quasi che la folla a ciò far le costringa, ci danno degli urtoni col gomito: noi se son belle, facciamo altrettanto, e si ride: non si manca di dir talvolta delle parolette, e di fare altre frascherie, e così bel bello si va facendo delle amicizie”.

E ancora: “Non c’è altro spasso che stare a sedere in qualche strada di passo sopra un banco di bottega, menando le gambe, che in Turchia è cosa civile, e veder passare una mano di femmine che vanno, chi al bagno, e chi per altri fatti loro. Noi non manchiamo di dir loro in passando delle parolette amorose, verbi grazia, Iasitti, iaruhi, iaaini, iacalbi, taàli; ed esse, se sono cortesi, come avviene per lo più, si cacciano a ridere, e fanno con noi un poco di gatte filippe, come si dice in Napoli: ma, se talvolta si abbatte in alcuna dispettosa e di mala grazia, che pur per tutto se ne trovano, si piglia collera, ci sgrida, ci bestemmia in sua lingua e fa mille altre smorfie rabbiose”.

Viaggi, sesso e fantasia 13La confidenza cresce rapidamente, e la resistenza alle tentazioni è debole: “Qualche dama turca mi viene a visitare: e mi pregano che lasci crescere la barba all’usanza loro, e dicono che io sarei più bello assai; che cosi è veramente secondo il gusto loro: ma, insomma, io non mi ci posso accomodare, che mi pare una sporcheria, e dico loro burlando, che da questo, e dal tagliar la pellecchia in poi, del resto le servirò in ciò che vorranno. Tomasello ci si è accomodato, ed è per questo tanto accetto alle femmine, che tutto il dì ne trova perle strade che gli toccano la barba e gli fanno carezze alle guance, dicendo, ghiuzèl, ghiuzèl, cioè, bello, bello”. Anche Della Valle in realtà non tarda a cedere: si lascia credere la barba, per adeguarsi totalmente al costume locale, e la taglierà soltanto dopo l’ingresso in Persia.

Nell’isola di Kos (o Coo), davanti alla costa anatolica, “non mi maravigliai di quel che aveva inteso, che le donne di Coo siano, non mcn che belle, dedite ai piaceri amorosi”. Si trova talmente bene che quando riparte accorrono a salutarlo “un gran numero di donne, fra le quali molte giovani e belle”, e si capisce perché durante la sosta successiva a Rodi “voleva tornare con un caicco a dar un’altra vista in Coo alle mie chirazze, ed a fare i servigi di madonna Caterina”.

E più tardi, a Gaza: “Ebbi, andandovi, un buonissimo incontro, perchè vi trovai le donne e mogli del bascià che erano una truppa di più di venticinque o trenta, ed esse ancora andavano a spasso, e, come in quelle strade non vi era gente, andai ragionando e dicendo galanterie con loro un gran pezzo, perchè, parlando io loro in turco, che è quanto a dire in lingua cortigiana (poichè quella del paese è araba), avevano esse gran gusto, come appunto sarebbero in Napoli le dame di Spagna trovandosi con stranieri che parlassero loro spagnuolo”.

Quello della lingua è un suo chiodo fisso. Fa lunghissime digressioni sulle etimologie, sulle trascritture e sulle pronunce corrette, e ha delle priorità per quanto ne concerne l’uso: “Io poi attendo al solito alla lingua turca, e questa mattina è stata appunto la quarantesima seconda lezione, che di tutte ne tengo conto. In quanto al parlare ordinario, con le dame già mi fo intendere”.

Nei primi due anni, quanto a “turismo sessuale”, il nostro pellegrino non si fa mancare davvero nulla.

Viaggi, sesso e fantasia 14

Le cose cominciano a cambiare quando arriva nei luoghi santi e si addentra poi nel Medio Oriente. Le priorità diventano altre. All’inizio del percorso che dal Cairo lo porta a Gerusalemme sale il monte Sinai (a Natale, in mezzo a una bufera di neve, quasi una prima invernale), poi tira dritto sino ad Aleppo. Di lì passa a Gerusalemme, e di donne a questo punto non si parla più. Ci sono da riconoscere e raccontare, possibilmente correggendo le narrazioni precedenti, i luoghi della devozione.

Ma non si ferma a lungo. Gerusalemme oltre al profumo di sacralità offre ben poco. Pagato il tributo devozionale prosegue dunque il viaggio attraversando il deserto siriaco ed entrando in Mesopotamia, dove nuovamente trova meraviglie, comprese tavolette di scrittura cuneiforme che si affretta a spedire a Roma. Trova anche, però, qualcos’altro. A Baghdad conosce una giovane cristiana diciottenne di origini siriane, Sitti Maani, e se ne invaghisce subito: anzi, ne era già invaghito prima di vederla, perché ne aveva sentito decantare le lodi da una occasionale guida  “Molto prima che io entrassi nella Babilonia, era già arrivata a me la fama di lei. Un nuovo, che veniva meco in quel viaggio, appena uscito d’Aleppo, quando per riposar dal cammino, passavamo le ore oziose e più calde del giorno sotto al padiglione, per modo di trattenermi con vari ragionamenti, e con raccontarmi diverse cose, mi cominciò a dar contezza di questa signora, della quale egli aveva piena notizia. E più volte si stese tanto con me in lodarla ed in rappresentarmi con affetto la eccellenza delle qualità, non men dell’animo che del corpo di lei, delle quali egli, con disuguale ed infelice sorte era troppo pazzamente ammiratore, che io, dal primo per pigliarmi gusto di lui, lo faceva ragionare spesso di questo, tirandolo a bella posta con arte in tal proposito.” Naturalmente alla lunga è lui a perdere la testa. “Non era ancora giunto all’Eufrate, quando l’animo mio, secondo il solito impaziente ed impetuoso negli affetti, già bolliva. Non vedeva l’ora di attraversar la Mesopotamia, di arrivare al Tigri e di andare a pascer gli occhi di quel che immaginava dover a loro piacere”. Quando ciò avviene, vede confermate tutte le sue più ardite fantasie.

Viaggi, sesso e fantasia 15Pieno d’entusiasmo, confida al suo corrispondente: “Le dirò che è Assira di nazione, di sangue di Cristiani antichissimi, d’età d’anni diciotto in circa, e dotata, oltre le altre buone qualità (che quelle dell’animo io certo stimo non ordinarie), anche nel corpo di bellezza conveniente, per non esagerarla: che agli sposi invero non par che stia bene di esagerar la bellezza delle spose loro, ma se io non fossi tale, parlerei forse di lei altramente. Però la sua bellezza è all’usanza di questi paesi: cioè, color vivace, e che agli Italiani parerà che tiri piuttosto alquanto al brunetto che al bianco: capelli che tirano al nero, e così le ciglia, inarcate non senza grazia, e le palpebre, che lunghe, ed all’usanza di Oriente, ornate con lo stibio fanno ombra insieme opaca e maestosa. Gli occhi gli ha pur del medesimo colore, e per lume, allegri e brillanti; ma ne’ moti, per modestia, gravi; la vita per donna, nè grande, nè piccola, però nella sua statura molto ben proporzionata in tutte le parti; accompagnata poi da agilità, da portamento nobile, grazia nel parlare e nel ridere, denti minuti e bianchissimi, e simili altre circostanze che a me sogliono piacere”.

Risultato: la sposa subito, vincendo le resistenze del padre di lei, e si ritrova accanto una impavida compagna di avventura: “Io godo di vederla di questo umore, perchè avendo da far la vita che io fo, se avessi per moglie una dama melindrosa, come dicono gli spagnuoli, ed inclinata agli aghi, ai fusi come quelle d’Europa, mi sarebbe di grandissimo fastidio ed impaccio. Ella non me ne dà punto, anzi me ne dà solamente con sollecitarmi troppo come fa alle volte agli incomodi, e privar se stessa e me di mille comodità che potremmo godere in pace. Del mangiare e del bere basta che io dica che è molto simile a me. Sereno, caldi e freddi non teme: ama più di alloggiare in campagna sotto tende, che in luoghi murati. Non si cura di letti morbidi, e bene spesso mi serra i lenzuoli nelle casse, acciocchè io non mi spogli e mi levi più a buon’ora. È la prima a levarsi, la prima a sgridar me e gli altri di pigrizia, ed in fine ètale qual appunto conviene e per i viaggi e per la guerra. A cavallo poi marcia in abito, se non succinto, almen raccolto e con le gambe da uomo, che così si usa in Oriente, armata bene spesso a guisa di Amazzone, e corre e galoppa, seguitandomi per monti e per valli; dice che questa è la vera vita, e che star nelle città o serrata fra quattro mura, come per lo più fanno in questi paesi, o come le ho detto io che si fa nelle parti nostre, passeggiando per le strade e vedendo solo botteghe e gente veduta altre volte, che è cosa infelice”.

Viaggi, sesso e fantasia 16Da quel sciupafemmine che era (o che si professava, perché in effetti dal ritratto rimasto non sembra un gran bell’uomo), il nostro Pietro si trasforma dunque in un adorante marito, che è persino geloso della signora Maani e scrive per lei una corona di trentasei sonetti. In realtà Maani è sì piena di virtù, ma ha anche un caratterino tutt’altro che facile. Ha un alto concetto delle proprie origini e della dignità aggiuntiva di moglie di un nobile occidentale, ciò che la rende spesso capricciosa: provoca una rissa per essere stata sfiorata involontariamente da un uomo; quando Pietro si taglia la barba gli tiene il broncio per un mese: “Però la signora Maani, quando mi vide in quella guisa (che lo feci senza essa saperlo) si ebbe a disperare, e non poteva soffrire che io mi fossi levato la maggior bellezza che avessi, a detto suo. Ebbi che fare a placarla”. Poi comincia ad essere assillata dalla paura che non arrivino figli, e vuol costringere il marito, da sempre astemio, a bere vino per aggiustarsi il sangue. Ma tutto questo viene raccontato da Pietro come divertente bizzarria: ciò che lo preoccupa ora è preparare i suoi e l’ambiente romano ad accettare questa donna. Pertanto si dilunga nelle lettere a decantarne le virtù, anticipando possibili opportunità derivanti dal suo inserimento e contando sul fatto che il suo corrispondente ne divulgherà i contenuti: “Potrebbe V. S. passeggiando con la signora Maani in qualche giardino, mostrarle le erbe ad una ad una e sentirne il vero nome con vera pronunzia, che questo è il modo da far progresso nelle lingue straniere”.

Comincia pertanto a pensare seriamente al ritorno: vuole rientrare in Italia, “per mostrar quelle delizie alla mia signora Maani, e darle agio di ricever favori da quelle dame, che V. S. mi scrive che la desiderano.” Insomma, è anche impaziente di mostrare ai romani la sua bellissima conquista. E poi c’è una felice novità: “Essendosi la signora Maani scoperta gravida, dopo aver ciò desiderato lungamente invano per lo spazio di cinque anni addietro, ed assicurati già bene della gravidanza col sensibil moto della creatura nel ventre, tra l’allegrezza di questo e del viaggio intrapreso verso la patria, non ci pareva aver più che desiderare. Nuotavamo perciò tutti in un mar d’allegrezza, e passavamo di continuo il tempo fra di noi in buona conversazione, ridendo e scherzando col maggior giubilo del mondo”.

Viaggi, sesso e fantasia 17Tutti questi progetti sono purtroppo destinati a naufragare. Quando decide di indirizzarsi al porto di Hormuz, da dove dovrebbe iniziare il viaggio di ritorno, Pietro viene a trovarsi nel bel mezzo del conflitto scoppiato tra i Portoghesi e i Persiani (che hanno l’appoggio degli inglesi) per il possesso della città. Lui, la sua sposa e tutta la comitiva che viaggia con loro rimangono intrappolati per mesi in una zona malarica, e uno dopo l’altro cadono malati. La sorte peggiore è proprio quella di Maani, che verso alla fine di dicembre del 1521 ha un aborto spontaneo e muore pochi giorni dopo.

Da questo punto in poi riassumo succintamente le ulteriori peripezie di Pietro Della Valle, perché non hanno più rapporto con gli aspetti che volevo indagare. In preda alla disperazione, Pietro fa rozzamente imbalsamare il corpo della moglie, che viene chiuso in una cassa e lo seguirà per tutto il resto del viaggio, ovvero per i successivi quattro anni. Per conservare le amate spoglie e sottrarle sia al sospetto delle autorità, di volta in volta persiane, arabe, indiane e turche, che alla superstizione dei marinai, dovrà inventare infiniti stratagemmi. Ma è determinato a non seppellire la moglie in terra di infedeli, e ci riuscirà. Con questa disgrazia, comunque, cade la motivazione più forte a rientrare immediatamente. L’unica rotta rimasta aperta, anche dopo la fine del conflitto tra i portoghesi e i persiani, è quella per l’India, e là Pietro si dirige. Si reinventa uno scopo, vuol conoscere il modo di vivere degli abitanti e soprattutto le diverse manifestazioni del politeismo induista.

A questa ricerca dedica altri due anni. Sbarca a Surat e scende poi a Goa. Di lì ripercorre tutta la costa nord-occidentale, addentrandosi anche nella zona del Gujarat e spingendosi lungo le coste afgane. Come sempre si muove con molta lentezza, e dà finalmente inizio al vero viaggio di ritorno agli inizi del 1525, imbarcandosi a Muscat, nell’Oman, risalendo tutto il golfo persico e procedendo poi via terra a partire da Bassora. Attraversa quindi una immensa zona desertica, nella quale deve vedersela sia coi predoni che, e ancor più, con i vari funzionari locali del potere ottomano, che fanno a gara nel taglieggiarlo. Si ferma ancora brevemente ad Aleppo e arriva sulle coste del Mediterraneo, ad Alessandretta, solo alla fine dell’anno: di lì passa a Cipro e poi a Napoli, dove incontra il suo corrispondente Schipani. Finalmente il 28 marzo 1526 è a Roma.

È l’unico componente rimasto della spedizione partita da Venezia dodici anni prima. Ho tralasciato infatti di dire, tra le moltissime altre cose, che nel frattempo uno dei servitori è stato ucciso dall’altro per motivi poco chiari, che quest’ultimo è stato rimpatriato alla chetichella per sottrarlo alla giustizia ottomana, che le varie guide e gli interpreti assunti nel corso del viaggio si sono sfilati uno ad uno. Con lui ci sono ora due donne, Batoni Mariam Tinatin, rinominata Mariuccia, una ragazzina georgiana che Maani aveva preso sotto la sua protezione, ed Eugenia, una giovane indiana di Scilan, oltre a un frate, già vicario generale in Armenia, e a quattro nuovi servitori reclutati durante la seconda parte del viaggio.

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La storia di Pietro Della Valle non si conclude qui. Al momento dell’arrivo le sue peripezie sono già famose, e ancor più lo saranno quando, dopo aver recuperato le cinquantasette lettere scritte a Schipani, pubblica il primo volume dei suoi viaggi (un secondo volume sarà curato postumo dai figli). Riesce a far parlare di sé anche per altri motivi. Intanto dà finalmente sepoltura alla salma della moglie con una teatrale cerimonia; poi, tra il mormorio scandalizzato della Roma-bene sposa la giovane Mariuccia, la ragazza che lo aveva accompagnato per buona parte del viaggio e che gli darà quattordici figli; infine ferisce a morte per futili motivi un domestico della famiglia Barberini, praticamente sotto gli occhi del papa, cavandosela comunque a buon mercato con un paio d’anni d’esilio. Nel contempo si occupa di magia e di astrologia, traduce i codici riportati dal viaggio e altri antichi testi persiani, approfondendo i suoi interessi per la linguistica, scrive libretti per composizioni musicali, compone brani per strumenti da lui stesso inventati, Persevera anche nel suo personalissimo progetto politico di alleanza con la Persia, senza trovare in realtà alcun uditorio. Vuol continuare ad essere a suo modo un protagonista anche in patria.

Insomma. Che personaggio è Pietro Della Valle, e perché ho raccontato di lui? Non certamente per quell’empatia che ha motivato quasi tutte le altre mie mini-biografie: piuttosto per sfruttare l’effetto di contrasto col protagonista precedente. Della Valle non è affatto simpatico. È vanaglorioso, teatrale, affetto da una costante mania di protagonismo. In alcune circostanze si mostra anche freddo e cinico: “Demitrio Chidoni maltese, orefice, che ho trovato qui e l’ho preso in questo viaggio, ed in ogni altra occasione per interprete della lingua araba in luogo di quello della lingua turca, che mi morì in Alessandria; il quale però fece bene a morire, perchè in ogni modo d’interprete turco nè io oramai ho molto bisogno, nè in questi paesi mi poteva servire, perchè la lingua araba e non la turca è necessaria”. O ancora, per un altro compagno: “La morte di quest’uomo non mi alterò molto, perchè era preveduta, e poi era avvezzo in Costantinopoli a vederne morir due e tremila al giorno, e molti intorno intorno alla mia camera, sani e gagliardi di peste in ventiquattro ore, ed in manco tal volta, sì che non mi era cosa nuova la morte d’un infermo di più mesi”. La vicenda stessa della salma di Maani può essere letta ad un certo punto come una questione di puntiglio, piuttosto che di amore eterno. Una volta a Roma, infatti, apre la cassa e sfascia la mummia, sperando si sia conservata intatta, e di poter quindi mostrare al pubblico il suo splendido trofeo; salvo poi richiudere subito inorridito per lo sfacelo.

Ne ho scritto dunque perché anche nella prima parte del racconto, dove si mostra più disinibito e farfallone, si avverte rispetto alla immediatezza rozza ma autentica di De Varthema qualcosa di forzato, di insincero. È difficile trovare personaggi tanto diversi, pur se animati da una stessa curiosità: perché la declinano in maniera opposta. De Varthema si butta nell’avventura senza uno scopo reale, per provarne il sapore, e la vive poi sino in fondo tirando a sopravvivere. A raccontarla ci penserà solo dopo, dietro le pressioni dei suoi contemporanei. Della Valle è già nell’ordine d’idee del viaggiatore moderno e contemporaneo: si viaggia per raccontarlo, per mostrare le foto agli amici, per spuntare le mete sul taccuino. A dispetto di tutte le sue dichiarazioni, e magari anche della buona fede, con lui il viaggio alla Ulisse, intrapreso “per seguir virtute e canoscenza”, è finito. E anche per quanto concerne il nostro tema, dietro l’insistenza nel chiedere che le lettere siano rese pubbliche e fatte conoscere soprattutto a Roma c’è una offesa e neppure troppo celata volontà di rivincita nei confronti della donna che lo aveva ingannato e dell’ambiente che aveva probabilmente riso di lui,

Il rapporto che ha De Varthema col sesso è ancora quello di Boccaccio; quello di Della Valle è già nell’ottica del Don Giovanni, del collezionista (nella fattispecie, anche di ossa). Prelude a Les Liasons dangereuses, alle Memorie di Casanova, alle lettere italiane di Byron e ai racconti che sessant’anni fa ci facevano gli amici che erano stati in Svezia (o magari solo a Rimini). De Varthema è ciò che avremmo voluto essere, Della Valle ciò che siamo diventati.

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A conclusione di questa lunga e faticosa cavalcata mi riservo una riflessione sulle modalità con le quali è stato composto questo pezzo. Per sentirmi autorizzato a scriverlo mi sono sorbito la lettura di poco meno di tremila pagine. L’ho fatto però a modo mio, applicando un metodo collaudato. Quando ho avuto ben chiaro cosa stavo cercando ho attivato dei sensori mentali allertati su alcuni termini, su certi nomi, su immagini che rimandassero a particolari concetti o argomenti. Né più né meno quello che accade con gli algoritmi usati per le intercettazioni. Facendo scorrere le pagine sul monitor (il testo di Della Valle l’ho trovato solo on line, di quello di De Varthema possiedo due edizioni, ma per questo tipo di operazione è più adatta la lettura digitale) i sensori individuavano a colpo d’occhio la presenza o meno di ciò che mi interessava. Nel caso di Della Valle l’operazione era per fortuna semplificata dal fatto il viaggiatore ha redatto le sue lettere seguendo sempre lo stesso ordine e gli stessi criteri: descrizione degli spostamenti, dei luoghi raggiunti, delle architetture, dei caratteri fisici degli abitanti, delle loro attività economiche, dei costumi, delle tradizioni, delle forme di potere e del modo in cui questo era esercitato. Quindi narrazione degli avvenimenti storici significativi, da quelli più remoti a quelli recenti, degli intrighi, dei pettegolezzi, ecc … In questo modo mi è stato possibile saltare a piè pari interi blocchi di pagine, quando capivo dove stava andando a parare l’autore, perdendomi senz’altro qualcosa ma mantenendo focalizzata l’attenzione sull’aspetto che mi importava. È un metodo tutt’altro che ortodosso, buono per compilatori mercenari di tesi di laurea e non certo per ricercatori storici seri, ma ai fini di lavori di questo genere funziona egregiamente.

Piuttosto, non so quanto sia applicabile da tutti. Credo che occorra una disposizione naturale, che induce automaticamente a modalità veloci di lettura e viene così ulteriormente allenata e potenziata. Non ha nulla a che fare con le tecniche di apprendimento e di memorizzazione che circolano sul mercato, pubblicizzate all’insegna dello “studiare in fretta” e del “ridurre i tempi”, anche se queste ne riprendono e ne standardizzano i principi. O ci sei portato o no. Personalmente, ho digerito in questo modo già nell’infanzia e nell’adolescenza, del tutto ignaro e vergine di tecniche, una quantità impressionante di letteratura, passando da Andersen a Salgari, a Verne, a Curwood, a London e arrivando precocemente a Balzac e Stendhal: e quando sono passato alla saggistica ho applicato, sempre inconsapevolmente, un metodo desunto direttamente dagli albi delle figurine. Ciò non significa essere più bravi o più pronti di altri: significa semplicemente che si è fatti così, e ciò si evidenzia anche nel modo in cui si affronta ogni altro aspetto della vita, sempre in affanno come il coniglio bianco di Alice.

Con tutto ciò ho trascorso davanti al computer nelle ultime settimane almeno una quarantina di ore, solo per avvallare con le citazioni dirette un impianto di interpretazione che nelle grandi linee avevo già abbozzato da un pezzo. E arrivato al termine mi sono chiesto: ne valeva la pena?

Se prescindo dai risultati, che a fronte dell’impegno profuso avrebbero dovuto essere indubbiamente molto migliori, mi rispondo di si: tutto sommato è un lavoro coerente con la linea di ricerca che ho intrapreso oltre mezzo secolo fa, e se aggiunge poco nemmeno toglie qualcosa. Ne è valsa la pena anche perché naturalmente i miei sensori sono molto indisciplinati, si accendono e si spengono quando garba a loro, e mi hanno quindi obbligato a soffermarmi su una miriade di altri aspetti del racconto singolari e peregrini (ma forse la verità è che tutti quelli allertati in altre occasioni rimangono comunque attivi per sempre). Valeva poi senz’altro la pena per me, che tenevo da anni questi due personaggi sospesi in punta di penna, senza mai decidermi a liberarmene in un modo o nell’altro. Ho così pagato un altro piccolo debito. Ma valeva anche perché quando le motivazioni cominciano a scarseggiare e tutto ti appare futile e superfluo (ovvero, ti appare com’è), è necessario ogni tanto un colpo di reni per verificare quantomeno se questi funzionano ancora. Quindi, si: per me è valsa la pena.

Non so per gli altri: ma questo, per fortuna, e in tutta sincerità, non è un mio problema.

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Se volete saperne di più su questi due viaggiatori potete leggere direttamente le loro opere:
Ludovico De Varthema – Itinerario– Ed. dell’Orso, Alessandria, 2011
Ludovico de Varthema–Viaggio alla Mecca (parziale)– prefazione di Franco Cardini, Milano, Skira, 2011
Pietro Della Valle – Viaggi di Pietro della Valle il Pellegrino. Volume primo – La Turchia. La Persia (1374 pagine). http://www.liberliber.it, 2021
Pietro Della Valle – Viaggi di Pietro della Valle il Pellegrino. Volume secondo – La Persia. L’India e il ritorno in patria (pagine 1440) –www.liberliber.it, 2021

Oppure leggere opere che parlano di loro. Ad esempio:
Attilio Brilli –Il viaggio in Oriente – Il Mulino, 2012
Raffaele Salvante – Il “Pellegrino” in Oriente. La Turchia di Pietro della Valle – Polistampa, Firenze 1997
Chiara Cardini – La porta d’Oriente. Lettere di Pietro della Valle – Città Nuova Roma 2001
Marziano Guglielminetti – Viaggiatori del Seicento – UTET Torino 1967

Ancora su “Biografie e bibliografie”

Copertina per incontri tematici2di Carlo Prosperi, 27 gennaio 2023

La mostra “sentieri in utopia“ è tutt’altro che conclusa: prosegue semmai virtualmente. Continuiamo infatti a proporre le trascrizioni o le rielaborazioni degli interventi effettuati dagli amici in occasione dei tre “incontri” di conversazione.

È la volta ora di Carlo Prosperi, che con la consueta puntualità e acutezza allarga il campo d’indagine al rapporto vita-opere negli intellettuali di ogni epoca. Il tema in effetti è sempre “caldo”, ed è decisamente insidioso. Come scriveva in un precedente intervento Maurizio Castellaro, a proposito dei nostri eroi letterari: “[…] la loro vita reale aveva un qualche rapporto con quello che scrivevano? Davvero, da queste domande non ne esco vivo, e allora provo a semplificare”. Bene, ci provo anch’io, limitandomi però per il momento a rilanciare, anzi, a riformulare la domanda. Ovvero: dando per scontato che un rapporto tra come si vive e cosa si scrive esiste sempre, la linearità o la contraddittorietà di questo rapporto hanno una qualche rilevanza “oggettiva” come strumenti di interpretazione (e diciamolo pure, di valutazione) dell’opera? Detto più brutalmente: visto che l’autore scompare e l’opera rimane, devo leggere quest’ultima senza lasciarmi influenzare da eventuali incoerenze biografiche e dalle insofferenze che queste mi ingenerano? Personalmente ho dei dubbi in proposito, ma mi riservo di argomentarli in altra occasione: e lascio spazio a Carlo, che molti di quei dubbi me li ha già sciolti.
P.S. Non tutte le immagini che abbiamo inserite sono associabili a questo testo. Ma al tema, indubbiamente, si. (Paolo Repetto)

Sono convinto che la biografia sia importante per comprendere l’opera di un autore o, meglio, le motivazioni che l’hanno indotto a scrivere e magari a scegliere certe tematiche invece di altre. Ma nella biografia vanno comprese le influenze che cultura e letteratura, cioè le letture fatte, la bibliografia esperita, hanno esercitato su di lui. Il compianto Giorgio Barberi Squarotti soleva dire che, sì, la realtà storica, le milieu et le moment, e la stessa vita, la psicologia dell’autore valgono a spiegarne gli orientamenti ideali e ideologici, le idiosincrasie, a volte anche la mentalità, la preferenza per taluni argomenti, ma non sono decisivi. Al limite, i soggetti trattati sono indifferenti: quello che conta è come vengono trattati, la forma che assumono, i generi in cui si inseriscono (dialogicamente), lo stile. Senza contare che spesso lo scrittore si misura e fa i conti con l’immaginario collettivo, con il patrimonio di storie, di idee, di miti, di topoi e di suggestioni (anche figurative, musicali e cinematografiche) che lo alimentano. Tra questo – che costituisce il mondo delle forme – e la realtà c’è un continuo rimpallo, un assiduo rimbalzo, una contaminazione perenne: in altre parole, un rapporto dialettico permanente. Fondamentale, insomma, è l’intertestualità, perché la letteratura è un inesauribile gioco di specchi.

Di Omero, ma anche degli autori della Bibbia, de Le mille e una notte, di tante altre opere mitografiche, epiche o narrative, come, ad esempio, il Kalevala, La storia di Gilgamesh, i Veda, poco o nulla sappiamo, ma la contestualizzazione storica e geografica ci aiuta a comprenderne lo spirito: segno che lo Zeitgeist lascia sempre un’impronta notevole sulla produzione estetica. Nessuno sfugge al proprio tempo, alla realtà materiale e culturale che lo informa. Negli stessi classici è possibile cogliere la temperie dell’epoca, tracce di colore locale e temporale; se sono classici, però, è perché il loro respiro li trascende, perché più di altre opere sanno scavare a fondo nel cuore e nell’anima dell’uomo, cogliere e testimoniare quanto c’è in essi di perenne, oserei dire di eterno. Chi non crede nella “natura umana”, chi la nega, chi ritiene che l’uomo sia un animale come gli altri, vale a dire un prodotto della storia e dell’evoluzione, la penserà diversamente.

Ciò considerato, possiamo affrontare il problema della coerenza tra vita e opera. Che è anche il problema dell’identità. Ora, solo Dio – se esiste e se è fuori del tempo – può vantare un’identità perfetta, stabile e assoluta, non soggetta agli inconvenienti dell’esistenza. Ma per chi vive nel mondo sublunare l’identità deve scendere a patti col divenire, declinarsi come processo: è quindi un punto che si fa linea. E la coerenza coincide sostanzialmente con la rettitudine: concetto che potremmo spiegare come un accordo tra il prima e il poi, come un adeguamento non conflittuale o comunque in grado di riassorbire senza traumi ogni contrasto in una sintesi di vecchio e nuovo che si configuri come un arricchimento progressivo. Come una crescita della persona. Senza degenerare, senza tralignare, senza tradire. Ovviamente, dal momento che lo spirito è forte, ma la carne è debole, dinanzi agli infiniti bivi o trivi che la vita ci presenta sono sempre possibili dubbi, esitazioni, errori, smarrimenti. Tale evenienza era dagli antichi raffigurata nell’immagine di Ercole al bivio. L’importante è ravvedersi per tempo. Errare è umano, diabolico perseverare. La coerenza esige tempestivi aggiustamenti di rotta, al di là, appunto, dei possibili traviamenti. Solo all’intransigenza dei moralisti sfugge che l’uomo è un “legno storto”. Nel loro astratto rigore, essi non perdonano all’uomo le sue contraddizioni, ma il mondo in bianco e nero che essi vedono non è quello, ricco di infinite nuances (e di colori), che ci sta davanti agli occhi: è un mondo daltonico. O manicheo. La coerenza che essi pretendono alberga solamente nell’iperuranio. Questo per dire che, quando si parla di coerenza, non si deve esagerare. Noi ci accontentiamo di un’onesta rettitudine.

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Poi, anche qui, si può discettare di evoluzione e di involuzione. Ma non è detto che a distinguere la prima dalla seconda non concorra l’orientamento ideologico di chi giudica, guardando da fuori. Mettiamo che il punto di partenza, anzi il presupposto, alla luce dell’esperienza via via maturata si riveli sbagliato: sarà più onesto, allora, proseguire sulla via intrapresa in nome di una presunta coerenza o invertire marcia? O imboccare un’altra strada, anche a costo di rinnegare le scelte fatte in precedenza, in buona fede ma senza averne adeguata contezza? La coerenza nel perseguire la verità in questo caso fa aggio sull’ostinazione, che è coerenza ingiustificata e quindi solo apparente. Per spiegarmi meglio, voglio portare qualche esempio. Prendiamo Dante, passato dall’aristotelismo radicale del Convivio, incentrato su una fede assoluta nelle potenzialità della ragione, vista come unica bussola per chi voglia «seguir virtute e canoscenza», alla fede nella teologia incarnata da Beatrice, disdegnata invece dall’amico Guido Cavalcanti. La Divina commedia, sotto tale aspetto, si presenta come una palinodia del trattato, rimasto non a caso incompiuto. Nel Purgatorio il poeta taccia di follia la presunzione della ragione: «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone»; e pertanto ammonisce i lettori: «State contenti, umana gente, al quia, / ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria, // e desiar vedeste sanza frutto / tai che sarebbe lor disio quetato, / ch’etternalmente è dato lor per lutto» (ed accenna ad Aristotele, a Platone e a “molti altri”). Invece di imitare Ulisse nel «folle volo»[1] che lo porta a perdersi senza risultato, ingannando con la sua splendida retorica[2] i pochi compagni superstiti, Dante si ravvede e alla hybris della ragione preferisce l’umiltà (ne è simbolo il giunco di cui lo cinge Catone sul lido del Purgatorio), la pietas di Enea che tanto contrasta con l’empietà di Ulisse (esemplificata non solo dall’aver trascurato i suoi doveri di padre, di marito e di figlio, sì anche dall’aver violato i limiti posti da Ercole «acciò che l’uom più oltre non si metta»).

La fraudolenza che condanna il Laertiade all’inferno è nelle parole, anzi nell’«orazion picciola», con cui egli convince la «compagna / picciola» a seguirlo nell’impresa dissennata: le nobili motivazioni da lui addotte sono mistificanti. Quale “virtù” può infatti animare chi trasgredisce consapevolmente le leggi divine e umane? Non certo quella che deriva, a suo dire, dal «divenir del mondo esperto / e delli vizi umani e del valore», giacché sa bene di avventudi di avventurarsi in un «mondo sanza gente». Ed anche la sua profana curiositas rimarrà delusa: egli non avrà contezza alcuna né della montagna «bruna / per la distanza» che riuscirà solo a intravedere né della vera ragione del suo naufragio. Si renderà nondimeno conto – per dirla in termini zanzottiani – dell’“oltraggio” rappresentato dalla sua “oltranza”, ma non dell’identità del suo punitore, che resterà per lui un’oscura forza del destino: «come altrui piacque». La via scelta da Dante, all’insegna della humilitas, è per contro destinata al successo. E il poeta ne ha (e ne dà) un segno nel giunco che miracolosamente, proprio «come altrui piacque», spunta al posto di quello strappato da Catone per munirne Dante sulla spiaggia del Purgatorio. Il viaggio ultraterreno del poeta – che sa benissimo di non essere né Enea né San Paolo – si realizza nel segno della grazia, non della sfida.

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Ancora su Biografie e bibliografie (5)Un altro esempio, piuttosto clamoroso, di apparente incoerenza o, se vogliamo, di involuzione è quello di Giosue Carducci: giacobino sfrenato (basti pensare ai sonetti del Ça ira) e anticlericale (fino a rasentare la blasfemia nell’Inno a Satana) in gioventù, nell’ultima fase della sua vita giungerà a riconoscere i meriti sia della monarchia sia del cristianesimo (cfr. La chiesa di Polenta) e in ogni caso i bollori rivoluzionari della giovinezza si stempereranno in una visione più pacata e pacificata della realtà. Vi contribuiranno pure le sventure familiari, come la morte del fratello e del figlioletto, ma anche l’incontro con la regina Margherita, dal cui fascino femminile resterà ammaliato. Parafrasando un detto famoso, mi verrebbe da dire: chi non è stato “rivoluzionario” a vent’anni non è mai stato giovane, chi continua ad esserlo in seguito non ha mai raggiunto la maturità. Ma a questo punto si può ancora parlare d’incoerenza o, peggio, di involuzione? Troppo facile per “gli storici del dopo” rinvenire nella storia una razionalità e un rapporto causa-effetto che a chi l’ha vissuta da dentro, nell’hic et nunc, di rado appare come tale: speranze, illusioni, cecità e fraintendimenti ne fanno parte e la visione d’insieme che ne ha il singolo individuo è spesso “falsa” (nel senso spinoziano del termine, cioè parziale e incompleta), quando non anche viziata da egoismi o da ideologismi. Non voglio credere che quegli intellettuali e quegli scrittori che, dopo avere militato, alcuni per anni, nelle file del fascismo, all’indomani della sua caduta passarono armi e bagagli alla corte di Togliatti, fossero tutti opportunisti e in malafede, ma nel novero molti furono tali. E non esitarono a saltare sul carro del vincitore.

Ancora su Biografie e bibliografie (6)Ma il discorso non riguarda solo gli italiani. Se prendiamo in considerazione Wystan Hugh Auden, è facile accorgersi di come suoni a vuoto (per non dire falsa) la campana dell’”impegno” di cui negli anni Trenta fu il portabandiera.

Auden fu infatti l’incarnazione di quella Auden Generation, di cui il rosso ideologico fu il colore politico dominante. Fu lui nella poesia Spain a parlare di poeti «rombanti come bombe» e della «consapevole accettazione della colpa di fronte al delitto necessario». Una frase simile – ebbe a notare George Orwell – avrebbe potuto scriverla «solo una persona per la quale l’assassinio è al massimo una parola. Il tipo di amoralità di Auden è possibile soltanto se siete il genere d’uomo che si trova sempre in un altro posto nel momento in cui si preme il grilletto». Parole profetiche: non a caso, nel settembre 1938, mentre era in corso la Conferenza di Monaco, il poeta inglese si affrettò a preparare i bagagli per emigrare negli USA. Molti intellettuali del suo calibro, in effetti, al di là delle prese di posizione a favore dei più nobili ideali, trovano difficile aderire ad altro che a se stessi. Ma qui andiamo ben oltre l’umana incoerenza: qui c’è anche del cinismo e della malafede. Cose che invece non ravvisiamo, ad esempio, nella “conversione” del Manzoni, che pure lo portò a un profondo cambiamento di poetica, oltre che di vita. E tanto meno nel progressivo accentuarsi e affinarsi del pessimismo di Leopardi nel passare dalla fase “storica” a quella “cosmica”, a quella “agonistica” della Ginestra.

Ancora su Biografie e bibliografie (7)Un certo opportunismo è stato denunciato da taluni critici anche nel Segretario fiorentino, che, da tecnico della politica, dopo essersi speso al servizio della Repubblica, mise le sue indubbie competenze a disposizione dei Medici. In questo c’è indubbiamente qualcosa di vero, ma, a ben guardare, si può rilevare una profonda e sotterranea coerenza tra il Machiavelli dei Discorsi e quello del Principe, dal momento che per lui lo Stato è comunque il bene primario, anzi l’unico fine che davvero giustifichi i mezzi [«Faccia dunque uno principe di mantenere lo Stato, e i mezzi saranno ritenuti laudevoli e da ciascuno laudati»]. E questo perché egli ha una visione antropologica negativa: l’uomo è malvagio di natura, egoista, smanioso di potere e di piacere, avido di ricchezze, tanto che «sdimentica più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio». Senza la maestà dello Stato che tiene a freno la violenza, regnerebbe l’anarchia e con essa la legge del più forte. Come i pesci di cui parlava Sant’Ireneo di Lione, il più grande mangerebbe il più piccolo. Per questo la preservazione dello Stato può richiedere pure il ricorso a mezzi estremi: non si tratterebbe di immoralità, ma di sacrifici necessari. Come quello del giocatore di scacchi che per vincere la partita deve all’uopo saper rinunciare a qualche pezzo. Come quello del chirurgo, che per salvare una vita deve essere pronto, all’occorrenza, ad amputare qualche membro. La moralità della politica, se così si può dire, è garantita dall’augusto suo compito.

Qualcuno fa notare che, nello scrivere il Principe, Machiavelli abiura la sua fede repubblicana: in realtà così non è. Egli rimane pur sempre dell’idea che la forma repubblicana di governo sia migliore del principato, in quanto, dove a governare è un Consiglio, la morte di uno degli amministratori non comporta la crisi dello Stato, mentre, se muore un principe, può crearsi una vacanza di potere e non è detto che il successore sia all’altezza del ruolo. E resta comunque il fatto che i fondatori degli Stati sono, in genere, persone singole, dotate di carisma: una qualità che non è tuttavia trasmissibile ereditariamente.

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Ma, a proposito di malafede, credo che la palma di primo della categoria, vada assegnata a Jean-Jacques Rousseau, il quale negli scritti si distinse sempre per il suo umanitarismo buonista e sempre inneggiò alla sacra triade liberté, égalité, fraternité, non esitando però ad abbandonare nei brefotrofi dell’epoca i figli nati dalle sue liaisons sentimentali. Ciò non significa che le sue opere non meritino di essere lette e tenute in considerazione; è tuttavia il caso di ricordare che molti predicano bene ma razzolano male. Per cui bisogna guardarsi da una identificazione troppo stretta tra biografia e bibliografia. Se l’arte – come abbiamo detto – è sempre un gioco di specchi, è fatale che la realtà ne riesca talora travisata. A volte redenta, a volte dannata, raramente qual essa è. Erano il Latini a dire: lasciva nobis pagina, sed vita proba. Né si può sempre presumere che un autore sia costantemente all’altezza della sua opera. Di conseguenza è lecito non provare alcuna simpatia per lui, senza per questo cessare di apprezzarne genio e talento. Almeno quando non manchino. E basterebbe, allora, fare un nome: Céline.

[1] La metafora del “folle volo”, con i remi della barca divenuti “ali”, rimanda chiaramente alla vicenda di Icaro, da tempo assunta come immagine o simbolo di hybris, d’intemperanza se non proprio di tracotanza, contro ogni classico ammonimento alla metriotes, all’est modus in rebus. La metafora s’inserisce perfettamente nell’atmosfera del canto, connotata appunto da tutta una serie di voli: da quello della trista nomea di Firenze che si spande nell’inferno a quelli delle lucciole che subentrano, a sera, alle zanzare, dal volo di Elia sul carro di fuoco alle fiammelle volitanti per la bolgia in cui ardono i fraudolenti.

[2] Si noti come Ulisse tenda artatamente ad attenuare la portata del suo discorso (quattro parole parenetiche ovvero – dice lui – una «orazion picciola») enfatizzandone però gli effetti (a fatica avrebbe potuto trattenere i suoi compagni – quattro gatti ormai, una «compagna / picciola») – dopo averli istigati). Poco resta loro da vivere (una «picciola vigilia» dei sensi e niente più): perché dunque non togliersi lo sfizio di andare ad  esperire il «mondo sanza gente»? Le motivazioni sono all’apparenza nobilissime, se l’impresa non fosse temeraria e non comportasse una sfida per certi versi prometeica e quindi sacrilega (Ercole era stato assunto fra gli Dèi). Senza contare che dove non ci sono uomini difficilmente sarà dato rinvenire «vizi umani» e umano «valore»: nel discorso c’è dunque un fondo di malafede. D’altra parte l’«orazion picciola» si apre con una captatio benevolentiae: Ulisse, il capo, apostrofa i compagni chiamandoli “fratelli” e prosegue con una iperbole («per cento miglia / perigli») ed una anfibologia («siete giunti all’occidente»: l’occidente qui non è solo un’indicazione geografica, ma sta pure a indicare il tramonto, la fase declinante della vita), con una perifrasi metaforica (appunto la «così picciola vigilia / de nostri sensi, ch’è del rimanente») e una litote («non vogliate negar»); tutto è infine suggellato dalla gnomica considerazione finale, che tanti critici hanno preso per oro colato, dimenticando che di nobili intenzioni è lastricata la strada dell’inferno. Sono i guasti della retorica. Ulisse riesce a guadagnarsi la solidarietà o, meglio, la complicità dei compagni ammannendo loro un piccolo capolavoro di mistificazione.

Natura e letteratura per cammini di viandanza

Copertina per incontri tematici2di Fabrizio Rinaldi, 10 dicembre 2022

Pubblichiamo la trascrizione di un momento dell’incontro “Natura e letteratura”, nell’ambito della mostra sentieri in utopia.

Ad avvicinare coloro che sarebbero poi diventati i Viandanti delle Nebbie, prima ancora che nascesse l’amicizia, furono le comuni letture di libri nei quali il rapporto con la natura veniva proposto senza eccessive epiche parolaie. È stato quindi decisivo per ciascuno, oltre alla frequentazione di Paolo, individuare le coordinate per le proprie letture in scrittori che avevano messo al centro della narrazione il rapporto con il bosco, la montagna, il mare o semplicemente con la quotidianità contadina, magari con approcci differenti e in tempi non troppo lontani.

C’era chi si riconosceva nella tendenza di Hemingway a raccontare la lotta con gli elementi e quindi le resistenze, le sconfitte o le pochezze umane. Chi si ritrovava nelle parole di Chatwin, per il quale le descrizioni dello spazio naturale (anche cantato, come per l’Australia) erano l’espediente per indagare la propensione umana all’inquietudine, l’irrequietezza che assale quando si è costretti a sostare in un posto per troppo tempo e a soffocare l’istinto di cercare ciò che sta oltre il conosciuto (magari – come nel suo caso – dormendo a scrocco da amici accondiscendenti). Oppure chi amava i racconti di Conrad e Melville, nei quali le superfici acquee su cui si svolgevano le cacce all’uomo o alla balena permettevano di immergersi nelle linee d’ombra dell’anima. C’era anche chi si immedesimava nel vivere appartato (ma non troppo) di Thoreau, che aveva fatto scuola (wilderness) con la sua propensione a ricaricare i neuroni vivendo nel bosco, eludendo la crescente frenesia della modernità e la compulsione a fagocitare tutto ciò che ci sta attorno, senza badare alle reali necessità.

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I miei occhi sono nuovi.
Tutto quello che vedo è come non veduto mai;
e le cose più vili e consuete,
tutto m’intenerisce e mi dà gioia.

Personalmente a queste vette della letteratura mondiale accosto due autori italiani. Nelle antologie scolastiche Camillo Sbarbaro è inserito tra i poeti del Novecento con una smilza paginetta e con una poesia dedicata al padre, legata ancora a quella metrica classica che appariva superata rispetto al suo contemporaneo Ungaretti. Traduttore dei classici greci, Sbarbaro ha saputo conciliare una vita estremamente ritirata con le intense amicizie che lo legavano a intellettuali come Montale, Campana e Pound; ma soprattutto inviava e riceveva dagli Stati Uniti dei pacchi contenenti croste secche apparentemente insignificanti, con indecifrabili nomi in latino, tanto che venne indagato dalla polizia fascista per atti ostili al regime. Dietro la sua pacatezza nello stare al mondo celava un’immensa conoscenza del mondo dei licheni. Autodidatta, ne divenne uno dei più importati esperti, tanto che la sua collezione è suddivisa oggi tra il museo di Storia Naturale di Genova e altre collezioni sparse nel mondo. Uno così non poteva non entrare nel novero degli ispiratori del nostro pensiero, per la sua propensione verso le cose insignificanti che gli capitavano e che vedeva. Oltretutto, era stato anche un gran camminatore lungo i sentieri liguri, sempre alla ricerca delle sue amate e naturali esistenze in sordina.

  • Il lichene prospera dalla regione delle nubi agli spruzzati dal mare. Scala le vette dove nessun altro vegetale attecchisce. Non lo scoraggia il deserto; non lo sfratta il ghiacciaio; non i tropici o il circolo polare. Sfida il buio della caverna e s’arrischia nel cratere del vulcano. Teme solo la vicinanza dell’uomo. Per questa sua misantropia, la città è la sola barriera che lo arresta. Se lo varca ci rimette i connotati. Il lichene urbano è sterile, tetro, asfittico. Il fiato umano lo inquina.
  • Più tardi, preso a mano dalla mia predilezione per le esistenze in sordina, mi volsi a forme più scartate di vita.
  • Mi ingombra la stanza, la impregna di sottobosco un erbario di licheni. Sotto specie di schegge di legno, di scaglie, di pietra contiene pocomeno un Campionario del Mondo. Perché far raccolta di piante è farla di luoghi.

159 Mario Rigoni Stern

Il momento culminante della mia vita non è quando ho vinto premi letterari o scritto libri, ma quando sono partito dal Don con 70 alpini e ho camminato verso occidente per arrivare a casa. Sono riuscito a sganciarmi dal mio caposaldo senza perdere un uomo, riuscire a partire dalla prima linea organizzando lo sganciamento, quello è stato il capolavoro della mia vita.

L’altro mio autore di riferimento è Mario Rigoni Stern. È conosciuto soprattutto per Il sergente nella neve, in cui ha descritto il “capolavoro” della sua vita, l’aver riportato in patria tutti i suoi commilitoni durante la ritirata dalla Russia. Ma al di là di questo ci è affine soprattutto per la denuncia dei dissesti ambientali (quando ancora non era una moda), per le attente descrizioni di ciò che avviene nel bosco, e soprattutto per la corrispondenza fra ciò che scriveva e ciò che faceva: una coerenza esemplare, che quasi metteva soggezione perché presente in ogni suo gesto, a partire da come accatastava la legna o coltivava l’orto.

  • inserto dolomitiCome vivere? Allora questa domanda ce la dobbiamo porre non soltanto alla fine di un millennio, di un secolo, di un anno, ma tutti i giorni, e tutti i giorni svegliandoci, si dovrebbe dire: “Oggi che cosa ci aspetta?”. Allora io considero che si dovrebbero fare le cose bene, perché non c’è maggiore soddisfazione di un lavoro ben fatto. Un lavoro ben fatto, qualsiasi lavoro, fatto dall’uomo che non si prefigge solo il guadagno, ma anche un arricchimento, un lavoro manuale, un lavoro intellettuale che sia, un lavoro ben fatto è quello che appaga l’uomo. Io coltivo l’orto, e qualche volta, quando vedo le aiuole ben tirate con il letame ben sotto, con la terra ben spianata, provo soddisfazione uguale a quella che ho quando ho finito un buon racconto. E allora dico anche questo: una catasta di legna ben fatta, ben allineata, ben in squadra, che non cade, è bella; un lavoro manuale quando non è ripetitivo è sempre un lavoro che va bene, perché è anche creativo: un bravo falegname, un bravo artigiano, un bravo scalpellino, un bravo contadino. E oggi dico sempre quando mi incontro con i ragazzi: voi magari aspirate ad avere un impiego in banca, ma ricordatevi che fare il contadino per bene è più intellettuale che non fare il cassiere di banca, perché un contadino deve sapere di genetica, di meteorologia, di chimica, di astronomia persino. Tutti questi lavori che noi consideriamo magari con un certo disprezzo, sono lavori invece intellettuali.

  • Per diventare amici, prima bisogna annusarsi, come i cani poi, se non ci si è morsi, può nascere l’amicizia.

Con Primo Levi e Nuto Revelli sognava di andare per boschi e montagne, in silenzio. Ecco, credo che non si potrebbe desiderare nulla di meglio che questa visione di sobria eternità: vagare con le persone care facendo esperienze. Era il suo “pensiero anarchico”.

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È questo che – istintivamente e senza una dichiarazione esplicita – ispira l’immagine dei due viandanti nella locandina della mostra sentieri in utopia. L’uno indica all’altro ciò che attrae la sua attenzione: in questo caso una luce conduce fuori dalla nebbia, ma da sempre i Viandanti hanno segnalato ai sodali degli “stupa”, quelle letture che sapevano essere di comune interesse. Non è un semplice consigliare libri, ma il desiderio di condividere un percorso da fare assieme, uno accanto all’altro. Per questo la maggior parte delle pubblicazioni dei Viandanti è accompagnata da una bibliografia, e nella rivista “ufficiale”, sguardistorti, la rubrica finale Punti di vista segnala anche i luoghi per i quali vale la pena mettersi in viaggio.

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Questa carrellata di “maestri” non può concludersi  senza citarne uno di fantasia, il Ken Parker creato da Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo. Lui viveva il west che stava ormai scomparendo, cacciando per sopravvivere e rifiutando un progresso di cui intravvedeva le incongruenze. È lui che ci ha accompagnato durante le escursioni e nelle letture, grazie al fatto che i suoi album sono zeppi di allusioni ai classici della letteratura di viaggio. E poi, era l’unico protagonista del west che pensava prima di premere il grilletto e che la sera, davanti al fuoco, leggeva un libro.

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Questi, naturalmente assieme a molti altri, sono stati gli intermediari fra storie personali spesso molto distanti. Senza di loro probabilmente non sarebbe stato intrapreso alcun percorso comune. La loro conoscenza è stata il nostro mezzo per “individuare ciò che non è inferno e dargli spazio”, come direbbe Calvino. E per dare vita a una forma genuina di amicizia.

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Faccio una parentesi di commento sulla mostra. L’altro giorno mi sono concesso il privilegio di guardarmela senza che ci fosse nessuno. A dire il vero la possibilità mi è stata data spesso, perché non l’abbiamo promossa nei canali mediatici, non abbiamo fatto comunicati stampa, non abbiamo invitato le rappresentanze pubbliche, ma abbiamo volutamente diffuso l’evento semplicemente con il passaparola tra amici, conoscenti e simpatizzanti del nostro viatico. Risultato? Non l’hanno vista in molti.

È snobismo, questo? Non credo. È semplicemente coerenza con l’intento di raggiungere solo chi è realmente interessato a visioni del mondo magari divergenti, ma accomunate dalla consapevolezza che viviamo in una realtà complessa. E che quindi il pensiero, per coglierla, non può essere semplicistico e sbrigativo: nessuna delle nostre pubblicazioni si potrebbe liquidare con un twitter.

Ebbene, esaminando la mostra mi sono stupito di quanto materiale sia stato prodotto in tutti questi anni. Lo sapevo già, naturalmente, perché ne ho curato la grafica, ma nel vedere esposte tutte assieme le copertine di 79 Quaderni, 31 Album, 30 numeri fra Sottotiro review e sguardistorti, per un totale di oltre 7200 pagine, senza contare un bel po’ di articoli sparsi e i 14 testi della Biblioteca, mi ha impressionato l’incredibile varietà dei temi trattati.

Quella mole di riflessioni e l’idea del tempo che sta alle loro spalle mi ha confermato che i Viandanti hanno occupato una parte importante della nostra vita: di quella di Paolo senz’altro, visto che ha scritto o curato molti di questi testi, ma non solo della sua. Negli anni hanno contribuito in molti, attivamente o come semplici fruitori: e questo ha fatto sì che le nostre pubblicazioni continuino ad essere gratuite e siano stampabili liberamente. Per apprezzarle necessita solo una sufficiente dose di curiosità per ciò che non appare sotto i riflettori dei consueti media.

Si potrà notare che nessuno degli scrittori di cui ho parlato prima è originario dei nostri luoghi: non si tratta di un intenzionale rifiuto del campanilismo. Non ho citato Fenoglio e Pavese, che sono comunque nostri riferimenti imprescindibili, solo perché non volevo farla troppo lunga, e perché in qualche modo li do per scontati, in quanto hanno raccontato colline e storie simili alle nostre. Che è quello che anche i Viandanti hanno cercato di fare, narrando un territorio che viene spesso dimenticato.

Concludo con le parole delle mie figlie che alla domanda su cosa stessimo combinando Paolo ed io nell’altra stanza, risposero: “Stanno facendo la mostra. Si divertono così”. In effetti “divertire” significa volgere altrove, deviare. Ecco, questo facciamo: non marciamo lungo percorsi obbligati, muovendoci in branco verso mete che altri hanno fissato, ma camminiamo di lato, ai margini, pronti a deviare sui sentieri che ci danno maggiore soddisfazione. Quelli anche dell’amicizia, che sono la realizzazione della nostra utopia.

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Biografie e bibliografie

Copertina per incontri tematici2di Maurizio Castellato, 8 dicembre 2022

Pubblichiamo la trascrizione di un momento dell’incontro “Biografie e bibliografie”, nell’ambito della mostra “sentieri in utopia“.

Provo ad andare al nocciolo della questione. Perché si scrive? Camillo Sbarbaro, presente nell’ultimo Ritratti di famiglia dei Viandanti, risponde ironicamente: “si scrive per essere notati, e si continua a scrivere perché si è noti”. Proprio lui che per cercare di fare i conti con la figura paterna ha scritto poesie che valgono vent’anni di sedute psicoterapiche. Non scherziamo. Scrivevano eroi come Levi, Fenoglio, Leopardi, Foscolo, Dante. Ma scrivevano anche borghesi tranquilli come Gozzano, Montale, Eco, Saba. Se proviamo a mettere in relazione le loro biografie e le loro bibliografie alla ricerca di qualche filo conduttore ci perdiamo nel labirinto. Scrivevano per essere notati dagli altri? Scrivevano per se stessi? E soprattutto, visto il tema di partenza, la loro vita reale aveva un qualche rapporto con quello che scrivevano? Davvero, da queste domande non ne esco vivo, e allora provo a semplificare. Forse alla base del bisogno di comunicare in forma artistica (scrittura, ma non solo) ci sono motivazioni profonde e personalissime, legate a ferite non curabili, a ossessioni segrete, ognuno alle proprie dà del tu. Quella è la lava incandescente che sempre ribolle nel profondo, e non dà mai pace. La cultura entra in gioco solo dopo, sotto forma di farmaco, e così per gli autori si aprono i cantieri infiniti della costruzione dello stile, del tono di voce, della musicalità interna, dei temi (cioè dei buchi che più amiamo scavare). Forse il segreto del rapporto tra biografie e bibliografie è proprio da cercare in quello squilibrio originario che sta alla base dei percorsi esistenziali di ciascuno, e che porta poi gli autori a scegliere il canale espressivo a loro più congeniale (parola, musica, immagini, ma anche semplicemente ricerca della bellezza, ecc.). È quello squilibrio originario il gran pentolone dentro il quale rimestare il mistero di quello che siamo. È una semplificazione, ma è interessante, perché consente di estendere la questione del rapporto tra biografia e bibliografia anche al campo dei lettori (e in fondo ogni autore è prima di tutto un lettore). La nostra biografia ha anch’essa una personale bibliografia segreta, che si evolve nel tempo e che cambia sulla base degli interessi, dei bisogni, dei dolori e delle gioie. Come le nostre letture ci hanno illuminato e ci hanno cambiato? Quali gli incontri che hanno dato una svolta ai nostri percorsi (“la vita, amico, è l’arte dell’incontro” diceva il poeta)? Anche al fondo della nostra storia di lettori c’è sempre lo stesso squilibrio originario, lo stesso ribollire profondo, che non trova mai pace. Ai nostri testi fondatori diamo del tu, come alle nostre ossessioni, e a questo livello originario autori e lettori non possono che sentirsi fratelli, a prescindere da quello che son riusciti a fare delle loro vite, brevi come i sogni che le hanno orientate, nutrite e significate.

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Ritratti di famiglia

La storia è una galleria di quadri,
dove ci sono pochi originali e molte copie.

Ritratti di famiglia copertinaIn concomitanza con la mostra-rassegna delle loro attività (la prima, e con ogni probabilità anche l’unica) i Viandanti delle Nebbie offrono ai “followers” una strenna natalizia. L’idea iniziale prevedeva una plaquette sul modello dei vecchi calendarietti profumati dei barbieri, per i quali proviamo tanta nostalgia (per i libretti, ma anche per i barbieri): poi abbiamo optato per una linea meno frivola.
Distribuiremo quindi cinquanta libretti (il che significa presumere, molto ottimisticamente, un numero di lettori doppio rispetto a quelli del Manzoni) che vogliono suggerire da dove arrivano i Viandanti, chi c’è idealmente alle loro spalle. Certi dell’impunità, perché quasi tutti gli interessati non sono più in vita, ci siamo permessi di vantare nobili ascendenze.
Rispetto a molti dei personaggi evocati i gradi di separazione sono almeno quattro o cinque. Il sesto ci avrebbe portato direttamente a Gesù, e ci pareva un tantino esagerato. E tuttavia …

03 Quadri in mostraL’albero genealogico dei Viandanti è fittissimo e composito. Risalendo di due secoli (non abbiamo voluto andare oltre, era già abbastanza complicato così) si incontrano un po’ tutte le tipologie e le varietà umane: scrittori, artisti, esploratori, viaggiatori, rivoluzionari, filosofi, storici, fumettisti, ecc…). In un modo o nell’altro coloro che abbiamo rintracciato hanno contribuito a indicare percorsi, a suggerire svolte, a portare ristoro e a orientarci nella nebbia. Non sono gli unici, naturalmente, perché la nostra è una famiglia molto allargata. Potremmo citarne almeno altrettanti, e anzi, quella dei gradi meno prossimi di parentela potrebbe già essere un’idea per una strenna futura.

Abbiamo volutamente omesso ogni indicazione biografica o bibliografica relativa ai personaggi presentati. Il bello del gioco sta proprio qui: ciascuno potrà fare eventuali ricerche di approfondimento per conto proprio.
Questo è lo spirito dei Viandanti.

Nella Galleria non hanno trovato posto figure femminili. Chiamatelo maschilismo, se volete, ma di fatto non ci è venuta in mente alcuna protagonista significativa dei nostri percorsi culturali. Questo non significa che non abbiamo incontrato donne eccezionali: significa solo che queste donne non hanno lasciato il segno. Per un difetto nostro di sensibilità, indubbiamente: ma ci sembrava terribilmente ipocrita inserirne qualcuna solo in ossequio al politicamente corretto.01a Tin Tin

P.s: Il fatto che Tintin o Milù compaiano sia in prima che in quarta di copertina non è casuale: sono tra gli antenati più nobili, non potevano mancare all’appello.

04 Bustin in mostra

Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo

Isaiah Berlin

Camillo Berneri

Renzo Calegari

Albert Camus

Nicola Chiaromonte

Stig Dagermann. 12

Charles Darwin

Franz De Waal

Hans Magnus Enzensberger

Patrick Leith Fermor

Caspar David Friedrich

Piero Gobetti

Knut Hamsun

William Henry Hudson

Alexander von Humboldt 20

Pëtr Kropotkin

Furio Jesi

Toni Judt

Gustav Landauer

Giacomo Leopardi

Primo Levi

Jack London

Herman Melville

Albert Frederic Mummery

George Orwell

Hugo Pratt

Élisée Reclus

Mario Rigoni Stern

Albert Robida

J.D. Salinger

Camillo Sbarbaro

Erwin Schrödinger

Johann Gottfied Seume

George  Steiner

Robert Louis Stevenson

Henry David Thoreau

Sebastiano Timpanaro

Alexis De Tocqueville

Sergio Toppi

Alfred Wallace

Charles Waterton

Titn Tin con bandiera dei pirati con sfondo uniforme

Giancarlo Berardi & Ivo Milazzo

08 Ken Parker06 Milazzo05 BerardiHo impugnato il fucile per tutta la vita, eppure, il mio popolo è stato distrutto, la mia sposa torturata a morte…
Se mio figlio vivrà dovrà trovare un altro modo di combattere…Addio, “Lungo fucile” …

Isaiah Berlin

12 Isaiah BerlinGarantire la libertà ai lupi significa condannare a morte le pecore.

Non esiste alcuna istanza primaria in base a cui la verità, una volta scoperta, debba per forza essere anche interessante

11 Isaiah Berlin

Camillo Berneri

14 Camillo BerneriL’anarchismo è il viandante che va per le vie della Storia, e lotta con gli uomini quali sono e costruisce con le pietre che gli fornisce la sua epoca. Egli si sofferma per adagiarsi all’ombra avvelenata, per dissetarsi alla fontana insidiosa. Egli sa che il destino, che la sua missione è riprendere il cammino, additando alle genti nuove mete.

 

16 Camillo Berneri

Renzo Calegari

17 Renzo CalegariQuesta storia è finita come doveva, con dei vincitori e dei vinti … il mio guaio è che non appartengo né agli uni né agli altri.

19 Renzo Calegari

Albert Camus

21 Albert CamusPerché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime. Bisogna che si cambi in esempio.


Nicola Chiaromonte

25 Nicola ChiaromonteQuando giunge l’ora in cui la morte comincia a guardarci negli occhi con una certa continuità, e quindi noi lei, se non vogliamo distogliere lo sguardo e far finta che tutto è come prima e non c’è niente da cambiare, la domanda che per pri-ma ci si articola nella mente è: Che cosa rimane?… Rimane, se rimane, quello che si è, quello che si era: il ricordo d’esser stati “belli”, direbbe Plotino… Rimane, se rimane, la capacità di mantenere che ciò che è bene è bene, ciò che è male è male, e non si può fare che sia diversa-mente (e non si deve fare che appaia diversamente).

24 Nicola Chiaromonte

La nostra non è un’epoca di fede, ma neppure d’incredulità. È un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine. 

Stig Dagermann

26 Stig DagermanLe auguro due cose che spesso ostacolano il successo esteriore e hanno tutto il diritto di farlo perché sono più importanti: l’amore e la libertà.

  27 Stig Dagerman

L’inconfutabile segno della mia libertà è che il timore arretra e lascia spazio alla calma gioia dell’indipendenza. Sembra che io abbia bisogno della dipendenza per provare infine la consolazione d’essere un uomo libero, e questo sicuramente è vero.

 

Charles Darwin

30 Charles DarwinNella lunga storia del genere umano (e anche del genere animale) hanno prevalso coloro che hanno imparato a collaborare ed a improvvisare con più efficacia.

  

 

32 Charles Darwin

Lo stadio più elevato di cultura morale si ha quando riconosciamo che dovremmo controllare i nostri pensieri.

 

Franz De Waal

33 Franz de WaalTutti sanno che gli animali hanno emozioni e sentimenti, e che prendono decisioni simili alle nostre. Gli unici a fare eccezione, sembrerebbe, sono alcuni universitari. 

35 Franz de Waal

Tutto conferma la mia visione della morale “venuta dal basso”. La legge morale non è né imposta dall’alto, né dedotta da principi accuratamente razionalizzati, ma nasce da valori ben radicati, presenti da tempo immemorabile. Il più fondamentale deriva dal valore della vita collettiva per la sopravvivenza. Il desiderio di appartenenza, la voglia di capirsi, di amarsi e di essere amati ci spingono a fare tutto ciò che possiamo per restare nel miglior rapporto possibile con le persone dalle quali dipendiamo.


Hans Magnus Enzensberger

38 Han Magnus EnzesbergerLa televisione è puro terrorismo. La parola scompare, e con la parola ogni possibilità di riflessione.

39 Han Magnus Enzesberger e Umberto Eco

Negli ultimi duecento anni le società più evolute hanno suscitato attese di uguaglianza che non si possono soddisfare; e al contempo hanno fatto sì che ogni giorno per ventiquattro ore la disuguaglianza venga dimostrata su tutti i canali televisivi a tutti gli abitanti del pianeta. Ragione per cui la delusione umana è aumentata con ogni progresso.

Al perdente, per radicalizzarsi, non basta quello che gli altri pensano di lui, siano essi concorrenti o sodali… Egli stesso deve metterci del suo; deve dirsi: io sono un perdente e basta. L’estinzione non solo di altri, ma anche di se stesso, è la sua soddisfazione estrema.

 

Patrick Leith Fermor

44 Patrick Leith FermorUna magica pace vive nelle rovine dei templi greci. Il viaggiatore si adagia tra i capitelli caduti e lascia passare le ore, e l’incantesimo gli vuota la mente di ansie e pensieri molesti e a poco a poco la riempie di un’estasi tranquilla.

45 Patrick Leith FermorNon si parte per andare da nessuna parte senza aver prima di tutto sognato un posto. E viceversa, senza viaggiare prima o poi finiscono tutti i sogni, o si resta bloccati sempre nello stesso sogno.

 

Caspar David Friedrich

47 Caspar David friedrichL’unica vera sorgente dell’arte è il nostro cuore, il linguaggio di un animo infallibilmente puro. Un’opera che non sia sgorgata da questa sorgente può essere soltanto artificio.

 

49 Caspar David friedrichPerché, mi son sovente domandato, scegli sì spesso a oggetto di pittura la morte, la caducità, la tomba? È perché, per vivere in eterno, bisogna spesso abbandonarsi alla morte.


Piero Gobetti

52 Piero GobettiIl fascismo è il governo che si merita un’Italia di disoccupati e di parassiti ancora lontana dalle moderne forme di convivenza democratiche e liberali, e che per combatterlo bisogna lavorare per una rivoluzione integrale, dell’economia come delle coscienze.

51 Piero Gobetti

Nessun cambiamento può avvenire se non parte dal basso, mai concesso né elargito, se non nasce nelle coscienze come autonoma e creatrice volontà rinnovarsi e di rinnovare.

Knut Hamsun

53 Knut HamsunQuando parlo con un uomo, non ho bisogno di guardarlo per seguire esattamente quello che dice; sento subito se egli mi dà a bere qualche cosa o me ne nasconde qualche altra; la voce, credetemi, è un apparecchio pericoloso

54 Knut Hamsun

  “Amo tre cose”, dico allora.
“Amo il sogno d’amore di un tempo, amo te e amo quest’angolo di terra.”
“E cosa ami di più?”
“Il sogno.”

 

William Henry Hudson

57 William Henry HudsonProvo un sentimento d’amicizia verso i maiali in generale, e li considero tra le bestie più intelligenti. Mi piacciono il temperamento e l’atteggiamento del maiale verso le altre creature, soprattutto l’uomo. Non è sospettoso o timidamente sottomesso, come i cavalli, i bovini e le pecore; né impudente e strafottente come la capra; non è ostile come l’oca, né condiscendente come il gatto; e neppure un parassita adulatorio come il cane. Il maiale ci osserva da una posizione totalmente diversa, una specie di punto di vista democratico,

58 William Henry Hudson


Alexander von Humboldt

61 Alexander von HumboldtCi sono popoli più acculturati, avanzati e nobilitati dall’educazione di altri, ma non esistono razze più valide di altre, perché sono tutte egualmente destinate alla libertà.

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La visione del mondo più pericolosa di tutte è quella di coloro i quali il mondo non l’hanno visto.

 

Pëtr Kropotkin

65 Petr KropotkinL’evoluzione non è lenta e uniforme come si vuol sostenere. Evoluzione e rivoluzione si alternano, e le rivoluzioni – i periodi cioè di evoluzione accelerata – appartengono all’unità della natura esattamente come i periodi in cui l’evoluzione è più lenta.

 

Non appena avrai scorto un’ingiustizia e l’avrai compresa – un’ingiustizia nella vita, una menzogna nella scienzao una sofferenza imposta da altri – ribellati contro di essa!  LottaRendi la vita sempre più intensa!

66 Petr Kropotkin

E così tu avrai vissuto, e poche ore di questa vita valgono molto di più di anni interi passati a vegetare.

 

 Milioni di esseri umani hanno lavorato per creare questa civiltà, della quale oggi andiamo gloriosi. Altri milioni, sparsi in tutti gli angoli del mondo, lavorano per mantenerla. Senza di essi, fra cinquanta anni non ne rimarrebbero che le rovine.

Furio Jesi

67 Furio JesiLa cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche  Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire. La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra.

68 Furio Jesi

Toni Judt

71 Toni JudtIl problema è che i socialisti hanno sempre nutrito una fiducia incondizionata nella razionalità degli uomini.

70 Toni Judt

Lo stile materialista ed egoísta della vita contemporánea non è inerente alla condizione umana. Gran parte di quello che a noi pare “naturale” data dalla decade del 1980: l’ossessione per la creazione di ricchezza, il culto della privatizzazione e del settore privato, le crescenti differenze tra ricchi e poveri. E, soprattutto, la retorica che li accompagna: un’acrítica ammirazione per i mercati sregolati, il disprezzo per il settore pubblico, l’illusione della crescita infinita.

 

Gustav Landauer

73 Gustav LandauerLo Stato non è qualcosa che si può distruggere con una rivoluzione, dato che esso esprime una condizione, una certa relazione tra gli esseri umani, una modalità del comportamento umano; lo possiamo distruggere solo contraendo altri tipi di relazioni, assumendo altri tipi di comportamento.

 L’anarchia non riguarda il futuro, riguarda il presente; non è questione di ciò che speri, è questione di come vivi.

 


Giacomo Leopardi

74 Giacomo LeopardiPasseggere: Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Venditore: Speriamo.

  La ragione è un lumela Natura vuol essere illuminata dalla ragionenon incendiata. 75 Giacomo Leopardi

Primo Levi

153ab Primo LeviPerché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità? A che serve la memoria?”

 

 Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo.

 

Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra. Ma questa è una verità che non molti conoscono.

156 Primo Levi

Jack London

77 Jack LondonNon era della loro tribù, non poteva parlare il loro gergo, non poteva far finta di essere come loro. La maschera sarebbe stata scoperta e, per altro, le mascherate erano estranee alla sua natura.

78 Jack London

Dalla creazione del mondola barbarie umana non ha fatto un solo passo verso il progressoNel corso dei secolil’abbiamo soltanto ricoperta  con una mano di vernice, nient’altro.


Herman Melville

154 Herman MelvilleNoi non possiamo vivere soltanto per noi stessi. Le nostre vite sono connesse da un migliaio di fili invisibili, e lungo queste fibre sensibili, corrono le nostre azioni come cause e ritornano a noi come risultati.  

157 Herman Melville

Io sono tormentato da un’ansia continua per le cose lontane. Mi piace navigare su mari proibiti e scendere su coste barbare.

156 Herman Melville

Dell’amicizia a prima vista, come dell’amore a prima vista, va detto che è la sola vera.

 

Albert Frederic Mummery

81 Albert Frederic MummeryLa via più difficile alle cime più difficili è sempre la cosa giusta da tentare, mentre i pendii di sgradevole pietrisco vanno lasciati agli scienziati. Il Grépon merita di essere salito perché da nessuna altra parte l’alpinista troverà torrioni più arditi, fessure più selvagge, precipizi più spaventosi.
Assolutamente impossibile con mezzi leali.

 

George Orwell

85 George OrwellSapere dove andare e sapere come andarci sono due processi mentali diversi, che molto raramente si combinano nella stessa personaI pensatori della politica si dividono generalmente in due categorie: gli utopisti con la testa fra le nuvole, e i realisti con i piedi nel fango.

  

Così come per la religione cristiana, anche per il socialismo la peggior pubblicità sono i suoi seguaci.

86 George Orwell

Ciò che le masse pensano o non pensano incontra la massima indifferenzaA loro può essere garantita la libertà intellettuale proprio perché non hanno intelletto.

 

 

Hugo Pratt

88 Hugo PrattQuelli che sognano ad occhi aperti sono pericolosi, perché non si rendono conto di quando i sogni finiscono.

89 Hugo Pratt - Corto Maltese

Forse sono il re degli imbecilli, l’ultimo rappresentante di una dinastia completamente estinta che credeva nella generosità!… Nell’eroismo…

Élisée Reclus

92 Elisée ReclusL’Anarchia è la più alta espressione dell’ordine. 

93 Elisée Reclus

Se noi dovessimo realizzare la felicità di tutti coloro che  portano una figura umana e destinare alla morte tutti coloro che hanno un muso e che non differiscono da noi che per un angolo facciale meno aperto, noi non avremmo certo realizzato il nostro ideale. Da parte mia, nel mio affetto di solidarietà socialista, io abbraccio anche tutti gli animali.


Mario Rigoni Stern

159 Mario Rigoni SternI ricordi sono come il vino che decanta dentro la bottiglia: rimangono limpidi e il torbido resta sul fondo. Non bisogna agitarla, la bottiglia. 

 

163 Mario Rigoni SternDomando tante volte alla gente: avete mai assistito a un’alba sulle montagne? Salire la montagna quando è ancora buio e aspettare il sorgere del sole. È uno spettacolo che nessun altro mezzo creato dall’uomo vi può dare, questo spettacolo della natura.

 

160 Mario Rigoni SternIl tempo, nella vita di un uomo, non si misura con il calendario ma con i fatti che accadono; come la strada che si percorre non è segnata dal contachilometri ma dalla difficoltà del percorso.

 

Albert Robida

96 Albert RobidaMio caro Mandibola – diceva quasi sempre Farandola terminando – abbandono definitivamente ogni idea di riforma sociale, e mi lancio con tutte le vele spiegate, nella più vasta industria. Gli affari, il commercio, ecco ciò che mi occorre; e dal momento che le grandi imprese sono necessarie alla mia salute, avanti con le gigantesche speculazioni commerciali! 

  Il vecchio telegrafo permetteva di comunicare a distanza con un interlocutore. Il telefono permise di sentirlo. Il telefonoscopio superò entrambi rendendo possibile anche vederlo. Che si può volere di più?

99 Albert Robida

J. D. Salinger

100 J D SalingerIo sono una specie di paranoico alla rovescia. Sospetto le persone di complottare per rendermi felice.

 

101 J D Salinger - Il giovane HoldenLa più spiccata differenza tra la felicità e la gioia è che la felicità è un solido e la gioia è un liquido.

 

Camillo Sbarbaro

103 Camillo SbarbaroSe potessi promettere qualcosa
se potessi fidarmi di me stesso
se di me non avessi anzi paura,
padre, una cosa ti prometterei:
di viver fortemente come te
sacrificato agli altri come te
e negandomi tutto come te,
povero padre, per la fiera gioia
di finir tristemente come te.

 

 Nella vita come in tram quando ti siedi è il capolinea.

 Si comincia a scrivere per essere notati, si seguita perché si è noti.

105 Camillo Sbarbaro

Erwin Schrödinger

107 Erwin SchrödingerIl mondo è una sintesi delle nostre sensazioni, delle nostre percezioni e dei nostri ricordi. È comodo pensare che esista obiettivamente, di per sé. Ma la sua semplice esistenza non basterebbe, comunque, a spiegare il fatto che esso ci appare.

Se questi dannati salti quantici dovessero esistere, rimpiangerò di essermi occupato di meccanica quantistica.

  106 Erwin Schrödinger

Johann Gottfied Seume

110 Johann Gottfied SeumeCamminare è l’attività più libera e indipendente, niente vi è di peggio che star seduti troppo a lungo in una scatola chiusa. 

113 Johann Gottfied Seume

In tutta la mia vita non mi sono mai abbassato a chiedere qualcosa che non abbia meritato, e nemmeno chiederò mai quel che ho meritato finché esistono in questo mondo tanti mezzi di vivere onestamente: e quando poi anche questi finissero, ne resterebbero alcuni altri per non vivere più.

115 Johann Gottfied Seume

 

George  Steiner

116 George SteinerTutta la metafisica è un ramo della letteratura fantastica.

Un genio degli scacchi è un essere umano che concentra doni mentali ampi e poco compresi, e lavora su un’impresa umana alla fine insignificante.

L’etichetta di homo sapiens, a parte pochi casi, probabilmente è solo un’infondata millanteria.

120 George Steiner

Robert Louis Stevenson

121 Robert Louis StevensonNon chiedo ricchezzené speranze, né amorené un amico che mi comprenda; tutto quello che chiedo è il cielo sopra di me e una strada ai miei piedi.
Io non ho viaggiato per andare da qualche parte, ma per il gusto di viaggiare.
La questione è muoversi.

122 Robert Louis Stevenson

La politica è forse l’unica professione per la quale non viene ritenuta necessaria alcuna preparazione specifica.


Henry David Thoreau

125 Henry David ThoreauNon c’è valore nella vita eccetto ciò che scegli di mettere in essa e nessuna felicità in nessun posto eccetto ciò che gli apporti tu.

126 Henry David Thoreau

Sebastiano Timpanaro

128 Sebastiano TimpanaroScrivere significa svolgere un ragionamento che deve servire a illuminare un problema e a convincere delle intelligenze. Senza esibizioni, senza narcisismi, senza trucchi o effetti speciali. Seguendo la logica e le procedure della ragione, senza gli orpelli della retorica e senza gli appelli alle emozioni. Chi scrive offre al lettore la propria coerenza di ragionamento e lo invita ad analoga coerenza.


Alexis De Tocqueville

135 Alexis De TocquevilleSe cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente all’infanzia; ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi. Non potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare e la pena di vivere?

137 Alexis De Tocqueville 

In una rivoluzione, come in un raccontola parte più difficile è quella di inventare un finale.

 

Sergio Toppi

138 Sergio ToppiIo detesto essere chiamato artista: sono disciplinato, come tutti quelli che fanno fumetti. Considero il fumetto un lavoro molto artigianale, in certi casi di ottimo livello, ma sempre artigianale. È chiaro che non siamo pelatori di patate, è un lavoro per cui occorre una certa sensibilità, ma il fumetto rispetto a quello che viene considerato la creazione artistica è molto più severo.

 

139 Sergio ToppiIl suo lavoro tende alla perfezione, per semplice senso del dovere. Il dovere di essere sempre più bravo, il dovere di continuare ad imparare, perché non si finisce mai d’imparare a questo mondo, specie per chi si è assunto l’incarico di creare immagini, di mettere la propria fantasia e le proprie risorse al servizio degli altri.

 

Alfred Wallace

142 Alfred WallaceQuesta progressione, per piccoli passi, in varie direzioni, ma sempre controllata ed equilibrata dalle condizioni necessarie, soggette alle quali solo l’esistenza può essere preservata, può, si crede, essere seguita in modo da concordare con tutti i fenomeni presentati da esseri organizzati, la loro estinzione e successione nelle epoche passate, e tutte le straordinarie modificazioni di forma, istinto e abitudini che esibiscono.

146 Alfred Wallace

 

Charles Waterton

147 Charles WatertonMentre mi avvicinavo all’orango questi mi venne incontro a mezza strada e ci accingemmo subito ad un esame delle rispettive persone. Ciò che mi colpì più vivamente fu la non comune morbidezza dell’interno delle sue mani. Quelle di una delicata signora non avrebbero potuto essere di una grana più fine. Egli si impossessò del mio polso e scorse con le dita le vene azzurrine che vi si trovavano; io per parte mia, mi ero perso nella contemplazione della sua enorme bocca prominente. Con la massima cortesia egli lasciò che gliela aprissi, cosicché potei esaminare a mio bell’agio le sue magnifiche file di denti. Poi ci mettemmo l’un l’altro una mano intorno al collo, restando per un po’ in questa posizione.

Tin Tin si avvia

Ariette 13.0

Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». (n.d.r).

di Maurizio Castellaro, 28 novembre 2022

Beppe

Fenoglio è morto a quarant’anni, e chissà quante righe meravigliose avrebbe scritto ancora se fosse vissuto più a lungo, come il suo amico Calvino, ad esempio. Però fumava come un turco, tutto il giorno e tutte le notti che passava sveglio a scrivere nella sua casa di Alba, e queste cose alle volte le paghi care. Fenoglio e le sue parole sono piantate come un ciocco nelle nostre colline, e anch’io, che sono figlio adottato di questa terra grazie alle tante vendemmie e al profumo delle acacie in fiore, sono stato come tutti folgorato dalla sua voce. Fenoglio ti incanta per i tagli secchi di marasso con cui ti restituisce l’essenziale, ti incanta per quello che non dice, nella sua scrittura che sembra tutta cose e che invece è tutta spirito, perché lo spirito è la verità delle cose. E che sia così lo capisci anche di fronte a casa sua, dove hanno messo un monumento e ci hanno scritto: “Johnny pensò che un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina guardando la città la sera della sua morte. Ecco l’importante: che ne rimanesse sempre uno”. Quel monumento tra 100 anni potrebbe non esserci più, ma quelle parole saranno di ispirazione alle resistenze dei prossimi duemila anni. Attraversando Alba la ricca in cerca delle parole di Beppe Fenoglio ho una volta di più la conferma che siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, grazie a dio.

Passati prossimi e futuri imminenti

di Stefano Gandolfi, 10 ottobre 2022

In pancia alla balena

di Paolo Repetto, 8 novembre 2021

La ricognizione nelle letture della scorsa estate mi sta prendendo la mano. Davvero non mi ero accorto che la stagione fosse stata così ricca. Ero distratto dai nostri successi sportivi (la raccolta continua: ori mondiali nel ciclismo su pista, nella ginnastica a corpo libero e in quella ritmica e nel nuoto: uno persino in matematica; manca più solo il rugby), dall’uscita allo scoperto dei neo-squadristi e dall’epidemia di coming out televisivi.

Riparto dunque dall’acquisizione più recente, quel Balene nella pancia che è comparso poco tempo fa sul sito. Non voglio mettere il becco dappertutto, ma la lettura mi ha intrigato “attivamente”, mi ha indotto a spingere un po’ più in là lo sguardo, e credo fosse ciò che chi lo ha scritto si augurava. L’ho fatto a modo mio, senza scendere in profondità e limitandomi a cercare altri esempi letterari di soggiorni più o meno prolungati nelle pance di mostri marini: il che magari non risponde esattamente agli intenti dell’autore, ma soddisfa piuttosto la mia maniacale sindrome dei repertori. E tuttavia, qualcosa è venuto fuori anche da questa scorribanda in superficie. Le considerazioni che seguono non sono quindi riservate solo a chi è affetto dalla stessa mia malattia.

Per cominciare, ho verificato che la condizione dalla quale il saggio prende spunto, la prigionia nel ventre di un mostro, di un pesce o di un cetaceo, è talmente ricorrente da costituire un vero e proprio tòpos, le cui costanti sono una situazione iniziale negativa, l’essere ingoiato, e una soluzione finale positiva, l’uscirne vivo (e la singolarità sta proprio nel fatto che i protagonisti rimangono incolumi, passano per la bocca senza essere triturati dai denti, scivolano senza essere soffocati in gola e non sono bruciati dagli acidi dello stomaco). Non voglio inseguirne qui tutte le diverse fenomenologie, perché una cosa del genere porterebbe solo ad un elenco arido e inutile: le narrazioni mitologiche e le letterature di tutti i popoli del mondo sono piene di mostri marini di dimensioni immani e dalle forme più fantasiose, balene-isola, serpenti di mare, piovre giganti, draghi, ecc…. Mi limito pertanto a ricordare alcune delle più famose (dando per scontate naturalmente le storie di Giona, di Pinocchio e della balena bianca, che sono già state ampiamente rievocate in Balene nella pancia), cercando di lasciar parlare il più possibile i testi. Credo che anche quelli che ai fini dell’indagine sulla “leviatanologia” paiono irrilevanti possano in realtà diventare rivelatori.

Ciò che veramente importa è infatti quel che accade alle vittime, una volta dentro. La condizione e il tipo di reazione possono variare, ma sono tutte riconducibili grosso modo a due filoni: uno che potremmo definire mistico-biblico (anche se la storia di Giona non è affatto un archetipo, riprende miti mesopotamici molto più antichi) e un altro di matrice greco-razionalistica. Nel primo caso l’incidente è vissuto come occasione di riflessione, di espiazione e di redenzione rispetto ad una colpa originaria, il pesce è uno strumento di Dio e la soluzione arriva dall’esterno, per volontà appunto divina; nel secondo è sofferto come prigionia soffocante da cui evadere, il pesce-mostro è ucciso dall’interno, e la liberazione è frutto della intelligenza e dello spirito di sopravvivenza umani.

In pancia alla balena 02In sostanza, la vicenda viene usata spesso come metafora di una condizione di disagio psicologico, talvolta come simbolico passaggio di rigenerazione, di norma come espediente fantasioso per insaporire l’avventura.

Un esempio di reazione “razionale” (le virgolette qui ci stanno tutte) è offerto, nella letteratura classica, dalla Storia Vera di Luciano di Samosata. Di vero nella Storia di Luciano c’è in effetti ben poco, anzi, proprio nulla, e quindi andrebbe gustata esclusivamente per l’abilità nel tenere sempre alta la curva dell’iperbole, senza pretendere significati reconditi. Ma il confronto con il trattamento biblico della stessa situazione diventa inevitabile.

Vedo di riassumere. L’autore e i suoi compagni, che si sono messi per mare in cerca di avventure, ne trovano più di quante vorrebbero, tanto da finire addirittura sulla luna. Di ritorno dal nostro satellite (dove peraltro le cose vanno esattamente come da noi, tra guerre continue) scendono sulla Terra, o meglio planano sull’oceano, e quasi subito la loro nave viene inghiottita da un’enorme balena. All’interno del cetaceo trovano un grande mare, e in mezzo ad esso un’isola abitata da tribù cannibali e primitive. Lasciamo però la parola al protagonista:

Due soli giorni navigammo con buon tempo, al comparire del terzo dalla parte che spuntava il sole a un tratto vediamo un grandissimo numero di fiere diverse e di balene, e una più grande di tutte lunga ben millecinquecento stadi venire a noi con la bocca spalancata, con larghissimo rimescolamento di mare innanzi a sé, e fra molta schiuma, mostrandoci denti più lunghi dei priapi di Siria, acuti come spiedi, e bianchi come quelli d’elefante. Al vederla: – Siamo perduti –, dicemmo tutti quanti, e abbracciati insieme aspettavamo; ed eccola avvicinarsi, e tirando a sé il fiato c’inghiottì con tutta la nave; ma non ebbe tempo di stritolarci, ché fra gl’intervalli dei denti la nave sdrucciolò giu.

Come fummo dentro la balena, dapprima era buio, e non vedevamo niente; ma dipoi avendo essa aperta la bocca, vediamo una immensa caverna larga e alta per ogni verso, e capace d’una città di diecimila abitanti. Stavano sparsi qua e là pesci minori, molti altri animali stritolati, e alberi di navi, e ancore, e ossa umane, e balle di mercanzie. Nel mezzo era una terra con colline, formatasi, come io credo, dal limo inghiottito; sovr’essa una selva con alberi d’ogni maniera, ed erbe e ortaggi, e pareva coltivata; volgeva intorno un duecento quaranta stadi, e ci vedevamo anche uccelli marini, come gabbiani e alcioni, fare i loro nidi su gli alberi.

Allora venne a tutti un gran pianto, ma infine io diedi animo ai compagni, e fermammo la nave. Essi battuta la selce col fucile accesero del fuoco, e così facemmo un po’ di cotto alla meglio. Avevamo intorno a noi pesci d’ogni maniera, e ci rimaneva ancora acqua di Espero. Il giorno appresso levatici, quando la balena apriva la bocca, vedevamo ora terre e montagne, ora solamente cielo, e talora anche isole, e così ci accorgemmo che essa correva veloce per tutte le parti del mare.

Poiché ci fummo in certo modo abituati a vivere così, io presi sette compagni e andai nella selva per scoprire il paese. […] Affrettato il passo giungemmo a un vecchio e un giovinetto, che con molta cura lavoravano un orticello, e l’annaffiavano con l’acqua condotta dalla fonte.

In pancia alla balena 03Compiaciuti insieme e spauriti, ci fermammo; e loro, come si può credere, commossi del pari, rimasero senza parlare. Dopo alcun tempo il vecchio disse: Chi siete voi, o forestieri? forse geni marini o uomini sfortunati come noi? ché noi siamo uomini, nati e vissuti su la terra, e ora siamo marini, e andiamo nuotando con questa belva che ci chiude, e non sappiamo che cosa siamo diventati, ché ci par d’essere morti, e pur sappiamo di vivere.

A queste parole io risposi: Anche noi, o padre, siamo uomini, e siamo arrivati poco fa, inghiottiti l’altro ieri, con tutta la nave. Ci siamo inoltrati volendo conoscere com’è fatta la selva, che pareva grande e selvaggia […] Ma narraci i casi tuoi: chi sei tu, e come qui entrasti.

Quando fummo sazi, ci domandò di nostra ventura, e io gli narrai distesamente ogni cosa della tempesta, dell’isola, del viaggio per l’aria, della guerra, fino alla discesa nella balena.

Egli ne fece le meraviglie grandi, e poi a sua volta ci narrò i casi suoi, dicendo: Fino alla Sicilia navigammo prosperamente, ma di là un vento gagliardissimo dopo tre giorni ci trasportò nell’Oceano, dove abbattutici nella balena, fummo uomini e nave inghiottiti; e morti tutti gli altri, noi due soli scampammo. Sepolti i compagni, e rizzato un tempio a Nettuno, viviamo questa vita coltivando quest’orto, e cibandoci di pesci e di frutti. La selva, come vedete, è grande, e ha molte viti, dalle quali facciamo vino dolcissimo; ha una fonte, forse voi la vedeste, di chiarissima e freschissima acqua. Di foglie, ci facciamo i letti, bruciamo fuoco abbondante, prendiamo con le reti gli uccelli che volano, e peschiamo vivi i pesci che entrano ed escono per le branchie della balena; qui ci laviamo ancora, quando ci piace, che c’è un lago non molto salato, di un venti stadi di circuito, pieno d’ogni sorta di pesci, dove nuotiamo e andiamo in una barchetta che io stesso ho costruito. Son ventisette anni da che siamo stati inghiottiti, e forse potremmo sopportare ogni altra cosa, ma troppo grave molestia abbiamo dai nostri vicini, che sono intrattabili e selvatici.

A sistemare i vicini ci pensano Luciano e i suoi compagni. Secondo un costume che già all’epoca era consolidato l’equipaggio stermina tutti i selvaggi, ma si ritrova poi ad assistere ad una battaglia tra giganti che combattono stando su isole lunghissime, che spostano a remi come fossero piroghe. I greci capiscono allora che la faccenda può diventare delicata e cominciano a studiare come filarsela.

Da allora in poi, non potendo io sopportare di rimanere più a lungo nella balena, andavo mulinando come uscirne. In prima ci venne il pensiero di forare nella parete del fianco destro, e scappare. Ci mettemmo a cavare; ma cava, e cava quasi cinque stadi, era niente: onde smettemmo, e pensammo di bruciare il bosco, e così far morire la balena. Riuscito questo, ci sarebbe facile uscire. Cominciando dunque dalle parti della coda vi mettemmo fuoco, e per sette giorni ed altrettante notti non sentì bruciarsi; nell’ottavo ci accorgemmo che si risentiva, ché più lentamente apriva la bocca, e come l’apriva la richiudeva. Nel decimo e nell’undecimo era quasi incadaverita, e già puzzava. Nel dodicesimo appena noi pensammo che se in un’apertura di bocca non le fossero puntellati i denti mascellari da non farglieli più chiudere, noi correremmo pericolo di morir chiusi dentro la balena morta: onde puntellata la bocca con grandi travi, preparammo la nave, vi riponemmo molta provvigione d’acqua, e destinammo Scintaro a fare da pilota. Il giorno appresso era già morta, noi varammo la nave, e tiratala per l’intervallo dei denti, e ad essi sospesala dolcemente la calammo nel mare.

Usciti a questo modo, salimmo sul dorso della balena, e fatto un sacrificio a Nettuno, ivi rimanemmo tre dì, ché era bonaccia, e il quarto ci mettemmo alla vela. (Luciano di Samosata, Storia vera, libri I e II)

Al di là degli intenti di Luciano, che cerca solo di catturare e mantenere viva la meraviglia del lettore con gli effetti speciali, e quindi usa toni e modi che con la vicenda biblica di Giona hanno niente a che vedere, vengono fuori dei particolari che segnano una differenza significativa. Il luogo buio ma ricco di pesci, relitti di navi e ossa umane, piuttosto che a un loculo dove giacere per tre giorni in attesa della rinascita (che è il caso di Giona, a cui si rifarà poi dichiaratamente quello di Cristo) somiglia molto ad un possibile aldilà, abitato da uomini cui “pare d’essere morti, e pur sanno di vivere”. Anche se non è lecito leggere nella narrazione romanzesca di Luciano troppi significati simbolici, è pur vero che presso le culture classiche la tomba è un luogo ricco di oggetti e cibo, corredo necessario ad accompagnare il defunto nella sua nuova condizione. Come a dire che di qui o di là, non c’è poi molta differenza. Non è certo quello che pensavano gli eroi omerici, a giudicare dalle interviste che Ulisse realizza durante la discesa nell’Ade, ma si attaglia invece perfettamente all’epicureismo che Luciano professa. I tempi eroici sono finiti da un pezzo, e questo è lo specchio del mondo in cui Luciano vive.

In pancia alla balena 04Anche lui fa però riferimento ad una preesitente mitologia classica che di mostri acquatici ne propone a bizzeffe, o che propone lo stesso con fattezze diverse (è quello che viene denominato kētos; da cui successivamente, nella tradizione cristiana, il cetaceo per eccellenza, identificato nella balena). Perseo, ad esempio, lo combatte per salvare Andromeda (e in alcune versioni del mito lo uccide dopo essersi fatto ingoiare. In altre è invece Eracle ad uccidere ketos).

Particolarmente temuti sono poi i serpenti marini e le piovre. Nel secondo libro dell’Eneide sono proprio due serpenti usciti dal mare ad aggredire sulla spiaggia di Troia Laocoonte ed i suoi due figli. Riporto l’episodio, facendolo però raccontare non da Virgilio, ma da un autore leggermente più tardo, Petronio, perché nella sua narrazione c’è un interessante parallelo tra due tipi di mostruosità, quella naturale rappresentata dai serpenti che ingoiano i figli di Laocoonte e dilaniano il padre accorso in loro aiuto, e quella artificiale, rappresentata dal cavallo, (che tale appare subito ai Troiani, un mostrum, come dice Enea), nella cui pancia si nascondono i Greci per riuscire a penetrare in Troia.

Laocoonte ministro di Nettuno fende urlando la folla, vibra la lancia, la scaglia nel ventre del mostro, ma il volere dei numi gli fa debole il braccio, e il colpo rimbalza attutito, e dà credito all’inganno. Ma ancora egli chiede vigore alla mano spossata e saggia con l’ascia i concavi fianchi. Trasalgono i giovani chiusi nel ventre panciuto, e al loro sussurro la mole di quercia palpita d’estranea angoscia. Quei giovani presi andavano a prendere Troia, finendo per sempre la guerra con frode inaudita. Ma ecco un altro prodigio là dove Tenedo sorge dal mare, i flutti si gonfiano turgidi, rimbalzano le onde, si gonfiano di schiuma che la spiaggia ribatte, quale un tonfo di remi arriva nel cuore sereno della notte, quando solca una flotta le acque del mare che fervide gemono sotto l’impeto delle chiglie. Là noi volgiamo gli occhi e vediamo due draghi, che torcendosi spingono l’onda agli scogli, e coi petti impetuosi vorticano schiume intorno ai fianchi, come alte navi. Il mare percuotono con le code, le sciolte criniere lampeggiano come gli occhi, un bagliore di folgore incendia il mare e le onde sono tutte un tremolio di fremiti. Ogni cuore è sgomento. Cinti di sacre bende e con addosso il costume frigio i due figli gemelli di Laocoonte stavano lì sulla spiaggia. A un tratto li avvinghiano nelle loro spire i due draghi di fiamma, e quelli protendono ai morsi le piccole mani. Ciascuno non sé ma il fratello aiuta, e pietà si scambiano, finché morte li coglie in un mutuo terrore. Alla strage si aggiunge anche il padre, ben debole aiuto, che i due draghi già sazi di morte assalgono e trascinano sul lido. Giace vittima il sacerdote tra le are e il suo corpo percuote la terra. Cosi venne profanato il sacro e Troia affacciata sulla rovina perse per prima cosa gli dèi. (Satyricon, 88.9.4)

In pancia alla balena 05

Anche in questo caso lo scotto per il successo è la permanenza nel ventre buio di un animale. Quasi una forma di iniziazione. Ma, come dice Petronio, quella che si compie qui è una dissacrazione. E la dissacrazione vera è quella operata attraverso la téchne, la capacità di artificio degli umani. Il cavallo è una macchina: non è la prima, esistono altre macchine da guerra, ma questa nasconde uomini nella sua pancia. Prelude a mostri di altro tipo.

In pancia alla balena 06Le creature marine mostruose diventano una presenza fissa nelle mappe tardo-medioevali del mondo, soprattutto in quelle nordiche. Ma perdono per strada la loro valenza simbolica, per assumere invece sempre più una funzione narrativa o decorativa. Non esistono per punire chi si è macchiato di qualche colpa o dubita della giustizia divina, ma rientrano nel folklore paesaggistico e nei rischi dell’avventura. Sono significative in questo senso le immagini di draghi marini che corredano la Storia dei popoli settentrionali di Olao Magno (una delle perle della mia biblioteca: In Vinegia, appresso Francesco Bindoni, MDLXI) o la Carta Marina realizzata dallo stesso tra il 1527 ed il 1539, immagini che sono poi state trasferite pari pari nelle carte di Ortelio agli inizi del secolo successivo. I mostri sono rappresentati nel loro rapporto con gli umani, che rimane sempre ambiguo: nell’immagine di fianco, ad esempio, i naviganti hanno agganciato con l’ancora una creatura mostruosa, scambiandola per un’isola, e sono poi scesi tranquillamente dalla nave per accendere un fuoco sulla sua schiena. In questo caso nella situazione paradossale è evidente la linea di discendenza da Luciano: nelle caratteristiche fisiche attribuite al mostro c’è invece quella dalle antiche mitologie norrene, che al mare, e nella fattispecie all’oceano, associavano pericoli di ogni tipo, e quei pericoli li traducevano e li ibridavano visivamente nelle figurazioni più bizzarre.

In pancia alla balena 08Una vera balena in grasso ed ossa la ritroviamo invece nella letteratura cavalleresca tra Quattrocento e Cinquecento. Nel quarto dei Cinque Canti che Ariosto aggiunse e poi ritolse all’Orlando furioso, a finire nel suo ventre è Ruggero, perseguitato dalla maga Alcina.

Avea Ruggier lasciato poche miglia
Tariffa a dietro, e dalla destra sponda
Vede le Gade, e più lontan Siviglia,
E nelle poppe avea l’aura seconda;
Quando a un tratto di man, con maraviglia,
Un’isoletta uscir vide dell’onda:
Isola pare, ed era una balena
Che fuor del mar scopría tutta la schiena.

Nel panico che segue la nave prende fuoco, e Ruggero tra il morire bruciato e l’annegare sceglie la seconda opzione e si butta in mare con tutte le armi. Ma

Qual suol vedersi in lucida onda e fresca
Di tranquillo vivaio correr la lasca
Al pan che getti il pescatore, o all’esca
Ch’in ramo alcun delle sue rive nasca;
Tal la balena, che per lunga tresca
Segue Ruggier, perché di lui si pasca,
Visto il salto, v’accorre, e senza noja
Con un gran sorso d’acqua se lo ingoja.
Ruggier, che s’era abbandonato e al tutto
Messo per morto, dal timor confuso,
Non s’avvide al cader, come condutto
Fosse in quel luogo tenebroso e chiuso;
Ma perché gli parea fetido e brutto,
Esser spirto pensò di vita escluso.
Era come una grotta ampia e capace
L’oscurissimo ventre ove era sceso (…)
Brancolando, le man quanto può stende
Dall’un lato e dall’altro, e nulla prende.
Un picciol lumicin d’una lucerna
Vide apparir lontan per la caverna.

In pancia alla balena 09Chi sopravviene è un vecchio dalla lunga barba bianca, che alla domanda di Ruggero: sono vivo o sono morto? risponde:

Figliuol, rispose il vecchio, tu sei vivo,
Come anch’io son; ma fôra meglio molto
Esser di vita l’uno e l’altro privo,
Che nel mostro marin viver sepolto.
Tu sei d’Alcina, se non sai, captivo;
Ella t’ha il laccio teso, e al fin t’ha côlto,
Come côlse me ancora, con parecchi
Altri che ci vedrai, giovani e vecchi.

Tra questi altri, presso i quali il vecchio conduce Ruggero, e che si sono organizzati come in un camping, c’è anche Astolfo.

Tosto che pon Ruggier là dentro il piede,
Vi riconosce Astolfo paladino,
Che mal contento in un dei letti siede,
Tra sè piangendo il suo fiero destino.
Lo corre ad abbracciar, come lo vede:
Gli leva Astolfo incontra il viso chino:
E come lui Ruggier esser conosce,
Rinnôva i pianti, e fa maggior l’angosce.

I due si confidano vicendevolmente le proprie sventure, e poi si mettono a tavola, per un banchetto imbandito dai compagni di Astolfo. Come siano alla fine usciti dal ventre della balena non lo sappiamo. Ariosto li liquida così:

Ma di Astolfo e Ruggier più non vi sego:
Diròvvi un’altra volta i lor successi.
Finch’io ritorno a rivederli, ponno
Cenare ad agio, e di poi fare un sonno.

In pancia alla balena 10

Non ce lo dirà mai perché nella versione definitiva dell’Orlando l’episodio che ho appena raccontato non compare: compare sì la balena, ma Astolfo viaggia sul suo dorso accanto ad Alcina, della quale è follemente innamorato. Ruggero si lancia inutilmente in mare per sottrarlo all’incantesimo amoroso, ma è respinto dalle onde. La differenza tra le due versioni è sostanziale: quella da me riportata è stata elaborata da Ariosto in un momento di ripensamenti morali e religiosi (siamo nella fase più calda della riforma protestante), e si fondava sulla possibilità di riscatto dalla pazzia umana attraverso la fede. Sono propenso a credere che non sia estraneo l’influsso dell’Elogio della follia di Erasmo. Questo spiega la riesumazione del modello biblico, declinato alla luce dell’etica cavalleresca, per cui i due eroi, prigionieri della follia umana e redenti dalla follia della Croce, diventano soldati di Cristo.

Il motivo per il quale i cinque canti non sono stati inseriti è comunque evidente. Ripensamenti o no, Ariosto si è reso conto che non c’entravano affatto con lo spirito e con la temperie del poema, e ce li ha risparmiati.

Esistono però, se non nella mitologia almeno nella tradizione popolare, anche dei pesci buoni, come quello che nella quinta giornata del Pentamerone di Giovan Battista Basile sottrae la giovane Nennella all’annegamento, ingoiandola, e la risputa poi fuori dopo averla condotta in salvo. Nennella e il fratello Ninnillo sono stati lasciati nel bosco per volontà di una matrigna cattiva (un pescecane maledetto, la definisce Basile), Dopo varie vicende finiscono separati, e mentre Ninnillo è adottato da un principe, Nennella, rapita da un corsaro, è coinvolta nel naufragio dell’imbarcazione di quest’ultimo, nel quale tutti muoiono tranne lei.

In pancia alla balena 11Solo Nennella […] scampò questo pericolo perché proprio in quel momento si trovò vicino alla barca un grande pesce fatato, che, aprendo un abisso di bocca, se l’inghiottì. E quando la ragazza credeva di avere finito i suoi giorni proprio allora trovò cose da trasecolare nella pancia di questo pesce, perché c’erano campagne bellissime, giardini deliziosi, una casa signorile con tutte le comodità, dove se ne stava da principessa.

Ora accadde che quel pesce la portasse di peso a uno scoglio, dove […] il principe era venuto a prendere il fresco. E Ninnillo s’era posto a un verone del palazzo. Nennella lo vide attraverso le fauci aperte del pesce e gridò: “fratello mio, fratello mio”. […]

Il principe gli disse di accostarsi a pesce e vedere che cosa fosse […] E Ninnillo si avvicinò al pesce e quello, poggiata la testa sopra uno scoglio e aperti sei palmi di bocca, ne fece uscire Nennella, così bella che sembrava proprio una ninfa che, in un intermezzo, usciva, per incanto di qualche mago, da quella bestia. (Pentamerone, V giornata, favola VII)

Per completezza di informazione, c’è il lieto fine: il principe combina per entrambi dei matrimoni da favola, mentre la matrigna finisce sfracellata dentro una botte fatta rotolare giù da una rupe.

Quasi due secoli dopo un altro eroe letterario fa quest’esperienza: è il barone di Münchausen (a proposito: andando a sfogliare per l’ennesima volta il libro delle sue avventure ho ritrovato l’episodio della trombetta da postiglione che si era congelata e che una volta al caldo della stufa si scongela ed emette le sue note. Qui l’autore si è chiaramente ispirato all’episodio di Gargantua che ho riportato ne L’estate tra i ghiacci). Il barone, o meglio, il suo biografo, Rudolf Erich Raspe, pesca a piene mani dai racconti di Luciano e dell’Ariosto, compreso il viaggio sulla luna, e non può certo mancare di fare la sua esperienza col cetaceo. Anzi, è quasi un habitué degli incontri molto ravvicinati con balene o con pesci comunque enormi. Li racconta ad una maniera che sarà un secolo dopo quella di Mark Twain, perentoria ed essenziale, quasi a non lasciare il tempo al lettore di riprendersi dallo stupore. Come a dire: se non mi credi, cosa stai a fare qui, puoi andare a bere da un’altra parte.

Ma è anche il modello sul quale si fondano i cartoni animati del Vicoyote e di Silvestro, di un mondo paradossale, opposto a quello razionale e reale, nel quale l’inverosimile sconfigge di continuo il verosimile, le situazioni sono rovesciate, i rapporti distorti. In fondo questo cumulo continuo di frottole non fa che anticipare la tecnica persuasiva della pubblicità e del dibattito politico moderni. Procede per accumulo di enfatizzazioni, iperboli, pure invenzioni ed esasperazioni, fino a farci accettare la menzogna come norma. Ma almeno, nella bocca del barone tutto il racconto è simpaticamente surreale, le fanfaronate si susseguono come fuochi d’artificio, esplodono a raffica senza accampare alcuna pretesa di credibilità.

Riporto quasi per intero i passi, che traggo da una vecchia traduzione per Marzocco a cura di Giuseppe Fanciulli, perché difficilmente potrete trovare nelle edizioni moderne una versione così fedele all’originale di Raspe (oggi circolano solo “adattamenti”, e tremo a pensare a cosa succederà quando i “politicamente corretti” si ricorderanno del barone).

Errammo per oltre tre mesi senza sapere dove andavamo, non avendo bussola, finché ci trovammo in un mare che appariva tutto nero. Ne assaggiammo l’acqua e scoprimmo con grandissimo stupore che era ottimo vino, così che ci volle tutta la nostra autorità per impedire ai marinai di ubriacarsi. Purtroppo il nostro pensiero fu presto distolto da questa inezia, perché ci trovammo circondati da immense balene e da altri mostri marini smisurati, uno dei quali era talmente lungo che non riuscii a vederne la coda, neanche con l’aiuto dei migliori cannocchiali.

Per disgrazia ci accorgemmo della sua presenza quando gli eravamo già troppo vicini, e in men che non si dice tutta la nostra nave con le vele spiegate e gli alberi ritti passò nella sua gola.

Là dentro errammo per qualche tempo, finché, avendo il mostro inghiottito una prodigiosa massa d’acqua, la nave seguì la corrente, e ci trovammo in un momento nello stomaco della bestia. L’aria per la verità, era laggiù piuttosto calda, e tuttavia gettammo l’ancora in un sicuro porto e ci guardammo in giro. Vi era un gran numero di ancore, gomene, scialuppe e di navi cariche e vuote inghiottite dal mostro. L’oscurità profonda ci costringeva all’uso continuo delle torce: due volte al giorno galleggiavamo e due eravamo a secco: quando il mostro beveva era il flusso e quando risputava l’acqua era il riflusso. Secondo i nostri calcoli l’acqua immessa era ordinariamente in quantità maggiore di quella contenuta nel lago di Ginevra, che ha trenta chilometri di circonferenza.

Il secondo giorno della nostra prigionia volli tentare, col capitano e gli altri ufficiali, un’escursione durante il periodo del riflusso. Muniti di torce scoprimmo tanta altra gente che si trovava nelle stesse condizioni nostre. Ve n’era di ogni nazione: saranno state più di diecimila persone, che si disponevano appunto a tener consiglio per decidere sul mezzo migliore per uscire da quella prigione.

Vi erano persino dei bambini che non avevano mai visto il mondo, essendo nati là dentro […]

Proposi subito un tentativo di salvataggio con l’introdurre due alberi maestri legati insieme nella gola del pesce, in modo che non potesse più chiudere la bocca. (…) Il mostro sbadigliò, e l’asta lunghissima venne subito piantata nella sua gola, quindi il passaggio rimase per noi definitivamente aperto, e non appena giunse l’ora del reflusso disponemmo un ottimo servizio di scialuppe per rimorchiare tutte le navi fino alla luce del sole.

Potete immaginare con quale gioia lo salutammo dopo quindici giorni di prigionia e di tenebre. […] dopo molte profonde osservazioni io potei riconoscere che ci trovavamo nel Mar Caspio. Come mai potevamo essere giunti a questo mare che è come un gran lago chiuso da ogni parte? … il mostro che ci aveva ospitato nel suo stomaco per due settimane doveva averci trascinato fin là traversando qualche passaggio sottomarino.

In pancia alla balena 12

Ci ha preso gusto, perché nella seconda parte del libro, quella dedicata alle avventure di mare, Münchhausen racconta della collisione con una balena addormentata lunga ottocento metri, una botta talmente violenta che un marinaio che stava ammainando la vela maestra è sbalzato in aria di quindici chilometri, e riesce a tornare sulla nave solo aggrappandosi alla coda di un gabbiano. La balena, giustamente risentita, prende in bocca l’ancora e trascina la nave a velocità folle per un sacco di tempo, fino a quando la catena si spezza. Ma il bello viene dopo.

Mentre è al comando di una guarnigione a Marsiglia, il barone decide di concedersi una bella nuotata in mare. Ma:

Ad un tratto, veloce come un lampo, vidi venire verso di me un pesce enorme che mostrava già la bocca spalancata intenzionato a divorarmi. Non avevo via di scampo: fuggire era impossibile. Dovevo escogitare una soluzione al più presto possibile. Impulsivamente mi feci il più piccino possibile, cacciando la testa fra le spalle e stringendo più che potevo le braccia contro il corpo. Mi fu così possibile passare tra le ganasce del pesce e scivolare nel suo stomaco senza finire maciullato dalla sua affilata dentatura.

Puoi immaginare l’oscurità nella quale piombai una volta all’interno di quel corpo, ma ciò che mi risultò veramente insopportabile fu il calore. Di lì a poco sarei morto soffocato. Presi, dunque, una decisione drastica: provocare un tale dolore alle viscere del pesce da indurlo a una qualsiasi reazione! Iniziai, infatti, a ballare, ad agitarmi e a dimenarmi come un pazzo furioso lungo tutto il ventre dell’animale.

L’animale, a sua volta, fece la stessa cosa. Poi cominciò a urlare e a gemere in un modo spaventoso; infine si alzò, emergendo per metà dall’acqua. L’equipaggio di un bastimento mercantile italiano, che usciva allora dal porto, rallentò per ammirare quello spettacolo curioso e mai visto prima. I marinai si armarono di ferri e uncini e attaccarono il pesce, che in pochi minuti fu ucciso. Quindi la preda venne condotta a riva e io udii distintamente quegli uomini che si consultavano su come farla a pezzi per ottenere la maggiore quantità possibile di olio pregiato. II pericolo che stavo correndo era veramente grande. Rischiavo di essere squartato assieme all’animale. Cercai di non farmi prendere dal panico e di ragionare. Avrei atteso pazientemente che i ferri affondassero nella carne del pesce e avrei poi calcolato la direzione del taglio, nascondendomi altrove.

Dapprima i marinai lacerarono il ventre dell’animale cosicché, appena intravidi la punta dell’arpione bucare le viscere, andai a rifugiarmi nella coda dell’animale. Poi, quando la luce naturale illuminò la cavità, presi a gridare con tutta la forza dei miei polmoni. Mi è impossibile descriverti la meraviglia che si dipinse su tutti i volti nel momento in cui la mia voce si fece strada fra le viscere del pesce. Quella meraviglia fu anche più grande quando videro uscire un uomo vivo e completamente nudo come il nostro primo padre Adamo.

In pancia alla balena 13

Il topos dell’ingoiamento torna con frequenza nella letteratura romantica e tardo-romantica, sia pure sotto spoglie rinnovate. Può rientrarci infatti anche la vicenda raccontata da Edgard Allan Poe in Una discesa nel Maelström, così come Le avventure di Gordon Pym, che ci fanno incontrare un altro essere mostruoso, la sfinge dei ghiacci.

In pancia alla balena 14Nel primo racconto una violenta tempesta sospinge tre pescatori norvegesi, tre fratelli, verso un enorme vortice: il maelström. La loro imbarcazione è risucchiata in un abisso che si apre a cono rovesciato e viene attirata verso il fondo. Alla fine uno solo dei tre si salva, aggrappandosi ad un barile vuoto che è risputato fuori. Le correnti lo spingono a questo punto verso la riva, e lì può raccontare la terribile esperienza che ha vissuto: ma ne è uscito trasformato, i suoi capelli si sono completamente sbiancati e il suo equilibrio psichico è distrutto.

Qui dominante è il tema della potenza distruttiva della natura, dalla quale nella sua fragilità l’essere umano viene divorato. Ma, al di là dello sgomento, c’è una certa rassegnata identificazione:

“Ora che eravamo in mezzo al gorgo, mi sentivo più calmo … Avendo compreso che oramai non avevamo più alcuna speranza, mi ero liberato di gran parte del terrore … Penso che fosse la disperazione a distendere i miei nervi.”

che può diventare addirittura attrazione:

“Trovavo fosse una cosa meravigliosa morire in quel modo e folle dare tanta importanza alla mia vita personale di fronte a quella manifesta ne della potenza di Dio.”

Un Poe decisamente biblico, così come biblico è il suo contemporaneo Melville. C’è però anche qualcos’altro. L’orrore viene dall’abisso, e l’abisso sul quale ci affacciamo può essere anche quello degli strati più profondi del nostro animo, nel quale albergano sentimenti che non vorremmo conoscere e che escono allo scoperto nei momenti estremi. Due dei fratelli, ad esempio, si ritrovano a disputarsi l’unico appiglio per la salvezza:

“… Si lanciò verso l’anello dal quale, nella sua agonia di terrore, cercò di strappar via le mie mani, non essendoci posto per due.”

Si torna ai mostri nella pancia di cui parla il saggio dal quale siamo partiti. Ma per prendere subito un’altra direzione, meno intimista.

In pancia alla balena 15Infatti: dove conduce l’abisso? Non necessariamente all’inferno, malgrado le due immagini siano strettamente associate. È possibile che Poe si sia ispirato per questi due racconti alla teoria della “terra cava”, diffusa nella prima metà dell’ottocento da alcuni esploratori, che si cimentarono anche in improbabili spedizioni polari. La versione più fantasiosa di questa teoria postulava che una razza umana abitasse nella pancia della terra, in qualche caso disputandola a residuali mostri preistorici. Anche se Poe non ne fa mai menzione esplicita, direi che la cosa era senz’altro nelle sue corde, e che proprio attraverso la sua opera sia stata trasmessa a diversi autori da lui fortemente influenzati.

A Poe si rifà infatti esplicitamente Verne in Ventimila leghe sotto i mari, facendo inghiottire il Nautilus da un gigantesco maelström (ma il sottomarino riesce a salvarsi, e lo ritroveremo poi in una grotta de L’isola misteriosa.) Il richiamo è ancora più esplicito ne La sfinge dei ghiacci, concepito come un seguito de Le Avventure di Arthur Gordon Pym.

I mostri marini in Verne sicuramente non mancano, ma direi che il più interessante è proprio il Nautilus. Tale appare all’opinione pubblica, visto che i superstiti delle navi da esso affondate raccontano “di avere visto una ‘cosa enorme’, strana, lunga, fusiforme, talvolta fosforescente, infinitamente più grande e più veloce di una balena”, che lancia sbuffi d’acqua a grandi altezze; ma in un primo momento appare tale anche al professor Aronnax, che lo scambia per un enorme narvalo. In effetti il Nautilus è un mostro: un mostro artificiale, che ha un lontano progenitore nel cavallo di Troia. Nel suo ventre dimorano e viaggiano per ottantamila chilometri i tre protagonisti, incontrando calamari giganti ed esplorando foreste sottomarine. Ma hanno anche modo di meditare, confrontandosi col capitano Nemo, che ritorce le conquiste del progresso contro la coscienza sporca della società del profitto. Ed anche loro escono dal soggiorno nella pancia del mostro molto cambiati.

A Verne l’idea di cacciare i protagonisti delle sue storie in caverne, cunicoli, anfratti del sottosuolo piace parecchio (così come quella di farli volare nello spazio: anche lui li manda sulla Luna). Non vuole lasciare spazi inesplorati, si picca dare una spiegazione razionale di tutto (la Sfinge dei ghiacci si rivela alla fine del suo romanzo essere una montagna ghiacciata) ma un gusto particolare lo prova quando può uscire dal binario del verosimile e aprire alla scoperta paesaggi totalmente inediti. Il Viaggio al centro della terra è un’esplorazione dell’abisso che strizza l’occhio alla teoria della terra cava. Tradotto nel linguaggio usato per queste riflessioni, il titolo potrebbe essere Nella pancia del mondo.

Cos’hanno in comune tutte queste vicende? Più di quanto non si pensi. L’unica differenza tra il calarsi nelle viscere della terra e l’entrare nello stomaco di una balena sta nel fatto che nel secondo caso di norma non si sceglie. Non è una differenza da poco, ma l’esito è lo stesso. È la vertigine creata dall’ignoto, dal non sentire sotto i piedi la terra (“sente che sotto i piedi arena giace,/ Che cede, ovunque egli la calchi, al peso” scrive Ariosto), dal roteare e precipitare nel vuoto. Racconta più il disagio della civiltà che non l’epopea del progresso. Come del resto hanno fatto, in maniere diverse, tutti i suoi predecessori.

Per chiudere almeno momentaneamente il cerchio dovrei parlare ora di altri epigoni di Poe, di Edward Bulwer-Lytton e del suo Vril (ne La razza ventura), ad esempio, o di Lovecraft, che ne Il tumulo immagina l’esistenza da tempi remotissimi nel sottosuolo terrestre di un mondo abitato da esseri terribili: ma sono cose di cui ho già trattato più o meno diffusamente altrove, e non voglio ripetermi.

L’impressione rimane quella: che in ogni epoca (anche in quelle nelle quali nasceva o si affermava la fiducia nel progresso) la letteratura abbia espresso, più che i timori per le incognite negative del futuro, i rimpianti per la perdita progressiva di dimensioni misteriose e inesplorate, della possibilità di essere sorpresi o di trovare in esse rifugio. Di qui l’ambiguità. Gli uomini a temono ma al contempo amano tanto il mistero quanto i pericoli che esso può celare: non possono fare a meno di una certa dose di adrenalina, e in un mondo totalmente disvelato e per la gran parte messo in sicurezza il rischio se lo vanno comunque a cercare, come testimoniano gli sport estremi. Oppure cercano i surrogati della vertigine, sulle montagne russe o nel bungee jumping ,

Concludo con una vicenda sulla cui autenticità lascio libero di decidere il lettore, e che in caso positivo non può non produrre qualche riflessione.

Il fatto sembra essere accaduto nel 2019, ed è stato raccontato da un sub che nuotava al largo delle coste sudafricane (pare comunque che esista anche una documentazione fotografica esterna, per quanto confusa). Era intento ad osservare il comportamento degli squali che gli nuotavano attorno (questo la dice già lunga sul personaggio), per cui troppo tardi si è reso conto di quello che gli stava accadendo:

[…] improvvisamente intorno è diventato buio. Ho capito che ero stato inghiottito da qualche animale. Ho trattenuto il respiro perché pensavo che si sarebbe immerso e mi avrebbe liberato molto più profondamente nell’oceano, era buio pesto dentro. Ovviamente poi l’animale si è reso conto che non ero quello che voleva mangiare, quindi mi ha sputato fuori. Una volta che sei preso da qualcosa che pesa oltre 15 tonnellate e si muove molto veloce nell’acqua, ti rendi conto che in realtà sei solo così piccolo in mezzo all’oceano. Ho sentito una pressione pazzesca ai fianchi ed è stato quando la balena si è accorta di aver sbagliato boccone. Lentamente ha spalancato le fauci per liberarmi e sono stato letteralmente spazzato via, insieme a quello che mi è sembrato una tonnellata d’acqua.

Ho confrontato questo racconto con quello di Münchausen. Quand’anche la si accetti come vera, la vicenda in definitiva non ci trasmette nulla. Semmai conferma quel che scrivevo prima a proposito del pericolo volutamente rincorso. Non è nemmeno spettacolare, e neppure lo sarebbe se fosse stata integralmente ripresa in soggettiva dal protagonista: senza i relitti, la possibilità di incontri straordinari, i banchetti a base di pesce e frutta, l’interno di questo pesce è solo una scatola buia e stretta. La dissacrazione delle paure e delle fantasie ancestrali ha lasciato il posto solo a quelle virtuali e artificialmente indotte. Il risultato è che non sappiamo più di cosa davvero dovremmo aver paura, e abbiamo paura di tutto.

P.S. In realtà non è finita qui. Rimane in sospeso il confronto con chi ha scritto un saggio intitolato “Nella pancia della balena”, ovvero George Orwell. Ma Orwell, come Cervantes, non può essere liquidato nelle poche righe di una rassegna come questa. Anche per lui do quindi appuntamento ad una prossima puntata.

Mi arriva notizia nel frattempo che siamo anche campioni d’Europa nel Football americano. Adesso il rugby non ha più scusanti. E io nemmeno.

Ma non sono così sicuro di voler davvero uscire dalla balena.

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