di Stefano Gandolfi, 10 ottobre 2022
Tag: medici
Attimi di legittimo sconforto
di Paolo Repetto, 19 marzo 2022
Non avrei mai pensato di scrivere un pezzo come quello che segue. Tratta una vicenda molto personale, ed io, che pure in qualche modo parlo sempre di me, per alcuni aspetti del mio privato sono piuttosto geloso. Inoltre non mi piacciono gli autori che raccontano questo genere di esperienze per avvallare l’idea che il dolore sia rigeneratore, che faccia scoprire altre dimensioni del mondo. Per quanto mi riguarda il dolore è stupido e assolutamente inutile: non fa scorgere affatto altre dimensioni, toglie valore e significato anche a quelle che ti inventi per aiutarti a vivere.
Lungi da me dunque l’idea di affidare la vicenda ad un social, per condividerla. Non c’era nulla di positivo da condividere, e il negativo non si condivide, lo si banalizza soltanto. Ho scritto questo pezzo per me, quasi per rassicurarmi, per certificarmi che l’emergenza psicologica nella quale stavo vivendo da quasi un anno fosse finita. Mi pareva che scaricare nel racconto la tensione di tutti questi mesi fosse l’unico modo per liberarmene davvero. Ma nel racconto non c’è alcun insegnamento, né potrebbe esserci: è una pura e gratuita testimonianza. L’ho scritta perché questo mi consente di addomesticare in qualche modo il ricordo, di scegliere cosa ricordare, e l’ho postata sul sito perché da tempo, comprensibilmente, non postavo più nulla, e ho voluto rassicurare i Viandanti che vivo e combatto con loro.
C’è, naturalmente, anche una terza motivazione, molto più prosaica e banale. Dal momento che ora esiste una versione scritta, rintracciabile sul sito, veritiera e ricca di dettagli, non sarò tenuto a ripetere ogni volta tutto il finale agli amici che stanno seguendo questa storia sin dall’origine, manifestandomi la loro solidarietà e confortandomi con la loro sollecitudine e il loro affetto. Mi si obietterà: cos’è questa, se non una richiesta di condivisione? Non è esatto: la condivisione c’è stata prima, e non ha avuto bisogno di passare per i social. Questa è al più una verbalizzazione.
Recentemente ho attraversato, da protagonista passivo e impotente, un momento non felice per la mia salute. Non era la prima volta che affrontavo problemi fisici anche piuttosto seri, non mi sono davvero fatto mancare nulla nella casistica ortopedica, ma era la prima volta che quanto mi stava capitando non ero andato in qualche modo a cercarmelo. E questo cambia completamente la prospettiva da cui si guarda alle cose, e le dimensioni che esse assumono.
È iniziato tutto quasi un anno fa. Una violentissima infiammazione mi ha scombussolato all’improvviso, senza alcun segnale premonitore, tutte le funzioni del basso torace, procurandomi dolori lancinanti. Già al primo tentativo di intervenire le cose si son messe male. Dopo otto ore vanamente spese in attesa di essere visitato in un pronto soccorso son tornato a casa (si era nel pieno della seconda ondata di Covid), solo per attendere poi altri tre giorni prima di essere visto in un ambulatorio urologico. Tamponata bene o male l’urgenza, è comincia una sequela di visite, analisi, esami che hanno portato tutti alla stessa conclusione: c’era un forte disordine nell’area prostatica, ma soprattutto è saltato fuori un ospite indesiderato. L’identificazione dell’ospite è slittata parecchio, perché nel frattempo è arrivata l’estate, l’esame bioptico che dovevo effettuare è un po’ particolare e necessitava di strumentazione e personale specialistico, io poi mi sentivo benissimo e tendevo a procrastinare gli accertamenti; fino a quando un giorno sono crollato, non mi reggevo in piedi, il cuore saltava come un grillo: per fortuna ho potuto fare affidamento su due amici medici, che mi hanno diagnosticato immediatamente un disturbo cardiaco con scompensi di vario tipo.
Ora, entrambe le patologie da cui sono afflitto di per sé non sono particolarmente gravi. Appena ci finisci dentro scopri che una buona metà delle persone che conosci, soprattutto dei tuoi coetanei, soffre di una delle due. Ti chiedi persino come mai tu sia stato fino a quel momento escluso dal Club. È un po’ più grave la loro concomitanza, perché oltre a indebolire le difese naturali complica le pratiche terapeutiche. Ma insomma, uno storce un po’ la bocca, impara a girare col pastigliario appresso, sa di non poter forzare certi limiti e si adegua. Il problema serio arriva quando l’esame istologico ti dice che l’ospite indesiderato è anche particolarmente cattivo, per cui potrebbe improvvisamente arrabbiarsi e creare situazioni ben più serie. È necessario un intervento radicale. Solo che a questo punto siamo già alla metà di ottobre, gli ospedali sono in affanno per la terza ondata Covid, l’intervento non può essere eseguito prima di gennaio.
E infatti. Vengo convocato per lunedì 21 gennaio. Una settimana prima sono sottoposto a un prericovero, con analisi, prelievi, rilevamento di tutti i parametri vitali, radiografia toracica, storia medica, ipotesi terapeutiche successive, ecc. L’antivigilia del ricovero è d’obbligo la procedura anticovid: tampone e altra radiografia polmonare (quella della settimana precedente non è più considerata valida). La domenica della vigilia, nel primo pomeriggio, sono pronto ad entrare in ospedale con la mia valigia piena di libri, di agende e di penne, quando un messaggio del ministero della salute mi avvisa che il mio green pass non è più valido, essendo io risultato positivo al tampone. Quindi salta naturalmente anche l’intervento. Telefono in ospedale, mi dicono che già lo sapevano, obietto che avrebbero potuto informarmi, ribattono che quello non era compito loro, ma del ministero. Scatta la quarantena. Per sei giorni rimango chiuso in casa a Lerma, mai stato meglio in vita mia. Al settimo, nuovo tampone: che risulta negativo, cosa che comunico all’ospedale, da dove mi informano però che essendo saltato il turno dovrò attendere il prossimo. Quando, non si sa.
Trascorre dunque più di un altro mese. Nel frattempo mi sottopongo per curiosità a due altri tamponi, di quelli che rilevano l’avvenuto contatto o meno con soggetti Covid. Sembra non abbia incrociato il virus nemmeno di lontano.
Mi richiamano alla fine di febbraio. Nuova trafila di colloqui, analisi e prelievi, nuovo tampone e nuova radiografia polmonare. La radiologa mi riconosce, ormai sono di casa, chiacchieriamo anche un po’. La domenica, dopo una mattinata di mercatino, mi ricovero. L’ospedale è quasi deserto, atmosfera molto soft e un po’ irreale. Due infermiere e una dottoressa che si dedicano totalmente a me, colloqui, parametri, depilazione quasi integrale, un po’ fastidiosa nelle parti intime. Alla fine sono liscio come una statua greca, ma del periodo ellenistico: soprattutto sono perfettamente rilassato, persino un po’ curioso di quali saranno gli effetti dell’anestesia, essendo previsto per l’intervento un tempo piuttosto lungo, tra le cinque e le sette ore.
Per il momento sono destinato a non saperlo. Alle diciannove la dottoressa viene ad avvertirmi con evidente imbarazzo che si è verificato un guasto al robot col quale avrei dovuto essere operato, e quindi salta nuovamente tutto. Mi rivesto in fretta e torno a casa. Ormai provo una sensazione di imbarazzo, quasi di vergogna, a comunicare nei giorni successivi quanto è accaduto agli amici che chiamano per informarsi del mio stato: come fosse colpa mia, come mi fossi inventato tutto. E in effetti, mentre la prima volta esprimevano il loro stupito rammarico, adesso sento anche via cavo che la prima reazione è un sorriso incredulo, e solo dopo arrivano l’indignazione e il sostegno. Lo sento perché so che reagirei io stesso così.
Questa volta la riconvocazione arriva più celermente. Due sole settimane. ennesimo prericovero, ormai quasi solo formale, perché anche loro si vergognano un po’. Ma al protocollo anticovid non si sfugge. Altro tampone, altra radiografia al torace, la quarta in neanche due mesi. L’addetta mi saluta con entusiasmo, e dopo i convenevoli rituali mi chiede se avverto qualche conseguenza. Le dico che sono solo fosforescente la notte. Risponde che passerà.
Domenica 13, nel pomeriggio, secondo ricovero. Negli ultimi quindici giorni l’atmosfera è molto cambiata. Il reparto è pieno, tutte le camere, che ospitano ognuna tre letti, sono occupate. Vengo poi a sapere che sono ospitati qui anche pazienti di altre divisioni. Evidentemente, mentre ci ripetiamo che va tutto bene e aboliamo anche le ultime elementari restrizioni alla nostra preziosa “libertà”, la situazione dei posti letto sta precipitando. Prevedo che ad ottobre saremo nuovamente nelle condizioni dei due autunni precedenti.
Vengo sistemato in una camera occupata per il momento da un solo altro paziente, più anziano di me, già operato e degente da tre o quattro giorni. Non è un chiacchierone, anzi, proprio non parla, e la cosa non mi spiace affatto. Ho portato la mia solita scorta di libri, ma mi accorgo subito che non è ambiente propizio alla lettura, almeno per adesso. Quando mi affaccio in corridoio incrocio gli operati dei giorni precedenti, deambulanti dalla camera ai servizi con movimenti lentissimi, coperti dalla vita in giù da un lungo lenzuolo bianco allacciato alla meglio sui fianchi, a mo’ di pareo. Di sotto il lenzuolo escono tubi e tubicini che finiscono in sacche trasparenti, sorrette a mano o appese ad un trespolo. Immagini tra psicanalisi e surrealismo, come in “Io ti salverò”.
Del giorno successivo, quello dell’intervento, ricordo poco. Mi hanno addormentato alle otto del mattino, mi sono risvegliato, credo, verso le diciassette, con una cauta sensazione di benessere, nessun dolore: quando ho realizzato non mi pareva vero di averla sfangata così.
E infatti. Il giorno successivo reggo senza antidolorifici , ma sono molto più agitato e sensibile. Il problema è anche che durante la notte è quasi impossibile dormire: come si spengono le luci nei corridoi si accende in ogni camera quella che dovrebbe essere l’illuminazione “di sicurezza”. Purtroppo è posta a mezzo metro da terra e brilla ad un metro o poco più dai miei occhi. Non bastasse questo, ci sono rumori continui, carrelli che vanno e vengono, campanelli suonati dai pazienti ogni due o tre minuti, infermieri che chiacchierano ad alta voce. La seconda notte è dunque infernale, e il giorno successivo procede sulla falsariga di quello precedente. Nessuna voglia di leggere, meno che mai di scrivere o di fare qualsiasi altra cosa. Nessun dolore acuto, ma un malessere profondo, diffuso.
L’imperativo categorico per l’operato di prostata è il ripristino il più veloce possibile della funzione deiettiva: la domanda più ricorrente che i dottori ti pongono è: sei andato di corpo? Hai almeno fatto aria? E se dopo tre giorni di aria non se ne parla ancora ti senti persino un po’ colpevole, poco diligente, e arrivi a mentire: beh, si, un pochino.
Chi non ha bisogno di mentire è il mio compagno di camera. La seconda notte di degenza l’ho vissuta come fossi a Kiev. Un bombardamento ininterrotto.
Mi scuso di parlare di queste cose, ma è ciò di cui si parla in ospedale in queste occasioni. E credo che lo stesso ritegno che vorrebbe indurmi adesso a lasciar perdere l’argomento agisca come remora psicologica al cercare la “liberazione” naturale. L’ho notato ad esempio nel terzo compagno di camera, associato a noi dopo due notti. Un ragazzone affetto da emiplegia totale destra, che deambulava con difficoltà e aveva l’uso di una sola mano, ma era arrivato in ospedale da solo, e non ha ricevuto alcuna visita nei giorni nei quali siamo rimasti assieme. Ciò per sua espressa volontà. Era determinato a non arrecare il minimo disturbo ai suoi familiari ma anche a tutto il personale sanitario, e a noi stessi, si scusava per ogni sia pur minima e legittima richiesta, apriva bocca solo se interrogato. Nel suo concetto di comportamento in pubblico non rientrava, evidentemente, nemmeno il cannoneggiamento a tappeto. La cosa mi ha colpito.
Come lui infatti ho ricevuto, e mi sono anche autoimposto, una educazione molto ottocentesca, perbenistica, borghese, chiamiamola un po’ come vogliamo, che prevedeva comportamenti il meno possibile invasivi della fisicità e degli spazi altrui, dai quali erano quindi escluse le manifestazioni “volgari”, dal tono di voce troppo forte fino al rutto o alla scorreggia. Quando queste ultime sono entrate di prepotenza, nel corso degli anni sessanta, nel cinema e nella letteratura ho avuto l’impressione che stessero crollando le mura di Gog e Magog, quelle barriere di decenza che bene o male avevano sino ad allora fatto argine all’irruzione dei barbari. Quella sensazione la conservo tuttora.
E tuttavia, pochi giorni di degenza in una corsia ospedaliera, soprattutto se sono giorni nei quali le parti meno “nobili” del tuo corpo e le loro attività sono costantemente al centro dell’attenzione, e medici e infermieri le trattano con una disarmante naturalezza, impongono di rivedere i criteri della “decenza”. Quando è in atto una lotta per la sopravvivenza, tutto va trattato e difeso allo stesso modo: magari senza rinnegare però l’esistenza di un confine, oltre il quale si scade dalla necessità alla volgarità.
Il quarto giorno percepisco aria di maretta sin dal primissimo mattino. Alle cinque le infermiere discutono, ad un passo dalla nostra porta, di turni intensificati e in qualche caso addirittura raddoppiati. La prima vasca giornaliera nel corridoio conferma che il pomeriggio precedente c’è stata una serie di nuovi ingressi. Non sono profughi ucraini, ma pazienti che come me avevano visto slittare il loro intervento, e che si cerca ora di recuperare, stanti i nuovi chiari di luna che si prospettano. Alle sette e mezza i letti-barella per il trasporto in sala operatoria, in attesa presso le porte delle camere, si sono moltiplicati.
Finisce che durante il giro di controllo di metà mattinata la mia dottoressa mi fa notare che in fondo, per come procede, potrei continuare senza troppi problemi la degenza tra le mura domestiche. Sono d’accordo, non vedo anzi l’ora, ma francamente non mi aspettavo una proposta così immediata: intende dire a partire già da oggi.
È così che a metà pomeriggio esco dal reparto, più o meno rivestito, con i tubi e le sacche nascosti dentro il giaccone e sotto i pantaloni, con il foglio della dimissione che mi spiega cosa dovrò fare per qualche giorno e mi convoca nuovamente per l’inizio della prossima settimana. È avvenuto praticamente tutto come in sogno, mi sono riscosso dal torpore che mi stava pian piano invadendo, ho convocato Mara a ritirare libri, pigiami, ciabatte e magliette da lavare, ho dimenticato i dolori residui. Il primo contatto con l’aria fresca esterna, all’uscita in via Venezia, mi euforizza.
Per il momento funziona. So bene che la fase impegnativa arriva adesso, che il recupero sarà lungo e che non devo aspettarmi di tornare meglio di prima. Ma almeno ho nuovamente voglia di fare, e l’aver buttato giù così sollecitamente queste righe lo dimostra.
Ora ci starebbero anche alcune osservazioni sulla divisione dei ruoli in un reparto sanitario, su come interagiscono diversamente con i pazienti dottori e dottoresse, su come un breve ricovero sia sufficiente a farti capire quanto lavorano, e in quali condizioni, sull’evidenza lampante che tutto ciò che gira attorno al mondo della medicina, forniture, appalti, ecc, a partire da quelli per le mense fino ad arrivare all’arredo, è gestito, quando va bene, da incompetenti.
Ma non esageriamo. Il segno di vita l’ho dato. Devo solo aggiungere, perché non si equivochi su quanto ho raccontato sopra, che sono sinceramente grato a tutto il personale medico e paramedico che si è occupato di me. Hanno fatto davvero tutti del loro meglio, e questo mi ha aiutato non solo ad affrontare serenamente la situazione, ma anche a sperare in qualcosa che va oltre questa particolare contingenza. Siamo senz’altro una civiltà in crisi, di valori, di ideali, di sogni: ma fino a quando la maggior parte delle persone continuerà, fosse pure per semplice senso del dovere, a svolgere il proprio lavoro con questo livello di professionalità, non abbiamo alibi per tirarci indietro quando tocchi a noi fare la nostra parte. Non ho ancora ben realizzato quale sarà la mia, se ne avrò una, perché uscirò senz’altro da questa vicenda molto “ridimensionato”, sia fisicamente che psicologicamente: ma per certo non ho nessunissima tentazione di mollare.
Tutto questo è banale? Senza dubbio: ma sapeste come cambia la percezione di ciò che è banale e di ciò che non lo è, a seconda che si guardi stando dritti in piedi o distesi su un lettino operatorio!
Se in un giorno di ordinaria epidemia Diderot e George Romero si incontrano in una villa abbandonata …
di Stefano Gandolfi, 22 novembre 2020
Così ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci diè.
Accidenti, Paolo. Che “sturm und drang” ho scatenato con una innocua passeggiata rigorosamente entro i confini del comune di Alessandria (vedi “Estetica delle macerie ed etica delle rovine“), studiata su carta escursionistica 1:25000 con accurata analisi dei limiti comunali per non rischiare multe da lock-down (guai ad entrare nei comuni di Pietramarazzi o Montecastello!), dopo aver escluso brutalmente tutti i territori a ovest-sud-est della città per tragica piattezza dei suddetti e aver trovato l’unica ancora di salvezza nei primi rilievi a nord, sopra Valle San Bartolomeo, gli arcinoti viottoli e sterrati nei pressi del maneggio e del ripetitore, battutissimi da pedoni, ciclisti e cavalieri, ancor di più in questi mesi nei quali il popolo italiano si è scoperto e inventato una vocazione allo sport outdoor! E dove si può provare l’ebbrezza di arrivare a ben 250 metri di altitudine sul livello del mare e di compiere, con opportune varianti, fino a 200-250 metri di dislivello. Perché come mi hai diagnosticato magistralmente, la mia indole di trekker d’alta quota mi porta in sofferenza dopo poche centinaia di metri piatti e orizzontali e il mio debito di ossigeno trova sollievo solo in quei minimi, insignificanti saliscendi che con molta e fervida fantasia mi trasportano sulle Alpi, sulle Ande, in Himalaya, beh, anche sul Tobbio, certamente!
Dunque, una semplice passeggiata, ma con sorpresa: i ruderi di Villa Garrone, ben nascosti nella fitta boscaglia che la circonda. Tu la hai già descritta con dovizia di particolari, quindi non mi dilungo su questi dettagli. Affascinante, misteriosa, inquietante quel tanto che basta da non desiderare più di tanto di essere lì di notte (ahh, mica per paura di presenze aliene e demoniache lovecraftiane, bensì molto più pragmaticamente per le possibili presenze umane che con ogni probabilità ne fanno sede periodica di raduni e consumo di sostanze terrene). Urbex: certo, anche passione e mania fotografica, da eterno ragazzino mai adulto quale sono mia nipote Fiorenza non ha faticato granché per contagiarmi con questa “insana” bizzarria, lei molto più avanti su questo terreno con incursioni in ville abbandonate, alberghi, terme, manicomi, edifici da archeologia industriale e tutto quanto è stato abbandonato dall’uomo. Quante ore a fantasticare con lei su una folle incursione a Prypiat, l’epicentro dell’esplosione di Chernobil (siamo poco normali? va bene, ce ne faremo una ragione!).
E poi comunque Poe, Lovecraft, Matheson, la cosiddetta letteratura di serie B sull’orrido, l’ultraterreno, sulle sudicie creature striscianti che riemergono dagli inferi, e anche G. Romero col primo mitico “Zombie” nel quale, con genio e intuizione a mio avviso insuperabile individuava in un ipermercato il fulcro dell’inizio della fine del genere umano, l’ultimo avamposto di una (inutile) resistenza con i segni già avanzati della rovina, del degrado, della marcescenza del contenuto consumistico ivi contenuto.
Sono partito col botto? Certo, anche perché nulla potrei aggiungere o discutere su quanto hai saggiamente esposto in merito alle macerie e alle rovine e quasi necessariamente (ma non forzatamente) devo iniziare da un punto di osservazione diverso, da buon fotografo devo fare un’inquadratura non banale e non scontata, e forse la chiave di lettura più utile al dibattito è quella relativa all’unico aspetto che forse non hai preso in considerazione, quello della natura.
La convivenza fra naturale e artificiale, il conflitto fra uomo e ambiente, lo scontro fra tecnologia e primordialità, l’inquinamento e la devastazione del pianeta in nome della scienza, del progresso e delle sorti magnifiche e progressive del genere umano, gli effetti collaterali terribili e forse irreversibili derivanti dai comportamenti dell’attuale dominatore del mondo (intendo l’uomo rispetto agli altri animali, non l’ex-presidente U.S.A.!), il negazionismo di Trump (eccolo) sui cambiamenti climatici, il menefreghismo della Cina e dell’India, l’ipocrisia di noi poveri e ininfluenti europei che taciamo sui 500.000 morti annui per cause da inquinamento e poi ci piangiamo addosso per i morti da COVID, legittimamente e inevitabilmente, beninteso: sono Medico, non eretico né negazionista, ho totale assoluta consapevolezza della attuale tragedia ed empatia umana per le vittime dirette e indirette, non voglio sottrarre nulla a tutto questo, semmai vorrei aggiungere anche altri problemi, altre cifre, altre criticità che spesso e deliberatamente vengono ignorate.
La natura, dunque. Certo. Ma anche l’uomo, perché no, solo declinato in qualche variante minoritaria, sconfitta, sparita dalla faccia della terra ma non per questo perdente. Sconfitta non dalle armi, ma dal raffreddore, dall’influenza, dalla sifilide a loro sconosciute e quindi senza alcuna difesa immunitaria, come successo agli Inca da parte dei civilizzatori cattolici spagnoli.
Cosa c’entra tutto questo con Villa Garrone? Ci arrivo subito.
Perù, tanti anni fa, ma potrebbe essere oggi. Cuzco, l’antica capitale incaica. Una strada, apparentemente secondaria, insignificante, un muro di un vecchio edificio, niente di rilevante, sembrerebbe. Poi te la fanno vedere. Una pietra con 12 angoli. Perfettamente incastrata, con perfetti angoli retti, e incernierata con altre 12 pietre, senza chiodi, viti, calce, cemento o quant’altro. 13 pietre squadrate a mano, con precisione millimetrica a sostenere da secoli il muro di una casa. Sopravvissuta a decine e decine di terremoti, mentre gli edifici costruiti dagli spagnoli e dai loro discendenti, regolarmente, ad ogni terremoto, crollavano.
Machu-Picchu, la capitale imperiale. Resti, certo, ma ancora perfettamente integri, solidi, neppure minimamente scalfiti dai terremoti. Archi e portali costruiti con una certa inclinazione e una certa angolatura che li mettevano al riparo dai sismi più apocalittici. Progettati dai loro ingegneri, apparentemente senza alcuna conoscenza scientifica, perlomeno quelle che intendiamo noi oggi.
Ti sembro forse in contraddizione con l’assioma (ovvio, viste le premesse che ho fatto) che la natura è dannatamente superiore all’uomo in ogni sua manifestazione? No, voglio solo dire che l’uomo ha saputo costruire meraviglie e con sistemi meravigliosi, che resistono nel tempo, non immortali ma sicuramente molto longeve. Ma gli uomini che hanno saputo fare questi prodigi, sono stati sconfitti, annientati, annichiliti da altri uomini che non sanno (quasi mai) costruire case antisismiche e che disprezzano completamente il rapporto con la natura.
E sono gli uomini che attualmente hanno il dominio sociale, economico, politico, militare sul mondo. E che abbandonano i loro manufatti alla rovina. A Machu-Picchu e a Cuzco non ho mai avuto un’estasi della rovina e del declino della civiltà umana, ma sempre e solo grande ammirazione per queste civiltà passate. A Villa Garrone tocco con mano il degrado, il declino, l’incuria della nostra civiltà. Non so che farci, sicuramente non sono oggettivo e parto prevenuto, ma questa civiltà della quale volenti o nolenti facciamo parte non mi sta simpatica; troppo arrogante, troppo presuntuosa, troppo convinta che l’armamentario scientifico, tecnologico che possiede e mette in campo sia superiore ad ogni legge della natura, che possa dominarla, modificarla a proprio piacimento senza preoccuparsi delle conseguenze e dei danni che invece provoca, senza peraltro nemmeno ottenere quei risultati millantati, visto che la durata media di tutte le moderne costruzioni umane è ridicolmente inferiore a quella delle costruzioni dei nostri antenati, a ogni latitudine e longitudine.
La povera Villa Garrone è probabilmente una vittima innocente di questi mie strali, ma come tanti altri edifici analoghi diventa per me simbolo di un modo di essere, di vivere, nel quale non si dà più valore a nulla, tutto diventa superfluo, obsoleto, sostituibile, perde valore con noncuranza e perde anche quel senso di legame emotivo, psicologico con gli affetti, con le persone, con le vite stesse che sono state vissute a contatto con questi manufatti.
Tutto può essere ricostruito con facilità senza minimamente preoccuparsi del significato economico, materiale ma anche e soprattutto psicologico del passato, recente o remoto che sia. Si distrugge tutto con voluttà, con violenza, per speculazione, per guadagno, per ingordigia, per costruire oleodotti, autostrade, ferrovie, aeroporti, centri commerciali (George Romero!!!!), tutte cose che a loro volta potranno tranquillamente essere demolite per qualcos’altro. Incessantemente. Si costruisce qualunque cosa e nulla di ciò che si costruisce ha alcun riferimento, contatto, compatibilità, plausibilità di avere un rapporto con l’ambiente in cui viene edificato: e questa estraneità, non appena viene a mancare uno qualunque dei motivi per cui ha senso che rimanga funzionante, fa sì che con grande velocità vada in rovina. Un impianto sciistico dove non nevica più, una miniera da cui non conviene più estrarre minerali o carbone, un albergo dove il turismo è scomparso, un ipermercato non più frequentato perché ne hanno costruito uno nuovo a mezzo chilometro di distanza, un grattacielo perché pericolante, una piscina, un palazzetto dello sport, un cinema, un teatro, un ospedale senza soldi per assumere e pagare i dipendenti, un ecomostro in riva al mare, e potrei continuare a lungo.
E la natura, o ciò che resta di essa, se lo riprende con altrettanta velocità. Lo ingloba, lo fagocita, lo assorbe completamente in spire di vegetazione, di boscaglia che si trasforma in foresta inestricabile. E si prende la sua rivincita. Una vittoria di Pirro, senza dubbio, ma come gli anglosassoni ci hanno insegnato, ci sono anche delle sconfitte gloriose, che danno senso all’inutilità (Mallory e la “conquista” dell’Everest…).
Provo simpatia per questa natura che, non appena l’uomo manda in malora qualcosa, se lo riprende. Ammiro la velocità e l’efficienza con cui lo fa, così come gli enzimi della digestione degradano il bolo alimentare. Rimango affascinato dalla trasformazione di una entità materiale in qualcosa di completamente diverso rispetto alla sua funzione originaria, al suo scopo, alla sua utilità.
Mentre mi aggiro circospetto e con cautela sui pavimenti e sulle macerie di Villa Garrone la mia fantasia vola a immaginare cosa sarà fra dieci, fra cinquanta, fra mille anni. Non provo malinconia, semmai una sorta di eccitazione all’idea della trasformazione, del divenire, del ritorno all’entropia dell’universo, allo sbriciolamento di ogni pezzo di pietra, di legno, di cemento, dei travi, degli infissi, dei vetri, dei cavi elettrici, e al pensiero di come tutto ciò rientrerà a far parte del ciclo degli elementi primordiali della natura, molecole, particelle organiche e inorganiche, atomi. E cosa, a loro volta, diventeranno e di quale organismo vivente faranno parte fra secoli e millenni.
Sono un rinnegato? Disprezzo il genere umano del quale faccio parte? Parteggio acriticamente per la natura vedendo in essa qualcosa di benigno mentre invece sa essere spietata e crudele come e più dell’uomo? No, certo. Però la durezza della natura non è voluta, non è sadica, non è criminale. È e basta, per motivi che a noi sono e devono essere sconosciuti o che forse non esistono nemmeno, è solo il corso delle cose. Distrugge e ricostruisce, con una logica e un’armonia inconcepibile. I più grandi capolavori della natura, i vulcani, le dorsali oceaniche, le montagne che tanto amiamo, sono espressione della mostruosa forza distruttrice e ricostruttiva, quando ammiriamo le forme aggraziate, poetiche, idilliache delle Dolomiti in realtà vediamo semplicemente l’erosione, la fatale inevitabile loro dissoluzione e scomparsa, ma ne rimaniamo affascinati e non proviamo certo angoscia né struggimento, perlomeno io! Quando ho visto da vicino l’Everest e gli altri ottomila himalayani ero ben consapevole di vedere il risultato di eventi geologici di tale potenza da non poter essere compresi dalla mente umana, seppure conosciuti e spiegati dalla scienza. Il ghiacciaio del Perito Moreno che si sgretolava, cadeva nel mare con blocchi delle dimensioni di grattacieli o di portaerei non mi ha intristito né reso malinconico, se non eventualmente per quanto ci sia di intervento umano nel determinare o accentuare il corso degli eventi, i cambiamenti climatici in primis. Ma questi fenomeni di per sé non mi creano angoscia. Panta rei.
No, non rinnego il genere umano e le sue opere, semmai questo tipo di umanità che ha preso il sopravvento, questo pensiero unico del profitto, del guadagno, il Dio crescita, il “potere distruttivo del capitalismo” (sic!), gli effetti collaterali ritenuti indispensabili per il benessere economico, salvo poi cercare maldestramente di correre ai ripari per i danni sulla salute, a curare il cancro, la leucemia, le patologie cardiovascolari, respiratorie e metaboliche da benessere, a giocare a guardie e ladri con la natura, a fare dei danni e poi “guardate come siamo bravi” a trovare dei rimedi che a loro volta, con un perfetto circolo vizioso, creano altri danni che richiedono ulteriori invenzioni per contrastarli; ma intanto l’economia gira, si creano i nuovi vaccini, si aspetterà la prossima epidemia per scoprire nuovamente che i comportamenti umani sono deleteri e dannosi (lasciamo stare le teorie complottiste: fin dal primo giorno dell’ epidemia continuo a sostenere che non è necessario pensare che qualcuno deliberatamente abbia creato tutto questo, è più che sufficiente la situazione ambientale, sociale di certe parti del mondo, l’antropizzazione, la promiscuità con altre specie animali in una elevatissima densità di popolazione, leggersi “Spillover” di d. Quammen che dovrebbe diventare libro di testo in tutte le scuole).
Potrei fare anch’io molte citazioni, mi limito a Tiziano Terzani e al suo struggimento per la devastante perdita di tutte le culture asiatiche spazzate via dal capitalismo e dal consumismo occidentale (aveva già capito tutto, la morte prematura perlomeno gli ha evitato l’amara consapevolezza di aver visto giusto). Questa Cina che coniuga il peggio del capitalismo ed il peggio del comunismo!, scartando come immondizia il suo immenso patrimonio culturale e quel poco che ci può essere di positivo nella civiltà occidentale, in termini di democrazia, tolleranza, rispetto dei diritti umani (ma che pena: l’Unione Europea non riesce nemmeno a farli rispettare all’Ungheria e alla Polonia, poi ci si indignava perché un po’ di anni fa il sindaco di Milano di allora aveva rifiutato la cittadinanza onoraria al Dalai Lama perché non faceva piacere al governo cinese!).
Non ne faccio una questione politica, sarebbe riduttivo, tu sai come la penso in merito, che si tratti di una posizione assolutamente trasversale che ha a che fare solo con il buon senso e con la lungimiranza del giocatore di scacchi che riesce a vedere non solo la mossa successiva, ma anche la successione di eventi fino alla sesta, settima, ottava mossa…
Certo, Villa Garrone c’azzecca poco con tutto questo sproloquio, sono sicuro che sia stata costruita con tutta la perizia, la competenza, le conoscenze del caso, con l’aspettativa di poter durare il più a lungo possibile, che potesse essere vissuta e abitata dalle generazioni successive, e mi immagino il dolore degli ultimi abitanti nell’essere costretti ad abbandonarla perché magari ne è rimasto uno solo vecchio, acciaccato e magari senza più la possibilità economica di mantenerla. Forse qualche erede esisteva pure, ma non gli interessava più perché ormai viveva in un edificio moderno e confortevole. Chi lo sa. Ma non è questo il punto.
Certo, sono affascinato da queste visioni, inquietato, stupito, ma non intristito, non provo nessuna malinconia. Vedo il corso degli eventi, il fluire del tempo, provo sollievo, come quando sono in cima a una montagna, per la consapevolezza della relatività di tutto ciò che sta sotto, della piccolezza e della precarietà della condizione umana, ma in un modo positivo, perché mi aiuta a ridimensionare e a dare la giusta dimensione e importanza alla sofferenza, al dolore, all’angoscia che sempre di più permeano l’esistenza nei pochi decenni di vita che ci vengono concessi. Penso con serenità alla transitorietà della vita, non perché la disprezzo, tutt’altro: perché la amo immensamente e voglio viverla il più intensamente possibile, ma sempre con la consapevolezza che in qualsiasi momento, qualsiasi evento può annichilire tutto. Non disprezzo quanto vi è di positivo nella scienza, sono ben contento che qualcuno mi abbia tolto il tumore dandomi un bel po’ di anni di aspettativa di vita, ma sono sempre più convinto che mi ritroverò addosso qualche altra rogna, anche peggiore, come “regalino” ed effetto collaterale di questa tecnologia alla quale siamo indissolubilmente legati e costretti ad accettare per sopravvivere.
Tornare all’età della pietra? a vivere in caverne con candele di cera o con un fuoco da mantenere sempre acceso per tenere lontane le bestie feroci? Ovvio che no. Pensare a una via di mezzo? Semplicistico, ma forse inevitabile. Smettere di chiamare Greta Thunberg “gretina”? potrebbe essere un piccolo, insignificante primo passo per l’uomo… riuscire a conciliare la necessità di sviluppo, di crescita economica, di benessere, di garantire lavoro e reddito a tutti con l’esigenza di garantire anche la salute? Non essere costretti a dare con una mano (il benessere materiale) e togliere con l’altra (il benessere fisico e mentale)? Utopistico. Forse… ma se diventasse inevitabile? Comincio a rompermi le scatole di tutti quelli che di fronte ad un discorso del genere lo troncano subito (anzi lo stroncano) con la famosa domanda retorica: “meglio morire di fame o di cancro?”. Perché il cancro si può sconfiggere, dicono. Non sempre e comunque non a costo zero (ne so qualcosa). E allora anche la fame si potrebbe sconfiggere, forse a costi minori se lo si fa con lungimiranza.
In definitiva vado a vedere e fotografare questi edifici, queste rovine, queste macerie semplicemente perché mi affascinano e le ritengo un buon soggetto fotografico, con una loro dignità artistica ed emotiva. Gli altri mille motivi per cui lo faccio li hai descritti magistralmente tu, mi identifico sicuramente in molte delle tue analisi. Ho ancora la curiosità per lo strano, l’imprevedibile, il disordinato, l’anomalo… e questo mi conforta perché la neurobiologia dice che possederla significa ancora essere giovani da un punto di vista biologico! Guardo avanti, e le rovine e le macerie del passato per qualche strano motivo mi stimolano ad un’immagine ottimistica del futuro.
Amo sempre di più la natura con tutte le sue possenti, maestose manifestazioni. Vorrei fotografare le eruzioni vulcaniche, i tornado, le tempeste, non per il gusto del catastrofico né per sentirmi onnipotente e sfidare la sorte (non ne ho più l’età da tempo!), ma solo per il fascino che provo di fronte ad eventi inconsapevoli, casuali, non voluti né creati, senza nessuna volontà di violenza, di crudeltà, di sopraffazione, di istinto sadico ed omicida. Forse per contrapposizione al fatto che nelle azioni umane tutti questi elementi sono ben presenti se non predominanti.
E allora ben venga la boscaglia che fra alcuni decenni avrà completamente fagocitato Villa Garrone. Se ci saremo ancora ne andremo a cercare qualcun’altra. Ma tu, per favore, non puoi venirci e farti fotografare in tuta da ginnastica, mi togli tutto il pathos alla scenografia ed alle suggestioni del luogo! Impara da tua figlia Elisa, perfetta modella chiaro-scura che emergeva tenuamente nei pochi raggi di sole filtranti fra le rovine, nel suo perfetto out-fit all-black!
I buoni e i cattivi maestri
Questo pezzo necessita di una presentazione, perché arriva a metà di un dialogo che si è svolto sino ad oggi via Whatsapp e si è nutrito soprattutto di reciproche segnalazioni di testi e articoli dedicati al Covid 19, alle sue origini, al suo decorso e alle prospettive più o meno immediate e ottimistiche di uscirne: segnalazioni che andavano a sostegno di due letture non sempre coincidenti del fenomeno e dei suoi risvolti politici, economici e sociali.
Ad un certo punto però il confronto ha preso un’altra strada, che ritengo molto più interessante, visto che dell’epidemia è tornato a parlare in televisione persino Sgarbi. Con Stefano abbiamo analizzato, e diversamente valutato, gli atteggiamenti che l’Europa in generale, e quella “nordica” in particolare, hanno tenuto durante questa crisi verso dell’Italia, così come le modalità con le quali hanno affrontato l’emergenza pandemica. E infine siamo approdati a considerazioni relative alla nostra maggiore o minore empatia nei loro confronti. Bene, credo che l’ultima mail di Stefano (che ha giustamente ritenuto fosse arrivato il momento di andare un po’ più in profondità) costituisca un ottimo esempio di quello che considero il modo civile di affrontare e discutere gli argomenti, e vada senz’altro proposta sul sito, perché ne incarna perfettamente lo spirito e gli intenti. E ci tornerò su a stretto giro, per non interrompere un dialogo che potrebbe riuscire di un qualche interesse anche per altri amici.
di Stefano Gandolfi, 20 aprile 2020
Ciao Paolo,
ti scrivo una mail ritenendola più adatta di un wahtsapp ove si è costretti a sintetizzare. Poi ovviamente avremo modo di parlarne a voce … giusto per riordinare le idee. Lo scambio di opinioni sull’ Olanda è significativo per almeno una considerazione, ovvero che ognuno di noi possiede una componente razionale che deriva dalla propria cultura, dall’intelligenza, dal bagaglio professionale acquisito in una vita ecc., ma è mosso poi anche da una componente emotiva che compensa e talvolta condiziona l’altra parte in modo non diciamo giusto, ma senz’altro inevitabile: altrimenti saremmo degli automi (dei tedeschi? se mi permetti la battuta!), prerogativa che al di là delle battute non attribuisco nemmeno ai tedeschi stessi… Nella mia (in)competenza medica e scientifica mi picco di un po’ di (in)competenza anche a livello di psicologia e psicoanalisi, soprattutto per la parte più nobile e organica, ovvero quella che descrive come reazioni chimiche, neuromediatori a livello di sinapsi ecc. determinano il modo in cui il sistema nervoso centrale ci fa agire, parlare, comportare.
Ognuno di noi ha delle simpatie, innate o più verosimilmente mediate dalle nostre esperienze e dall’ ambiente in cui viviamo; queste simpatie tendono a farci dare un giudizio non sul merito di un valore assoluto, ma sulla scorta di un valore misurato in base alla simpatia stessa, quindi più soggettivo che oggettivo.
Questo vale per tutti, a prescindere dal numero di libri letti, dalla esperienza professionale ecc. Poi è ovvio che se per una persona quello è l’unico metro di giudizio, non si va oltre le chiacchiere da bar, i proclami da “leoni da tastiera” e tutte le ben note e nefaste conseguenze… amplificate dai social. La percentuale di prevalenza della parte oggettiva su quella umorale, come tu ben sai, determina il risultato finale di un giudizio, un’opinione, uno schieramento ideologico, politico, sportivo, letterario …
Quante volte abbiamo parlato di bravissimi scrittori, poeti, musicisti, artisti ecc. dei quali non condividevamo assolutamente l’atteggiamento ideologico, e ci chiedevamo come potessero menti così brillanti e elevate avere idee di quel genere? Io tantissime volte, con sgomento e rammarico enormi, se si trattava persone amate, rispettate e magari anche venerate … Ma è giusto così, le divergenze fanno parte del gioco, anche se vorremmo riscrivere le regole!
Parlando di svizzeri, tedeschi, olandesi, scandinavi, è giocoforza arrivare in breve alle differenze antropologiche fra noi e loro, ed iniziare a camminare su un terreno minato. Quanto ho amato la Norvegia, l’ Olanda, la stessa Germania nel corso dei nostri viaggi europei prima di varcare gli oceani, quanto sono stato “nordico” e poco italiano, apprezzando il senso civico, l’educazione sociale, il rigore mentale di questi popoli, sia pure a fronte degli aspetti negativi noti da sempre, quali il maggior tasso di depressione e di alcolismo, l’altissimo tasso di suicidi in Norvegia, la pervicacia ancora oggi nel contribuire all’estinzione delle balene … Nulla di nuovo, nulla è cambiato, quello che cambia è la rilevanza che si attribuisce agli aspetti che ci piacciono rispetto a quelli che non ci piacciono; ma oggettivamente un popolo vale per quello che vale, a prescindere che mi piacesse di più venticinque anni fa piuttosto che adesso. E non c’ entra per niente Salvini o chi per esso …
C’ entra, magari, il fatto che ho poi viaggiato ad altre latitudini, geografiche e antropologiche, e ho conosciuto anche a casa loro popoli e paesi che da un punto di vista razionale fanno rabbrividire per i loro comportamenti politici, religiosi, ambientali … ma che poi ti lasciano dentro qualcosa in termini spirituali, affettivi, amicali … Qualcosa di assolutamente irrazionale, magari anche correlato al fatto che invecchiando si sgretola la barriera razionale e rigida con cui ci si è comportati fin lì (sicuramente non è il tuo caso!!! vabbe’ …): certo, gli indiani tengono le loro donne segregate, le picchiano e a volte le sgozzano … bruciano per le strade i rifiuti tossici, sono pigri, corrotti, indolenti … Certo, gli africani perpetuano nel tempo la loro indole peggiore, quella coltivata in loro dai colonizzatori in merito alla gestione dello stato, all’arricchimento personale … Certo, i sudamericani sono delle simpatiche canaglie, chi più chi meno senza generalizzare … poi magari queste sono le persone che, se ti rimane un solo neurone che funziona, ti restano per sempre nella memoria e nelle emozioni.
E allora magari ti ricordi (negativamente) di quei 4 ragazzi norvegesi completamente ubriachi e armati di bottiglie rotte che ci hanno inseguito in macchina per 50 km sulle strade deserte della Norvegia per un presunto sgarro di precedenza o di sorpasso (ma queste cose non dovrebbero succedere solo al sud?), di quella brava coppia di gestori di un B&B tedesco che al momento di pagarli ci hanno detto “per essere degli italiani sembrate quasi delle brave persone”, (e potrei citarne altri. documentati, in Austria, in Alto Adige, ecc): cito volutamente questi aneddoti proprio perché sono totalmente arbitrari, soggettivi e non espressivi in alcun modo di un giudizio globale su un popolo, potrei citarne altrettanti positivi di bei ricordi, questo a dimostrazione del fatto che poi alla fine quello che conta sono le emozioni e i sentimenti soggettivi, anche mutevoli nel corso degli anni. Tutto ciò non è né giusto né sbagliato, in ogni giudizio, ricordo, esperienza personale, c’è del vero ma anche dello sbagliato perché si omette tanto altro, e sono la simpatia o l’antipatia a pelle a far fa prevalere l’uno o l’altro aspetto.
A cosa voglio arrivare con tutti questi sproloqui? A dire che, a mio parere, è ben difficile esprimere un giudizio su un popolo, su una nazione, sulla base di esperienze aneddotiche o di mozioni di simpatia o di antipatia, e questo vale innanzitutto per me, perché mai vorrei lanciare il sasso e tirare indietro la mano, ogni cosa detta agli altri e per gli altri deve valere innanzitutto per me.
Allora come giudichiamo una nazione, ammesso che sia possibile? conosciamo tutto? Quello che succede nei piani alti della politica, dell’economia, delle banche? noi o chiunque altro possiamo avere una minima possibilità di conoscere la verità su tutto? forse in parte sì … I tedeschi stanno risolvendo meglio e prima la crisi sanitaria, sono forse gli unici al mondo ad avere predisposto, e poi attuato, come mi hai detto, un piano di emergenza … Tanto di cappello, non discuto, nutro se mai invidia e rabbia perché non hanno nulla più di noi per riuscirci, senz’altro nulla a livello di capacità professionale medica, sicuramente sì a livello organizzativo e logistico, che d’altra parte è il loro classico punto di forza.
Su tutto il resto. forse sì, ma forse anche no. Atti criminosi economici perpetrati dalle loro banche, bond tossici, malefatte a livello industriale (pensiamo al settore auto …): purtroppo non ho la competenza né il metodo per archiviare e riportare in modo giusto tante notizie periodicamente ricevute da amici e conoscenti del settore, persone consultate professionalmente e quindi non chiacchiere da bar. Ho il vizio di non archiviare in nessun modo i dati, diciamo pure che non mi interessa, quindi automaticamente non ho il diritto di andare oltre perché non posso documentare ciò che dico; però in questi giorni di inattività forzata seguo molto più della norma le notizie, cercando di scremare i siti attendibili e seri da quelli da quelli che non lo sono (e in questo, forse per la mia forma mentis di medico, penso di essere abbastanza bravo: lascia perdere quello dell’ Olanda, ti ho già spiegato perché te l’ho inviato …) Ora, continuando nell’errore di non salvare quasi nulla, leggo e apprendo cose che non corrispondono propriamente all’immagine limpida e pulita che ufficialmente compete all’Europa, intesa come U.E., e ai paesi del nord-Europa che dovrebbero essere i “campioni” di tale immagine. Mea culpa, non posso, ripeto, oggettivare nulla, mi sforzerò di farlo, di salvare dati, ma so già che non lo farò. In realtà, preferisco farmi due ore di ginnastica in casa, di cyclette o di tapis-roulant, lavorare le mie foto, fare cioè ciò che mi piace di più e dà un minimo di senso alla mia vita in questo momento. Quindi… mi autodichiaro sconfitto per K.O. tecnico! O per mancata volontà di documentarmi adeguatamente per il dibattito!
Al termine di questo sproloquio, ti confesso comunque che questo scambio di opinioni è di altissimo livello, e qui mi devi credere ciecamente, perché non essendo tu su Facebook ti perdi il brivido del clima da arena di gladiatori e da Bar Sport che vi domina!
A proposito di opportunità
Bene! Pare che funzioni. Non è un vaccino contro il maledetto corona, ma sembra efficace contro l’apatia neuronale che, tra i tanti altri “effetti collaterali”, il virus rischia di indurre. Ci sono già le prime risposte alla sollecitazione lanciata pochi giorni fa su questo sito. E sollecitamente cominciamo a proporle, a partire dalle considerazioni di un esperto, medico per formazione e libero pensatore per natura.
di Stefano Gandolfi, 18 marzo 2020
Ciao, Paolo!
Da perfetto ignorante quale sono, e per giunta con l’aggravante di esserne fiero, mi approccio con molto timore a questo tuo scritto. Oltretutto mi tremano i polsi all’idea di affrontare ben 9 tematiche specifiche! Con uno dei miei escamotage preferiti cercherò di semplificare tutto (o banalizzare?) e di trovare un comune denominatore a tutte le questioni sollevate, così da avere un filo conduttore che non mi porti totalmente fuori tema. Al Liceo mi riusciva molto bene coi temi di attualità che sceglievo sempre nei compiti in classe di Italiano!
Dunque, che succede? Ecco, non lo so, nemmeno da medico mi risulta tutto ben comprensibile, anche se alcune idee le ho. Confuse, eretiche, politicamente scorrette. Ovvio, sono anarcoide, polemico, cinico, non credo a Babbo Natale e per giunta sono mancino. Allora: innanzitutto un enorme, gravissimo problema economico prima che sanitario; il problema sanitario è in funzione di quello economico. Se il virus non fosse così contagioso e non creasse la necessità di queste restrizioni, con un numero identico di vittime ci sarebbe molto meno panico e allarme sociale. È antipatico dirlo ma uno non vale uno. Lo stesso numero di vittime per qualunque altra causa sarebbe molto più tollerabile, a patto che non obblighi al coprifuoco, all’isolamento, alla quarantena. In altre parole un certo numero di vittime che non comprometta il Dio Crescita, che non alteri i profitti e non disturbi l’economia mondiale rientrerebbe nella lista degli effetti collaterali di qualcosa (i famosi danni collaterali dei bombardamenti); di che cosa? di qualunque cosa: i morti di guerra, di fame, di carestia, di povertà, miseria, di immigrazione, di stupro, violenza religiosa, etnica, economica, incidenti stradali, le stragi del sabato sera, di sostanze d’abuso, stupefacenti, alcol, i morti per altre malattie a cui siamo abituati (la “banale” influenza stagionale) di cattive abitudini di vita, i morti di inquinamento! Strage conosciuta, già in atto, tu stesso mi hai fornito un dato che immaginavo ma non ne ero certo, ovvero che ad Alessandria c’è un tasso di mortalità molto più elevato che nel resto del Piemonte non perché ci sono più anziani ma a causa dell’inquinamento che è responsabile di malattie respiratorie (B.P.C.O., asma …) che predispongono ad un esito prognostico sfavorevole. Ma i morti per inquinamento sono un danno collaterale, un prezzo da pagare al progresso, alla comodità di vita, al possesso di automobili, smartphone, TV al plasma, vestiti, orologi, scarpe e tutto quanto riempie la vita nella nostra cosiddetta “civiltà occidentale”. Se tutto va bene e siamo fortunati non ci becchiamo niente e campiamo a lungo godendoci tutti i gadget della civiltà del benessere, se va male qualcosa, un cancro al polmone, un infarto, una bronchite cronica ostruttiva che ci porta all’invalidità e al bombolino di ossigeno, beh … ci è andata bene finché ci è andata bene, e poi mica si può avere tutto, no? Vogliamo andare oltre? Lo stesso numero di vittime in altre regioni o continenti darebbe meno o affatto fastidio, se non per il vago timore che la cosa si possa espandere alle nazioni “importanti”: pensiamo al sud-est asiatico, alcuni paesi del Sud-America, a tutto il continente africano (alcuni giorni fa ho condiviso su Facebook il post di un commentatore africano che diceva: “Beati voi europei che avete soltanto il coronavirus!”). Anche la questione degli anziani è un’ipocrisia, la sacralità della vita vale solo per gli anziani “benestanti” e che contano ancora in modo significativo nella società a prescindere dall’età, ovviamente vale per i ricchi e per i giovani (ma solo quelli nati dalla parte giusta della strada) che si ritengono immortali e immuni a tutto, non solo alle malattie; sappiamo benissimo quanto siano di impiccio, a un certo punto della loro vita, i nonni che fino al giorno prima erano fondamentali per il supporto alle famiglie nel gestire i nipotini, ma nel momento in cui stanno male e non servono più a nulla, anzi bisogna badare a loro, diventano automaticamente una palla al piede. Da quanti anni ti ripeto che bisognerebbe far vedere obbligatoriamente nelle scuole il film “Parenti serpenti”? Il problema della scelta di chi ricoverare e chi no in Terapia Intensiva è sempre esistito, io lo percepivo già 30 anni fa, all’inizio della mia carriera ospedaliera, giovane pivello in Pronto Soccorso, ovviamente non emergeva mai al livello dell’ufficialità ma noi addetti ai lavori lo abbiamo sempre conosciuto e affrontato silenziosamente e discretamente, con la nostra coscienza e deontologia che ci guidava per fare la scelta migliore. Anche nei reparti di degenza ordinaria, non intensiva, da tantissimi anni, in virtù delle sempre maggiori riduzioni di posti letto, di organico medico e infermieristico per i tagli di spesa, in tempi non di emergenza ogni giorno era una guerra, sì una vera e propria guerra fra poveri (Medici di Reparto e Medici di Pronto Soccorso) e contro i poveri (i malati), fra l’esigenza da una parte di trovare posto a chi ne necessitava al Pronto Soccorso e dall’altra quella di rispettare l’assistenza a chi un posto letto lo aveva appena ottenuto ma bisognava dimetterlo il più presto possibile per far ruotare all’infinito quel maledetto circolo vizioso,
quante volte te lo raccontavo? Di cosa ci stupiamo e ci scandalizziamo? Tutta ipocrisia, problemi sempre esistiti che ovviamente di fronte ad una emergenza terribile esplodono in faccia a tutti. Eroi? Certo che Medici, Infermieri, tutti gli operatori sanitari sono eroi, ma non da adesso, lo sono da anni, da sempre, ma nessuno se ne è mai accorto, e probabilmente ad emergenza finita con altrettanta velocità ci se ne dimenticherà, così come per gli eroici Vigili del Fuoco, gli eroici Poliziotti, Carabinieri, Militari e tutti coloro che almeno una volta nella vita sono stati eroi salvo poi risprofondare nell’anonimato. Sono partito col botto? Certo, possiamo in un momento questo essere politicamente scorretti, non per egocentrismo o vanità ma cercando di essere costruttivi?
1) Innanzitutto lo spiazzamento. Una brutale percezione del vuoto e dell’assurdo della nostra esistenza (vedi, esemplare, “La peste” di Camus). Non mi riferisco alla percezione impaurita e superficiale dettata dall’alea di un pericolo misterioso e invisibile, ma a qualcosa di più profondo: la consapevolezza improvvisa di quanto sia inconsistente, insignificante e irrilevante ciò che normalmente facciamo: consapevolezza imposta dal fatto che non possiamo più farlo. Ci rendiamo conto allora che lo facciamo proprio per non guardare in faccia la realtà (e questo appunto ci caratterizza come umani, in positivo o in negativo, a seconda dei punti di vista – ma comunque è condizione comune): e in un simile momento la realtà siamo invece costretti a guardarla in faccia tutto il giorno. Non importa come evolverà la situazione, se riusciremo o meno a riprenderne in mano le redini, e in quanto tempo. Lo squarciamento del velo, c’è stato – almeno per coloro che non sono già completamente lobotomizzati: e ricucirlo non sarà facile (ma sarebbe poi auspicabile?)
OK siamo tutti spiazzati. Questo può avere anche una valenza positiva. Un bravissimo collega, neurogeriatra di Aosta, mi affascinò ad un congresso dicendo che il primo e più importante segno dell’invecchiamento è l’incapacità di adattarsi ai cambiamenti e questo non è in funzione dell’età biologica ma dell’età mentale. Io credo che si possa essere vecchi a 30 anni e giovani a 80, se si riesce ancora a sognare, a fare progetti, ad accettare le circostanze che cambiano e le situazioni in divenire; magari io sarò il primo a non adattarmi e a soccombere, ma non ha importanza, non è una questione personale, lascio volentieri spazio a chi ci riuscirà e potrà magari contribuire a dare una svolta alle cose, che sia Greta Thunberg o un novantenne.
2) Poi la constatazione che davanti a problemi di questa portata non possiamo riporre fiducia in un comune positivo sentire, che non esisterà mai, ma solo in una dittatura che imponga un comune obbedire (il caso cinese ne è una conferma clamorosa). È un’idea che circola ormai da tempo in relazione al problema ambientale (la dittatura tecno-ecologica di cui parlava tra gli altri Pier Paolo Poggio). Può piacere o no, credo che in realtà non piaccia a nessuno, ma resta il fatto che il coronavirus ha dato una sterzata brusca al dibattito sull’organizzazione futura della società, la quale dipenderà da decisioni traumatiche dall’alto e non certo da insorgenze rivoluzionarie o da riformismi all’acqua di rose.
Bellissimo assist, mi ci ficco! Prendo 30 gocce di Valium se no vado avanti per ore! Ci siamo svegliati una mattina con la Cina padrona del mondo, punto. Spazzata via l’Europa, punto: squallida, ipocrita, egoista, dominata da finanzieri furfanti e ottusi, politici sovrani e sovranisti, e non parlo di Salvini, Le Pen, Orban, ma di Merkel, Macron e compagnia danzante, quelli in giacca e cravatta, che parlano forbito e non fanno le corna nelle foto di gruppo, ma che sono i veri padroni dell’Europa e che spadroneggiano in barba ai principi che hanno sempre ostentato e che ci hanno sbattuto in faccia quando gli faceva comodo, che si comportano da padroni del vapore e mandano avanti la biondina tutta a modo (l’Amministratore Delegato, chiamiamola col suo nome) a dire paroline buoniste di circostanza (Oddio, sono fuori tema, sarebbe più pertinente al punto 3!). La dittatura, dunque: spaventoso, ma in alcune circostanze, la democrazia deve essere sospesa, qui non è questione di italiani vs. norvegesi, certo qualcuno è più disciplinato di altri e rispetta di più le regole, ma credo che il problema non siano i popoli latini peggiori degli scandinavi, ma tutto il genere umano nella sua globalità. I cinesi non sono migliori né peggiori di noi, ma con i carri armati per strada chissà perché se ne sono stati tutti buoni e zitti a casa, senza jogging e cani da portare a pisciare (ancora fuori tema, vedi punto 8). Sai come la penso sui Cinesi o meglio sui loro governanti, sulla questione del Tibet, degli Uiguri e tante altre cosettine, ma in questo caso chapeau! sono riusciti a ribaltare a loro favore quella che poteva essere una catastrofe politica ed economica, e adesso ci mandano le mascherine e i loro Medici e consulenti a dirci che c’è troppa gente per strada! E noi adesso siamo gli appestati: ma accetto di più che me lo dicano i Cinesi piuttosto che non Macron, con i suoi cittadini che vogliono “puffare” il virus, piuttosto che non la Merkel col suo paziente zero che non riuscivamo a scovare perché era un suo suddito, piuttosto che tutti i concittadini europei che ci hanno sbattuto le porte in faccia e non solo metaforicamente. Prepariamoci, non sarà bello né facile, ma ormai penso sia ineluttabile. Avremmo potuto evitarlo, meditiamoci.
3) Senz’altro la conferma dell’inadeguatezza di chi ha delle responsabilità di potere, a tutti i livelli e in tutti gli ambiti. E non mi riferisco al caso specifico italiano, che pure offrirebbe fior di pezze esemplificative. Davanti a emergenze come questa appare inadeguato chiunque, come dimostra la gestione della crisi in altri paesi. Il fatto è che non si può riduttivamente farne una questione di limiti della classe politica: ciò che emerge clamorosamente è una impreparazione generale della società, ovvero un difetto intrinseco al sistema, che non è in grado di affrontare alcun problema di natura diversa da quella produttivistico-consumistica, o più genericamente “di natura”, quali che siano i regimi o i modelli sociali. Tra parentesi, a titolo molto personale, è anche una conferma della validità (sia pure solo su un piano ideale) dell’opzione anarco-intelligente (quella di un Landauer o di un Berneri, dei post-anarchici, per intenderci), che punta tutto sull’educazione all’autoresponsabilità.
Altro bel tema! Tu sai quanto sono poco tenero e indulgente verso i (nostri ma non solo) governanti, ma mi viene quasi voglia di difenderli, perlomeno i nostri che fra due-tre settimane daranno lezioni a tutto il mondo (insieme ai cinesi come detto sopra) non per perché li ritenga innocenti e privi di colpe in merito a quanto scrivi sopra (ci mancherebbe altro!), ma semplicemente perché ritengo che ad essere inadeguato sia il genere umano nel suo insieme e quindi di conseguenza anche i suoi governanti. Cosa si dice, che la gente ha i governanti che si merita e che i governanti sono lo specchio dei loro popoli? Ecco, qualcosa di simile. Il genere umano, o per meglio dire la razza umana, è inadeguata ad occupare il pianeta Terra, non ne ha nessun diritto, lo distrugge, lo avvelena, lo danneggia con tutte le altre specie animali viventi. Punto. Qualunque cosa abbia fatto di buono, qualsiasi genio abbia prodotto nella letteratura, nelle arti in generale, nella filosofia, nella scienza, è vanificato dall’istinto genetico, archetipico, alla violenza, alla brutalità, all’autodistruzione, al genocidio (ma guarda un banale Boris Johnson! senza scomodare Hitler, Stalin, Pol-Pot e altri campioni mondiali e olimpici). Sono esagerato e qualunquista? Certo. Penso che sia così, e a 60 anni nessuno mi farà più cambiare idea. Poi ovviamente nel mio piccolo, nella mia vita, nella mia professione, cerco di fare di tutto e di più per dare un’impronta positiva al mio comportamento, ma senza alcuna illusione che questo serva a qualcosa. Anarchia intelligente? Ipotesi affascinante, bisogna vedere cosa ne pensano i nuovi padroni del mondo (vedi sopra). Ma poi come la mettiamo con le riunioni di condominio?
4) Si comincia a prendere coscienza che andiamo incontro ad una “sobrietà” forzata nei comportamenti e nei consumi, della quale ancora non possiamo prevedere né la misura né i tempi. Al momento è persino scandaloso che la si consideri tale, paragonata alle condizioni di vita in cui versa più di metà dell’umanità, ma naturalmente tutto questo dipende dai parametri assurdi cui siamo abituati. La “decrescita felice” appartiene già al passato. Decrescita sarà senz’altro, ma traumatica.
La decrescita non è mai stata considerata felice dai fautori della crescita, quindi questa mi sembra una preoccupazione inutile! I sostenitori della decrescita sono considerati, in ordine sparso, terroristi, criminali, assassini, nemici dell’umanità e altro che mi dimentico (tutte affermazioni vere, di cui posso citare nome e cognome di chi le ha dette); quindi che facciamo? ci ripensiamo? ci mettiamo in discussione? Potrebbe essere una buona occasione per provare a cambiare modo di vivere? I saggi orientali dicono che ogni peggiore tragedia può portare qualcosa di buono se si ha la forza di cercarlo, e io dico che qualche segnale in tal senso c’è già: banalmente, dall’inizio dell’isolamento il tasso di PM10 è costantemente a valori bassissimi, non so da quanto tempo non mi permettevo il lusso di aprire le finestre di casa per ore e ore senza che entrasse smog e veleno. Piccola cosa? In considerazione di quanto detto sopra, magari anche no. Certo, il discorso è complicatissimo, l’esigenza assoluta è che nessun comune mortale (non parliamo di straricchi e potenti) debba avere danni da una recessione economica (licenziamenti, disoccupazione o riduzione di stipendio, ecc …), non sono un economista e non ho ovviamente la formula magica, ma forse il modo migliore e più semplice per iniziare è proprio quello di rimodulare, resettare il nostro stile di vita imparando a dimenticarci del superfluo mantenendo coi denti e con le unghie il livello minimo in termini di dignità, di necessità primarie intoccabili e di decoro di vita. In questi giorni di isolamento cosa è veramente essenziale? Vestiti, scarpe, accessori alla moda, automobili, smartphone, viaggi, parrucchieri, estetiste, ristoranti, happy-hour, discoteche? Io che sono un malato di viaggi, di movimento, di libertà di spostamenti oggi pomeriggio ho provato un’emozione fortissima nella decisione, dovendo andare in farmacia, di evitare quella di fronte a casa (c’era troppa gente in coda) per dirigermi verso quella distante 150 metri: mi è sembrato un viaggio in un altro continente! Piccole cose che tutti vorranno dimenticare un minuto dopo la fine dell’isolamento forzato: e se invece si cominciasse proprio simbolicamente da quello? Io nel mio piccolo, sarei disposto a non fare più viaggi fuori Europa e anche fuori Italia (per gli anni che mi restano ne ho di posti da vedere e di montagne da scalare anche vicino a casa senza annoiarmi!) se servisse a ridurre l’inquinamento mostruoso degli aerei e di tutto ciò che gravita attorno ai grandi spostamenti. Sarei disposto a non cambiare TV, smartphone, macchina fotografica, automobile fino a quando non cadono a pezzi, a vestirmi in modo sobrio e funzionale con indumenti che se trattati con cura possono durare anni, come sanno bene gli appassionati di montagna e trekking, a usare la bicicletta e a spostarmi a piedi o con i mezzi ovunque possibile, a usare elettrodomestici a basso consumo energetico, a rispettare tutte le buone regole sullo smaltimento, sul riciclo e sul riutilizzo, a focalizzare tutte le mie energie psichiche e fisiche sull’essenza delle cose e non su ciò che ne è solo involucro. Ops … forse sono tutte cose che sto già facendo (tranne i viaggi, va beh, su quello ci devo lavorare un po’!) Si potrebbe andare avanti ore e giorni a parlarne, lo abbiamo fatto tante volte, sarebbe bello farlo a livello universale, smettendola di prendere in giro Greta e tutti i giovani ispirati da lei.
5) Dovremo procedere, e in effetti lo stiamo già facendo, a una ridefinizione di valori considerati fino a ieri (sia pure ipocritamente: ho in mente il “tasso di perdite tollerabili” stabilito dal Pentagono) indiscutibili. Prima di tutto del valore di ogni singola vita, rispetto alla necessità di scelte inderogabili: sta accadendo, e sembra non suscitare particolare scandalo, negli ospedali al collasso che devono scegliere a chi assicurare le cure adeguate disponibili. Il problema è reale, e di fronte all’urgenza dei numeri non è nemmeno il caso di rivangare le recenti strette alla politica sanitaria: si porrebbe comunque, anche con qualche posto-letto in più. Ma tutto questo dovrebbe rimette in discussione, sotto una luce ben diversa, tematiche come quella dell’eutanasia e del diritto a decidere del proprio fine vita: più in generale, i termini in cui va concepito l’essere vivente (e quindi, aborto, accanimento terapeutico, ecc …). Per intanto, però, sta già certificando una valutazione utilitaristica della vita. Gli anziani, i malati, coloro che rappresentano un costo per la società, in una situazione di emergenza possono essere sacrificati. In Inghilterra addirittura si adotta il darwinismo sociale. Non a caso Spencer era inglese. Ha una sua logica, ma è il ritorno a una concezione e a una prassi che sino a ieri erano considerate appannaggio delle popolazioni primitive.
Mi accorgo di avere già detto quasi tutto prima (sempre fuori tema, professore, accidenti!), quindi non mi ripeto sulla sacralità della vita, sulla carenza dei posti-letto e sulle scelte drammatiche dei Medici, sugli anziani, su Boris Johnson; per quanto riguarda l’eutanasia, beh, mi sembra che negli ultimi tempi le cose siano decisamente cambiate, sia a livello etico sia a livello giuridico: magari non ancora quanto basta, ma sicuramente in modo incoraggiante.
6) La situazione ci costringe anche ad adottare modelli di computo diversi, ad avere una differente percezione delle cifre. Le migliaia, quando è possibile che ci includano, valgono molto più delle centinaia di migliaia di cui si ha notizia a distanza. Il rito serale inaugurato da un paio di settimane della conta dei morti ha l’effetto alone di rendere molto più concreti anche altri numeri, relativi ad altre situazioni. Quelli della guerra in Siria, ad esempio, o dei profughi inghiottiti dal Mediterraneo. Questo è, almeno per il momento, l’effetto che riscontro su di me. Il rischio è che sul lungo periodo e con numeri in crescita geometrica si crei assuefazione anche alla macabra contabilità domestica.
Le cifre … la famosa barzelletta sui due polli, la relatività e soggettività di un dato che invece dovrebbe essere oggettivo …un singolo morto, se è uno dei “nostri”, un familiare, un amico, un collega, un commilitone, vale incommensurabilmente più di 100-1000-10000 sconosciuti, lontani, poco visibili o peggio di tutto, “nemici”. Anche qui, prof., qualcosa avevo già detto sopra e non mi ripeto.
7) Sull’entità del collasso economico naturalmente non mi pronuncio. Al di là del fatto che non ne ho le competenze, reputo che nessuno sia oggi minimamente in grado di immaginare gli scenari economici futuri. L’unica cosa certa è che quanto sta accadendo oggi stenderà un’ombra particolarmente lunga. Sempre che solo di un’ombra si tratti. È un’altra eredità scomoda che lasciamo ai nostri figli e nipoti. Rilevo soltanto un fatto. Per dieci giorni, quando il bubbone non era ancora esploso in tutta la sua virulenza ma già stava manifestando le sue dimensioni, la preoccupazione principale, prima ancora che quella sanitaria, è parsa quella economica. Le compagnie aeree avevano appena iniziato a cancellare i voli che davanti al parlamento già si svolgevano manifestazioni di tour operator, di albergatori, di venditori di souvenir. Con assembramenti che ricordavano molto le manzoniane processioni contro la peste. Ogni epoca ha i suoi riti propiziatori (del contagio).
L’eredità scomoda, credimi, l’avremmo comunque lasciata a prescindere dal COVID-19; poteva essere qualunque altra cosa, ce ne saranno sicuramente delle altre, ma i danni ambientali, ecologici, sulla salute saranno qualcosa di cui forse, figli e nipoti ci malediranno da morti se non già adesso! Sempre e ancora Greta! Sulla preoccupazione economica prima e più ancora di quella sanitaria, sfondi una porta aperta, mi ero già espresso sopra anche su questo.
8) Le consolazioni. Naturalmente qualcuno ha iniziato subito a parlare delle opportunità. Le famiglie per una volta riunite, l’occasione di fare insieme cose che non si erano mai fatte, di riscoprire modalità di rapporto da tempo scomparse. Non vorrei sembrare cinico, ma temo che la forzata coabitazione causerà invece una piccola catastrofe aggiuntiva. Nelle camere iperbariche che sono diventati i nostri appartamenti si verificherà un aumento dei divorzi, dei femminicidi, degli odi e degli screzi intergenerazionali, delle liti condominiali per il volume degli apparecchi televisivi. Persino i cani, poveracci, stanno pagando il loro tributo. Essendo rimasti l’ultima scusa per poter mettere fuori il naso sono costretti a corvée massacranti, per consentire a tutti i membri della famiglia di uscire, e accusano problemi di vescica sovrastimolata. C’è poi chi saluta l’occasione di una riscoperta della lettura. Ma come dicevo sopra, è dura anche leggere, o scrivere, con la mente che distratta dal pensiero di quel che accade, silenziosamente, là fuori. Anche questo piacere necessita di condizioni ambientali adeguate. Piuttosto, un’opportunità concreta l’ho individuata anch’io. Se il sostegno economico già stanziato per i mancati guadagni di imprenditori, professionisti, commercianti e artigiani sarà parametrato, anziché sulle richieste, sulle dichiarazioni dei redditi degli ultimi cinque anni, dovremmo realizzare un buon risparmio, a tutto vantaggio degli investimenti per il potenziamento futuro della sanità.
Sarà che comincia a scemare lo sprint iniziale, ma anche qui mi sembra di aver già detto qualcosa: certo, consolazioni e opportunità, perché no? Forse qui si gioca tutto … la capacità, la voglia, lo sforzo di trasformare un evento così straordinario in termini positivi, in qualcosa che modifichi tangibilmente la nostra vita, a cominciare da quella quotidiana, relazionale: non me ne vogliano i sessantottini e i rivoluzionari professionisti che poi fanno sgobbare le loro mogli a casa come schiave mentre loro sono troppo impegnati per le strade, ma la vera rivoluzione è quella che comincia dentro di sé, nel proprio piccolo, nella propria casa, nel proprio condominio (Oddio!) e poi se funziona si cerca di esportarla e di ampliarne i confini il più possibile … sai che non credo a Babbo Natale, ma, non so perché, su questo sono moderatamente ottimista, o forse sono talmente pessimista e cinico d’abitudine che mi riesce molto più facile partire dal totalmente negativo per vedere qualcosa di positivo!
9) A differenza di molti miei amici, che ipotizzano un cambiamento radicale, sia pure forzato, della nostra mentalità e dell’attitudine nei confronti della vita e del mondo, ho la sensazione che non impareremo nulla. Non saremo più ragionevoli, più tolleranti e più buoni. Anzi, probabilmente il ricordo del passato benessere renderà ancora più dura la competizione per riconquistarlo a livello individuale o nazionale. E la storia è lì a dimostrarlo. A tre quarti di secolo dalla fine della seconda guerra mondiale, quando ancora non è del tutto scomparsa la generazione che l’ha vissuta, ci ritroviamo tra i piedi, assieme ad una mai sopita conflittualità imperialistica, tutto il ciarpame ideologico di cui da sempre quest’ultima è condita: razzismo, nazionalismo, antisemitismo, complottismo, ecc. Il virus attacca i polmoni deboli, purtroppo risparmia i cervelli bacati.
Anche su questo ho già espresso la mia opinione nei commenti precedenti … che dire? Se dovessi scommettere, forse non impegnerei più che pochi euro contro il tuo parere, ma come ho detto poco sopra, nutro un certo immotivato, anomalo, scriteriato ottimismo; una speranza sui giovani (e rieccoci con Greta!), magari più per necessità che per convinzione arriveranno molto prima di noi alla consapevolezza dei rischi che corrono a non modificare radicalmente il modo di vivere; noi ci siamo arrivati tardissimo e qualcuno nemmeno adesso, perché magari arrivato a 80 anni non si è beccato nessuna malattia “da benessere” e non vuole vedere al di là della sua condizione privilegiata (ne ho sentiti tanti in TV a questo proposito esprimersi così), loro, se vogliono (e molti cominciano a volerlo) hanno tutti gli strumenti per arrivarci fin da subito: secondo me hanno più possibilità di quanto ne abbiano mai avute le generazioni passate di poter imporre dei cambiamenti. In caso contrario, diamo spazio ai delfini, agli elefanti, ai ghepardi e a tutte le specie animali che possono vivere sul nostro pianeta senza distruggerlo. Amen.