Non di solo pulp

di Marcello Furiani, da Sottotiro review n. 7, settembre 1997

“Il libro non morirà, è ovvio. Ritornerà dove è stato quasi sempre, nell’enclave di minoranze che lo manterranno vivo, e, allo stesso tempo, gli chiederanno il rigore, le belle parole, l’inventiva, le idee, le persuasive illusioni, la libertà e l’audacia che sono assenti nella grande maggioranza di quei libri che oggi usurpano la denominazione letteratura”.    MARIO VARGAS LLOSA

1) Si può fare letteratura dopo Auschwitz? O dopo “Ladri di biciclette”? O dopo “Pulp fiction”? Si può dire in una lingua che ha scritto, trascritto e riscritto l’indicibile? Che cosa significa raccontare nell’era dell’informazione globale? E, soprattutto, come dialogare con il proprio presente, con le sue discontinuità e i molteplici volti delle proprie contraddizioni?

Agli albori del XIX secolo Hegel meditava quanto la gloria dell’arte fosse alle sue spalle, nel passato, annunciando la fine dell’arte: George Steiner, in “Letteratura e post-storia” scriveva dell’“uomo che legge da solo in una stanza a bocca chiusa”. Borges ha sottolineato come la letteratura abbia sempre amato blandire la propria fine. L’ossessione di venire dopo tutto, di essere postuma rispetto all’esperienza e alla tradizione, di diventare dialogo tra morti, ha attraversato l’arte del nostro secolo come un basso continuo, come un fremito d’angoscia o, nei casi più strumentali, come un tic intellettuale in interminabili simposi solo illusoriamente capaci di dibattere sulle “ultime cose dell’uomo”, come asseriva Ripellino.

2) Non si tratta di screditare né di esaltare ciò che appare come un’innovazione e un rinnovamento nel terreno dei linguaggi, dei modelli di comunicazione e delle forme di espressione – ai cui margini ancora si discute sulla presunta “morte della letteratura” – ma di cogliere le coordinate che definiscono i nuovi fenomeni letterari, i vezzi e le mode, dal minimalismo al pulp o trash o splatter che chiamar si voglia.

Se la letteratura deve essere intrisa fatalmente – con tutte le sue precarietà, distorsioni e parzialità – della realtà presente, va subito sottolineato che la dissoluzione dei modelli di percezione e di elaborazione tipici del fenomeno pulp non è l’unica risposta possibile alle necessità di trasformazione della realtà, del linguaggio che la rappresenta e della fruizione dei destinatari.

A questo proposito accenneremo solo rapidamente al fatto che, in mancanza di un regime linguistico medio ed egemone – con l’eccezione forse solo di quello televisivo – lo scrittore oggi non può definirsi grazie alla frequentazione di un linguaggio minoritario, trasgressivo e oppositivo – se non scontando un’ambiguità difficilmente risolvibile, a cui appartiene tra l’altro lo stesso termine pulp – ma è forzatamente costretto a misurarsi con se stesso e la cui attendibilità passa anche, e soprattutto, attraverso altre responsabilità.

Occorre inoltre evidenziare che aderire ad un genere non può essere – pur nelle disomogeneità delle tendenze e nelle contraddizioni spesso profonde tra le singole peculiarità – una pratica intenzionale e per questo ben lontana da un gesto di rottura e di opposizione a vere e presunte stagnazioni culturale e letterarie. Il consenso ad uno stile, se assume tratti convenzionali, produce esiti di palese artificiosità e di fastidiosa maniera, in cui la scrittura e la narrazione vengono piegate a soluzioni arbitrarie e illegittime alla prevedibile ricerca, nel caso della maggioranza degli autori “cannibali”, di effetti di ferocia e crudeltà.

La rappresentazione del male gratuito e insensato, che sfugge alle più diverse interpretazioni ideologiche, sociologiche e psicologiche, se non viene accompagnata da un’ironia consapevole diventa compiacimento, esibizione, spettacolarizzazione – ingenua e fragile a dire il vero – circa un sottoprodotto per nulla sconvolgente della ferocia e dell’atrocità gratuite del tempo che intende descrivere.

 

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