di Marcello Furiani, da Sottotiro review n. 7, settembre 1997
Abbiamo prima accennato a diverse possibilità della letteratura nel rispondere ad esigenze profonde di trasformazione. I racconti di Alessandro Milanese che seguono indicano il tentativo di interloquire con il proprio presente, le sensibilità, le tendenze e anche le mode correnti contemporanee misurandosi, magari inconsapevolmente, con l’ingombrante memoria della letteratura e sfuggendo ad ogni subordinazione espressiva e ideologica. Il linguaggio di questi racconti, proponendo la bellezza e insieme il malumore di una provincia archetipica, rivendica lo spazio e il ruolo specifico della scrittura, recuperando la tradizione del romanzo di formazione in un confronto con i tempi, i miti, i sentimenti e gli stereotipi di una cultura giovanile, dove convivono rapporti difficili da capire, amori più o meno infelici, relazioni più o meno distanti con gli adulti e un irrisolto riconoscimento con il mondo e con la sua illusoria compiutezza.
L’inserzione
Di che gruppo era il cantante Morrissey.
Gli Smiths.
Bravo.
La voce femminile dall’altra parte del filo sembrava stupita per l’ennesima risposta giusta, promise di farmi chiamare al più presto per comunicarmi l’esito.
.La sera stessa mi telefonarono e mi fissarono un appuntamento per la mattina seguente alle dieci. Quelle a cui avevo appena risposto erano una decina di domande di un questionario per essere assunti come magazziniere in un ingrosso di dischi. Era stata mia madre a notare l’inserzione su un giornale locale.
“CERCASI ESPERTO DI MUSICA POP-ROCK”
Io esperto non potevo esserlo di sicuro, visto che non avevo mai lavorato in vita mia, ma le centinaia di dischi che avevo a casa, frutto di creste colossali sulla spesa dei miei dovevano ben servire a qualcosa
Durante la notte non chiusi occhio pensando a quello che significava per me un vero lavoro: tutto sarebbe cambiato all’improvviso.
Al mattino feci una lunga doccia, misi la meno brutta delle mie camicie, un paio di Levi’s, le Clarks, e piangendo raggiunsi quello che sarebbe diventato il mio posto di lavoro.
Domenica mattina
Quella stupida lucidapavimenti faceva più rumore del solito, la donna alla guida aveva un camice rosso e la faccia di una persona che avrebbe preferito la miniera a quel corridoio d’ospedale, la domenica mattina.
Io mi trascinavo a stento fra quei muri bianchi e l’odore di cloroformio.
Dentro l’ascensore fissavo con insistenza i miei occhi azzurri circondati dal viola riflessi nel vetro.
Non avevo dormito molto negli ultimi giorni, un po’ per il cambio di stagione e un po’ per tutti quei problemi che la primavera si porta dietro ogni anno. Dovevo salire all’ottavo e ultimo piano in medicina 2, era quello il reparto in cui mio nonno trascorreva le sue giornate da più di due mesi.
Dopo aver dato l’ultima rapida occhiata alla mia faccia uscii dall’ascensore incamminandomi nel reparto.
Due infermiere parlavano ad alta voce della questione albanese:
-Dovrebbero affondarli tutti. Disse una.
-Non dirlo a me, ho paura persino ad uscire di casa. Rispose l’altra.
Pensai che anche il più scellerato di Albanese si sarebbe guardato bene dal toccare quella specie di cassapanca parlante, ma era domenica mattina e non avevo alcuna voglia di fare delle discussioni inutili.
Arrivato in camera trovai mio nonno disteso sul letto e mia nonna accanto.
Lanciavano urla in dialetto monferrino, sembravano inviperiti.
-Ciao nonno.
-Ah ciao.
-Ma perché siete sempre dietro a litigare?
-Ma, sai com’è, passa il tempo più in fretta se facciamo qualcosa.
.Sorridendo mi avvicinai alla finestra.
A qualche centinaio di metri la città viveva la sua giornata.
Nel parco, proprio davanti all’ospedale, c’erano cani che rincorrevano bastoni lanciati da padroni, giovani in bici con anziani che leggevano.
Erano tutti così lontani da quella stanza di Medicina 2 all’ottavo piano.
Erano tutti così lontani da me, che appoggiato al marmo del termosifone li guardavo mentre vivevano la loro vita.
accompagnata da un’ironia consapevole diventa compiacimento, esibizione, spettacolarizzazione – ingenua e fragile a dire il vero – circa un sottoprodotto per nulla sconvolgente della ferocia e dell’atrocità gratuite del tempo che intende descrivere.