di Paolo Repetto, 19 marzo 2022
Non avrei mai pensato di scrivere un pezzo come quello che segue. Tratta una vicenda molto personale, ed io, che pure in qualche modo parlo sempre di me, per alcuni aspetti del mio privato sono piuttosto geloso. Inoltre non mi piacciono gli autori che raccontano questo genere di esperienze per avvallare l’idea che il dolore sia rigeneratore, che faccia scoprire altre dimensioni del mondo. Per quanto mi riguarda il dolore è stupido e assolutamente inutile: non fa scorgere affatto altre dimensioni, toglie valore e significato anche a quelle che ti inventi per aiutarti a vivere.
Lungi da me dunque l’idea di affidare la vicenda ad un social, per condividerla. Non c’era nulla di positivo da condividere, e il negativo non si condivide, lo si banalizza soltanto. Ho scritto questo pezzo per me, quasi per rassicurarmi, per certificarmi che l’emergenza psicologica nella quale stavo vivendo da quasi un anno fosse finita. Mi pareva che scaricare nel racconto la tensione di tutti questi mesi fosse l’unico modo per liberarmene davvero. Ma nel racconto non c’è alcun insegnamento, né potrebbe esserci: è una pura e gratuita testimonianza. L’ho scritta perché questo mi consente di addomesticare in qualche modo il ricordo, di scegliere cosa ricordare, e l’ho postata sul sito perché da tempo, comprensibilmente, non postavo più nulla, e ho voluto rassicurare i Viandanti che vivo e combatto con loro.
C’è, naturalmente, anche una terza motivazione, molto più prosaica e banale. Dal momento che ora esiste una versione scritta, rintracciabile sul sito, veritiera e ricca di dettagli, non sarò tenuto a ripetere ogni volta tutto il finale agli amici che stanno seguendo questa storia sin dall’origine, manifestandomi la loro solidarietà e confortandomi con la loro sollecitudine e il loro affetto. Mi si obietterà: cos’è questa, se non una richiesta di condivisione? Non è esatto: la condivisione c’è stata prima, e non ha avuto bisogno di passare per i social. Questa è al più una verbalizzazione.
Recentemente ho attraversato, da protagonista passivo e impotente, un momento non felice per la mia salute. Non era la prima volta che affrontavo problemi fisici anche piuttosto seri, non mi sono davvero fatto mancare nulla nella casistica ortopedica, ma era la prima volta che quanto mi stava capitando non ero andato in qualche modo a cercarmelo. E questo cambia completamente la prospettiva da cui si guarda alle cose, e le dimensioni che esse assumono.
È iniziato tutto quasi un anno fa. Una violentissima infiammazione mi ha scombussolato all’improvviso, senza alcun segnale premonitore, tutte le funzioni del basso torace, procurandomi dolori lancinanti. Già al primo tentativo di intervenire le cose si son messe male. Dopo otto ore vanamente spese in attesa di essere visitato in un pronto soccorso son tornato a casa (si era nel pieno della seconda ondata di Covid), solo per attendere poi altri tre giorni prima di essere visto in un ambulatorio urologico. Tamponata bene o male l’urgenza, è comincia una sequela di visite, analisi, esami che hanno portato tutti alla stessa conclusione: c’era un forte disordine nell’area prostatica, ma soprattutto è saltato fuori un ospite indesiderato. L’identificazione dell’ospite è slittata parecchio, perché nel frattempo è arrivata l’estate, l’esame bioptico che dovevo effettuare è un po’ particolare e necessitava di strumentazione e personale specialistico, io poi mi sentivo benissimo e tendevo a procrastinare gli accertamenti; fino a quando un giorno sono crollato, non mi reggevo in piedi, il cuore saltava come un grillo: per fortuna ho potuto fare affidamento su due amici medici, che mi hanno diagnosticato immediatamente un disturbo cardiaco con scompensi di vario tipo.
Ora, entrambe le patologie da cui sono afflitto di per sé non sono particolarmente gravi. Appena ci finisci dentro scopri che una buona metà delle persone che conosci, soprattutto dei tuoi coetanei, soffre di una delle due. Ti chiedi persino come mai tu sia stato fino a quel momento escluso dal Club. È un po’ più grave la loro concomitanza, perché oltre a indebolire le difese naturali complica le pratiche terapeutiche. Ma insomma, uno storce un po’ la bocca, impara a girare col pastigliario appresso, sa di non poter forzare certi limiti e si adegua. Il problema serio arriva quando l’esame istologico ti dice che l’ospite indesiderato è anche particolarmente cattivo, per cui potrebbe improvvisamente arrabbiarsi e creare situazioni ben più serie. È necessario un intervento radicale. Solo che a questo punto siamo già alla metà di ottobre, gli ospedali sono in affanno per la terza ondata Covid, l’intervento non può essere eseguito prima di gennaio.
E infatti. Vengo convocato per lunedì 21 gennaio. Una settimana prima sono sottoposto a un prericovero, con analisi, prelievi, rilevamento di tutti i parametri vitali, radiografia toracica, storia medica, ipotesi terapeutiche successive, ecc. L’antivigilia del ricovero è d’obbligo la procedura anticovid: tampone e altra radiografia polmonare (quella della settimana precedente non è più considerata valida). La domenica della vigilia, nel primo pomeriggio, sono pronto ad entrare in ospedale con la mia valigia piena di libri, di agende e di penne, quando un messaggio del ministero della salute mi avvisa che il mio green pass non è più valido, essendo io risultato positivo al tampone. Quindi salta naturalmente anche l’intervento. Telefono in ospedale, mi dicono che già lo sapevano, obietto che avrebbero potuto informarmi, ribattono che quello non era compito loro, ma del ministero. Scatta la quarantena. Per sei giorni rimango chiuso in casa a Lerma, mai stato meglio in vita mia. Al settimo, nuovo tampone: che risulta negativo, cosa che comunico all’ospedale, da dove mi informano però che essendo saltato il turno dovrò attendere il prossimo. Quando, non si sa.
Trascorre dunque più di un altro mese. Nel frattempo mi sottopongo per curiosità a due altri tamponi, di quelli che rilevano l’avvenuto contatto o meno con soggetti Covid. Sembra non abbia incrociato il virus nemmeno di lontano.
Mi richiamano alla fine di febbraio. Nuova trafila di colloqui, analisi e prelievi, nuovo tampone e nuova radiografia polmonare. La radiologa mi riconosce, ormai sono di casa, chiacchieriamo anche un po’. La domenica, dopo una mattinata di mercatino, mi ricovero. L’ospedale è quasi deserto, atmosfera molto soft e un po’ irreale. Due infermiere e una dottoressa che si dedicano totalmente a me, colloqui, parametri, depilazione quasi integrale, un po’ fastidiosa nelle parti intime. Alla fine sono liscio come una statua greca, ma del periodo ellenistico: soprattutto sono perfettamente rilassato, persino un po’ curioso di quali saranno gli effetti dell’anestesia, essendo previsto per l’intervento un tempo piuttosto lungo, tra le cinque e le sette ore.
Per il momento sono destinato a non saperlo. Alle diciannove la dottoressa viene ad avvertirmi con evidente imbarazzo che si è verificato un guasto al robot col quale avrei dovuto essere operato, e quindi salta nuovamente tutto. Mi rivesto in fretta e torno a casa. Ormai provo una sensazione di imbarazzo, quasi di vergogna, a comunicare nei giorni successivi quanto è accaduto agli amici che chiamano per informarsi del mio stato: come fosse colpa mia, come mi fossi inventato tutto. E in effetti, mentre la prima volta esprimevano il loro stupito rammarico, adesso sento anche via cavo che la prima reazione è un sorriso incredulo, e solo dopo arrivano l’indignazione e il sostegno. Lo sento perché so che reagirei io stesso così.
Questa volta la riconvocazione arriva più celermente. Due sole settimane. ennesimo prericovero, ormai quasi solo formale, perché anche loro si vergognano un po’. Ma al protocollo anticovid non si sfugge. Altro tampone, altra radiografia al torace, la quarta in neanche due mesi. L’addetta mi saluta con entusiasmo, e dopo i convenevoli rituali mi chiede se avverto qualche conseguenza. Le dico che sono solo fosforescente la notte. Risponde che passerà.
Domenica 13, nel pomeriggio, secondo ricovero. Negli ultimi quindici giorni l’atmosfera è molto cambiata. Il reparto è pieno, tutte le camere, che ospitano ognuna tre letti, sono occupate. Vengo poi a sapere che sono ospitati qui anche pazienti di altre divisioni. Evidentemente, mentre ci ripetiamo che va tutto bene e aboliamo anche le ultime elementari restrizioni alla nostra preziosa “libertà”, la situazione dei posti letto sta precipitando. Prevedo che ad ottobre saremo nuovamente nelle condizioni dei due autunni precedenti.
Vengo sistemato in una camera occupata per il momento da un solo altro paziente, più anziano di me, già operato e degente da tre o quattro giorni. Non è un chiacchierone, anzi, proprio non parla, e la cosa non mi spiace affatto. Ho portato la mia solita scorta di libri, ma mi accorgo subito che non è ambiente propizio alla lettura, almeno per adesso. Quando mi affaccio in corridoio incrocio gli operati dei giorni precedenti, deambulanti dalla camera ai servizi con movimenti lentissimi, coperti dalla vita in giù da un lungo lenzuolo bianco allacciato alla meglio sui fianchi, a mo’ di pareo. Di sotto il lenzuolo escono tubi e tubicini che finiscono in sacche trasparenti, sorrette a mano o appese ad un trespolo. Immagini tra psicanalisi e surrealismo, come in “Io ti salverò”.
Del giorno successivo, quello dell’intervento, ricordo poco. Mi hanno addormentato alle otto del mattino, mi sono risvegliato, credo, verso le diciassette, con una cauta sensazione di benessere, nessun dolore: quando ho realizzato non mi pareva vero di averla sfangata così.
E infatti. Il giorno successivo reggo senza antidolorifici , ma sono molto più agitato e sensibile. Il problema è anche che durante la notte è quasi impossibile dormire: come si spengono le luci nei corridoi si accende in ogni camera quella che dovrebbe essere l’illuminazione “di sicurezza”. Purtroppo è posta a mezzo metro da terra e brilla ad un metro o poco più dai miei occhi. Non bastasse questo, ci sono rumori continui, carrelli che vanno e vengono, campanelli suonati dai pazienti ogni due o tre minuti, infermieri che chiacchierano ad alta voce. La seconda notte è dunque infernale, e il giorno successivo procede sulla falsariga di quello precedente. Nessuna voglia di leggere, meno che mai di scrivere o di fare qualsiasi altra cosa. Nessun dolore acuto, ma un malessere profondo, diffuso.
L’imperativo categorico per l’operato di prostata è il ripristino il più veloce possibile della funzione deiettiva: la domanda più ricorrente che i dottori ti pongono è: sei andato di corpo? Hai almeno fatto aria? E se dopo tre giorni di aria non se ne parla ancora ti senti persino un po’ colpevole, poco diligente, e arrivi a mentire: beh, si, un pochino.
Chi non ha bisogno di mentire è il mio compagno di camera. La seconda notte di degenza l’ho vissuta come fossi a Kiev. Un bombardamento ininterrotto.
Mi scuso di parlare di queste cose, ma è ciò di cui si parla in ospedale in queste occasioni. E credo che lo stesso ritegno che vorrebbe indurmi adesso a lasciar perdere l’argomento agisca come remora psicologica al cercare la “liberazione” naturale. L’ho notato ad esempio nel terzo compagno di camera, associato a noi dopo due notti. Un ragazzone affetto da emiplegia totale destra, che deambulava con difficoltà e aveva l’uso di una sola mano, ma era arrivato in ospedale da solo, e non ha ricevuto alcuna visita nei giorni nei quali siamo rimasti assieme. Ciò per sua espressa volontà. Era determinato a non arrecare il minimo disturbo ai suoi familiari ma anche a tutto il personale sanitario, e a noi stessi, si scusava per ogni sia pur minima e legittima richiesta, apriva bocca solo se interrogato. Nel suo concetto di comportamento in pubblico non rientrava, evidentemente, nemmeno il cannoneggiamento a tappeto. La cosa mi ha colpito.
Come lui infatti ho ricevuto, e mi sono anche autoimposto, una educazione molto ottocentesca, perbenistica, borghese, chiamiamola un po’ come vogliamo, che prevedeva comportamenti il meno possibile invasivi della fisicità e degli spazi altrui, dai quali erano quindi escluse le manifestazioni “volgari”, dal tono di voce troppo forte fino al rutto o alla scorreggia. Quando queste ultime sono entrate di prepotenza, nel corso degli anni sessanta, nel cinema e nella letteratura ho avuto l’impressione che stessero crollando le mura di Gog e Magog, quelle barriere di decenza che bene o male avevano sino ad allora fatto argine all’irruzione dei barbari. Quella sensazione la conservo tuttora.
E tuttavia, pochi giorni di degenza in una corsia ospedaliera, soprattutto se sono giorni nei quali le parti meno “nobili” del tuo corpo e le loro attività sono costantemente al centro dell’attenzione, e medici e infermieri le trattano con una disarmante naturalezza, impongono di rivedere i criteri della “decenza”. Quando è in atto una lotta per la sopravvivenza, tutto va trattato e difeso allo stesso modo: magari senza rinnegare però l’esistenza di un confine, oltre il quale si scade dalla necessità alla volgarità.
Il quarto giorno percepisco aria di maretta sin dal primissimo mattino. Alle cinque le infermiere discutono, ad un passo dalla nostra porta, di turni intensificati e in qualche caso addirittura raddoppiati. La prima vasca giornaliera nel corridoio conferma che il pomeriggio precedente c’è stata una serie di nuovi ingressi. Non sono profughi ucraini, ma pazienti che come me avevano visto slittare il loro intervento, e che si cerca ora di recuperare, stanti i nuovi chiari di luna che si prospettano. Alle sette e mezza i letti-barella per il trasporto in sala operatoria, in attesa presso le porte delle camere, si sono moltiplicati.
Finisce che durante il giro di controllo di metà mattinata la mia dottoressa mi fa notare che in fondo, per come procede, potrei continuare senza troppi problemi la degenza tra le mura domestiche. Sono d’accordo, non vedo anzi l’ora, ma francamente non mi aspettavo una proposta così immediata: intende dire a partire già da oggi.
È così che a metà pomeriggio esco dal reparto, più o meno rivestito, con i tubi e le sacche nascosti dentro il giaccone e sotto i pantaloni, con il foglio della dimissione che mi spiega cosa dovrò fare per qualche giorno e mi convoca nuovamente per l’inizio della prossima settimana. È avvenuto praticamente tutto come in sogno, mi sono riscosso dal torpore che mi stava pian piano invadendo, ho convocato Mara a ritirare libri, pigiami, ciabatte e magliette da lavare, ho dimenticato i dolori residui. Il primo contatto con l’aria fresca esterna, all’uscita in via Venezia, mi euforizza.
Per il momento funziona. So bene che la fase impegnativa arriva adesso, che il recupero sarà lungo e che non devo aspettarmi di tornare meglio di prima. Ma almeno ho nuovamente voglia di fare, e l’aver buttato giù così sollecitamente queste righe lo dimostra.
Ora ci starebbero anche alcune osservazioni sulla divisione dei ruoli in un reparto sanitario, su come interagiscono diversamente con i pazienti dottori e dottoresse, su come un breve ricovero sia sufficiente a farti capire quanto lavorano, e in quali condizioni, sull’evidenza lampante che tutto ciò che gira attorno al mondo della medicina, forniture, appalti, ecc, a partire da quelli per le mense fino ad arrivare all’arredo, è gestito, quando va bene, da incompetenti.
Ma non esageriamo. Il segno di vita l’ho dato. Devo solo aggiungere, perché non si equivochi su quanto ho raccontato sopra, che sono sinceramente grato a tutto il personale medico e paramedico che si è occupato di me. Hanno fatto davvero tutti del loro meglio, e questo mi ha aiutato non solo ad affrontare serenamente la situazione, ma anche a sperare in qualcosa che va oltre questa particolare contingenza. Siamo senz’altro una civiltà in crisi, di valori, di ideali, di sogni: ma fino a quando la maggior parte delle persone continuerà, fosse pure per semplice senso del dovere, a svolgere il proprio lavoro con questo livello di professionalità, non abbiamo alibi per tirarci indietro quando tocchi a noi fare la nostra parte. Non ho ancora ben realizzato quale sarà la mia, se ne avrò una, perché uscirò senz’altro da questa vicenda molto “ridimensionato”, sia fisicamente che psicologicamente: ma per certo non ho nessunissima tentazione di mollare.
Tutto questo è banale? Senza dubbio: ma sapeste come cambia la percezione di ciò che è banale e di ciò che non lo è, a seconda che si guardi stando dritti in piedi o distesi su un lettino operatorio!