di Stefano Gandolfi, da Sottotiro review n. 7, settembre 1997
Quel pomeriggio a Lisbona pioveva. Una pioggellina fine, stupida, che dopo pochi minuti lasciava intrisi di umidità e di pensieri. Tutto, a quell’ora, sembrava confluire a Praça do Comercio: la pioggia che cadeva sulla città, dall’Alfama e dal Barrio Alto, e tutti i pendolari che correvano per abbandonare il centro e ripopolare i paesini sull’altra sponda del Tejo. Nessuno aveva un valido motivo per fermarsi un attimo in più, neppure a Lisbona, e i traghetti infaticabili continuavano ad ingoiare persone e a risputarle dall’altra parte del fiume.
Da quale ufficio, da quale ministero provenivano tutti quegli spiriti inquieti che non avevano tempo per guardarmi e che dopo pochi minuti svanivano nella nebbia del Mar de Palla?
Cosa pensavano quando, quasi per sfida, fantasma tra i fantasmi, fendevo controcorrente la loro corsa per cercare riparo sotto i portici?
Eravamo a Lisbona solo da poche ore e già capivo, impotente, che quella città amplificava i miei sentimenti e me li ritrasmetteva, con un colpo basso, quasi con malignità, come se mi dicesse: ‘cosa sei venuto a fare qui, a spiarci, a vedere se davvero siamo tristi come dicono i tuoi libri ed i tuoi films?’
Pioveva, ovviamente, quel pomeriggio, ed ovviamente non ho potuto vedere il sole tramontare dietro il ponte 25 Abril, quel tramonto che sognavo di vedere fin dall’inizio del viaggio: ma il sole era rimasto in Andalusia, ad illuminare il sorriso delle ragazze di Siviglia ed a scaldare le candide case dei Pueblos Blancos.
Cos’ero venuto a fare, allora, a Lisbona, a scoprire quell’ansia e quell’inquietudine che forse bruciavano già dentro di me? Avevo fatto tremila chilometri per specchiarmi nelle acque fangose del Tejo, per scoprire infine che questa città ti ammalia, ti imprigiona e allo stesso tempo ti fa tornare la voglia di fuggire, di partire di nuovo e di lasciarti alle spalle il lamento silenzioso della folla di fantasmi col loro carico secolare di saudade e di domande impronunciabili.
Mi aggiravo dunque in Praça do Comercio, davanti all’estuario del Tejo, dove il fiume, ancora lontano dall’oceano, si allarga, quasi impaziente di diventare mare, e improvvisamente mi accorsi di quell’uomo seduto su un muretto di pietra dei vecchi mori, immobile da chissà quanto tempo e chissà per quanto tempo ancora; era seduto composto, con le mani raccolte tra le gambe, solo apparentemente imprigionato nel suo involucro corporeo e nel suo abito, modesto ma di estrema dignità. Portava gli occhiali, ma il suo sguardo andava ben oltre il Mar de Palla e il ponte 25 Abril, ben al di là dell’oceano, delle Americhe e delle terre lontane d’oriente: il suo sguardo andava oltre i limiti del tempo e dello spazio, perché scrutava dentro di sé, cercando risposte che nessuno poteva dargli.
Rimasi a lungo a fissarlo, poi mi allontanai un poco e con pudore, quasi con vergogna, lo fotografai, per essere sicuro che non fosse anche lui un fantasma: ma immediatamente compresi che egli era lì da sempre, dall’inizio del mio viaggio, che mi aspettava, e finalmente ero arrivato: e compresi, ancora, che di fronte a me c’era Fernando Pessoa che mi ripeteva, da sempre: “Ogni molo è una nostalgia di pietra”.