Passati prossimi e futuri imminenti

di Stefano Gandolfi, 10 ottobre 2022

Attimi di legittimo sconforto

di Paolo Repetto, 19 marzo 2022

Non avrei mai pensato di scrivere un pezzo come quello che segue. Tratta una vicenda molto personale, ed io, che pure in qualche modo parlo sempre di me, per alcuni aspetti del mio privato sono piuttosto geloso. Inoltre non mi piacciono gli autori che raccontano questo genere di esperienze per avvallare l’idea che il dolore sia rigeneratore, che faccia scoprire altre dimensioni del mondo. Per quanto mi riguarda il dolore è stupido e assolutamente inutile: non fa scorgere affatto altre dimensioni, toglie valore e significato anche a quelle che ti inventi per aiutarti a vivere.

Lungi da me dunque l’idea di affidare la vicenda ad un social, per condividerla. Non c’era nulla di positivo da condividere, e il negativo non si condivide, lo si banalizza soltanto. Ho scritto questo pezzo per me, quasi per rassicurarmi, per certificarmi che l’emergenza psicologica nella quale stavo vivendo da quasi un anno fosse finita. Mi pareva che scaricare nel racconto la tensione di tutti questi mesi fosse l’unico modo per liberarmene davvero. Ma nel racconto non c’è alcun insegnamento, né potrebbe esserci: è una pura e gratuita testimonianza. L’ho scritta perché questo mi consente di addomesticare in qualche modo il ricordo, di scegliere cosa ricordare, e l’ho postata sul sito perché da tempo, comprensibilmente, non postavo più nulla, e ho voluto rassicurare i Viandanti che vivo e combatto con loro.

C’è, naturalmente, anche una terza motivazione, molto più prosaica e banale. Dal momento che ora esiste una versione scritta, rintracciabile sul sito, veritiera e ricca di dettagli, non sarò tenuto a ripetere ogni volta tutto il finale agli amici che stanno seguendo questa storia sin dall’origine, manifestandomi la loro solidarietà e confortandomi con la loro sollecitudine e il loro affetto. Mi si obietterà: cos’è questa, se non una richiesta di condivisione? Non è esatto: la condivisione c’è stata prima, e non ha avuto bisogno di passare per i social. Questa è al più una verbalizzazione.

Attimi di legittimo sconforto 02

Recentemente ho attraversato, da protagonista passivo e impotente, un momento non felice per la mia salute. Non era la prima volta che affrontavo problemi fisici anche piuttosto seri, non mi sono davvero fatto mancare nulla nella casistica ortopedica, ma era la prima volta che quanto mi stava capitando non ero andato in qualche modo a cercarmelo. E questo cambia completamente la prospettiva da cui si guarda alle cose, e le dimensioni che esse assumono.

È iniziato tutto quasi un anno fa. Una violentissima infiammazione mi ha scombussolato all’improvviso, senza alcun segnale premonitore, tutte le funzioni del basso torace, procurandomi dolori lancinanti. Già al primo tentativo di intervenire le cose si son messe male. Dopo otto ore vanamente spese in attesa di essere visitato in un pronto soccorso son tornato a casa (si era nel pieno della seconda ondata di Covid), solo per attendere poi altri tre giorni prima di essere visto in un ambulatorio urologico. Tamponata bene o male l’urgenza, è comincia una sequela di visite, analisi, esami che hanno portato tutti alla stessa conclusione: c’era un forte disordine nell’area prostatica, ma soprattutto è saltato fuori un ospite indesiderato. L’identificazione dell’ospite è slittata parecchio, perché nel frattempo è arrivata l’estate, l’esame bioptico che dovevo effettuare è un po’ particolare e necessitava di strumentazione e personale specialistico, io poi mi sentivo benissimo e tendevo a procrastinare gli accertamenti; fino a quando un giorno sono crollato, non mi reggevo in piedi, il cuore saltava come un grillo: per fortuna ho potuto fare affidamento su due amici medici, che mi hanno diagnosticato immediatamente un disturbo cardiaco con scompensi di vario tipo.

Ora, entrambe le patologie da cui sono afflitto di per sé non sono particolarmente gravi. Appena ci finisci dentro scopri che una buona metà delle persone che conosci, soprattutto dei tuoi coetanei, soffre di una delle due. Ti chiedi persino come mai tu sia stato fino a quel momento escluso dal Club. È un po’ più grave la loro concomitanza, perché oltre a indebolire le difese naturali complica le pratiche terapeutiche. Ma insomma, uno storce un po’ la bocca, impara a girare col pastigliario appresso, sa di non poter forzare certi limiti e si adegua. Il problema serio arriva quando l’esame istologico ti dice che l’ospite indesiderato è anche particolarmente cattivo, per cui potrebbe improvvisamente arrabbiarsi e creare situazioni ben più serie. È necessario un intervento radicale. Solo che a questo punto siamo già alla metà di ottobre, gli ospedali sono in affanno per la terza ondata Covid, l’intervento non può essere eseguito prima di gennaio.

Attimi di legittimo sconforto 03E infatti. Vengo convocato per lunedì 21 gennaio. Una settimana prima sono sottoposto a un prericovero, con analisi, prelievi, rilevamento di tutti i parametri vitali, radiografia toracica, storia medica, ipotesi terapeutiche successive, ecc. L’antivigilia del ricovero è d’obbligo la procedura anticovid: tampone e altra radiografia polmonare (quella della settimana precedente non è più considerata valida). La domenica della vigilia, nel primo pomeriggio, sono pronto ad entrare in ospedale con la mia valigia piena di libri, di agende e di penne, quando un messaggio del ministero della salute mi avvisa che il mio green pass non è più valido, essendo io risultato positivo al tampone. Quindi salta naturalmente anche l’intervento. Telefono in ospedale, mi dicono che già lo sapevano, obietto che avrebbero potuto informarmi, ribattono che quello non era compito loro, ma del ministero. Scatta la quarantena. Per sei giorni rimango chiuso in casa a Lerma, mai stato meglio in vita mia. Al settimo, nuovo tampone: che risulta negativo, cosa che comunico all’ospedale, da dove mi informano però che essendo saltato il turno dovrò attendere il prossimo. Quando, non si sa.

Trascorre dunque più di un altro mese. Nel frattempo mi sottopongo per curiosità a due altri tamponi, di quelli che rilevano l’avvenuto contatto o meno con soggetti Covid. Sembra non abbia incrociato il virus nemmeno di lontano.

Mi richiamano alla fine di febbraio. Nuova trafila di colloqui, analisi e prelievi, nuovo tampone e nuova radiografia polmonare. La radiologa mi riconosce, ormai sono di casa, chiacchieriamo anche un po’. La domenica, dopo una mattinata di mercatino, mi ricovero. L’ospedale è quasi deserto, atmosfera molto soft e un po’ irreale. Due infermiere e una dottoressa che si dedicano totalmente a me, colloqui, parametri, depilazione quasi integrale, un po’ fastidiosa nelle parti intime. Alla fine sono liscio come una statua greca, ma del periodo ellenistico: soprattutto sono perfettamente rilassato, persino un po’ curioso di quali saranno gli effetti dell’anestesia, essendo previsto per l’intervento un tempo piuttosto lungo, tra le cinque e le sette ore.

Per il momento sono destinato a non saperlo. Alle diciannove la dottoressa viene ad avvertirmi con evidente imbarazzo che si è verificato un guasto al robot col quale avrei dovuto essere operato, e quindi salta nuovamente tutto. Mi rivesto in fretta e torno a casa. Ormai provo una sensazione di imbarazzo, quasi di vergogna, a comunicare nei giorni successivi quanto è accaduto agli amici che chiamano per informarsi del mio stato: come fosse colpa mia, come mi fossi inventato tutto. E in effetti, mentre la prima volta esprimevano il loro stupito rammarico, adesso sento anche via cavo che la prima reazione è un sorriso incredulo, e solo dopo arrivano l’indignazione e il sostegno. Lo sento perché so che reagirei io stesso così.

Questa volta la riconvocazione arriva più celermente. Due sole settimane. ennesimo prericovero, ormai quasi solo formale, perché anche loro si vergognano un po’. Ma al protocollo anticovid non si sfugge. Altro tampone, altra radiografia al torace, la quarta in neanche due mesi. L’addetta mi saluta con entusiasmo, e dopo i convenevoli rituali mi chiede se avverto qualche conseguenza. Le dico che sono solo fosforescente la notte. Risponde che passerà.

Domenica 13, nel pomeriggio, secondo ricovero. Negli ultimi quindici giorni l’atmosfera è molto cambiata. Il reparto è pieno, tutte le camere, che ospitano ognuna tre letti, sono occupate. Vengo poi a sapere che sono ospitati qui anche pazienti di altre divisioni. Evidentemente, mentre ci ripetiamo che va tutto bene e aboliamo anche le ultime elementari restrizioni alla nostra preziosa “libertà”, la situazione dei posti letto sta precipitando. Prevedo che ad ottobre saremo nuovamente nelle condizioni dei due autunni precedenti.

Vengo sistemato in una camera occupata per il momento da un solo altro paziente, più anziano di me, già operato e degente da tre o quattro giorni. Non è un chiacchierone, anzi, proprio non parla, e la cosa non mi spiace affatto. Ho portato la mia solita scorta di libri, ma mi accorgo subito che non è ambiente propizio alla lettura, almeno per adesso. Quando mi affaccio in corridoio incrocio gli operati dei giorni precedenti, deambulanti dalla camera ai servizi con movimenti lentissimi, coperti dalla vita in giù da un lungo lenzuolo bianco allacciato alla meglio sui fianchi, a mo’ di pareo. Di sotto il lenzuolo escono tubi e tubicini che finiscono in sacche trasparenti, sorrette a mano o appese ad un trespolo. Immagini tra psicanalisi e surrealismo, come in “Io ti salverò”.

Attimi di legittimo sconforto 04Del giorno successivo, quello dell’intervento, ricordo poco. Mi hanno addormentato alle otto del mattino, mi sono risvegliato, credo, verso le diciassette, con una cauta sensazione di benessere, nessun dolore: quando ho realizzato non mi pareva vero di averla sfangata così.

E infatti. Il giorno successivo reggo senza antidolorifici , ma sono molto più agitato e sensibile. Il problema è anche che durante la notte è quasi impossibile dormire: come si spengono le luci nei corridoi si accende in ogni camera quella che dovrebbe essere l’illuminazione “di sicurezza”. Purtroppo è posta a mezzo metro da terra e brilla ad un metro o poco più dai miei occhi. Non bastasse questo, ci sono rumori continui, carrelli che vanno e vengono, campanelli suonati dai pazienti ogni due o tre minuti, infermieri che chiacchierano ad alta voce. La seconda notte è dunque infernale, e il giorno successivo procede sulla falsariga di quello precedente. Nessuna voglia di leggere, meno che mai di scrivere o di fare qualsiasi altra cosa. Nessun dolore acuto, ma un malessere profondo, diffuso.

L’imperativo categorico per l’operato di prostata è il ripristino il più veloce possibile della funzione deiettiva: la domanda più ricorrente che i dottori ti pongono è: sei andato di corpo? Hai almeno fatto aria? E se dopo tre giorni di aria non se ne parla ancora ti senti persino un po’ colpevole, poco diligente, e arrivi a mentire: beh, si, un pochino.

Chi non ha bisogno di mentire è il mio compagno di camera. La seconda notte di degenza l’ho vissuta come fossi a Kiev. Un bombardamento ininterrotto.

Mi scuso di parlare di queste cose, ma è ciò di cui si parla in ospedale in queste occasioni. E credo che lo stesso ritegno che vorrebbe indurmi adesso a lasciar perdere l’argomento agisca come remora psicologica al cercare la “liberazione” naturale. L’ho notato ad esempio nel terzo compagno di camera, associato a noi dopo due notti. Un ragazzone affetto da emiplegia totale destra, che deambulava con difficoltà e aveva l’uso di una sola mano, ma era arrivato in ospedale da solo, e non ha ricevuto alcuna visita nei giorni nei quali siamo rimasti assieme. Ciò per sua espressa volontà. Era determinato a non arrecare il minimo disturbo ai suoi familiari ma anche a tutto il personale sanitario, e a noi stessi, si scusava per ogni sia pur minima e legittima richiesta, apriva bocca solo se interrogato. Nel suo concetto di comportamento in pubblico non rientrava, evidentemente, nemmeno il cannoneggiamento a tappeto. La cosa mi ha colpito.

Come lui infatti ho ricevuto, e mi sono anche autoimposto, una educazione molto ottocentesca, perbenistica, borghese, chiamiamola un po’ come vogliamo, che prevedeva comportamenti il meno possibile invasivi della fisicità e degli spazi altrui, dai quali erano quindi escluse le manifestazioni “volgari”, dal tono di voce troppo forte fino al rutto o alla scorreggia. Quando queste ultime sono entrate di prepotenza, nel corso degli anni sessanta, nel cinema e nella letteratura ho avuto l’impressione che stessero crollando le mura di Gog e Magog, quelle barriere di decenza che bene o male avevano sino ad allora fatto argine all’irruzione dei barbari. Quella sensazione la conservo tuttora.

E tuttavia, pochi giorni di degenza in una corsia ospedaliera, soprattutto se sono giorni nei quali le parti meno “nobili” del tuo corpo e le loro attività sono costantemente al centro dell’attenzione, e medici e infermieri le trattano con una disarmante naturalezza, impongono di rivedere i criteri della “decenza”. Quando è in atto una lotta per la sopravvivenza, tutto va trattato e difeso allo stesso modo: magari senza rinnegare però l’esistenza di un confine, oltre il quale si scade dalla necessità alla volgarità.

Il quarto giorno percepisco aria di maretta sin dal primissimo mattino. Alle cinque le infermiere discutono, ad un passo dalla nostra porta, di turni intensificati e in qualche caso addirittura raddoppiati. La prima vasca giornaliera nel corridoio conferma che il pomeriggio precedente c’è stata una serie di nuovi ingressi. Non sono profughi ucraini, ma pazienti che come me avevano visto slittare il loro intervento, e che si cerca ora di recuperare, stanti i nuovi chiari di luna che si prospettano. Alle sette e mezza i letti-barella per il trasporto in sala operatoria, in attesa presso le porte delle camere, si sono moltiplicati.

Finisce che durante il giro di controllo di metà mattinata la mia dottoressa mi fa notare che in fondo, per come procede, potrei continuare senza troppi problemi la degenza tra le mura domestiche. Sono d’accordo, non vedo anzi l’ora, ma francamente non mi aspettavo una proposta così immediata: intende dire a partire già da oggi.

È così che a metà pomeriggio esco dal reparto, più o meno rivestito, con i tubi e le sacche nascosti dentro il giaccone e sotto i pantaloni, con il foglio della dimissione che mi spiega cosa dovrò fare per qualche giorno e mi convoca nuovamente per l’inizio della prossima settimana. È avvenuto praticamente tutto come in sogno, mi sono riscosso dal torpore che mi stava pian piano invadendo, ho convocato Mara a ritirare libri, pigiami, ciabatte e magliette da lavare, ho dimenticato i dolori residui. Il primo contatto con l’aria fresca esterna, all’uscita in via Venezia, mi euforizza.

Per il momento funziona. So bene che la fase impegnativa arriva adesso, che il recupero sarà lungo e che non devo aspettarmi di tornare meglio di prima. Ma almeno ho nuovamente voglia di fare, e l’aver buttato giù così sollecitamente queste righe lo dimostra.

Ora ci starebbero anche alcune osservazioni sulla divisione dei ruoli in un reparto sanitario, su come interagiscono diversamente con i pazienti dottori e dottoresse, su come un breve ricovero sia sufficiente a farti capire quanto lavorano, e in quali condizioni, sull’evidenza lampante che tutto ciò che gira attorno al mondo della medicina, forniture, appalti, ecc, a partire da quelli per le mense fino ad arrivare all’arredo, è gestito, quando va bene, da incompetenti.

Ma non esageriamo. Il segno di vita l’ho dato. Devo solo aggiungere, perché non si equivochi su quanto ho raccontato sopra, che sono sinceramente grato a tutto il personale medico e paramedico che si è occupato di me. Hanno fatto davvero tutti del loro meglio, e questo mi ha aiutato non solo ad affrontare serenamente la situazione, ma anche a sperare in qualcosa che va oltre questa particolare contingenza. Siamo senz’altro una civiltà in crisi, di valori, di ideali, di sogni: ma fino a quando la maggior parte delle persone continuerà, fosse pure per semplice senso del dovere, a svolgere il proprio lavoro con questo livello di professionalità, non abbiamo alibi per tirarci indietro quando tocchi a noi fare la nostra parte. Non ho ancora ben realizzato quale sarà la mia, se ne avrò una, perché uscirò senz’altro da questa vicenda molto “ridimensionato”, sia fisicamente che psicologicamente: ma per certo non ho nessunissima tentazione di mollare.

Tutto questo è banale? Senza dubbio: ma sapeste come cambia la percezione di ciò che è banale e di ciò che non lo è, a seconda che si guardi stando dritti in piedi o distesi su un lettino operatorio!

Attimi di legittimo sconforto 05

Un nuovo inizio

di Stefano Gandolfi, Kathmandu (Nepal), 30 aprile 2016

Un anno prima del mio licenziamento dall’Ospedale, mi ritrovai all’inizio di un percorso faticoso ma entusiasmante: la metabolizzazione della fine di una fase lunga e totalizzante della mia vita e dell’esordio di una nuova. Probabilmente non me ne rendevo nemmeno conto, poteva essere solo l’ennesimo viaggio in giro per il mondo.

Materialmente si è trattato semplicemente di comprare un biglietto on-line per il Nepal, viaggiare da solo fino a Kathmandu, trovarmi con gli amici e compagni della nostra associazione di volontariato, prendere contatti con i nostri referenti locali, caricare tutte le attrezzature necessarie sulle jeep, salire sulle stesse, fare un viaggio di 5 ore per un tragitto di 50 chilometri su strade sterrate sempre più impegnative e sconnesse, arrivare faticosamente nel villaggio a nord-ovest di Kathmandu ove avevamo il progetto di aiutare i bambini della scuola, distrutta dal terremoto, e la popolazione adulta del villaggio, offrendo a tutti loro due giornate di visite mediche gratuite, con la collaborazione di medici ayurvedici nepalesi, e un breve corso intensivo teorico-pratico, rivolto sia agli studenti sia agli insegnanti ed educatori, sull’igiene, sull’acqua e sui presidi sanitari di base.

Due notti a dormire nelle baracche del villaggio semi-distrutto dal terremoto, l’ospitalità stupenda, nella povertà materiale e nella ricchezza emotiva, della popolazione locale. E poi un giorno di trekking lavorativo camminando a lungo per i villaggi, girando capanna per capanna con la guida e le indicazioni dei nostri collaboratori, a visitare tutte le persone che potessero avere bisogno di un medico. Emotivamente… beh, semplicemente un terremoto, un viaggio sulla Luna e su Marte, qualcosa di apparentemente simile a tanti altri viaggi un po’ avventurosi fatti in passato, ma con prospettive, obiettivi completamente diversi. Non più turismo puro e semplice, certo la componente edonistica del viaggio rimane presente ma coniugata con motivazioni nuove. L’inizio di un nuovo, lungo percorso che sarebbe proseguito negli anni successivi.

Dal punto di vista medico è stata un’esperienza intensa a 360°, in tutti i suoi aspetti positivi e negativi. Quelli positivi: il rapporto umano con le popolazioni locali, ospitali all’estremo, con i bambini curiosi, affettuosi e sempre di buon umore, con persone grate per ricevere anche pochissimo ma che per loro comunque è sempre più di zero, laddove zero è lo standard; persone che probabilmente, molte di esse perlomeno, non hanno mai visto un medico e non si aspettano di vederlo magari per tutta la vita, e che comunque devono pagarsi visite e cure sanitarie anche qualora possano raggiungere la città con gli ambulatori, gli ospedali, le strutture sanitarie esistenti. Persone per le quali è già una cosa rimarchevole essere ascoltati, anche solo per pochi secondi, a prescindere che da quell’ascolto possa derivarne qualcosa di utile e di concreto.

Gli aspetti negativi sono l’altra faccia della stessa medaglia: povertà estrema, difficoltà enormi anche solo nell’accesso ai villaggi, rete sanitaria inesistente, sporadici contatti con medici governativi, spesso praticanti medicina Ayurvedica che nella limitatezza dei mezzi a disposizione (senza entrare nel merito della validità scientifica di tale medicina tradizionale), può fornire poco più che un supporto psicologico, una buona “pacca sulla spalla” e qualche preparato naturale, erboristico, più a portata di mano e più economico delle medicine tradizionali.

Un nuovo inizio 02

La mia esperienza è stata nettamente distinta in due momenti: il primo, quello appunto in cui mi sono trovato fianco a fianco con un gruppo di medici ayurvedici di Kathmandu coi quali si è cercato di dare ascolto a tutta la popolazione dei villaggi radunata nel piazzale della scuola, almeno 200 persone all’incirca, ognuna delle quali esponeva velocemente un rapido elenco dei propri disturbi e altrettanto velocemente riceveva una prescrizione di qualche rimedio ayurvedico o, più raramente e in casi molto selezionati, qualche farmaco occidentale, nei limiti della piccola scorta portata al villaggio con i fuoristrada; ben presto ho capito che in queste circostanze non potevo interferire più di tanto con i colleghi locali, i quali oltretutto erano gli unici a poter avere un rapporto con le persone per via della lingua, mentre io dovevo per forza avere loro come intermediari, parlandoci in inglese. La possibilità di una visita medica, anche solo superficiale, era impedita sia dalla mancanza assoluta di privacy, con 4 medici e 20-30 persone stipate in una piccola baracca di lamiera di 4mx4m, sia dalla necessità di prestare attenzione a tutti nell’arco di una sola giornata al termine della quale i medici locali sarebbero ritornati in città.

Nel giorno successivo ho avuto invece la possibilità di muovermi a piedi, accompagnato dai compagni del gruppo, dalla dottoressa Roberta e dai maestri del villaggio, in un vero e proprio trekking sanitario che mi portava di volta in volta a incontrare persone lungo i sentieri, davanti alle loro capanne, per terra seduti o sdraiati nella polvere fra bambini curiosi, polli, caprette che razzolavano indisturbate, a visitarli con i pochi mezzi che avevo a disposizione, un fonendoscopio, un apparecchio per misurare la pressione, una pila per guardare in gola, un martelletto per provare i riflessi, un saturimetro per valutare l’ossigeno nel sangue…e mi sembrava già, rispetto al giorno precedente, di essere nel lusso e con sovrabbondanza di mezzi; e la piccola scorta di farmaci che avevo nello zaino, portati dall’Italia quasi in clandestinità perché non avevo un accredito ufficiale del governo nepalese né di qualche grande organizzazione internazionale, mi ha permesso di dare qualche piccola possibilità di fornire cure immediate e concrete.

Ben presto ho capito che era un’utopia l’idea dell’igiene e della sterilità, sopraffatto dalla polvere, dalla terra, dalla sporcizia storica delle persone che visitavo, e in poche ore ho fatto un salto indietro di secoli nell’atteggiamento mentale e fisico, abbandonando ogni remora e preoccupazione cercando di adeguarmi il più possibile, anche sotto questo punto di vista, alle condizioni locali.

Cosa è servita questa esperienza? Molto breve, nella limitatezza del tempo a disposizione, molto eroica non tanto per quello che ho fatto quanto per le condizioni logistiche, assolutamente piacevole nella scoperta di persone che in un’altra parte del mondo e con una lingua sconosciuta, esprimevano tuttavia le stesse semplici e basilari necessità di qualsiasi altra persone del mondo, che fosse in Africa, in Asia o in Sudamerica. Piacevole la consapevolezza di poter innescare un contatto e una comprensione quasi immediata, superando distanze siderali di cultura, religione o quant’altro… piacevole il riuscire a superare la diffidenza e il disagio dal primo contatto con uno sconosciuto venuto da chissà dove, che poi però si sedeva con loro per terra per visitarli.

Strano e inizialmente inquietante il rendersi conto che con tutta la cultura e la preparazione scientifica che ci portiamo dietro, nel momento in cui non abbiamo a disposizione esami di sangue, laboratori analisi, radiografie, ecografie, TAC e RMN, ci scopriamo a doverci reinventare un nuovo modo di ragionare che in realtà è vecchissimo e risale agli albori della medicina, quando bisognava fare affidamento solo sulle proprie mani, sugli occhi e sul cervello per discriminare ciò che si osservava: e ancora una volta piacevole scoprire che nei limiti di un aiuto immediato, si riusciva a dimenticare tutti i dubbi di questa privazione di mezzi, cercando di affinare le proprie intuizioni per una valutazione immediata, magari superficiale ed imprecisa ma finalizzata ad una decisione da prendere comunque subito. Agli antipodi della medicina difensiva che ormai è quasi la prassi odierna, quando si chiede qualsiasi esame disponibile al di là della reale necessità, per essere sicuro di non commettere errori od omissioni di cui si possa essere accusato.

Cosa dire, al di là della retorica che spesso si accompagna a queste esperienze? Che si riscopre, come sempre in un qualsiasi viaggio anche se solo per turismo o per trekking, in zone del mondo povere come questa, l’essenziale contrapposto al superfluo; si riscopre l’importanza di una confezione di antibiotico che può fare la differenza fra la vita e la morte in una banale, ma non troppo, polmonite: così come mi spiegava un medico coreano volontario in uno sperduto ambulatorio medico a 4000 metri a Kunde, un villaggio nella valle dell’Everest semidistrutto dal terremoto del 2015, nel quale al ritorno dal campo base dell’Everest io e un compagno di trekking medico abbiamo portato i nostri zaini carichi di farmaci da lasciare in dono.

Ma si scopre anche l’importanza di una ferrea organizzazione, in assenza della quale tutti gli sforzi o quasi si vanificano nel pantano della inefficienza, dell’inerzia, della burocrazia, per non dire anche di peggio, ovvero la corruzione e la furberia di chi si aspetta per diritto divino ogni genere di aiuto e di regalia come se fosse una cosa ovvia e scontata. Talvolta anche la malafede di chi è convinto che chiunque arrivi dall’occidente sia così ricco e carico di soldi da poterne elargire a pioggia in modo illimitato e perpetuo.

Si impara presto a selezionare su chi e cosa finalizzare gli sforzi, psico-fisici ed economici, si pensa ai bambini, agli studenti, che molto più dei loro genitori e nonni potrebbero avere una chance di cambiare la loro vita e il loro atteggiamento nei confronti del mondo. Si impara, perché no? e questo veramente in controtendenza rispetto all’ipocrisia della retorica, a essere cinici, magari anche duri, con chi ostacola o non capisce gli sforzi che si fanno. C’è molto da imparare, nel bene e nel male, da un viaggio e da un’esperienza come questa. E senza alcun dubbio ci si arricchisce e, questa volta in pieno ossequio alla retorica, si riceve molto più di quanto si dà.

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