Naufragi con telespettatori

di Paolo Repetto, 5 novembre 2022

Suave, mari magno turbantibus Aequora Ventis
e terra magnum alterius spectare Laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse Malis Careas quia cernere suavest.

(È dolce, mentre nel grande mare i venti sconvolgono le acque,
guardare dalla terra la grande fatica di un altro;
non perché il tormento di qualcuno sia un giocondo piacere,
ma perché è dolce vedere da quali mali tu stesso sia immune.)

La metafora con la quale Lucrezio apre il secondo libro del De rerum natura ha conosciuto una grande fortuna, ed è arrivata a noi con un lungo viaggio attraverso la letteratura (ricordo solo Ariosto e Benjamin, ma quanto a naufragi – i propri – anche Leopardi non scherza), l’arte (ad esempio, “Il Naufragio” di Turner, “Tempesta a Belle-Ile” di Monet, “La grande Onda” di Hokusai), la musica (“La tempesta di mare” di Vivaldi, il primo atto dell’Otello di Verdi, ecc.). In realtà non era tutta farina del sacco di Lucrezio: il suo contemporaneo – e curatore editoriale – Cicerone accenna ad una immagine simile che compariva in una tragedia perduta di Sofocle, anche se il senso non era esattamente lo stesso. Il frammento di Sofocle infatti dice: “Oh quale maggiore piacere può esservi che, toccata la terraferma e sotto un tetto, udire con i sensi assopiti cadere fitta la pioggia”. Lo stesso vale per un paio di versi superstiti del semisconosciuto Archippo: “Com’è dolce guardare il mare dalla terra, non dovendo navigare”. La versione circolante in Grecia già cinque secoli prima è dunque in apparenza meno insensibile alle sofferenze altrui di quella di Lucrezio (in apparenza, perché il poeta latino non voleva affatto esprimere un atteggiamento di egoistica indifferenza): là il naufragio non era neppure nominato, forse per scaramanzia, e comunque a incombere, a costituire una malaugurata possibilità era quello proprio, non l’altrui. Cicerone, che non a caso era un avvocato, portato alle interpretazioni più maliziose, scrive invece (ad Attico) “Desidero contemplare da terra il naufragio di costoro, come disse il tuo amico Sofocle”, chiamando Sofocle a testimoniare e ad avallare con la sua autorevolezza un pensiero che era in realtà molto più prossimo al detto confuciano “Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico”.

A me interessa però, al di là delle interpretazioni, l’attualità di quella immagine, che oggi non è più soltanto metaforica. Siamo infatti quotidianamente spettatori, stando al riparo di un tetto e seduti su un comodo divano, di naufragi reali o di altri accidenti che ai naufragi sono apparentabili, sia la natura o siano gli uomini a provocarli: ma lo facciamo con atteggiamento sofocleo, questo si, coi sensi assopiti, intorpiditi dal profluvio di altrui disgrazie che ci viene riversato addosso. E siamo ormai talmente assuefatti da non accorgerci che in mezzo al mare in tempesta ci siamo anche noi, sballottati qua e là dalla potenza della tecnica e più ancora da quella del capitale, e contemporaneamente incapaci di distogliere lo sguardo dal teleschermo, di guardarci attorno senza farci irretire da ogni sorta di illusionisti. Come gli spettatori pirandelliani siamo direttamente coinvolti nella vicenda, ma non abbiamo la minima idea della parte che stiamo recitando.

Naufragi con telespettatori 02

A giocare con le metafore ci si prende gusto: e allora vado fino in fondo. Ce n’è appunto una sulla vita come teatro che a mio giudizio rende a pennello la nostra situazione, ed è riportata da Kierkegaard in Enter-Eller: “In un teatro scoppiò un incendio dietro le quinte. Un clown uscì sul palcoscenico e avvisò il pubblico. Gli spettatori pensarono che si trattasse di uno scherzo e applaudirono. Il clown ripeté l’annuncio, con sempre maggior divertimento dei presenti. È così, immagino, che il mondo finirà distrutto: tra l’ilarità generale dei buontemponi, convinti che sia tutto un gioco”.

È un’immagine perfetta: il mondo che va a fuoco, l’umanità spettatrice che pensa sia una barzelletta, il giornalista-clown che ha talmente abituato gli spettatori al falso o all’inutile da non essere più preso sul serio. (Kierkegaard ce l’aveva a morte coi giornalisti. Scriveva anche: “Se Cristo venisse oggi sulla terra, com’è vero che io vivo, non prenderebbe di mira i sommi sacerdoti, ecc. – ma i giornalisti …”. Aveva capito tutto).

Ma torniamo alla metafora di Lucrezio. In effetti il suo atteggiamento un po’ egoistico lo è: come dice lui stesso, le disgrazie altrui non sono affatto piacevoli, ma ti danno un’idea di quel che ti stai scansando. E questo probabilmente, ai suoi tempi, un po’ di consolazione l’arrecava. Oggi però è molto più difficile pensarci immuni da qualsivoglia pericolo: lo abbiamo già constatato sulla nostra pelle con la recente pandemia, ne abbiamo la riprova oggi con la guerra che è tornata a giocarsi alle porte di casa nostra, cominciamo persino ad accorgerci che i problemi ambientali e i cambiamenti climatici ci toccano tutti indifferentemente. E tuttavia, anche di fronte a quelli che non sono più solo segnali, ma realtà che incidono profondamente sulla nostra esistenza, sembra che la consapevolezza del nostro coinvolgimento sia ancora ben lontana. Ci pensiamo ancora spettatori sulla riva e tiriamo un sospiro di sollievo, come se il carico di disgrazie elargite dagli dei agli uomini rispettasse delle quote fisse, e a noi fosse risparmiato ciò che cade sugli altri.

Naufragi con telespettatori 03

Nel bellissimo libro Davanti al dolore degli altri Susan Sontag cita un piccolo saggio in forma di lettera pubblicato nel 1938 da Virginia Wolf, Le tre ghinee. In questo saggio la Woolf faceva riferimento alle immagini che testimoniavano la distruzione fisica e la carneficina disumana provocate dalla guerra civile spagnola, immagini che le venivano recapitate dal fronte repubblicano quasi quotidianamente. Secondo la Woolf “la macchina bellica ha un genere sessuale”, e quel genere è maschile: la guerra è uno sport praticato dai maschi, per cui la scrittrice confessava di sentirsi quasi impotente. Ma evocando la condivisione delle stesse terribili immagini – “stiamo guardando insieme gli stessi corpi privi di vita, le stesse case in macerie” – riteneva che queste fossero talmente scioccanti da affratellare le persone di buona volontà, da far loro superare ogni divario di genere relativo alla guerra e alla violenza. Credeva insomma che venire a contatto col dolore, sia pure attraverso la sua rappresentazione, non potesse lasciare indifferente nessuno.

La Sontag, che ha scritto il suo libro nel 2003, sessantacinque anni dopo quello della Woolf – sessantacinque anni che hanno visto una guerra mondiale e un continuum interrotto di conflitti locali, guerre civili, azioni terroristiche, a bassa intensità ma ad altissimo numero di vittime – va oltre la diversa percezione di quelle immagini secondo l’angolatura di genere. Il problema sta per lei ancora a monte. Intanto, si chiede, cosa ci motiva veramente a ritrarre la sofferenza e l’orrore? E quali sentimenti suscita nello spettatore la loro “riproduzione”? E quest’ultima è poi davvero possibile, senza che nel trasferimento all’immagine vada persa la verità terribile di quanto è rappresentato? E ancora, come evitare che si crei l’assuefazione, o peggio, un morboso compiacimento davanti a queste rappresentazioni? Il fatto è, dice Sontag, che da una immagine di guerra siamo toccati, ma non ci sentiamo mai direttamente coinvolti: non ci sentiamo investiti di una responsabilità diretta. E al di là del livello di coinvolgimento, l’interpretazione delle immagini diventa una questione soggettiva, e stante la molteplicità degli usi cui esse possono essere piegate diventa anche un atto politico. Tanto più nell’epoca dei social network, nella quale la loro diffusione è sterminata e incontrollata.

Con tutto ciò, scrive la Sontag, le raffigurazioni “indecenti” della sofferenza e della morte violenta hanno un valore pari a quello dell’esperienza diretta. Sono testimonianze che non potremmo acquisire in alcun altro modo, e quindi, a dispetto anche degli effetti di saturazione che il loro moltiplicarsi produce, conservano un forte valore etico.

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Mi verrebbe spontaneo non essere d’accordo, perché sto pensando all’uso spregiudicato, per non dire turpe, che viene fatto nelle pubblicità televisive delle immagini di bambini denutriti, svantaggiati, malati: ma poi devo ammettere che persino quelle, malgrado il loro intento di creare sensi di colpa da tacitare con le donazioni sia così spudoratamente scoperto, e a dispetto del fastidio col quale le respingiamo, un qualche effetto lo producono: la sofferenza di un altro, la pioggia fitta che cade là fuori, alla fine nel profondo ci toccano.

Perché però allora rimaniamo seduti sul divano, ipnotizzati dal teleschermo, sforzandoci di credere che la distanza di quelle immagini ci garantisca per il momento un po’ di sicurezza (solo qualche anno ancora, per gli anziani come me), o fingendo di accettare fatalisticamente la perdita di ogni disegno per il futuro?

Lo lascio spiegare con un’altra metafora da Hans Blumernberg, l’autore di Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza (dal quale ho evidentemente saccheggiato il titolo di questo intervento e gran parte delle citazioni iniziali). È una prosecuzione e un adattamento all’oggi di quella da cui sono partito.

Quello di Lucrezio è per Blumernberg uno dei due possibili atteggiamenti di fronte al gioco ciclico, incessante e imperscrutabile, della creazione e della distruzione della natura. È l’atteggiamento epicureo di chi dall’alto della sua superiore conoscenza può guardare con distacco agli affanni e i turbamenti altrui, e non esserne travolto.

Il fatto è che ormai ci troviamo a vivere in un’epoca nella quale le rotte salvifiche delle ideologie e delle religioni e i porti sicuri delle filosofie cui approdare sono scomparsi dalle mappe. Oggi annaspiamo costantemente in un mare in tempesta, la nave non regge e dal naufragio possiamo salvarci solo aggrappandoci a una tavola. Per Blumenberg dobbiamo quindi “farci una nave con i resti del naufragio” (è anche il titolo di un capitolo del libro): il tavolame che abbiamo a disposizione è costituito solo dalla scienza: “Si deve costantemente tener conto che si è alla deriva; da lungo tempo non è più questione di navigazione e di rotta, dello sbarco e del porto. Il naufragio ha perduto la sua azione-quadro. Ciò che deve essere detto è: la scienza non fornisce quello che i desideri e le pretese avevano tradotto in aspettative ad essa rivolte; ma quella che essa fornisce, non può essere essenzialmente superato e basta alle esigenze della conservazione della vita. […] Con la teoria della selezione naturale Darwin avrebbe offerto la possibilità, perlomeno di aggirare l’ipotesi di un finalismo immanente della creazione organica. […] La tavola è il massimo che si può pretendere dalla situazione di autoiniziativa immanente dell’uomo tramite la scienza”. (Naufragio con spettatore, pp. 105-06)

A pensarci bene, prescindendo naturalmente da Darwin, non è poi molto diverso da quanto diceva Lucrezio. Per il quale, tra l’altro, già dalla nascita l’uomo si ritrova nella condizione del naufrago: “il bambino, come un naufrago gettato a riva dalle onde infuriate, giace in terra nudo” (De Rerum Natura, V vv. 222 ss) e tutte le forme della natura possono essere paragonate a rottami scagliati sulla riva (“ma – come, quando sono avvenuti molti e grandi naufragi,/ il vasto mare suole gettare qua e là banchi, costole di nave,/antenne, prore, alberi e remi galleggianti,/sì che lungo tutte le spiagge si vedono fluttuare/aplustri e dare ai mortali ammonimento/a volere evitare le insidie del mare infido/ e le violenze e il suo inganno, e a non credergli mai”, De Rerum Natura, II vv. 550 ss)

D’altro canto, a mio parere nemmeno Lucrezio conserva sino in fondo l’imperturbabilità del saggio epicureo: il fatto stesso di scrivere un libro a carattere scientifico-divulgativo implica che sia impegnato a fare luce sul destino dell’uomo, e a farne partecipi gli altri. Insomma, non si trasforma da spettatore in protagonista, ma dimostra che anche chi contempla la realtà non può esimersi dal viverla in prima persona. “La ragione può fare dell’uomo lo spettatore di ciò che egli stesso patisce, facendo sì che domini da ogni parte con lo sguardo la vita nel suo complesso” scriveva Schopenhauer. E Lucrezio in effetti può essere considerato a pieno titolo un poeta della ragione, perché ritiene che attraverso la ragione l’uomo sia in grado di lottare contro il caso e di farsi artefice del suo destino. A dispetto di tutto il suo distacco, “sente” di non essere al sicuro, ma di viaggiare sulla stessa barca con gli altri. E allora, proprio perché “Si salva, probabilmente, non chi contempla la rovina altrui, ma chi soffre e spera insieme agli altri, chi considera fattivamente gli uomini non come individui lontani e indifferenti, bensì come prossimi e fratelli” il suo atteggiamento sfuma nella seconda possibilità, quella di mettersi per mare e di prendere parte emotivamente ed empaticamente alla navigazione.

Mi chiedo solo adesso perché mai mi sono messo a scrivere queste cose. Non era un argomento che urgesse. Ma a volte mi prendono delle strane malinconie. In questo caso è un cerchio che si chiude. In una noterella buttata giù almeno quarant’anni fa, concernente la “genialità”, affermavo che la caratteristica che distingue il genio è la capacità di dire: “Ma cosa volete da me?” É una caratteristica che non ho mai posseduta, e infatti non sono un genio. In tutto questo tempo non ho cambiato idea, e ho anche consolidato la convinzione che la qualità cui davvero ho sempre aspirato, l’ironia, non ha niente a che fare con il genio. Nessuno è meno ironico (e soprattutto, autoironico) di un genio, così come io sono ben lontano dall’atarassia epicurea. Eppure, continuo a pensare che persino Lucrezio, che indubbiamente un genio lo era, non fosse poi così distaccato ed egoista. Ci ha lasciato in dono un’opera che è un capolavoro, ma soprattutto è la tavola giusta cui aggrapparsi: e questo è più che sufficiente a farmelo sentire vicino.

Ariette 9.0

Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». (n.d.r).

A volte

A volte01

di Maurizio Castellaro, 26 giugno 2022

A volte ci sono giornate di grazia in cui la verità, le cose e i pensieri improvvisano un concertato di cui si perde la memoria perché non si è mai abbastanza svelti a scriverne le note. Momenti in cui sembra che Spinoza, Hegel, Cristo e Nietzsche abbiano pensato lo stesso pensiero (per quanto a temperature diverse). La musica si sta già allontanando, riesco ancora a riconoscere qualche parola del canto: “ama ciò che è stato, ama ciò che è, niente poteva andare diversamente, perdonalo, perdonati”.  A volte ci sono giornate di grazia

Dalla parte di Creonte

di Nicola Parodi, 22 gennaio 2021

Sui giornali di questi ultimi giorni spiccano (insomma, compaiono in sesta pagina, dopo le interviste a Mastella) le notizie riguardanti le donne e la politica. Si parte dall’incarico di governo conferito in Estonia ad una donna, che porta il numero dei paesi nordici retti al femminile a sei su otto; si prosegue con la discussione in corso presso la Corte Costituzionale sulla costituzionalità della legge che assegna ai figli il cognome del padre; e si finisce con le richieste di nominare finalmente anche da noi delle donne alle cariche di Presidente della repubblica o del Consiglio, ciò che a molti appare come una possibile panacea per l’Italia.

Questi interventi mi spingono a trarre spunto da un articolo di Mauro Fornaro, “DONNE AL POTERE! Ragioni psicologiche dell’accesso femminile a ruoli dirigenziali”, pubblicato su Cittàfutura, per qualche breve considerazione. Nel suo articolo Fornaro inizia la riflessione sostenendo che “La letteratura greca ci ha consegnato un classico momento delle differenze di genere: Antigone, nell’omonima tragedia di Sofocle, onorando con le esequie funebri il fratello Polinice benché la sepoltura fosse interdetta ai traditori della patria, rappresenta le istanze degli affetti e della famiglia; mentre lo zio Creonte, dittatore di Tebe, rappresenta l’impersonale legge della polis, che non fa sconti a nessuno, fino a imprigionare a vita la pietosa Antigone. Queste due diverse attitudini, il primato dato agli affetti familiari di contro al primato dato alla ragion di Stato, sono state assunte a paradigma della differenza psicologica e sociale tra donne e uomini, favorendo lo stereotipo per cui la donna è domina entro le mura domestiche, l’uomo è dominus nelle attività pubbliche …” Il resto dell’argomentazione e le conclusioni che ne conseguono credo siano facilmente immaginabili (e se non lo sono andate a scoprirle in questo link).

Ora, mi chiedo, tralasciando per questa volta il problema delle differenze di genere: servono dei sondaggi per avere la certezza che nella attuale società italiana Creonte venga considerato dalla grande maggioranza il “cattivo” della situazione? Direi proprio di no. Sono meno sicuro invece che la simpatia o l’antipatia discendano da una contrapposizione “razionale” tra le due istanze.

E cerco di spiegarmi: ma prima di proseguire credo opportuna una premessa. In natura non esiste il “bene/giusto” o il “male/sbagliato”: esiste soltanto qualcosa che “funziona” o “non funziona”. Noi umani rappresentiamo un aspetto della natura un po’ particolare, perché dotati di una “coscienza” formatasi attraverso un processo evolutivo che potremmo definire anomalo: quindi i nostri modelli di pensiero non sono esattamente ricalcati sulla “morale naturale”. Ragioniamo anche per contrapposizioni tra buono e cattivo, ed è difficile prescindere da termini di raffronto cosi istintivi: cerchiamo però almeno di capire se è accettabile il giudizio su un Creonte “cattivo”.

Sofocle scrive le sue opere quando ormai i persiani non sono più un grosso pericolo. Le flotte e le falangi oplitiche hanno bloccato quasi mezzo secolo prima i tentativi di invasione. Questo va tenuto presente, perché la morale di un’opera non può essere quella del periodo in cui è ambientata, ma è sempre quella corrente all’epoca in cui è stata scritta. D’altro canto, il modo stesso in cui i valori morali erano concepiti non prevedeva che potessero essere considerati mutevoli o mutati nel tempo.

La legge che all’epoca era considerata “divina”, quella che imponeva di dar sepoltura ai morti e alla quale Antigone si appella, ha radici antiche (si pensi alle pire funebri di Omero), che affondano non solo nei riti di sepoltura praticati dai Sapiens e anche dai Neanderthal, ma anche nei comportamenti particolari di alcuni animali in caso di morte dei conspecifici, in particolare delle femmine. Si può dedurne quindi che la pietà per i morti ha sicuramente lasciato tracce nella genetica. Ed è buona regola che le leggi “positive”, quelle elaborate dai diversi sistemi di potere e rispondenti a diversi modelli di convivenza, non contraddicano i comportamenti che hanno radici genetiche. Se però insorgono altre esigenze, necessarie per salvaguardare la struttura sociale (o la salute pubblica), può allora essere indispensabile fare leggi che contrastano con tale regola. E questo ci porta al nostro caso.

Fermo restando che Creonte fosse un tiranno, ha fatto bene o male a proibire la sepoltura di chi tradiva la propria città? La rigidità, al limite della disumanità, nel far rispettare le regole, è da considerarsi in modo positivo o negativo per il bene della comunità?

Non mi pare un caso che Sofocle abbia trattato il problema in termini interlocutori. Sapeva che la simpatia degli spettatori sarebbe andata alla donna (a dispetto del fatto che le donne greche all’epoca fossero considerate meno di zero – qui però non era in discussione la donna, ma il gesto), e personalmente era piuttosto portato a rimpiangere l’ordinamento morale di un tempo: ma sapeva anche che il rispetto inflessibile delle leggi è un dettame “pratico” della ragione, qualcosa che funziona, anche se entra in contrasto con emozioni e sentimenti.

Siamo in Grecia, nel V secolo, con le varie polis in perenne conflitto tra di loro e quindi a rischio di aggressione continua: la prima fondamentale necessità è quella della difesa, per salvaguardare la vita e la libertà degli abitanti: e ciò esige una compattezza interna, spontanea o imposta che sia, fondata sul comune rispetto delle leggi. Fossi l’avvocato di Creonte direi: può non piacere, risponde ad una logica perversa, ma la situazione è questa. Se avete altre soluzioni realisticamente praticabili fatevi avanti. Antigone è una brava ragazza, tosta e coraggiosa, ha un sacco di buone ragioni (che non sono necessariamente quelle attribuitele lungo venticinque secoli nelle innumerevoli reincarnazioni letterarie successive), ma per la sua comunità rappresenta oggettivamente un pericolo. Rendiamoci conto che oggi sarebbe una no-vax, probabilmente starebbe in parlamento con i cinque stelle.

Il discorso affrontato da Sofocle era comunque già aperto da tempo. Proprio per rispondere alla necessità difensiva (o offensiva, a seconda dei casi e delle situazioni) a partire dal VI secolo a.C. si erano sviluppate armi e tattiche “oplitiche”. Nella formazione della falange ogni oplita era protetto dal commilitone vicino, e del comportamento di quest’ultimo doveva fidarsi ciecamente. Ora, per fidarmi devo sapere che per il mio commilitone nulla è più importante del rispetto delle regole del gruppo, del dovere di non abbandonare la posizione. A chi domandava perché solo l’abbandono dello scudo comportasse l’atimia (l’esclusione dal rango di cittadino), e non quello dell’elmo o della corazza, il re spartano rispondeva che quell’armatura era preposta alla difesa del singolo soldato, mentre lo scudo valeva τῆς κοινῆς τάξεως, a proteggere il gruppo, la comunità. Chi milita in uno schieramento così concepito, nel quale la compattezza degli scudi corrisponde alla compattezza dei valori riconosciuti, non può non introiettare e trasferire nella vita pubblica queste modalità di comportamento. Allo stesso modo, chi esercita il potere non può, spinto da emozioni e sentimenti, mettere in dubbio i principi su cui si fonda la “morale oplitica”, e conseguentemente la compattezza dell’esercito da cui dipende la sicurezza della città.

C’è però un paradosso. Il raggiungimento di un certo livello di potenza della città fa venir meno la “paura”, e questo induce ad ammorbidire la rigidità nel rispetto dei principi. In tal caso spesso chi governa cede (per interesse?) alle sollecitazioni di chi vuole il prevalere dei sentimenti sulla ragione, che invece imporrebbe l’indispensabile mantenimento del concetto di prevalenza della legge. È il rischio che corriamo nella situazione attuale, con l’appello continuo, e generalmente molto ipocrita, a motivazioni che confondono l’egoismo individuale con la libertà.

La “morale oplitica” viene anche considerata uno degli elementi che creano le condizioni per la nascita della democrazia; se si è uguali nella falange non si può essere diversi nella vita politica cittadina: repubblica e democrazia sono il risultato. All’obiezione che Sparta, dove la morale oplitica vigeva ferrea, non era una democrazia, si può rispondere evidenziando che quando il mestiere delle armi è monopolio di una casta di militari o di professionisti più o meno mercenari non si danno le condizioni per la nascita di società con un qualche livello di partecipazione democratica. In questo caso (che è anche quello del feudalesimo giapponese o europeo) è più facile che il risultato sia la comparsa di un re/imperatore, più o meno sacralizzato, con il ruolo di fonte della legalità dei diritti che la casta si arroga. E il processo può anche innescarsi in senso inverso, come possiamo riscontrare nella storia dei comuni medioevali. Si potrebbe comunque ipotizzare che anche a Roma il passaggio da monarchia a repubblica si sia originato come conseguenza dell’organizzazione militare.

Tornando a Creonte, il giudizio non dovrebbe basarsi sulla valutazione se il suo potere fosse più o meno tirannico, ma sul fatto che la sua scelta fosse o meno funzionale al mantenimento della coesione della comunità; una comunità in disfacimento non sarebbe nemmeno stata in grado di provvedere alla propria difesa. Quindi, Creonte ha contravvenuto ad una legge che potrebbe essere ritenuta naturale, ma nel nome di un concreto beneficio per la collettività. Naturalmente questa aveva difficoltà a comprenderlo, soprattutto nella sua componente femminile, che anche fra i primati si dimostra più emotivamente coinvolta quando muore qualche componente del gruppo. Ma questo aprirebbe un’ulteriore digressione che per il momento vi risparmio.

Ciò che mi chiedo invece, in conclusione, è se si debba per forza tornare a fare la guerra in falange per educare cittadini responsabili e non allevare bambini viziati. L’ipotesi è meno peregrina di quanto appaia, perché di questo passo c’è il rischio di una regressione rapidissima e tutt’altro che incruenta, e gli scenari che si prospettano per le generazioni immediatamente a venire sono tragici. Possiamo raccontarcela come vogliamo, ma se non saremo in grado alla veloce di recuperare il senso delle regole e la capacità di farle rispettare da tutti, non solo nelle emergenze ma nella quotidianità dei rapporti, ci ritroveremo presto a guardare ai concittadini come a commilitoni o, all’inverso, come avversari. Ma senza alcuna compattezza di scudi a proteggerci.

L’incostanza della ragione

di Carlo Prosperi, 28 dicembre 2020

​Caro Nico,
ho letto e riletto con piacere le tue considerazioni e le tue osservazioni (“Endogenesi delle cause o eterogenesi dei fini”) sulla mia lettera a Paolo, anche perché vedo che, da buon positivista, dimostri una dimestichezza con le scienze che io non ho e non ho mai avuto. Ma il tuo discorso, nei punti in cui sembra discostarsi e discordare dal mio, nasce da fraintendimenti. Io infatti non sono un irrazionalista né danno in toto l’Illuminismo. Ci mancherebbe. Degli illuministi, di certuni almeno, non apprezzo l’idolatria della ragione, quella che supera il dualismo cartesiano di res cogitans e di res extensa in maniera semplicistica, tutto riducendo a mero materialismo meccanicistico e scomunicando o – quel ch’è peggio – irridendo quanto ad esso non è riconducibile. Diciamo D’Olbach ed Helvetius, per semplificare. Ma altri ve ne sono più subdoli e sfuggenti… Non credere che ciò contrasti con la mia affermazione intesa a includere l’uomo nella Natura: la Natura, a parer mio, non è solo materia, ma anche energia, creatività, pensiero. Leopardi arriva a dire che la materia pensa: che vi è in essa un principio che la trascende. Forse quella che noi chiamiamo anima, mente, psyche. Ma questo è un discorso che ci porterebbe lontano. Da approfondire, dunque.

Io sono eminentemente un pascaliano. Pascal, criticando Cartesio, distingueva un esprit de géométrie e un esprit de finesse, fino a concludere che vi sono delle ragioni che la ragione non conosce: quelle del cuore, come avrebbero poi detto i romantici. Le scienze sperimentali hanno per lui dei limiti intrinseci: l’esperienza, la quale inevitabilmente limita i poteri della ragione che non sono mai assoluti, e l’indimostrabilità dei principi primi della scienza, che, pur stando alla base di ogni ragionamento, sfuggono al ragionamento stesso (è infatti impossibile la regressione all’infinito dei concetti). Pascal oppone alla ragione deduttiva quella che chiama “comprensione istintiva”, ovvero quel tipo di comprensione che coglie gli aspetti più problematici della condizione umana. L’esprit de géométrie ha per oggetto gli enti astratti e gli oggetti esteriori, l’esprit de finesse ha per oggetto l’uomo e, tramite l’intuito, visualizza subito l’oggetto indagato senza dover passare dal ragionamento. Nel cosmo l’uomo occupa una posizione mediana tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, scaturito dallo studio scientifico della realtà naturale. Modellando il ragionamento su un principio matematico (per cui aggiungendo ad una grandezza delle grandezze di un ordine d’infinito inferiore essa non si accresce in misura sostanziale), Pascal nota che l’uomo vive sempre a metà strada tra il mondo fisico e le sue aspirazioni spirituali e che ha riempito con i suoi divertissements l’abisso generato dall’assenza di Dio nella sua vita; la conseguenza è quella dell’angoscia, in quanto la ragione si rivela insufficiente a penetrare il mistero della grazia divina. Detto in soldoni, è da qui che parte la filosofia di Pascal, il quale – non dimentichiamolo – era pure un grande matematico. E qui, per ora, mi fermo.

Del resto, i frutti migliori dell’illuminismo si vedono in Kant, che dimostra di essere pienamente cosciente dei limiti della ragione e per questo non la idolatra. Il mio razionalismo, come il suo, si oppone sia all’iper-razionalismo sia all’irrazionalismo. Ambedue appiattiscono la realtà, negandone la complessità, lo spessore dialettico. In fondo, dimentichiamo che ad ispirare Cartesio era un Angelo, a guidare Socrate un Daimon. Troppo spesso si dimentica il potere creativo, visionario e “immaginario” del nostro cervello, che molti geni, tra gli scienziati e gli inventori del passato, hanno utilizzato in modo proficuo per giungere a formulare le loro conclusioni. Ricordo di aver letto, tempo fa, un articolo di tale Andrea Doria che, a sostegno di ciò portava diversi esempi: tra cui quello del chimico Friedrich August Kékulé von Stradonitz che si era invano affannato a decifrare la struttura della molecola di benzolo; quello, però, che non gli consentì la riflessione cosciente fu un sogno a permettergli di conseguirlo: una notte, addormentatosi di fronte al fuoco, vide in sogno un serpente che si mordeva la coda, ovvero l’archetipica figura dell’Uroboros. Guarda caso, la molecola di benzolo ha una struttura ad anello. Singolare, poi, anche il caso di Niels Bohr, il quale giunse a formulare il suo famoso modello atomico come un sistema planetario in piccolo traendo ispirazione da un sogno: sognò infatti di essere seduto su un sole ardente intorno a cui ruotavano a velocità folle dei pianeti del pari incandescenti.

Non sono un irrazionalista nemmeno quando parlo dell’insonnia della ragione. L’insonnia in fondo è una malattia o è, comunque, indizio di malessere. Fa perdere lucidità. Induce stati ossessivi. L’insonnia della ragione è un’aberrazione, del tutto simile a quella – apparentemente opposta – dei massacri perpetrati da sedicenti cristiani. La troppa luce acceca, al punto che illustri illuministi hanno demonizzato il Medioevo come “secoli bui”. Ecco, la demonizzazione non mi appartiene: tanto che anche nei pensatori più lontani dalla mia visione del mondo, anche tra gli illuministi, anche in Marx, so (e amo) ricercare barlumi di verità, pagliuzze d’oro tra le tante scorie. Né presumo di essere infallibile. O di sapere tutto. Al contrario, so bene di sapere ben poco, quasi nulla. Cerco solo di orientarmi, di non perdere la bussola: una volta si diceva la trebisonda. E questo m’induce alla cautela, a comprendere più che a condannare. Quantunque, alla fine, una scelta bisogna pur farla.

Tu spieghi quella che io, usando un’espressione vichiana, chiamo “eterogenesi dei fini”, con l’incapacità dell’uomo di comprendere: io parlerei piuttosto di impossibilità. Non è umanamente possibile prevedere tutte le conseguenze delle nostre azioni, soprattutto se è vero che il minimo battito d’ali di una farfalla ai tropici sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo. Per questo a Diego Fusaro obietto che, a parer mio, la filosofia marxiana non è impunemente praticabile o applicabile alla realtà – che non è geometrizzabile o scientificamente-tecnicamente governabile sulla base di piani e di pianificazioni –. Finora almeno non sembra. Pensare che con l’avvento del comunismo cominci la “storia” vuol dire che finiranno le contraddizioni, e quindi la dialettica storica. O le contraddizioni rinasceranno in forma nuova? E con il comunismo si aprirà una nuova fase della vita, forse post-umana? In ogni caso la “mobilitazione totale” in vista della rivoluzione non è né indolore né scontata. Né, appunto per l’eterogenesi dei fini, è detto che raggiunga davvero i suoi scopi o sogni virtuosi … Marx affida invece alla praxis della soggettività organizzata e cosciente il riscatto, ma non considera che l’umano sapere non è in grado di valutare le infinite interferenze e le infinite conseguenze dell’agire umano: per cui questo non può essere né univoco né lineare né in toto prevedibile e scontato. Di qui la fatale eterogenesi dei fini. Lo stesso Gestell (per Heidegger, l’attuale sistema tecnocratico) è sì stato posto e prodotto dall’agire umano, ma con esiti, a sua insaputa, perversi. Fatto è che Fusaro, al pari di Marx e dei marxisti à la Lukács, tende a reagire al pessimismo dell’intelligenza con l’ottimismo della volontà astratta, in maniera appunto velleitaria…

Ha osservato Corrado Ocone: «Il fatto che gli accadimenti e le opere, così come le azioni, siano sempre individue, non significa che in esse, in sede di comprensione, non sia possibile rinvenire un ordine. Solo che quest’ordine, pur essendo opera in ultima istanza delle azioni degli individui empirici, trascende ogni loro intenzionalità, non corrisponde a ciò che gli individui o anche gruppi più o meno ampi di loro, si erano proposti con le loro azioni. È in questo solo e preciso senso, e solo in questo, che Croce può affermare, in senso metaforico, che gli accadimenti o la Storia sono come Dio. Essi, per così dire, se ne vanno per i fatti loro: la libertà è veramente, da questa prospettiva, non degli uomini ma dello Spirito». Analogamente Einstein diceva: «Dio non gioca a dadi». È come se ci fossero due piani: uno empirico, pragmatico (per cui vale l’asserzione di von Mises: «solo l’individuo pensa, solo l’individuo ragiona, solo l’individuo agisce») e uno storico-spirituale (in cui si ordinano, in un «ordine spontaneo», le conseguenze delle azioni individuali. «Gli accadimenti non sono governabili ex ante dagli individui empirici, ma sono da loro riducibili a senso ex post».

Questo per quanto concerne l’eterogenesi dei fini. Ma torniamo ora al Gestell, frutto della “ragione strumentale”. Si dice che la post-modernità abbia segnato la fine delle ideologie. È un cliché retorico: in realtà, l’epoca che si suppone depurata da tutte le viete ideologie novecentesche si sta potentemente delineando come l’epoca forse più ideologica della storia, pervasa da un’ideologia neutra, quasi impalpabile, la quale tuttavia sta penetrando in profondità nel tessuto sociale e culturale dell’umanità, generando un uomo ormai soggiacente al volere e alla meccanica della sua stessa creatura: la Tecnica. È stato giustamente scritto, al riguardo, da Davide Parascandolo che «la soggezione di fronte allo strapotere di questo moderno Leviatano è la cifra di un uomo irriconoscibile, che ha rinunciato a se stesso e che appare profondamente assorbito da dinamiche dominate da meccanismi autoregolativi e autoperpetuantesi. La post-modernità si presenta come l’epoca dell’automatizzazione dell’uomo, della sua alienazione completa, dell’abdicazione totale del suo pensiero e del suo pensare. Le conseguenze pratiche di questo mutamento, che è al tempo stesso filosofico ed antropologico, sono di notevole portata e investono evidentemente tutte le principali dimensioni che caratterizzano il vivere umano, sia esso inteso nel più ampio spettro delle relazioni sociali e comunitarie come in quello più ristretto e privato dell’ambito prettamente individuale. Lo scivolamento di status ontologico dell’uomo da creatore a suddito della propria creatura produce ripercussioni rilevanti sulla vita associata delle società contemporanee, determinando un asservimento totale della vita umana a logiche economicistiche pervase da una sorta di tecnicismo razionalistico di per sé sussistente che si sgancia dalla realtà delle cose per assurgere a unica e assiomatica verità, la quale pretende di non conformarsi più al divenire, ma, al contrario, di imbrigliare quest’ultimo entro le sue ferree ed asettiche costruzioni iper-razionalistiche».

Di qui l’asservimento della politica all’economia o, meglio, al suo epifenomeno finanziario. Con la “delocalizzazione” della sovranità dai parlamenti a clubs ristretti, a élites impenetrabili che operano secondo logiche autoreferenziali. Emblematica e, per così dire, plastica espressione di tale processo di tecnicizzazione della politica è, a parer mio, l’attuale costruzione europea, che si regge su irrazionali criteri economicistici e contabili, assurti tuttavia ad intoccabili ed irriformabili Moloch ideologici. Essa appare – per tornare al testo di Parascandolo – come «l’inveramento storico di quel dogma dell’irreversibilità che rischia di far pericolosamente regredire l’umanità verso un unico modello: quello dell’homo reiterans». È, questo, lo svuotamento di ogni progetto umanistico, «cui fa da contraltare una drammatica automatizzazione dell’umano che è l’anticamera di quella logica dell’irreversibilità che sembra costituire l’unico possibile orizzonte imposto da una sorta di finalismo storico dal quale non poter in alcun modo sfuggire e che, in ultima istanza, rappresenta l’irreversibilità stessa dell’accettazione dell’attuale strutturazione del mondo, espressione di quella religione globalista e iperliberista che ne connota in profondità l’essenza».

Mi viene in mente Il Mondo nuovo di Aldous Huxley, ambientato in una Londra del futuro dove controllo delle nascite e controllo sociale attraverso le droghe di Stato e i piaceri diventano esempio di un nuovo tipo di dittatura. Mentre per Orwell la dittatura è promossa da un Grande Fratello che fa della cultura una prigione, per Huxley l’intrattenimento è meglio della forza e la cultura diventa una farsa. Nella nostra società non c’è nessun carceriere che ci sorveglia, ma le prigioni sono dentro le nostre teste. Il nostro non è un mondo di schiavi terrorizzati dalle punizioni di un regime totalitario, ma una società di ebeti rimbambiti da piaceri cafoneschi. Siamo cioè di fronte a un mondo apparentemente libero, in realtà controllato dalla sua stessa “libertà”. «Controllare la gente non con le punizioni, ma con i piaceri»: è così che si arriva al nuovo assetto dei sistemi totalitari. Nella “democrazia” immaginata da Huxley il popolo non è imprigionato, ma distratto continuamente da cose superficiali. La vita culturale trasformata in un eterno circo di divertimenti e un intero popolo ridotto a spettatore. Nel “mondo nuovo” non esistono censure, ma la gente è talmente subissata dalle informazioni che, incapace di rielaborare una simile mole di notizie, finisce col diventare passiva, con il disinteressarsi a tutto e a non ribellarsi più a niente. Difendersi è impossibile: si finirebbe come in un romanzo di Dick: pazzi e isolati detentori di una verità che nessuno, per comodità, accetterà mai. «Questi milioni di individui abnormemente normali, che vivono senza gioia in una società a cui, se fossero pienamente uomini, non dovrebbero adattarsi, ancora accarezzano l’illusione dell’individualità, ma di fatto sono stati in larga misura disindividualizzati. Il loro conformismo dà luogo a qualcosa che somiglia all’uniformità. E uniformità e salute mentale sono incompatibili». Per Huxley siamo solo una «calca di pecore umane che vivono soggiogate dalle cieche leggi delle abitudini».

A questo ci ha portato un certo modo – non proprio ragionevole – di intendere la ragione. E credo che anche tu ne converrai. E se anche non fosse, non ritengo che ciò possa in qualche modo precludere la prosecuzione del nostro dialogo. Almeno lo spero, in nome della nostra antica amicizia.

Affettuosi saluti e auguri di buon anno, Carlo.

 

Endogenesi delle cause o eterogenesi dei fini

di Nicola Parodi, 21 dicembre 2020

Ho letto le riflessioni di Carlo Prosperi esposte ne “La luce fredda dell’Utopia”. Condivido in gran parte le sue osservazioni, in particolare quando parla delle “aberrazioni della cancel culture, quella che, per political correctness, pretende di correggere la storia”. Per una sorta di reazione istintiva mi sento tuttavia in dovere di difendere il valore della razionalità come strumento di conoscenza. Carlo sostiene che quelle aberrazioni sono i frutti perversi dell’Aufklärung. E aggiunge: “È ben vero che il sonno della ragione produce mostri, ma non meno mostruosi sono i parti dell’insonnia della ragione”. Qui non riesco a seguirlo, e mi sembra strano che ci arrivi per un percorso che in realtà almeno fino ad un certo punto è esattamente il mio, quando ad esempio afferma: “La razionalità non può sostituirsi a ciò che è frutto, in gran parte inconscio, di millenni di tentativi, per prove ed errori; non può impunemente sovvertire la tradizione (che non è un fossile) e pretendere di fare tabula rasa dell’esistente nella presunzione di costruire un mondo perfetto”. Sono d’accordo su tutto, tranne che sul soggetto iniziale della frase, o meglio, sull’uso che Carlo fa dei termini “ragione” e “razionalità”: quindi, mentre faccio mio il drastico giudizio sul sorgere di una nuova religione laica, che come le altre religioni ha la pretesa di definire ciò che è bene e ciò che è male, vorrei chiarire che le aberrazioni cui giungono gli adepti di questa neo-religione non sono il frutto di una fredda analisi razionale, il più scientifica possibile, ma sono generati e guidati dalle emozioni e dai sentimenti,  e soprattutto sono condizionati dalle mode culturali.

Vorrei partire da alcune idee proposte da Richard Dawkins[1] (*). Prendendo spunto dalla convinzione di Lorenz che un modello di comportamento può essere trattato come un organo anatomico, Dawkins propone la teoria del fenotipo esteso. Con il termine fenotipo si intende la forma che assume un organismo sviluppato; in questa accezione il concetto di fenotipo viene esteso, oltre che alla forma dell’organismo, anche ai prodotti delle sue azioni nell’ambiente esterno (azioni che sono indotte dai geni).

Faccio un esempio. La trappola a forma di buca conica scavata dal formicaleone[2] è l’espressione di un comportamento determinato geneticamente, così come lo sono tutte le varie tipologie delle ragnatele. Tutto questo lo diamo ormai per scontato, perché quando esaminiamo il comportamento degli insetti sociali siamo psicologicamente disponibili a riconoscere che è determinato geneticamente. Allo stesso modo, con un minimo sforzo intellettuale in più realizziamo che anche le dighe costruite non da un singolo castoro, ma da un gruppo, rispondono ad analoghi criteri e quindi rientrano nella definizione di fenotipo esteso (*).

Continuando a salire di livello nella scala della complessità animale, riusciamo ancora ad accettare, sia pure con un po’ di difficoltà, che persino la “cultura” e l’organizzazione sociale dei primati possa rientrare nella definizione di “fenotipo esteso”. Ma quando facciamo un passo ulteriore, saliamo di un altro gradino, ecco che nasce il problema. L’idea di considerare la cultura umana e le sue realizzazioni tecnologiche ed artistiche come fenomeni rientranti nel concetto di “fenotipo esteso” urta la sensibilità di quanti ritengono l’uomo qualcosa di speciale. Diciamo che di primo acchito la reazione è comprensibile: in fondo sembra esserci una bella differenza tra chi è riuscito ad andare sulla luna e chi continua a salire e scendere dagli alberi. Eppure, se accettiamo come valida la definizione di cultura data da Luigi Luca Cavalli Sforza, per il quale “la cultura va intesa come insieme di conoscenze che acquisiamo e comportamenti che sviluppiamo durante la nostra vita; questi due elementi (conoscenze e comportamenti) creano la cultura sulla base dell’azione congiunta della nostra eredità biologica, cioè il programma genetico di istruzioni del DNA che dirige il nostro sviluppo, e dei numerosissimi contatti individuali e sociali di qualunque natura vissuti da qualunque gruppo sociale”, dovrebbe essere più facile accettare le realizzazioni della società umane come espressioni del “fenotipo esteso”[3].

Anche se Cavalli Sforza non è affatto entusiasta della cosa, ultimamente in assonanza al termine “gene” è stato coniato (*) il termine “meme”, che sta ad indicare un’unità di trasmissione culturale o un’unità di imitazione. Nelle società umane la diffusione dei memi è molto rapida, in virtù delle molteplici modalità di trasmissione che abbiamo escogitato, e con l’avvento di internet si rischia addirittura che la loro trasmissione, pressoché immediata, sfugga a quella sorta di selezione naturale che ne misura la capacità di funzionare positivamente per la sopravvivenza della società in cui si diffondono. Vale a dire che tendono a circolare liberamente, fuori controllo, sia gli input positivi che le stupidaggini e le bufale: il che comporta una gran confusione, e il rischio (molto concreto, per quanto è dato vedere oggi) che le false informazioni, in genere più facilmente “digeribili” da spiriti pigri, finiscano per prevalere e mettere a repentaglio tutto ciò di buono che sino ad oggi si è costruito.

Vedo di spiegarmi meglio. Il fatto che le culture evolvano comporta l’esistenza un qualche meccanismo di selezione darwiniana. Questo permette la sopravvivenza delle culture (e quindi delle società che quella determinate culture esprimono) che meglio rispondono alle esigenze di riproduzione degli individui che ne fanno parte, in determinati luoghi e periodi; inoltre ci costringe a prendere atto che il “valore” che attribuiamo al modello culturale a cui apparteniamo è, nelle migliori delle ipotesi, valido per un più o meno breve lasso di tempo.  Ora, ogni cervello animale tratta le informazioni servendosi di moduli mentali che sono frutto di un’evoluzione durata centinaia di milioni di anni: ha insomma un programma di risposte già pronte, adattabili alle singole situazioni, e in questo modo risolve i problemi che l’individuo si trova ad affrontare, aumentando le sue probabilità di sopravvivere e riprodursi. In questa operazione la rapidità nella risposta agli stimoli esterni è un requisito essenziale, anche se va a scapito della precisione. I moduli mentali che utilizziamo noi umani sono dunque quelli che si sono dimostrati più efficaci alla luce dei meccanismi evolutivi, anche se, in base al principio di precauzione, a volte ci facevano fuggire di fronte a un pericolo non concreto.

Il discrimine sta qui. Per una serie di processi che non possono essere approfonditi in questa sede i membri della specie Homo sapiens sapiens hanno finito per ritrovarsi dotati, oltre che di moduli cognitivi automatici, anche di un processo cognitivo più lento ma più riflessivo[4]. Ovvero, noi non reagiamo in base al puro istinto, ma a seguito di una ponderata riflessione. Questa modalità di trattare le informazioni implica naturalmente la possibilità di errori di sistema, e anche il nostro modello riflessivo può essere soggetto a condizionamenti emozionali e culturali. Quindi la cautela è d’obbligo. Se è vero che, come abbiamo visto sostenere da Cavalli Sforza, gli aspetti più importanti del nostro sviluppo risultano da una complicata interazione fra il nostro DNA e la nostra cultura, per capire qualcosa di come ci comportiamo e come funzionano le società di cui facciamo parte è indispensabile una analisi razionale di questi aspetti. L’eterogenesi dei fini di cui parla Carlo è solo frutto, a mio parere, di una nostra insufficiente capacità di condurre a fondo questa analisi.

Proviamo a trasporre tutto questo sul piano dell’agire sociale e politico. Giustamente diffidiamo delle pretese di chi vuol costruire un mondo migliore sulla base di convinzioni religiose o ideologiche, al fondo delle quali c’è la certezza dell’esistenza di un vero e di un giusto assoluti. Non siamo in grado di conoscere con sufficiente dettaglio i meccanismi sociali per progettare riforme con la certezza che i risultati corrispondano alle aspettative. Nemmeno la scienza è in grado di dare risposte certe a problemi di tale complessità: ci ha provato sinora solo la fantascienza, con Asimov, inventando la “psicostoria”.

È pur vero però che se in un gruppo di cacciatori-raccoglitori non è necessario intervenire per modificare ciò che regola i rapporti fra gli individui,  stante la sostanziale “immobilità” sociale, in una società complessa, le cui principali regole non sono ormai più quelle selezionate dall’evoluzione e codificate geneticamente, ma quelle di origine culturale definite storicamente, di fronte a modifiche dell’equilibrio sociale,  per degrado intrinseco o al presentarsi di condizioni socio/economiche nuove,  si rendono indispensabili interventi che modifichino l’organizzazione tradizionale. E dovendo agire è necessario farlo con la maggiore razionalità possibile, che consiste anche nel cercare di modificare il minimo indispensabile. Soprattutto, nessuna riforma può funzionare se le regole nuove contrastano con i dettami morali codificati geneticamente.

Insomma, voglio dire che se alcuni grandi riformatori del passato sono riusciti (magari solo parzialmente) nel loro intento, sono sicuramente molti di più i tentativi di riforma che non hanno funzionato. E i fallimenti sono venuti di norma da una voluta o colpevole ignoranza degli effetti di quella complessa interazione fra il nostro DNA e la nostra cultura di cui parla Cavalli Sforza.  Ovvero dal fatto che quei progetti non erano sufficientemente razionali. Sarebbe semmai poi da aprire un dibattito su ciò che intendiamo per “razionale”, perché troppo spesso trovo l’aggettivo è usato nella sola valenza di “efficace, efficiente, capace di produrre risultati”, ma il suo significato non può certo esaurirsi in questo. Se così fosse, Himmler avrebbe realizzato una delle operazioni più razionali della storia. Per quanto mi riguarda, è razionale ciò che “funziona” tanto nella prospettiva individuale che in quella della specie (e non sempre le due cose coincidono: posso fare un sacco di soldi e moltiplicare le mie possibilità di sopravvivere e riprodurmi producendo scorie inquinanti, ma per la specie sono solo un danno): ciò quindi che riesce a mantenere un equilibrio tra le mie pulsioni egoistiche istintuali e la mia disposizione altruistica acquisita. Sono d’accordo con Carlo quando rievoca i Terrori generati dall’idolatria della Ragione, dai sogni degli utopisti, dalla forzatura radicale di Marx, ma mi sembra dimentichi quali altri terrori sono stati ingenerati da chi ad esempio si è fatto “interprete” monopolistico e ufficiale dell’insegnamento cristiano. Ora, la lettera del Vangelo detta ben altro che le stragi degli eretici o degli infedeli, allo stesso modo in cui la Ragione non prevede i campi di sterminio e la ghigliottina. La Ragione è uno strumento, come lo è la Religione: e come ogni strumento può capitare nelle mani sbagliate, ed essere usato malamente.  Ma questo può valere anche per una padella, o una forchetta: significa che dovremmo mangiare cibi crudi, e con le mani?

Per il resto, sono d’accordo (almeno in parte) sulla lettura in negativo delle rivoluzioni. Diciamo che sono piuttosto un tiepido riformista, anche se può sembrare una brutta cosa, perché “Occorre fare le riforme” è purtroppo lo slogan di moda fra la classe dirigente attuale. Non sono pregiudizialmente contrario alle riforme se e quando necessarie, ma mi  piace  ricordare quanto sostiene Montesquieu nelle Considerazioni sulle cause della grandezza e decadenza dei Romani:   “Quando il governo ha una forma stabilita da tempo e le cose sono disposte in un certo modo, è quasi sempre prudente lasciarle come sono, perché le ragioni, spesso complicate e ignote, per cui una tale situazione si è mantenuta, fanno si che essa duri ancora; ma quando si cambia il sistema totale, si può rimediare soltanto agli inconvenienti che si presentano nella teoria, tralasciandone altri che solo la pratica può far scoprire”.

NOTE

[1] (*) Richard Dawkins, Il fenotipo esteso, Zanichelli 1986 – Il gene egoista, Mondadori 2017

[2]Per il formicaleone scavare trappole è ovviamente un adattamento per catturare le prede. I formicaleoni sono insetti, larve neuroptere, con l’aspetto e il comportamento di mostri spaziali. Sono predatori pazienti che scavano nella sabbia soffice trappole con le quali catturano formiche e altri insetti terricoli. La trappola ha una forma quasi perfettamente conica, con le pareti talmente inclinate che la preda non può arrampicarsi per uscire, una volta caduta dentro. Tutto quello che fa il formicaleone è di stare sul fondo della trappola, dove con le sue mandibole stritola, come in un film dell’orrore, qualsiasi cosa gli capiti a tiro” da Richard Dawkins, Il fenotipo esteso

[3] Cavalli Sforza aggiunge anche “Purtroppo nella maggior parte dei quotidiani e dei settimanali le pagine dedicate alla cultura limitano il loro interesse quasi esclusivamente a film, romanzi e in genere agli spettacoli. Intendiamoci, sono anche loro importanti, in quanto contribuiscono in modo non indifferente ai piaceri della vita, ma vi sono molti aspetti del nostro sviluppo che sono ancora più importanti e che risultano da una complicata interazione fra il nostro DNA e la nostra cultura, intesa nel senso più vasto su cui quest’opera è basata” (Luigi Luca Cavalli Sforza, L’evoluzione della cultura, Codice ed. 2010)

[4] Daniel Kahneman, Pensieri lenti e veloci, Mondadori 2020

Anarchismo e geografia

a cura di Paolo Repetto, 30 ottobre 2018Anarchismo e Geografia

Kant geografo della ragione

Kant grande geografo

La nascita della geografia moderna  attraverso il pensiero di Alexander von Humboldt e Carl Ritter

Lezione (hegeliana) di geografia

Geografia e filosofia. Materiali di lavoro

Spazio e geografia in Hegel:  la dialettica terra-mare

Geografia

Il pensiero anarchico

I principali pensatori anarchici

Simon Springer

Anarchismo!  quello che dovrebbe essere la geografia

Kant geografo della ragione *

Hansmichael Hohenegger

How absolute the knave is! we must speak by

the card, or equivocation will undo us.

(Hamlet, V, 1, 132)

Nel breve scritto in cui annuncia il corso di geografia fisica del semestre estivo del 1757, Kant dichiara che il suo insegnamento non mira alla precisione e alla completezza filosofica che sono richiesti dalla fisica e dalla descrizione della natura, ma segue piuttosto il filo conduttore della «curiosità razionale del viaggiatore».1 Certo, Kant è stato un viaggiatore davvero sui generis, non essendosi mai allontanato dalla sua città natale se non di poche miglia,2 ma la sua curiosità è fuori questione: basta pensare alle testimonianze dei suoi biografi e alle sue estesissime letture di manuali di geografia e di resoconti di viaggi.3 L’attenzione alla geografia dipende forse dal fatto che Kant ha insegnato per più di quarant’anni geografia fisica (dal 1755 al 1796), ma l’intensità e l’estrema articolazione di livelli della sua conoscenza fa supporre che alla base di tutto il suo  modo di pensare ci sia una dialettica più profonda tra un’istanza spaziale di ordine e una passione avventurosa per la scoperta e il viaggio. Pur giustificato dai dati biografici, il cliché del geografo da poltrona ha impedito di valutare proprio questo contrasto tra la sua Reiselust e la sua articolata e profonda idea della spazialità.4 A partire da questi due fattori si vuole fornire qualche nuovo elemento per ulteriori indagini riguardo alla genesi dell’architettonica filosofica di Kant.

Il primo passo potrebbe essere quello di notare come la stessa idea di viaggio (il contrario della nostalgia; Fernweh, diranno poi i romantici) sia alla base del suo impulso metafisico. In una nota manoscritta del decennio di preparazione alla Critica della ragione pura, Kant considera la stessa filosofia critica un viaggio:

“La critica della ragione pura è una misura di prevenzione contro una malattia della ragione, che ha il suo germe nella nostra natura. Essa è il contrario dell’inclinazione che ci incatena alla nostra patria (nostalgia, Heimweh). È il desiderio di perderci al di fuori delle nostre cerchie e di rivolgerci ad altri mondi.” 5

Già qualche anno prima, nella Dissertatio (1770), Kant aveva usato la metafora del viaggio quando aveva scritto di aver osato un passo oltre i confini della certezza apodittica (ultra terminos certitudinis apodicticae). Si era chiesto infatti quali fossero le «cause dell’intuizione sensibile». La sorprendente risposta di Kant non è lontana, per sua stessa ammissione, dal «nos omnia intueri in Deo» di Malebranche, ma già la domanda aveva i tratti dell’avventura in alto mare (in altum): nell’oceano delle «indagationes mysticae». Nel 1770 l’impulso metafisico è così manifesto perché è ancora alimentato dalla speranza di risultati positivi derivanti dall’uso reale dell’intelletto; la cautela critica è, però, ben presente: conscio dell’incerto mare delle conoscenze riguardanti le cause dei fenomeni, Kant dichiara infatti che è più raccomandabile (consultius) navigare lungo la costa (littus legere).6

Nel famoso passo dei Paralogismi della prima edizione della Critica della ragione pura, Kant sembra aver preso definitivamente partito per la «sobrietà di una severa, ma giusta critica» che sia in grado di tracciare «sicuri limiti in base a principi» e scriva con la massima sicurezza il nihil ulterius sulle colonne d’Ercole, che la natura stessa ha eretto, affinché il viaggio della nostra ragione continui solo fin dove si estendono le coste ininterrotte dell’esperienza.7

Il viaggio per l’oceano senza rive (uferloser Ocean) deve essere abbandonato perché, secondo questa radicalizzazione quasi empiristica, non rimangono speranze di espandere le conoscenze della ragione. Da allora, l’immagine del costeggiare, del prudente rimanere dentro i confini dell’esperienza, accompagna da sempre la filosofia trascendentale anch’essa come un cliché che, in quanto tale, è vero, ma solo parzialmente. Infatti, l’autentico simbolo (Sinnbild) della filosofia critica, come è espresso icasticamente nei Prolegomeni, non è il limite, ma la «conoscenza del limite»,8 la quale è possibile solo se si riesce a pensare il limite insieme all’impulso a fare un passo oltre di esso. In una delle più famose metafore geografiche di Kant, quella dell’isola della verità, la necessità della navigazione (sia pure di quella non errabonda, herumschwärmende 9) ha lo stesso peso dell’istanza, se si vuol dire così, agrimensoria:

“Noi abbiamo fin qui non solo percorso il paese dell’intelletto puro esaminandone con cura ogni parte; ma lo abbiamo anche misurato, e abbiamo in esso assegnato a ciascuna cosa il suo posto. Ma questo paese è un’isola, chiusa dalla stessa natura entro confini immutabili. È il paese della verità (nome seducente), circondata da un vasto oceano tempestoso, la vera e propria sede della parvenza, dove qualche banco di nebbia e qualche ghiacciaio, pronto a liquefarsi, fingono nuovi paesi, e, incessantemente ingannando con vane speranze il navigante errabondo (herumschwärmende) in cerca di nuove scoperte, lo traggono in avventure, alle quali egli non sa mai sottrarsi, e delle quali non può mai venire a capo. Ma, prima di arrischiarci in questo mare, per indagarlo in tutta la sua distesa, e assicurarci se mai qualche cosa vi sia da sperare, sarà utile che prima diamo ancora uno sguardo alla carta del paese, che vogliamo abbandonare, e chiederci anzi tutto se non possiamo in ogni caso star contenti con ciò che esso contiene; o, anche, se non dobbiamo accontentarcene per necessità, nel caso che altrove non ci fosse assolutamente un terreno, sul quale poterci fabbricare una casa; e in secondo luogo, a qual titolo noi possediamo questo stesso paese, e come possiamo assicurarlo contro ogni pretesa nemica.” 10

Questo passo si trova proprio all’inizio del capitolo «Sul fondamento della distinzione di tutti gli oggetti in genere in phaenomena e noumena», che funge da vera e propria cerniera tra l’analitica e la dialettica trascendentale. Kant vuole mettere sotto gli occhi, come su una carta nautica, la regione dove l’intelletto ha un suo dominio (ditio) e quindi dov’è possibile la conoscenza (territorium), rispetto a quella in cui i concetti della facoltà conoscitiva fanno solo riferimento alla facoltà stessa e quindi possono solo avere un campo (Feld 11). In questo capitolo, Kant ha bisogno di distinguere tra uso empirico e significato trascendentale delle categorie 12 per permettere la navigazione nell’oceano della parvenza dialettica, cioè per esplorare il campo dei concetti dell’intelletto oltre il loro uso empirico: per esempio la categoria di causa-effetto come causalità libera nella terza antinomia della ragione pura. Prima di aprire questa indagine sulla parvenza dialettica, in cui la ragione dovrà disegnare da sé i limiti del proprio dominio legittimo (sia esso dei concetti della natura sia esso di quello della libertà), Kant propone una ricognizione del dominio in cui l’intelletto con i suoi principi è legislativo.

Kant e Bacon

Un confronto tra Kant e Bacon può aiutare a chiarire la natura di questa metafora geografica. 13  Anche in Bacon si può trovare un’articolazione della filosofia in una parte in cui si critica la parvenza e gli errori e una parte positiva in cui vengono stabilite le verità. La bella immagine dell’isola della verità, d’altronde, Kant la prende proprio da Bacon. 14  Infatti la causa dell’errore è dovuta anche per lui al fatto che l’insula veritatis è «circondata da un oceano immenso cui si aggiungono anche straordinari danni e dispersioni prodotte dai venti degli idoli (Immensum enim pelagus veritatis insulam circumluit; et supersunt adhuc novae ventorum idolorum injuriae et disjectiones)». 15 Anche per Bacon inoltre la peragratio è dannosa se non è guidata da quella scienza che è «ex naturae lumine petenda, non ex antiquitatis obscuritate repetenda». 16 Le conoscenze degli antichi sono repertori di errori e tradizioni che avrebbero potuto essere ancora più vari e numerosi se le circostanze politiche e la provvidenza non avessero impedito tali peregrinationes ingeniorum. Inoltre, se per Kant alla logica della verità come analitica trascendentale corrisponde la logica della parvenza trascendentale insita nelle stesse idee della ragione o dialettica trascendentale, per Bacon alla scientia ex lumine naturae con il suo organon fa da pendant il falso sapere, frutto degli idola, in particolare degli idola theatri, o idola scenae, effetto dell’accettazione cieca delle opinioni incontrollate che ci vengono dalla tradizione filosofica.

Il Temporis partus masculus è, sì, un’opera appena abbozzata in età relativamente giovanile in cui, almeno nella presentazione retorica, prevale lo spirito polemico e distruttivo. Anche in questo contesto, però, Bacon dichiara che per distruggere la falsa scienza bisogna comunque proporre una nuova scienza.17

Nell’opera più matura De dignitate et augmentis scientiarum (1623), Bacon è molto più moderato e scrive che è utile studiare le varie opinioni dei filosofi, che sono «veluti diversas Naturae glossas», 18 ma non rapsodicamente, debbono essere presentate come un tutto compiuto e continuo: «Philosophia integra seipsam sustentat, atque dogmata ejus sibi mutuo lumen et robur adjiciunt». Quando si traggono citazioni a caso o si estrapola da un contesto che non si conosce più, le singole affermazioni «portenta quaedam videntur et plane incredibilia». 19 Se si confronta questo passo con la chiusura della prefazione della seconda edizione della Critica della ragione pura, in cui si dice che chi padroneggia l’Idee im Ganzen di un’opera non si lascia fuorviare da apparenti contraddizioni che sorgono quando da un discorso continuo sono stati tolti singoli passi dal loro contesto, si dovrà ammettere che le somiglianze non sono solo linguistiche. 20 Kant può aver apprezzato in Bacon proprio questo metodo inteso in senso architettonico. Sempre nel De augmentis, Bacon sembra di nuovo anticipare il Kant del capitolo sull’Architettonica della Critica della ragione pura. Bacon scrive: «Methodus vero veluti scientiarum Architectura est». 21

Un tema fondamentale della Dottrina del metodo nella Critica della ragione pura è infatti proprio quello  dell’unità sistematica delle conoscenze sotto un’idea, ovvero sotto il concetto razionale «della forma di un tutto nella misura in cui mediante esso determina a priori sia la sfera [Umfang] del molteplice sia la posizione reciproca della parti». 22

Sia la singola scienza sia le scienze tutte debbono fare riferimento a questa possibile unità sistematica che ne fa un totum delimitato e organico.

Un elemento essenziale del progetto baconiano è quello di disegnare i confini delle scienze: già nel Temporis partus masculus Bacon vuole spingere il dominio dell’uomo sull’universo ad datos fines. 23 Questa nozione di sistematicità e di delimitazione delle scienze, sembra però in contrasto con l’altrettanto potente spinta al progresso delle conoscenze. Il motto di Bacon è, infatti, il colombiano «plus ultra» come efficacemente rappresentato nel frontespizio dell’Instauratio magna che mostra una nave che passa le colonne d’Ercole.

Spingere le conoscenze oltre i limiti dettati dalla tradizione ha, tuttavia, proprio lo scopo di stabilire limiti certi della scienza. Come si è visto nell’allegoria del viaggio oltre l’isola della verità, anche in Kant da un lato c’è la pulsione al viaggio avventuroso, dall’altro l’esigenza di disegnare i limiti della scienza. Perfino in alcuni aspetti metodologici il progetto di Bacon e quello di Kant coincidono. Per Bacon sono necessari all’impresa scientifica nuovi strumenti (per la navigazione mediterranea bastavano le stelle, per quella oceanica sarà necessario usum acus nauticae 24) e la collaborazione di molti (il motto del frontespizio è multi pertransibunt et augebitur scientia).

Kant sottoscrive l’esigenza baconiana della dimensione pubblica e collaborativa nella costruzione della scienza, come risulta dall’exergo nella seconda edizione della Critica della ragione pura tratto dalla prefazione alla Instauratio magna: «Chiediamo poi che gli uomini secondo il loro stesso interesse […] – prendendo consiglio in comune (in commune consulant) – […] partecipino all’opera». 25 La dimensione pubblica e storica della divisione del sapere è un tema centrale per Kant: gli scienziati e il governo politico debbono cooperare per costituire un’enciclopedia delle scienze (orbis scientiarum) in modo tale da organizzarle non solo in un tutto secondo principi oggettivi, ma anche organizzarle soggettivamente riguardo a coloro che le indagano e insegnano. Questa dimensione soggettiva delle scienze rimanda all’esigenza di organizzare in un corpo comune i docenti: un compito della ragione che deve indagare l’«Idee von einer Universität überhaupt» sulla base della quale debbono essere misurati statuti e piani delle università esistenti. 26 La dimensione pubblica della ragione è intrinsecamente storica, ma ciò non impedisce che abbia anche, laddove l’universale ragione umana è come una repubblica in cui «ognuno ha il suo voto»,27 una valenza trascendentale. In entrambi i casi, la dimensione repubblicana è essenziale all’impresa, solamente è diversa la qualità del sapere a cui si fa riferimento.

Dove si tratta dell’enciclopedia del sapere l’orizzonte è quello del singolo individuo che può e deve allargarlo, riassumere le conoscenze apprese da altri e renderle a sua volta disponibili, mentre dove è in gioco l’architettonica si tratta di un’istanza oggettiva che appartiene all’orizzonte degli uomini in generale. Naturalmente, in quanto entrambe queste due istanze fanno riferimento a una possibile unificazione e sistematicità delle conoscenze, esse debbono essere pensate come convergenti.28

Per Kant l’esigenza di un sapere organizzato sistematicamente, i cui limiti siano stabiliti non arbitrariamente, è essenziale per lo sviluppo delle scienze, come si vede fin nell’Opus postumum,29 ma è innanzitutto un compito filosofico che precede ogni scienza in quanto sua condizione. Per Bacon, invece, la filosofia non è nettamente separata dalla scienza, il suo progetto è enciclopedico e mira a una descriptio globi intellectualis (così si intitola un suo libro scritto nel 1612 e pubblicato nel 1653 30), ma non prevede una scienza specifica che determini l’orizzonte della stessa ragione.

Kant è consapevole della novità della scienza che propone: nei Prolegomeni dice esplicitamente che nessuno aveva mai avuto l’idea di questa scienza, quel che è stato pensato prima di essa non poteva essere utilizzato per costruirla: unica eccezione è rappresentata dalla indicazione che poteva essere data dal dubbio di Hume; neanche lui ebbe il presentimento di una tale possibile scienza formale, anzi trasse sulla spiaggia (dello scetticismo) la sua nave per metterla al sicuro, dove poteva stare e marcire; mentre a me importa fornirgli un pilota che, seguendo i principi sicuri dell’arte nautica derivati dalla conoscenza del globo, munito di una carta nautica completa e di un compasso, possa portare con sicurezza la nave dove gli paia giusto. 31

 

Kant e Hume

Le somiglianze anche strutturali tra Kant e Bacon sono certo significative per quanto riguarda la rappresentazione spaziale della sistematicità e del progresso delle conoscenze, ma, se si vuole esaminare nella sua massima generalità il ruolo della spazialità nella concezione della filosofia trascendentale, è il ruolo che ha avuto Hume a essere essenziale, e non solo perché è Kant a attribuirglielo. 32 Non è qui, in ogni caso, questione della maggiore o minore importanza di un autore, ma è rilevante, al di là della questione della filiazione di metafore spaziali,33 il diverso valore che queste metafore hanno a livelli diversi dell’architettonica kantiana: l’organizzazione soggettiva delle conoscenze (la carta nautica usata, ma anche aggiornata, dai navigatori), l’organizzazione oggettiva delle scienze (la carta nautica per come deve essere approntata) e, infine,  quello che si potrebbe chiamare il livello trascendentale, la stessa possibilità della carta nautica, le sue condizioni di possibilità.

Cassirer aveva scritto che, già nel periodo precritico, Kant era passato dalla determinazione del cosmo spaziale alla determinazione del cosmo intellettuale, «da geografo empirico Kant diviene “geografo della ragione” in quanto intraprende a misurare tutta l’ampiezza della sua facoltà secondo principi determinati».34 In realtà Kant non ha mai detto di se stesso di essere un geografo della ragione, ma di Hume che era uno di questi geografi della ragione, che credeva aver fatto abbastanza per sbarazzarsi di tutti quei problemi con il relegarli al di fuori dell’orizzonte della ragione, orizzonte che però non poteva determinare.35

Potrebbe sembrare che Kant usi questa caratterizzazione per evidenziare la disposizione solo empirica di Hume a descrivere la ragione umana senza riferimento ad alcun principio, appunto secondo una scienza come la geografia che è eminentemente empirica. Il contesto sembra suggerirlo, si tratta infatti del capitolo Dell’impossibilità di un appagamento scettico di una ragione pura che sia in dissidio con se stessa, in cui Kant distingue due tipi di ignoranza, quella accidentale che riguarda le cose e quella «della determinazione e dei limiti della mia conoscenza». Nel primo caso si è autorizzati a indagare dogmaticamente, mentre nel secondo si deve indagare criticamente.36 Se l’ignoranza è assolutamente necessaria (schlechthin nothwendig) ci si può astenere dalla ricerca, ma, in effetti, è esclusa solo l’indagine empirica in quanto sarebbe insensata, mentre quella critica è possibile «mediante l’indagine delle ragioni (Ergründung) delle prime fonti della nostra conoscenza». In questo caso posso sperare, procedendo con argomenti a priori, di determinare i limiti (Grenzen) del conoscibile. Quando, invece, si tratta di limitazioni (Einschränkungen) poste alla nostra ragione, la conoscenza della ignoranza può essere determinata solo a posteriori perché se pure si riesce a sapere qualcosa, sappiamo che ci resta ancora dell’altro da sapere e quindi essa rimane complessivamente indeterminata. Dei limiti, quindi, si può dare scienza, delle limitazioni no, solo percezione (Wahrnehmung).37

Per chiarire questo punto Kant espone la distinzione, già spaziale, della differenza tra Grenzen e Schranken (Einschränkungen) con un’immagine spaziale.38

Chi trovandosi sulla superficie terrestre se la rappresenta, secondo una percezione dei sensi, come un piatto, non sa quanto essa si estenda; procedendo nell’esplorazione conoscerà sempre porzioni di questa superficie, saprà di non averle prima conosciute, conoscerà, quindi, le limitazioni (Schranken) della geografia (Erdkunde) di questa superficie, ma, appunto, non i limiti (Grenzen) di ogni possibile descrizione della terra. Se, invece, si è arrivati a sapere (wissen) che la terra è una sfera, si può conoscere in modo determinato e secondo principi, anche da una piccola sua porzione, per esempio quella di un grado, il suo diametro e così anche la compiuta delimitazione della terra, cioè la sua superficie. Potrò essere ignorante riguardo agli oggetti che si trovano su questa superficie, ma non riguardo all’estensione che li contiene, alle sue delimitazioni e alla sua grandezza.39 Se quindi Hume è un «geografo della ragione» per il fatto di essersi sbarazzato dei problemi filosofici relegandoli «al di fuori dell’orizzonte della ragione», è però, pur sempre, un geografo empirico che in quanto tale non può determinare questo stesso orizzonte e quindi nessuna fondata indagine critica sulle fonti della conoscenza.40

Questa considerazione contrasta, però, con il passo già citato dei Prolegomeni in cui Kant sostiene che Hume è l’unico ad aver dato almeno un’indicazione sulla possibilità della filosofia critica come nuova scienza formale: il suo contributo a questa nuova scienza non può consistere solo nella censura empiristica del dogmatismo. Descrivere Hume come semplice geografo empirico-percettivo non dà conto in modo accurato della sua filosofia.

Già il fatto che sia Hume stesso a caratterizzare la sua indagine come mental geography suggerisce che Kant non faccia un uso polemico dell’idea di una geografia empirica della ragione, soprattutto se si considera che Hume introduce questa espressione proprio per dimostrare la necessità della filosofia:

And if we can go no farther than this mental geography, or delineation of the distinct parts and powers of the mind, it is at least a satisfaction to go so far; and the more obvious this science may appear (and it is by no means obvious) the more contemptible still must the ignorance of it be esteemed, in all pretenders to learning and philosophy.41

In questo contesto Hume non sostiene una tesi scettica, il tono è semmai quello di un dogmatico in quanto nutre la speranza (there is no reasonto despair) che questo tipo di ricerche possa permettere anche di «discover, at least in some degree, the secret springs and principles, by which the human mind is actuated in its operations»; 42 Hume pensa, infatti, che si possa passare dalla descrizione delle facoltà alla loro spiegazione come mental powers and oeconomy. Poco dopo Hume si spinge a dire che, poiché un’operazione e un principio della mente sono dipendenti da un’altra operazione e un altro principio, questa «may be resolved into one more general and universal». Non è dunque il mancato riferimento ai principi quel che Kant critica a Hume, ma il fatto che Hume non sappia determinare esattamente fin dove possano arrivare queste indagini. Hume stesso lo dice: «how far these researches may possibly be carried, it will be difficult for us, before, or even after, a careful trial, exactly to determine». Hume ha dunque avuto l’idea di un careful trial che preceda o segua queste indagini e quindi stabilisca la filosofia come un sapere che si sappia autodelimitare, ma ne ha dichiarato l’inutilità. L’idea di completezza della filosofia che si può trovare in Hume è quella dell’unione di concretezza a rigore dei saperi filosofici: «Happy, if we can unite the boundaries of the different species of philosophy, by reconciling profound enquiry with clearness, and truth with novelty!».43 Intenzione e auspicio questo che non va oltre l’enunciazione, appartenente anche al razionalismo, del connubium rationis et experientiae, o, baconianamente, inter mentem et naturam, e si colloca semmai come ideale regolativo della ragione, non come descrizione della stessa ragione, come vuole Kant. Sia lo scettico sia il dogmatico concepiscono la ragione come un piano in cui l’indagine prosegue indeterminatamente in quanto considerano le cose come cose in sé e «l’insieme di tutti gli oggetti possibili della nostra conoscenza » come una «totalità incondizionata».44 La differenza sta nel fatto che lo scettico ritiene che, negando la necessità di un concetto a priori, che sia al di fuori dell’orizzonte di conoscibilità o che appartenga alla linea di confine (Grenzlinie), si possa escludere la possibilità di qualsiasi concetto di quel tipo, mentre il dogmatico conserva la fiducia, perfezionandosi la conoscenza, di poter possedere concetti a priori. Sia quella non completamente provata sfiducia, sia questa eccessiva fiducia si contrappongono in un conflitto inconcludente. L’unico modo di porvi termine è un esame preliminare che la ragione riesce a fare di se stessa, disegnando, nello stesso tempo, i limiti dell’esperienza possibile:

La nostra ragione non è, per così dire, un piano di estensione indeterminabile, le cui limitazioni siano in genere conosciute solo in questo modo, deve piuttosto essere paragonata a una sfera [Sphäre] il cui raggio può essere determinato dalla curvatura di un arco della sua superficie (dalla natura delle proposizioni sintetiche a priori), in modo tale però che sia possibile da ciò stabilire con sicurezza volume e delimitazione di questa sfera.45

Anche se Hume non è citato esplicitamente, è chiaro dall’ inciso riguardante le proposizioni sintetiche a priori che il contributo determinante di Hume in questa geografia della ragione è quello di aver sollevato un dubbio sulla necessità del legame causale. È questo dubbio che, oltre a rappresentare una censura difficilmente eludibile di ogni dogmatismo rispetto all’uso trascendente di concetti a priori, impone di indagare la stessa ragione. La censura humiana colpisce, sì, il dogmatico che è messo in difficoltà dal non riuscire a ribattere sia pure a un solo dubbio scettico, ma il merito principale di Hume rispetto a Kant è quello di aver posto la domanda su come siano possibili i giudizi sintetici a priori. Il suo contributo a questa scienza del tutto nuova della critica della ragione pura non va, però, oltre questo, perché il geografo della ragione Hume proponeva solo la cartografia di un’ignoranza locale. Per passare dal metodo scettico a quello critico è necessario descrivere con completezza l’orizzonte della ragione, e cioè, appunto, l’«ignoranza riguardo a tutte le questioni possibili di una data specie».46

Secondo Kant, Hume è destinato inevitabilmente a confusioni, proprio perché non si pone il problema di «abbracciare con lo sguardo a priori e sistematicamente tutti i tipi di sintesi dell’intelletto»,47 e non può quindi porre Grenzen alla conoscenza, ma unicamente Schranken, che, certo, sono d’impaccio per il dogmatico, ma solo provvisoriamente. Per far tacere il dogmatico nelle sue pretese smisurate, bisogna potergli mostrare «l’ignoranza per noi inevitabile» 48 nella sua intera estensione.

Hume non si è impegnato in una rassegna di tutte le antitetiche, di tutte le sintesi della ragione in quanto sistema delle idee e quindi non ha potuto porsi criticamente la domanda sulla possibilità dei giudizi sintetici a priori. Negando la validità dei giudizi sintetici a priori «non ha infatti posto la distinzione tra le fondate pretese dell’intelletto e le presunzioni dialettiche della ragione».49 Questa distinzione l’ha però fatta Kant a partire proprio da Hume, cosicché quando nei Prolegomeni afferma che è stato Hume – con le sue obiezioni alla necessità del legame causale – a svegliarlo dal sonno dogmatico, e in un’altra parte della stessa opera dice che a svegliarlo sono state le antinomie,50 tra le due affermazioni non c’è vera contraddizione. La causalità e le antinomie hanno infatti un elemento in comune: in entrambi i casi sono in gioco giudizi e inferenze sintetiche a priori che costituiscono rispettivamente due sistemi completi, quello delle categorie e quello delle idee, che sono strettamente interdipendenti e insieme costituiscono la sfera della ragione.51 La conoscenza del limite è proprio la capacità di tracciare questa distinzione, cioè di descrivere, per quanto ciò possa essere paradossale,52 dall’interno dell’esperienza i limiti di quest’ultima, e di conseguenza dar conto del sapere che permette di disegnare dall’interno i limiti della ragione. Questo sapere è il sapere architettonico nella sua forma più universale. In una Reflexion risalente all’epoca di preparazione della Critica della ragione pura dedicata all’architettonica, dopo aver dato la classica definizione della ragione architettonica in quanto «critica tutte le conoscenze e progetta un canone», Kant ne coglie anche l’istanza trascendentale: la ragione architettonica è «la facoltà di descrivere la sua propria sfera».53 Si può chiudere questa nota sull’importanza del pensiero della spazialità nella costruzione del sistema critico citando una Reflexion che deve essere stata scritta quando il pensiero della Critica della ragione pura era in statu nascendi, e che proprio per questo potrebbe farne apprezzare il valore euristico:

Della metafisica come di un paese sconosciuto, di cui intendevamo appropriarci, abbiamo indagato attentamente per prima cosa la posizione e le vie di accesso. (Giace nella [regione] semisfera della pura ragione); abbiamo tracciato perfino il contorno di dove quest’isola della conoscenza è connessa mediante ponti con il paese dell’esperienza o dove essa ne è separata da un mare profondo; ne abbiamo perfino disegnato il contorno e ne conosciamo per così dire la geografia (icnografia); non sappiamo ancora cosa si possa trovare in questo paese, che da alcuni è ritenuto non abitabile da uomini, da altri è considerato la loro vera sede. Dopo la geografia universale di questo paese della ragione, vogliamo prendere in considerazione la storia universale della ragione.54

In questa allegoria sembra che la metafisica sia ancora un’isola vera e propria, non solo una parvenza di isola («banchi di nebbia e ghiacciai pronti a liquefarsi»), che, insomma, all’epoca in cui Kant scriveva essa aveva una dimensione geograficamente più concreta, v’erano, infatti, ancora accessi, ponti, e essa non era circondata solo da un mare profondo. L’unica cosa che non si sapeva era se fosse abitabile. Non è chiaro cosa rappresenti l’emisfero della ragione pura: forse è il mundus intelligibilis che, in parte, è occupato da idee della ragione e in parte da concetti dell’intelletto. In questo caso, l’altro emisfero sarebbe ancora – se è plausibile la datazione della Reflexion intorno al 1772, pochi anni dopo la dissertazione De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis del 1770 – il mundus sensibilis che certo è antipodale alla metafisica. In questo caso Kant potrebbe voler dire che l’emisfero della ragione pura è ancora non illuminato, come se la sfera di cui è parte fosse divisa a metà dall’orizzonte in una parte illuminata e in una oscura, il mondo fenomenico e quello noumenico. In questo caso riprenderebbe in qualche modo l’idea lockiana di delimitazione della ragione come di un orizzonte che «sets the bounds between the enlightened and dark parts of things, between what is and what is not comprehensible by us».55

L’elemento di novità in questa nota manoscritta è che, oltre alla spazialità – qui al servizio di un’allegoria della sistematicità della ragione (la rappresentazione delle connessioni tra regioni che insieme costituiscono un tutto organizzato) –, si considera la possibilità di rappresentare temporalmente la ragione. Forse Kant aveva già in mente una storia della ragione come sarà sviluppata nell’ultimo capitolo della Critica della ragione pura, dal titolo, appunto, di «Storia della ragione».56 L’importanza sistematica di questo capitolo è stata spesso ignorata forse anche per via della sua estrema brevità, ma la brevità è inversamente proporzionale alla sua importanza: «sta qui solo per indicare un posto rimasto vuoto nel sistema, e che dovrà essere riempito in futuro».57 Kant enuncia appena le tappe del processo del divenire adulta della ragione come il sorgere del metodo critico dall’opposizione di metodo scettico e metodo dogmatico, ma, ancora più originariamente, a partire dalla dialettica tra metodo naturalistico e metodo scientifico, tra sapere naturale della ragione comune e sapere sistematico in base a principi della ragione pura. Quest’ultima opposizione permette di stabilire un utile parallelismo tra il modello spaziale e il modello temporale della ragione in quanto il suo tema centrale è l’ignoranza. Nel caso della spazialità si è visto che è l’«ignoranza per noi inevitabile» che permette di disegnare estensione e figura della sfera della ragione (anche grazie al dubbio di Hume), mentre nel secondo caso l’ignoranza in gioco è quella della misologia, che non è tanto disprezzo della scienza, quanto dubbio rispetto al valore pratico della ragione intesa esclusivamente come scienza (Wissenschaft). La misologia in senso positivo non è disprezzo di quel che non si sa, ma insoddisfazione di fronte alle scienze che si ritengono autosufficienti, è saggezza (Weisheit), ovvero un’istanza critica che valuta ogni sapere rispetto agli scopi ultimi dell’umanità che non possono appartenere se non alla ragione pratica.

La storia della ragione come teleologia humanae rationis è costituita essenzialmente da questa tensione ineliminabile tra scienza (Wissenschaft) e saggezza (Weisheit). Il risultato critico è che l’unità della ragione teoretica e pratica può essere pensata solo storicamente.58

Da un punto di vista più generale e architettonico, ci si potrebbe domandare, in conclusione, quali prospettive ermeneutiche possa aprire  l’esame sistematico dell’istanza humiana insieme a quella rousseauviana. Il dubbio humiano e la misologia rousseauviana hanno in comune di essere filosofie dell’ignoranza,59 e, come si è visto, sono momenti essenziali dell’indagine della ragione, la prima di quella spaziale e la seconda di quella temporale.

Queste due modalità di autocomprensione della ragione non possono essere, però, né tenute insieme né separate in modo assoluto. La conseguenza di ciò è che non è la storicità a tenere aperto un sistema della ragione (se lo fa è quaestio facti), ma de iure è la tensione ineliminabile tra la sistematicità e la processualità della stessa ragione a tenere aperto ogni sistema della ragione.60

* L e opere di I. Kant pubblicate in vita sono citate da Werke in zehn Bänden, a cura di W. Weischedel, Darmstadt, 1981 (19561), con  ’indicazione dove possibile della paginazione originale.

‘A’ indica la prima e ‘B’ la seconda edizione. Le opere non pubblicate in vita e le trascrizioni di lezioni sono citate da Kant’s gesammelte Schriften, a cura della Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften (e successori), Berlin, 1900- (d’ora in avanti KGS). In numeri romani si

indica il volume, in numeri arabi la pagina; delle Reflexionen si indica anche il numero progressivo e tra parentesi la datazione, in forma semplificata, proposta dal curatore E. Adickes. Le modifiche apportate alle traduzioni dei testi citati non sono segnalate.

 

NOTE

1 I. Kant, Entwurf und Ankündigung eines Collegii der physischen Geographie (1757), KGS II, p. 3; cit. in W. Stark, Einleitung a Vorlesungen über physische Geographie, Berlin, 2009, KGS XXVI, 1, p. vi. Kant esclude per esempio la geografia matematica e quella storica dalle sue lezioni (cfr. W. Stark, Einleitung cit., p. vi), mentre include considerazioni che oggi diremmo etnografiche, almeno fino a quando, nel 1772, non inizierà a tenere le lezioni di antropologia.

2 Per avere un quadro completo e preciso dei viaggi di Kant, cfr. W. Stark, http://web.unimarburg.de/kant//webseitn/bio_reis.htm#Wohnsdorf.

3 R iguardo a quest’ultimo punto vedi la bibliografia raccolta da Werner Stark alla fine del primo tomo dedicato alle Vorlesungen über physische Geographie cit., KGS XXVI, 1, pp. 321-363. Riguardo alle testimonianze biografiche, oltre ai vari aneddoti su conversazioni con stranieri nelle quali Kant dimostra una conoscenza di luoghi in cui non è mai stato superiore a quella di chi vi ha abitato per anni, si può ricordare quel che racconta Wasianski, dell’intenso desiderio di viaggiare che Kant ha avuto nell’ultimo anno della sua vita. In inverno, attendendo l’estate per poter realizzare questo suo desiderio, Kant pensava dapprima a «gite, poi a viaggi nel paese e infine a lunghi viaggi». E. A. Ch. Wasianski, Immanuel Kant in seinen letzten Lebensjahren, Königsberg, 1804, in Immanuel Kant. Sein Leben in Darstellungen von Zeitgenossen, a cura di F. Gross, Darmstadt, 1993, p. 238. Arrivata l’estate non smetteva di pensare a quei «lunghi viaggi progettati nel paese e all’estero», p. 242. Il suo medico e biografo Wasianski, per evitare strapazi al vecchio e malato Kant, propose allora una gita nella casa di campagna dove Kant era già stato in passato: «Bene, basta che il viaggio sia lungo», fu la risposta, p. 243. Naturalmente le condizioni di salute e l’assoluta mancanza di abitudine al viaggiare resero breve e faticoso il viaggio, ma, anche dopo l’esperienza penosa, Kant continuò a parlare «con entusiasmo rinnovato di viaggi, lunghi viaggi, viaggi all’estero», ibid.

4 Kant non si è interessato solo alla geografia fisica, che ha insegnato così a lungo, ma, naturalmente, anche alla geografia astronomica. Basta pensare ai due saggi sulle variazioni del moto rotatorio della terra e sull’invecchiamento della terra (entrambi del 1754), oppure alla sua Teoria del cielo (1755). Naturalmente, anche in questo caso, sono molte e importanti le metafore spaziali a partire dall’astronomia che sono disseminate nei suoi scritti. Solo a titolo d’esempio, Kant usa l’immagine dell’errore di parallasse (lo spostamento dell’oggetto rispetto allo sfondo se considerato da punti di vista diversi) per illustrare l’errore connaturato all’universale intelletto umano, in quanto, per essere esaminato, deve potersi valutare sia «dal punto di vista del mio intelletto » sia «dal punto di vista di una ragione estranea e esterna». Sogni di un visionario, A 74; trad. it. in Scritti precritici, a cura di P. Carabellese, successive aggiunte e correzioni di R. Assunto, R. Hohenemser e A. Pupi, Roma-Bari, 19823, pp. 380-381. Questa teoria dell’errore anche in KGS XVIII, pp. 79-80; Refl. 5073 (1777). È chiaro che la metafora più nota e studiata è quella per cui la filosofia critica opera una «rivoluzione copernicana», KrV B XVI; trad. it., p. 24. Ancora, ma in ambito di filosofia delle storia: per giudicare del progresso dell’umanità si deve tenere conto del fatto che la direzione dell’umanità può sembrare come il moto apparente dei pianeti, ovvero retrogrado (epiciclo), se non la si considera dal punto di vista del sole, ovvero, fuori dalla metafora, dal punto di vista della ragione. Cfr. Il conflitto delle facoltà, A 140; trad. it. in Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Roma-Bari, 1995, p. 227.

5 KGS XVIII, pp. 79-80; Refl. 5073 (1777).

6 De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis A 28; trad. it. in Scritti precritici cit., p. 450.

7 Cfr. Critica della ragione pura (d’ora in avanti KrV) A 395-396; trad. it. a cura di G. Colli, Milano, 1976 (Torino 19571), pp. 457-458.

8 Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, § 59, A 182; trad. it. di P. Carabellese, rev. e intr. di H. Hohenegger, Roma-Bari, 1996, p. 247.

9 Non si perda, nella scelta della parola, il riferimento allusivo allo sciamare disordinato (schwärmen) dei fanatici (Schwärmer). In questa parola risuona notoriamente il disordinato sciamare delle api, il vagabondaggio senza meta dei ragazzi o dei soldati senza patria, e, con coloritura religiosa, di chi abbandona rumorosamente l’ortodossia e segue una setta: «fanaticum esse, in globo errantium hominum esse, segreges coetus instituere». J. Grimm e W. Grimm, Deutsches Wörterbuch,33 voll., München, 1984, s.v. «Schwärmen». La citazione in latino è dal dizionario tedesco-latino: J. L. Frisch, Teutsch-lateinisches Wörter-Buch, Berlin, 1741, II, p. 243a.

10 KrV B 294-295/A 236-237; trad. it., p. 311.

11 Questa terminologia giuridico-geografica è tratta dalla Critica della facoltà di giudizio, § II,

B XVI-XVII, trad. it. di E. Garroni e H. Hohenegger, Torino, 1999, p. 10.

12 Cfr. KrV B 305/A 248; trad. it., p. 321.

13 L’utilità di un confronto tra Bacon e Kant era già stata sostenuta da Salomon Maimon, uno dei più acuti interpreti di Kant tra i suoi contemporanei. Proprio per il fatto che essi «sono per un verso assai simili e per l’altro così diversi, credo che il loro essere messi a confronto permetta di gettare su entrambi una nuova luce» (S. Maimon, Baco und Kant, in «Berlinisches Journal für Aufklärung» 1790 VII/2, http://www.ub.uni-bielefeld.de/diglib/aufkl/berlaufk/berlaufk.htm. Cfr. anche l’edizione in S. Maimon, Gesammelte Werke, a cura di V. Verra, vol. II, Hildesheim, 1965, pp. 499-522, p. 102). In comune hanno l’essersi proposti «una compiuta [völligen] riforma della filosofia (e di conseguenza di tutte le scienze nella misura in cui esse traggono i loro principi dalla filosofia)», ivi, p. 103. Mentre Kant, però, si sarebbe concentrato sul «provare la possibilità dell’applicazione delle forme logiche agli oggetti reali della natura, in quanto quelle sono date a priori e questi a posteriori», Bacon, non prendendo in considerazione questo problema, si sarebbe preoccupato di trovare «il vero metodo di questo uso [delle forme logiche applicate agli oggetti] in casi particolari», ivi, p. 104. È notevole che Maimon scelga di chiarire il punto prendendo come esempio il concetto di causa: Bacon, secondo lui, «non si preoccup di spiegare come siamo arrivati al concetto di causa, a priori o a posteriori (come vuole che sia D. Hume), né della spiegazione della possibilità dell’uso di questo concetto, che se è a priori lo è di oggetti a posteriori; a lui basta che il factum sia al di là del dubbio, che cioè noi lo usiamo», ivi, pp. 104-105. Anche se Bacon ha di mira un sistema delle scienze, secondo Maimon, se non si pone il problema critico del rapporto tra forme del pensiero a priori e oggetti a posteriori, non riuscirà con l’induzione ad attingere a un sistema come quello kantiano in cui «forme e principi possono essere completi (vollzählig)», ma potrà solo approssimarsi regolativamente ad esso come a un’idea (p. 119). Naturalmente Maimon dice anche dei vantaggi di questo empirismo baconiano, e del possibile superamento di questa opposizione in un leibnizismo perfezionato che è poi la proposta della sua filosofia.

14 Neanche Hans Vaihinger nota questa possibile fonte di Kant e, per la metafora dell’oceano, rimanda sì a Bacon, ma a un altro pur importantissimo passo del De dignitate et augmentis scientiarum, lib. IX, § 1 (Cfr. H. Vaihinger, Commentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft, 2 voll. [Stuttgart, 1881-1892 ed. orig.], a cura di R. Schmidt, Stuttgart, 1922, p. 40), nel quale Bacon, dopo aver detto che fino a quel punto si è trattato di navigare lungo la costa del vecchio e del nuovo mondo delle scienze (orbis scientiarum), si deve abbandonare la navicula rationis humanae per passare all’ecclesiae navis, cioè dalla scienza alla teologia, per affrontare i temi della re ligione. È anche interessante che questo libro si chiuda con la dichiarazione di aver per quanto possibile esaurito, completato con le parti mancanti, il piccolo continente (mondo) dell’orbe intellettuale (globum exiguum Orbis Intellectualis); resterà ai posteri il compito non solo di giudicare questo suo lavoro, ma anche di accrescerlo ulteriormente. F. Bacon, De dignitate et augmentis scientiarum, in The Works of Francis Bacon, 14 voll., a cura di J. Spedding, R. L. Ellis, D. D. Heath, London, 1857-1874, rist. anast., Stuttgart, 1989, vol. I, pp. 836-837; trad. it. in Opere, a cura di E. De Mas, 2 voll., Bari, 1965, vol. II, pp. 518-519. D’altronde non si trova un riferimento a questa plausibile fonte di Kant neanche nel recente libro, pur ambizioso e ricco di spunti, di Shi-Hyong Kim, Bacon und Kant. Ein erkenntnistheoretischer Vergleich zwischen dem ‘Novum Organum’ und der ‘Kritik der reinen Vernunft’, Kantstudien Ergänzungshefte, Berlin-New York, 2008. Certo, la metafora è davvero diffusa e quando se ne indaga la Quellengeschichte, la prova di una derivazione è sempre assai difficile, perché chi la usa, più essa è diffusa, più non sente il bisogno di citare la propria fonte. Come esempio si può considerare, un autore ben presente a Kant, Johann Nicolas Tetens, il quale cita da una poesia in cui un saggio in cerca della verità «lontano da concetti terreni / osa veleggiare sul vasto oceano della divinità» («von irdischen Begriffen / im weiten Ocean der Gottheit wagt zu schiffen»; A. von Haller, Gedanken über Vernunft, Aberglauben und Unglauben, 1729). Sulle fonti possibili di questo verso (famoso, tanto che Tetens non ne cita l’autore) già varrebbe la pena indagare (Comenius, Locke, Leibniz?). A partire da questa suggestione, Tetens stabilisce un’analogia tra come procede l’intelletto nella scienza e la navigazione, e anche in questo caso non cita alcun autore (è Bacon?). Come il navigante si tiene alla costa, così il filosofo si tiene all’esperienza, ma «la metafisica è un viaggio intorno al mondo, sull’oceano, dove solo di quando in  quando si incontrano isole e sponde in alcuni principi universali dell’esperienza, da cui si può apprendere quale sia la direzione che si è presa. Le passioni sono le tempeste, i pregiudizi gli scogli che respingono o fanno naufragare la ragione». J. N. Tetens, Über die allgemeine speculativistische Philosophie (Bützow e Wismar, 1775), stampato insieme al primo vol. dei Philosophische Versuche über die menschliche Natur und ihre Entwicklung (1777), a cura di W. Uebele, Berlin, 1913, vol. I, p. 15 (ed. orig. p. 20). La natura assai produttiva della metafora fa sì che non sia impossibile collegare la circolarità del sapere sia con la sfera sia con l’oceano. Bacon vede nella sapienza di Salomone (1Re 4:29-34), vasta come la sabbia che circonda universas orbis oras, la sapienza che abbraccia ogni sapere umano e divino. De dignitate et augmentis scientiarum cit., vol. I, p. 750; trad. it., vol. II, pp. 418-419.

15 F. Bacon, Temporis partus masculus, in The Works of Francis Bacon cit., vol. III, p. 536.

16 F. Bacon, Temporis partus masculus, cit, p. 535.

17 F. Bacon, Temporis partus masculus cit., vol. III, p. 539; trad. it. p. 52.

18 F. Bacon, De dignitate et augmentis scientiarum cit., III, 4; vol. I, p. 563; trad. it., vol. II, p. 175.

19 F. Bacon, De augmentis scientiarum cit., p. 564; trad. it., pp. 175-176.

20 Cfr. KrV B XLIV; trad. it., p. 43: «Auch scheinbare Widersprüche lassen sich, wenn man einzelne Stellen, aus ihrem Zusammenhange gerissen, gegen einander vergleicht, in jeder, vornehmlich als freie Rede fortgehenden, Schrift ausklauben, die in den Augen dessen, der sich auf fremde Beurteilung verlässt, ein nachteiliges Licht auf diese werfen, demjenigen aber, der sich der Idee im Ganzen bemächtigt hat, sehr leicht aufzulösen sind».

21 F. Bacon, De augmentis scientiarum cit., VI, 2, vol. I, p. 668; trad. it., vol. II, p. 305.

22 KrV B 860/A 832; trad. it., p. 806.

23 F. Bacon, Temporis partus masculus cit., vol. III, p. 528, p. 38.

24 Praefatio generalis, Instauratio magna, in The Works of Francis Bacon cit., vol. I, p. 130; trad. it., vol. I, p. 225.

25 KrV B II. F. Bacon, Instauratio magna cit. p. 132.

26 KGS XXIII, Vorarbeiten zum Streit der Fakultäten, p. 430. Per la questione della divisione del lavoro e quindi della dimensione pubblica e storica dell’architettonica delle scienze rimando alle citazioni che si trovano in H. Hohenegger, Kant, filosofo dell’architettonica. Saggio sulla «Critica della facoltà di giudizio», Macerata, 2004, pp. 37-64.

27 KrV B 780/A 752; trad. it., p. 745.

28 Sulla questione del rapporto tra enciclopedia e architettonica cfr. M. Capozzi, Kant e la logica, Napoli, 2002, pp. 413-418. In generale sulla nozione di orizzonte e in particolare sull’importanza di Georg F. Meier per l’elaborazione kantiana di questa nozione, cfr. R. Pozzo, Prejudices and Horizons: G. F. Meier’s Vernunftlehre and its Relation to Kant, «Journal of the History of Philosophy», 43, n. 2, 2005, pp. 185-202. Per un rapido elenco della pluralità degli orizzonti, dall’universale orizzonte dell’intelletto umano in genere, a quello, pratico, pragmatico, estetico, del sesso, del censo, dell’età, oppure riguardo alle regole per determinare il proprio orizzonte, cfr. Logik Busolt, KGS XXIV, pp. 623-625. La determinazione dell’orizzonte e la divisione del lavoro è chiaramente in rapporto alla «Encyclopaedia vniversalis. Vniversalcharte (g Mappemonde delle scienze)». KGS XVI, Refl. 1998 (1780-89), p. 189.

29 Riguardo alle scienze, la filosofia deve «fin dove è possibile, misurare, tenendosi all’interno dei limiti di ciò che è conoscibile a priori, il campo di questo conoscibile e rappresentarlo in un cerchio (orbis) che sia semplice e unito, cioè in un sistema non escogitato arbitrariamente, ma prescritto dalla ragione pura, la qual cosa non potrebbe accadere con la raccolta di elementi empirici della conoscenza, in quanto, messi insieme frammentariamente, non farebbero sperare in nessuna convinzione di completezza». KGS XXI, p. 524. Ricorre spesso nell’Opus postumum l’espressione orbis scientiae con funzione schematica, di mediazione tra sapere filosofic e empirico, ovvero l’esigenza di completezza, sempre rappresentata dalla tavola delle categorie.

30 F. Bacon, Descriptio globi intellectualis, in The Works of Francis Bacon cit., vol. IV, pp.

31 Prolegomeni A 17; trad. it. p. 17.

32 Al posto di una rassegna dei numerosi passi in cui Kant si richiama a Hume si può citare,  per la sua efficace brevità, l’affermazione che si trova nella trascrizione di una lezione di metafisica: c’è «in David Hume», afferma Kant, «qualcosa di simile alla Critica della ragione pura». Metaphysik Mrongovius (1782-1783), KGS XXIX, p. 781.

33 Un’indagine sulle metafore geografiche sarebbe assai desiderabile, e almeno per l’ambito della filosofia inglese, dovrebbe valutare anche l’importanza di Locke nel suo ruolo di mediazione tra Bacon e Hume. Un testo da prendere in considerazione sarebbe sicuramente quello, già citato da Vaihinger come possibile fonte kantiana (Commentar cit., p. 40), ovvero il capitolo introduttivo del Saggio sull’intelletto umano in cui Locke considera la necessità di un «survey of our own understandings», senza «let loose our thoughts into the vast ocean of being» o «letting their thoughts wander into those depths where they can find no sure footing». Il risultato di questo vagabondare non può essere che il perfect skepticism: «Whereas were the capacities of our understanding well considered, the extent of our knowledge once discovered, and the horizon found, which sets the boundary between the enlightened and the dark parts of things; between what is and what is not comprehensible by us, men would perhaps with less scruple acquiesce in the avow’d ignorance of the one; and employ their thoughts and discourse, with more advantage and satisfaction in the other». J. Locke, An Essay Concerning Human Understanding, I, 1, § 7; The Works of John Locke, 10 voll., London, 1823, I, pp. 5-6.

34 E. Cassirer, Kants Leben und Lehre, Berlin, 1921, p. 44; Vita e dottrina di Kant, trad. it. a cura di G. A. De Toni, Firenze, 1977, p. 52.

35 KrV B 788/A 760; trad. it., p. 750.

36 KrV B 786/A 758; trad. it., p. 749.

37 KrV B 787/A 759; trad. it., p. 750.

38 Coglie un’importante caratteristica della spazialità filosofica l’ osservazione di Giorgio Stabile riguardo al fatto che esiste una differenza tra le filosofie che possono essere rappresentate figuratamente come un puzzle, che si costruisce sempre a cominciare dai suoi limiti, cioè, anticipando la totalità, e il caso opposto, quello del meccano o del lego, in cui si procede come su un piano infinito in cui non c’è differenza tra porre i limiti e costruire. G. Stabile, La categoria dell’ubi e le sue implicazioni per il concetto di spazio nell’antichità, in Aa.Vv., Metafisica, Logica, Filosofia della natura. I termini delle categorie aristoteliche dal mondo antico all’età moderna, Atti del seminario dell’ILIESI, Roma gennaio-maggio 2003, a cura di E. Canone, La Spezia, 2004, pp. 1-11, pp. 4-5. Cfr. H. Hohenegger, Kant filosofo dell’architettonica cit., p. 92.

39 KrV B 788/A 760; trad. it., p. 750.

40 KrV B 788/A 760; trad. it., p. 750.

41 D. Hume, An Enquiry Concerning Human Understanding 1.13 (1748), in Essays Moral, Political, and Literary, a cura di T. H. Green e T. H. Grose, 2 voll., London, 1889, vol. II, p. 10; Ricerche sull’intelletto e sui principi della morale, trad. it. a cura di M. Dal Pra, Roma-Bari, 1978, p. 13.

42 D. Hume, An Enquiry cit., p. 11; trad. it., p. 15.

43 D. Hume, An Enquiry cit., pp. 12-13; trad. it., p. 18.

44 Cfr. KrV B 788/A 760; trad. it., p. 750.

45 KrV B 790/A 762; trad. it. 752.

46 KrV B 789/A 761; trad. it., p. 752, c.vo mio.

47 KrV B 795/A 767; trad. it. 756, c.vo mio.

48 KrV B 795/A 767; trad. it. 756.

49 KrV B 791/A 761; trad. it., p. 757.

50 Prolegomeni A 12; trad. it., p. 13 e § 50, A 142; trad. it., p. 193.

51 N el De dignitate et augmentis scientiarum Bacon fa un’interessante apologia di Platone: «in sua de Ideis doctrina Formas esse verum scientiae objectum», De augmentis, vol. I, p. 565; trad. it., p. 177. Il modello della conoscenza è la grammatica (Filebo 18 B-D) che impedisce la confusione dell’infinità della compositione et transpositione literarum. Per Bacon è necessario, come per Platone, cercare gli elementi che per essere non molti possono stare alla base delle «Essentias et Formas omnium substantiarum» ivi, p. 566; trad. it., p. 178. Questa esigenza di una collezione completa di elementi che forniscano le regole per l’unificazione intelligibile del sapere ricorda il kantiano Buchstabieren secondo il sistema completo delle categorie e poi sotto la funzione unificante delle idee. Si potrebbe pensare che questa istanza di completezza delle regole corrisponda all’esigenza di una sfera della ragione, ma può essere al servizio di metafisiche assai diverse, e in effetti potrebbe essere alla base anche della characteristica universalis di Leibniz.

52 «Se voglio capire qualcosa della natura, allora con la mia spiegazione non debbo uscire dalla natura. Se voglio capire la natura nel suo complesso allora debbo essere al di fuori dei suoi limiti [Grenzen]». KGS XVII, p. 375; Refl. 3980 (1769). Oppure, più in generale: «Cerco in un intelletto, che ha bisogno di regole, la conoscenza di queste stesse regole: questo è paradossale». KGS XVI, p. 28; Refl. 1592 (1764-1777).

53 KGS XV, p. 186; Refl. 451 (1772-1778).

54 KGS XVII, p. 559; R 4458 (1772). «Wir haben von der metaphysik als von einem unbekannten Lande, auf dessen Besitz wir bedacht sind, zuerst die (g Lage und) Zugänge fleißig Untersucht. (Es liegt in der (g Gegend) Halbkugel der reinen Vernunft😉 wir haben so gar den Umris davon gezogen, wo diese Insel der [Erkennt] von Erkenntnis [an das] mit dem Lande der Erfahrung durch Brücken zusammenhangt, oder wo sie durch ein tiefes Meer davon abgesondert ist; wir haben so gar den Umris davon gezeichnet und kennen gleichsam die geographie (g ichnographie) desselben, wissen aber noch nicht, was in diesem Lande, welches einige vor unbewohnbar vor menschen gehalten, andre als ihre wirkliche Niederlassung angesehen haben, angetroffen werden möge. Nach dieser allgemeinen Geographie dieses Vernunftlandes wollen wir die allgemeine Geschichte desselben in Erwegung ziehen».

55 Cfr. la citazione data per esteso supra nota n. 35. J. Locke, An Essay Concerning Human Understanding, I, 1, § 7; The Works cit., vol. I, p. 6.

56 KrV B 880-884/A 852-856; trad. it., pp. 821-824.

57 KrV B 880/A 853; trad. it., p. 821.

58 La famosa dichiarazione del debito di Kant verso Rousseau non serve solo a stabilire temporalmente quando Kant ha scoperto cosa voglia dire per lui essere filosofo, ma anche il valore del ruolo architettonico della ragione pratica, che ha la dimensione essenzialmente storica di una scoperta che l’umanità deve fare: «Io stesso sono per inclinazione un indagatore. Sento tutta la sete di conoscenza e l’avida inquietudine di progredire in essa, ma anche l’appagamento per ogni conquista. C’era un tempo in cui credevo che ciò potesse da solo costituire l’onore dell’umanità e disprezzavo il volgo che nulla sa. Rousseau mi ha messo a posto. Questo primato abbagliante scompare, imparo a onorare gli uomini e mi riterrei più inutile di un comune lavoratore se non credessi che questa considerazione possa dare a tutte le altre un valore, e realizzare i diritti dell’umanità». KGS XX, p. 44; trad it. in Bemerkungen. Note per un diario filosofico, a cura di K. Tenenbaum,Roma, 2001, p. 85. Per l’importanza architettonica della misologia roussoviana, pari solo a quella del dubbio humiano, cfr. H. Hohenegger, Kant filosofo dell’architettonica cit., p. 39 ss.

59 «La filosofia dell’ignoranza è molto utile, ma anche difficile perché deve andare fino alle fonti della conoscenza». KGS XVIII, p. 36; Refl. 4940 (1778).

60 Si comprenderà, a questo punto, che le metafore spaziali e temporali sono state qui prese in considerazione in quanto non sono pure metafore. Infatti, l’istanza sistematica (coerenza, compiutezza e interdipendenza delle parti) che è espressa sia dal mappamondo delle scienze sia dalla sfera della ragione sembra essere legata alla spazialità in modo non accidentale. Mentre l’istanza della progresso nelle conoscenze e la storicità della stessa ragione fanno riferimento alla processualità e contingenza temporale, di ciò che ha inizio e fine. Rimando alla nozione esplicitata nella voce Spazialità che Emilio Garroni ha scritto per l’Enciclopedia Einaudi (Enciclopedia, 14 voll.,Torino, 1977-1981, vol. XIII, Torino, 1981, pp. 244-272), ripresa poi nel saggio Comprendere e narrare, in E. Garroni, L’arte e l’altro dall’arte, Roma-Bari, 2003. In quest’ultimo saggio spazialità e temporalità sono opposte come condizioni formali del linguaggio, una del comprendere e l’altra del narrare. Questa distinzione non serve a classificare i testi in filosofici (o critici) e narrativi, ma a cogliere le condizioni formali sia della comprensione dell’unità di senso di un testo (e dell’esperienza correlata) sia della temporalità che, pur non essendo già contraddizione, contiene però la possibilità del non senso (non essere già da sempre, poter non essere); ovvero contiene il dover essere del senso che, in Kant, contraddistingue l’elemento noumenico, anche del sistema filosofico, come o orizzonte di senso o Aufgabe.

 

 

Lorenzo Scillitani

Spazio geografico e antropologia filosofico-sociale.
Riflessioni a partire da Kant

  1. La Geografia di Kant

Immanuel Kant è noto per essere stato un grande filosofo. È meno noto per essere stato uno studioso, e un docente, di geografia, all’ insegnamento della quale Kant dedicò un numero di corsi (49) maggiore di quelli dedicati all’etica (46), all’antropologia (28), alla fisica teorica (24), alla matematica (20), al diritto (16), e minore soltanto rispetto a quelli dedicati alla logica e alla metafisica (54). Dal 1756 al 1796 il pensatore di Königsberg «perse il suo tempo» (come si poté leggere nella pagina culturale di uno dei principali quotidiani italiani di qualche anno fa, che registrava con malcelato disappunto l’iniziativa editoriale di tradurre la Geografia fisica kantiana in francese)1 a insegnare una disciplina che, nelle sue dichiarate intenzioni, doveva costituire una propedeutica alla conoscenza del mondo2. Risale al 1811 l’unica traduzione italiana delle lezioni che furono raccolte dagli allievi di Kant in circa 40 anni. Oltre due secoli più tardi, è stata riproposta, in una nuova versione, sollecitata dall’edizione francese del 1999, e verificata sulla base del testo originale dell’edizione critica del 19683, l’Introduzione alla Geografia, redatta nel 1776, e autorizzata dallo stesso Kant nel 1802 (a cura di Rink)4. L’interesse a sottoporla nuovamente all’attenzione del lettore italiano è stato motivato non tanto da una mera curiosità storico-filologica quanto dall’attualità di una urgenza scientifico-culturale e insieme formativa, che merita di trovare appropriati canali e modalità di espressione. Si tratta infatti di riscoprire la portata innovativa della lettura kantiana della geografia, a livello sia speculativo sia didattico.

A livello conoscitivo, il contributo della geografia nell’istruire la ragione è dettato dalla sua capacità di attingere dall’esperienza gli elementi che formano le fonti della conoscenza del mondo, come Kant ha cura di rilevare proprio nella sua Introduzione, di carattere propedeutico piuttosto che enciclopedico. Questa attitudine, che la geografia condivide con l’antropologia5, impegnata a elaborare la conoscenza degli uomini, alimenta per Kant la vera filosofia, la quale «consiste nel seguire la diversità e la varietà di una cosa attraverso tutte le epoche» 6. Diversità e varietà sono le caratteristiche di prima evidenza, e di prima approssimazione, che la moderna antropologia culturale coglie nei fenomeni dei quali si occupa. Il Kant professore di geografia, e geo-filosofo7 ante litteram, ritiene di poter individuare nella geografia (intesa nella sua valenza descrittiva e rappresentativa di luoghi, terre e mari, e dei loro confini, proiettati in uno scritto) un fattore decisivo di identificazione di elementi conoscitivi che si mostrano già carichi di significati filosofici.

A livello pedagogico, Kant si fa consapevole promotore, oltre che originale interprete, di una disciplina destinata ad attivare negli allievi l’interesse a formarsi una idea di prima approssimazione di che cos’è e di come è fatto realmente il mondo nel quale vivono: a titolo fortemente esemplificativo, la lettura dei giornali implica, secondo Kant, una nozione estesa della superficie terrestre, alla quale soltanto la geografia può dare forma e rilievo specifici. La globalizzazione, prefigurata dal pensatore tedesco nei termini di un cosmopolitismo8 al quale l’umanità tenderebbe per il semplice fatto di abitare un pianeta di forma sferica che avvicina gli uomini tra di loro, è un fenomeno che presuppone l’acquisizione di dimensioni eminentemente geografiche dello spazio9, e come tale si connota intensamente per i suoi aspetti geo-politici e geo-economici. In tal senso, quando Kant riconosce che è la geografia a fondare la storia, «poiché gli avvenimenti debbono pure rapportarsi a qualcosa»10, evoca il potenziale esplicativo, e insieme educativo, di un primato – o comunque di una specificità – della geografia, in quanto scienza a un tempo fisica, matematica, morale (declinata in un linguaggio dell’epoca che recepiva l’istanza di una sorta di geografia dei costumi, oggi declinabile magari in antropologia geografica11, o in geografia culturale), politica, economica, letteraria, religiosa: ovvero scienza della natura e al contempo, in senso prettamente umanistico, scienza della cultura, della società, del diritto. Occidente, Oriente, Nord, Sud, Europa, prima di essere categorie politico-culturali storicamente determinate, corrispondono a espressioni specificamente geografiche, legate a coordinate e a conformazioni ambientali che in quanto tali vanno studiate e pensate, nel presupposto che lo stesso pensiero, filosofico e scientifico, è portatore di una esigenza di orientamento che lo stesso Kant ha avuto cura di evidenziare12.

Orientarsi nell’estensione, e nella profondità, geospaziale del paesaggio umano è il compito che l’Introduzione alla geografia di Kant si è assunto, e che vale la pena riprendere, nella prospettiva di una più articolata rivitalizzazione, come di una più efficace ricollocazione, di una disciplina ingiustamente negletta, che oggi più che mai si impone come necessaria e imprescindibile, e quindi in tutti i sensi utile, per un sapere umanistico e scientifico integrato nei suoi molteplici aspetti epistemologici e metodologici. 224

  1. Fattori geografici e dimensioni storiche di una antropologia giuridico-politica filosoficamente orientata

Dalla ripresa del Kant speculativamente (a torto) considerato “minore”, ma a pieno titolo (almeno pedagogicamente) “maggiore”, delle lezioni sulla geografia si può essere autorizzati a trarre alcune deduzioni, relativamente all’elaborazione delle linee di una antropologia sociale filosoficamente impostata, e orientata in senso giuridico e politico.

Ogni pensiero filosofico, in quanto storicamente e culturalmente determinato, è anzitutto geograficamente collocato: geo- linguisticamente localizzato, dimensionato e condizionato. Il pensiero greco, ad esempio, veicolato dalla lingua greca, corrisponde a una latitudine prossima al pensiero degli statisti e giuristi romani (per riprendere una sintetica definizione di Jaspers), veicolato dalla lingua latina, ma ne resta, in via più o meno accentuata, distinto. Esso resta greco anche quando, a tratti, riappaia in pensatori che greci in senso anagrafico non sono, come per esempio Heidegger. Analoga impronta non sembra, a livello filosofico, essere ravvisabile in autori cronogeograficamente riconducibili all’ epoca in cui Roma ha dettato la sua legge al mondo euro-mediterraneo. Di nessun pensatore si dice che sia espressione di un modo filosoficamente latino di pensare13. Il pensiero canonizzato come occidentale è, a sua volta, per definizione ambientato in un contesto  che lo qualifica in base ad una determinazione geografica, quali sono i punti cardinali. Ma altrettale discorso può farsi per il pensiero europeo in generale 14?

L’incertezza nell’individuare fonti geografiche del filosofare, come nel caso della Magna Graecia, geograficamente situata nell’Italia meridionale costiera, potrebbe peraltro far propendere – come in effetti è troppo spesso accaduto – per un sottodimensionamento dell’elemento geografico, anticamera di una sua sottovalutazione. Ma la problematicità legata all’enucleazione delle coordinate geografiche del formarsi di una civiltà, anche in senso filosofico, lungi dall’essere di ostacolo all’approfondimento del tema in discussione, potrebbe rivelarsi una insospettata risorsa. Si è dovuto aspettare che non un filosofo dichiarato ma un antropologo, come Claude Lévi-Strauss, distribuisse i libri della sua biblioteca personale sulla base dell’ appartenenza dei loro autori, o dei temi trattativi, alle varie zone geografiche della Terra, perché ci si rendesse conto della portata decisiva che il punto di riferimento spazialmente individuato sviluppa accanto ai consueti punti di riferimento storico-evolutivi, largamente prevalenti nell’organizzazione delle enciclopedie piuttosto che nelle  trattazioni sistematiche di carattere umanistico o scientifico. Il tentativo di riprodurre in un microcosmo domestico il macrocosmo terrestre delle culture umane riflette la struttura stessa dell’universo delle civiltà, dei popoli, delle lingue, che si dà come un universo geografico.

Certo, la geografia non è solo cartografia. Per estensione, non abusiva, dei significati connessi al termine qui in esame, tutto ciò che è mappatura (si pensi alla mappatura del genoma) procede da un modo di immaginare, percepire, pensare la realtà su di una superficie abitata da significati rappresentabili secondo dimensioni di estensione, e di profondità, e di relative angolature, che non si risolvono in determinanti storico-temporali. La chiave di lettura geografica dei fenomeni culturali consente di attivare la percezione delle loro costanti, trans-storiche e trans-culturali, che un’ottica puntata sulla Storia tende fatalmente a eludere. Ciò sembrerebbe possibile in virtù della peculiare attitudine della geografia, che è scienza dell’uomo e al tempo stesso della natura, a fornire una descrizione di fenomeni naturali suscettibili di essere letti alla luce di leggi fisiche, matematiche. La sovradeterminazione (para) storicistica dei fenomeni culturali ha oscurato le caratteristiche e le risorse di questa attitudine, che mette in condizione di legare la particolarità di un fenomeno a leggi generali.

L’esperienza giuridica, a questo riguardo, offre un interessante piano di riscontro: nei limiti in cui registra e realizza un accesso al mondo degli oggetti – per esempio i beni, oggetto di possesso o di proprietà – che corrispondono a dati di fatto in una certa misura incontrovertibili (quel suolo, come pure quella cosa mobile), essa condivide con la geografia il rispetto dell’elemento naturale nella sua particolarità, generalizzata sotto forma di legge. La stessa esperienza politica, nei termini in cui comporta una qualche sia pur approssimativa corrispondenza tra grandezze di ordine fisico (isole, penisole, spazi delimitati da corsi d’acqua o da barriere naturali), è indice di elementi non interamente storicizzabili: una nazione procede da un atto di nascita certificabile in riferimento a una localizzabilità più o meno precisa, spesso di ascendenza ancestrale. I popoli nomadi, semi-nomadi o stanziali sono qualificati come tali sulla base di un riferimento, meno o più definito, allo spazio geografico nel quale si muovono, o viceversa si radicano. Un’entità etnica non può inventarsi per un atto arbitrario, perché non può prescindere dalle pianure, dalle foreste, dai monti nei quali si è forgiato il suo primo prender forma. Non si sottrae a questa valenza in qualche maniera nomo-grafica della geografia neppure l’esperienza economica, a misura che procede dalla raccolta e dalla selezione di materiali relativi a risorse del suolo, o del sottosuolo, che costituiscono la materia della gestione e dello sviluppo stesso dell’economia.

Qualcosa come una statica sociale15, risultando intrinseca al complesso dell’esperienza sociale umana in generale, almeno nelle sue declinazioni giuridica, politica, economica (per tacere della sacrale-religiosa), si mostra quindi caratterizzata dall’incidere essenziale di fattori non riducibili alla storicità dei fenomeni culturali. Nella prospettiva di una statica sociale ampiamente documentata dalle ricerche antropologico-culturali, può articolarsi una fenomenologia di tutti quegli aspetti della socialità umana che non si risolvono in sequenze di eventi o di epoche. Tutto ciò che è rito, costume, uso, tradizione introduce una dimensione ciclico-ripetitiva nel flusso temporale, determinando una scansione degli avvenimenti che rispecchia il succedersi delle stagioni. Lì dove la Storia concentra, fino al dettaglio, bruciando le possibilità che non si dischiusero nell’episodicità di un evento, la geografia dilata, perché custodisce la necessità sulla base della quale nuovi mondi e nuove forme di vita possono emergere: sulla superficie terrestre può costruirsi una civiltà, che poi decade fino a ridursi in macerie, ma il fondo tellurico che l’ha vista sorgere, crescere e infine declinare resta. E le radici di quell’albero penetrano in inesplorate profondità, che forse solo una geografia dell’inconscio potrebbe sondare.

In quanto stratigrafia, la geografia sta lì a ricordare, a significare, che il volere e il potere umani incontrano un limite: in questo senso, la geografia dà una costante lezione di realismo. Il viaggio che essa apre è un percorso attraverso luoghi, della natura e dello spirito, che, nella loro costitutiva dimensione di realtà, impediscono all’esistenza umana storica – quale viaggio nel tempo – di percepirsi come un fluttuare abbandonato al caso. In quest’ottica, la geografia ridà senso e significato a un Paese che sia anche, o meglio in primo luogo, una patria rispetto alla quale anche il senza patria trovi posto, ovvero ritrovi la sua dignità, e le sue prerogative, di cittadino. Un non-luogo16, in tal senso, restando una pura ipotesi, si annuncia come il prodotto di una pretesa storicistica assoluta di prescindere dal dato di fatto geografico, nella supposizione, tutta da verificare, che l’uomo sia in ultima analisi cultura, e non anche natura. Invero, nella misura in cui la geografia umana reca le tracce, talora monumentali, di passaggi al limite, non solo tra natura e cultura, ma anche tra queste e la sopranatura, non si dà genuina geografia fisica che non si atteggi, in qualche modo, a geografia metafisica, ipotizzabile ove si consideri che l’anima di certi luoghi fa da punto di orientamento di culti, scelte, decisioni, talora di forte valenza politica (si pensi alle “terre sante”, o promesse, per le quali, talvolta metro dopo metro, ancor oggi si lotta senza tregua).

L’abitare stesso (in senso heideggeriano), del resto, è sempre stato – come dimorare – un fenomeno strettamente legato ad aspetti sia materiali sia immateriali, o spirituali in senso lato: la sacralità di una sorgente, o di una montagna, rende l’idea di una geo-metafisica nella quale il pensiero umano si trova impegnato fin dai primordi. I riti di sepoltura simboleggiano, in particolare, la riassunzione nel grembo materno ctonio di un essere che pure se ne è staccato per vincere, quando non per tentare di annullare le stesse distanze spaziali (come nell’esperienza della ipertelecomunicazione odierna). A questa postura metafisica della geografia non è estranea la stessa categoria estetica di bellezza, che ritrae proprio dal naturale (bellezza naturale) la fecondità di canoni consacrati nella grande arte, in particolare quella figurativa.

Una antropologia filosofica non può pertanto evitare di considerare l’uomo come ente che descrive la terra, che scrive sulla terra, e con la terra, ma con ec-centramento dalla terra che lo rende ultimamente sovraterrestre nelle sue conclamate manifestazioni di ordine spirituale. Non sarebbe attestazione dell’umano una geografia che non fosse capace di ricomprendere nel suo ambito la posizione singolarmente eccezionale dell’uomo: anzi, che si dia qualcosa come una geografia sta ad indicare che vi è all’opera un soggetto di pensieri e di atti che ha bisogno, per ri-trovarsi, proprio del dimensionamento e della strutturazione geografici, quali ad esempio si evidenziano nella matrice geo-mitica dell’identità dei popoli senza scrittura17.

L’integrazione dell’antropologia con la geografia rende possibile la formulazione di un sapere che metta a tema le componenti naturali (biologiche e geografiche) dell’umano, rinviandole a un livello nel quale si produce una pre-comprensione di strutture portanti dei processi culturali e sociali, ivi compresi quelli attinenti all’etica, al diritto, alla politica, all’economia, alla religione. Se è vero che l’uomo è un ente storico, nel senso che la sua esistenza si concepisce come eminentemente storico-culturale, in divenire, è altrettanto vero che è inseparabile dall’autorappresentazione individuale e collettiva dell’uomo la dimensione geo-naturale, che attesta il suo essere-nel-mondo come essere in un mondo, sotto quel cielo.

Una antropologia filosofico-sociale (nel senso, comprensivo, di filosofico-giuridica e filosofico-politica) è tanto più avvertita di questa necessaria integrazione quanto più assume a tema delle sue analisi e delle sue interpretazioni l’insieme del fenomeno sociale umano: sia come storia sia come geografia del sociale. Le conoscenze che l’antropologia culturale, con la paleontologia, ha acquisito ci mettono in condizione di confrontarci con una durata della specie umana rispetto alla quale la fase assunta come storica corrisponde a un lasso di tempo minimo, estremamente significativo per i contemporanei, ma trascurabile se rapportato all’intero arco temporale dell’esistenza del genere umano sulla faccia della terra. Il complesso della vicenda umana richiede un approccio geo-sociale di portata esplicativa almeno pari a quella tradizionalmente sviluppata dall’approccio storico-sociale. Ne va della possibilità stessa di intendere umanisticamente il fenomeno umano, superando l’equivoco di scambiare la Storia per una scienza. Se proprio di scienza umana deve trattarsi, questa deve farsi carico di tutti gli elementi fondamentali che richiedono di essere conosciuti, e valutati. La temporalizzazione dell’elemento umano non può fare a meno di reagire sul piano nel quale, prima di qualsiasi “progetto” o di qualsiasi “costruzione”, l’uomo si dà a conoscere: come un essere-nello-spazio18.

La rappresentazione della socialità umana di base come una rete di relazioni che si inscrivono in filiazioni (livello giuridico-familiare) e in alleanze (livello politico) richiede, per essere elaborata filosoficamente, una lettura antropologico-sociale che filtra una vera e propria geografia sociale, non metaforica ma reale come possono essere reali i simboli che la esprimono, su di un piano mitico-fondativo che l’antropologia strutturale di Lévi-Strauss ha tradotto in formule di precisione geometrica. La rappresentazione del sociale, presso l’umanità di tutte le latitudini geoculturali, ha preso inizialmente la forma di una planimetria, ovvero di un disegno dello spazio relazionale (tra individui e tra gruppi) che ha preceduto qualsiasi progetto di edificazione puntato su traguardi storici. In questo senso – nella ricostruzione di un percorso, e con un filo logico, che da Kant giunge a Lévi-Strauss – la geografia ha preceduto e fondato la Storia, costituendo la pre-condizione di qualsiasi formazione storico-umana. Se dunque di un primato si tratta, questo primato è documentabile antropologicamente, prima di potere, e di dovere, essere filosoficamente argomentabile.

Una prima implicazione del primato quanto meno fenomenologico (se non proprio ipotizzabile come onto-fenomenologico) dell’elemento geo-umano sta nell’ipotizzare la preesistenza della geo-strutturazione delle forme associative umane rispetto all’articolazione dialettica che mette in moto i processi registrabili come storici. Una seconda implicazione sta nel congetturare che la geostrutturazione del tessuto socio-umano di base precorre, prefigura e preforma il cristallizzarsi di determinati processi in istituzioni, le quali si danno già come stabilizzazione, più o meno duratura, di una dinamica sociale19. La stessa tendenza inerziale delle istituzioni umane a durare nel tempo, malgrado contraddizioni e contestazioni di vario genere, riflette un ancoraggio meta-storico, che ritrae dalla geografia, lato sensu intesa, cioè terrestre, ctonia, cosmica, le immagini che veicolano i significati di saldezza, sicurezza, perennità. È vero che l’orografia e la stessa topografia sono soggette a mutamenti, ma generalmente nel lungo, anzi lunghissimo periodo: la persistenza dei caratteri salienti della conformazione di un territorio, della dolcezza o della durezza delle sue condizioni climatiche, offrono la prima modalità di espressione di un’invarianza categoriale, la quale si traduce in strutture fondamentali che, resistendo al mutamento, rendono al tempo stesso possibile la tensione dialettica da cui si sprigionano le forze che portano a superare, in parte o in tutto, le forme istituzionali consolidate. Il conflitto, da interpretare, in questa prospettiva, quale espressione più intensa del dinamismo sociale, generatore di Storia, deve il suo sorgere alla solida resistenza che gli oppone la spessa coltre del suolo che esige di essere curato, conservato e perpetuato, prima di essere magari sfruttato.

Il substrato geo-socio-grafico della statica sociale, che si annuncia quale fattore di comunicazione e di coordinazione tra individui, maschili e femminili, e tra gruppi di individui, corrisponde alla spazializzazione di questi rapporti, traducendosi in geografia giuridica delle parentele e delle filiazioni, e in geografia politica delle alleanze. La pre-incidenza dell’elemento geografico così declinato, sul piano giuridico-e-politico, relativizza il dato storico a punti di riferimento, a veri e propri assi cardinali non suscettibili di ulteriore dialettizzazione: i rilievi possono essere spianati, i passi possono essere attraversati, le rive dei fiumi possono essere collegate da ponti, uomini e donne possono simbolizzare in molteplici maniere le loro differenze, fin quasi a sovvertirle, ma il cambiamento di una situazione geografica, o di una geo-istituzionale, sarà sempre relativo a una permanenza, comunque percepita o elaborata, o anche semplicemente sottintesa. La dis-continuità del mondo umano storico rispetto a quello naturale non è assoluta proprio perché quel mondo resta mondo, cioè uno spazio che dipende da un orizzonte non ulteriormente superabile, anche quando venga proiettato nella dimensione ultra-mondana della sopranatura.

Le nominazioni di parentela, inquadrate nei sei sistemi di parentela a tutt’oggi noti20, formano l’atlante geografico dei sistemi sociali di base, che a loro volta costituiscono l’ordito attorno al quale vengono a strutturarsi gli insiemi sociali degli altri aggregati umani rilevanti sui piani geografico (dal villaggio ai nuclei abitativi più complessi), geo-sociologico (dalla famiglia al clan alla tribù), geo-antropologico (gruppi umani etnicamente o linguisticamente identificabili). Al pari di un atlante storico, che ripercorre le diverse fasi di sviluppo delle civiltà umane, la carta geografica delle nomenclature di parentela offre un quadro sufficientemente illustrativo di che cosa significa una statica sociale, tema di una scienza antropologica piuttosto che di una storia sociale, impegnata con la storia della famiglia, e delle unità sociali più estese, con specifico riguardo ai rapporti di sovraordinazione/subordinazione che innescano la dinamica sociale dei rapporti di forza e di potere.

Il punto è che, finora, la fenomenologia filosofica dei principi di messa in forma dell’archeo-socialità umana è stata pressoché interamente assorbita dalla rappresentazione storico-dialettica delle dinamiche, evitando di sostare nel riconoscimento che i principi di organizzazione della socialità umana dipendono da assi geo-antropologicamente pre-ordinati: sistemi elementari socio-familiari-parentali strutturati già attorno a categorie giuridiche. Una presa d’atto, e di coscienza, di segno filosofico dovrebbe partire dall’acquisizione che, se il politico vanta sicuramente un primato a livello storico-storiografico, il giuridico può vantare un primato a livello antropo-geografico. Una geografia filosofica, anche nelle sue declinazioni filosofico-giuridica e filosofico-politica, capace di restituire allo spazio tutto lo spessore ermeneutico che il primato attribuito al tempo storico gli ha sottratto, potrebbe in tal senso offrire un utile contributo introduttivo all’elaborazione di una complessiva antropologia filosofica della socialità umana.

Con la globalizzazione21, inaugurata da tesi sulla fine della Storia che, attualizzando la lezione hegeliana22, sembravano aver “fermato” il tempo, lo spazio annunciava di essersi ripreso le sue prerogative: la controtendenza storico-politologica alla focalizzazione degli scontri di civiltà23, pur rimettendo in gioco una filosofia della cultura imperniata su categorie temporali ben definite, ha peraltro mostrato che, al di là di geo-localismi più o meno accentuati, mai come oggi la politica dipende dalla geografia, della terra ma, forse oggi più che mai, anche del mare24. Perché, in una certa misura, è la stessa Storia a dipendere dalla geografia, sia questa intesa in senso strettamente scientifico, sia questa reinterpretata come geografia filosofico-sociale, indice di un significativo nesso di dipendenza della stessa geopolitica da un geo-diritto25 tutto da indagare, e da interrogare e approfondire nelle sue possibili valenze teoretiche.

 

Note

1 I. KANT, Géographie, trad. fr. a cura di M. Cohen-Halimi, M. Marcuzzi e V. Seroussi, Aubier, Paris 1999. Per una prima presa di contatto con questa edizione francese si rinvia alla lettura di I. LABOULAIS-LESAGE, La Géographie de Kant, in “Revue d’Histoire des Sciences Humaines”, 2 (1/2000), pp. 147-153.

2 A Kant (il quale dimostrava in tal modo quanto prendesse sul serio l’ampliamento del proprio modo di pensare; cfr. H. ARENDT, Teoria del giudizio politico, trad. it. P.P. Portinaro, il Melangolo, Genova 2005, p. 70) si deve di essere stato il primo filosofo a impartire corsi universitari di geografia, ancor prima dell’assegnazione della prima cattedra di geografia a Carl Ritter (Berlino, 1820; cfr. M. MARCUZZI, Introduction a I. KANT, Géographie, ed. cit., p. 11). Sulla geografia kantianamente intesa quale propedeutica alla scienza e alla vita si rinvia in particolare a A.-L. SANGUIN, Redécouvrir la pensée géographique de Kant, in “Annales de Géographie”, 576 (1994), p. 144. 222

3 Il Corso di Physische Geographie è stato pubblicato nel 1902 dall’Accademia prussiana delle Scienze, ed editato nel tomo IX, pp. 151-436, dei Kants Werke. Logik, Physische Geographie, Pädagogik (de Gruyter, Berlin 1968).

4 La versione italiana della Einleitung kantiana della quale trattasi, curata da L. Scillitani con la collaborazione di S. Nienhaus, è stata pubblicata, col titolo Geografia fisica, in A. LANDOLFI (a cura di), Geografia: dalla ricerca alla didattica. Due autori a confronto, Università degli Studi del Molise, Campobasso 2013, pp. 21-30.

5 Cfr. I. KANT, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, F. Nicolovius, Königsberg 1798; trad. it. G. Vidari e A. Guerra, Antropologia pragmatica, Laterza, Roma-Bari 1985. Se la conoscenza del mondo «ha lo stesso significato di antropologia pragmatica (conoscenza degli uomini)» (M. HEIDEGGER, Vom Wesen des Grundes, Klostermann, Frankfurt a.M. 1955, p. 31; trad. it. P. Chiodi, L’essenza del fondamento, in ID., Essere e tempo – L’essenza del fondamento, Utet, Torino 1978, p. 655), proprio dalla conoscenza del mondo che si esprime nella geografia fisica «sorgeranno quegli interrogativi che spingeranno Kant ad impostare un autonomo corso di antropologia, dopo aver preparato un testo (Urtext) nel 1759 di geografia ed aver ampliato il campo di indagine della geografia stessa, che dev’essere anche morale e politica oltre che fisica» (I.F. BALDO, Kant e la ricerca antropologica, in AA.VV., Il problema dell’antropologia, Editrice Gregoriana, Padova 1980, p. 75).

6 I. KANT, Geografia fisica, ed. cit., p. 27.

7 La geofilosofia alla Deleuze o alla Cacciari non ha tuttavia a che vedere con l’orizzonte al quale l’approccio kantiano rinvia. Piuttosto valgono, in questa sede, le riflessioni di O. DEKENS, D’un point de vue géographique sur la philosophie kantienne, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, 2 (1998), pp. 269-272. In ogni caso, per un ampliamento geofilosofico della tematica qui trattata si rinvia, oltre che ai testi consultabili nel sito http://www.geofilosofia.it, a L. BONESIO-C. RESTA, Intervista sulla Geofilosofia, a cura di R. Gardenal, Diabasis, Reggio Emilia 2010; L. BONESIO, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano 20012; ID., Oltre il paesaggio. I luoghi tra estetica e geofilosofia, Arianna, Casalecchio 2002; ID., Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, Diabasis, Reggio Emilia 2007; A. BERQUE, Médiance de milieux en paysages, Belin, Paris 1990; ID., Être humains sur la Terre, Gallimard, Paris 1996; I., Ecoumène: introduction à l’étude des milieux humains, Belin, Paris 2009; F. FARINELLI, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, Torino 2003; ID., La crisi della ragione cartografica, Einaudi, Torino 2009; ID., L’invenzione della Terra, Sellerio, Palermo 2007.

8 Attirano l’attenzione sul nesso essenziale tra geografia e cosmopolitismo in Kant le considerazioni di J.-M. BESSE, La philosophie et la géographie, in Encyclopédie Philosophique Universelle, diretta da J.-F. Mattéi, PUF, Paris 1998, p. 2553.

9 Su di una prima configurazione del tema dello spazio in Kant si veda, di questo, Von dem ersten Grunde des Unterschiedes der Gegenden im Raume, in “Königsberger Trag- und Anzeigungsnachrichten”, 6-8 (1768); trad. it. R. Assunto, R. Hohenemser e A. Pupi, Sul primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio, in ID., Scritti precritici, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 409-418.

10 I. KANT, Geografia fisica, ed. cit., p. 27.

11 Sulla natura pragmatica della geografia kantiana attira l’attenzione M. TANCA, Geografia e filosofia, Franco Angeli, Milano 2012, p. 40.

12 Cfr. I. KANT, Was heisst sich im Denken orienieren?, in ID., Gesammelte Schriften, de Gruyter, Berlin-Leipzig 1902; trad. it. P. Dal Santo, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1996.

13 Per una diversa lettura del tema cfr. però S. MASO, Filosofia a Roma. Dalla riflessione sui principi all’arte della vita, Carocci, Roma 2012.

14 Cfr. R.B. ONIANS, Le origini del pensiero europeo, trad. it. P. Zaninoni, a cura di L. Perilli, Adelphi, Milano 1998.

15 Per quanto desueta nell’omologo significato di “sociologia statica” (cfr. L. GALLINO, Statica sociale, in Dizionario di sociologia, Istituto Geografico De Agostini, Novara 2006, vol. 2, pp. 476-478), questa espressione meriterebbe di essere rivisitata, al di là di riduzionismi sociologici, in sede specificamente antropologico-filosofica. 226

16 Cfr. M. AUGÉ, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, trad. it. D. Rolland e C. Milani, Elèuthera, Milano 2009.

17 Circa gli itinerari del sogno presso gli Aborigeni australiani studiati da Freud, sulla base delle ricerche di James Frazer, cfr. B. GLOWCZEWSKI, Du rêve à la loi chez les Aborigènes, PUF, Paris 1991.

18 A una meditazione complessiva, in chiave fenomenologica, sulle componenti simboliche di questo dimensionamento antropo-geografico rimanda la lettura di E. DARDEL, L’uomo e la terra. Natura della realtà geografica, trad. it. C. Copeta, Unicopli, Milano 1986, sul quale vedasi C. COPETA, Il mio incontro con Dardel (ovvero perché sono geografa!), in E. DARDEL, L’uomo e la terra, ed. cit., pp. 201-223. Più in generale, sul tema della spazialità, si rinvia alla omonima voce dell’Enciclopedia Einaudi (Torino 1981, vol. 13, pp. 244-272), redatta da E. GARRONI.

19 Per la dinamica sociale, o sociologia dinamica, vale quanto detto supra, nella n. 14, a proposito della statica sociale (cfr. L. GALLINO, Dinamica sociale, in Dizionario di sociologia, ed. cit., vol. 1, pp. 414-417).

20 L’elenco formato dagli etnologi annovera i seguenti sei sistemi: eschimese, hawaiiano, irochese, crow, omaha, sudanese. Su questo impianto le società umane strutturano il loro assetto in quanto reti di parentele.

21 Sulla difficoltà di definire i processi di globalizzazione nella prospettiva della de-territorializzazione, cfr. in particolare S. SASSEN, Né globale, né nazionale; la terza dimensione dello spazio nel mondo contemporaneo, in “il Mulino”, 6 (2008), pp. 969-979.

22 Cfr. F. FUKUYAMA, La fine della storia e l’ultimo uomo, trad. it. D. Ceni, Rizzoli, Milano 1992. Più in generale sui rapporti fra geografia e Storia in Hegel si rinvia a P. ROSSI, Storia universale e geografia in Hegel, Sansoni, Firenze 1975. Peraltro, nella misura in cui i Fukuyama o gli Huntington continuano, insieme con molti altri, a porsi il problema della definizione del ruolo dello spazio e dei fattori geografici nella Storia mondiale nei termini delle forme di vita politica che coincidono con Stati, si è portati, almeno in questo senso, ad essere ancora hegeliani (cfr. M. TANCA, Geografia e filosofia, ed. cit., pp. 74-75).

23 Cfr. S.P. HUNTINGTON, Lo scontro di civiltà?, trad. it. S. Pighini, in ID., Ordine politico e scontro di civiltà, a cura di G. Pasquino, il Mulino, Bologna 2013, pp. 273-301.

24 F. ROSENZWEIG, Globus. Studien zur weltgeschichtlichen Raumlehre, in ID., Der Mensch und sein Werk. Gesammelte Schriften, vol. III: Zweistromland. Kleinere Schriften zu Glauben und Denken, Martinus Nijhoff, Dordrecht-Boston-Lancaster 1984, p. 348; trad. it. S. Carretti, Globus. Per una teoria storico-universale dello spazio, a cura di F.P. Ciglia, Marietti 1820, Genova-Milano 2007, p. 83. Sulle “vendette” che la geografia, ogni tanto, si prende sulla politica – da Napoleone a Hitler, fino ai nostri giorni –, può essere illuminante la lettura di R. KAPLAN, The Revenge of Geography, in “Foreign Policy”, maggio/giugno 2009.

25 Sui significati e sull’uso di questo neologismo si rinvia agli esordi sull’argomento in N. IRTI, Geo-diritto, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, 1 (2005), pp. 21-37.

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Kant grande geografo

La traduzione della Geografia fisica di Kant impegnò August Eckerlin a lungo: i sei volumi vennero pubblicati in successione tra il 1807 e il 1811.

Come apparve subito chiaro, si trattava di un lavoro importante, ma privo di uno sforzo di sistematizzazione che avrebbe potuto e dovuto facilitarne la lettura e la consultazione. Questo è poi il motivo principale per il quale all’edizione Vollmer (su cui si basò Eckerlin per la traduzione italiana) si è sempre poi preferita in seguito quella, più snella, curata da Theodor Rink. Per tutte le questioni annesse alla vicenda editoriale si può ora vedere il vol. 26.1 delle Kant’s gesammelte Schriften che contiene le lezioni sulla geografia fisica curate da Werner Stark in collaborazione con Reinhard Brandt (Berlin-New York, de Gruyter, 2009).

Nel 1816 Lorenzo Nesi, abate toscano all’epoca impegnato a Milano in attività di insegnamento, pubblica una Storia fisica della terra espressamente compilata «sulle tracce della Geografia fisica di Kant», con l’intento dichiarato di procedere a una riorganizzazione delle sparse osservazioni ricavate dagli appunti degli studenti proposte nell’edizione Vollmer.

Il più conosciuto fra i moderni, che siasi esclusivamente occupato di questa scienza importante, è stato il Sig. Kant, Professore celeberrimo dell’Università di Koënisberga, che tanto onore ha procurato al Secolo XVIII, alla repubblica letteraria, ed alla dotta sua patria. Se in quest’opera fosse egli stato meno ambizioso d’originalità, e più ordinato nella distribuzione delle materie, potrebbe questa a ragione riguardarsi come l’unica classica in questo genere, poichè nè i Malthebrun, nè i Pinkerton, nè i Guthrie hanno avuto campo di dare nelle loro Geografie Universali un competente sviluppo a questa parte, che di tutte è forse la più interessante, come la più dilettevole (vol. I, p. 6).

Lo scopo di Nesi è quello di liberare l’opera di Kant delle cose superflue, delle ipotesi azzardate, di accorciarla e armonizzarne le parti.

L’opera di Nesi venne pubblicata in due volumi: il primo nel 1816 presso l’editore Baret di Milano, il secondo nel 1817 presso l’editore Buccinelli, sempre di Milano.

Di questo curioso tentativo di rimaneggiamento della traduzione della Geografia fisica non v’è traccia in nessuna delle discussioni sul tema che da noi conosciute, né ci sembra sia mai citato (anche soltanto come curiosità) nelle bibliografie specialistiche.

Pertanto, se non andiamo errati, questa è la prima volta che si fa menzione di questo testo, la cui articolazione ricorda certamente la Geografia fisica di Kant, in rapporto alla storia della fortuna testuale di Kant in Italia.

Geografia e antropologia

Nel 1843, cioè trentasei anni dopo l’uscita del primo volume della Geografia fisica, l’editore milanese Giovanni Silvestri dà alle stampe un ausilio all’opera di Kant che Augusto Eckerlin aveva tradotto e pubblicato per lui tra il 1807 e il 1881 in sei volumi.

Si tratta di un dizionario che ordina alfabeticamente una serie di voci tratte dall’opera maggiore di Kant e che sostituisce l’indice analitico che Eckerlin non aveva accompagnato alla sua edizione e che molti avevano lamentato come mancanza grave. In effetti, la mole della Geografia fisica e, soprattutto, la vastità delle materie esposte richiedevano uno strumento di guida che consentisse di orientarsi in quella selva di dati e di notizie.

La geografia per Kant non si limitava alla fisica in quanto tale, benché tutte le cognizioni note sulla formazione della terra, dei mari, dei ghiacci e via dicendo fossero presentate in maniera più o meno sistematica. La geografia è, per Kant, principalmente una forma di conoscenza del mondo umano, un criterio di ordinamento delle caratteristiche antropologiche che devono poter essere descritte per ottenere un’immagine effettivamente cosmopolitica dell’uomo e del suo ambiente.

Questa prospettiva pragmatica era stata anche considerata negativamente da qualche recensore italiano, che riteneva del tutto improprio parlare delle situazioni concrete dei commerci, degli assetti politici e via dicendo all’interno di un trattato di geografia. Ma è invece proprio questa la caratteristica essenziale e, in qualche modo, innovativa dell’opera di Kant. La quale, in ogni caso, venendo diffusa in Italia in un’epoca fortemente segnata da trasformazioni politiche, poteva soccorrere la necessaria spinta propulsiva in avanti delle cognizioni tecniche. Non è un caso che, già a partire dalla stagione delle riforme settecentesche, in campo editoriale si facessero diversi sforzi per proporre un ampliamento della conoscenza della geografia, sforzi che vennero poi crescendo in età napoleonica e poi nella prima metà dell’Ottocento. La letteratura e la manualistica di settore in quest’epoca cresce in modo progressivo e porta alla traduzioni in italiano di altri manuali tedeschi di questo genere.

Quello kantiano è caratteristico e risulta ancora oggi un apax nell’attività dei filosofi, che caso mai tra fine Settecento e inizio Ottocento preferiscono indugiare sulla storia, attraverso prospettive universalistiche o sistematiche (da Herder a Hegel, per intendersi).

Il Manuale di geografia fisica è un altro esempio della particolare direzione che assume in Italia l’irradiazione di Kant, la cui attività antropologica è vista con molto interesse e talvolta con quel favore che non si poteva concedere al suo criticismo. Basti pensare che la cosiddetta macrobiotica di Kant, vale a dire le regole per il controllo spirituale degli stati patologici del corpo (il terzo saggio che compone il Conflitto delle facoltà) venne tradotto in italiano sia nella prima parte dell’Ottocento, sia nel clima positivistico di fine secolo.

Tra storia naturale e etnografia. La geografia kantiana

Kant tenne lezioni sulla Geografia fisica fino al Sommerse-mester del 1796: aveva cominciato quarant’anni prima, nel 1756. Il corso non era basato su un manuale, come richiesto poi dai regolamenti universitari, ma elaborato personalmente. E questo, come opportunamente fa notare Werner Stark nella prefazione al primo volume delle Vorlesungen über Physische Geographie apparso nel 2009 nell’ambito dell’edizione dell’ Accademia, vuol dire che il programma delle lezioni preparate da Kant, può essere considerato, entro certi limiti, opera autonoma. I limiti, peraltro, sono costituiti dal fatto che le lezioni così come ci sono rimaste, entrano nel patrimonio di studio di studenti e uditori, a volte eccellenti (come dimostra il caso di Herder).

La caratteristica essenziale  delle tre parti in cui si divideva l’insegnamento della Geografia fisica, è che la prima è dedicata alla descrizione fisica, la seconda alla storia naturale e la terza all’etnografia.  Kant raccoglie una grande quantità di materiali tratti da diari di viaggio, riviste, manuali che organizza poi in modo autonomo.  L’esposizione in aula non può certo entrare nei particolari, dice Kant presentando il corso del 1757, ma cercare ciò che desta meraviglia dappertutto e la bellezza con la curiosità razionale di un viaggiatore.

Su manoscritti di uditori di Kant si fonda l’edizione Vollmer (1801-1805), sebbene non si sappia nulla di questa fonte diretta. Come giustamente nota Stark, l’edizione Vollmer si presenta come un progetto editoriale autonomi rispetto alle lezioni kantiane. Infatti, vi si trovano assemblate informazioni che risalgono anche a periodo successivi il ritiro di Kant dall’Università e rimontano fino ai primi anni dell’Ottocento, quando ormai Kant (che muore nel 1804) non ha certo modo e tempo di dedicarsi ad aggiornamenti simili.

Vollmer ebbe a che fare con Theodor Rink a proposito di questa voluminosa edizione (in quattro volumi e sette tomi), ritenuta da Rink una contraffazione e oggetto di una disputa in tribunale che trascinò anche il vecchio Kant, il quale dettò una sua dichiarazione contro Vollmer e a favore di Rink, al quale aveva affidato il materiale per la pubblicazione delle lezioni di geografia fisica.

La polemica si protrasse per un certo tempo, ma lasciò il segno: nella seconda edizione, infatti, Vollmer presenta l’opera come propria trattazione ricavata dalle idee di Kant («nach kantischen Ideen») e, soprattutto, il curatore esce dall’anonimato e si fa riconoscere come Johann Jakob Wilhelm Vollmer «direttore, primo professore e bibliotecario del ginnasio dell’Accademia, ispettore delle scuole cittadine, predicatore della cattedrale di Thorn» (l’attuale Torun in Polonia). Per lo stesso curatore, quindi, l’opera non è di Kant, ma risulta una compilazione di materiali di varia natura, molti dei quali tratti da importanti manuali dell’epoca, comela Erdbeschreibung  di Anton Friedrich Büsching.

Non abbiamo una conoscenza precisa di Vollmer: Il Gelehrte Teutschland di HambergerMeusel (vol. VI, p. 113) ne riporta poche notizie, senza nemmeno indicare la data e il luogo di nascita, ma sappiamo che nacque a Thorn, ricordando che è stato l’editore della geografia kantiana e l’autore di un Kritisches Handbuch der Geschichte für die Jugend, eine Revision alles dessen, was wir mit Sicherheit in der Geschichte wissen (Hamburg 1805) – Manuale critico di storia per la gioventù, una revisione di tutto ciò che della storia sappiano con certezza.

Un altro cenno a Vollmer, non elogiativo, si trova in una storia della  città di Thorn del 1842: Jiulius Emil WernickeGeschichte Thorns aus Urkunden, Dokumente und Handschriften, Thorn 1842, vol. I, p. 580, in cui si dice che Vollmer, nominato nel 1803 direttore del Ginnasio, ne disperse lo splendore cui l’aveva portato il suo predecessore.

La Geografia fisica proposta da Rink si presenta come corrispondente a quella Vollmer soltanto per la parte introduttiva (le prenozioni matematiche), mentre per il resto i due volumi che compongono l’opera differiscono per l’ampiezza di sguardo, più che per i temi. L’ultima sezione, la sommaria considerazione delle più notevoli meraviglie naturale  di tutti i paesi in ordine geografico, risulta un anello di congiunzione con l’antropologia pragmatica, in particolare con la caratteristica, ossia l’osservazione del mondo esterno per comprendere il lato interno dell’uomo.

La Geografia fisica tradotta in italiano non presenta questo elemento etnografico, poiché il «cittadino Vollmer» (così si firma Johann Jakob Wilhelm Vollmer, da non confondere con l’editore dell’opera che si chiamava Gottfried Vollmer) l’aveva escluso dalla sua edizione, che è alla base della traduzione italiana di August Eckerlin. La conseguenza della scelta di quest’ultimo, che non riteneva opportuno tradurre la Geografia fisica di Rink – senza peraltro darne una motivazione –, è stata che del Kant antropologo e cosmopolita in Italia non si è saputo per un periodo piuttosto lungo. Qualche acuta osservazione di Bertrando Spaventa a metà secolo ha poi consentito di avere, effettiva, sebbene fugace, visione del pensiero antropologico kantiano.

La nascita della geografia moderna
attraverso il pensiero di Alexander von Humboldt e Carl Ritter

 

Wolfgang Francesco Pili

L’interesse per lo studio geografico sin dai tempi antichi non è mai mancato. Anzi, questo si è dimostrato un elemento unificante fra tutte le varie nazioni europee e mondiali che rivaleggiavano fra di loro per accaparrarsi il maggior numero di scoperte, ma che cercavano sempre di unire il sapere affinché tutti potessero usufruirne e poterne sfruttare al massimo i risultati. Fra il settecento e l’ottocento nuovi studi più approfonditi e dotati di una loro metodologia scientifica vengono intrapresi ed è così che emergono due importanti figure: Alexander von Humboldt e Carl Ritter.

Alexander von Humboldt è stato un uomo poliedrico e dagli interessi multiformi che dedicò la sua vita per intero allo studio e alla conoscenza geografica. Nato nel 1769 egli fu prima di tutto un naturalista, specializzato in botanica e in mineralogia, e alacre viaggiatore: infatti è proprio nei suoi numerosi viaggi che von Humboldt, attraverso le sue osservazioni e rilevamenti, si presenta come un grande geografo, tanto da essere considerato il fondatore vero e proprio della geografia moderna. Laureatosi nel 1790 in biologia all’università di Gottinga, nel biennio successivo studiò nell’accademia mineraria di Freiberg. Non è un caso che poco dopo fu nominato direttore dell’area mineraria della Franconia. Effettuò diversi viaggi nella sua giovinezza, specialmente in Europa e, in particolare, in Italia: dopo la morte della madre eredita una grande somma, poté organizzare una grande spedizione verso i tropici nelle colonie spagnole americane fra il 1799 e il 1804 con l’ausilio del botanico Aimè Bonpland (La Rochelle, 1773 – Restauraciòn, 1858). In questo viaggio ebbe modo di approntare molte ricerche sulla botanica: provò la scalata del Chimoborazo (un monte ecuadoregno) senza raggiungerne la vetta e scoprì un collegamento fra i bacini dell’Orinoco e del Rio delle Amazzoni, attraverso il fiume Casiquiare. Esplorò inoltre l’isola di Cuba, il Messico e il Perù facendo a volte anche studi di tipo etnologico e linguistico. Stabilitosi nuovamente in Europa, a Parigi per i successivi vent’anni, ebbe modo di scrivere la monumentale opera intitolata Voyage auc règions èquinoxiales du Nouveau Continent: questo fu il primo trattato di geografia socioeconomica del vicereame della Nuova Spagna, esteso dall’America istmica alla California e al Texas. Fondata a Berlino la Società Geografica tedesca nel 1828, nel 1829 invitato dallo zar Nicola I, effettuò un viaggio scientifico nella Russia orientale e in Asia centrale. Questo viaggio gli permetterà di dedicarsi alla sua opera magistrale intitolata Kosmos, redatta da cinque volumi, in cui von Humboldt tratta dei diversi aspetti geografici, con particolare riguardo alla fisica, all’astronomia e alle scienze naturali. Ad Alexander von Humboldt si deve l’inserimento negli studi geografici delle isoterme, ovvero la correlazione fra la diminuzione della temperatura e il crescere dell’altezza; inoltre fu proprio il geografo tedesco a valorizzare l’uso del barometro per misurare l’altitudine. Scoprì ancora le variazioni d’intensità del campo magnetico terrestre con la latitudine e viene considerato, fra gli altri, anche il fondatore della geografia botanica. La grande differenza fra Humboldt e i precedenti geografi consiste nel fatto che fu in grado di correlare i diversi fenomeni e argomenti geografici ad altre discipline come la fisica o la sociologia e questo è un aspetto tutt’ora fondamentale per un buono studio accademico geografico. Alexander von Humboldt morì a Berlino nel 1859 all’età di 89, proprio mentre si apprestava a scrivere l’ultimo tomo del Kosmos, che verrà completato e redatto grazie alle sue accurate note bibliografiche. Humboldt fu anche un insigne linguista.

Carl Ritter è stato uno studioso di geografia totalmente diverso dal suo contemporaneo Humboldt: infatti pur avendo anch’egli effettuato numerosi viaggi specialmente in Italia e sulle Alpi, fu un geografo che si dedicò più alla teoria che alla pratica. È’ per questo che la produzione libraria enciclopedica di Ritter è stata molto più prolifica rispetto a quella del suo collega Humboldt. Egli diede alla propria ricerca uno stampo fortemente umanistico. Fu il primo studioso geografo a diventare professore di un corso di Geografia all’università di Berlino nel 1820 e dal 1821 fu direttore della Società geografica berlinese di cui era cofondatore. Le sue opere principali sono due: Die Erdkunde im Verhaltniss zur Natur und zur Geschichte des Menschen e la Erkunde (geografia). Quest’ultima opera fu quella che determinò un profondo mutamento a livello enciclopedico anche se la sua opera rimase incompiuta: era infatti un’opera monumentale (19 volumi con 21 tomi e più di 30.000 pagine) pubblicata a Berlino dal 1822 fino al 1859 dove descrisse minuziosamente l’Asia e l’Africa. Quest’opera ritteriana è tutt’oggi molto poco conosciuta al di fuori delle ristrette cerchie tedesche in quanto è stata tradotta in poche lingue e con poche edizioni (mai in italiano) e appare di difficile lettura e spesso oscura; senz’altro Ritter fu influenzato dal pensiero storicista di Herder, dalla pedagogia di Johann H. Pestalozzi e dai principi generali del luteranesimo. Quest’ultimo punto porterà Ritter a parlare della teleologia o principio di finalità, che Ritter intravedeva nella predestinazione dei popoli e dei paesi. Ritter nell’opera intitolata Vorlesungen über allgemeine Erdkunde (1852), afferma che la teleologia cerca di rispondere all’esigenza di studiare la saggezza del creatore nelle opere della natura e di comprendere lo scopo finale della creazione: lo studio della Terra in ciò è importante perché non è solo il luogo in cui la divina natura si manifesta, ma anche perché è il luogo dove dimora il genere umano. Carl Ritter si definisce uno dei fondatori della geografia scientifica vista intesa come lo studio teorico e filosofico fra natura e uomo: infatti, afferma nell’introduzione alla Erdkunde, che l’influenza della natura sui popoli è maggiore di quella degli singoli uomini, perché si tratta di una massa che agisce su un’altra massa. Tuttavia la natura, al contrario del popolo, agisce in maniera progressiva e la sua influenza in genere è più profonda di quanto sembri. È dunque Ritter un geografo filosofo e storico? Potremmo rispondere affermativamente a questa domanda. Egli studia come detto in modo analitico e teorico tutte le cause della natura e di come essa agisce sull’uomo. Affermerà Ritter che l’influenza della natura sullo sviluppo dei popoli diminuisce di pari passo con l’evoluzione della civiltà, per cui i rapporti di stampo deterministico (vedi bibliografia essenziale) non rimangono uguali nel tempo. Ritter fu un geografo dunque che a differenza di Humboldt riuscì a sottolineare in maniera più compiuta l’eterogeneità dei fenomeni di cui si interessa la geografia e, tuttavia, come ci dice la critica successiva, la sua descrizione dell’Asia e dell’Africa appare arida e noiosa. D’altronde Ritter nei due continenti non ebbe modo (o probabilmente interesse) di andarci: questo rende la sua opera principale, l’Erdkunde, non così importante come potrebbe sembrare, e fornisce anche una ragione anche perché non sia stata tradotta nei vari stati europei.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Bartaletti F., Geografia Teoria e prassi, Bollati Beringhieri, Torino, 2006

http://it.wikipedia.org/wiki/Aim%C3%A9_Bonpland

http://www.openfisica.com/fisica_ipertesto/openfisica4/principio_isoterme.php

http://geography.about.com/od/historyofgeography/a/vonhumboldt.htm

http://www.treccani.it/enciclopedia/carl-ritter/

http://geography.about.com/od/historyofgeography/a/carlritter.htm

http://www.vialattea.net/esperti/php/risposta.php?num=13271 riguardo la teleologia

http://www.sapere.it/enciclopedia/determinismo.html per quanto concerne il determinismo geografico

 

 

Lezione (hegeliana) di geografia

Quando mi misi a pensare all’argomento per la tesi di laurea – prima di focalizzare la mia attenzione su Rousseau, i selvaggi e l’antropologia – sottoposi a un docente germanofilo della cattedra di Storia della filosofia moderna e contemporanea dell’Università Statale di Milano, l’idea di vederci chiaro sul rapporto tra geografia e storia nella filosofia hegeliana. Un argomento non semplice, poco studiato in Italia, e che dunque avrebbe richiesto una buona conoscenza della lingua tedesca, ostacolo per me all’epoca insormontabile. Tra l’altro avrei dovuto leggermi alcuni saggi di geografi e storici tedeschi a cavallo tra ‘700 e ‘800 (tra cui quelli di un certo Ritter, geografo spesso citato da Hegel), che se andava bene erano stati tradotti in francese. Mi sarebbe poi piaciuto tirar dentro Johann Gottfried Herder, che aveva scritto due opere splendide dedicate alla filosofia della storia. Ma poiché ero già abbondantemente fuori corso, finii per lasciar perdere. (Forse giocava anche un riflesso condizionato della mia passione di bambino per tutto ciò che aveva a che fare con la geografia e, soprattutto, con le carte geografiche; senza ancora sospettare che la cartografia – e la crisi della ragione cartografica di cui parla ad esempio il geografo Franco Farinelli –  è cosa serissima, tanto più in epoca globale).

Hegel, nella sua filosofia della storia, aveva costruito una vera e propria cartografia e mappa dello sviluppo spirituale, generalmente semplificato nell’arco che da Oriente va ad Occidente – l’alba e il tramonto-compimento dello spirito, in chiave chiaramente eurocentrica. Anche se poi tale spirito finiva per sostare un po’ troppo nelle terre germaniche e prussiane, prima di (forse e comunque con poco entusiasmo da parte del filosofo tedesco) intraprendere la traversata dell’oceano e migrare in terra americana. Pur trincerandosi dietro la frase che “il filosofo non s’intende di profezie”, Hegel deve comunque ammettere a denti stretti che l’America sarà il paese dell’avvenire. Non so che cosa avrebbe obiettato se gli si fosse fatto presente che, proprio perché la filosofia non produce profezie, non si poteva escludere che la circolarità dello spirito avrebbe finito per doppiare lo stretto di Bering e ripartire così dal suo luminoso inizio – e che dopo il secolo americano ci sarebbe stato il secolo cinese, ad onta del fatto che per i cinesi “il mare è solo il cessare della terra”.

Ad ogni modo lo spirito – la cultura umana – ha sempre una precisa collocazione geografica: Hegel la definisce nelle sue Lezioni “situazione di natura, ossia la base geografica della storia del mondo”. I popoli, per esser tali, devono avere una loro “configurazione naturale […] da cui si sprigiona lo spirito”. Questo, dunque, si impasta con il clima e si innesta sul materico-naturale, anche se suo compito essenziale è di elevarsi da questa sua naturalità e fisicità, per riconoscersi in qualità di libero spirito.

Ciò non toglie nulla alla sua valenza fortemente geografica (e dunque storica): Hegel riconosce ad esempio, sulla scorta degli studi settecenteschi, in particolare di Montesquieu, che il clima è un elemento determinante. In particolare, solo la zona temperata può essere a suo giudizio il vero teatro della storia del mondo; mentre il mare ricopre una funzione essenziale in termini di superamento del limite, pericolosità, coraggio, scoperta, astuzia: “nel mare è implicita quella specialissima tendenza verso l’esterno, che manca alla vita asiatica: il procedere della vita oltre sé medesima”. Insomma, non c’è in Hegel una filosofia della storia che non sia contemporaneamente una filosofia della geografia, una geofilosofia o una geopolitica.(Oggi, a distanza di ben due secoli, si tratta di una branca nuova ed interessante della filosofia: per averne un’idea basta consultare il Sito italiano di Geofilosofia o dare un’occhiata alle 10 tesi di Geofilosofia di Caterina Resta)..

Questa lunga (e forse poco interessante) premessa, per dire che la lezione di geografia è essenziale, e che forse bisognerebbe tornare a studiarla con più attenzione, a prescindere dalla facilità con cui wikipedia o google map ci fiondano sul globo in un batter di clic.

La geografia è cosa serissima; i numeri della demografia sono pesantissimi; lo spazio, anche se apparentemente annullato dai media e dalla rete, è un’estensione imprescindibile; i colori delle mappe geografiche, gli istogrammi e i dati statistici nascondono sotto la loro patina brillante guerre e conflitti, corpi e macerie, lavoro e fatica, vita e speranze insieme ad un bel po’ di promesse tradite.

Faccio solo tre esempi, cercando di applicare quanto ho detto finora a quel che va accadendo in questi mesi in giro per il pianeta:
a) sui numeri, mi pare che la prussiana (e forse un po’ hegeliana) Angela Merkel abbia detto una cosa geofilosofica ovvia, su cui però non molti stanno ragionando: l’Unione europea incide in termini demografici solo per il 7% della popolazione mondiale (il 10% se allarghiamo all’intera Europa), mentre l’Italia non arriva nemmeno all’1%. Quando si usa la categoria di potenza mondiale non possiamo non ragionare anche su questi dati;
b) che cosa vuol dire oggi essere europei od occidentali? perché mai dovrei sentirmi più europeo di quanto non mi senta mediterraneo o ugrofinnico o micronesiano? E poi: insulare  – continentale – fluviale – lacustre – marino – montano – campagnolo – metropolitano – centrale – periferico – nomade – migrante… potrei continuare a lungo con questa cartografia geoantropologica che nasconde e svela ad un tempo il destino di miriadi di esseri umani, insieme alle loro collocazioni biografiche ed esistenziali, difficilmente rappresentabili e riducibili a quelle mappe e a quei numeri;
c) ma la lezione più drammatica ed istantanea di geografia, di geofilosofia e di geopolitica, ce la dà – tanto per fare un esempio paradigmatico – la Siria di quest’ultimo anno: gli abitanti di quella nazione, con quei confini, quella densità, quella superficie, quella conformazione orografica ed idrografica, quel clima e quel fuso orario, quelle religioni e lingue ed etnie – e con quelle risorse (o non risorse) – ebbene loro sì che stanno scrivendo la lezione di geografia con il proprio sangue.

  1. Ogni cultura umana è legata alla terra, alla natura in cui si sviluppa, sembra essere vero, se pensiamo anche soltanto all’influenza sulla costituzione culturale non solo del clima, ma anche del cibo autoctono e delle abitudini, degli usi e costumi ad esso connesse. Anche se ormai mangiamo cibi esotici, e persino il grano proviene in gran parte da paesi d’oltremare. E senza contare l’oggetto di fede che è ormai diventata la fede universale, il danaro e i flussi del capitale finanziario, quanto mai liquido, per il quale non si danno confini.

In“Terra e il Mare” Carl Schmitt, sosteneva che la supremazia europea era sulla via del tramonto, e con essa il diritto e lo statalismo europeo. la storia del mondo è la storia delle potenze marittime contro le potenze terrestri, e viceversa.

Per Schmitt: “Il Mare è innanzitutto la negazione della differenza, conosce solo l’uniformità, mentre nella Terra si dà sempre la variazione, la difformità. Il Mare non ha confini se non le masse continentali ai suoi estremi. La Terra è sempre solcata dai confini tracciati dall’uomo, oltre alle barriere naturali. Il Mare è mobilità permanente, flusso privo di un centro stabile. È caos e dissoluzione. La Terra è costanza, stabilità, gravità. È gerarchia e ordine. Il Mare è il Capitale, la Terra è il Lavoro. Eccetera.

Allo stesso modo la fluida uniformità marittima genera il dio-denaro, ciò tramite cui ogni merce può essere scambiata ma che non è a sua volta una merce. L’era moderna in effetti è l’era dei flussi: flussi di informazioni, flussi di capitali, flussi di merci, flussi di individui. Il monoteismo del mercato (capitalistico e finanziario) nasce dal Mare.

Concretamente e storicamente, il Mare sarebbe incarnato dalle talassocrazie anglosassoni, la Terra dalla tellurocrazia continentale eurasiatica.
E l’America sarebbe in tutto e per tutto l’erede geopolitico e geofilosofico dell’Inghilterra. In essa lo spirito mercantile, l’istinto predatorio e l’individualismo borghese raggiungono livelli deliranti. Il titanismo predatore, piratesco, mercantile tipico delle talassocrazie è animato da una brama di dominio inestinguibile che non può essere limitata da alcuna regola.

L’istinto di predone dei mari che caratterizza il popolo insulare (Inghilterra e America) intende in modo tutto diverso la vita economica. Qui si tratta di lotta e di bottino, anziché di politica, come sulla terra.Nell’isola, quindi, il capitalista sostituisce il politico ed il corsaro prende il posto del soldato; solo sulla Terra l’esistenza dell’uomo è immediatamente politica.”

Comunque ormai anche la Cina ha “attraversato la grande acqua”, ed è un oceano, a confronto del piccolo stagno che è l’Europa.

 

Geografia e filosofia. Materiali di lavoro

 

di Marcello Tanca         Franco Angeli, 2013

Nei nostri ricordi scolastici geografia e filosofia rappresentano mondi separati e lontani, che poco o nulla hanno a che fare l’uno con l’altro. Questa spartizione ha dietro di sé una lunga storia – che se non è lunghissima, è ancora viva e presente nella cultura contemporanea. Nonostante lo “spatial turn” registratosi nelle scienze sociali negli ultimi anni, la storia dei prestiti e delle contaminazioni tra discorso filosofico e discorso geografico attende ancora, in larga parte, di essere scritta. Questo lavoro parte da una precisa ipotesi interpretativa: l’esplorazione conoscitiva e materiale della Terra, il tratto che più di ogni altro caratterizza l’epoca moderna e senza il quale non si darebbe globalizzazione, sarebbe stata impensabile senza le molteplici connessioni, interferenze e sovrapposizioni tra geografia e filosofia. Si tratta allora di ripensare il rapporto tra quelli che sono a tutti gli effetti dei dispositivi di produzione di immagini del mondo e di riportare alla luce alcune delle tappe più significative di un percorso comune così poco conosciuto: da Kant a Foucault, passando per Hegel, Marx e Heidegger.

Recensione (di Dino Gavinelli):

Geografia e Filosofia, due discipline ben delineate nell’immaginario collettivo come distanti e ben separate tra loro e che invece Marcello Tanca riavvicina per evidenziarne codici, discorsi, linguaggi, saperi, percorsi e evoluzioni di volta in volta vicini, mescolati, complementari. La sua analisi si inserisce dunque sul solco dei non numerosi lavori che hanno indagato sugli incontri, gli scontri, le mediazioni, le sovrapposizioni e le interferenze tra geografia e filosofia. Nel lavoro monografico si spazia da quell’Illuminismo settecentesco, tutto teso a trasporre l’ordine razionale della scienza sul piano della storia e della geografia, alla filosofia novecentesca di Foucault che, con la sua microfisica del potere e le sue frequenti preoccupazioni per la dimensione spaziale, non lascia certamente indifferenti i geografi contemporanei. Tra questi estremi temporali Marcello Tanca si muove agevolmente per raccogliere, ordinare e presentarci i suoi “materiali di lavoro”: Kant e la “geografia fisica” (capitolo 1); Hegel e la “geografia dello spirito” (capitolo 2); Marx e la geografia (capitolo 3); il paesaggio come categoria logica della descrizione geografica e della riflessione filosofica (capitolo 4); abitare il mondo: Heidegger, Dardel, Le Lannou (capitolo 5); Foucault: per una geografia del potere (capitolo 6). Tra questi materiali ritroviamo anche testi che, in alcuni casi, sono tradotti per la prima volta in italiano per recuperare, come ben dice l’autore nella sua Introduzione, la dimensione storica del sapere geografico e risalire, con metodo filologico, alle origini di modelli ontologici e di precise figure teoriche e geografiche (il paesaggio, l’abitare).

Nel primo capitolo, dedicato a Kant e alla sua geografia fisica, l’autore ci porta al centro delle riflessioni del filosofo di Königsberg sulla storia umana, sull’operatività dei gruppi sociali sulla scena del mondo con il fine di creare un ordinamento cosmopolitico, tipicamente settecentesco. In tale contesto la geografia fisica e quella umana acquisiscono una loro grande utilità perché svolgono un’importante funzione pratica, popolare e di orientamento. Attraverso la geografia gli individui sono in grado di avere non solo uno sguardo regionale ma anche uno d’insieme sul pianeta per poter così indagare e conoscere i suoi molteplici paesaggi.

Nel secondo capitolo domina la figura di Hegel che, nel suo sistema filosofico tutto teso a riconoscere il presente (quello tra la fine del Settecento egli inizi dell’Ottocento) nella sua positività e a contrastare il moralismo di chi contrappone l’ideale astratto al reale, lascia un certo spazio alla geografia. La filosofia della storia di Hegel ci presenta infatti il grande scenario della vita degli stati,  espressione dello spirito di quei popoli che, nelle diverse epoche, hanno non solo rappresentato un momento significativo del progresso complessivo dello spirito umano ma disegnato anche luoghi specifici. La dimensione evolutiva è dunque selettiva non solo nel tempo ma anche nello spazio, come il nostro autore ben evidenzia in diversi punti della sua lettura geografica dell’opera hegeliana.

Nel terzo capitolo viene proposta una rilettura del pensiero di Karl Marx in chiave geografica. Questa rilettura consente di richiamare succintamente le tappe principale del rapporto tra il filosofo tedesco e la geografia. All’interno del suo complesso impianto speculativo e espositivo, conosciuto ai più per i suoi aspetti filosofici, politici ed economici perché incentrato sull’unità del processo di produzione e di circolazione del capitale, Marx ha inserito infatti ampie parti documentarie, storiche, ecologiche e geografiche. La sua teoria critica della globalizzazione, che Tanca interpreta giustamente come evidente superamento dell’influsso hegeliano, è molto utile al geografo alla ricerca di “preziosi strumenti di lettura dei meccanismi di esclusione sociospaziale e delle contraddizioni ecologiche e territoriali del sistema-globo”. L’attualità del pensiero di Marx rispetto alla presente globalizzazione capitalistica che plasma ambienti, culture, economie, società, territori e paesaggi è sorprendente.

Nel quarto capitolo è il paesaggio, come categoria logica della descrizione geografica e della riflessione filosofica, a imporsi all’attenzione del lettore. Il concetto polisemico di paesaggio, elemento paradigmatico della complessità attuale del mondo, con i suoi molti valori estetici, romantici, patrimoniali, scientifici, soggettivi, per citarne solo alcuni, consente di richiamare termini quali “mimesis”, “graphikos”, “pictura”, di ricordare Humboldt e i suoi schemi progettuali di acuto geografo, di inquadrare i termini di un Vidal de la Blache ermeneuta e di riflettere su ricchi e variegati percorsi geofilosofici ottocenteschi e novecenteschi. Con queste analisi il paesaggio si dimostra in tutta la sua “plasticità” e offre numerosi spunti all’autore che, a ragione, avversa l’idea dell’immutabilità dei caratteri naturali, culturali e paesaggistici. Proprio i paesaggi della contemporaneità, trattati nell’ultimo paragrafo del capitolo, ci ricordano che il discorso rimane aperto e in divenire.

Nel quinto capitolo è il popolamento del pianeta e le modalità dell’abitare ad essere trattato da tre punti di vista filosofici e geografici di spessore: Heidegger, Dardel e Le Lannou. Il percorso speculativo di Heidegger, che nel problema dell’essere ha posto la sua maggiore attenzione, non si limita agli aspetti metafisici ma implica anche una dimensione spaziale polisemica nella quale i luoghi e gli ambienti sono intimamente legati alle grandi questioni filosofiche e si prestano agli  approfondimenti delle successive correnti fenomenologiche, umanistiche e esistenziali presenti in filosofia e in geografia. Anche Dardel indaga discretamente sulla natura della realtà geografica, e in particolare dell’abitare, nel suo ormai celebre “L’uomo e la terra” così ricco di richiami a Heidegger e, più in generale, alla filosofia. Negli stessi anni anche Le Lannou si interessa alla geografia come scienza dell’uomo-abitante e anticipa la sua riflessione critica sulla pianificazione territoriale che troverà ampio spazio nel dibattito culturale francese  degli ultimi decenni del XX secolo. I tre punti di vista, pur tra loro diversi, mettono in campo metodi e strumenti della filosofia e della geografia per sottolineare che l’azione dell’abitare è sempre complessa, si presta a tante letture ed è una questione che riguarda tutti noi.

Nel sesto capitolo l’analisi dell’opera del filosofo e saggista francese Foucault consente al nostro autore di rimettere in questione la centralità del soggetto, della storia e dello spazio intesi come esito positivo della progettualità umana secondo un tragitto lineare e continuo. Al contrario, il divenire storico e geografico passano attraverso brusche fratture, tra loro spesso contraddittorie o eterotopiche, che possono essere descritte e registrate ma non spiegate. In questo senso Foucault fornisce un contributo notevole alla geografia postmoderna pur non avendo elaborato un’organica teoria generale dello spazio. Ma è soprattutto nell’analisi dei rapporti di potere che egli influenza il pensiero geografico sul presente e alimenta decise opposizioni al suo punto di vista critico. Il potere è infatti inteso non come istanza centralizzante e gerarchizzante ma piuttosto come insieme plurimo, reticolare e circolare di relazioni. Verso di esso possono strutturarsi forme di resistenza che rimettono in causa le pratiche discorsive e le strategie dominanti e alimentano gli studi di geopolitica.

Il testo, denso nei contenuti e foriero di stimoli, è arricchito da una Prefazione di Franco Farinelli. In essa si ricorda il lungo cammino compiuto dalla geografia e si sottolinea come questa disciplina abbia preso ampio spunto dapprima dalla filosofia greca delle origini. Le successive analisi filosofiche hanno poi consentito, più o meno direttamente, alla geografia di rendersi maggiormente articolata, variegata e complessa a riprova dei proficui contatti tra le due discipline.

L’esplorazione conoscitiva e materiale della Terra, il tratto che più caratterizza l’epoca moderna e senza il quale non si darebbe globalizzazione, sarebbe stata impensabile senza le molteplici connessioni, interferenze e sovrapposizioni tra geografia e filosofia. Il testo vuole ripercorrere alcune delle tappe più significative di un percorso comune così poco conosciuto e di cui si è minimizzata l’importanza: da Kant a Foucault, da Hegel a Marx e Heidegger.

 

Bollettino della Società Geografica Italiana Riflessioni sul postmodernismo (di M.Marconi)…

Nei nostri ricordi scolastici geografia e filosofia rappresentano mondi separati e lontani, che poco o nulla hanno a che fare l’uno con l’altro. La geografia ci riporta alle carte appese alle pareti delle aule e ad elenchi interminabili come quello degli affluenti di destra del Po. La filosofia al proprio tempo appreso col pensiero, al Cogito e agli imperativi categorici. Questa spartizione ha dietro di sé una lunga storia – che se non è lunghissima, è ancora viva e presente nella cultura contemporanea.

Nonostante lo spatial turn registratosi nelle scienze sociali negli ultimi anni, la storia dei prestiti e delle contaminazioni tra discorso geografico e discorso filosofico attende ancora, in larga parte, di essere scritta. La responsabilità va ripartita in parti uguali tra geografi e filosofi. I primi hanno teorizzato poco o nulla e guardato come pericolose deviazione quei tentativi di elaborare un’immagine della Terra che non fosse semplicemente il mero calco della rappresentazione cartografica (sono emblematici, da questo punto di vista, i casi di Reclus e Dardel). I secondi si sono generalmente disinteressati ad una disciplina che sembrava offrire pochi appigli alla riflessione critica a causa del suo statuto epistemologico ambiguo e incerto, a metà strada tra il fisico e l’umano, dunque di difficile collocazione in un quadro teorico dominato da dicotomie come quella tra “natura” e “spirito”.

Questo lavoro parte da una precisa ipotesi interpretativa: l’esplorazione conoscitiva e materiale della Terra, l’impresa che ha cambiato per sempre la faccia del pianeta ma alla quale né i geografi né i filosofi hanno preso parte direttamente, non sarebbe stata possibile senza l’apporto di quegli straordinari codici di scrittura del mondo che sono geografia e filosofia. Si tratta allora di riportare alla luce, attraverso uno scavo archeologico, alcune delle tappe più significative di un percorso comune così poco conosciuto e di cui oggi è più che mai urgente scrivere la storia: da Kant a Foucault, passando per Hegel, Marx e Heidegger.

 

Spazio e geografia in Hegel:
la dialettica terra-mare

Nella filosofia hegeliana troviamo sempre la natura definita inizialmente, per la coscienza ordinaria, come l’elemento immediato, esteriore, molteplice ed estrinseco, un Proteo che ci troviamo di fronte senza averlo prodotto17, caratterizzato da rapporti di giustapposizione spaziale e successione temporale18. Questa accezione di natura è contrapposta allo spirito umano inteso da Hegel sempre in termini di razionalità come risultato, ritorno in se stessi, farsi per mezzo della propria attività, in modo autonomo e libero, autodeterminato.

Quale significato ha allora la sensibilità dell’uomo, il suo aspetto biologico, rispetto alla sua natura razionale e alla natura esterna? Sicuramente, per Hegel, l’uomo si dice sensibile in quanto non lo si dice libero, ma il nesso che lega alla natura esterna il carattere dell’uomo (termine con cui Hegel indica forme specifiche di indole, tendenza ed attitudine interiori) non è un rapporto di meccanica dipendenza causale, come se la determinatezza naturale del suolo o del clima avesse come effetto la formazione del carattere di un popolo, riempiendo di contenuto attitudini di per sé vuote ed astratte. Hegel è fortemente critico rispetto a supposti effetti determinanti e specifici del clima, per lui un clima aspro e duro non avrebbe alcuna relazione causale o analogica significativa con destini di eroi e/o suicidi:

Si parla spessissimo del mite cielo ionico, che avrebbe prodotto Omero. Certo esso ha molto contribuito alla grazia della poesia omerica. Ma la costa  dell’Asia Minore è stata sempre la stessa, e lo è ancora: eppure dal popolo ionico non è sorto che un Omero19.

L’influenza del clima è per Hegel più generale, e (specialmente negli estremi del torrido e del gelo) riguarda la sua potenza e la sua forza di oppressione sulla liberazione delle forze spirituali umane. Tale liberazione per Hegel non può che iniziare a livello della sensibilità stessa dell’uomo, nel suo nesso con la natura esterna, con l’evidente richiamo alla tesi aristotelica secondo cui l’uomo si rivolge all’universale solo quando non è depresso e ottuso dai bisogni, ma è in grado di distaccarsi e ritrarsi dalla propria immersione nel mondo esterno. Da questa prima serie di considerazioni, che senza dubbio privilegiano le terre temperate come terre di sviluppo della libertà 20, emerge che è il rapporto con la natura con ciò che è fuori di noi, non l’introspezione, il rapporto con noi stessi, la prima posizione a partire dalla quale l’uomo è in grado di riflettere in sé e acquistare libertà, e che è nel rapporto con la differenza da sé, e non nelle profondità della individualità, che l’uomo trova per Hegel il suo originario punto di partenza per muovere verso il sapere di sé. Inoltre, va notato che emerge anche come la separazione dalla natura, il distacco da un rapporto semplicemente immediato con essa, sia la prima condizione per separare da sé bisogni e pulsioni, l’irretimento nei rapporti primari di possesso e dipendenza: con le cose, con la terra, con i legami famigliari (“la voce del sangue”), e per sviluppare una cultura spirituale21.

Si vede allora come, per Hegel, la maniera naturale di essere dell’uomo sia tanto il suo essere sensibile e non libero, immerso nell’esteriorità, sia il suo stesso ritrarsi dalla immediatezza di tale immersione, se la natura esterna non glielo impedisce:

Il gelo che serra i Lapponi o il calore torrido dell’Africa sono forze troppo potenti a petto dell’uomo perché lo spirito possa acquistare fra esse libero movimento e giungere a quella sua ricchezza, che è necessaria perché una civiltà assuma forma reale. In quelle zone il bisogno non può esser mai allontanato: l’uomo è perpetuamente obbligato a rivolgere la sua attenzione alla natura.22

In altre parole, il clima è determinante solo nella misura in cui la sua potenza impedisce all’uomo di ritornare a sé stesso e in sé stesso. Circoscrivere alla  zona temperata il fiorire della civiltà, si badi bene, non è stato affatto determinato da Hegel dallo stanziamento di certe popolazioni geneticamente superiori a scapito di altre, non è basato su argomenti che oggi definiremo “razzisti”. Il primato, sotto l’aspetto spirituale, dell’Europeo e della razza caucasica (su criteri osteologici e non sul colore della pelle come in Kant)23 che troviamo ad esempio nella sua Filosofia dello spirito soggettivo è affermato solo nei mutabili termini della storia e della antropologia culturale, non su immutabili fondamenti biologici ed ereditari: «la differenza delle razze umane è ancora una differenza naturale, cioè una differenza che riguarda anzitutto l’anima naturale. Come tale, essa è legata alle differenze geografiche del suolo sul quale gli uomini si riuniscono in grandi masse 24».

Da qui l’importanza, inedita nel pensiero filosofico, delle basi geografiche della storia del mondo, e in particolare del Mediterraneo come espressione del rapporto tra mare e terra, vista come l’opposizione più universale della determinazione naturale e di maggiore significato storico. Hegel considera infatti quanto il movimento concettuale, oggetto e compito della considerazione filosofica, si ritrovi nelle considerazioni delle diversità fra i continenti, per sottrarre tali differenze dalla casualità e poterne fare discorso razionale.

Ricordo brevemente come Hegel codifica i momenti necessari della attività logico-reale del pensiero25. Il pensiero come attività formale si muove a partire dalla intuizione immediata della sensazione, dalla apprensione della individualità concreta. La nega intellettivamente nella unità di una universalità indifferenziata e compatta, che sussume quella singolarità insieme al molteplice che gli è omogeneo. Ma il pensiero non si ferma a questa attività di isolamento e separazione di un universale astratto, come un che di ideale saldamente contrapposto al reale singolare della sensazione. L’antitesi prodotta dal momento intellettuale non fissa che apparentemente degli estremi indipendenti e autosussistenti, la loro verità speculativa o razionale si riconosce quando ogni determinazione isolata, ogni essere finito, si mostra, dialetticamente, in relazione con ciò che esclude, si rovescia nel suo opposto. In altre parole, ogni determinata identità con sé, in quanto non è mai un termine fisso e ultimo ma è soggetta a mutamento e divenire, contiene anche la propria negazione, contraddicendo così la propria autosufficienza, che si rivela dunque una mera apparenza. I due opposti estremi della universalità e della singolarità, ognuno passato nell’altro, risultano così relativi l’uno all’altro e compenetrati sillogisticamente nel medio della loro unità: una unità non iniziale, ma riflessa in sé, prodotta dal pensiero.

Il modo di pensare dialettico mostra dunque in generale la finitezza delle determinazioni unilaterali dell’intelletto, esponendole per quello che sono, tali che si rovesciano in quel loro opposto da cui avevano astratto per circoscrivere e fissare la propria identità esclusiva, e così si superano. Da qui la dialettica come «immanente oltrepassare», come finito che non viene limitato dal di fuori ma che si contraddice in se stesso, passa nel suo contrario mediante se stesso. Solo per questo aspetto di anima motrice la dialettica è per Hegel il principio mediante cui il contenuto della scienza acquista un nesso immanente o una necessità, e il suo è un risultato positivo, una unità mediata di determinazioni distinte 26.

Hegel ha così gli strumenti filosofici per pensare il “nesso immanente” tra le grandi suddivisioni continentali, come porzioni limitate e finite, del nostro pianeta, mostrando come sia possibile razionalmente (dialetticamente) “dedurre” l’Africa come unità indifferenziata, universale massa continentale compatta, l’Asia come suo opposto, per gli altipiani e le grandi valli irrigate da ampi fiumi che spezzano tale uniformità, e infine l’Europa, dove montagna e pianura non sono giustapposte, ma si compenetrano costantemente.

L’Europa, in questa considerazione filosofica, per Hegel «rivela l’unità di quella unità indifferenziata dell’Africa e dell’opposizione non mediata dell’Asia. Questi tre continenti sono, non separati, ma uniti dal Mediterraneo,  attorno al quale si stendono» 27. Analogamente, le differenze fondamentali dello spazio naturale vengono pensate secondo la scansione della compattezza indifferente e chiusa, informe dell’altopiano con le sue grandi steppe e pianure, della massa montana rotta da corsi di acqua che si scavano il passaggio verso il mare nella transizione della pianura fluviale, mentre il terzo elemento è la zona costiera, la terra che è a contatto con il mare.

Nella comprensione concettuale (necessaria) delle tre differenze fondamentali dal punto di vista della terra, i corsi di acqua giocano un ruolo fondamentale. Nella terra abitata, lo spazio, la nostra prima intuizione dell’esteriorità che corrisponde alla categoria della quantità 28, non vale più unicamente come giustapposizione indifferente ed estrinseca, ma è ambiente, la mera esteriorità quantitativa viene subordinata a rapporti vitali più complessi: «il sussistere in modo reciprocamente estrinseco della spazialità non ha alcuna verità per  l’anima» 29. La fertilità del terreno porta allo sviluppo dell’agricoltura e quindi alla regolamentazione del ciclo di soddisfacimento dei bisogni primari su ciclici tempi stagionali, la sedentarietà e il possesso prolungato causano il sorgere dei diritti sociali (proprietà, diritto, classi), rapporti collettivi che unificano esistenze che prima erano nomadi o meramente singole. In questo schema geopolitico dell’avanzare della cultura e della civiltà dall’altipiano interno al mare, l’acqua, per Hegel, ha dunque sempre il valore di ciò che unisce, mai di ciò che separa:

in tempi recenti, in cui si è voluto sostenere che gli stati debbono essere necessariamente divisi da elementi naturali, ci si è abituati a considerare l’acqua come il principio separatore. Contro questa opinione è invece di importanza essenziale il dire che nulla riunisce quanto l’acqua, chè i paesi di cultura non sono altro che bacini fluviali. L’acqua è infatti ciò che congiunge; sono i monti che separano. Quando i paesi sono separati da monti, lo sono maggiormente che quando son divisi da un fiume o persino dal mare 30.

Hegel si riferisce probabilmente al ruolo del Reno e dell’Elba durante le campagne napoleoniche in Germania nel primo decennio dell’800: un «falso principio » dei Francesi far valere che i fiumi siano confini naturali, come nel caso della Confederazione del Reno (Rheinbund) seguita all’abolizione del Sacro Romano Impero (1806), da cui erano escluse Prussia ed Austria. Ma mi piace pensare che per una filosofia hegeliana degli spazi naturali e umani  egli fosse portato a sottolineare la comunicazione di popoli, costumi e caratteri attraverso le vie di acqua anche perché attento a registrare un nuovo fenomeno del suo tempo: il flusso turistico che venne a svilupparsi sul Reno dopo la sconfitta di Napoleone del 1815, in quella Confederazione germanica (Deutscher Bund) di cui facevano di nuovo parte Regno di Prussia e Impero austriaco, con l’introduzione della navigazione a vapore nel 1817 (da Bonn fino a Coblenza) e nel 1827 (fino a Magonza) grazie alla Compagnia prussiano-renana di battelli a vapore. 31

Può essere interessante notare come anche oggi, pur in un panorama storico profondamente mutato, l’approccio di Hegel conservi il suo valore: basti pensare a come un sociologo come Franco Cassano guarda all’Adriatico, quando, tra tracce passate di guerre recenti e proiezioni di future integrazioni comunitarie, scrive che attraversarlo:

significa avvicinare popoli dello stesso continente, completare l’Europa, ma anche cambiarla mutando l’equilibrio delle sue voci […] l’Adriatico è un invito a fare un salto, un salto possibile e non metafisico, un invito a guardare lontano, ma non troppo. L’Adriatico non chiede di essere angeli, ma solo gabbiani 32.

Nell’ottica di Hegel, dunque, non tanto la corrispondenza tra terra aspra e composita, stretta tra mare e altipiano, e i popoli e le lingue diverse, sarebbero oggetto di discorso filosofico, quanto il contatto tra terra e mare, l’aspetto della comunicazione con il mare e i modi in cui la costa sviluppa le sue relazioni con esso, attraverso i commerci e la navigazione, come poi riprenderà Carl Schmitt nel suo Land und Meer, sempre in termini di reinterpretazione della storia universale, attraverso però il conflitto intrinseco, nella rivoluzione spaziale globale scaturita dalla scoperta del nuovo mondo, tra potenze di terra e di mare 33. La zona costiera sembra invece unificare per Hegel la saldezza dell’aspetto continentale, del legame con la terra che fissa l’uomo al suolo, restringendone la libertà nel complesso dei rapporti di proprietà, lavoro, bisogno, e l’aspetto del superamento del limite.

Scrive Hegel che il ‘senso’ del mare come di qualcosa che porti oltre la limitatezza della terra manca all’Asia, nonostante che la Cina confini con il mare, per tali popoli «il mare è solo il cessare della terra». Il condizionamento della natura sulla vita dei popoli che si affacciano sul Mediterraneo risveglia invece il coraggio e il rischio, la cui anticipazione e decisione di correrlo svincolano l’uomo dalla catena di rapporti con la cose, creando uno scarto interiore che dà all’individuo la autocoscienza di una maggiore libertà. Chi cerca il guadagno, chi lavora per soddisfare i bisogni usando come mezzo il mare e non la terra si mette esistenzialmente in gioco, in modo radicale, accettando di mettere a rischio vita e ricchezze, e come tale conquista un maggiore senso di autonomia e indipendenza del volere.

Il coraggio poi in questo caso sarebbe unito con l’astuzia. In una bella pagina, che riscrive filosoficamente la tipologia poetica di ogni Odìsseo e del suo navigare, come istanza di compenetrazione fra la solidità del suolo e la cedevolezza del fluido, Hegel così si esprime:

Il coraggio di fronte al mare deve quindi essere insieme astuzia, perché ha a che fare con ciò che è astuto, con l’elemento più malsicuro e mendace. Questo infinito piano è assolutamente morbido, non resiste affatto ad alcuna pressione, neanche al soffio: ha l’aria infinitamente innocente, remissiva, amabile, carezzevole, ed è appunto questa cedevolezza che cambia il mare nel più pericoloso e formidabile elemento. A tale insidia e violenza l’uomo […] contrappone solo un semplice pezzo di legno, in cui sale, affidandosi soltanto al suo coraggio e alla sua presenza di spirito; e così passa da ciò che è saldo a qualcosa che non offre punto d’appoggio, conducendo con sé il proprio suolo artificiale. La nave, questo cigno del mare, che con agili e rotondi movimenti solca il piano delle onde o vi traccia cerchi, è uno strumento la cui invenzione fa il più grande onore tanto all’arditezza quanto all’intelligenza dell’uomo 34.

In conclusione, perché il mito di Trieste, come si auspica, continui a vivere non solo di luce riflessa, forse non ci si dovrebbe attardare sul pluralismo culturale asburgico, che è storia remota, ma individuare l’aspetto essenziale, e non transeunte o accidentale, di ciò che ha avuto in quel periodo la possibilità di svilupparsi ed esprimersi, quello che Hegel chiamerebbe l’in sé, la dynamis o potenzialità “costiera” della vita di Trieste. Forse, dopo tutto, basterebbere leggere con altre categorie il nesso tra conformazione geografica e fisionomia culturale, e invece di scrivere di equilibrismi fra altipiano e mare, di strettoie fra frontiere naturali e artificiali, di etnie e lingue giustapposte, pensare in termini di innovazione, arditezza e intelligenza, di comunicazione, cultura e commercio, al mare non come al cessare della terra, ma come al superamento del limite: spazio di unione, contatto, scambio. L’opposizione dialettica tra fissità al suolo, saldezza continentale, e mobilità delle acque, imprevedibilità e accidentalità del rischio, tra agricoltura e navigazione, nella filosofia degli  spazi naturali e umani di Hegel, può offrirci le condizioni di intelligibilità di una Trieste (in teoria) come città potenzialmente capace di integrare, in una medesima esperienza più avanzata, le differenze delle culture di terra e di mare e in questo sta, a mio parere, la sua possibile identità, la sua riducibile differenza “insulare”.

17 Cfr. HEGEL, Enciclopedia, II, cit., p. 80; si veda anche §246,Agg, p. 86.

18 Cfr. HEGEL, Enciclopedia, II, cit., §247, p. 90.

19 HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, I, trad. it. G. Calogero e C. Fatta, Firenze, La Nuova Italia, 1978, p. 209.

20 Cfr. R. M. dAINOTTO, Europe (in Theory), Durham and London, Duke Universty Press, 2007, p. 168, che, senza darne le ragioni, ricostruisce «la trama tracciata dalla vera storia» per Hegel come quella di un «avanzamento climatologico dello spirito da un ‘torrido’ sud ad un nord ‘temperato’».

21 Il passaggio da un rapporto di desiderio (e distruzione egoistica, consumo) con l’oggetto ad un rapporto formativo, il superamento della propria soggettività e dell’oggetto esterno come elevazione, l’esperienza dell’essere-altro come altro Io, che porta al riconoscimento di un essenza comune di tutti gli uomini, sono i temi della fenomenologia dell’autocoscienza (cfr. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, III, Filosofia dello spirito, trad. it. A. Bosi, UTET, Torino, 2005, §§428-430, pp. 270-272).

22 HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., pp. 210-11.

23 Cfr. I. KANT, “Determinazione del concetto di razza umana” [1785], in: Id., Scritti di storia, politica e diritto, [a cura di F. Gonnelli],  Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 87-102.

24 Hegel, Enciclopedia, III, cit., § 393, Aggiunta, p. 124.

25 Quanto segue riassume il contenuto dei §§ 79-82 di HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, I, La Scienza della logica, trad. it. V. Verra, UTET, Torino, 1981, pp. 246-256.

26 HEGEL, Enciclopedia, I, cit., § 81, p. 250.

27 Ci pare interessante notare come le più recenti considerazioni geopolitiche sull’Adriatico, che lo ricollocano nel quadro della fine delle ideologie e dei blocchi contrapposti e alla luce della tesi che la politica mondiale si stia ristrutturando su assi culturali, con la convergenza di paesi affini per civiltà, osservino che esso è l’unico mare del Mediterraneo «dove non semplicemente due, come altrove accade, ma ben tre delle nove civiltà individuate da Huntigton entrano in contatto: l’occidentale, dalla parte italiana e dalla parte opposta sino all’altezza delle bocche di Cattaro;  ’ortodossa, lungo la costa montenegrina; l’islamica, in Albania. A soltanto un altro mare al mondo, il Mar del Giappone, che separa quest’ultimo dalla Corea e dai territori dell’ex Unione Sovietica, si interpone tra altri tre diversi insiemi culturali,  ’ortodosso, il sinnico e il giapponese. Ma nemmeno là il diaframma liquido è così uniforme e sottile come in Adriatico» (F. FARINELLI, L’eccezione adriatica, in “Lettera internazionale”, cit., p. 5).

28 Cfr. HEGEL, Enciclopedia, II, cit., §254, Aggiunta, p. 106.

29 HEGEL, II, cit., § 350, Aggiunta, p. 448.

30 HEGEL, Lezioni di filosofia della storia, cit., pp. 216-7.

31 Nel 1881, nella sua prefazione a una guida turistica del Danubio, per una filosofia hegeliana degli spazi naturali e umani da Passau a Linz, Ferdinand Zoehrer celebra il fiume del futuro, via commerciale più importante fra Oriente e Occidente le cui onde «trasportano continuamente la cultura verso est» (Cfr. Signori, si parte! Come viaggiavamo nella Mitteleuropa 1815-1915, a cura di M. bRESSAN, Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna, 2011, p. 161). A Trieste, le linee di navigazione  vapore del LLoyd Austriaco verso l’Oriente, sin dalla prima metà dell’800, verso Istria e Dalmazia (1845), e poi verso le Americhe, sono tutti esempi per cui Hegel fornisce un quadro teorico di riferimento quando sottolinea che fra America ed Europa il contatto è più facile di quanto sia nell’interno dell’Asia o dell’America. 32 Cfr. F. ¢ASSANO, Come I gabbiani. L’Adriatico per completare l’Europa, in: “Lettera internazionale”,cit., p. 11.

33 Cfr. C. sCHMITT, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo [1942], trad. it. G. Gurisatti. Con un saggio di F. Volpi, Adelphi, 2002.

34 HEGEL, Lezioni di filosofia della storia, cit., pp. 219-20.

BIBLIOGRAFIA

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HEGEL G.fi.F., Vorlesungen über die Logik, Berlin 1831. Nachgeschrieben

von Karl Hegel (a cura di U. rAMEIL),

 

 

Geografia

 

La geografia (dal latino geographia, a sua volta dal greco antico: γῆ, “terra” e γραφία, “descrizione, scrittura”) è la scienza che ha per oggetto lo studio, la descrizione e la rappresentazione della Terra nella configurazione della sua superficie e nella estensione e distribuzione dei fenomeni fisici, biologici, umani che la interessano e che, interagendo tra loro, ne modificano continuamente l’aspetto.

La geografia è molto più che la cartografia, cioè lo studio delle mappe, o la topografia. Rispetto ad esse, infatti, la geografia aggiunge l’indagine della dinamica e delle cause della posizione della Terra nello spazio, dei fenomeni che avvengono su di essa e delle sue caratteristiche.

Tra i popoli dell’area circum-mediterranea, i primi ad elaborare un vero concetto di geografia sono stati i Greci, dai quali deriva appunto il nome in uso in Occidente. Eratostene (al quale si deve anche l’introduzione del nome) introdusse l’uso delle coordinate sferiche (latitudine e longitudine) per individuare le località geografiche. Importanti progressi furono poi compiuti da Ipparco di Nicea, che in particolare introdusse l’uso di metodi astronomici per il calcolo delle longitudini.

Il primo geografo romano di cui abbiamo notizie fu Pomponio Mela che scrisse il breve trattato Chorogràphia; poi il greco Strabone (vissuto fra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C.), compose un’imponente Storia (pervenutaci solo in pochi frammenti) ed una non meno importante e completa Geografia, che invece ci è giunta in buone condizioni. L’opera di Strabone è tuttavia qualitativa e non usa le tecniche di geografia matematica che erano state introdotte da Eratostene e Ipparco.

Lo studio della geografia matematica fu ripreso nel II secolo d.C. da Marino di Tiro e, soprattutto, da Claudio Tolomeo, la cui Geografia non solo riporta le coordinate sferiche di 8000 diverse località, ma espone anche i metodi di proiezione usati nella cartografia.

Il Medioevo, come con altre scienze, dovette prima difendere (nelle biblioteche monastiche) quanto avevano prodotto gli antichi dalle distruzioni operate dai barbari, poi ricominciare a produrre opere nuove, che hanno per noi oggi l’aspetto di cataloghi, o carte molto approssimate e addirittura spesso inventate. Spiccano però le mappe della cartografia nautica, per la loro precisione ed accuratezza (spesso corredate da testi contenuti in un libro portolano), soprattutto quelle realizzate nell’Europa meridionale. Anche i geografi Arabi crearono opere di estrema qualità, come per esempio il “Libro del Re Ruggiero”, di Idrisi (del XII secolo), e altri autori ancora come Ibn Battuta e Ibn Khaldun.

Con le grandi esplorazioni terrestri dirette in Asia (Il Milione di Marco Polo, nel XIII secolo, ne è un esempio affascinante) e quelle marittime, o ancora verso l’Asia o verso le Americhe, l’uomo “riscoprì” la passione per la geografia, e il bisogno di uno studio più accurato. Nella seconda metà del XV secolo la riscoperta in Europa dell’opera geografica di Tolomeo fu essenziale per la rinascita della cartografia. Sono infatti di quell’epoca i primi atlanti europei ottenuti con l’uso dei metodi della cartografia matematica. Al XVII secolo risalgono i tentativi di Varenio di sistemare la scienza geografica.

Nel Settecento si cominciò a intendere come scopo principale della geografia la raccolta di dati sulle caratteristiche fisiche, sociali, economiche, storiche di ogni paese.

Nell’Ottocento nacque la cosiddetta geografia moderna, per merito (soprattutto) dei tedeschi Alexander von Humboldt (che ne fondò l’indirizzo naturalistico) e Carl Ritter (che ne fondò l’indirizzo antropico-storico): con il passare del tempo questi due indirizzi si fusero poi in uno solo. Presto divenne una disciplina universitaria, a cominciare da Parigi e Berlino.

Negli ultimi due secoli, la quantità di conoscenze e il numero di strumenti disponibili sono aumentati molto. Ci sono forti legami tra la geografia e le scienze di geologia e botanica, come anche economia, sociologia e demografia. Nel XX secolo, in occidente, la disciplina geografica venne esaminata in quattro diverse fasi: determinismo geografico, geografia regionale, rivoluzione quantitativa e geografia critica.

La “rivoluzione quantitativa” della geografia si diffonde a partire dagli anni Sessanta, grazie anche allo sviluppo delle tecniche statistiche e matematiche. Questa “rivoluzione” porta a un rinnovamento della geografia, infatti si inserisce il termine di “nuova geografia” poiché si spera di racchiudere ogni fatto e avvenimento geografico entro una misurazione espressa quantitativamente e perciò la possibilità di capire (attraverso algoritmi matematici e strumentazioni computerizzate), le relazioni tra fenomeni molto diversi che l’osservazione di una singola persona o studioso non avrebbe potuto indicare con perfetta precisione. Questa nuova concezione della geografia, nella seconda metà degli anni Settanta viene quasi rigettata perché si sostiene che i dati raccolti non sono sempre affidabili e questo può portare a conclusioni contrastanti.

 

Il pensiero anarchico

A cura di Silvia Ferbri

 “Vuoi rendere impossibile per chiunque opprimere un suo simile? Allora, assicurati che nessuno possa possedere il potere” (M. Bakunin)

È possibile accostare il pensiero anarchico alla filosofia? Se “filosofia” significa amore per il “sapere”, ricerca mai conclusa del “sapere”, del “conoscere”, del “comprendere”, forse non sono molte le correnti filosofiche dall’età moderna in poi, pur così nominate, a poter rivendicare per sé questa qualifica in senso pieno. La maggior parte di esse si limita infatti ad offrire una specifica visione del mondo o dell’uomo, spesso dettagliata e argomentata, il più delle volte considerata un punto di arrivo. Non è anche l’anarchia una particolare dottrina politica, legata a un determinato momento storico? Se approfondiamo un poco la conoscenza di questo pensiero, ci renderemo conto che una definizione più corretta può essere invece “dottrina etico-politica” (molti pensatori anarchici si sono occupati di problemi etici, basti l’esempio di Kropotkin), e se andiamo ancora avanti nella nostra esplorazione, alla fine arriveremo a concludere che può essere ancora più opportuno riconoscerla come “filosofia etico-politica”, e attribuirle quindi lo spazio a cui ha pieno diritto all’interno del pensiero filosofico in senso lato. Potremmo anche dire, rifacendoci ad Aristotele, che si tratta di una “filosofia pratica”, in quanto caratterizzata dall’azione, sia come scopo che come oggetto.

Ma per rispondere con maggiore certezza a simili domande e affrontare con la massima apertura e disponibilità questa ricerca, occorre innanzitutto abbandonare i vari pregiudizi, chiarirci il più possibile le idee, e cioè partire dall’inizio. Il termine “anarchia” è infatti ancora un po’ troppo avvolto nella confusione. Muoviamo allora dalle origini, dal significato della parola “anarchia”.

Il termine “an-archia” deriva dal greco “αναρχία”, parola composta dalla radice α-(a-), senza, e dalla radice αρχ- (arch), governo, dominio, e viene solitamente tradotto con le espressioni “senza-comando”, “senza-potere”, “senza-autorità”. “Archi” (archi), primo termine di numerosi composti, deriva dal verbo “archein”, archein, comandare. Così “archia”, archia, da “archos”, archos, “arca”, nelle parole composte dotte significa “governo”, “dominio” (mon-archia, olig-archia) e “an-archos”, an-archos, può essere pertanto tradotto “senza un superiore”. Ma si considera anche, come secondo termine, “arch ”, arché, che unito alla radice α- diviene “an-arch”, an-arché.  “Arché” però, prima ancora di “comando”, “potere”, “autorità”, significa “principio”, “origine e fine di tutte le cose”, perciò “anarchia” può anche voler dire “senza principio”, “senza divinità”, “senza dogmi”.

Una delle definizioni del pensiero anarchico (in forma sintetica) è infatti “né Dio né padrone”. Sébastien Faure disse: “Chiunque neghi l’autorità e combatta contro di essa è un anarchico”. Definizione molto semplice, e per questo incompleta e alla fine fuorviante. Il pensiero anarchico è in realtà un pensiero complesso, policromo, talvolta contraddittorio. Semplificarlo non aiuta a conoscerlo e a liberarsi dalla confusione cui accennavamo prima. E’ un pensiero che ha una sua storia peculiare e un proprio originale nucleo teorico-concettuale, che lo distingue da altre dottrine politiche, come il socialismo o il liberalismo, e che lo rende in un certo senso più ampio di queste, in quanto tende ad occuparsi dell’intera vita umana e non soltanto della gestione politica o di quella economica. Ma ciò che soprattutto lo distingue dalle altre dottrine politiche, è che per l’anarchismo non esiste una “umanità astratta” (di cui invece trattano tanto il liberalismo quanto il socialismo di stato e il comunismo autoritario), ma singoli uomini concreti. Il pensiero anarchico pertanto, diversamente dalle altre dottrine politiche, non ritiene di aver compreso per via filosofica la “natura” dell’uomo, e non si considera legittimato a prescrivere un codice morale e un’etica di comportamento che implichino diritti e doveri uguali per tutti gli uomini. Nell’anarchia è di fondamentale importanza l’autodeterminazione dell’individuo, di ogni singolo individuo, che è unico e diverso da tutti gli altri, e il suo totale e pieno diritto di scelta, di consenso o di rifiuto. Potremmo provare a definirla quindi una filosofia della libertà. Ma anche così otteniamo una definizione in un certo senso riduttiva e vaga al tempo stesso. Quello anarchico non è un pensiero che rimane tale: è un pensiero legato strettamente all’azione, dando immediata origine all’”anarchismo”. Precisando meglio, l’anarchismo non deriva da riflessioni astratte di qualche intellettuale o filosofo, ma dalla lotta diretta dei lavoratori contro il capitalismo, dalla ribellione degli oppressi contro i loro oppressori, dai bisogni e dalle necessità di questi uomini e dalle loro aspirazioni di libertà ed eguaglianza. I pensatori anarchici, quindi, come Bakunin o Kropotkin, non inventarono l’idea dell’anarchismo, semplicemente la scoprirono nelle masse oppresse e sfruttate e la rafforzarono, la chiarirono e la divulgarono. E’ l’azione pertanto che dà origine al pensiero. Il fine ultimo dell’anarchismo è infatti quello di un cambiamento sociale. L’anarchia critica la società esistente, di conseguenza non respinge il potere terreno in base a considerazioni prettamente filosofiche o religiose (come i mistici o gli stoici, ad esempio).

Per inciso, si può, senza eccedere in fantasia, tanto per quanto riguarda il pensiero anarchico come per altri pensieri “moderni”, fare accostamenti in alcuni punti con correnti filosofiche più antiche, e in questo caso quindi rilevare alcune somiglianze tra il pensiero anarchico e lo stesso stoicismo, ad esempio, per la sua visione cosmopolita,  o ancora meglio lo scetticismo, per il suo rifiuto di ogni dogma, o l’epicureismo, per la sua concezione materialistica e atomistica, per il suo contatto con la realtà concreta, per la scelta della situazione, delle persone e dei fatti che meglio si armonizzano con la costituzione intellettuale dell’individuo, per l’esclusione delle sterili dispute sulle questioni “supreme”, per la pluralità delle ipotesi, per la vita piacevole accompagnata però dalla rinuncia “al più”, quindi la semplicità e non lo spreco, per il suo rifiuto dell’attività politica fine a se stessa, o, ancora, si può accostare il pensiero e il sentire anarchico ad alcuni aspetti del libertinismo, per il suo richiamo alla dignità e all’autonomia della ragione dell’uomo, per il suo volersi emancipare da ogni forma di servitù intellettuale e per la sua ribellione morale alla legge e alla tradizione invecchiata, a tutto ciò che non permette all’uomo di liberare la sua creatività, quindi per quel suo spirito innovativo, scanzonato e ribelle. Portiamo dentro di noi in vari modi l’intera storia del pensiero che ci ha preceduti, che spesso riemerge in forme nuove.

Riprendendo il filo del discorso, l’anarchia, come abbiamo osservato, non sogna un mondo ultraterreno. Si occupa di questo, dove ora ci troviamo a vivere. Non si esaurisce in desideri o fughe individuali. Né si è mai considerata un pensiero elitario. E’ un pensiero concreto e radicato nel mondo che lo circonda, aperto a tutti quanti gli uomini. Esistono infatti sia il pensiero anarchico che il movimento anarchico, nelle sue varie fasi, forme ed espressioni. E sono qualcosa di inscindibile. Uno non può esistere senza l’altro. L’anarchia in senso astratto non ha senso per gli anarchici, ciò che essi desiderano è realizzarla concretamente, qui e ora. Le idee da sole non significano nulla: vanno messe in pratica nella vita di tutti i giorni, in quella pubblica come in quella privata (per gli anarchici non esiste questa distinzione, così come non esiste distinzione tra i mezzi e il fine che si vuole raggiungere; non si può voler ottenere la libertà, ad esempio, restringendola o negandola), tentando di realizzare in ogni gesto, singolarmente e in comunione con gli altri, quel mondo più umano, più libero, più giusto, che è al centro dell’ideale anarchico. A questo punto è necessario osservare come invece nell’immaginario della maggioranza degli individui il termine “anarchia” venga associato al caos, al disordine, alla violenza. O all’individualismo e all’egoismo. Oppure, anche riconoscendola come dottrina socio-politica, si tende ad accostarla al “nichilismo” o al “terrorismo”. Tutto questo avviene perché tanto la storia del pensiero anarchico quanto quella del suo movimento sono ben poco conosciute e sono sempre state tenute in ombra. Non è facile così riuscire a capire che anarchia non significa affatto disordine: caso mai il suo contrario, nel senso che gli anarchici tentano di ritrovare, di ricostituire quello che per loro è l’”ordine naturale” delle cose e della vita, deformato e stravolto nel tempo dalle varie forme di sopraffazione, di dominio, di sfruttamento e di potere. Come pensare che uomini come Tolstoj e Godwin, Thoreau e Kropotkin, le cui teorie sociali sono state definite anarchiche, volessero portare nient’altro che il caos, il disordine, la violenza nella società? Altrettanto difficile è in genere comprendere come il rispetto per la libertà dell’individuo, del singolo, visto spesso, in modo errato, unicamente come esaltazione del singolo, come puro egoismo, possa unirsi alla solidarietà nei confronti degli altri, in particolare nei confronti degli ultimi, degli emarginati, degli oppressi.

L’immagine distorta dell’idea anarchica ha diverse cause. Una può forse essere imputata agli stessi anarchici o a una parte di loro, e cioè a quella propaganda che poneva principalmente l’accento sugli aspetti distruttivi della dottrina. Ma non è mancata in realtà neppure la propaganda contraria, quella propositiva e costruttiva, sostenuta costantemente, tra l’altro, da concreti esempi di vita. La ragione principale, invece, parrebbe essere la versione spesso faziosa, in ogni caso superficiale, fornita da sempre dalla storiografia, tanto di destra quanto di sinistra (con grosse responsabilità da parte dei marxisti, a cominciare da Marx in persona, che qualificò l’anarchismo come una ideologia piccolo borghese, espressione immatura, disorganica e unicamente individualistica di ceti sociali in crisi per la disgregazione del mondo contadino e artigiano, e non ancora inseriti nel processo di produzione capitalistico, senza considerare lo scontro di potere all’interno della Prima Internazionale dei Lavoratori). Non di certo ultima, un’altra ragione è il fatto in sé evidente che il pensiero anarchico non piace a chi è al potere (o a chi il potere lo ama o lo condivide): anarchia e potere sono nemici da sempre. (Così come anarchia e gerarchia, anarchia e autoritarismo, anarchia e verticismo). Gli anarchici non vogliono conquistare il potere (neppure in “nome del popolo”), vogliono eliminarlo. In altre parole si può dire che vogliono frantumarlo  e ridistribuirlo in migliaia e migliaia di piccole unità, tante quanti sono gli esseri umani. I governi perciò, di qualsiasi colore, hanno sempre dato la caccia agli anarchici, hanno cercato di metterli a tacere, hanno sempre tentato di accusarli di ogni atto di terrorismo o violenza e di ogni azione nei confronti della ricchezza e della proprietà privata, così come nei confronti del capitalismo di stato e della sua burocrazia tirannica, tutte cose che gli anarchici desiderano abolire e che i governi e le loro polizie intendono invece difendere ad ogni costo. L’ineguale distribuzione della ricchezza e la proprietà privata, così come il potere di pochi sulla vita dei molti, sono alla base stessa dell’esistenza dei governi e della polizia, secondo l’analisi anarchica ma non solo. Nei nostri tribunali si dovrebbe amministrare la giustizia. Ma come si può considerare giusto, equo, il mondo in cui viviamo? Questo è quanto gli anarchici si chiedono e mettono da sempre in discussione.

Quali sono dunque i caratteri fondamentali del pensiero anarchico? Quali i suoi valori di riferimento? Prima di tutto: quando hanno cominciato ad essere effettivamente utilizzate le parole “anarchia”, “anarchismo”, “anarchico”?

Durante la Rivoluzione francese il girondino Brissot definiva anarchici il movimento degli Enragés, e nel 1793 dava questa definizione dell’”anarchia”: “Leggi non tradotte in effetto, autorità prive di forza e disprezzate, il delitto impunito, la proprietà minacciata, la sicurezza dell’individuo violata, la moralità del popolo corrotta, nessuna costituzione, nessun governo, nessuna giustizia: queste  le caratteristiche dell’anarchia.” Definizione quindi del tutto negativa, rafforzata in seguito dal Direttorio, che sarebbe sceso addirittura alle ingiurie: “Per «anarchici» il Direttorio intende quegli uomini carichi di delitti, macchiati di sangue, impinguati dalle ruberie, nemici di tutte le leggi che non sono state fatte da loro, di tutti i governi in cui loro non governano...”

Possiamo invece attribuire una prima riconoscibile e coerente formulazione del pensiero anarchico all’illuminista inglese William Godwin (1756-1836), quando venne data alle stampe nel 1793 la sua opera Enquiry Concerning Political Justice (che si basa su di un assunto di matrice liberal-libertaria, già sviluppato tra gli altri da Thomas Paine, John Locke e Thomas Jefferson, e cioè la contrapposizione tra la società, considerata naturale e buona, e il governo, lo stato, ritenuto artificioso e malvagio, nato in un’epoca di immaturità della ragione e che si basa unicamente sulla forza, al di là delle varie giustificazioni mitiche sulle quali pretende di reggersi) mentre il primo ad adottare orgogliosamente per sé il termine “anarchico” fu il pensatore francese socialista Pierre Joseph Proudhon, nel suo Che cos’è la proprietà? che uscì nel 1840. “Quale dev’essere la forma del governo nel futuro? Sento alcuni dei miei lettori rispondere: «Ma via, come puoi fare una domanda simile? Tu sei un repubblicano.» Un repubblicano! Si, ma questa parola non dice ancora nulla di preciso. Res publica significa la cosa pubblica; chiunque si interessi alla condotta della cosa pubblica, sotto qualsiasi forma di governo, può dunque chiamarsi repubblicano. Persino i re sono repubblicani. «Ma tu sei un democratico.» Neanche per sogno….«Che cosa sei allora?» Sono un anarchico!”. Proudhon, convinto che nella società operi una legge naturale d’equilibrio, ritenne l’autorità nemica  e non amica dell’ordine, e ribaltò così le accuse rivolte agli anarchici, rivolgendole a sua volta ai fautori del principio autoritario.

Possiamo citare come valori di riferimento quelli emersi dalla Rivoluzione francese: libertà, eguaglianza, solidarietà. (Valori che non hanno poi trovato, a seguito di quella lunga e sanguinosa vicenda, la loro vera e piena applicazione e realizzazione, essendo si in questo caso espressione dell’emergente borghesia, o almeno essa se ne impadronì e li adoperò per i propri interessi).

Anche il liberalismo e il socialismo fecero propri questi valori, ma l’interpretazione anarchica è profondamente diversa: se per il socialismo il valore principale di riferimento è l’uguaglianza e per il liberalismo la libertà, per l’anarchismo tali valori sono del tutto inscindibili e non possono che darsi contemporaneamente. Non vi può essere libertà senza uguaglianza né uguaglianza senza libertà. E la solidarietà verso gli oppressi è sempre presente. L’anarchismo quindi fa riferimento a questi valori, ma in un modo ben preciso, rigoroso e totale. Ciò che è importante rilevare è che l’affermazione anarchica della libertà, individuale e sociale, è radicale e completa, e si unisce all’altrettanto radicale critica nei confronti del principio di autorità, nei confronti del potere e del dominio in quanto tale.

L’anarchismo ne ha combattuto perciò ogni manifestazione storica, in particolare la forma politica assunta dal dominio nella società moderna: lo stato. La critica anarchica non nasce isolata: pensiamo alle svariate espressioni di lotta al potere, tanto religioso che politico, tanto culturale che economico- sociale che percorrono l’era moderna, fino a giungere alla decapitazione di un re sulla piazza della Rivoluzione a Parigi. Ma la critica anarchica appare l’approdo ultimo e quello più radicale e completo, che non accetterà mai compromessi e continuerà a negare ogni tipo di società scissa in governanti e governati. Continuerà a criticare e combattere l’autoritarismo in ogni sua forma, le gerarchie, le istituzioni oppressive nemiche dell’autodeterminazione e della libertà, le disuguaglianze e le ingiustizie sociali, quindi la proprietà privata, l’appropriazione della ricchezza, lo sfruttamento del lavoro altrui, e in tempi più recenti lo sfruttamento delle risorse naturali e ambientali, lo sfruttamento animale, l’inquinamento e lo spreco. Gli anarchici allora, ci si può chiedere, sono contro o a favore del progresso? La risposta è semplice: l’anarchico non concepisce il progresso come continuo e sfrenato aumento della ricchezza materiale e del consumo, dello sfruttamento tanto del lavoro quanto delle risorse, come distruzione dell’ambiente, come incremento della complessità della vita, ma piuttosto come moralizzazione della società attraverso l’abolizione dell’autorità, dell’ineguaglianza, dello sfruttamento economico e ambientale, e, insieme, come offerta ad ogni singolo essere umano, e a tutti quanti gli uomini, delle stesse possibilità di sviluppo individuale in termini di benessere, cultura, qualità della vita, senza privilegi o discriminazioni di sorta (economiche, etniche, razziali, di genere…). L’anarchismo critica inoltre le barriere nazionali e le disuguaglianze tra i popoli, e il concetto di patria, in nome della quale troppi uomini hanno perduto inutilmente la vita. Non le guerre tra i popoli, tra gli oppressi, quindi, ma un’unica guerra agli oppressori, ai potenti, che per i loro interessi hanno sempre sacrificato la vita dei giovani, dei lavoratori, dei proletari.

A fianco della critica e della lotta, il sogno e il progetto di una società di liberi ed uguali. Una società armonica, che ritrovi il suo proprio equilibrio e quello con la natura intorno a sé.

Come deve essere composta, organizzata la società secondo il pensiero anarchico?

Innanzitutto, nessuna divisione tra governanti e governati, come abbiamo visto.

L’amministrazione degli affari sociali ed economici sarà affidata a piccoli gruppi locali, libere associazioni tra individui, senza regie dall’alto, senza padroni o capi di alcun genere. Quindi federazioni di comuni e di lavoratori, coordinate tra loro in modo circolare e orizzontale, fondate sull’autogestione e la cooperazione, una rete organica di interessi che si equilibrano a vicenda, basata sulla naturale tendenza degli uomini ad aiutarsi reciprocamente, senza necessità alcuna di schemi artificiali di coercizione (mutualismo ed associazionismo, ad esempio, fanno parte della storia del movimento anarchico). La produzione sarà il più possibile locale e differenziata a seconda del terreno, l’industrializzazione non sarà sfrenata e massiccia, avrà grande importanza l’artigianato, il lavoro concreto, bello, creativo, gli oggetti fatti per durare e non “usa e getta” come è nella logica del consumismo. L’impatto ambientale dovrà essere il più basso possibile. L’anarchia non è una forma estrema di democrazia: se nella democrazia sovrano è (teoricamente) il popolo, per gli anarchici “sovrano” deve essere l’individuo, che non ha alcun bisogno di delegare ad altri la gestione dei suoi interessi né di essere “rappresentato”, e che ha pieno diritto di scelta. Inoltre, il pensiero anarchico nega il diritto di qualsiasi maggioranza di imporre la sua volontà a una minoranza. Nega quindi valore in sé alle leggi degli uomini. “Qualsiasi legge deve comparire prima di tutto davanti al tribunale della nostra coscienza.” disse Elisée Reclus, geografo anarchico francese protagonista della Comune di Parigi. “V’è un solo potere”, scrisse Godwin, “al quale posso prestare un’obbedienza convinta: la decisione della mia intelligenza, il comando della mia coscienza.”. L’anarchismo rifiuta poi, oltre a qualsiasi forma di monopolio dei mezzi di produzione e dei prodotti, così come del sapere, la divisione gerarchica del lavoro (intellettuale e manuale) e qualsiasi dicotomia e antagonismo tra città e campagna, tra mente e corpo. Né può l’anarchismo essere qualificato come “ideologia”, perché sempre aperto, mai dogmatico, contrario da sempre a qualsiasi astratta norma morale e a qualsiasi servitù del pensiero.

Questo sogno e questo progetto sono stati descritti e rincorsi in modi diversi: l’anarchismo non possiede una sola anima, al suo interno hanno sempre convissuto approcci differenti, tra cui quello rivoluzionario tout court, che considera legittimo il ricorso alla violenza per distruggere gli istituti del dominio, quello gradualista, basato principalmente sulla costruzione graduale e pacifica, quello educazionista o “pedagogico”, che mette al primo posto l’educazione del popolo, la diffusione di una cultura libertaria e il risveglio delle coscienze, anche se queste distinzioni sono in qualche modo arbitrarie e discutibili, un po’ perché i confini non sono così netti e poi perché l’anima più profonda è in realtà una sola, ed è l’amore per la libertà nella sua espressione più alta. Solo una autentica libertà in questa vita e in questo mondo può rendere felici gli uomini e in grado di sviluppare al meglio le loro qualità di esseri umani. A questo ideale di libertà (tutt’altro che egoistico) molti anarchici hanno dedicato o sacrificato la propria vita. Tutti questi modi, o correnti, rappresentano in ogni caso un progetto che in sé è sempre rivoluzionario. L’utopia anarchica, lungi dal rifugiarsi in un mondo fantastico, perduto in un remoto passato o in un ipotetico e improbabile futuro, è essenzialmente concreta, perché si fonda e muove da una approfondita critica dell’esistente, ed è l’esistente a dover essere capovolto e trasformato.

La rivoluzione, per gli anarchici, è da intendersi prima di tutto rivoluzione sociale, non meramente politica. E’ la rivoluzione del popolo. Ed è proprio per questo che ad ogni rivoluzione del popolo (che ne fosse promotore o partecipe con altre classi sociali) è sempre stato impedito di andare avanti oltre un certo punto, è per questo che ogni rivoluzione che voleva essere rivoluzione sociale oltre che politica è stata soffocata e tradita. Il potere e i privilegi (contro cui il popolo lottava) non dovevano scomparire, infatti, ma solo passare di mano. E la lotta del popolo è servita a questo, è stata strumentalizzata a questo scopo da chi di volta in volta ha assunto la regia della rivoluzione. La rabbia e la volontà di lotta e di cambiamento sociale espresse dal popolo sono state usate finché potevano essere utili, poi messe da parte, tradite o punite duramente quando non ve ne era più bisogno. Questa vicenda si è ripetuta più di una volta nella storia, con le varie differenze dovute al contesto, al luogo e al periodo, che si tratti della rivoluzione inglese, francese, messicana, russa, spagnola. E’ una storia poco conosciuta e compresa, e che solo gli anarchici hanno raccontato fino in fondo.

Per quanto riguarda l’uso della violenza, bisogna innanzitutto osservare che anarchia significa non-violenza, dal momento che significa non-imposizione dell’uomo sull’uomo, come sottolineava l’anarchico Errico Malatesta (1853-1932). La società alla quale tende l’anarchismo è infatti una società pacifica. Le differenze sono emerse nel momento di scegliere (a seconda anche delle circostanze e del momento storico contingente, ad esempio sotto una dittatura, o appunto nel corso di una rivoluzione) quali mezzi adoperare per raggiungere o avvicinarsi alla società desiderata, quindi ci sono stati coloro che hanno adottato l’uso individuale della violenza, altri invece un suo uso di massa, ma sempre come unica scelta possibile all’interno della realtà concreta e determinata in cui si sono trovati a dover agire. E la violenza da usare è sempre soltanto quella necessaria, niente di peggio o di più.

Per quanto riguarda invece l’educazione libertaria, si tratta di un approccio che mette al primo posto un rapporto paritario e non gerarchico tra l’adulto e il bambino e tra ogni educatore e i suoi allievi, e la possibilità offerta al bambino e ad ogni essere umano di realizzare completamente se stesso, di svilupparsi liberamente, senza imposizioni, costrizioni, premi, castighi. Quindi rifiuto dell’autorità, rispetto della libertà e delle propensioni individuali, progettualità autogestionaria, libertà di pensiero e di giudizio, “educazione integrale”, inserendo così l’educazione libertaria in una più ampia visione politica. Uno dei primi sostenitori dell’autonomia e dell’indipendenza del bambino fu proprio William Godwin, respingendo ogni tipo di coercizione nel processo educativo ed evidenziando la necessità di svincolare l’istruzione dal controllo dello stato, affinché l’istruzione non sia uno strumento del controllo sociale e un mezzo per rafforzare la visione e l’impostazione gerarchica e anti-libertaria della società. Temi analoghi li ritroviamo in Charles Fourier (1772-1837), secondo il quale nell’azione educativa occorre ridurre al minimo l’esercizio dell’autorità e permettere lo sviluppo di tutte le potenzialità della persona e in Max Stirner (1806-1865). Il concetto fourieriano di “educazione integrale” (un’educazione che comprenda in egual misura attività manuali ed intellettuali) verrà ripreso da molti pensatori anarchici, tra cui Pëtr Kropotkin (1842-1921) Altri anarchici che si sono interessati all’importanza dell’educazione libertaria sono stati gli italiani Errico Malatesta (1853-1932) e Camillo Berneri (1897-1937), vittima quest’ultimo come tanti altri della persecuzione da parte dello stalinismo nei confronti degli anarchici, in questo caso durante la rivoluzione spagnola del 1936. Gli esempi di scuole libertarie e antiautoritarie sono stati numerosi. La prima esperienza del genere è da attribuirsi a Lev Tolstoj (1828-1910), a Jasnaja Poljana tra il 1859 e il 1862, anno in cui la sua scuola verrà chiusa dalle autorità. Poi l’orfanotrofio francese di Cempuis diretto tra il 1880 e il 1894 da Paul Robin, esempio seguito da Sébastian Faure (1857-1942) con la sua scuola libertaria La Ruche (L’alveare), istituita fuori Parigi nel 1904, attiva fino al 1914, e poi ancora l’esperienza del libertario spagnolo Francisco Ferrer y Guardia (1859-1909) che fondò nel 1901 la sua Escuela Moderna a Barcellona, scuola laica e mista, con lo scopo di permettere ai ragazzi di diventare persone indipendenti, capaci di creare e vivere in una società libertaria (Ferrer verrà fatto fucilare dal governo spagnolo nel 1909), l’Université Nouvelle di Bruxelles fondata nel 1894 insieme ad altri dal geografo anarchico francese Elisée Reclus (1830-1905), che si terrà  a lungo in contatto con Ferrer, con il quale collaborerà per i suoi programmi educativi in particolare riguardo l’insegnamento della geografia (nel 1896 uscì un Manifesto europeo anarchico per la fondazione di scuole libertarie, tra i primi firmatari troviamo Reclus e Kropotkin), la scuola libera di Summerhill fondata nel 1921 da Alexander S.Neill (1883-1973) nel Suffolk, fino ad arrivare al movimento delle Free Schools negli anni successivi al 1960 negli Stati Uniti e in Europa, che si richiamavano ai principi di Tolstoj, Neill e Paul Goodman (basate su principi libertari quali la cooperazione, l’autogestione del progetto da parte di tutti i soggetti coinvolti, il rifiuto di un’organizzazione burocratica e gerarchica, l’assenza di un’autorità formale), poi alle Freie Schulen in Germania a partire dagli anni Settanta, e ai vari esperimenti di licei autogestiti in particolare in Francia fino al caso più recente di Bonaventure, sorta sempre in Francia nel 1993 nell’Ile d’Oleron, scuola per bambini dai tre ai dieci anni.

Per quanto riguarda l’”individualismo anarchico”, occorre dire che rispetto all’anarchismo che si è espresso in Europa nell’età contemporanea è una acquisizione abbastanza recente. Se fino agli anni Ottanta dell’Ottocento il termine “individualista” era adoperato in chiave polemica nei confronti di ideologie di derivazione liberale, in seguito tale significato si modifica, in particolare a causa delle trasformazioni della società, che diviene poco a poco una società di massa. All’uniformità che si va imponendo, si contrappone per contrasto l’individualità, che non intende sottomettersi alle norme e alle convenzioni “borghesi”, termine, quest’ultimo, che non aveva all’epoca un vero e proprio significato classista. Certe forme di individualismo infatti si ricollegavano a una lunga tradizione di ribellismo letterario, piuttosto che appartenere all’associazionismo operaio o essere in continuità con l’Internazionale anarchica. Si tratta inoltre di un fenomeno tutt’altro che unitario, presentando tendenze ed espressioni alquanto disomogenee. All’interno del movimento anarchico comincia così a manifestarsi la propensione all’atto isolato o ad opera di piccoli gruppi, frutto di una scelta individuale o espressione orgogliosa di una totale autonomia, rispetto anche all’organizzazione anarchica, intorno alla quale si dibatteva significativamente in quegli anni, anche se il passaggio dall’individualismo antiorganizzatore tradizionale a quello che venne definito individualismo d’azione non è così automatico. Quest’ultimo infatti costituiva una tendenza minoritaria all’interno del movimento anarchico, tendenza che ebbe il suo culmine in tutta una serie di azioni dimostrative fino ai tragici attentati della fine dell’Ottocento. Veniva intanto precisata una teorizzazione dell’individualismo d’azione, tramite la parola d’ordine “propaganda mediante il fatto”. In seguito questi filoni anarcoindividualisti andarono perdendo vitalità. Alla vigilia della prima guerra mondiale ci fu tra di essi chi scelse l’interventismo, chi invece si oppose (come il movimento anarchico nel suo complesso) alla costrizione alla violenza da parte degli stati.

Esistono altre anime o sfumature dell’anarchismo. Tra queste ricordiamo l’anarcosindacalismo, i cui maggiori ispiratori furono Émile Pouget (1860-1931), Fernand Pelloutier (1867-1901), Paul Delasalle (1870-1848) e il danese Cristian Cornelissen (1864-1943). Molti anarchici italiani militarono nell’Unione Sindacale Italiana, U.S.I., sindacato di ispirazione anarco sindacalista il cui segretario fu Armando Borghi (1882-1968) nel corso del primo ventennio del Novecento e furono protagonisti di importanti lotte operaie. Stessa cosa avvenne in altri paesi europei e non solo. Molti anarchici e libertari militano tutt’oggi in diverse organizzazioni sindacali, tra cui la stessa USI, ricostituita alcuni anni dopo la seconda guerra mondiale, e altre organizzazioni all’estero, alla ricerca di un sindacalismo realmente autogestionario, un sindacato dei lavoratori, non compromesso politicamente, che sia anche in appoggio ad ogni altra categoria di persone in difficoltà, lavoratori precari, disoccupati, extracomunitari, senza tetto, non ponendo al primo posto quindi la difesa di interessi di tipo corporativo, ma lavorando sempre nell’ambito di una più ampia visione di trasformazione sociale. Ricordiamo ancora l’anticlericalismo, l’antimilitarismo, il femminismo, l’antipsichiatria, l’utopia, l’ecologia sociale, la lotta contro l’istituzione carceraria e contro il razzismo (attualmente contro i centri di permanenza per gli extracomunitari ad esempio, e in generale contro tutte le gravi discriminazioni e persecuzioni a cui sono soggetti gli uomini che nascono nelle zone meno fortunate del mondo), la lotta contro le discriminazioni sessuali (la difesa della piena libertà di scelta, tra cui la scelta omosessuale), gli esperimenti di comuni autogestite, laboratori dove mettere in pratica l’utopia e la libertà (esempio tipico la Colonia Cecilia, fondata da Giovanni Rossi con un gruppo di circa centocinquanta lavoratori italiani in Brasile, nel Paranà, nel 1890, ma tanti altri esperimenti hanno continuato ad avere luogo e tutt’ora continuano).

 

I principali pensatori anarchici

Non è facile un’esposizione dei pensatori anarchici o una scelta tra di essi. Occorre anche tenere presente che la maggior parte di loro non visse soltanto di pensiero ma soprattutto di azione, inserendosi a vari livelli nel movimento anarchico e nelle lotte sociali, le cui opere scritte vanno quindi in qualche modo a completare una testimonianza offerta innanzitutto con la propria vita. Quello che segue qui non è che un elenco del tutto ridotto e incompleto, che esclude forzatamente alcune grandi figure che si sono distinte in numerosi e drammatici eventi rivoluzionari, tra cui l’Ucraina machnovista (da Nestor Machno, leader del movimento ucraino) nel contesto della rivoluzione russa,  la rivoluzione messicana (un nome dobbiamo farlo, ed è quello di Ricardo Flores Magón), la Catalogna libertaria durante la guerra civile spagnola, senza contare la partecipazione del movimento anarchico alla lotta contro il fascismo e alla Resistenza.

Dopo William Godwin (1756-1836) e Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865), cui abbiamo già accennato, e Max Stirner (pseudonimo di Johann Caspar Schmidt, 1806-1865), l’autore di Der Einzige und sein Eigentum (L’Unico e la sua proprietà) che uscì nel 1843, ricordiamo Michail Bakunin (1814-1876), grande rivoluzionario e pensatore russo, promotore dell’Internazionale Antiautoritaria dopo la rottura con Marx, autore di numerose opere tra cui Stato e Anarchia (1873), Pëtr Kropotkin (1842-1921), di cui sono da menzionare in particolare Il Mutuo Appoggio e L’Etica, (Kropotkin in maniera approfondita si è occupato tra il resto di problemi etici, muovendo da una rivisitazione critica del darwinismo ed elaborando il suo concetto del mutuo appoggio come fondamentale fattore evolutivo per tutte le specie viventi compreso l’uomo), quindi i francesi Elisée Reclus (1830-1905) e Jean Grave (1854-1939), vicini a Kropotkin insieme all’italiano Riccardo Mella (1861-1925). E ancora, per l’anarchismo italiano: Carlo Cafiero (1846-1892), Andrea Costa (1851-1910), Errico Malatesta (1853-1932), fondatore del quotidiano anarchico Umanità Nova e promotore dell’Unione Anarchica Italiana, Francesco Saverio Merlino (1856-1930), Pietro Gori (1865-1911), Luigi Fabbri (1877-1935), Camillo Berneri (1897-1937), uomini che insieme a tanti altri hanno dedicato la propria vita, in anni estremamente difficili, alla causa dell’emancipazione e della libertà, nel nostro paese e nel mondo intero. (E non ne abbiamo citato che alcuni). Purtroppo ancora oggi non sono in molti a sapere che cosa furono davvero quegli anni, a conoscere la portata del contributo anarchico e ad attribuire agli anarchici il posto che spetta loro nella storia politica e sociale della società italiana, per i motivi che abbiamo esposto in precedenza. Occorre quindi ricordare che la Prima Internazionale italiana fu principalmente anarchica, così come il primo socialismo italiano, e che solo in seguito esso diventò un socialismo riformista e parlamentarista. La storia del movimento anarchico italiano si sviluppa dalla nascita della Prima Internazionale allo scontro con i mazziniani prima (il nemico non appare più lo straniero, il nemico ora è il nemico di classe) e con i seguaci di Marx poi (contro l’autoritarismo e la gestione centralista), attraverso l’emergere delle correnti individualiste, nell’ambito dell’associazionismo operaio e del nascente sindacalismo di classe fino all’opposizione alla prima guerra mondiale, un movimento di grande ricchezza culturale e politica, che ha sempre lottato per la libertà e l’uguaglianza, per un grande ideale che doveva essere il “sol dell’avvenire” per l’intera società, soggetto pertanto costantemente alle persecuzioni più dure. Dopo le drammatiche vicende del periodo fascista, la seconda guerra mondiale e la partecipazione alla Resistenza, il movimento anarchico si ricostituisce in forme sempre nuove, dovute alle trasformazioni che si susseguono incessanti nel corso degli anni e al panorama sociale, politico ed economico che muta enormemente, continuando a portare avanti la sua ricerca della libertà e a tenere in vita il suo ideale di un mondo che sia davvero a misura d’uomo.

Storie in parte diverse hanno avuto gli anarchici negli altri paesi europei ed extraeuropei. Ricordiamo ad esempio il maggio francese del 1968, ma ovunque si lotti per la libertà, contro le oppressioni e le ingiustizie, contro le guerre e le occupazioni militari dei territori, gli anarchici non possono fare a meno di essere presenti. L’anarchismo continua a vivere oggi, sempre nel mirino della repressione, in una situazione e in un contesto che mutano e si trasformano ma soltanto in apparenza, perché il nodo centrale del dominio non è ancora stato sciolto. Il mondo odierno è gestito dalla pubblicità e dalla menzogna, dalle multinazionali, dal potere finanziario e militare, è un mondo molto più difficile da decifrare e comprendere rispetto a quello di un tempo, dotato di un controllo totale e onnipervasivo nei confronti degli esseri umani come mai prima, un mondo solo apparentemente democratico e libero, che propaganda in ogni modo la sua missione di difendere la “sicurezza” dei “cittadini”, ma che è invece ormai del tutto privo di libertà.

Molti intellettuali e artisti che si sono espressi in campi diversi da quello della riflessione politico-sociale in senso stretto possono essere compresi a buon diritto in questo sommario elenco, avendo mostrato una sensibilità affine in vari modi a quella anarchica. Nel campo della letteratura ricordiamo i poeti inglesi Samuel Coleridge (1772-1834), William Blake (1757-1827), Percey Bysshe Shelley, discepoli di Godwin, William Morris (1834-1896), autore del romanzo utopico News from Nowhere (Notizie da nessun luogo, 1891), Oscar Wilde (1854-1900), autore tra le altre sue opere di un breve saggio dove è evidente l’influenza di Kropotkin, L’anima dell’uomo sotto il socialismo, Lev Tolstoj (1828-1910), già ricordato, lo scrittore statunitense David Thoreau, autore di un trattato sulla disobbedienza civile, Franz Kafka, che espresse con forza un odio assoluto per il potere e la burocrazia, Henri Miller (1891-1980), libertino e libertario, in contatto con Emma Goldman (1869-1940), grande figura di donna anarchica e rivoluzionaria, le opere di George Orwell (1903-1950), Ignazio Silone (1900-1978), Albert Camus (1913-1960), e trascureremo qui gli autori della controcultura degli anni Sessanta, in particolare la beat generation e il Living Theatre. Anche nelle arti figurative c’è stato un fecondo incontro con l’anarchismo: Camille Pissarro, Carlo Carrà, André Breton, Enrico Baj ne sono un esempio. Nel cinema due nomi soprattutto sono significativi: Jean Vigo e Luis Buñuel. E ancora (dopo la pedagogia, già trattata): Lewis Mumford, Carlo Doglio, Giancarlo De Carlo per l’urbanistica, Pierre Clastres e Marc Augé per l’antropologia, Paul Feyerabend per la filosofia della scienza, Henri Laborit per la biologia, Thomas Szasz e Giorgio Antonucci per l’antipsichiatria.

Infine, in ordine sparso: Rudolf Rocker (1873-1958), intellettuale anarchico, i chansonniers francesi Brassens e Ferré, Paul Goodman (1911-1972) e Noam Chomsky (1928), Michel Foucault (1926-1984), Murray Bookchin (1921-2006), grande teorico dell’ecologia sociale, così definita in quanto afferma e dimostra che una vera trasformazione ecologica non può che basarsi su profonde trasformazioni sociali.

Ci si può davvero perdere nel tentativo di riconoscere temi e sentimenti anarchici: l’anarchia è infatti un modo di sentire e di essere, e alcuni suoi tratti o aspetti potrebbero essere scoperti un po’ ovunque e teoricamente in chiunque.

Ma torniamo all’ambito più strettamente filosofico, rispetto al quale, a questo punto, un interrogativo forse un po’ azzardato sembra presentarsi da sé e portarci a concludere questa breve esposizione.

Proviamo a considerare le principali caratteristiche della filosofia contemporanea. Come prima cosa rileviamo il carattere antimetafisico di gran parte di essa, essendo ormai venuto meno l’atteggiamento della tradizione filosofica che intendeva la conoscenza della “verità” come guida dell’azione umana e innanzitutto dell’azione morale e politica. Oggi si nega che l’esistenza dell’uomo possa avere un qualsiasi “fine” stabilito necessariamente dal posto assegnatogli “di diritto” nell’ordine dell’universo, e si riconosce invece che i fini dell’uomo sono soltanto quelli che egli sceglie liberamente: non ci troviamo più di fronte alla richiesta della contemplazione della verità del mondo, ma alla necessità della sua trasformazione pratica in base a progetti liberamente scelti e costruiti dall’uomo, nonché alla necessità di un’etica, ovvero di una responsabilità che occorre assumersi in questo mondo lacerato dai dolori e dalle ingiustizie. Se consideriamo poi che la filosofia ha un’altra fondamentale caratteristica, e cioè quella di mettere ogni cosa in dubbio e non prendere mai niente “per buono” (secondo Aristotele, come “scienza fine a se stessa” e non asservita ad altro, è l’unica a poter essere davvero libera), e che l’autentico filosofo è colui che è sempre alla ricerca, che pensa liberamente e autonomamente, che non si sottomette ad alcuna autorità di pensiero, non si arresta, non si accontenta e non si piega a una sola verità, che continua a porre in discussione qualsiasi presunta certezza, non ci viene spontaneo allora dedurne che non si può essere davvero filosofi, senza essere al tempo stesso anche un po’ anarchici?

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Simon Springer

Anarchismo!
quello che dovrebbe essere la geografia

 

«Noi, “terribili anarchici” come siamo, conosciamo un solo modo per stabilire pace e benessere tra donne e uomini: la soppressione del privilegio e il riconoscimento dei diritti. Non ci piace vivere se le gioie della vita sono solo per noi; noi protestiamo contro la nostra buona fortuna se non possiamo dividerla con gli altri; è più dolce per noi frequentare gli emarginati che sedere, coronati di rose, al banchetto del ricco. Siamo stanchi di quelle ineguaglianze che ci fanno nemici l’un l’altro; noi vogliamo porre fi ne alla furia che  spinge i popoli a scontri ostili e a tutto ciò che incatena il debole al forte sotto la forma di schiavitù, servaggio e dipendenza» (Elisèe Reclus 1884, p.641).

«Se voi volete, come noi, che sia rispettata la completa libertà

dell’individuo e, conseguentemente, la sua vita, necessariamente siete portati a ripudiare il governo dell’uomo sull’uomo, qualunque forma esso assuma; voi siete forzati ad accettare i principi della anarchia che voi avete disdegnato così a lungo. Voi dovete allora cercare con noi le forme della società che possano meglio realizzare questo ideale e mettere fine a tutta la violenza che suscita la vostra indignazione» (Piotr Kropotkin 2005 [1898]) p.144).

L’anarchismo è una filosofia politica calunniata; su questo non ci possono essere dubbi.

Comunemente l’anarchismo è descritto come una caotica espressione di violenza perpetrata contro il supposto pacifico «ordine» dello stato. Questa rappresentazione mistifica il cuore del pensiero anarchico, che è propriamente compreso come il rifiuto di tutte le forme di dominazione, sfruttamento, e «archia» (sistema di regole, governo), da cui la parola «an-archia» (contro il sistema di regole, non governo). L’anarchismo è una teoria e una pratica che cerca di produrre una società in cui gli individui possano cooperare liberamente come uguali in ogni aspetto, non in base alla legge o a una garanzia sovrana (che introduce nuove forme di autorità, impone criteri di appartenenza e rigidi legami territoriali), ma a partire da sé stessi in solidarietà e mutuo rispetto. Conseguentemente l’anarchismo si oppone a tutti i sistemi di regole o forme di archia (cioè gerarchia, patriarchia, monarchia, oligarchia, antropoarchia, eccetera) ed è invece fondata su forme cooperative ed egualitarie di organizzazione sociale, politica ed economica, dove possono fiorire spazialità autonome e in continua evoluzione. Sebbene sia stato spesso detto che ci sono tanti anarchismi quanti sono gli anarchici, il mio assunto è che l’anarchismo debba abbracciare un’etica della non violenza precisamente perché la violenza si riconosce sia come un atto che come un processo di dominazione.

La violenza è stata la base di molti movimenti storici anarchici e sarebbe semplicistico definire questo elemento come qualcosa di «non anarchico». In effetti prima che anarchici come Paul Brousse, Johann Most, Enrico Malatesta e Alexander Berkman sostenessero la violenza rivoluzionaria e la propaganda del fatto, i primi anarchici o «protoanarchici» come William Godwin, Pierre-Joseph Proudhon, Henry David Thoreau e Leo Tolstoi, rifiutarono la violenza come mezzo giustificabile per abbattere la tirannia dello stato. In accordo con queste posizioni l’anarchismo simpatizzava con la nonviolenza come si poteva vedere nel The Peaceful Re24 La pratica della libertà e i suoi limiti volutionist, un settimanale edito da Josiah Warren nel 1833 e primo periodico anarchico mai stampato. Che  l’ anarchismo sia diventato da allora un diretto sinonimo di violenza (piuttosto che riconoscerla come politico-economiche alternative e della limitata immaginazione geopolitica o l’i ndottrinamento ideologico di coloro che non possono o semplicemente rifiutano di concepire un mondo senza stati. Infatti la critica originaria dello anarchismo è che lo stato è la quintessenza della violenza o come Godwin (1976 [1793], p. 380) puntualizza: «Soprattutto noi non dobbiamo dimenticare che il governo è un male, un’ usurpazione del giudizio personale e della coscienza individuale dell’umanità». Dato l’approccio postcoloniale che la geografia umana contemporanea oggi sposa, i geografi radicali dovrebbero considerare più criticamente su come l’accettazione dello stato in effetti reintegri la violenza di pensiero e la pratica del colonialismo. Nel rinvigorire il potenziale delle geografie anarchiche e mettendo in pratica la prassi critica che l’ anarchismo richiede, il mio pensiero è che la non violenza dovrebbe essere compresa come un ideale in cui vivere per gli anarchici. Questa è la storia dell’anarco-femminista Emma Goldman (1996 [1923], p. 253) che nei suoi anni giovanili aveva flirtato con la violenza ma, alla fine, l’aveva rifiutata:

una cosa di cui mi sono convinta come mai nella mia vita, è che le armi non decidono assolutamente niente. Anche se raggiungono quello che si prefiggono, cosa che raramente avviene, producono così tante conseguenze negative da inficiare gli obiettivi originali.

Per questo, se l’anarchismo si pone contro lo stato e in particolare contro il monopolio, l’istituzionalizzazione e la codificazione della violenza che questa organizzazione spaziale rappresenta, allora ne consegue che l’anarchismo propone un’immaginazione geografica alternativa che rifiuta mezzi violenti. Inizio esplorando come i geografi hanno considerato il pensiero anarchico. Sostengo che sebbene l’anarchismo abbia contribuito fortemente alla radicalizzazione della geografia umana negli anni Settanta questa prima prospettiva è stata velocemente eclissata dal marxismo che da allora (insieme al femminismo) è diventato la pietra angolare della geografia radicale contemporanea. La sezione seguente problematizza l’utilitarismo del pensiero marxiano che, si sostiene, reitera i principi coloniali che il marxismo esplicitamente cerca di distruggere. L’anarchismo è presentato come un’alternativa preferibile per il fatto che si contrappone al nazionalismo e riconosce che non c’è una fondamentale differenza tra la colonizzazione e la formazione di uno stato se non per la scala secondo cui questi progetti paralleli operano, significando in tal modo che qualsiasi posizione «post coloniale» deve essere anche «post statale» o anarchica. In seguito cerco di dare una parziale risposta alla questione delle alternative allo stato e come nuove forme di organizzazioni umane volontarie possano esseremesse in condizione di fiorire. Piuttosto che proporre un imperativo rivoluzionario sostengo il valore dell’immediato, del qui e ora come la più emancipatoria dimensione spazio-temporale, precisamente perché è il luogo e il momento in cui noi effettivamente viviamo le nostre vite.

Considero a questo punto l’illusione neoliberista della dissoluzione dello stato un accessorio e ricordo che un «governo leggero» è sempre un governo per cui, mentre i disegni, le strategie, le tecnologie e le tecniche del governo neoliberista sono nuove, la logica disciplinare dello stato rimane la stessa. Nelle conclusioni propongo qualche pensiero sul futuro della geografia radicale e in particolare dove  penso che le geografie anarchiche possano costituire un quadro concettuale più libero che potenzialmente rompa sia la struttura discorsiva del neoliberismo sia i limiti del marxismo in relazione alle contemporanee lotte di opposizione.

Quindi questo articolo può essere letto come un manifesto delle geografi e anarchiche che sono concepite come spazialità caleidoscopiche che consentono connessioni multiple, non gerarchiche e propulsive tra entità autonome dove solidarietà, legami, e affinità  sono unite volontariamente in opposizione alla violenza sovrana, di norme predeterminate e categorie di appartenenza assegnate. Nel suo rifiuto di questi multiformi apparati di dominazione questo articolo è un richiamo all’uso di armi non violente per quei geografi e non geografi che cercano di porre fine all’apparente infinita serie di tragedie, sfortune e catastrofi che caratterizzano l’attuale maleodorante momento neoliberista. Ma questa non è semplicemente una richiesta che finisca il neoliberismo e il suo rimpiazzo con una più moderata e umana versione del capitalismo, né che si voglia una più egualitaria versione dello stato. È piuttosto una condanna del capitalismo e dello stato in qualsiasi forma si presentino; una condanna di tutti i modi di sfruttamento, manipolazione e dominazione dell’ umanità; un’opposizione alla deprivazione della maggioranza e ai privilegi della minoranza che fino a oggi e per comune accettazione sono state chiamate «ordine»; e il recupero di un progetto della geografia che risale ai primi giorni della disciplina. Questo non è niente di più e niente di meno che una rinnovata chiamata all’anarchismo.

 

Per geografi e anarchiche

Alla luce dei contributi fondamentali alla disciplina geografi ca di Kropotkin e di Reclus e dell’importante ruolo dell’anarchismo nella crescita di una prassi geografica più radicale, è sorprendente che questa vibrante tradizione intellettuale sia stata, fino a tempi recenti, largamente ignorata dai geografi dai tardi anni Settanta. Scrivendo nel periodo della maggiore infatuazione della geografi a per il colonialismo durante la fi ne dell’Ottocento e i primi del Novecento, e in forte contrasto con i contemporanei come David Livingstone, Halford Mckinder e Friederich Ratzel, che spesero i loro giorni sostenendo una visione imperialista della disciplina, sia Kropotkin sia Reclus avevano una risoluta immaginazione antiautoritaria. La teoria di Kropotkin del volontario reciproco scambio di risorse per il bene comune, o «mutuo appoggio», era una diretta sfi da al darwinismo sociale presente negli scritti di Mckinder, Ratzel e in particolare nel saggio del biologo Thomas Henry Huxley, La lotta per l’ esistenza, (1888). «Loro arrivarono a concepire il mondo animale come un mondo di lotta perpetua tra malnutriti individui assetati del sangue degli altri», scrive Kropotkin nella sua grande opera Il mutuo appoggio: Loro hanno fatto risuonare la moderna letteratura con il grido di guerra e la sofferenza del vinto, come se fosse una parola definitiva nella moderna biologia. Hanno innalzato la battaglia “senza pietà” per vantaggi personali alle altezze di un principio biologico cui pure gli umani devono sottomettersi sotto la minaccia di soccombere in un mondo fondato sul mutuo sterminio.

Sostenendo che la realtà del mutuo appoggio tra animali non umani minava gli argomenti naturalistici in favore di capitalismo, guerra e imperialismo che dominavano il pensiero geografi co del tempo, come pure i darwinisti sociali, precisamente in modo opposto Kropotkin voleva trovare in natura quanto voleva legittimare nella società. La geografi a di conseguenza doveva essere concepita non come un programma di prepotenza imperiale, ma come mezzo per dissolvere pregiudizi e realizzare la cooperazione tra le comunità (Kropotkin 1978 [1880]).

Come per il suo amico e compagno Kropotkin la visione anarchica di Reclus era similmente radicata nella geografi a. Reclus ha proposto un approccio integrale verso ogni fenomeno inclusa l’umanità che era concepita come inseparabile dalle altre forme di vita e dalle caratteristiche geografiche della terra stessa. La terra, di conseguenza, era concepita come un tutt’uno in cui ogni coerente elemento del mondo richiedeva un simultaneo riconoscimento di tutti i multipli fattori di interconnessione. Per Reclus (1905-1908, p.114- 115) «È solo attraverso un atto di pura astrazione che uno possa pensare di presentare un particolare aspetto dell’ambiente come se avesse un’ esistenza distinta e cerchi di isolarlo da tutti gli altri per studiare la sua influenza essenziale». Sebbene il focus fosse il sistema «naturale» il lavoro olistico di Reclus in effetti richiedeva che i fenomeni sociali fossero considerati come intrecciati e costitutivi della naturale «geografia universale» che aveva in mente (vedi Reclus 1876-1894). Per Reclus la sopracitata affermazione sulla natura aveva la stessa rilevanza delle idee prevalenti sull’ organizzazione umana, fossero quella marxiana o quella neoclassica, e questo riporta ai limiti di quelle due teorie economiche. Così mentre le idee reclusiane di integralità hanno ispirato l’ecologia sociale di Murray Bookchin e altre  parti del movimento ambientalista radicale, le implicazioni politiche del suo lavoro rispetto all’organizzazione umana sono state sostanzialmente ignorate dai geografi per più di un secolo.

Il suo permanente significato politico deriva in larga parte dalla sua visione egualitaria di una «globalizzazione dal basso» basata sulla integralità che lui ha descritto e promosso, e che offre un’alternativa teorica alla dominante versione della globalizzazione aziendale e statale. In contrasto con la situazione corrente di un mondo diviso tra chi ha e chi non ha dove la geografia dell’accesso al capitale aderisce largamente agli alti e bassi del sistema vestfaliano, Reclus (1876-1894, citato in Clark e Martin, 2004) preconizzava un mondo libero e senza stati con «il suo centro ovunque, la sua periferia in nessun posto».

Mentre la geografia umana contemporanea è opportunamente andata oltre all’affermazione della scienza come sinonimo di «verità», il medesimo scetticismo di Reclus e Kropotkin e le sfide alle ideologie dominanti di allora hanno molto da offrire agli studi geografi ci contemporanei e alla loro irriflessiva accettazione del «discorso» di civiltà, legalità capitalista che converge nello stato. La perpetuazione dell’idea che la spazialità umana necessiti della formazione degli stati è piuttosto ampia in una disciplina che da un lato ha deriso la «trappola territoriale» (vedi Agnew, 1994), ma dall’altro ha rifiutato di portare la critica dello statocentrismo verso la dissoluzione dello stato. I geografi contemporanei di conseguenza hanno evitato di co  nfrontarsi con il potenziale emancipatorio della prassi anarchica, sottostimando largamente i contributi di Hakim Bey, Bookchin e Pierre Clastres sull’importanza di alternative configurazioni rispetto allo stato, favorendo invece discussioni su alternative configurazioni dello stato, in particolare da parte della teoria marxiana. Nella forma odierna l’attenzione si concentra sulla spiegazione di come il  processo neoliberista faciliti la trasformazione dello stato e la sua permanenza facendo da contraltare alle diffuse teorie che la globalizzazione stia erodendo lo stato e producendo un mondo senza confini, il che significa la fine sia della storia sia della geografia. In altre parole mentre le idee neoclassiche e neoliberiste sono state vigorosamente dibattute e screditate dai geografi che si muovono in una ampia prospettiva marxiana, la geografia contemporanea non ha visto le critiche anarchiche al marxismo svilupparsi con la stessa forza empirica e teorica del suo rivale radicale; un impresa assolutamente da fare.

Sebbene molto sottorappresentati nella letteratura geografica recenti contributi offrono graditi interventi che prestano attenzione alle promettenti idee anarchiche sia teoriche sia pratiche.

Graditi come sono offrono grandi spunti in un terreno teorico ancora molto da esplorare dai geografi . In particolare penso ai profondi contributi di studiosi non geografi quali Lewis Call, Todd May, Saul Newman e di Douane Rousselle e Süreyyya Evren sulle possibilità e il potenziale del post-anarchismo. Mentre il post- strutturalismo è cosa comune nella disciplina, i geografi umani hanno mancato di esplorare il potenziale del pensiero post-anarchico con poche eccezioni. Altri hanno esplorato largamente spazialità «anarchiche» attraverso lenti poststrutturaliste, ma senza inserire questa attenzione nella emergente letteratura che esplici tamente sviluppa una teoria post-anarchica. Il post-anarchismo non è un movimento oltre l’ anarchismo, ma un rinnovamento di idee anarchiche attraverso «l’ infusione» con la teoria post-strutturalista, consentendoci così di mantenere uno spirito emancipatorio, nel mentre si abbandona il richiamo alla scienza e le essenzialiste epistemologie e ontologie che caratterizzano il pensiero anarchico classico. È doveroso per i geografi radicali cominciare a esaminare l’importanza contemporanea

dell’azione anarchica e delle teorie post-anarchiche nel resistere al capitalismo piuttosto che semplicemente ripetere quegli statocentrici e senza via d’uscita argomenti che puntano a una più equa distribuzione del potere all’interno dello stato. Lo stato dopotutto, nella classica critica anarchica, è un’istituzione gerarchica che presume il rispetto dell’autorità. Come hanno riconosciuto chiaramente pensatori «non anarchici» quali Giorgio Agamben e Walter Benjamin è precisamente a causa del carattere giuridico sovrano dello stato che non può mai essere effettivamente egualitario. E così i geografi dovrebbero domandarsi: dove possono portarci supposti argomenti liberatori che continuano ad accettare lo stato se non a strutture di gerarchia e dominazioni fermamente stabili?

Nonostante non sia l’unica preoccupazione degli anarchici, lo stato è il primario argomento del pensiero anarchico. Sebbene i marxisti abbiano sempre più criticato la logica del potere statale, va oltre lo scopo di questo articolo sviluppare una tassonomia che indichi con precisione la posizione verso lo stato delle multiple varianti del pensiero marxiano. A rischio di semplificare eccessivamente la complessità delle intersezioni tra le due principali alternative del pensiero socialista, ciò nonostante è facile dire che la questione dello stato è la differenziazione originaria tra marxismo e anarchismo. Infatti la principale divisione tra anarchismo e marxismo si riferisce alle differenti opinioni sul grado di autonomia concesso ai lavoratori in un contesto post-rivoluzionario e la strettamente legata questione del monopolio della violenza. Gli anarchici rifiutano decisamente tale monopolio sulla base che la violenza è soprattutto la primaria dimensione del potere dello stato e di ogni stato; sia controllato dalla borghesia o conquistato dai lavoratori inevitabilmente funzionerà come strumento della dominazione di classe. Al contrario i marxisti credevano che poiché una classe minoritaria governa la maggior parte delle società, prima del socialismo il raggiungimento di una società senza classi richiede che, preventivamente, la classe più svantaggiata conquisti lo stato e acquisisca il monopolio della violenza. Dunque il desiderio di superare lo stato e creare un sistema socialista liberato attraverso un potere dispotico è una contraddizione che gli anarchici negano. La correlata nozione marxiana dell’estinzione dello stato era similmente vista come una contraddizione. E Bakunin ha osservato (1953 [1873], p. 288): Se il loro Stato è un genuino Stato popolare, perché dovrebbe dissolversi? …(i marxisti) dicono che questo giogo statale (la dittatura) è un necessario mezzo temporaneo per raggiungere l’emancipazione del popolo: l’anarchismo o la libertà è lo scopo, lo Stato o la dittatura è il mezzo.

Quindi per liberare le masse lavoratrici per prima cosa è necessario schiavizzarle. Questa notevole contraddizione inorridiva gli anarchici e durante la Prima Internazionale questa differenza divenne la fondamentale divisione tra i socialisti. Mentre il marxismo tradizionalmente rappresenta il confine statista dello spettro politico socialista, o in ultima analisi, l’accettazione dello stato in termini utilitaristici come mezzo verso una finalità attraverso una provvisoria dittatura del proletariato, l’anarchismo è sempre stato il campo del socialismo libertario rifiutando l’idea che uno stato, sia pur modificato, possa mai scomparire e condurre a una condizione di emancipazione.

Il colonialismo è morto, lunga vita al colonialismo?

Non condivido l’entusiasmo di Marx per il capitalismo. Marx e gli economisti politici classici vedono il capitalismo attraverso simili lenti celebratorie; solo che Marx mitigava la sua visione suggerendo che era una necessaria fase da passare sulla via del comunismo e non una gloriosa fase finale come nel progetto liberale di Adam Smith. Scrivendo un secolo dopo Bill Warren, uno dei più controversi scrittori della tradizione marxista, lo ha colto come essenza del lavoro di Marx. Warren (1980, p. 136) sosteneva che:  l’ imperialismo era il mezzo attraverso cui tecnica, cultura e istituzioni che si erano sviluppate in Europa lungo molti secoli (la cultura del Rinascimento, la Riforma, l’Illuminismo e la Rivoluzione Industriale) hanno sparso i loro semi rivoluzionari nel resto del mondo».

Warren ha interpretato correttamente la relazione integrale tra capitalismo e imperialismo, ma ha dipinto l’imperialismo come un «male necessario» sulla strada verso un bene più grande. La banalità della descrizione di Warren dell’imperialismo ha stimolato molti detrattori, ma egli in effetti ha rivisitato il marxismo espresso nel Manifesto comunista dove, sebbene Marx condanni la violenza dell’accumulazione primitiva, ciò nonostante ritiene «questa violenta espropriazione come necessaria per lo sviluppo delle possibilità umane» (Glassman 2006, p. 610). Malgrado trovi il capitalismo moralmente ripugnante se comparato con il modo di produzione feudale che lo ha preceduto, Marx attribuisce al capitalismo molte virtù, riconoscendolo come straordinariamente produttivo, suscitatore di creatività umana, produttore di grandi cambiamenti tecnologici e iniziatore di potenziali forme democratiche di governo. In linea con questa ottimistica visione di Marx, Warren sostiene che nella sua fase iniziale l’esplorazione capitalista di nuovi territori è stata condotta in forma di colonialismo e imperialismo e mentre questa forma di capitalismo è stata un arretramento per quei territori occupati ci  sono stati però anche importanti benefici. I livelli di istruzione sono cresciuti, le aspettative di vita anche e le forme di controllo politico sono da considerarsi più democratiche di quelle preesistenti il colonialismo.

Se tutto questo suona familiare è perché è la stessa struttura «discorsiva» che orienta il neoliberismo oggi; correttamente David Harvey (2003) lo ha definito «nuovo imperialismo ». Il ritornello è che la gente potrebbe fare meglio e sebbene imperfetta nella sua esecuzione (largamente attribuita alla continua «interferenza» dello stato nei mercati) alla fine «l’effetto gocciolamento» produrrà i suoi frutti e la promessa utopia si materializzerà.

Invece di aspettare che il mercato produca i suoi effetti secondo i suoi tempi Marx intendeva accelerarne il passo per raggiungere un contratto sociale egualitario attraverso la rivoluzione. Per essere chiari non sto sostenendo che ci sia una ideologica consonanza tra il marxismo e il neoliberismo, piuttosto cerco di chiarire che ambedue condividono la nozione che lo stato può essere usato per raggiungere un fi ne «liberato». Per contrasto la posizione anarchica rifiuta la violenza dello stato, dell’imperialismo e del capitalismo e non si fa convincere dall’utilitarismo di Marx. I mezzi del capitalismo e le sue violenze non giustificano un non-stato finale comunista né questo fi ne giustifica tali mezzi. Questo particolare aspetto del pensiero marxista richiama il neoliberismo: sebbene l’utopico non stato finale sia concettualizzato in modo differente, i mezzi «penultimi» per raggiungere il «prodotto finale» sono virtualmente gli stessi. Mentre i post-marxisti opportunamente sostengono che genere, sesso, etnicità, razza, e altre evidenti categorie «non capitaliste» siano ugualmente importanti linee di differenziazione che segnano gerarchie, disuguaglianze e violenze nel nostro mondo neoliberista l’ anarchismo va oltre rifiutando la sostanziale violenza che è intrinseca e implicitamente accettata dall’approccio lineare alla storia fondato sugli «stadi di sviluppo». Non coerente con l’utilitarismo e l’ essenzialismo del pensiero di Marx può allo stesso modo essere vista la genesi del post-strutturalismo, che invece si focalizza sulla complessità ed eterogeneità della condizione attuale e rifiuta teorie totalizzanti nel rigettare le «verità» assolute.

Sebbene la critica post strutturalista sia diventata velocemente una delle più vibranti varianti filosofiche nella disciplina geografica e Michel Foucault, Gilles Deleuze e Jacques Lacan abbiano tutti elaborato critiche all’interno del fertile terreno del pensiero antistatale la geografia contemporanea è stata lenta nel confrontarsi con le idee che auspicano la fine del Leviatano. Posso solo formulare ipotesi sulle ragioni di questa lacuna, ma sembra che il predominio delle idee marxiste abbia avuto un ruolo. Il marxismo tradizionale con la sua compagna ideologia statalista è largamente presente nella letteratura geografica dove l’influenza di Harvey domina. Sebbene occasionalmente qualche geografo politico abbia criticato la limitata visione geopolitica dello stato-centrismo, ciononostante la forma di organizzazione statale è un dato di fatto scontato nella disciplina. Lo stato è o implicitamente accettato o non sottoposto a un tipo di esame che ne analizzi i suoi principi fondamentali, anche se i/le geografi /e femministi/e hanno contribuito a ridefinire i parametri sui quali lo stato è correntemente concepito. Nonostante questo una parte significativa della geografia umana ha sollevato la questione dello stato solo per cercare di determinare quanto il neoliberismo abbia riconfigurato le sue funzioni, con i geografi marxisti che auspicano una rinnovata e reimmaginata versione del welfare sociale, e i post-strutturalisti che argomentano che la governabilità rende lo stato quasi invisibile grazie a soggetti capaci di autoregolarsi e di autocorreggersi. È scarsamente evidenziata la potenzialità di quest’ ultimo approccio nello svelare la perdurante forza della logica statuale e della violenza che la pervade tramite alterate razionalità disciplinari e le mutate tecniche di controllo biopolitico; per non parlare delle coincidenze del post-strutturalismo con il pensiero anarchico (vedi Newman 2010).

Che la geografia radicale mantenga l’orientamento statuale forse testimonia delle origini coloniali della disciplina stessa e una esitazione nel rompere con vecchie abitudini. Così il contemporaneo stato-nazione va visto come una replica in scala minore dello stato coloniale.

Sebbene differenziati per diffusione e distribuzione nello spazio sia il potere dello stato nazionale sia quello coloniale mostrano gli stessi violenti principi del privilegio di pochi sopra i molti e l’imposizione di un’identità unica prevalente su antecedenti modi di concepire l’appartenenza. Marx ne era consapevole, ma ancora una volta ha sostenuto la sua idea utilitarista. Nel momento in cui il capitalismo si diffonde nel mondo ha suscitato forti movimenti di resistenza da parte di lavoratori e contadini oppressi (guidati da avanguardie) che, secondo Marx, avrebbero incubato alla fine il superamento del capitalismo.

In casi particolari Marx aveva sostenuto lotte nazionaliste vedendo in questo una «fase di sviluppo» verso il futuro internazionalismo dei lavoratori. Dal punto di vista anarchico è difficile vedere il fine emancipatorio quando si usano mezzi violenti. Quello che la «liberazione nazionale» rappresenta in effetti è il cambio di una élite con un’altra e quindi di una forma di colonialismo con un’altra. Mentre l’espressione territoriale è stata dismessa, la sottostante logica rimane la stessa. Esattamente come lo stato coloniale suscitava e spesso imponeva il monopolio della violenza la lotta per creare uno stato-nazione è allo stesso modo una lotta per il monopolio della violenza. Quello che si crea in ambedue i casi (uno stato coloniale o nazionale) è esso stesso uno strumento di violenza. Nel riconoscere questa corrispondenza, e a dispetto del cosiddetto «precipuo quadro di comprensione postcoloniale» di Gillian Hart (Hart 2008, p.680), essere «postcoloniali» in ogni senso è essere anche «poststatali» o anarchici come pure sono da rifiutare totalmente gerarchie, ordine, autorità e violenza su cui quei progetti paralleli sono stati costruiti. Inoltre l’internazionalismo, per definizione, non può andare oltre lo stato; al contrario continua a presupporre e assumere l’esistenza delle nazioni. Nell’auspicare la cooperazione tra le nazioni a prescindere dalla geografia, l’internazionalismo di Marx non va oltre la nozione dello stato-nazione quale unità di base dell’appartenenza.

Perché allora la geografia radicale contemporanea non ha sviluppato una «immaginazione anti coloniale» che giunga fino alla sfida post statuale come Anderson (2005) ritiene che in effetti sia necessario? Reclus e Kropotkin hanno dimostrato da molto tempo che la geografia si presta essa stessa a idee emancipatorie e «non è stato per caso che due dei più importanti anarchici della fi ne del   secolo fossero geografi » (Ward 2010, p.209). C’è un latente straordinario potenziale per la geografia radicale contemporanea di diventare ancora più radicale nella sua critica e quindi maggiormente libertaria nei suoi interessi aderendo all’ethos anarchico. L’anarchismo è in grado di comprendere capitalismo, imperialismo, colonialismo, neoliberismo, militarismo, nazionalismo, classismo, razzismo, etnocentrismo, orientalismo, sessismo e genere, omofobia e transfobia, età, abilità, specie, vegetarianismo, sovranità e lo stato come sistemi intrecciati di dominazione. Il mutuo rinforzo della  composizione di queste varie dimensioni di «archia» significa, conseguentemente, che escluderne acriticamente una dall’analisi perpetua quella conglomerazione nel suo insieme. A differenza delle compartimentazioni della geografi a marxiana la promessa delle geografi e anarchiche consta precisamente nella loro capacità di pensare in modo integrato e quindi di rifiutare di dare priorità a uno qualsiasi dei molteplici apparati di dominazione, in quanto tutti irriducibili uno all’altro. Questo significa che nessuna lotta può venire dopo una qualsiasi altra. È tutto o niente e il privilegio aprioristico dei lavoratori, delle avanguardie, o di qualsiasi altra classe sopra le altre devono essere rifiutati sulla base della loro insita gerarchia.

 

 

 

Immaginare alternative

In effetti non ci sono peggiori controrivoluzionari dei rivoluzionari; perché non ci sono peggiori cittadini degli invidiosi (Anselme Bellegarrigue 1848) Non ci sono sogni per un lontano futuro e neppure tappe da raggiungere dopo altre, ma nostri processi di vita ovunque nei quali noi possiamo sia avanzare sia arretrare (Roger Baldwin 2005, p.114)

La questione delle alternative allo stato è comunque nella mente degli scettici dell’anarchismo. In questo senso Harvey (2009, p.200) domanda: «Come funzionerà concretamente la reificazione di questo ideale anarchico nello spazio e nel tempo assoluti?».

Sebbene gli anarchici abbiano teorizzato molteplici possibilità da quella collettivista a quella individualista, dalla sindacalista alla mutualista, dalla volontaristica alla comunista, io rivendico un non dottrinario, post-anarchico approccio e conseguentemente la mia risposta è cominciare a rifiutare di dare visioni prescrittive sulle forme di organizzazione sociale che io penso debbano essere sviluppate. La risposta a questa domanda non può dipendere da un singolo individuo, ma piuttosto collettivamente attraverso il dialogo e una permanente flessibile innovazione. In questo senso la critica di Harvey all’anarchismo è problematica da due punti di vista. Primo, quando mai spazio e tempo sono stati «assoluti » se non attraverso le lenti riduzioniste del positivismo? Questa affermazione nega

lo stesso riconoscimento di Harvey sulla reciproca influenza dialettica di spazio e tempo, espressa da lui come «spazio-tempo». Secondo, cerca di applicare i principi del pensiero marxiano e della «teoria delle fasi» a una posizione filosofica che escluda questa linearità predeterminata. Harvey concettualizza la costruzione del luogo come una politica di fine stato, cosa che posiziona non correttamente l’anarchismo come un progetto chiaramente definito (idea condivisa da marxismo e neo-liberismo) piuttosto che riconoscerlo come un processo vivente, flessibile e sempre dinamico (Springer 2011). Qualcuno potrebbe giudicare la mia posizione come un tentativo di svicolare, ma desidero ricordare al lettore che qualsiasi tentativo di preconizzare un modello fisso isolato dal più ampio corpo sociale riassume sia il progetto neoliberista sia una disposizione autoritaria visto che ciascuno di essi sostiene un unico modo di fare le cose. Questo rinforza l’arroganza/ignoranza dei cosiddetti «esperti» che presumono di sapere che cosa è meglio senza riconoscere i propri limiti. Persino Sara Haraway, quale brillante pensatrice che è, una volta manifestò i propri limiti rivelando: «io ho quasi perso la capacità di immaginare come potrebbe essere un mondo non capitalista. E questo mi spaventa» (Harvey e Haraway 1995, p.519). La stessa incipiente paura dovrebbe essere ugualmente evocata quando si riflette criticamente sullo stato e sulla sua apparente totalizzante pervasività. Noi trattiamo questa particolare forma gerarchica di organizzazione e di dominio territoriale come imprescindibile e facendo questo noi concretamente dimentichiamo che la gran parte del tempo che gli umani hanno passato sul pianeta Terra è stato caratterizzato da una organizzazione non statale. Lo stato quindi non è né inevitabile né necessario. Il neoliberismo è particolarmente virulento nella misura in cui inserisce un nuovo elemento nella nostra collettiva dimenticanza riconfigurando lo stato in modo tale che impedisce di notare i suoi continui effetti deleteri. Il discorso dietro questa illusione di dissoluzione cerca di convincerci che il neoliberismo rappresenti la nostra liberazione come individui, emancipandoci dalle catene che chiama «il grande governo». Ma lo stato continua a essere rilevante nelle dinamiche neoliberiste.

Allo stesso modo il monopolio della violenza che lo stato reclama per sé rimane ugualmente potente e oppressivo sotto la logica disciplinare di uno stato neoliberista come lo fa sotto ogni altra configurazione di stato; malgrado «i bei momenti» della apparente democrazia (leggi «autoritarismo elettorale») (Springer 2011). Quello che è effettivamente perso nel supposto stato neoliberista in streaming sono ovviamente i benefici sociali forniti ai cittadini. Questa retromarcia è il risultato del collasso della fiducia sociale, che attivamente anticipa il mito hobbesiano- darwiniano di tutti contro tutti dove solo il più forte sopravvive. La gente è incoraggiata non a rivolgersi agli altri per risolvere i problemi di tutti i giorni o anche solo quando ci sono problemi, ma semplicemente deve smettere di essere «pigra» e mettersi al lavoro. Il discorso neoliberista pone il sistema stesso al di sopra di qualsiasi rimprovero così che ogni «anomalia», come l’impoverimento o la disoccupazione, sono derubricate quali fallimenti individuali. Quelli che non hanno «successo» in questo gioco perverso sono facilmente estromessi dal punitivo stato neoliberista grazie alla loro criminalizzazione. Il carcere è visto come la più valida soluzione che affronta il crescere delle ineguaglianze e della povertà della maggioranza. Questo strumento disciplinare è particolarmente debilitante perché per la realizzazione del potere popolare le condizioni per la cooperazione sociale devono essere presenti per il semplice motivo che la gente deve avere fiducia negli altri.

Il neoliberismo in particolare e il capitalismo più generalmente lavorano per distruggere la fiducia facendoci competere l’un l’altro e approfittare della reciproca vulnerabilità.

Allo stesso modo lo stato distrugge la fiducia avvertendoci che homo homini lupus diventerebbe la legge in assenza di un potere sovrano. Per ristabilire la fiducia sembrerebbe che sconfiggere il capitalismo non sia sufficiente. Nell’allestire una realtà post-neoliberista, cioè la realizzazione di un contesto che rompa con il corrente Zeitgeist (spirito del tempo), la sovranità e lo stato stesso devono essere smantellati. Facendo questo, a prima vista, sembra apparire il problema del muoverci dal qui al e dall’ora al poi. Nonostante collochi l’idea della rivoluzione come sparita dalla vista Neil Smith 2010) esemplifica la permanente infatuazione della sinistra suggerendo che la recente crisi finanziaria potrebbe essere la base sulla quale «l’ imperativo rivoluzionario» può essere rinnovato. Ma desiderando che una rivoluzione globale emerga dalla recente crisi economica attribuisce un ruolo strumentale a un singolo sistema economico che stranamente recupera l’argomento del neoliberismo come monolitismo. Questo tipo di critica riporta all’implicita accettazione di Smith del ruolo utilitaristico che Marx attribuisce al capitalismo /colonialismo, una posizione che gli anarchici trovano discutibile. Mentre compiange le vittime del colonialismo Marx si consola con il pensiero che i suoi continui abusi non faranno che avvicinare il giorno in cui l’intero mondo verrebbe consumato da un’unica crisi e quindi inaugurando la rivolta rivoluzionaria così desiderata. Questo è un approccio ultra passivo perché se la rivoluzione deve risultare da una crisi capitalista allora questo implica una politica di attesa per il giorno in cui «tutto si dissolve».

La questione della perdita di fiducia diventa particolarmente acuta al momento del «dissolvimento» perché, come Proudhon (2005 [1864], p.108) avvertiva, c’è un «pericolo nell’aspettare fi no ai momenti di crisi, quando le passioni diventano incandescenti dalla diffusa sofferenza». Nel tempo che è passato dall’inizio della crisi nel tardo 2008 è tristemente diventato ovvio di come sia possibile, in assenza di fiducia, per la gente, accettare alternative razziste, nazionaliste e fondamentaliste. Invece che occupare il tempo nell’attesa della rottura i geografi dovrebbero invece aderire anarchicamente al «qui e ora» come spazio-tempo in cui le nostre vite sono effettivamente vissute. Riconoscendo che la potenzialità di questa immediatezza sia emancipatoria di per sé in quanto ci fa rendere conto della possibilità che noi possiamo immediatamente rifiutare di partecipare al consumismo, di praticare il nazionalismo e di non agire gerarchicamente per evitare di legittimare l’ordine esistente, ci porta ad aderire alla cultura del «do it yourself» centrata sull’azione diretta, il non consumismo e il mutuo aiuto. Aderendo all’idea della coppia di autrici che si firma J-K Gibson-Grahan (2008) che «altri mondi» sono possibili e all’impegno di Sara Koopman (2011) per una battaglia contro egemonica non violenta di quello che lei chiama «altra-geopolitica», il potere del «qui e ora» ci offre la libertà  ’immaginare e di cominciare a costruire le libere alternative istituzioni e le volontarie associazioni che faciliteranno la transizione verso un vero futuro post-coloniale/post-neoliberista. Così il significato di immaginare alternative all’ordine corrente non è quello di fissare un programma per ogni tempo, ma invece di fornire un esempio di alterità o di esternalità come un mezzo per sfidare i limiti di questo ordine. È solo nel preciso spazio e momento del rifiuto, che è il «qui e ora», che gli individui si prendono il potere di scegliere la propria via, liberi dalla guida coercitiva di un’autorità sovrana o dalla persuasiva influenza di un patrocinio accademico. L’ambito dove i geografi sono effettivamente in buona posizione per essere efficaci, come i/le pensatori/rici femministi/e hanno dimostrato, è nei riguardi della questione del costruire fiducia, abbattendo pregiudizi e agendo con nuove energie creative radicate nella continua capacità delle emozioni e della vita quotidiana come effettivo terreno dell’interazione umana. Nell’accettare la «svolta affettiva» (Thien 2005) che vede la connettività emozionale e la politica dell’affinità come basi fondamentali su cui qualsiasi durevole trasformazione può avvenire, è precisamente a questa intimità e immediatezza che possono dedicarsi produttivamente le geografi e anarchiche. Piuttosto che dare priorità al particolarismo di classe, come nell’imperativo marxiano, o arrenderci alla politica del razzismo, come vorrebbe il neoliberismo, l’anarchismo chiede che qualsiasi processo di emancipazione sia pervaso da relazioni non universali, non gerarchiche e non coercitive, fondate sul mutuo appoggio e sull’impegno eticamente condiviso.

Infine, quello che l’anarchismo ha da offrire è esattamente l’opposto del neoliberismo. Differenziandosi dall’insito elitismo e autoritarismo dello stato, l’anarchismo punta alla produzione di beni comuni tramite la cooperazione umana in accordo ai bisogni, un processo che non richiede una struttura amministrativa, ma invece perni su cui si fonda un’etica di reciprocità. Una prospettiva anarchica riconosce inoltre che le nuove latenti forme di organizzazione, che potrebbero svilupparsi oltre la logica territoriale dello stato, possono esistere in un continuo processo di riflessione e revisione da parte di coloro che le praticano, così come impedire la formazione di qualsiasi potenziale gerarchia prima che le si possa permettere di crescere. Le geografi e anarchiche di cooperazione devono nascere all’esterno dell’ordine esistente, nei luoghi che lo stato ha mancato di includere e nelle infinite possibilità che la logica statale ignora, rifiuta, saccheggia e nega. Come Kropotkin (1887 p.153) ha eloquentemente chiarito: mentre tutti concordano che l’armonia è sempre desiderabile non c’è una corrispondente unanimità a proposito dell’ ordine che si immagina che regni nelle nostre società moderne; così che noi non abbiamo nessun tipo di obiezione all’uso della parola “anarchia” come negazione di quello che è stato spesso descritto come ordine.

Le geografie anarchiche sono quelle forze potenziali che continuamente infastidiscono lo stato sostenendo che sia semplicemente una delle possibilità socio-spaziali in un numero illimitato di altre. Così le alternative allo stato non nascono dall’ordine che esse rifiutano,in quanto contraddittorio e oppressivo, ma dall’anarchica profusione di forze che sono aliene a questo ordine e da quelle reali possibilità che questo ordine cerca di dominare e distorcere. I geografi radicali di conseguenza avrebbero molto da imparare dall’ intensificare le connessioni con quei popoli (come le tribù indigene di  Zomia) che non hanno mai avuto lo stato e praticato quello che James Scott (2009) chiama «l’arte di non essere governati». La questione qui non è la fine dello stato o la realizzazione di una politica che porti alla fine dello stato, ma piuttosto una «infinita richiesta», una lotta fatta di continua evasione, contestazione e solidarietà (Critchley 2007). Non siamo obbligati a vedere lo stato come l’esclusivo luogo dal cambiamento sociopolitico o l’unico riferimento di un paradigma rivoluzionario, come troppo spesso è avvenuto. Nello spirito delle citazioni che aprono questo articolo noi possiamo invece orientare la nostra rabbia e tristezza dentro di noi, dove la sostenuta indignazione per la nostra buona fortuna può portare a un riallineamento delle nostra bussola etica, forzandoci a fermarci e rifiutare, stando dalla parte di altri meno fortunati. L’empatia è la morte dell’apatia e comincia non quando lo stato è fluidificato, indebolito o smembrato, ma «qui e ora».

Conclusioni

 

La libertà come mezzo produce più libertà. Per coloro che condannano ciò come sterilità politica e posizione da «torre d’avorio» si risponda che il «realismo» e il loro «circostanzialismo » invariabilmente portano al disastro. Noi crediamo che sia più realistico influenzare le menti con la discussione piuttosto che plasmarle con la coercizione (Vernon Richards 1995, p.214).

L’etimologia di «radicale» viene dal latino radix e significa radice. I geografi radicali contemporanei farebbero meglio a esplorare questa originaria dimensione (ri)confrontandosi con i contributi di Kropotkin e Reclus, che senza timore criticavano la dominazione coloniale in un tempo in cui il «grosso» della geografi a marciava mano nella mano con il progetto imperialista. Ma la geografia radicale oggi non ha bisogno di rileggere il passato, bensì necessita di un futuro, di una iniezione di nuove idee che abbracci i progressi intellettuali fatti dal pensiero post-strutturalista e femminista per andare oltre quello che è già «conosciuto». All’interno degli studi anarchici il confine critico di questo tentativo è il post-anarchismo, che non cerca di muovere il «vecchio» anarchismo, ma rifiuta le basi epistemologiche delle teorie anarchiche «classiche» e il loro attaccamento all’essenzialismo del metodo scientifico. Il pensiero post-anarchico di conseguenza cerca di rinvigorire la critica anarchica espandendo il suo concetto di dominazione oltre lo stato e il capitalismo per comprendere le reti tortuose e molteplici che caratterizzano il potere contemporaneo; e rimuovendo i suoi quadri concettuali normativi e «naturali» per aderire a conoscenze specifiche ed empatiche. Applicare questa critica filosofica alla geografia radicale oggi richiede che si faccia una scelta consapevole etica e emozionale, scegliere se «essere alleati con la stabilità dei vincitori e dei governanti, oppure, cosa più difficile, considerare tale stabilità come uno stato di emergenza che minaccia i meno fortunati con il pericolo della completa estinzione» (Said 1993, p. 26). La seconda scelta richiede un deciso sforzo per rompere il fascino del «senso comune» della governabilità neoliberista, in quanto il governo non è solo la struttura politica o le procedure gestionali dello stato, ma l’indirizzo della condotta dei singoli e dei gruppi, significa «strutturare il possibile campo di azione degli altri», la loro direzione e la loro posizione (Foucault 1982, p.790).

Questo è un processo che molti geografi hanno già iniziato prestando attenzione all’intrico del potere, facendo ricerche sulle azioni partecipative e attraverso la teoria non rappresentativa (Thrift 2007), ma senza riferirla esplicitamente alla critica anarchica. Così se i mutevoli orizzonti dello spazio-tempo assicurano che le nostre esperienze vissute sono continui comportamenti che sfidano la divisione teorica di identità predeterminate e di soggettività codificate, allora che cosa è più «realistico» se non riconoscere la perpetua fioritura dei significati dell’anarchismo? Le geografi e anarchiche allora cercherebbero di mettere in dubbio la spazialità su cui il «governo» è fondato, per sostenere un non strutturato «campo di azione» dove gli individui volontariamente e/o collettivamente possano decidere la loro direzione, liberi dalla presenza e dalle pressioni di qualsiasi alta o ultima autorità. Il luogo di questa liberazione da tutte le varianti del potere sovrano non è radicato nell’idea di fissità, come è nella «trappola territoriale» dello stato, ma nella inesorabile affermazione di libertà attraverso dinamiche associazioni per affinità che possano essere interamente transitorie o solo poco permanenti. Il pensiero potenziale chiave è quello che ogni affiliazione è libera di rafforzarsi o dissolversi grazie alla condizione di una libera e individuale scelta, dove nessun soggetto, come il monopolio della forza o il controllo dei mezzi di produzione, faccia rispettare la sottomissione o la continuità condivisa.

Le geografie politiche delle frontiere e dei confini diventerebbero infinitamente intricate, sovrapponibili e variabili fi no al punto che cercare di fissarle in un rigido ordine o una griglia, come è nella epistemologia sottostante la moderna cartografi a, diventerebbe un esercizio di futilità. Questa mappatura, sia letteralmente come nella attuali carte sia attraverso tecniche come i dati censuari, è costitutiva della logica dello stato da cui cominciare ad agire e la proposizione delle geografi e anarchiche dovrebbe essere quella di dissolvere qualsiasi schema di categorizzazione e classificazione che promuova permanenze spaziotemporali.

Questo non significa che l’anarchismo sia un caos, ma che ogni organizzazione geografica debba procedere come un’etica di empatia invece che una politica di differenze, visto che queste ultime sono sempre forgiate dall’oppressione. L’anarchismo, spazialmente organizzato in questi termini, ci permetterebbe di comprendere l’ insieme delle persone piuttosto che considerarli soggetti o cittadini conformi a particolari spazi e a parziali obiettivi politici. Kropotkin ha descritto una simile visione quando scrisse: in questo tempo di guerre, di auto-centrature nazionali, di gelosie nazionali e odii abilmente alimentati da gente che persegue i propri egoistici interessi o di classe, la geografi a deve essere … un mezzo per dissipare i pregiudizi e creare altri sentimenti più nobili per l’umanità.

Le geografie anarchiche possono di conseguenza essere produttivamente caratterizzate dalla loro integralità, dove tutti i tentativi di creare false dicotomie di separazione sono rifiutate e al contrario l’umanità è riconosciuta come intimamente interconnessa con tutti i processi e flussi dell’intero pianeta (Massey 2005). Questa radicale riconcettualizzazione della disciplina la renderebbe simile, realizzando la visione di Reclus, sia alla Rete dei Gioielli di Indra della filosofia buddista sia all’ipotesi di Gaia, dato che i tentativi di separare ogni tipo di variante da quella politica a quella economica, da quella sociale a quella culturale e così via, sarebbe vista come una costruzione che tenti di addomesticare, costringere, dividere e contenere l’irriducibile intero.

Nuove forme di affinità stanno già emergendo in forma di «etiche relazionali di lotta» (Routledge 2009) dove non è più il lavoratore che è concepito come il soggetto del cambiamento storico, ma gli oppositori anticapitalisti che comprendono gruppi eterogenei che sfuggono alla soggettivazione universale dell’identità proletaria. Riconoscere questo potrebbe essere il punto di partenza per scalzare la posizione che il marxismo detiene oggi nella geografi a radicale. Questa emergente forma di lotta è chiaramente non interessata a formulare strategie che replichino tradizionali strutture rappresentative, volendo significare uno spostamento paradigmatico dal cambiare lo stato modificandone i caratteri, prestando invece attenzione a movimenti autonomi in opposizione allo stato. In questo contesto Newman (2010, p.182) identifica una serie di nuove questioni e sfide politiche: «libertà oltre la sicurezza, democrazia oltre lo stato, politica oltre i partiti, organizzazione economica oltre il capitalismo, globalizzazione oltre i confini, [e] vita oltre la biopolitica».

E ancora, queste non sono solo questioni politiche, ma ciascuna è anche profondamente geografica. Mentre i geografi stanno già esaminando queste concrete questioni c’è stata un’attenzione molto ridotta ai modi in cui l’anarchismo può favorire una più rigorosa analisi di queste emergenti geografie. Di conseguenza concettualizzare un «andare avanti», oltre le dominanti strutture del neoliberismo e le perduranti animosità del colonialismo, significa un più profondo rapporto con le filosofie anarchiche. Impegnare la geografia radicale in un programma anarchico vorrebbe dire la negazione della falsa dicotomia che la disciplina mantiene tra l’accademia come luogo della produzione della conoscenza da una parte e dall’altra la più ampia società come campo della lotta sociale. Perciò reti di solidarietà con coloro che svolgono azione diretta nelle strade potrebbe ben essere il futuro della geografi a radicale. Da qui possono fiorire idee che permettano nuove immaginazioni geografi che e materializzazioni che vadano oltre politiche stato-centriche; possono fiorire forme di organizzazione non istituzionali, «glocalizzate», temporanee e volontarie, e la teoria kropotkiniana del mutuo appoggio come pure il contributo di Reclus agli ideali della libertà umana possono avere lo stesso tipo di attenzione che finora Marx ha avuto dalla geografia radicale. L’anarchismo, come Kropotkin (1978 [1885]) ha riconosciuto più di un secolo fa, è «quello che la geografi a dovrebbe essere».

traduzione di Fabrizio Eva

 

 

Bibliografia

John Agnew, The territorial trap: The geographical assumptions of international relations theory, in Review of International Political Economy, 1994, n.1, pp.53-80.

Benedict Anderson, Under Three Flags: Anarchism and the Anti-Colonial Imagination, Verso, London, 2005.

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1. La Nave di Teseo

di Edoardo A. Pastore, 26 settembre 2018,da sguardistorti n. 04 – ottobre 2018

Introduzione di Marco Moraschi

Come qualcuno mi fa notare, in questo periodo sono in vena di “pipponi mentali”, ma evidentemente sono in buona compagnia visto che il mio amico Edoardo si è premurato di farmi avere il suo. Naturalmente non poteva che innescare un meccanismo pericoloso, per il quale i pipponi mentali si richiamano a vicenda, ed è così che ho scritto un commento pipposo al suo pippone. Buona lettura.

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Il paradosso della nave di Teseo suppone che la nave appartenuta al famoso eroe venga tenuta ormeggiata al molo come un pezzo da museo. Col passare del tempo però, le parti di cui è composta che incominciano a deteriorarsi vengono sostituite con nuove parti, fino a quando, trascorsi gli anni, delle parti originali non rimane più traccia. La domanda insita in questo paradosso è: la nave le cui parti sono state interamente sostituite è ancora la nave originale oppure è una copia?

La prima volta in cui lessi questo paradosso, ritenni la risposta così scontata che non capii come qualcuno potesse essersi posto il problema: naturalmente la nave le cui parti sono state sostituite per intero non è più la nave originale, ma nient’altro che una riproduzione, in quanto vengono a mancare i presupposti stessi dell’originalità. Tecnicamente non sarebbe più stata del tutto originale anche se avessero sostituito una soltanto delle sue componenti, al massimo sarebbe stata una nave restaurata con metodo non conservativo. Qualora avessero voluto mantenerne l’originalità, infatti, avrebbero dovuto conservare le parti originali prendendo tutte le possibili precauzioni affinché non si deteriorassero (atmosfera protettiva, sostanze chimiche che ne ritardassero il deterioramento, ecc …).

Poco dopo, ripensando a questo paradosso, mi vennero però in mente implicazioni ben più profonde e di più difficile risoluzione, se lo si fosse trasposto sugli esseri umani e, nello specifico, al concetto di identità. Immaginiamo quindi un mondo futuro, un mondo in cui per mezzo della tecnologia sia possibile estendere la vita umana e la capacità di ricordare oltre limiti prima impensabili. Per ottenere ciò il mondo della fantascienza ci offre innumerevoli possibilità, ma prendiamone una in particolare: la sostituzione di tutti i tessuti umani, compresi quelli cerebrali, con una variante sintetica e molto più duratura. Questa tecnica prevede il potersi iniettare nel corpo delle nano macchine (ma anche virus o batteri modificati vanno bene lo stesso) le quali, una volta entrate in circolo, operano come segue: individuano una cellula e, dopo averne fatto una copia identica nell’aspetto e nelle funzioni, eliminano l’originale. Questo non avviene solo con i tessuti muscolari, scheletrici o connettivi, ma anche e soprattutto con quelli nervosi. Ne deriva che tutti gli ammassi cellulari nei quali sono custoditi i nostri ricordi, ma anche le complesse strutture che regolano la nostra reazione agli stimoli esterni, ovvero il carattere e gli atteggiamenti, vengano duplicati, e l’originale eliminato.

Questo processo, tuttavia, è estremamente lento e graduale e colui che lo sta vivendo non si rende minimamente conto che esso sia in atto. Ne deriva che nell’arco di qualche tempo ogni singola cellula del corpo, comprese quelle che determinano la coscienza ed i ricordi, siano sostituite da copie sintetiche. Questa persona si comporterà esattamente come si comportava prima del processo, amerà le stesse persone, avrà gli stessi ricordi delle stesse esperienze, percepirà il mondo e reagirà agli stimoli esterni esattamente nello stesso modo in cui avrebbe reagito se nulla fosse accaduto. Sarebbe quindi questa persona la stessa di prima? Sì? No?

Ora, cosa cambierebbe se il processo si svolgesse diversamente? Ovvero, se la persona venisse duplicata istantaneamente e l’originale ucciso, senza che possa rendersene conto, nel momento stesso in cui la copia viene creata? Di primo acchito si potrebbe dire che sono due cose completamente diverse, ma i dubbi inizierebbero a sorgere nel momento stesso in cui ci si rendesse conto che la sola differenza che sussiste tra un processo e l’altro è che uno si verifica in maniera graduale e l’altro istantaneamente. D’altronde, in entrambi i casi tutto ciò che costituiva l’originale, ogni singolo elemento, è stato eliminato. È quindi la gradualità ciò che rende una situazione paragonabile ad un “upgrade” e l’altra un omicidio? Ricordo che entrambe le copie sono diverse dall’originale nella biologia, ma identiche in tutto e per tutto all’originale nel modo di comportarsi e ricordare e, soprattutto, identiche tra di loro.

Questo paradosso ci porta a considerazioni in merito a cosa ci rende ciò che siamo: è la coscienza? Ma cos’è la coscienza se non un modo di reagire agli stimoli esterni determinato, in modo molto prosaico, da una combinazione di sostanze chimiche in varie proporzioni, e dalla presenza di una struttura che ha molto più in comune con la meccanica di quanto non abbia con la concezione cristiana dell’anima (una sorta di “software” di natura non ben definita)?

Con questi presupposti, entrambe le situazioni sopra presentate dovrebbero apparirvi uguali: ma allora perché accogliereste con gioia ed eccitazione la possibilità di un notevole miglioramento della vostra condizione fisica (specie se indolore) e solo l’idea di poter essere prima duplicati, e poi uccisi, vi fa accapponare la pelle? Non dovrebbe essere la stessa cosa? Oppure la differenza non sta solo nel metodo, ma c’è qualcos’altro? Vi è forse la possibilità che la definizione di coscienza utilizzata come presupposto delle precedenti affermazioni sia da considerarsi errata?

Ora, facciamo un’altra ipotesi. Siamo nel secondo caso, ovvero in quello in cui venite duplicati e poi uccisi: ipotizziamo che nel processo qualcosa vada storto e voi, o meglio, il voi originale, sopravviva. Ci si ritroverebbe ad avere due di voi esattamente uguali in tutto e per tutto. Legalmente come dovreste essere visti? Chi dei due avrebbe diritto su cosa dell’altro? Immediatamente uno penserebbe che sia l’originale il vero depositario di tutti i diritti, ma ciò significa quindi che alla copia dovrebbe essere negato ogni diritto sugli averi dell’originale? D’altronde la copia ha faticato tanto quanto l’originale per ottenere ciò che possiede ed ama i figli e la moglie esattamente allo stesso modo. Si vuol quindi negare la possibilità alla copia di tornare a casa ad abbracciare i figli, coi quali condivide tutti i ricordi e che ha contribuito a crescere? Senza dimenticare il fatto che creare una copia di sé stesso era esattamente nelle intenzioni dell’originale.

Tempo fa lessi un libro intitolato “L’età dell’Oro” di John C. Wright. In questa storia, ambientata in un futuro lontano, l’uomo è divenuto immortale, in quanto la sua coscienza è “salvata” in un cloud, e si muove sulla Terra attraverso il controllo da remoto di un “manichino”, una sorta di robot all’interno del quale si ha l’impressione di essere in un vero corpo. Tuttavia, ciò è possibile soltanto finché si rimane sulla Terra, ovvero alla “portata” del sistema che offre questo prodigioso servizio. Chi volesse viaggiare nello spazio avrà quindi come unica opzione quella di trasferire la propria coscienza per intero all’interno di un corpo reale ed effettuare il backup di sé stesso di tanto in tanto, per mezzo di una comunicazione via laser, verso la stazione di “vita eterna” più vicina. Il padre del protagonista aveva fatto proprio questo: aveva trasferito la propria coscienza in un corpo reale, per poter lavorare alla costruzione di un’astronave lontana dalla Terra, ma proprio mentre stava lavorando si era verificato un incidente: la nave in costruzione era esplosa e lui era morto mentre il trasferimento non era ancora completato. Il problema è che ciò che di lui era già stato trasferito era autocosciente e possedeva la stragrande maggioranza dei ricordi originali. Ne deriva che il figlio, desideroso di mettere le mani sull’astronave, indice una feroce battaglia legale nei confronti di ciò che rimane del padre, per dimostrare che il padre non è più lui, in quanto ha perso una parte di sé. Di conseguenza, il figlio sarebbe da considerarsi ereditiere ed il padre tecnicamente e giuridicamente morto.

Quando lessi questo romanzo non potei fare a meno di fare un parallelismo con il mondo reale: è come se qualcuno che ha perso dei ricordi a causa di un incidente non fosse più ritenuto la stessa persona di prima, e venisse quindi privato di ogni diritto sui suoi possedimenti in favore dell’eventuale prole. Questo suona orribile e completamente immorale, ma ciò non vieta che un giorno, in una società profondamente diversa dalla nostra, i confini di ciò che determina ciò che siamo non vengano tracciati in una maniera del tutto dissimile a quella a cui siamo abituati.

La costruzione che distrugge per poter dare forma al mondo

ovvero la forma di un pensiero critico

di Marcello Furiani, 30 aprile 2018

La costruzione che distruggeA parzialissima risposta – peraltro non richiesta – del saggio (o analisi, dissertazione, relazione, studio …) La discesa dal Monte Analogo di Paolo Repetto, vorrei portare alcune riflessioni di tipo metodologico su un tema – il pensiero critico – che a mio avviso soccorre l’intelletto nel comprendere e valutare ciò che si legge. Se – come sosteneva Adorno scrivendo del fenomeno nazista – agire e pensare criticamente significa pensare contro regole che si sono stabilizzate in secoli di tradizione filosofica e scientifica, ne consegue che un linguaggio che si è strutturato su un pensiero e all’interno di una cultura che ha generato nel suo stesso cuore l’orrore, difficilmente potrà darne criticamente conto e ragione. E qui anticipo la mia tesi: spetta a un linguaggio altro, quello poetico e artistico, la possibilità di arrivare a quella forma di testimonianza che è sottratta ad altri linguaggi. Pensiero debole? Tutt’altro: pensiero forte, fortissimo; e vediamo perché.

Ma procediamo con ordine.

Non intendo ricercare una sua definizione esaustiva o dilungarmi sui modelli applicativi che negli ultimi decenni si è cercato di costruire per educare a uno spirito critico (di sfuggita sottolineo soltanto quanto sia limitante racchiudere il pensiero critico entro i confini di un modello, vincolarlo a un preciso algoritmo). E nemmeno ripercorrere il metodo socratico descritto da Platone, che può considerarsi l’origine del pensiero critico comunemente inteso.

Innanzitutto una notazione di carattere etimologico: l’origine di quella che è considerata la più alta e qualificante attività umana è curiosa. Infatti, il termine pensiero deriva dal latino pensum che, nel suo senso proprio, indicava la quantità di lana pesata attribuita alle filatrici di epoca romana e, solo nel suo senso più esteso, significava una generica questione su cui meditare o riflettere. È interessante notare come la concezione latino-occidentale del pensiero abbia un’origine fondamentalmente pratica e manuale, mentre la vicina civiltà greca aveva sviluppato e radicato – già a partire dai poemi di Omero – il concetto ben più strutturato di noûs (intelletto, mente, ragione) più legato alla percezione puramente intellettuale e immediata della realtà da parte del soggetto pensante.

Il pensum era quindi la materia prima, più grezza, designante metaforicamente un elemento o un tema che doveva essere secondariamente trattato, elaborato, conferendogli così una nuova forma. Possiamo in ciò rilevare la peculiarità attribuita al pensiero come qualcosa di straordinariamente semplice che concepisce e confeziona oggetti complessi: l’attività del pensiero si esplica nel comporre oggetti, ovvero pensare significa pensare oggetti composti e compositi. Da questo punto di vista, l’attività del pensiero è ciò che si situa a monte degli oggetti pensati, pur essendo composto della loro stessa sostanza.

Esistono, come sapete, molte critiche: critica letteraria, critica d’arte, critica filosofica e via dicendo. E poi ci sono le sub-critiche: critica filologica, critica formale, critica stilistica, critica sociologica ecc.

Io vorrei soffermarmi su come si forma oggi un pensiero critico, su ciò che struttura oggi un pensiero critico, partendo dal luogo specifico della filosofia.

Michel Foucault in un saggio del 1963 su Bataille[1] – quindi ormai più di cinquant’anni fa – affermava che la filosofia non è altro ormai che la forma sovrana e primaria del nudo linguaggio filosofico: si tratta quindi secondo Foucault di un’attività divenuta ormai autoreferenziale, una sorta di vagabondaggio all’interno del linguaggio stesso che può pervenire fino al vuoto, in assenza di un oggetto concreto su cui possa fare presa e attrito. Sembra così che negli ultimi decenni del secolo scorso la filosofia abbia affrontato – come ha scritto Jean-Luc Nancy[2] – la questione radicale del senso, appunto, negandolo, fino a quasi negare se stessa, scavando in profondità la propria fine, decostruendo il suo proprio senso.

Emerge dunque la necessità per la filosofia di dislocarsi, fino al punto sul quale essa possa trovare, o meglio fare, ancora problema, travasarsi nel luogo di una qualche sua trasformazione, il luogo in cui essa possa convertirsi in critica: potremmo dire mettersi in esilio rispetto alla sua stessa tradizione e alle sue pratiche abituali. Non si tratta – come proverò a illustrare – di approntare una sorta di kit di strumenti, di corredo, di equipaggiamento in dotazione per affrontare questo o quell’oggetto, e cioè gli arnesi della critica letteraria, della critica d’arte e via dicendo perfezionati con gli utensili delle critiche secondarie o sub-critiche. Ma si tratta di un mutamento strutturale che trasforma la filosofia stessa.

Eppure la filosofia nella sua storia ha avuto un grande attrito sul mondo, tanto grande da animare in sé un’immane volontà di potenza: Robert Musil ha scritto, ha potuto scrivere che “i filosofi sono dei violenti che non dispongono di un esercito e perciò si impadroniscono del mondo rinchiudendolo in un sistema[3]. In altre parole, potremmo dire, come nella metafisica, la filosofia ha negato la verità del mondo in cui viviamo, il mondo delle apparenze, rinviando la verità, come dice Nietzsche, “a un mondo sopra il mondo[4], perché questo è infatti il significato letterale della parola metafisica: al di là della fisica.

Platone ha per primo affermato che la filosofia è un’arte mortale, non solo perché deve vincere negli uomini il timore della morte, ma perché mette a morte il mondo della realtà sensibile, delle apparenze, sacrificandolo all’idea. È questo il grande tema che percorre tutto il Fedone, in cui si dichiara esplicitamente che la filosofia è l’arte del morire, del mettere a morte cioè il corpo, che è terroso, opaco e ci impedisce di conoscere, di assumere una conoscenza vera, ci trascina nel limo, nel disordine delle sensazioni.

Anche Hegel, più di duemila anni dopo Platone, ha ribadito – a partire dalla Fenomenologia dello spirito – l’irrilevanza del mondo delle apparenze, vale a dire del questo e qui sensibile, in quanto inattingibile al linguaggio che appartiene a ciò che è universale. In altre parole, il linguaggio può parlare solo dell’universale e quindi ciò che non è universale non concerne il sapere e viene espulso dal campo del sapere.

Ma non cogliere la singolarità della cosa significa anche la negazione della singolarità del soggetto che si misura con la cosa, del soggetto che esprime istanze – continua Hegel – che sono solo un “incomposto fermentare[5]: una materia informe, che fermenta, si agita, ribolle, quelle che sono le passioni, i sentimenti di un soggetto.

La filosofia, prima della crisi degli ultimi decenni del secolo scorso, ha preteso dunque di ordinare il mondo, le cose, gli uomini e nella sua iattanza non ha certo conosciuto la critica. Quando la filosofia ha pronunciato questa parola – la parola critica – è perché con essa, come ha fatto Kant, ha aperto un tribunale della ragione, che deve decretare ciò che è conoscibile ed è lecito conoscere. Ciò che per essa è inconoscibile – vale a dire extra-moenia, fuori dalle mura – affonda letteralmente, scrive Kant, “in un vasto oceano tempestoso dove regnano nebbie grosse e ghiacci prossimi a liquefarsi[6].

Platone, come abbiamo visto, affida alla filosofia il compito di imparare a morire. Franz Rosenzweig apre proprio il suo grande libro intitolato La stella della redenzione su questo tema: di fatto dunque con un atto di accusa di fronte all’estremismo della volontà di potenza della filosofia, che si spinge, come abbiamo visto fino al tentativo di vincere la morte esorcizzandola nel pensiero. La conoscenza per il filosofo prende il suo inizio in Platone come in Hegel proprio dalla morte, in cui si approda alla conoscenza del tutto che sembra essere il fine della filosofia: il totem del totum[7], parafrasando Adorno. Dunque, prosegue Rosenzweig, in essa domina l’aspirazione o l’illusione di rigettare la paura che attanaglia ciò che è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente: la terra partorisce i morenti, la filosofia nega la paura della morte, il luogo della caducità e così nega anche la terra, non soltanto il corpo che viene ripudiato e trascurato in favore dello spirito, ma la terra stessa in cui si muove il soggetto appunto dotato di corpo e di spirito.

Nel Fedone Socrate va lieto verso la morte che lo libera dalla prigione del corpo e della sua terrosa opacità che ostacola la conoscenza: è la morte del filosofo. Sembra però che questa morte non riguardi però il soggetto Socrate, e nemmeno Critone il suo amico o gli altri amici che assistono a questa morte, ma si riferisca a tutti quelli che sono fatti di terra, di quella terra che partorisce i morenti, di quella terra negata.

Viene alla mente il grande racconto di Tolstòj La morte di Ivan Il’ič: anche Ivan ha studiato filosofia e di fronte alla morte ne contesta le conclusioni. Ivan sa che Caio è un uomo e che gli uomini sono mortali e che Caio è mortale: questo sillogismo gli sembrava ora giusto per Caio, ma non per lui. Perché Caio è un uomo in genere, non è questo uomo, non è più un Io, è un neutro. Ma lui, Ivan, è diverso, con le sue relazioni, i suoi amori, i rimorsi, i ricordi, le colpe e le omissioni. “Era stato forse per Caio quell’odore di palla di cuoio a spicchi che Vanja tanto amava? […] era stato forse Caio a sentire il fruscio della veste di seta della madre?[8]

All’Io che vuole vivere la filosofia prospetta la morte, la spersonalizzazione della morte. La filosofia esalta questa morte, prosegue ancora Rosenzweig, questa morte neutralizzata come la propria prediletta, come la nobile occasione per sottrarsi alle angustie della vita. La filosofia propone questa morte, perché la filosofia è innamorata, scrive Rosenzweig, dell’“illud[9], cioè di questo neutro in cui naufraga il soggetto, in cui affonda l’io.

Anche dopo la caduta dei fondamenti, anche dopo l’erosione della metafisica annunciata da Nietzsche con l’esaltazione del mondo delle apparenze, della magnifica iridescenza “del ventre del serpente della vita[10], la filosofia ha mantenuto la sua volontà di potenza.

E con questa entra nel XX secolo.

Si pensi che Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus chiude in poche decine di pagine tutte le proposizioni che corrispondono a tutti gli “stati di fatto” di cui si può parlare. Sul resto, su ciò che eccede la sequenza di proposizioni contenute in queste decine di pagine si deve tacere. “Il mio lavoro” scrive Wittgenstein “consiste in due parti: di quello che ho scritto e inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante[11]. Questa seconda parte deve di fatto rimanere muta: Wittgenstein ha inteso tracciare un limite al pensiero, o meglio un limite all’espressione dei pensieri: la critica era per lui esattamente questo limite, questo nec ulterius, questo non oltre. Ha tracciato un limite al linguaggio e “tutto ciò che è oltre questo limite” ha scritto “sarà semplicemente non-senso[12].

Questo ci porta direttamente nel XXI secolo alla filosofia analitica anglosassone. È una filosofia che – come afferma Susan Neiman[13] – impone di dimenticare le questioni relative alla vita e alla morte, al bene e al male: vale a dire le questioni da cui è nata la domanda filosofica. Sembra che il fine della ricerca sia la legittimazione linguistica di ogni affermazione interna alla disciplina filosofica stessa. È curioso, ma assistiamo oggi all’incrocio tra questa filosofia e l’eredità dell’esoterica ontologia heideggeriana. Entro i limiti stabiliti dal linguaggio, per una schiera di nuovi filosofi l’affermazione dell’essere della cosa è un’affermazione aproblematica, non lascia alcun cono d’ombra: si passa a una cosalità immediata, diretta.

E quindi, nella dissoluzione dell’estremismo dell’ermeneutica, c’è questo assolutismo ontologico che in realtà si riduce, come avrebbe detto Adorno, al “miseramente ontico[14], all’affermazione pura e semplice di ciò che esiste. E cosa rimane delle questioni relative alla vita e alla morte, al tempo, alla gioia e al dolore, cosa persiste dell’inquietudine che spinge a pensare, come dice Bataille, che “ciò che è significa ben più di ciò che è[15], cioè che se esiste un impensabile e un irrappresentabile è proprio questo che dobbiamo cercare di pensare e di rappresentare? Questa inquietudine, che ha abbandonato la filosofia tradizionale, ha costruito una diversa modalità di scrittura filosofica: quella del saggio critico, che è stata teorizzata da Gyȍrgy Lukàcs, poi da Walter Beniamin, da Adorno e poi ancora, più vicini a noi, da Elias Canetti, da Maurice Blanchot, insieme a Freud e i grandi scrittori della modernità come Musil, Proust, Thomas Mann e altri.

La filosofia saggistica – o più propriamente il pensiero saggistico – non ha più la pretesa di ormeggiare alla banchina di una verità assoluta. È qui lo scatto: non esiste più la totalità, non esiste più la volontà di potenza di chiudere in un sistema una visione esaustiva del mondo che intende discernere il vero dal non senso. Il pensiero saggistico si muove, come l’arte, nel dominio dell’incerto. Ha detto Leibniz: “Credevo di essere arrivato in porto, e sono stato rigettato in mare aperto”.

Ne LArte del romanzo di Kundera si dice che parallelamente, mentre Cartesio stabiliva le regole del ben pensare, Cervantes con il suo Don Chisciotte decretava il sapere dell’incertezza, direi una legittimità dell’incerto[16]. Fenomeno, qualche secolo dopo, espresso compiutamente in quel grande romanzo che è L’uomo senza qualità di Musil, in cui l’uomo è un insieme di qualità senza un centro che le unifichi, nella scomparsa di quella totalità umana e poetica che non ci compete più, né più ci appartiene.

In qualche modo, il pensiero critico cerca di saldare, di riunire questi due saperi: quello della sistematizzazione razionale e quello dell’incerto, del dubbio, dell’inquietudine. Il pensiero saggistico-critico cerca costantemente di trovare la verità nell’arte – come nelle apparenze del mondo (critica quindi non solo letteraria, artistica, ma anche delle formazioni e delle realtà del mondo) – quindi proprio là dove questa sembra negarsi, cerca la verità nella negazione e della negazione, cerca comunque una verità possibile, anche se relativa, insorgendo contro una filosofia immanente delle cose, adagiata su di esse, fondamentalmente priva di responsabilità.

Ecco, questo è secondo me il grande tema: la responsabilità del pensiero in rapporto al mondo; quando noi parliamo, scriviamo, esprimiamo un pensiero assumiamo una responsabilità immensa, perché non c’è più nulla che la garantisca come nella metafisica. Ora ogni espressione deve assumersi la responsabilità di ciò che esprime, ognuno che traccia un segno su un foglio, su una tela e via dicendo deve assumersi la responsabilità di ciò che proietta nel mondo.

La dimensione della responsabilità emerge in termini ineludibili nel momento in cui si recide un rapporto di corrispondenza tra la realtà e la sua rappresentazione, tra l’immagine il “correlato oggettivo[17] direbbe Eliot, si rompe cioè una sorta di patto mimetico: io dipingo questo fiore e questo fiore corrisponde a qualcosa. Ma Mallarmé dice che la parola fiore non ha alcun odore e che quel fiore non è più un fiore[18]. In questa frattura, già intravista da Saussurre, che affermava che tra significato e significante non c’è alcun rapporto necessario[19] – e che Steiner definisce la vera rivoluzione che caratterizza la modernità[20] – è l’autore a definire il senso della sua opera e se ne assume la responsabilità. Nelle arti questa responsabilità diventa politica: quando Mallarmé dice “dare una parola più pura al linguaggio della tribù[21] intende rompere con i linguaggi standardizzati e con quelle degenerazioni che Flaubert – definendole le “legioni dei diavoli[22] – considerava il male assoluto, cioè la frase fatta, il luogo comune, la chiacchiera.

Oggi assistiamo a una deriva culturale negli ultimi decenni che ha fatto crescere esponenzialmente la semplificazione come dinamica del pensiero, una semplificazione che mortifica e avvilisce ogni possibilità di chiarire un argomento, di acquisire elementi di conoscenza, di costruirsi una competenza, di comprendere diversi punti di vista, tanto meno di problematizzare, finendo per esaltare un’assenza di pensiero o un non-pensiero unico corrotto e involgarito, un’omologazione incolta e illetterata che costituisce un brusio di fondo che fabbrica una nuova legione diabolica e una nuova standardizzazione del linguaggio in cui il senso si inabissa, si estingue la capacità di dirimere, cioè di fare critica. Tutto rischia di scorrerci addosso senza lasciare traccia, senza piantare semi, dove nulla diventa una qualità dell’esperienza, nulla entra nella costruzione della propria identità, nulla ci ferisce o ci salva. E mi riferisco qui non solo alle cosiddetta cultura di massa, ma anche e soprattutto a quella nuova tendenza di far filosofia, la popsophia, la filosofia alla Peppa Pig, tanto per capirci, frequentata da intellettuali griffati[23] che pensano di fare veramente filosofia sovrapponendo il vocabolario di Heidegger a Beautiful, l’analitica esistenziale a Un posto al sole e il decostruzionismo ai Teletubbies, senza alcuna coscienza critica. Ma elevare il discorso da bar a riflessione, però, non è una conquista del pensiero: è una triviale ricerca di consenso, un’adesione acritica all’esistente, travestita da politicamente scorretto, così tanto di moda oggi nella mistificazione di chi pensa che impiantare le parole in luogo delle cose significhi trasformarne la natura[24]. “Logica ed etica sono sostanzialmente la stessa cosa” – diceva Otto Weininger – “un dovere verso se stessi[25].

A proposito della lettura, per esempio, Geoge Steiner ha scritto: “Leggere bene significa correre grossi rischi. Significa rendere vulnerabile la nostra identità, il nostro autocontrollo […] chi ha letto le Metamorfosi di Kafka e riesce a guardarsi allo specchio senza indietreggiare è forse capace, tecnicamente, di leggere i caratteri stampati, ma è analfabeta nell’unico senso che conti realmente[26].

Inoltre osserviamo i danni enormi che la desertificazione della conoscenza storica del pensiero ha provocato, tra cui averci inchiodato a un eterno presente, direi addebitando il tempo di un eterno presente. Ma a questo proposito dice Eliot nei Quattro quartetti: “se tutto il tempo è eternamente presente, tutto il tempo è irredimibile[27], cioè tutto si scioglie, si polverizza, si liquefa, nuota in una palude, negando il fondamento di ogni critica, ossia la considerazione della temporalità, delle parentele temporali, delle stratificazioni storiche.

La rinuncia alla verità, dopo la fine della metafisica, si è declinata spesso come rinuncia al senso che è stato delegato ad altri saperi, quelli legati alla tecnica e alla sua potenza, rispetto alla quale la filosofia come professione sembra mostrare un’assoluta sudditanza. Il saggio non-accademico si muove altrimenti, si disloca altrove rispetto alle filosofie del limite e della rinuncia, si esilia da esse, propone un pensiero che si costruisce intorno agli oggetti senza la pretesa di esaurirli. Incorpora nel suo movimento le tensioni e le contraddizioni che attraversano il reale e che emergono come tali nel suo corpo in opere che appaiono, come dice Adorno, “corrugate o addirittura dilaniate[28].

Se la dialettica era destinata a risolvere la contraddizione, Benjamin propone una dialettica sospesa, arrestata, in cui gli estremi emergono e aprono una tensione critica che non può e non deve avere soluzione, anzi significano proprio nella loro inesausta tensione. Benjamin afferma che in questa immagine dialettica si realizza “l’ora della conoscibilità[29] – come è emersa anche in Proust – segnando ancora una volta la complicità di questa filosofia critica con le forme e i saperi artistici che Platone aveva voluto espellere dalla Repubblica. Il saggio si pone così come una scrittura e una modalità di conoscenza critica proprio in quanto ha appreso a ibridare immagine e concetto per recuperare al pensiero filosofico quella compatibilità e quella contiguità con l’esperienza umana che la filosofia sembrava aver perduto.

Si tratta di continuare a confrontarsi con la pluralità conflittuale del mondo, quella complessità che si afferma, secondo Nietzsche, nelle forme antinomiche e contraddittorie del tragico. Si tratta di trasformare l’infinito e indifferente scorrere di interpretazioni nuovamente in conflitto delle interpretazioni, per cogliere il senso di un mondo lacerato e il senso delle opere che questa lacerazione provano a raccontarla.

È necessario che il pensiero pensi anche contro se stesso. Altrimenti la filosofia, come ha detto Adorno, si illude di conoscere ciò che pensa semplicemente assimilandolo a sé, ma così essa conosce propriamente se stessa e solo se stessa e non il mondo.

L’arte di per sé procede criticamente, traducendo quella che convenzionalmente viene definita ispirazione dell’artista, la visione della madeleine proustiana, all’interno di regole linguistiche e sintattiche, operando una violenza su se stessa. E il critico, a sua volta, opera una violenza per ritrovare la madeleine, per rinvenire quell’ispirazione che l’artista ha dovuto nascondere dentro le procedure sintattiche. Ed è un processo polemico: da polemos, la guerra che Eraclito diceva essere il padre del mondo[30].

Certo, molte sono le cose inesprimibili, molte sono le cose prive di espressione: è l’Ausdrucklose, il privo d’espressione di Benjamin. L’Ausdrucklose indica il passaggio dall’idea del bello a quella del vero, il punto di sospensione dell’opera, il luogo in cui il contenuto si trova in uno stato di sospesa incertezza, presente immobile rispetto al tempo fluido della narrazione e, tuttavia, oscillante tra il mito che si disegna come passato e la redenzione che si dispiega come futuro. È l’apparizione dentro l’opera dell’origine, di ciò che storicizza il suo tempo, il quale – proprio perché si dà come un continuum – si rivela in realtà immobile: il divenire precipita nel suo telos e si annulla. Arrestarlo nell’Ausdrucklose è il compito della critica[31].

Il pensiero si legittima soltanto in quanto si assume la responsabilità di cercare di esprimere l’inesprimibile, anche per approssimazione, anche se è necessario procedere alla frantumazione di “una totalità falsa e aberrante[32], dice ancora Benjamin. È quella che Kafka chiama, in un’espressione paradossale ma illuminante, “la costruzione che distrugge per poter dare forma al mondo[33]. Viene a mancare la certezza propria della metafisica, ma anche la certezza perentoriamente pretesa dei nuovi realisti. Io credo che solo dall’incontro tra filosofia e poesia possa nascere una modalità di indagine su ciò che non ha espressione e questo colloquio deve potersi attuare nelle zone d’ombra, dove non è una logica dialettica che potrà far parlare l’opera d’arte. Se è vero che esiste un dissidio tra filosofia e poesia, in quanto quest’ultima non è vincolata alla verità, oggi una filosofia che si identifichi con la scienza è inimmaginabile, a meno di non costringere la filosofia in un’angusta analisi logico-linguistica, invece di volgerla a interrogare le opere d’arte intorno all’inespresso e all’inesprimibile, mettendo a frutto la capacità della filosofia, in quanto estetica, di accogliere e svolgere il senso non-discorsivo presente nelle creazioni artistiche, la cui verità è irriducibile sia alla composizione meramente formale sia al messaggio rinvenuto nell’opera.

Un romanziere, Imre Kertész, presentando un suo libro di scritti critici ha affermato: “Non considero saggi nel senso tradizionale del termine gli scritti che seguono. Parlerei piuttosto di approssimazioni, anche se naturalmente questo genere letterario non esiste. Da una parte vorrei sottolineare il fatto che nessuno di questi lavori esaurisce il proprio oggetto, ma riesce al massimo ad approssimarsi ad esso, dall’altro vorrei evidenziare che essi affrontano – sebbene da un altro punto di vista – lo stesso argomento delle mie opere narrative: l’inavvicinabile”[34].

Un solo passo verso l’inavvicinabile, nel senso racchiuso nelle increspature di un’opera – sia questa un libro, un quadro, un film, un’architettura o nelle pieghe delle realtà – vale la sfida che il pensiero critico lancia nei confronti del pensiero della certezza: la verità non è netta, ma ha, come ha scritto Hermann Melville, “confini sfrangiati[35].

Muoversi su questi confini è compito del pensiero critico.

 

Tre post scriptum

  1. Su Maffesoli: vorrei cavarmela con una battuta: è un sociologo, debole in filosofia.
  1. Su Alessandro Baricco: è autoreferenziale fino all’acidità da reflusso gastroesofageo, post italocalvinista di riporto, ben attento a non deplorare mai nulla, a rassicurare sui conflitti e sulle contraddizioni della postmodernità. Il suo è un composto di cibo masticato, impastato e imbevuto di quella saliva che tutto concilia, scolora le oscurità, annulla virtù e talento, contrabbanda la rapidità con l’efficienza, la banalità per complessità e rende tutto commestibile in questo luna park del consumo. Bolo per analfabeti di ritorno, altro che l’ascia di Kafka.
  1. Sul postmoderno e, tra le righe, ancora su Maffesoli: Nell’esperienza greca il mito è vissuto come un tentativo di colmare il dolore della distanza dall’origine, ma anche come la consapevolezza che non c’è mai un vero ritorno all’origine. Nella modernità i miti sono diventati domestici, sono tutt’al più cani da compagnia, più spesso false idee comodamente acquattate nella pigrizia del nostro pensiero. Basta pensare al ruolo che nella città greca aveva il teatro, la tragedia. La città teatro contro la città ipermercato. C’è una connessione tra spazio simbolico e rappresentanza del conflitto, da una parte, e forma dell’agire politico, dall’altra. Nel mondo greco prendere posizione, decidere è tragico, perché non c’è soluzione conciliativa, non c’è mediazione razionale. Il conflitto, che non è sanabile, quindi tragico, è solo rappresentabile.

Ogni conflitto nella modernità è, invece, risolubile attraverso la risarcibilità, poiché tutto è ridotto a misura del denaro, slegato per definizione a qualsiasi concetto di valore, nel politeismo dei valori che è indifferenza a ogni valore, che è un infischiarsene degli dei. E della tragedia non conserva nemmeno la memoria. Il conflitto irriducibile può essere rappresentato, trasformato nella rappresentazione e nello spazio simbolico del racconto; il conflitto moderno è, invece, irrappresentabile, perché è del tutto contingente, cioè, filosoficamente, non necessario, non essenziale.

La modernità ha preteso di realizzare il mito, di far coincidere inizio e fine, uomo e Dio. E l’Altro è dissolto, svanito; ma senza vera alterità non c’è vero conflitto e senza conflitto vero non c’è trasformazione della realtà e creazione dello spazio simbolico. La rappresentazione tragica, invece, esprime il senso della irriducibilità dell’altro a se stessi e la creazione di uno spazio per contenerlo.

Si diceva: condizione postmoderna. Vorrei far notare come da allora ci sia stato un profluvio di questo prefisso post tutte le volte che “il presente rivolge lo sguardo su se stesso per cercare di auto comprendersi[36], di darsi un’identità. La prosa sociologica, antropologica, politica, psicoanalitica, letteraria, filosofica è un’alluvione di post: post-industriale, post-democrazia, post-fordismo, post-umano, post-edipico, post-comunismo, post-fascismo, post-ideologico, post-strutturalismo ecc., per finire, appunto, a post-moderno.

Noi siamo quelli che vengono dopo, siamo i postumi. Postŭmus, nell’antica Roma, era il figlio che nasceva dopo la morte del padre.

Il fatto che ogni epoca interpreti se stessa nell’orizzonte del dopo è ovvio, ma oggi il nostro dopo non è “un dopo storico- relativo, ma un dopo assoluto[37]. Un dopo, appunto, che ha i tratti inquietanti e perturbanti del postumo; viviamo un’esistenza postuma, come se ci stessimo aggirando tra rovine in un dialogo tra morti.

Vediamo ora che cosa vuol dire essere postumi in questa percezione del dopo che ho appena descritto. Venire dopo la morte del padre non significa semplicemente o soltanto “essere senza padre, ma essere generato da un padre morto[38], significa essere la traccia della sua assenza. Un presente postumo non contempla più un legame dialettico col passato, né come suo superamento, né come sua conferma, né come suo rinnovamento, né come sua rifioritura in altra forma. Viene meno ogni figura di eredità, quindi di donazione. Il presente si specchia nella sua impotenza, nella malinconia dolente della percezione del venir meno di chi lo ha generato.

E allora comprendiamo che della democrazia, dell’umano, del fascismo, del comunismo, della modernità ecc. resta soltanto quel post, cioè rimane un guscio vuoto, una svuotata e stremata definizione di sé e del proprio tempo sulla base di un’impotenza a essere umani, comunisti, fascisti, padri ecc.

Ci si definisce facendo appello a una possibilità storica estinta e si assume questa impossibilità come proprio stesso essere.  È la figura della possibilità, è il possibile che si è corroso, che è tramontato, non la sua realizzazione.

Nel suo saggio L’esausto su Samuel Beckett Gilles Deleuze, rimarcando la differenza tra “stanco” ed “esausto” scrive: “Lo stanco ha esaurito solo la messa in atto, mentre l’esausto esaurisce tutto il possibile. Lo stanco non può più realizzare, ma l’esausto non può più possibilizzare[39].

Ecco, siamo trasmigrati da un paradigma dell’essere, dove lo scopo era la realizzazione dell’umano, a un paradigma del divenire prosciugato di senso, dove ci si muove velocemente ma senza uno scopo, dove mezzi e fini si confondono deponendo ogni preoccupazione etica, dove la realtà visibile è quella virtuale nella scomparsa del confine tra fantastico e reale e nell’insistente cura dell’immagine che mortifica ogni contenuto. E dentro questo scenario si muovono corpi inabili a trasformarsi in nulla, tantomeno in simboli, corpi che parlano un linguaggio incenerito e sembra non percepiscano più nemmeno il proprio sentire, corpi senza memoria (perché l’oblio è la condizione necessaria affinché il desiderio, unico motore della società dei consumi, possa rinnovarsi senza intoppi né ritardi), puri consumatori di merci, sedotti e arresi all’inganno della facilità che conduce al balbettìo e all’idiozia.

[1] Cfr. Michel Foucault, Scritti letterari, Feltrinelli, 2004.

[2] Cfr. Jean-Luc Nancy, Decostruzione del cristianesimo, Volume 1, Cronopio, 2007.

[3] Robert Musil, L’uomo senza qualità, pag. 243

[4] Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano 1970, p. 34.

[5] Georg W. Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, 1960, vol. I, pag. 8.

[6] Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, 2007, p. 199.

[7] Cfr. Theodor W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, 2004, pag. 339.

[8] Lev Tolstòj, La morte di Ivan Il’ič, Mondadori, pag.

[9] Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, Marietti, 1985, pag. 3.

[10] Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi (1887-1888), Adelphi, 1979, pag. 11.

[11] Ludwig Wittgenstein, Lettere a Ludwig von Ficker, Armando, 1974, pag. 72.

[12] Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, 1974, in Prefazione.

[13] Cfr. Susan Neiman, In cielo come in terra. Storia filosofica del male, Laterza, 2013.

[14] Theodor W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pag. 11.

[15] Georges Bataille, L’abate C., ES, 2008, pag. 102.

[16] Cfr. Milan Kundera, L’arte del romanzo, Adelphi, 1988.

[17] Cfr. Thomas Stearns Eliot, Amleto e i suoi problemi in Il bosco sacro, Bompiani, 1995.

[18] Cfr. Stèphane Mallarmé, Erodiade, ES, 1997.

[19] Cfr. Ferdinand de Saussurre, Corso di linguistica generale, Laterza, 1978.

[20] Cfr. George Steiner, Vere presenze, Garzanti 1992, pag. 95.

[21] Stèphane Mallarmé, La tomba di Edgar Poe, v. 6, in Sonetti, SE, 2002.

[22] Cfr. Gustave Flaubert, Dizionario dei luoghi comuni, Adelphi, 1980.

[23] Mi riferisco ai più feroci fautori della popsophia, come Simone Regazzoni, Salvatore Patriarca, Leonardo Arena, Marcello Ghilardi, autori di opere che consegnano il discorso filosofico alle perversioni di un mercato editoriale dove il profitto a qualunque costo ha spesso il sopravvento sull’eleganza e la ricercatezza della qualità.

[24] Cfr. a questo proposito un illuminante articolo di Nicla Vassallo, Sopravvivere al pop pensiero, Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2008.

[25] Otto Weininger, Sesso e carattere, Feltrinelli, 1978, pag. 25.

[26] George Steiner, Linguaggio e silenzio, Garzanti, 2001, pag. 142.

[27] Thomas Stearns Eliot, Quattro quartetti, Burt Norton I, Garzanti, 1979, vv. 4-6.

[28] Theodor W. Adorno, Beethoven. Filosofia della musica, Torino, Einaudi, 2001, pag.275.

[29] Walter Benjamin, I “passages” di Parigi, Einaudi 2010, pp. 1237-1238.

[30] Cfr. Eraclito, in G. Colli, La sapienza greca, Adelphi, Milano, 1980, fr. 14

[31] Il discorso benjaminiano sul carattere critico dell’Ausdrucklose arriva a definirsi compiutamente attraverso l’esplicito riferimento a Hölderlin, a partire dal saggio Le due poesie di Hölderlin, raccolti in Metafisica della gioventù, Einaudi, 1982.

[32] Walter Benjamin, Le affinità elettive di Goethe, in Angelus Novus, Einaudi, 1981, pp. 221-222.

[33] Franz Kafka, Il silenzio delle sirene. Scritti e frammenti postumi, Feltinelli, 1984, p. 83.

[34] Imre Kertész, Il secolo infelice, Bompiani, 2012, p.

[35] Cfr. Herman Melville, Billy Budd, Feltrinelli, 2014.

[36] Rocco Ronchi, Come fare. Per una resistenza filosofica, Feltrinelli 2012, pag. 39.

[37]Ivi, pag. 40.

[38] Ivi, pag. 42.

[39] Gilles Deleuze, L’esausto, Cronopio, 2005, pag. 9.

Storia della filosofia e filosofia della storia

di Paolo Repetto, 30 dicembre 2017

Storia della filosofia e filosofia della storiaBentornati. Per l’ennesima volta, a costo di abusare della vostra pazienza, vorrei cambiare un po’ il programma e trattare un argomento diverso da quello annunciato. Di positivo c’è che ci muoveremo comunque sul terreno consueto: anzi, cercheremo di consolidarlo.

Spiego il perché. È nato tutto, come già altre volte, da una considerazione espressa qualche giorno fa da un amico. Stava ficcanasando tra libri e raccoglitori sparsi un po’ ovunque nel mio studio, e a un certo punto ha trovato una vecchia plaquette del Centro Universitario del Ponente nella quale risulto condurre un corso di Storia della Filosofia. “Mah!” ha commentato, “se ti conosco bene tu non fai Storia della Filosofia, ma Filosofia della Storia”.

Ero distratto, perché quando rovistano sulla scrivania divento nervoso e allora cerco di fare altro, ma la cosa mi ha colpito. Il pensatore che identifichiamo con la Filosofia della Storia è infatti Hegel, e dopo Sartre Hegel è in assoluto il filosofo che mi sta meno simpatico (anche se, a differenza che per Sartre, gli riconosco la genialità, e considero la Fenomenologia dello spirito un capolavoro). Ora, come criterio di valutazione della rilevanza filosofica di un autore la simpatia lascia senz’altro a desiderare, ma credo che sotto sotto condizioni tutti i docenti e gli studiosi della disciplina: e comunque, senz’altro condiziona me. Inoltre, ho sempre pensato che la mia attitudine fosse quella di uno storico conscio dei limiti del suo dilettantismo, e non quella di un aspirante filosofo. Ho quindi patito come una critica quella che invece era per lui solo una banalissima constatazione. Ne abbiamo un po’ discusso, naturalmente ciascuno è rimasto della propria idea, ma qualche dubbio si è insinuato. Non sto qui ora a ripercorrere la discussione: vi basti sapere che mi ha suggerito l’opportunità di chiarire meglio, a me per primo, la natura degli argomenti di questi incontri.

Il titolo scelto per la conversazione odierna non è infatti un semplice gioco di parole. L’amico ha tirato in ballo due termini molto pesanti, densi di significati: significati che però cambiano, come lui intendeva appunto rimarcare, a seconda della posizione che assegniamo loro nel chiasmo. Se cioè stanno per complementi oggetto o per complementi di specificazione. Insomma, non è uno di quei casi in cui invertendo l’ordine dei fattori il prodotto non cambia: qui cambia tutto.

Storia della filosofiaI termini sono Storia e Filosofia, scritti in questo caso con la maiuscola. In genere quando li adoperiamo diamo per scontato di aver chiaro di cosa si sta parlando: e magari per noi, in quel particolare contesto, è così. Ma se li impieghiamo nella versione “nobile”, quella appunto con l’iniziale maiuscola, facciamo riferimento a significati che non dovrebbero valere solo per noi, andrebbero universalmente condivisi: e allora non è male verificare che davvero lo siano. Anche se la nostra è una trattazione alla buona, nella quale non si devono mettere in conto tutte le possibili declinazioni e sfumature, dovremmo supporre un accordo di massima almeno sull’accezione letterale, quella desumibile dall’etimologia. Di qui innanzi sarà più che sufficiente per intenderci.

Storia della filosofia e filosofia della storia 02Cominciamo con Storia. Deriva dal greco istorein, che significa raccontare. La Storia fa proprio questo: racconta dei fatti. Veramente, ad essere pignoli, a raccontare i fatti è la storiografia, la scrittura della storia, mentre la Storia sarebbe l’insieme dei fatti in sé: ma non complichiamoci la vita con distinzioni che ci porterebbero troppo lontano, fino a chiederci se i fatti esistono indipendentemente dall’essere raccontati (che sembra una domanda idiota, ma non lo è), e se la Storia riguardi il mondo nel suo complesso o solo quel breve attimo della sua età che vede la presenza dell’uomo. Accontentiamoci dell’accezione più elementare, scolastica. Nel nostro discorso assumeremo dunque la Storia come narrazione (orale o scritta) di eventi che sono considerati universalmente rilevanti dal narratore e accolti come tali dal lettore o dall’ascoltatore. Ciò significa ad esempio che se una vicina di casa mi fa il resoconto dettagliato dei suoi malanni o delle intemperanze sentimentali di una comune conoscente, per quanto le due cose siano al centro dei suoi interessi, non sta costruendo Storia, mentre lo fa se racconta della fame e della paura e della confusione vissute in Genova, e in tutto il nord-Italia, durante l’ultima guerra, sotto l’occupazione tedesca. In questo caso dà un piccolo ma significativo contributo alla trasmissione e conservazione della corretta memoria di un periodo cruciale per l’umanità intera.

La Storia è dunque la somma, e anche qualcosa di più, di tante narrazioni storiche, piccole o grandi che siano. E non solo ci sono tante storie, ma ci sono altrettanti modi per raccontarle, perché il racconto storico può essere organizzato secondo criteri diversi. In genere quello più seguito è il criterio cronologico, che ordina gli accadimenti in successione; ma può essere adottato anche un criterio analogico, che mette i fatti a confronto, cogliendo similitudini e differenze (per fare un esempio alto, le Vite parallele di Plutarco), oppure altri ancora. Con questo però mi sto già allargando troppo: magari ne faremo argomento di un’altra conversazione.

Piuttosto, è importante tenere a mente che anche sul merito dei fatti ci sono versioni diverse. Che cioè alle spalle del racconto c’è sempre un punto di vista, una chiave interpretativa applicata dal narratore più o meno consciamente, a volte addirittura in malafede: quindi il racconto può peccare non solo di omissioni, ma anche di volute falsificazioni. E già la scelta in sé degli eventi da considerare significativi, o del peso da attribuire loro, visto che non possono essere raccontati in un rapporto di scala di uno a uno, dipende dagli intenti dello storico e dalla sua collocazione, oltre che dalla sua onestà. L’obiettività assoluta nella ricostruzione storica non esiste e nemmeno può essere pretesa. Pensiamo ad esempio a come le vicende di un conflitto vengono raccontate dai vincitori o dai vinti (sapendo anche che in genere sono solo i primi a scriverne la storia). Questo non impedisce comunque che, con un po’ di accortezza nel consultare fonti diverse e di strumenti critici per vagliarle, si possa disporre di un quadro di massima passabilmente veritiero.

Ora, quel che vale per i fatti vale naturalmente anche per le idee. Anche le idee sono oggetto di narrazione, soprattutto quando si traducono in qualche modo in azione (ma non solo), e anche nel loro ambito ci sono vincitori e vinti (con una differenza: gli uomini, tutti, periscono definitivamente, le idee, anche quelle sconfitte, spesso sopravvivono, e magari tornano poi in circolo). Sarebbe però opportuno distinguere tra la Storia della Filosofia, di cui parleremo, e la Storia delle Idee, che indaga nello specifico come alcuni concetti (quello di giustizia, ad esempio, o di libertà) siano stati interpretati, e applicati, nel corso dei millenni.

Con la “narrazione” delle idee, comunque, siamo già ai margini del fare Storia, ci addentriamo in quella terra di nessuno (e di tutti) che confina con la Filosofia. Quindi ci tornerò, ma solo dopo aver trovato un denominatore comune anche per l’uso di questo secondo termine.

Philosophia significa letteralmente “amore (inteso come desiderio) del sapere”: un desiderio di sapere che si manifesta attraverso le domande che ci poniamo sul senso dell’esistenza, della nostra e di quella del cosmo: domande relative non a una situazione specifica e contingente, ma alla condizione generale dell’uomo. La filosofia esprime quindi degli interrogativi universali, aspira a quella conoscenza unificante che motiva e dà senso a tutte le conoscenze particolari. È evidente che riesce difficile tracciare i confini del suo ambito “disciplinare”, per il semplice motivo che la filosofia non è una “disciplina” nel senso che diamo comunemente al termine, ma un atteggiamento di fondo che sta a monte delle varie discipline e ne informa e orienta lo sviluppo e le applicazioni. Se le domande che mi pongo concernono il rapporto dell’uomo con la natura, cercherò la risposta nella scienza, se riguardano quello con gli altri uomini la cercherò nella politica, ecc. Ma saranno il modo in cui mi sono posto le domande e, aggiungerei, il motivo per cui l’ho fatto, a determinare la direzione in cui andrò a muovermi. In sostanza, non esiste un’applicazione pratica della filosofia, con essa non si costruiscono strumenti o stati o apparati conoscitivi di alcun genere, ma attraverso essa se ne identifica e se ne promuove la necessità e se ne giustifica o se ne contesta la creazione.

Per inciso, va detto che in origine il termine non aveva un valore intrinsecamente positivo. In Platone, ad esempio, denunciava una privazione: a fronte della sophia, la conoscenza perfetta, detenuta da pochissimi e attinta per vie mistiche o iniziatiche, la philo-sophia era un desiderio di conoscere che nasceva dalla coscienza di non sapere. Platone non lo dice chiaramente, ma pare che ritenesse questo desiderio destinato a rimanere inappagato. Tra l’altro associava il primo dei due livelli alla cultura orale e il secondo a quella scritta, sottolineando come quest’ultima trasmetta solo l’ombra della verità delle cose, una verità potremmo dire liofilizzata e omogeneizzata. È evidente che le cose non stanno così, che la trasmissione orale comporta gli stessi problemi di obiettività di quella scritta: ma se interpretiamo le parole di Platone come l’avvertenza che la verità è molto più ricca di sfumature di quante una trascrizione per forza di cose sintetica possa farcene cogliere, allora un qualche senso questa distinzione lo ha.

Torniamo però a noi. Da cosa origina il “desiderio di sapere”? Prescindendo dalle motivazioni pratiche, immediate, che comunque a loro volta sono conseguenti quella originaria, la disposizione che sta alle spalle della filosofia è la stessa avvertita come fondante da ogni cultura: è la sensazione di non essere in sintonia con la vita del cosmo, con la natura e con i suoi cicli, che l’uomo avverte non appena acquista coscienza della propria transitorietà. A questa sensazione l’umanità non risponde solo con la Filosofia, ma anche (e prima) con la religione. La differenza sta nel fatto che in quest’ultimo caso le risposte scaturiscono da un atto di fede, in pratica dalla rinuncia alla ricerca e dall’abbandono più o meno fiducioso ad una volontà esterna, mentre nel primo arrivano (quando arrivano) dal confronto insistito con se stessi e con il mondo. Fermo restando che le domande sono le stesse.

Tutti gli uomini si portano dentro la philo-sophia, lo stimolo a interrogarsi. Ma non tutti lo ascoltano, e quelli che lo fanno non lo fanno allo stesso modo. Il coglierlo o meno dipende, senza dubbio, anche da circostanze ambientali, storiche e culturali, l’educazione, ad esempio, o le frequentazioni; ma io credo sia soprattutto questione di attitudine mentale. C’è chi, come dice Montale, “l’ombra sua non cura” (sono un po’ meno convinto che costui sia anche “ad altri ed a se stesso amico”), viaggia cioè corazzato nelle sue certezze e restringe al minimo i propri orizzonti, e chi invece si guarda attorno alla ricerca di senso, o addirittura alza lo sguardo al cielo. Tra questi ultimi si guadagnano di norma la patente di philo-sophoi coloro che tentano anche di darsi delle risposte, e lo fanno in genere raffrontando le proprie esperienze conoscitive e le soluzioni individuate con quelle di altri pensatori che li hanno preceduti, in un colloquio che prosegue attraverso il tempo ormai da più di due millenni. Avrete già capito, però, dalle conversazioni precedenti, che non è la patente a fare il filosofo, e neppure il tipo di risposta, la sua complessità, la sua esaustività, la sua organizzazione in sistema. Leopardi e Montale, per citare due dei nomi che hanno continuato a ricorrere nei nostri incontri, non sono mai stati iscritti al club ufficiale, ma hanno testimoniato la philo-sophia, nella sua forma originaria interrogativa, meglio della gran parte dei pensatori in toga.

Ma quali sono in sostanza gli interrogativi “filosofici”? Come ho già accennato, sono le domande concernenti tutto ciò che è essenziale, che ha costituito motivo di curiosità e di indagine da quando l’uomo ha avuto consapevolezza di una sua condizione diversa rispetto a quella degli altri animali. Interrogativi profondi, dunque, del tipo: che senso ha il mio essere al mondo? Oppure: ci sarà un’altra vita dopo questa? O: da dove nasce il male? E ancora: su cosa si fonda la mia conoscenza? Per arrivare a: come mi devo comportare? Insomma: i fondamentali. Ebbene, ogni volta che ci poniamo domande di questo tenore, magari di fronte ad una esperienza particolarmente dolorosa, o alla percezione di una malvagità insensata, oppure stimolati dalla struggente presenza di una splendida luna, entriamo nella dimensione filosofica. Purché, ripeto, lo facciamo in termini universali. Per capirci meglio, e semplificando al massimo, se di fronte ad una disgrazia o ad una esperienza atroce ci chiediamo: perché proprio a me?, non siamo nella filosofia, mentre ci approssimiamo ad essa se ci chiediamo: come possono accadere cose di questo genere? e ci rientriamo se la nostra non rimane una domanda retorica, ma diventa lo stimolo a cercare una spiegazione di ordine universale. Abbassando ancora di più il livello, accede alla dimensione filosofica anche quella la moglie che di fronte al marito (o viceversa) si chiede: “perché mai l’ho sposato?”: sempre che si tratti di una vera domanda, e non solo di un’amara constatazione. È in fondo un interrogativo che concerne la natura più profonda dei nostri sentimenti, e risale anch’esso alla notte dei tempi, addirittura ad Adamo.

Non vorrei però dare l’impressione di banalizzare tutto, mettendo qualsiasi sciocchezza sullo stesso piano della riflessione di Kant. Semmai, l’intento è esattamente quello opposto: quando dico che la filosofia non abita solo al terzo piano non nego che i piani esistano, e che occorra tenerli distinti: sottolineo soltanto che il caseggiato è lo stesso, e che tra un piano e l’altro non ci sono delle porte blindate ma delle scale, che con un po’ di buona volontà possono essere salite.

In buona sostanza, dovremmo concordare per il momento almeno su questi punti:

  1. quello filosofico non è un sapere, ma un atteggiamento. Hanno un’importanza relativa le risposte, mentre sono fondamentali le domande;
  2. la Filosofia non ci dice nulla di come è fatto il mondo (questo è semmai compito della scienza). Può dirci qualcosa su che fare di quel che sappiamo del mondo, di come applicarlo alla nostra vita. Non ci propone quindi una verità, ma aiuta al più a porre le domande, e magari a porle nella maniera giusta.

Bene. Ammesso che i due termini ci siano ora un po’ più chiari, combiniamoli assieme e vediamo cosa succede. Cominciamo con la prima combinazione, quella che vede la Storia come complemento diretto e la Filosofia come oggetto della specificazione. Cosa significa fare Storia della Filosofia? Visto che la Filosofia è faccenda di domande, la Storia della Filosofia dovrà raccontare in quali modi diversi nel corso di quasi tre millenni queste domande sono state poste (e magari spiegare anche il perché), come si è svolto il dibattito a distanza e quali risposte significative ne sono scaturite. In linea di massima, come si diceva, le domande sono rimaste le stesse, ma in qualche caso ne sono sorte di nuove (sul nostro rapporto con la scienza, ad esempio), mentre altre sono state lasciare cadere (non si disputa più sul sesso degli angeli, al massimo su quello dei cantanti e dei calciatori). Ciò influisce sulle quotazioni dei vari pensatori: alcuni che sono rimasti in auge per secoli (è il caso ad esempio di Tommaso d’Aquino) rispetto agli interrogativi che ci poniamo oggi hanno ben poco da dirci, mentre se ne riscoprono altri che per millenni erano stati in pratica dimenticati. Il sapere come sono stati diversamente formulati nel tempo gli stessi interrogativi, e quali hanno retto, indipendentemente o a dispetto delle risposte, ci aiuta a capire cosa è fondamentale e cosa è invece solo ‘storicamente’ contingente.

Anche nel fare Storia della Filosofia si possono seguire criteri diversi: si possono mettere in sequenza cronologica i pensatori più significativi o più influenti (non necessariamente le due cose coincidono), per cogliere gli sviluppi delle loro teorie e identificare prestiti, ricorrenze o differenze tra una teoria all’altra, oppure si può scegliere un tema particolare e vedere come è stato affrontato da pensatori diversi. Ognuna delle opzioni ha i suoi pro e i suoi contro. Nel primo caso c’è il rischio di leggere la Storia della Filosofia come un crescendo verso risposte sempre più intelligenti ed esaustive (cosa che non è affatto) e magari di identificarla con la Filosofia stessa: nel secondo è facile perdere di vista le condizioni oggettive, materiali e spirituali, che nelle diverse epoche hanno condizionato l’approccio a un particolare tema. Naturalmente nel nostro particolare caso i rischi non riguardano l’elaborazione di una Storia della Filosofia, ma i modi della sua divulgazione. Per questo vorrei almeno in parte attenuarli esplicitando preventivamente gli intenti e i limiti dell’opzione che ho scelto.

Per me insegnare (o divulgare) la Storia della Filosofia non significa fare un elenco più o meno cronologico di pensatori e di sistemi di pensiero, o di risposte date ai grandi interrogativi di cui sopra, ma sottolineare come al piano nobile ci si sia in fondo sempre posti le stesse domande che ciascuno di noi si pone, se è sufficientemente umano. Perché ritengo così importante ribadirlo? Perché sapere che anche le speculazioni più profonde sono nate dalle stesse incertezze, dalle stesse paure, dallo stesso sconcerto che ciascuno di noi conosce, e spesso ritiene siano un problema suo particolare, una disfunzione del suo vivere, aiuta ad affrontare questo problema in maniera radicalmente diversa. Penso induca a condividere anche la ricerca di spiegazioni, se non di soluzioni, e a portarla avanti non in guerra con gli altri, ma assieme agli altri. A capire insomma che se la risposta non arriva, o se quella che arriva non è soddisfacente, non si tratta di un fallimento nostro, ma di una condizione universale.

Per questo ritengo sia importante la storia della filosofia: perché induce la consapevolezza di un comune destino di tutti gli uomini in tutte le epoche; ci aiuta a capire che stiamo tutti sulla stessa barca e che sgomitare non ha senso. Questa semplicissima verità i pensatori che considero davvero grandi l’hanno sempre predicata, sia pure in maniera e con strumenti diversi: è il presupposto e al tempo stesso lo sbocco della critica kantiana, sta nella poesia di Leopardi o dentro i romanzi di Camus. Può sembrare banale, ma proprio la storia della filosofia, che è soprattutto la storia dei tentativi di falsificare questa verità, è lì a dimostrare che tanto banale non è.

E questo ci porta finalmente all’altra possibile combinazione, quella che è all’origine della nostra riflessione odierna: la Filosofia della Storia. La Filosofia della Storia è l’applicazione delle idee ai fatti. Se fare Storia significa raccontare gli eventi, fare Filosofia della Storia significa interpretarli. Ufficialmente questa operazione dovrebbe essere compiuta a posteriori, le idee dovrebbero scaturire dai fatti stessi, ma abbiamo visto sopra come il modo stesso in cui essi vengono scelti prima e messi in riga poi sia già frutto di una interpretazione. Accade così anche nella quotidianità, ogni nostro più insignificante giudizio è almeno in parte preconcetto: qui però andiamo a parlare di veri e propri sistemi, di chiavi interpretative usate per ricondurre tutto a leggi che governano il divenire e a finalità ben precise che lo indirizzano.

Fare Filosofia della Storia significa infatti innanzitutto supporre che la Storia, quella catena o quell’ammasso di eventi che definiamo tale, abbia un senso, inteso propriamente come una direzione: che porti insomma da qualche parte, che persegua un fine che non è riconducibile solo alla continuità naturale, biologica, della specie. È ciò che si definisce una concezione teleologica. Non si dà semplicemente per scontato che la Storia esista, indipendentemente dal fatto di essere o meno narrata, ma si afferma che esiste per uno scopo, e che ad esso tutto è finalizzato. Non solo: interpretando la Storia questo fine noi possiamo riconoscerlo, e in qualche misura assecondarlo. La differenza nei confronti di una lettura teologica (quella che comporta la redenzione, il giudizio finale) è che in quella gli uomini hanno il ruolo di comparse, mentre della prima sono in qualche misura sempre protagonisti.

In realtà, ciò che sto dicendo non è del tutto corretto. Vale solo all’interno della semplificazione che ho dichiarata sin dall’inizio. Perché si fa Filosofia della Storia anche affermando che la Storia un senso non lo ha, che è governata totalmente dal caso. È una interpretazione come un’altra. Ciò sembrerebbe esaurire lo spettro delle attitudini possibili nei confronti della Storia, e dare in fondo ragione al mio amico: comunque ci si ponga, si esercita una lettura “filosoficamente” orientata. Vedremo come le cose non stiano proprio così. Ma per il momento concentriamoci sulla lettura teleologica.

Se si assume per buona l’ipotesi che ogni attività umana, volontaria ma anche involontaria o inconsapevole, contribuisca alla realizzazione di un fine, la prima domanda da porsi sarà: è proprio l’uomo a “fare” la storia, a dominare il proprio divenire storico? Sembrerebbe ovvio, ma non lo è affatto. Si può infatti pensare tanto che la storia sia fatta dagli uomini, quanto che sia subita, ovvero che gli uomini ne abbiano un controllo, e quindi una responsabilità, solo parziale, e non possano sottrarsi ad una determinazione, esterna (gli eventi naturali) o interna (la natura umana) che sia. Nel secondo caso la direzione, il fine, verrebbero impressi da un principio superiore: se questo principio lo si intende come immanente la natura, gli uomini ne sarebbero solo uno strumento, uno dei tanti; se lo si concepisce come trascendente, ne sarebbero l’oggetto. Come vedete, in tutti i casi non si scappa: ci sono una direzione e una finalità, e c’è una possibilità di riconoscere l’una e l’altra. Ora, nell’economia del mio discorso queste differenze sono in realtà poco rilevanti: ciò che importa è che comunque si postula un filo conduttore, un principio che produce gli eventi e ne dà una spiegazione.

Storia della filosofia (2)La domanda successiva, a questo punto, potrebbe essere: siano o meno gli uomini interamente liberi di fare la Storia, lo svolgimento di quest’ultima dimostra un progresso dell’umanità? Qui dalla lettura si passa alla valutazione, e da letture anche completamente diverse può scaturire una valutazione simile. Negli ultimi tre secoli abbiamo avuto ad esempio l’interpretazione storicistica (Vico e i corsi e ricorsi), fatta propria poi da quella illuministica (“è in atto una razionalizzazione del mondo”) e da quella idealistica (la Storia narra il dispiegarsi dello Spirito assoluto), e quindi sviluppata in quella positivistica (la scienza è il motore del progresso) e in quella marxista (il materialismo storico), ecc…; e tutte concordavano sulla fiducia nelle magnifiche sorti e progressive dell’umanità. Attualmente queste concezioni mostrano un po’ la corda, e proprio i progressi della conoscenza, segnatamente di quella scientifica, mettono sempre più in forse la possibilità di una lettura teleologica della storia, e la rilevanza del ruolo della nostra specie. Ma anche le filosofie che si sono presentate come nichilistiche e negatrici del progresso, quel “pensiero debole” che si rifà a Nietzsche a Heidegger, continuano in realtà a “interpretare” la Storia.

A queste interpretazioni si è fatto spesso riferimento nelle conversazioni precedenti, e ovviamente si continuerà a farlo. Ognuna di esse è a suo modo rivelatrice delle angosce che hanno caratterizzato le diverse epoche, delle speranze, della considerazione dell’uomo e del suo posto nella natura. Ognuna propone nuove risposte: ma proprio questo ci dice che una risposta definitiva non c’è, che al più possono essere soluzioni momentanee e parziali.

Vorrei invece provare a leggere tutta la faccenda da un altro punto di vista. Quando parliamo di Filosofia della Storia l’oggetto d’interesse è la vicenda globale dell’umanità, ovvero la somma dei fatti come risulta dalle loro narrazioni. Si guarda ad essa come ad un fiume nel quale vanno a confluire infiniti rivoli, e in cui ogni goccia si confonde e si perde tra le altre: e si suppone che proprio come un fiume la Storia abbia una direzione e uno sbocco. La ricerca dell’uno e dell’altra non è un atto di presunzione da parte dell’uomo: sta nella sua natura. Il problema è però che la direzione e lo sbocco, veri o presunti che siano, “forzano” l’interpretazione, la condizionano e la sviano, e che quello da interpretare rimane pur sempre, e necessariamente, un riassunto: si guarda alla somma, trascurando i singoli addendi.

Gli addendi sono nel nostro caso gli individui che quella storia l’hanno fatta o la fanno, che di quegli eventi sono stati o sono protagonisti: i quali, nell’ottica di una finalità della Storia, diventano al più numeri, e nemmeno tanto precisi. Il computo viene fatto sommando per centinaia di migliaia i combattenti, i prigionieri, i caduti, per milioni le vittime di carestie, di genocidi, ecc… Badate: è inevitabile che sia così: non si possono certo ricostruire e “interpretare” le singole storie individuali, a partire dal primo sapiens: possono essere al più trattate come insiemi, e spesso neppure di questi insiemi, per quanto enormi, e per quanto sopravvissuti per secoli o per millenni, c’è memoria. Pensate alle civiltà dell’Africa precoloniale. Ma in una lettura della storia “finalizzata” l’agire di miliardi di individui scompare, dietro un risultato finale che tiene conto in buona sostanza solo dell’aspetto quantitativo. Alla fine prevalgono i grandi numeri, sono rilevanti solo le grandi trasformazioni, e l’apporto dei singoli diventa, paragonato agli spazi e alle durate, talmente infinitesimale da riuscire totalmente insignificante. Che è proprio ciò che ciascuno di noi in fondo pensa o teme di essere, sia che venga convinto di rappresentare solo una inconsapevole pedina dell’astuzia dello spirito assoluto, sia che si persuada di dover lottare per una futura “emancipazione” dell’umanità, o attenda che la redenzione giunga dall’alto, o si compiaccia per il manifesto progresso della specie umana.

Ora, io credo si possa anche convivere con la Storia senza forzarla ad avere un senso. Non sto parlando di nichilismo. Il nichilismo, come abbiamo visto, è comunque un’interpretazione. Parlo invece di un atteggiamento che definirei “agnostico”: quello per cui non so se ci sia un fine, direi piuttosto di no, ma non chiudo ad ogni altra possibilità, e comunque non mi interessa. Mi interessa piuttosto capire che ogni singola esistenza, svincolata dalla necessità o dalla casualità storica, è importante per sé, e che ogni singola azione lascia comunque un segno, incide sulla vita dell’universo, di chi ci sta attorno e di chi verrà nel futuro. Le tracce del nostro passaggio non si esauriscono e non si perdono in ciò che viene narrato e ufficialmente documentato: esiste una sorta di memoria dell’acqua, per cui il piccolo cerchio creato dalla nostra immersione nell’esistere si espande, sia pure impercettibilmente. Dopo, la superfice non è più la stessa. La nostra esistenza imprime comunque un suo segno nelle cose e nelle persone. Un segno che ci può sembrare impercettibile, o irrilevante: ma non è così.

Mi accade di pensarlo ogni volta che, girovagando per i boschi dell’Appennino dietro casa, mi imbatto in una vecchia cascina diroccata, che magari ancora non conoscevo. Il pensiero corre a tutti coloro che nei secoli l’hanno abitata, in molti casi sino a soli cinquant’anni fa, alla loro vita isolata, appartata dal mondo e dalla storia. Mi dico che per quegli uomini, quelle donne, quei bambini i grandi eventi, persino le guerre, per non parlare del succedersi dei governi e delle battaglie ideologiche, arrivavano come echi lontani, quando arrivavano, in una vita scandita dal semplice trascorrere delle stagioni e dei lavori, dai rari contatti con i vicini delle cascine più prossime, dalle sporadiche discese al paese per vendere legna e castagne e far macinare un po’ di grano, dalle serate trascorse ad ascoltare le lingere di passaggio, unici tramiti con il mondo la fuori. Ebbene, anche le loro tracce rimangono: sono impresse nei resti del sentiero che mi ha portato sin lì, nei ruderi delle case che resistono all’abbraccio dei rampicanti, nella sistemazione ancora ben visibile dei terreni attorno a ripiani e terrazze, nelle piante da frutta ancora verdeggianti.

Rimangono soprattutto nell’idea che una vita così è stata possibile, che potrebbe esserlo ancora, e che quella solitudine che ci spaventa non era affatto più spaventosa e drammatica di quella che intuisco dal terrazzo di casa osservando di sotto, nelle panchine dei giardini, gruppi di ragazzi e ragazze che trascorrono ore e ore ciascuno incollato al suo smartphone, senza scambiarsi una parola o uno sguardo. Alla fine, i primi hanno lasciato un segno della loro presenza ben più tangibile.

Non so, ripeto, se questo conduca a qualcosa, ma so per certo che nessuno di noi è irrilevante. Ogni vita vale. Alcuni producono cerchi più grandi, qualcuno delle vere e proprie onde, ma nessuno comunque passa su questa terra inavvertito. E credo che almeno questo ce lo dobbiamo concedere, se vogliamo sottrarci al disagio esistenziale che nell’età dell’abbondanza ha preso il posto della fatica di sopravvivere: un disagio che si manifesta nella paura dell’invisibilità, dell’insignificanza, e dal quale nasce l’ossessione di apparire, di ritagliarsi a qualsiasi prezzo un pur brevissimo momento di visibilità. Su questo è necessario insistere: sul fatto che non abbiamo bisogno di comparire per certificare, a noi stessi e agli altri, la nostra esistenza.

Non vorrei che la banalità di quanto sto dicendo fosse fraintesa, fosse letta come un modo ingenuo di cercare consolazione. Non lo è. Anzi, è esattamente l’opposto. È una assunzione di responsabilità. Se ogni nostro atto influisce, per la sua parte, sulla vita altrui, sul futuro, allora dobbiamo far si che sia un atto positivo per tutti gli altri. Dobbiamo semplicemente cercare di fare bene quello che facciamo, vivere “come se” ci fosse davvero un senso che tiene assieme il tutto: perché quel senso c’è, e non è nascosto. Solo, non sta fuori: non dobbiamo cercarlo in giro, lo creiamo noi, con ogni nostra scelta, anche minima.

Ecco, ad esempio: ci ritroviamo qui ormai da qualche anno ogni due settimane, e dietro la presenza di nessuno di noi c’è il minimo sospetto di un obbligo, di un qualche interesse economico, di una ricaduta di immagine, di un qualsivoglia motivo che non sia il semplice amore per la conoscenza, la genuina volontà di capire. Lasciamo perdere se poi il reale portato conoscitivo di questi nostri incontri sia davvero tale da giustificarli: in fondo, non è importante. Lo è invece lo spirito col quale gli incontri si svolgono, l’intenzionalità che ci muove, tutti quanti, voi ed io, così che siamo stimolati a confrontarci ad un livello che è il più alto e il più auspicabile nei rapporti umani. Voi mi state concedendo la vostra stima, io cerco di meritarla perché a mia volta ho stima di voi. Cosa rimarrà di queste conversazioni? Non lo so, spero almeno un piacevole ricordo in chi ha partecipato. Per ciò che mi concerne ho imparato molto, ho dovuto disciplinare le mie idee non solo per poterle esprimere, ma per dare loro una coerenza, ho esportato da questa sala scoperte, intuizioni, ripensamenti che hanno avuto una ricaduta su tutto ciò che ho continuato fuori di qui a pensare e a comunicare. Per me senz’altro questi incontri sono stati più che utili, oltre che piacevoli, perché sono stati alla fin fine anche esercizi “etici”.

E qui entra in gioco un altro convincimento, e necessita un’ulteriore precisazione. La mia idea di responsabilità non corrisponde esattamente all’etica della responsabilità di cui parla Hans Jonas, che abbiamo più volte citato. Jonas parla della responsabilità da assumere nei confronti degli altri, nella fattispecie di coloro che verranno dopo di noi, che erediteranno la terra nello stato in cui noi la lasceremo. Tutto questo ci sta, è fondamentale e si attaglia perfettamente con quanto detto sino ad ora. Se la specie umana adottasse tale principio, la gran parte dei suoi problemi sarebbero già risolti.

Ma c’è qualcosa di più. La prima responsabilità l’abbiamo nei confronti di noi stessi. Voglio dire che nel bilancio di come lasceremo la terra, e quindi di come la troveranno i nostri nipoti, deve entrare anche una soddisfazione che non prescinde da tutto questo, ma sta a monte, e riguarda cosa abbiamo fatto della nostra vita. Non mi riferisco naturalmente alla profondità dell’impronta, alle grandi realizzazioni, al successo, alla fama, tutte cose che in realtà ricadono semmai nella Filosofia della Storia, e che valgono zero se appena usciamo dal cortile di casa e ci rapportiamo ai tempi della natura. No, sto parlando di qualcosa che somiglia all’imperativo categorico kantiano, al “tu devi”, ma in realtà può essere meglio espressa col “tu puoi”.

Non c’entra nemmeno la volontà di potenza. Il “tu puoi” significa semplicemente che ciascuno di noi può scegliere tra il fare bene le cose, come dicevo sopra, e il farle male. Quale sia il modo di farle bene lo sappiamo istintivamente, perché le nostre scelte etiche sono guidate da un criterio estetico innato: è bello, ed è bene, ciò che è o che produce armonia ed equilibrio. Torno così su un tema che abbiamo già affrontato più volte, e lo faccio richiamando in causa proprio Kant e l’atmosfera filosofica che si respirava ai suoi tempi.

Aveva iniziato Edmund Burke, distinguendo tra una estetica del bello e una del sublime. La definizione che dava di quest’ultimo era:

(Il sublime è) tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore”. Qualcosa di inequivocabilmente negativo: salvo poi aggiungere che quell’orrore è affascinante, ed è causa dell’emozione più forte che la mente sia in grado di provare. Kant aveva ripreso la cosa a modo suo: va bene, di fronte a spettacoli grandiosi come quelli offerti dagli oceani o dalle montagne, o a fenomeni spaventosi come gli uragani, è naturale che l’uomo si smarrisca e riconosca i limiti della propria ragione: ma poi interviene la coscienza della sua superiorità rispetto al mondo naturale, superiorità che consiste nell’agire morale, ed eccolo riconciliato col mondo e rinfrancato. Il buon Kant trovava sempre il modo di non consentire alibi alla resa: sei un uomo, perdio, e sforzati di pensare come tale. I suoi successori, invece, da Schiller a Schopenhauer, tiravano a virare l’esperienza del sublime nella direzione di un annichilimento della razionalità. Il sublime starebbe a testimoniare che non solo la ragione ha dei limiti, ma è essa stessa limitante rispetto alla pienezza della vita. Diamo piena cittadinanza allora anche alle passioni e alle emozioni.

Ora, nelle concezioni estetiche di cui ho parlato la valenza etica è implicita. Esistono cioè anche un’etica del bello e un’etica del sublime. Non me le sto inventando. Sono già lì, evidenti.

Noi consideriamo bello ciò che ci trasmette un senso di ordine, di armonia e di equilibrio appunto, e quindi di serenità. Lo consideriamo tale perché siamo in grado di comprenderlo, di spiegarlo, o perché almeno non ci inquieta. La preferenza per l’ordine rappresenta l’opzione razionale: essere razionali non significa infatti necessariamente presumere di capire tutto, ma prendere posizione di fronte al fatto che l’esistenza degli umani è soggetta all’azione di forze positive e di forze negative, esterne o interne. Esistono un bene e un male, non importa se assoluti, ma senz’altro riconoscibili per come incidono sulla vita dei singoli e della collettività, e tra essi bisogna scegliere.

A scanso di equivoci, questa preferenza non ha niente a che vedere col “razionalismo” hegeliano, che viaggia invece in una direzione totalmente diversa e pretende di includere tutto. La razionalità ha pretese più modeste. Per rimanere nel piccolo dell’esempio precedente, come si traduce l’opzione razionale nei nostri incontri? Nel tentativo di fare un po’ di chiarezza, nelle idee espresse e prima ancora nel lessico attraverso il quale queste idee vengono formulate e trasmesse. Non sarà gran cosa, ma già mettere ordine nel linguaggio significa cercare una piattaforma comune di incontro, una definizione comune, per quanto parziale ed elementare, di verità. Che non vuol dire affatto omologare e appiattire le idee su un modello unico ma, al contrario, consentirne il confronto secondo regole di correttezza. In sostanza è una pratica di armoniosa convivenza. Una scelta estetica che assume un significato etico.

L’etica del sublime nasce invece da una frustrazione, da un mancato appagamento: perché l’ordine non riesce a spiegare tutto, e perché malgrado i nostri sforzi esso non riesce a trionfare. Ma soprattutto perché non soddisfa l’ambizione all’immortalità, la sete di un senso che vada oltre i ristretti confini di una singola esistenza.

Non lasciatevi ingannare dal termine. L’etica del sublime in luogo dell’armonia cerca lo scontro, in luogo dell’equilibrio la contrapposizione, e assume a principio la trasgressione: dimenticando spesso che l’unica vera trasgressione, in un mondo naturalmente soggetto alla violenza, è proprio quella praticata da una specie che per sopravvivere ha dovuto opporre al “disordine” naturale un ordine suo, culturale.

È inoltre un’etica individualistica, ed egoista. Non ci si confronta con gli altri sul piano delle passioni e delle emozioni, meno che mai su quello del risentimento. Quando va bene ci si mette in competizione, ma di norma gli altri si escludono o si rifiutano.

Forse rischio di semplificare eccessivamente: ma credo che la metafora alpinistica possa riuscire la più appropriata. L’etica del sublime corre su una cresta esile, affilatissima e pericolosa. Una cresta che conduce in alto, verso la vetta, e spesso è l’unica via per accedervi. Se si vuole salire, bisogna osare. Ma, ammettendo che sia proprio necessario farlo (non è detto che tutte le montagne siano fatte per essere scalate: stanno lì da centinaia di milioni di anni, e ci saranno anche quando non resterà più alcun uomo per salirle), lo si può fare in sia pur relativa sicurezza, procedendo in cordata, o buttandosi avanti in totale incoscienza. Ai lati c’è il rischio costante della caduta. Da una parte la ricerca delle emozioni forti fine a se stessa, dall’altra la giustificazione dei comportamenti insensati.

Le vette della cultura umana sono state raggiunte certamente da uomini che hanno saputo osare. Ma solo da quelli che hanno osato razionalmente, coniugando il coraggio col buon senso. L’etica del sublime non contempla però sempre una salita in sicurezza. Sovente si risolve in un atto di hybris, di superba tracotanza: e soprattutto, quando dall’empireo delle idee scende sulla terra, difficilmente conserva la sua valenza innovativa. Più spesso, anzi, quasi sempre, si traduce in apologia della “vita spericolata”, o in una tollerante indulgenza, quando non è addirittura connivenza, nei confronti dell’abbrutimento. L’elogio dell’ubriachezza, o del fare a cazzotti, così, tanto per sfogarsi un po’ e portare alla luce la parte peggiore di noi, è sotto sotto un modo per esorcizzare la presenza del male nel mondo assumendolo a propria componente, assimilandolo. Apparentemente ci si abbrutisce per smascherare la presunzione culturale dell’uomo, per ricordargli che anch’egli è natura, e che non può rinnegare questa sua appartenenza: in realtà questo significa farsi divini, non accettare la nostra limitatezza, che ci porterebbe invece a cercare di combatterlo il male, e proprio con la ragione. È, in sostanza, un farsi divini per viltà. Perché lasciar irrompere l’irrazionalismo è un alibi: se noi siamo tutto, se non c’è un antagonista, siamo sollevati da ogni impegno.

Ecco, io penso che la grande opposizione stia qui: tra chi ha un rapporto sereno con se stesso e razionale con il mondo, e quindi si assume con gioia la responsabilità di rendere o conservare quest’ultimo un po’ più bello, un po’ più vivibile, e chi invece vive costantemente risentito, e ritiene che il suo “credito” nei confronti dell’esistenza gli dia il diritto, il potere, di governare o di lasciarsi governare dal brutto.

Il poeta Novalis scriveva: “Noi vogliamo l’infinito, e troviamo sempre cose”. È vero, la condizione umana è proprio questa: ma una volta che l’abbiamo capito dobbiamo decidere se accettarle, e affrontarle, le “cose”, oppure rifiutarle sprezzanti, per alimentarci della nostalgia dell’infinito. Anche questa possibilità di scelta fa parte della condizione umana: direi anzi che è quella che meglio la caratterizza.

Allora, sto facendo Filosofia della Storia? Il mio amico forse direbbe di sì: io non lo credo. In realtà non credo nemmeno di fare della Filosofia. Per certo so che non ne avevo alcuna intenzione. Ciò che mi premeva, e che almeno in parte spero di aver ottenuto, era fare un po’ di chiarezza, ribaltando un’immagine che ha purtroppo preso piede, discendendo dalla speculazione filosofica, nella mentalità corrente. Ritenere che ciascuno di noi è significativo, e proprio per questo responsabile, non è affatto un atto di superbia: è al contrario un atteggiamento di profonda umiltà, che si manifesta nella coscienza della limitatezza del proprio tempo e delle proprie forze, e di grande dignità, che si esprime nel non voler buttare questo tempo e non sprecare queste forze.

Se orgoglio c’è, è quello di appartenere al genere umano. Il resto, il rifiutare questa appartenenza, il volersi dunque sentire Dio, quella è superbia.

Interstizi

di Paolo Repetto, 30 gennaio 2017, a Lucia Barba

Si sale, si vede. Si ridiscende, non si vede più; ma si è visto. Esiste un’arte di dirigersi nelle regioni basse per mezzo del ricordo di quello che si è visto quando si era più in alto. Quando non è più possibile vedere, almeno è possibile sapere.
René Daumal, Il Monte Analogo, pp. 36

Carissima Lucia,
ricordi la chilometrica mail che ti ho inviato qualche mese fa, quella in cui si parlava di Maffesoli e dei deliri post-moderni? Speravi avessi dimenticato la promessa di tornarci su? Devo deluderti. Invecchiando si incarognisce, nel senso che non si butta nulla che abbia comportato un qualche investimento di tempo. Io poi, da buon contadino che ha allevato con gli avanzi di cucina galline e conigli e maiali, proprio non sopporto di sprecare neppure una riga o un pensiero. Ho continuato a rimuginare su quei temi (questo si, un bello spreco!) e ho poi finalmente deciso di riprenderli in maniera meno disordinata. Ci ho visto addirittura la possibilità di redigere una sorta di testamento spirituale, salvo poi perdermi nella mia stessa logorrea, senza approdare ad alcuna disposizione.
In realtà sentivo da un pezzo la voglia di completare un percorso che va avanti ormai da almeno quarant’anni, e che si è sviluppato con andirivieni tra diversi periodi storici, a partire dallo studio sulle origini della mentalità scientifica (Da Pico a Bacone), lungo quelli sull’immaginario medioevale (Paura e meraviglia nell’Occidente medioevale) e sugli eretici (Il fascino indiscreto degli eretici),attraverso le scoperte geografiche e l’espansionismo europeo (In capo al mondo), fino ad arrivare a quello sulle origini remote della diversità occidentale (La vera storia della guerra di Troia).
Messo così, il tutto, compreso questo sproloquio finale, acquista un senso. Io perlomeno, sia pure tardivamente, ho cominciato a intravvederlo. Naturalmente quel senso non ha che fare con la meta, che sappiamo sin troppo bene quale essere, e giustamente ce ne scordiamo subito: sta invece tutto nel percorso stesso, per usare una banalità diffusa, che in questo caso è forse un po’ meno banale. Non ho raccontato la storia delle idee, come parrebbe voler far credere l’intestazione di questa collana di volumetti, ma le mie idee sulla storia.
Il testamento quindi già esiste, ed è sparso in migliaia di pagine. Temo di esserne l’unico beneficiario: non lascio nulla, ma mi sono divertito un mondo a scriverlo.

INTERSTIZI
Un’Arcadia post-moderna?
L’Occidente alla sbarra
Razionalizzare il mondo
Il peccato originale: la scienza
La redenzione razionale
Utopia e reincanto
Il meno peggio dei mondi possibili
Un’etica della responsabile armonia
L’utopia nelle crepe
Bibliografia

APPENDICI
1a. Ragione e razionalità
1b. Ragione e ragionevolezza
1c. Miti o valori?
2. Le astuzie della decostruzione
3. Cattive compagnie
Bibliografia

Interstizi

Tenete per voi il vostro Byron
che commemora le disgrazie degli uomini.
Io verserò lacrime d’orgoglio
leggendo l’orario delle ferrovie
K. Chesterton

a Lucia Barba, ottobre 2016

Carissima,
senti questa: ci riguarda da vicino. Tu ancora non lo sai, e io stesso ne sono venuto a conoscenza solo qualche giorno fa, ma stiamo vivendo un’utopia interstiziale. Suona come una malattia, un’ulcera duodenale o un’artrite reumatoide, invece è una condizione spirituale: è il vivere un’utopia “liquida”, che “permea il presente, riempiendo ogni spazio possibile”, “un’utopia di nicchia”. Lo scrive Michel Maffesoli[1] e c’è da credergli, perché è un sociologo, nonché un filosofo, con patente da Tir.

Dici che non sembra grave? Che anzi, dovrei rallegrarmene? Mica tanto: mi girano invece parecchio le scatole. Ti spiego. Tu ed io corrispondiamo da anni, abbiamo creato una complicità che non ignora l’esistenza di Trump e dell’ISIS, e nel nostro piccolo di Renzi e Grillo e Salvini, oppure, stringendo al microcosmo che ci è più prossimo, quella dei deficienti che scaricano immondizie in ogni prato e accendono fuochi in ogni bosco: insomma, sappiamo benissimo che mondo c’è là fuori, ma cerchiamo di fare, di pensare, di comportarci nei limiti del possibile come se la maggioranza non fosse costituita da idioti o da delinquenti. Non crediamo nelle “magnifiche sorti e progressive” e neppure nel sol dell’avvenire (a ragion veduta, direi). Nutriamo forti dubbi che le cose possano migliorare in futuro, siamo anzi piuttosto convinti del contrario.

Ma riteniamo che tutto questo non ci esima dal rispettare la condizione di autoconsapevolezza e di dignità alla quale bene o male l’umanità (o almeno, una parte) è pervenuta, sia pure per caso, senza disegni provvidenziali o senza ragioni astute a giustificarla. Ottemperiamo in sostanza ad un imperativo etico (ed estetico), vissuto naturalmente, senza forzature e senza penitenze, e questo ci porta ad opporre una forma di resistenza, non passiva ma nemmeno armata, se non di ironia.

Non siamo soli: è una resistenza condivisa da altri, alcuni che ci corrispondono e moltissimi che non conosciamo, che tutti assieme formano una rete, come quelle tese sotto gli equilibristi, di protezione, non di contenzione: sottile al punto da essere invisibile, ma non per questo meno rassicurante, e comunque non soffocante. È davvero la nostra piccola utopia.

E andrebbe bene così. Ma no. Immancabilmente arriva chi ci disegna attorno una cornice e ci piazza sotto un’etichetta. A quanto pare non è consentito limitarsi a godere delle amicizie, gioire delle sorprese quotidiane offerte dalla natura, qualche volta persino dagli umani, e farlo senza tante didascalie a piè pagina. Occorre farsi inquadrare, identificare e validare, per essere poi inseriti nello schedario.

La mia potrebbe sembrarti una reazione paranoide. In fondo, dirai, che male c’è? Mica devi rendere conto a Maffesoli. Puoi vivere gli anni che ti rimangono continuando tranquillamente come prima: anzi, fallo senz’altro. Maffesoli si limita a constatare l’esistenza di un fenomeno, a descriverlo e a spiegarne le ragioni. Se ti ci riconosci significa che ha visto giusto, in caso contrario non è un problema tuo.

Io penso invece che lo sia. Quel codice a barre che Maffesoli vuole stamparmi sul fondoschiena prude come un’indicazione di scadenza. Quando uno ti spiega che quella che stai vivendo è un’utopia fast food, di pronto consumo e di corto respiro, che permea il presente riempiendo ogni spazio possibile e fungendo da “ammortizzatore spirituale” dell’incertezza, ti sta suggerendo che alla fin fine non è poi diversa da quella di chi si rifugia direttamente nello smartphone o nel mondo parallelo di Uomini e donne o nella devozione a Padre Pio (anzi, a dirla tutta, lascia intendere che sia molto più patetica). Fa insomma di ogni erba un fascio. Ora, non pretendo una considerazione particolare per la nostra utopia: anzi, non ne vorrei proprio nessuna, di considerazione: ma nemmeno accetto che venga banalizzata e gettata nel mucchio delle erbe buone solo per essere bruciate.

Forse do troppo per scontato il mio atteggiamento nei confronti del mondo: ho sempre pensato fosse frutto di un ordinario buon senso, piuttosto che di un condizionamento culturale. E lo penso ancora. Il risultato è però che in questo modo faccio poi fatica a comprendere come altri possano arrivare a convinzioni e ad atteggiamenti così diversi dai miei, e sono indotto a liquidare a mio modo la faccenda, rifiutando di perdere tempo. Vale invece la pena essere un po’ meno snob (come diresti tu) e confrontarsi con questa differenza, se non altro per fare ogni tanto un tagliando di aggiornamento. Non è la prima volta infatti che affronto questo tema: ho già motivato, vent’anni fa – in Come (non) si diventa postmoderni – la mia distanza dalle posizioni di Vattimo, e sono vergine di servo encomio. Ma l’ho fatto in maniera piuttosto naive. Maffesoli mi offre ora un nuovo assist: cercherò di approfittarne per spiegarmi meglio, ma più ancora per chiarire a me stesso in cosa davvero confido. Quanto a te, puoi salutarmi a questo punto, e stai pur certa che non ti perderesti nulla di importante; oppure puoi cercare di seguirmi sino a quando la pazienza ti regge. In questo caso mettiti comoda, perché sarà un giro largo.

Un’Arcadia post-moderna?

Procediamo con ordine. Intanto, chi è Michel Maffesoli. A quanto mi risulta è l’ultimo socio-filosofo francese a rivendicare la qualifica di “postmodernista” (uso questa dicitura, anziché quella di post-moderno, perché post-moderni proprio secondo questa corrente di pensiero siamo tutti quanti, mentre post-modernisti sono coloro che interpretano tale condizione come un salto di qualità). Oggi in effetti la postmodernità non va più di moda, e si preferiscono definizioni più sfumate, come “modernità liquida”, “tarda modernità”, “esiti ultimi della modernità” o cose simili: ma che gli esiti siano ultimi o postumi cambia poco, perché il quadro della situazione che ne viene fuori rimane lo stesso. Ovvero, semplificando all’osso: siamo di fronte all’implosione delle società occidentali, del modello sociale e delle forme politiche (il liberalismo? la democrazia?) che hanno contraddistinto la parabola della modernità. È la fine di un’era e della civiltà che l’ha caratterizzata. Capisco che non è un bel quadro, ma non si può negare che le cose stiano davvero così. Viviamo quotidianamente sulla nostra pelle la crisi delle istituzioni, tutte quante, sociali e politiche, nazionali e sovranazionali, i collassi economici, le guerre di religione, il populismo galoppante, le migrazioni di massa, ecc…, anche quando ci illudiamo di esserne per il momento solo sfiorati.

Sull’esistenza dei sintomi siamo tutti d’accordo. Il mio problema nasce invece dalla lettura delle cause, dalla diagnosi e dalle conseguenti prescrizioni. Secondo l’interpretazione che ne danno i post-modernisti l’implosione sarebbe frutto di un vizio congenito alla cultura occidentale, ovvero dell’abuso della ragione. L’uso esclusivo e totalizzante della ragione avrebbe portato a creare una serie di miti (progresso, giustizia sociale, ecc…), a dar vita a ideologie fondate sulla redenzione collettiva (politiche, sociali, economiche) e di conseguenza, dopo il tragico naufragio di queste ultime, a precipitare l’umanità in un nichilismo devastante. Si imporrebbe pertanto la necessità di una svolta, della transizione ad un pensiero più “debole”, libero dalla tirannia delle certezze, delle ideologie, dei “valori forti”, non costretto entro gli schemi della razionalità. Questa in sintesi è l’idea di “condizione post-moderna” dalla quale Maffesoli prende le mosse.

Più avanti cercherò di evidenziare meglio i passaggi attraverso i quali ci arriva. Prima vediamo invece cosa ci racconta. Da buon sociologo parte dal basso, analizzando i fenomeni apparentemente più marginali, quelli che di norma non godono (forse dovrei dire ‘non godevano’) di una attenzione scientifica: i rituali del consumo, dello sport, della musica e i modi della comunicazione di massa. Focalizza pertanto l’attenzione su centri commerciali, stadi, televisione, nuovi media. Ora, vista la scelta, sarebbe logico diagnosticasse una deriva demenziale generalizzata e inarrestabile, una cosa come l’avvelenamento da piombo per i romani del tardo impero. Invece no. A suo parere i nuovi media stanno incubando forme di aggregazione, di socialità, di comunicazione che possono lasciarci sconcertati, ma che in realtà sono tutt’altro che inediti: sono modelli di comunità (anzi, di community) arcaici che semplicemente riemergono, attualizzati ad un nuovo contesto, dalla discarica dei rifiuti storici alla quale la modernità li aveva conferiti. Siamo in presenza di una ri-tribalizzazione e di un neo-nomadismo, cosa di cui peraltro ci eravamo accorti anche noi, senza focalizzarci più di tanto, soltanto guardandoci attorno e constatando sbigottiti il proliferare di piercing e tatuaggi. Solo che questi termini non assumono per Maffesoli alcuna valenza negativa, perché si inseriscono in quello che definisce il reincanto del mondo (usando una terminologia e una immagine nietzschiana).

In pratica, dice, se fino ad oggi la tecnica asservita alla ragione “ragionante” (fredda, calcolatrice, matematica e omologante) aveva disincantato il mondo, le nuove tecnologie, quelle stesse protesi, come computer, iPad, cellulati e assimilati, che a noi paiono il veicolo primo dell’alienazione globalizzata, sono invece funzionali alla ragione “sensibile”, ovvero all’emozionalità, e producono il reincanto. La razionalità utilitaristica che ha prevalso nella modernità entra in crisi di fronte al proliferare di immagini, segni e oggetti che essa stessa ha prodotto, e del loro interfacciarsi: paradossalmente sono proprio questi segni e oggetti, sfuggiti al controllo, a creare o identificare oggi gli spazi per nuove forme di socialità.

Gli spazi, appunto. La nuova (o antica) cultura che sta emergendo rigetta la logica del tempo, che aveva informato la modernità (il cui mito portante, il progresso, può distendersi solo nel tempo) e adotta quella dello spazio. In un senso molto fisico, concreto: ha bisogno di individuare continuamente nuovi spazi per momenti effimeri di aggregazione e di confronto. Spazi per il radicamento e spazi per il nomadismo. Spazi reali e spazi virtuali. È una cultura tutta orizzontale, viaggia in superfice, mentre quella precedente era verticale e permeava e colonizzava il profondo. Ci si aggrega in luoghi che suscitino emozioni, sia pure effimere, a prescindere da ogni contenuto di senso, e non attorno ad una idea (di qui appunto lo stadio, la discoteca, la piazza per il flash mob, le strade per la manifestazione, i social network, Lucca per il cosplay, ecc…). In sostanza, i luoghi comunitari (la chiesa, la piazza, ecc…) consacrati un tempo ai valori “forti” (la religione, la democrazia, …) seguono la sorte dei valori stessi, sono sostituiti da quelli di intrattenimento della cultura di massa. Il reincanto del mondo non implica una sua ri-sacralizzazione.

Questo cambiamento, dice Maffesoli, noi tardo-moderni lo viviamo con angoscia: associamo il nuovo alla catastrofe, all’apocalisse. Anche in questo ha ragione. In effetti, se appena alzo dai miei piedi lo sguardo vedo ragazzini tredicenni che si ubriacano ogni sabato sera per vivere in coma etilico il resto della settimana, sessantenni che rischiano la vita ogni giorno in palestra per la tartaruga addominale, mentecatti che vanno a litigare con la moglie in tivù, o che saltano il passaggio e l’ammazzano direttamente, idioti che si sfidano in automobile per le vie cittadine, e poi rave party e applausi ai funerali, e mi chiedo dove stiamo andando a finire.

Ma forse è solo perché lo faccio con occhio ancora “disincantato”. Per Maffesoli invece tutto questo è il necessario preludio “alla rivelazione delle cose, vale a dire alla capacità di fare emergere il profondo, l’essenziale, spazzando via le rigide costruzioni che con il tempo hanno occultato l’originario, l’essere nella sua essenza”, al “ritorno alle energie vitali, produttrici di cultura e di umanità”. La paventata apocalisse non è che il processo di fondazione di un nuovo universo di simboli, di una cultura pervasa da spirito dionisiaco, che aprirà la gabbia grigia del produttivismo moderno per fare spazio (letteralmente) a un mondo più gioioso, giocoso e creativo.

Scivolando sempre più nel côté filosofico, Maffesoli ripropone anche l’antitesi cultura/civiltà, ma in una lettura quasi diametralmente rovesciata rispetto a quella data da Norbert Elias. “Quando una civiltà ha raggiunto il suo massimo splendore – dice – sente, nello stesso tempo, il bisogno di recuperare le sue radici, di ritornare cultura. La civiltà è il modo di sprecare, o meglio di dilapidare il tesoro culturale. La cultura è il fondo che garantisce la vita sociale permettendo che, al di là di ogni vicissitudine quotidiana, perduri l’essere insieme originario ed essenziale”. Un essere, secondo Maffesoli, capace di ritrovare se stesso, di liberarsi dai vincoli di una civilizzazione nei quali non si riconosce più, nel nome di un bisogno nomade di avventura, di sete d’infinito e di scoperta.

Insomma, la cultura “originaria” è quella in cui l’emozione prevale sulla ragione, e l’uomo, non più proiettato nel futuro, vive in un eterno presente (che, bontà sua, è insieme euforico e tragico). “Le forme di socialità emergenti, con tutto l’accento che pongono sull’immaginario e sul desiderio dell’effimero, sono altrettante matrici di un nuovo ordine etico frammentato quanto solido nelle sue singole componenti. Di fronte allo sradicamento, alla solitudine, all’alienazione di un mondo organizzato da altri, l’individuo reagisce riscoprendo la comunità. Dalla frantumazione crescente della società nasce una sua autonomia rinvigorita. Fino a ieri confinato nei ruoli sociali predefiniti – lavoro, famiglia, ecc. – il soggetto sperimenta oggi più che mai un affrancamento dal normativo. L’immaginario, il piacere, il sogno diventano forme di dissoluzione dei vincoli. Egli fluisce e circola, errante sulla scia casuale delle sue pulsioni, dei suoi gusti. All’ideologia del progresso fondata sull’individuo atomizzato si sostituisce un universo di riti, giochi e immaginari la cui etica è quella del tragico. La società, finalmente creativa e libera dal modello matematico, si apre ad una nuova conoscenza erotica”. Non c’era da dubitarne.

Mi pare sufficiente. Posso fermarmi qui e provare a riassumere. Emersione del profondo, bisogno nomade di avventura, desiderio dell’effimero, liberazione nell’immaginario, nel piacere e nel sogno, essere che fluisce sulla scia delle sue pulsioni, società creativa e, naturalmente, conoscenza erotica. Non hai una leggera impressione di dejà vu? A me tutte queste cose non suonano affatto nuove. Datano da almeno due secoli: ma soprattutto mi ricordano parole e concetti che circolavano (in una accezione “estetizzante”) un secolo fa, che ho letto in Nietzsche e in Klages, che ho poi risentito da Marcuse e da Norman Brown nei tardi anni sessanta (ricordi Aquarius, e la luna che entra nella settima casa, e la pace che guida i pianeti, e l’amore che guida le stelle – ma almeno nel video c’era Rachel Welch e ti veniva voglia di crederle), e ho ritrovato in quelli novanta, in pieno trionfo della new age, nella versione proposta da Vattimo, che auspicava “una esperienza fabulizzata della realtà”, in quella politica avanzata da Marco Revelli, che indicava a esempio di socialità futura le comunità degli zingari (forse ispirato da Claudio Lolli), e infine in quella leggera, ma decisamente più aggiornata e persuasiva, di Baricco che, non so quanto influenzato da Maffesoli stesso, voleva convincerci, ne I barbari, che non sta succedendo nulla di strano.

Non voglio dire che si tratti solo di una minestra più volte riscaldata, è evidente che esprime un disagio reale e crescente nei confronti del modo di produzione e di vita capitalistico-consumistico: ma alla fine, cioè oggi, ne vien fuori un minestrone olandese alla Jerome, nel quale si buttano tutti gli ingredienti raccolti per strada[2]. Un minestrone dal retrogusto fastidiosamente acido. Quella che George Steiner chiama “nostalgia dell’assoluto” qui si è rovesciata e impoverita in una sorta di nostalgia del dissoluto, o del dissolto: sempre di una sorta di paradiso perduto si parla, di innocenza originaria, ma l’idea di innocenza che Maffesoli persegue somiglia molto più all’incoscienza.

Non so che stadi o centri commerciali o banlieues frequenti Maffesoli, a quali social sia collegato, ma certo l’ottimismo non gli difetta. A me è bastato vivere nella scuola degli ultimi due decenni per avere un’immagine del tutto diversa. Il dionisiaco non bussa nemmeno alla porta, entra direttamente, esce quando gli pare, si stravacca sfinito sul banco e comincia a smanettare sullo smart-phone, se glielo consenti (e se non glielo consenti ti ritrovi tra i piedi un dionisiaco padre, o peggio, una madre baccante, che contestano l’autoritarismo). Fuori non cambia molto: se è del tipo tranquillo il dionisiaco rimarrà incollato allo smartphone in metropolitana, in palestra, al bar, nell’intimità con la sua ragazza: se è agitato rovescerà cassonetti e brucerà auto, imbratterà monumenti appena restaurati, canterà e salterà in coro con altri dementi allo stadio o si sballerà in un rave party. Possiamo chiamarlo come vogliamo, ma è di questo che stiamo parlando. Quanto al ruolo ri-socializzante dei nuovi media, ne abbiamo esempi significativi nel bullismo cibernetico o nel fenomeno grillino. Aprono alla rivelazione delle cose? Fanno riscoprire la comunità? L’ affiliazione a bande o a tribù, come le chiama Maffesoli, rinvigorisce l’autonomia dell’individuo? Mi riesce dura cogliere nel populismo mediatico, nel delirio di autorappresentazione che si consuma in rete o nelle gang metropolitane gli indizi di una nuova socialità, giocosa e creativa, o dell’emergere del profondo. A meno che per profondo non si voglia intendere la natura animale, nella versione pre-umana.

Va bene, dirai: e tuttavia, ancora, perché prendersela tanto? Non solo queste litanie le abbiamo già sentite, ma sono di casa ormai persino nei salotti televisivi nostrani, cantate da monaci che predicano l’agape e da filosofi con bandana. Sono diventate un rumore di fondo, più fastidioso che pericoloso.

Temo che non sia proprio così. Siamo di fronte a qualcosa di diverso. Maffesoli non è un pirla a gettone come i nostri Morelli o Galimberti (pur arrivando in sostanza alle stesse conclusioni: “Bisogna dar spazio all’avventura, al sogno, alla fantasia, alle cose nuove” recita la quarta di copertina dell’ultima profezia di Morelli), non fonda scuole ayurvediche, anche se i salotti televisivi li frequenta volentieri pure lui. Gode di un credito scientifico, pesca da Simmel, da De Certeau e da Foucault, è citato nei manuali di sociologia, lo trovi dovunque come il prezzemolo. E comunque, il quadro che dipinge come sociologo è senz’altro realistico. Mi preoccupa invece come filosofo. La sua visione arcadica del futuro conferma una deriva il cui peso è certamente enfatizzato dall’eco mediatica (certi argomenti sono perfettamente congeniali al chiacchiericcio a ruota libera) ma proprio per questo non va sottovalutata. Si stanno moltiplicando i pensatori col pedigree, post-moderni o no, che rifiutano, come avrebbe detto Vico, di “riflettere con mente pura” e preferiscono “avvertire con animo perturbato e commosso”.

In verità questi non-pensatori ci sono sempre stati, e hanno sempre fatto danni: nel passato però la loro influenza non era mai diretta e si esercitava, causa l’analfabetismo delle masse, entro una cerchia più ristretta. L’odierno analfabetismo di ritorno, invece, che pure è altrettanto diffuso, non costituisce più un ostacolo, perché i nuovi media lo saltano a piè pari e arrivano direttamente ad un uditorio enorme che aspetta solo di essere imbeccato. Certo, alla stragrande maggioranza frega ben poco del pensiero dei post-modernisti (o di chiunque altro), e se provasse a leggerne i libri non ci capirebbe un accidente: ma l’adeguamento ai tempi, ai modi e alle forme del linguaggio televisivo o di quello della rete, in pratica la riduzione del pensiero a slogan, fa sì che esso circoli in una confezione adatta al consumo veloce e all’assimilazione acritica. Il sapore è quello del McDonald, il saldo nutrizionale è altrettanto negativo, ma è a questa dieta che palati e stomaci si stanno assuefacendo.

Quello del linguaggio non è un problema secondario. Orwell mostra in 1984 come proprio sulla falsificazione del linguaggio si regga ogni regime. Ha in mente quello nazista e quello sovietico, ma è chiaro che il discorso può essere esteso anche a quelli “democratici”. Ora, il paradosso dei post-moderni, che vorrebbero appunto smascherare le falsificazioni prodotte dalla società liberal-capitalistica, è che “decostruendo” il linguaggio, caricandolo di sospetti, spogliandolo di valori “forti” di riferimento, si impelagano in una complicazione linguistica (hai provato a leggere Deleuze?) che alla fine copre solo un vuoto di significati. Operano in maniera opposta a quella dei regimi, ma ottengono gli stessi risultati, perché poi, dalla nuvola di polvere concettuale che sollevano, emergono come si è visto le solite quattro banalità. Al contrario, se qualcosa davvero può rivelarsi eversivo nei confronti di un regime, è proprio la difesa di un linguaggio chiaro, ricco e significativo, che poggi i piedi sulla concretezza per reggere la libera circolazione delle idee.

E non è tutto qui. Mentre il post-pensiero spara a zero sulla ragione, c’è chi la raccatta dal cassonetto per riciclarla ad usi tutt’altro che razionali. Tarik Ramadan, docente oxfordiano (su una cattedra finanziata dal Quatar, cosa che la dice lunga), nipote del fondatore dei Fratelli Musulmani, tiene conferenze sulla fondamentale importanza dell’Illuminismo: sostiene che essendo Dio luce, ciò che illumina le menti non può che essere una sua emanazione. Il razionalismo imperante nel secolo dei Lumi ha in fondo emancipato gli occidentali dalla soggezione alla legge biblica, preparando le loro menti ad accogliere quella coranica. Il futuro vedrà il trionfo della nuova razionalità islamica. Ramadan, per inciso, non ha problemi a legittimare la lapidazione (delle donne) in caso di adulterio, è un antisemita professo e condivide le ragioni del terrorismo. Ma ha capito benissimo quali sono oggi i punti deboli e le contraddizioni del pensiero occidentale, e si fa giustamente gioco dell’estenuato senso di colpa che ci spinge verso un rassegnato “abbandono”.

Di questo, credo, dovremmo preoccuparci.

  

L’Occidente alla sbarra

Infatti. Mi preoccupo perché da un lato vedo che la parabola del “post-moderno” come categoria filosofica è agli sgoccioli, ma dall’altro constato che le sue derive e le metastasi pullulate nel frattempo in ogni settore e ad ogni livello culturale permangono ben vive[3]. E si corre anzi il rischio, venendo a mancare la possibilità di tracciarne la genealogia, di non riuscire più ad arginarle e combatterle. Per questo mi sembra utile tornare allo scenario di partenza, a quella che negli ultimi trenta e passa anni è stata qualificata come la “condizione postmoderna”. Occorre partire di lì, dall’interpretazione che si è data di questo scenario.

Dunque. Abbiamo visto che alla radice del disagio vissuto dai contemporanei c’è per i post-modernisti la “razionalizzazione” del mondo. Ritengono, con buona pace di Goya, che a generare i mostri, ovvero le “ideologie”, che vanno dall’illuminismo al liberalismo, dall’idealismo al marxismo, tutte accomunate da una visione storicistica del mondo e dal mito del progresso (sul marxismo, e così sul fascismo, ci sono posizioni sfumate e contrastanti, ma l’uno e l’altro sono ricondotti comunque a variabili della ideologia madre) non sia stato il sonno della ragione, che è anzi rimasta sin troppo sveglia, ma l’uso che si è fatto di quest’ultima come lente unica e indiscussa per leggere la natura e interpretare la società e la storia[4]. I mostri creati dall’occhiale razionalistico sarebbero appunto dei “miti”, delle narrazioni o costruzioni mentali, come le chiama Lyotard, alla cui origine stanno fondamentalmente due assunti, l’uno conseguente l’altro. Il primo è la presunzione che il mondo sia conoscibile nella sua oggettività solo attraverso l’intelletto e, quel che più conta, sia anche perfettibile. L’altro è la pretesa che solo il pensiero occidentale sia detentore di questo livello di conoscenza e della capacità di tradurla in una prassi efficace. Risultato: fiducia in un potenziale illimitato della mente “razionale” e certezza di un progressivo sviluppo dell’umanità. Il che però, a sua volta, suppone una concezione negativa della natura umana originaria e una funzione repressiva e addomesticatrice della cultura.

Contro la prima presunzione, quella razionalistica, i postmodernisti mettono in atto la “decostruzione”: smantellano cioè i miti attraverso l’ermeneutica, partendo dalle affermazioni di Nietzsche per cui “non esistono fatti, ma solo interpretazioni” e “sono i nostri bisogni che creano il modo: i nostri istinti e i loro pro e contro”. Questo comporta, oltre allo spiazzamento conoscitivo (perché non solo non esiste una verità, ma nemmeno la verità), un ribaltamento etico: se sono i nostri bisogni a creare il mondo è al desiderio, alle emozioni, anziché all’intelligenza, che dobbiamo affidarci nelle nostre scelte. Quanto poi alla perfettibilità, ovvero al progresso, nemmeno a parlarne. Non esistendo verità assolute, non ci sono parametri sui quali traguardare e valutare un cammino di crescita.

È una posizione, lo abbiamo già visto, per niente originale. Alle spalle c’è Nietzsche, ma nella lettura che ne ha dato Heidegger. Per quest’ultimo tutta la storia occidentale è stata segnata – naturalmente in negativo – dall’aristotelismo e dalla logica deduttiva. Ciò ha comportato il dispotismo della scienza e la sempre più invadente affermazione della tecnica, e ha generato alla fine, come abbiamo visto, un nichilistico sconforto. Heidegger peraltro sta alle spalle – o almeno al fianco – anche di altri critici della modernità, dei francofortesi (Adorno, Horkeimer, Marcuse) o, per rimanere in Italia, di Emanuele Severino.

Con una differenza. Severino fa risalire l’errore “originario” ancora più addietro, a quando la “solare” visione parmenidea del mondo cedette a quella platonica (“abbandonando il sentiero del giorno per seguire quello della notte”), mentre gli anti-moderni militanti hanno nel mirino appunto la “modernità”, gli ultimi cinque secoli, e ne individuano i momenti chiave nel cartesianesimo[5]), ma soprattutto nel kantismo. La “rivoluzione copernicana” di Kant è da essi considerata il vero spartiacque per la completa realizzazione della modernità. La loro crociata è quindi, prima ancora che anti-razionalistica, antilluministica: è con l’Illuminismo che la ragione diventa “misura di tutte le cose”.

Il fatto è che ai detrattori della modernità preme innanzitutto mettere sotto accusa il modello occidentale: e l’Occidente cui si riferiscono è quello degli ultimi cinque secoli, quello divenuto vincente attraverso la rivoluzione scientifica e quella industriale, e dominante con l’espansionismo, coloniale prima e imperialistico poi. Citando per tutti Vattimo: “la civiltà occidentale ha dato luogo … a un mondo dove progresso tecnologico, sfruttamento, dominio di classe, progressivo esaurimento delle risorse del pianeta appaiono inestricabilmente connessi”. Per produrre questo scempio l’Occidente avrebbe costruito e imposto un suo paradigma scientifico-ideologico, avvalorando una visione deterministica dei comportamenti umani e creando, attraverso la “razionalizzazione” delle conoscenze e dei rapporti, una gabbia di contenzione della nostra animalità[6]. Fino ad arrivare, da ultimo, ad identificare il mondo proprio con la gabbia che lo imprigiona, con l’involucro razionale entro il quale è stato incartato. Il fine che gli antimoderni si prefiggono è proprio aprire la gabbia, strappare l’involucro demolendo l’impianto ideologico che gli sta dietro. Come intendano farlo, andremo ora a vederlo.

Per intanto, però, a dimostrazione di quanto dicevo sopra, del fatto cioè che queste cose non rimangono sospese nell’empireo della filosofia e neppure si esauriscono nelle comparsate da salotto, sappi che la gran parte delle università americane ha praticamente bandito da anni dai programmi di insegnamento i corsi sulla civiltà occidentale, con la motivazione della scorrettezza politica (sarebbero “oggettivamente di destra” e potrebbero offendere tutte quelle minoranze che di tale civiltà sono state vittime).

Siamo al punto che nello stesso momento in cui Oxford apre le porte ai soldi del Quatar e a Tarik Ramadan, Yale rifiuta un finanziamento da decine di milioni di dollari per riattivare quei corsi.

Non c’è da meravigliarsi. Lo schieramento antimodernista è infatti incredibilmente ampio e articolato, perché il dibattito che si svolge ai piani alti della filosofia ha, come sempre, motivazioni e ricadute che toccano più in generale le idee sui possibili modelli di rapporto tra gli uomini. A scorrere l’elenco degli inquisitori ci si rende conto che la crociata accomuna trasversalmente vecchie fedi politiche e religiose e nuovi radicalismi, che in apparenza non avrebbero nulla da spartire: su questo terreno si muovono fianco a fianco la destra e la sinistra più estreme, i fondamentalismi religiosi (tutti, non solo quello islamico), gli integralismi alla moda (ambientalista, animalista, vegano, ecc …), il complottismo, i cultori delle “scienze tradizionali”, i vari populismi anti-sistema. Un gradino appena sotto i maîtres à penser che ho già citato, i riferimenti spaziano da Guénon e da Evola a Chomsky, dagli esoterici agli antagonisti di professione. La citazione di Vattimo potrebbe essere attribuita a ciascuno di costoro senza cambiarne una virgola.

Sia pure a gradi diversi di parentela, il DNA è dunque quello. Certo, è difficile pensare che Calderoli o Di Battista abbiano letto Derrida, ma la loro stessa presenza sulla scena politica è frutto anche della “decostruzione”, che quando scende al pianterreno e si traduce in aforismi da supermercato crea effetti devastanti. La povertà di idee e le passioni elementari non attendono che di coagularsi nella identificazione di un qualche responsabile del disordine del mondo: e possibilmente non vago e astratto come la “modernità”, ma in carne ed ossa.

Degli esiti “complottistici” della decostruzione sanno infatti qualcosa gli ebrei, che non a caso sentono nuovamente fischiare le orecchie. Perché alla fine, dietro tutta la cultura occidentale moderna, e dietro le istituzioni che ne sono espressione, i post-modernisti scorgono naturalmente la lunga mano della “plutocrazia giudaica”.

Qualche tempo fa notavamo come negli ultimi vent’anni sia tornato allo scoperto il vecchio antisemitismo di pancia, quello che si manifesta beceramente negli oltraggi ai cimiteri ma anche sotto le specie “politicamente corrette” dell’antisionismo, della militanza filo-palestinese: bene, questo è solo il gradino più basso della banalizzazione di un pensiero anti-modernista per il quale il vero “mostro” in fondo non sono le ideologie, ma il modello occidentale nel suo assieme (e il liberalismo – considerato di diretta ascendenza ebraica – nello specifico). Se affermo, come fa ad esempio Galimberti, che l’Occidente “è la terra che ha ospitato l’oblio dell’Essere, ovvero lo smarrimento del suo senso” e che pertanto la sua sorte è il nichilismo e il suo destino è il tramonto; per cui, “prendere coscienza dell’oblio dell’Essere significa vedere crollare quanto è stato costruito nella sua dimenticanza: Dio e il mondo”; e che questo Dio va inteso naturalmente come il Dio biblico, unico dal quale e in antagonismo al quale poteva svilupparsi una totale autonomia della coscienza umana, fino ad abbracciare la concezione meccanicistica che sta a fondamento della modernità: bene, sto solo ripetendo con un giro più largo e ipocrita quello che diceva Hitler, ovvero che la coscienza è una invenzione degli ebrei (il che in qualche misura è vero, ma certamente a non nel senso che gli veniva dato dal nazismo[7]). E lascio la porta aperta al sospetto che dietro questa invenzione ci sia un progetto occulto dei Savi di Sion.

Ma è un discorso che ci porterebbe troppo lontano.

Razionalizzare il mondo

È opportuno invece dettagliare meglio le accuse che i post-modernisti o gli anti-modernisti muovono alla cultura occidentale degli ultimi cinquecento anni.

Come abbiamo visto, l’imputazione più generica è di aver usato lo strumento della ragione per impadronirsi del mondo e sfruttarlo, e di aver legittimato questo dominio postulando una naturale convergenza tra sapere e potere (vedi Francesco Bacone). Ovvero, di avere attuato una “razionalizzazione del mondo”, intesa sia come modalità conoscitiva ed esplicativa che come condizione e modello per agire su di esso, per modificarlo e addomesticarlo.

Cosa significa però “razionalizzare il mondo”? Nella interpretazione antimoderna significa in primo luogo ridurne la lettura alle sole operazioni compatibili con quanto la mente umana è in grado di dominare: ovvero, costringere il reale negli schemi totalizzanti dell’unità e della storicità ed escludere il molteplice, tutto ciò che non trova spiegazione entro questi schemi. In definitiva, si suppone che esista una logica interna al tutto, e che tutto ciò che esiste o accade sia sempre spiegabile in termini razionali, e solo in essi. È quanto Hegel aveva lapidariamente riassunto in “Tutto ciò che è razionale è reale; e ciò che reale è razionale”.

In termini generali, è vero: l’impostazione della cultura occidentale nell’età moderna è stata tendenzialmente proprio questa. Salvo però il fatto che il pensiero razionale ha iniziato sin da subito a sviluppare dall’interno degli anticorpi critici, a mettersi in discussione. E che comunque questa attitudine si era manifestata ben prima dell’avvento della modernità. Era già insita infatti nella “differenza” ellenica, addirittura da prima del “so di non sapere” di Socrate. Era adombrata nelle tempestose vicende del mito[8].

Col termine logos i Greci indicavano tanto la relazione, il legame, la proporzione, la misura, (ciò insomma che concerne le proprietà dell’oggetto conosciuto) quanto la ragion d’essere, la causa, la spiegazione (ciò che invece compete all’attività razionale del soggetto conoscente). Per loro, tuttavia, la funzione del logos era rimasta quasi puramente esplicativa: serviva a capire come funzionano le cose, non a intervenire per modificarne il corso. La visione ciclica del tempo, che prevede che il cosmo torni periodicamente allo stato originario, li induceva a non impegnarsi più di tanto in una attività di conoscenza che non fosse eminentemente contemplativa: e soprattutto non avevano motivazioni economiche sufficientemente urgenti per indirizzare il pensiero scientifico verso un utilizzo strumentale. Questo atteggiamento ha continuato poi a valere anche nel mondo cristiano, a dispetto del fatto che la redenzione avesse interrotto il ciclo e disteso il tempo lungo una retta di attesa tra due eventi unici: per il cristianesimo la spiegazione del mondo e della storia non va cercata, ma è offerta tramite una rivelazione.

La reductio ad rationem, intesa nel suo significato più concreto, non più come semplice individuazione di una linea di razionalità nel mondo naturale, ma come “creazione” di un mondo più razionale, come intervento performante sulla natura, è stata avviata invece dal pensiero umanistico. È quanto ho cercato di raccontare in “Da Pico a Bacone. Le radici umanistiche della rivoluzione scientifica[9]: l’attesa si secolarizza, si traduce in aspettativa per un futuro preso in mano dagli uomini. Come di norma accade (è avvenuto lo stesso, ad esempio, proprio per il post-moderno), questa aspettativa trova la prima concreta espressione nella sfera artistica, passando in questo caso per l’adozione della prospettiva. La visione prospettica pone l’osservante fuori dal quadro, e da questa posizione egli “domina” la scena, la coglie come un assieme unitario, la riordina secondo criteri quantitativi (volumi, geometrie) e la include entro linee che convergono all’infinito. L’architettura e la pittura del Quattrocento indicano ed esemplificano perfettamente le condizioni per fondare una oggettività della scienza e per la tracciabilità della storia. Così come, al contrario, le arti del Novecento (astrattismo, informale, concettuale, ecc…) testimoniano del dissolversi di questa oggettività.

Il passaggio successivo è stato quello della rivoluzione scientifica, e qui entriamo ormai nel pieno della modernità (e nel merito dell’accusa mossa dai post-modernisti). Bacone, Cartesio e Galileo hanno gettato le fondamenta per una visione meccanicistica del mondo naturale: Hobbes l’ha poi trasferita ai rapporti interumani, postulando che la società sia una costruzione artificiale (un meccanismo, quindi, anziché un organismo) e che il potere abbia una natura contrattualistica, fondata sulla somma delle convenienze individuali. Dopo di lui gli illuministi settecenteschi e i positivisti dell’Ottocento hanno fatto dello studio “scientifico” della società un obiettivo prioritario.

“Razionalizzare” significa infatti, in seconda battuta, applicare il parametro razionale non solo come condizione del conoscere ma anche come misura dell’efficienza e della bontà, o della utilità, dell’agire: quindi adottare quell’attitudine che chiamiamo, in genere con un po’ di sufficienza, “pragmatismo”. È quanto fa, ad esempio, con largo anticipo Machiavelli[10]. La ratio si esprime in questo caso come cinica contabilità politica, (ratio est computatio, dirà Hobbes). Qualche decennio prima, nei Libri della famiglia, Leon Battista Alberti l’aveva già chiamata a organizzare le attività economiche, introducendo il computo di fattori come il tempo-valore, che in precedenza non venivano considerati.

Un esempio riassume tutto il processo storico della razionalizzazione: quella delle coordinate geografiche. A partire dal ‘500 il globo è stato coperto con un reticolo di linee immaginarie, che dovevano costituire originariamente un riferimento per gli spostamenti marittimi. In breve però queste linee sono diventate più reali di quelle orografiche, hanno costruito una gabbia che ridisegna e spartisce gli spazi (pensa ai confini degli stati coloniali, ad esempio, o prima ancora alla raja, che già alla fine del ‘400 doveva dividere i possedimenti portoghesi da quelli spagnoli), e che oggi, con l’introduzione dei fusi orari, imprigiona e disciplina anche il tempo.

Le maglie di questa rete si sono poi via via infittite dopo che le linee ideali hanno potuto essere tracciate su carte attendibili, redatte con criteri “razionali”, ovvero dai primi dell’Ottocento. Di pari passo sono cresciute sia la disponibilità di mezzi tecnici che le motivazioni economiche, ed è partita la corsa a rendere queste linee sempre più reali, dapprima con le rotte navali, poi con i trafori ferroviari e autostradali, infine con le rotte aeree. Ecco, la rete ferroviaria e quella aerea compendiano perfettamente la transustanziazione del pensiero razionale (la distanza minore tra due punti è la linea retta, ergo minor tempo, minori costi, ecc…) in “razionalizzazione” del territorio.

È insomma accaduto che uno strumento proprio della ragione (nel nostro caso la capacità di immaginare delle coordinate per definire degli spazi o di individuare percorsi non obbligati dalla configurazione del territorio) e funzionale al metodo scientifico, quindi applicabile alla geografia e più in generale alle scienze naturali, è stato trasferito nell’ambito delle scienze umane (nella politica e nell’economia). Questo tipo di sconfinamento è diventato più frequente e scontato mano a mano che si imponeva una conoscenza “geometrizzante” del mondo: in parallelo si affermava infatti la spinta a “razionalizzare” il potere, il dominio, l’economia, la società, e di lì a poco tutta la sfera esistenziale individuale, controllando e pilotando anche desideri ed emozioni.

Imboccando questa strada, secondo i post-modernisti, la ragione ha fatto compiere un salto qualitativo alle sue pretese: intanto si è appropriata in esclusiva di un terreno che avrebbe dovuto condividere con altre modalità conoscitive, non razionali; poi è passata dalla ricerca del logos, della coerenza interna al reale, a quella del senso, ovvero dalla descrizione del mondo alla sua interpretazione. Anziché limitarsi ad interrogare ha insomma costruito anche le risposte, e lo ha fatto naturalmente a propria immagine e somiglianza. Di conseguenza ha favorito l’atomizzazione sociale, perché ha cancellato quei legami comunitari che non erano “matematicamente” controllabili e li ha sostituti con la cultura del diritto, che definisce dei margini di autonomia individuale e consente di quantificare gli spazi e organizzare meccanicamente i rapporti.

Il risultato è che il mondo, inevitabilmente, è stato letto sempre più come il “regno della quantità”: il che comporta dissezionare un organismo e ricomporne i pezzi nei modi della organizzazione, secondo la misura umana. Ovvero separazione, omologazione e appiattimento.

Ora, su questa analisi del percorso della cultura occidentale, fatta salva qualche sfumatura, mi trovo fondamentalmente d’accordo: non solo, condivido in linea di massima anche la fotografia della contemporaneità scattata da Maffesoli, almeno fino a quando non comincia a interpretarla. Ho riportato al condizionale le argomentazioni degli anti-modernisti non per mettere in dubbio l’attendibilità della ricostruzione storica, ma per mantenere distinta la mia interpretazione. Il processo di geometrizzazione del mondo e della vita di cui parlano c’è effettivamente stato, è tuttora in corso e non se lo sono inventati loro e neppure Heidegger. Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche, ciascuno a suo modo, già lo denunciavano. Volendo si può andare più a ritroso ancora, senz’altro sino a Pascal (che infatti parlava di esprit de gèomètrie). E lo stesso vale per lo sfruttamento coloniale, per le forme del dominio, per il disastro ambientale: sono temi che mi appassionano da sempre, e che ho la presunzione di conoscere non superficialmente.

Ma non è questo il punto. Il punto è: l’esistenza di questo processo ci rivela che l’uso distorto o improprio della ragione era già intrinseco alle premesse stesse? Vale a dire: l’impostazione razionale delle conoscenze sfocia necessariamente in una pretesa previsionale, quella per cui conoscendo i meccanismi, le “leggi”, mi illudo di poter dirigere, pianificare, programmare la realtà? E anche la realtà sociale, oltre a quella naturale? E addirittura la sfera emozionale? Ovvero, per andare al sodo: una simile impostazione produce necessariamente delle ‘ideologie’? Qui è il nodo. Perché un conto è chiamare al banco la ragione, ciò che significa ritenere che il difetto stia già nel manico, un altro conto è criticarne l’uso, o meglio ancora, l’abuso.

Il peccato originale: la scienza

Per i post-modernisti, naturalmente, è valida la prima imputazione. Contestano tanto il monopolio dell’interpretazione che la modernità ha riservato ad un uso specifico della ragione, quello “calcolante” e pragmatico (peraltro questo uso è etimologicamente già implicito nella ragione stessa: la ratio latina indicava infatti originariamente la capacità di calcolo), quanto l’applicazione impropria che ne ha poi fatto. Sostengono in pratica che da quando la lettura razionale del mondo, che suppone un osservatore “esterno” e freddo, si è sostituita a quella emozionale, che supponeva invece un coinvolgimento partecipe, è stato avviato un processo di disumanizzazione degli umani e di snaturamento del mondo stesso.

Resta però tutto da dimostrare che la linea retta da essi tracciata tra cause ed effetti, semplificando il percorso in una uguaglianza transitiva per la quale razionalità uguale scienza uguale utilitarismo uguale catastrofe, abbia un qualche fondamento.

A me questa linea pare in realtà semplicistica, più che semplificatoria, perché non tiene affatto conto delle variabili contingenti (quelle la cui somma è in definitiva la storia) e delle infinite incognite rappresentate dalla miriade di individui che entrano in gioco ad ogni passaggio. Ma soprattutto perché parte dall’assioma che la ragione “ragionante” non si sia limitata a esondare rovinosamente lungo il corso del tempo dal proprio letto, ma il danno lo abbia fatto a monte. In base a questo assioma la ragione avrebbe impoverito le possibilità di conoscenza già alla fonte, imponendo proprio attraverso le scienze un modello conoscitivo unico, arido, disumanizzante. La definizione del paradigma razionale scientifico sarebbe avvenuta a spese di ogni altra forma di sapere, e una volta affermatosi questo paradigma avrebbe pervaso tutto, apparati istituzionali, politici, religiosi, poteri economici, modelli produttivi, forme della comunicazione, annullando le differenze, omologando i comportamenti, imponendo una concezione prettamente utilitaristica ed economicistica della vita, rompendo le solidarietà originarie e atomizzando i rapporti sociali. Questo intende Maffesoli quando distingue la ragione ragionante da una ragione sensibile, vale a dire da un esercizio del pensiero che non esclude il portato delle passioni e delle emozioni (Il cuore ha delle ragioni …, ancora Pascal).

Le cose però non sono così semplici. Dovremmo porci alcune domande – ma seriamente, e prosaicamente, senza abbandonarci a visioni favolistiche e misticheggianti.

Dovremmo in primo luogo chiederci se per lo studio della natura esistono delle alternative al modello “scientifico” occidentale. Intendo alternative efficaci. Certo, dipende da cosa si vuol conoscere, e a che scopo. Se si parte dal presupposto che la natura non debba essere indagata, ma semplicemente “vissuta”, o che la conoscenza possa rimanere solo contemplativa, il discorso è già chiuso. Ci sono un sacco di ashram pronti ad accoglierci, con pacchetto completo, albergo e aereo compresi. Se vogliamo però essere seri, dobbiamo ammettere che per il genere homo non è mai stato così, la conoscenza non è mai stata fine a se stessa, né per quegli antenati o cugini che hanno preceduto il sapiens né, tantomeno, per quelli più prossimi, gli antichi e i pre-moderni. In realtà ogni conoscenza è già di per sé una forma di dominio: lo stesso “nominare” un oggetto costituisce una presa di possesso, come ben sapevano tremila anni fa gli autori della Genesi. Sostenendo che il modello scientifico occidentale è un portato della rivoluzione “borghese”, e che produce una conoscenza finalizzata solo al dominio e agli interessi del capitale, si vuole invece affermare la possibilità alternativa di conoscenze “dolci”, disinteressate, non invasive nei confronti della natura e non condizionanti nei confronti degli uomini, e comunque efficaci.

Ora, un approccio conoscitivo che presenti tutte assieme queste caratteristiche non esiste. Quelli di cui abbiamo una testimonianza storica, praticati sino a ieri non solo fuori dall’occidente ma anche al suo interno, o quelli che vengono periodicamente riproposti o importati anche oggi, fondati su percorsi di tipo mistico o iniziatico o empatico (e qui si spazia da Evola e Rudolf Steiner per i più introdotti, sino a Osho e a Tiziano Terzani per quelli di bocca buona), non danno alcuna risposta di una qualche efficacia alle esigenze del mondo moderno. Anche le pratiche basate su una tradizione sapienziale consolidata, come ad esempio l’agopuntura, dopo essere state gabellate per un certo periodo in occidente come la panacea anti-farmacologica di tutti i mali, sono oggi ricondotte entro i loro limiti, e vengono prese in considerazione al più per la cura dei reumatismi. Non parliamo poi delle incredibili bufale della chirurgia filippina a mani nude, delle pomate “biologiche” antitumorali e delle varie cure omeopatiche.

A meno che non si voglia girare la frittata, e sostenere che il problema sono semmai proprio le esigenze artificialmente indotte dalla modernità. Ovvero che i bisogni cui le conoscenze alternative non sanno dare risposta sono falsi bisogni, o sono conseguenza appunto dello “snaturamento” dell’uomo e del mondo. È ciò che ad esempio sostiene Konrad Lorenz, partendo ne Gli otto peccati capitali del mondo moderno dalla denuncia dell’aumento esponenziale della popolazione mondiale e dal conseguente deterioramento del suo patrimonio genetico, per arrivare a sostenere una larvata forma di eugenetica. Lorenz parla di una involuzione degenerativa della specie umana, provocata proprio dagli argini culturali opposti alla selezione, che porterà all’estinzione la specie stessa. Non è affatto un post-modernista, ma ha il coraggio di sviluppare sino in fondo un’argomentazione che i detrattori della modernità usano invece in maniera ambigua e reticente. Perché delle due l’una: se si ritiene che la “cultura” non debba interferire e alterare i meccanismi selettivi dell’evoluzione, non si può poi accusare di aridità e freddezza e utilitarismo la civiltà moderna, che con la medicina in effetti si oppone a questi meccanismi, e sostenere magari che questa opposizione è finalizzata solo ad avere più malati o più consumatori da sfruttare. Altrimenti si finisce davvero in un delirio “complottista”.

Le cose non cambiano anche se ci limitiamo a considerare le conoscenze sotto un profilo puramente teorico (che, ripeto, in realtà non esiste, perché qualsiasi tipo di conoscenza ha comunque una qualche finalità e una qualche applicazione pratica). Prendiamo il caso delle scienze naturali, quelle che almeno in apparenza presentano uno statuto conoscitivo meno immediatamente performante. È verosimile che la formulazione settecentesca delle tassonomie naturalistiche di Linneo e di Buffon sia stata condizionata dall’incrocio di esigenze politiche ed economiche, e che a loro volta queste tassonomie abbiano poi influenzato i commerci internazionali[11]: vanno quindi interpretate per quel sono, non il racconto veridico del mondo ma dei modelli convenzionali per leggerlo, adottati per finalità pratiche.

Almeno in questo senso però hanno funzionato: hanno consentito di elaborare criteri di rapporto e, perché no, anche di utilizzo. Che la cicuta e la belladonna fossero velenose lo sapevano anche i nostri antenati, ma che da quei veleni si potessero trarre dei farmaci lo hanno svelato le scienze. Allo stesso modo in cui le scienze hanno salvato la pelle ad un sacco di gatti neri o di poveri cristi additati come “untori”. E se è vero che le culture non occidentali (e non “borghesi”) hanno elaborato forme alternative di classificazione, molto spesso i loro criteri ricordano quelli riassunti da Borges[12] quando, riferendosi ad una fantomatica enciclopedia cinese, dice: “È scritto che gli animali si dividono in (a) appartenenti all’Imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, ecc …, fino a (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche”. Queste cose aprono scenari suggestivi, ma di ciò che è davvero importante sapere degli animali o delle piante o dei minerali (se davvero siano pericolosi i gatti neri, ad esempio) ci fanno conoscere quasi nulla. Ha un bel dire Foucault che “il fascino esotico di un altro pensiero suggerisce il limite del nostro”. Il fascino esotico senz’altro rimane, ma a me suggerisce al contrario che i limiti del nostro pensiero siano spostati molto più in là.

Le fughe verso forme di sapere empatiche e “dolci” nascono dalla difficoltà, o dal rifiuto, di capire che alla base delle svolte epocali, quelle che hanno davvero segnato (e distinto) il cammino dell’umanità, ci sono scelte dettate da un “calcolo” biologico. Penso ad esempio alla rivoluzione agricola. Alcuni studiosi sostengono che quel passo abbia decisamente abbassato la qualità della vita degli umani, che come cacciatori-raccoglitori dovevano lavorare molto meno, potevano contare su una varietà alimentare più ampia ed avevano meno ragioni per perpetrare o subire violenza. In base alle prove documentali che abbiamo in mano è un’ipotesi valida quanto un’altra[13]. Ma se anche fosse fondata non dimostrerebbe affatto che la prima grande “razionalizzazione” dei comportamenti economici abbia alterato il corso naturale, col risultato di una sorta di cacciata dall’Eden. Ciò che vale per i singoli individui non vale allo stesso modo per la specie, che “ragiona” in termini di successo riproduttivo: e in questo senso la vita stanziale e la domesticazione delle piante hanno significato la possibilità di mettere al mondo e di mantenere più figli, quale che fosse poi il loro destino. Voglio dire che in noi, come in tutte le altre specie, animali e vegetali, agisce per natura una funzione “calcolante”, e che la razionalizzazione ne rappresenta semmai un parziale superamento: la ragione è la briglia imposta all’istinto, quella che consente agli umani, e solo a loro, di scegliere i mezzi e regolare la velocità. Ma la direzione e il percorso, che lo vogliamo o meno, sono per la gran parte già scritti nei nostri geni.

Non raccontiamoci dunque che il valore o la bontà di una pratica non si misurano in termini “quantitativi” di controllo o di efficacia (l’etica assoluta di Kant non si riferiva a questo). Lo studio delle società pre-moderne, occidentali o no, ci dice che al più possono variare gli strumenti per esercitarlo, questo controllo, ma le finalità non cambiano. Torniamo nel campo della medicina. Anziché ad un farmaco di tipo chimico si può pensare di ricorrere ad una pozione, ad un incantesimo, a un sacrificio, a una formula magica, a una preghiera o a un mantra, ma lo scopo rimane lo stesso: è quello di alterare, frenare o eliminare un processo naturale. Allo stesso modo, è vero che dietro il farmaco “moderno” c’è l’industria farmaceutica, e che una buona metà delle malattie odierne in realtà esistono, o sono trattate, solo in funzione del mercato della salute; ma è altrettanto vero che dietro i rimedi alternativi ci sono sempre stati chiese, sette e sfruttamento della superstizione o della dabbenaggine: e che oggi prospera un collaudato business della medicina “naturale”. Quindi questi rimedi non garantiscono affatto una minore soggezione e dipendenza rispetto alle diverse forme di potere che sempre, in qualche modo, ne discendono e li controllano. E comunque, non esistono pozioni o formule in grado di riattaccare un braccio amputato, o di bloccare un infarto.

Se il problema è conoscere la natura delle cose per poter agire sulle cose stesse (e per il genere homo, la si metta come si vuole, il problema è quello), al momento la forma di conoscenza più profonda e più affidabile rimane quella sviluppata dalla cultura occidentale. Che si è affermata nei confronti delle altre non per prepotenza imperialistica, ma semplicemente perché più efficace.

Bollando la scienza come pura espressione dell’utilitarismo “borghese” se ne negano invece anche applicazioni e risultati che sono palesemente positivi, senz’altro in termini di successo della specie, ma direi anche per la qualità della vita degli individui. È il caso dell’attuale polemica contro le vaccinazioni. È innegabile che grazie a questa profilassi ceppi virali che ancora sessant’anni fa erano devastanti, come quelli della poliomielite o della tubercolosi, sono stati stroncati. Che avremmo dovuto fare? Tenerceli? Lasciar fare alla natura il suo corso, come sostiene Lorenz, anziché adottare rimedi “borghesi”? Ho frequentato le elementari assieme a due ragazzini poliomielitici e certe stupidaggini non le voglio neppure sentire. E allora, se la scelta non è questa, non ci piove: le pratiche ritenute più naturali, antroposofiche, omeopatiche, ayurvediche, olistiche, vegane, sciamaniche che siano, rappresenteranno indubbiamente il “molteplice”, ma non hanno alcuna efficacia nei confronti di questi aggressori. E lo sanno benissimo anche i naturisti, tanto che recentemente, al primo sospetto di focolai di meningite, si è verificata una corsa mai vista alle vaccinazioni.

Lo stesso discorso vale per la legittimità dei metodi di ricerca. Non metto in dubbio che l’uso degli animali per lo studio delle malattie e dei loro possibili rimedi, o gli interventi a livello genetico, si prestino alla distorsione delle finalità e all’abuso dei mezzi: ma anche in questo caso ho la convinzione che nello spostare il tiro dai possibili effetti alla causa si sia corretto malamente l’alzo, tanto da arrivare a colpire direttamente la razionalità. L’idea di scimmie o topi sottoposti ad esperimenti nei laboratori non mi sorride affatto, e mi auguro che per il futuro si trovino alternative valide: ma per il momento non ne vedo, e mi pare assurda la richiesta di sospendere pratiche alle quali sono legate le uniche speranze di nostri simili in difficoltà. Soprattutto mi sembra pretestuoso usare questo argomento per attribuire alla ragione “moderna” l’invenzione e il monopolio della crudeltà contro le altre specie, e del loro sterminio.

La sola comparsa del sapiens, ben prima della rivoluzione agricola e di Parmenide e di Platone, provocò nel volgere di poche migliaia di anni un’estinzione di specie animali paragonabile a quella dei dinosauri (per non parlare del genocidio intraspecifico, quello che ha spazzato via le altre famiglie del genere homo). Allo stesso modo i sacrifici animali apotropaici (nonché quelli umani), gli sgozzamenti rituali, le carneficine in occasione di esequie reali o i processi intentati a povere bestie sospettate di poteri malefici erano (e sono) diffusi in culture che col razionalismo e la modernità avevano ben poco da spartire. È vero piuttosto il contrario: e cioè che la sensibilità odierna nei confronti di questi temi è frutto di una impostazione più razionale delle conoscenze, che ha portato alla presa d’atto della nostra appartenenza in toto al mondo animale, della nostra parentela stretta con le specie affini.

Tornerò più oltre sul fatto che persino questa nuova attitudine, quando sfugge al controllo della ragione, produce mostri (mi riferisco naturalmente all’integralismo animalista). Ciò che mi preme chiarire adesso, in buona sostanza, è che l’intreccio tra interessi economici o politici e sviluppo della scienza moderna sta sotto gli occhi di tutti, ma questo non delegittima affatto la scienza, e tanto meno la razionalità che la informa. Dovrebbe semmai indurci a riflettere su come siano nate e come abbiano agito queste complicità: scopriremmo che le loro motivazioni e i loro scopi con la razionalità hanno ben poco a che vedere. Il fatto ad esempio che l’evoluzionismo sia stato piegato anche ad una interpretazione razzista, lontana anni luce dagli intenti di chi ne ha formulata la teoria ad oggi più coerente, non ne inficia assolutamente la credibilità e il valore: e la storia stessa del darwinismo dimostra che alla lunga è la corretta interpretazione scientifica ad affermarsi.

La redenzione razionale

Io credo in un “fondamentalismo laico illuminista”, che concerne il metodo, non le teorie o le ipotesi. Queste possono variare, ma l’approccio razionale scientifico, ovvero la convinzione che possiamo avere una conoscenza oggettiva del mondo esterno nell’ambito naturale (in altri ambiti, quello sociale, ad esempio, o quello politico, la musica cambia), non è negoziabile. E sono convinto che la razionalità abbia una sua necessaria coerenza, un sistema immunitario che si attiva e reagisce contro gli attacchi virali esterni e le degenerazioni interne. È a partire da questa evidenza che bisognerebbe discutere, anziché rigettare l’intero sistema: esattamente il contrario di ciò che fanno gli anti-moderni.

A loro parere, infatti, la razionalità scientifica, modificando sempre più velocemente il senso della realtà, non solo con le sue “scoperte” ma soprattutto con le sue ricadute tecnologiche, produce uno sfaldamento sociale e uno spaesamento esistenziale che si traducono alla fine in nichilismo. Ed essendo la scienza espressione necessaria e necessitante della ragione, il difetto va sanato all’origine, negando a quest’ultima ogni validità conoscitiva e ogni autorevolezza precettiva.

Mettono insomma in discussione una peculiarità dell’uomo che a seconda dei punti di vista può essere considerata diabolica o divina, ma è comunque innegabile. Non è possibile prescinderne, soprattutto alla luce di quanto detto sopra: che cioè la razionalità nasce da una istintiva funzione di calcolo propria di ogni specie, ma supera questo determinismo per diventare, attraverso la facoltà di scelta, lo strumento della singolarità umana: lo strumento della libertà (o almeno, di quel margine di autonomia decisionale che la natura ci consente).

È proprio la libertà a consentire alla cultura razionale di rilevare le reali o presunte criticità dei suoi stessi presupposti. Questo i critici della modernità rifiutano di vederlo. Anzi, ritengono che la riflessione operata dalla ragione su se stessa, sui propri strumenti e limiti e ambiti di funzionamento (Kant, per intenderci) sia complice, se non artefice, dell’asservimento e dell’annichilimento dell’uomo. Paradossalmente il criticismo kantiano viene considerato, a partire da Stirner, l’origine di tutte le sciagure indotte dalla modernità. A svelare il trucco e a portare a compimento il “disincanto” del mondo sarebbe proprio la coscienza (razionale) di come la razionalità funziona: col risultato di produrre un atteggiamento che Nietzsche definisce “nichilismo alla moda di Pietroburgo”, un nichilismo cioè angosciato e pavido, che cerca disperatamente di supplire alla caduta dei vecchi valori inventandosene altri.

In sostanza ai moderni, che già erano stati privati delle certezze della fede dalla rivoluzione scientifica, una volta accertata da Kant l’impossibilità di conoscere alcunché dell’Essere non sarebbe rimasto che rivolgersi alla razionalità stessa per chiederle di dare un senso all’esistenza (attraverso la storia, il progresso, ecc …). Nel farlo hanno rinunciato più o meno consapevolmente a quei margini di incanto, di mistero che costituivano le aree franche dall’angoscia di fronte alla morte e alle altre miserie della condizione umana. Quando poi questo senso non è arrivato, o si è rivelato una costruzione metafisica, allora tutto si è sfarinato nella incertezza, si è liquefatto, per l’assenza di verità cui aggrapparsi e di valori cui conformarsi. Il che ha equivalso poi a rinunciare a decidere, a scegliere. Ha equivalso ad arrendersi al nulla.

Quando parlavo di semplicismo mi riferivo proprio a questa rappresentazione da tragedia greca. E comunque, quel che in positivo gli antimoderni oppongono all’incertezza rasenta il comico, non fosse che gli esiti possono essere tragici. La ragione è accusata di lasciare gli uomini orfani di senso, una volta che le ideologie da lei stessa indotte sono naufragate alla prova dei fatti. Quindi, con una operazione che più concettualistica non potrebbe essere, i decostruzionisti provvedono a rimuovere le macerie ideologiche per liberare spazi nuovi alla creatività spontanea, da gestire non razionalmente ma emotivamente. Tutto questo, tradotto in quotidianità, dopo un paio di semplicissimi passaggi suona come una apologia del permissivismo: ragazzi, vedete un po’ voi, seguite l’onda delle vostre pulsioni. Che è ciò che poi fanno ultimamente, con agghiacciante regolarità, mariti e amanti fedifraghi o traditi, e figli troppo pressati dalle famiglie. Al momento non riesco a scorgere altre applicazioni delle fumose aperture all’istintualità predicate da Maffesoli e da Vattimo: e questo rafforza la mia convinzione che il post-modernismo alimenti quella stessa deresponsabilizzazione dell’individuo che imputa alla cultura della modernità. Per questo, continuando ad abusare della tua pazienza, mi spingo ancora avanti.

Utopia e reincanto

Non considero ovviamente Lyotard e Derrida e tutta la compagnia postmoderna responsabili di quella che dal mio punto di vista è una corsa allo sfascio culturale e civile (e per Maffesoli è invece un ritorno alle energie vitali). Voglio dire, del montare degli integralismi di ogni tipo, della violenza di genere, delle guerre per bande, ecc…[14] Le forze in gioco sono ben altre, assai più potenti della filosofia. Penso però che gli intellettuali, i filosofi in particolare, siano qualcosa di più che semplici testimoni della storia. Non hanno in mano le artiglierie, non premono il bottone per sganciare le bombe, ma in qualche modo danno le coordinate, orientano i sistemi di puntamento, oppure offrono le pezze d’appoggio con le quali giustificare qualsiasi deriva. I casi di Oxford e di Yale stanno lì a dimostrarlo.

Lo hanno sempre fatto, prima ancora di Platone, hanno sempre cercato di correggere il passo dell’umanità, di indirizzarlo, lavorando alle spalle della politica e dell’economia, il più delle volte marciando controcorrente, o in anticipo, perché ne coglievano con uno sguardo dall’alto le contraddizioni e i pericoli. Raramente sono stati dei semplici certificatori dell’esistente, ma anche quando questo è avvenuto avevano in mente un parametro ideale. Diciamo che tutti i filosofi sono, per un verso o per l’altro, degli utopisti. Se fossero dei realisti si darebbero alla politica spicciola.

Il motivo per cui ne stanno alla larga è che, paradossalmente, non hanno alcuna fiducia negli uomini. Le Utopie più famose, quelle con la maiuscola, non interstiziali, a partire dalla repubblica di Platone (che a dire il vero con la politica ci ha anche provato), hanno come oggetto non gli uomini ma l’Umanità. In esse la palingenesi, la redenzione, la rivoluzione sono affidate al volere divino o alle leggi della storia, col tramite, in entrambi i casi, di guide “illuminate”: e sono la condizione necessaria, non la possibile conseguenza, di un cambiamento degli uomini. Il senso all’esistenza umana, quella dei singoli, degli individui, dovrà arrivare dall’alto: lo daranno la Repubblica appunto, il Paradiso, la Storia, lo Spirito assoluto, la Società senza classi, ecc… Per creare le condizioni di questo avvento le Utopie classiche, letterarie o tragicamente concrete, a partire da quella di Thomas More fino a quella di Pol Pot, ricorrono in genere all’espediente dell’isola: l’esperimento sociale può essere condotto solo nel totale isolamento nei confronti dell’esterno, ad evitare contaminazioni, ma soprattutto per chiudere ogni via di fuga alle cavie riluttanti. Si salta geograficamente in un altrove, o temporalmente in un’altra epoca, perché con ogni evidenza nel qui ed ora non ci si crede. E una volta instaurata la società perfetta, nulla dovrà più cambiare. L’idea di fondo è quella di fermare il tempo (o la coscienza del tempo) per abitare lo spazio (in questo caso, uno spazio non aperto). E guarda caso, è la stessa dalla quale muove l’anti-utopia postmoderna. Dove si vada a parare per questa strada lo abbiamo già visto.

Non esistono però, e per fortuna, solo le Utopie originate dalla sfiducia negli uomini. Forzando magari un po’ il termine, e scrivendolo con la minuscola, si scopre che è possibile immaginare un cambiamento che muova dal basso e dal singolo. Nel linguaggio filosofico potremmo dire che questo tipo di aspettativa risponde a un modello utopico, mentre quello della grande redenzione collettiva si aggrappa ad un sogno utopistico. Nel primo caso l’idea è quella del perseguimento di una trasformazione lenta ma continua, il cui orizzonte si sposta sempre un po’ più in là: nel secondo c’è la pretesa di realizzare, di norma con un colpo di mano, un modello di società che, in quanto perfetto, non dovrà più cambiare.

Maiuscole o minuscole, le utopie hanno dimora comunque solo nel mondo moderno (prima possiamo parlare di millenarismi o di aspettative escatologiche), perché solo in esso si è osato tradurre la comprensione delle leggi naturali in azione concreta: si è pensato cioè che l’uomo potesse cambiare il mondo. La differenza sta nel fatto che il modello utopico non nasce da un disincanto maldigerito nei confronti delle potenzialità dell’uomo, ma dalla realistica consapevolezza dei suoi limiti: e questa non costituisce un approdo rassegnato, ma il punto di partenza per assegnare all’uomo un posto nella natura e ridisegnare un senso alla sua esistenza. Un senso che parta dall’uomo stesso, dalla sua differenza, e non gli arrivi dall’esterno.

Il modello utopico confida dunque nella capacità dell’uomo, dei singoli uomini, degli individui, di riscattare la propria apparente insignificanza rispetto all’eternità del tempo e all’infinità dello spazio attraverso la cultura. Può essere declinato in varie sfumature, ma accomuna tutti coloro che esercitano la critica delle storture sociali passandone ogni aspetto al vaglio della razionalità. Si chiamino Steiner, Berlin o Timpanaro, tanto per rimanere nella cerchia dei miei santini, e siano riconducibili al pensiero liberale, a quello anarchico o a quello marxista, esprimono comunque una identica convinzione di base: la critica deve essere razionale, e la cultura che abilita ad esercitarla deve essere frutto di una conquista individuale, non di una pentecostale rivelazione scesa dal cielo o dalle labbra di un guru.

L’anti-utopia prospettata dai post-moderni è invece una creatura ibrida: prevede che il cambiamento avvenga sì dal basso, ma non sia guidato dalle singole coscienze accresciute, bensì dalle “nuove forme di comunità”: quelle che abbiamo visto in Maffesoli. Questo cambiamento non appare finalizzato a qualcosa di definitivo, e neppure suppone, nemmeno a livello di intenzioni, dei parametri di risultato, se non una molto vaga “liberazione”; ma anche se in apparenza non contempla una “fine della storia”, in realtà la decreta nel momento stesso in cui rifiuta la ricerca di nuove proiezioni “in avanti” dell’umanità. È un modello che non tiene conto del “legno storto” nel quale sono intagliati gli uomini, e nemmeno ne dà per scontata l’immaturità, come avviene di regola nelle grandi Utopie: rispolvera piuttosto il mito del “buon selvaggio”, sia pure in una versione a venire, e indica in una disposizione originaria creativa e dionisiaca il riferimento per una nuova socialità non oppressiva. Potrebbe essere considerato un utopismo escapista (alla Rousseau, per intenderci, contrapposto a quello urbano, razionalista e scientifico-tecnologico di Bacone); senonché ha poi una strana concezione della equilibrata armonia da ricostituire tra l’uomo e la natura, dal momento che individua gli strumenti di fuga proprio nelle tecnologie più avanzate.

La dissacrazione, o decostruzione, dei miti della modernità operata dai post-moderni si risolve dunque nel ritorno a quelli antichi, pre-biblici o addirittura pre-olimpici (non a caso, tra i suoi derivati c’è anche la riscoperta del paganesimo), trasferiti in una situazione da day after. È una singolare riproposta del conflitto natura-cultura, che riattualizza una millenaria diatriba sulla natura umana. Da un lato la linea che va da Esiodo a Hobbes, passando per Platone e per Tucidide, e che secondo l’accusa è quella dominante nel mondo moderno, per la quale gli uomini sono originariamente lupi gli uni agli altri, in sostanza delle bestie che vanno guidate col morso (ma lo dice anche Dante): dall’altra quella che in qualche modo passa per Aristotele (l’uomo è un animale politico) e per Pico della Mirandola, convinti della natura fondamentalmente positiva dell’uomo, e trova poi una espressione polemica in Rousseau, per il quale sono state le istituzioni, quelle politiche e quelle economiche, a corromperne la natura innocente.

I post-modernisti non hanno dubbi. Nella loro analisi le scienze naturali e le scienze umane, a partire dal Cinquecento, hanno congiurato ad accreditare un’idea negativa dell’uomo che giustificasse le disuguaglianze, le sofferenze, le ingiustizie, e soprattutto la proprietà privata, il potere dello stato e un modello produttivo che produce soltanto alienazione, attraverso lo sfruttamento e la coazione al consumo. Di qui il convincimento che per procedere ad una liberazione vera occorra scalzare questa idea alle radici, dimostrarne l’inconsistenza, ciò che è possibile solo facendo tabula rasa della razionalità, mettendone a nudo il vizio d’origine, dimostrando che l’oggettività è un trucco e riconducendo il tutto su un piano meramente linguistico.

Solo in questo modo l’uomo nuovo maffesoliano potrà emanciparsi, sottraendosi a costrizioni, pressioni, regole, mascherate da quel sistema dei diritti più o meno “naturali” che la razionalità ha elaborato a scudo del capitalismo e del dominio borghese. Ma se la ricerca dell’oggettività è impossibile, o è uno strumento della dominazione, la risposta è una logica “pluralista”, che apre poi la strada al relativismo etico.

Non si tratta dello stesso atto di fiducia nell’uomo espresso da Aristotele e da Pico: perché quelli in realtà chiamavano l’uomo a costruirsi, lo accreditavano di un potenziale che andava però sviluppato, mentre qui si parla di qualcosa che evidentemente, se non fosse tarpato e soffocato dal grande inganno razionale, agli uomini apparterrebbe già, sarebbe loro dato in dotazione dalla natura. Devono solo fluire sulla scia delle loro pulsioni e dei loro gusti. La libertà si riconquista nel disordine.

Il problema è che alla radice della critica post-moderna sta, come dicevo, la stessa aporia su cui si fondano le ideologie utopistiche, comprese quelle imputate alla modernità. È il mancato riconoscimento della responsabilità che il singolo deve assumersi, sia in positivo, per crescere, sia in negativo, se rifiuta di usare gli strumenti che ha a disposizione per farlo, o li usa scorrettamente. A dispetto dell’accento posto continuamente da Maffesoli sulla “reazione” dell’individuo, i postmoderni continuano a scaricare all’esterno (in questo caso sulla “cultura”, nell’età delle ideologie sulla “società”, prima ancora erano le potenze maligne o il Fato) una responsabilità che è invece individuale. Perpetuano una tradizione sociologica tutta orientata sullo studio dei condizionamenti sociali, a mostrare quanto il peso delle strutture economiche, politiche e culturali possa schiacciare la libertà del soggetto. Certo, viviamo all’interno di una rete di rapporti, e una società è l’insieme definito dalla cultura nella quale gli individui si riconoscono, o alla quale comunque temporalmente e spazialmente appartengono. E questa cultura condiziona l’individuo sotto ogni aspetto. Ma ciò non toglie che i singoli vadano tenuti responsabili dell’uso che ne fanno, dell’interpretazione che danno dei loro rapporti reciproci e di quello col mondo. Che se la siano conquistati o che l’abbiano acquisita per un errore di duplicazione dei cromosomi, agli uomini è data un’autonomia di scelta. Il loro comportamento non è la pura somma delle costrizioni sociali. Entro questo margine di autonomia stanno la razionalità e i suoi calcoli, le emozioni e il loro controllo, la sensibilità. C’è la valutazione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto.

Il male non è mai banale: è frutto di una scelta singola sbagliata, o di una non scelta, che è sbagliata comunque. Non è stata la razionalità a produrre Auschwitz, ma il suo uso distorto, l’applicazione di criteri razionali ad una demenziale volontà di potenza, da parte di alcuni, e la non opposizione a questo stravolgimento da parte dei più. Non mi si possono tirare in ballo Goethe o Beethoven per darne una spiegazione. Le pezze d’appoggio per giustificare qualsiasi nefandezza si possono trovare ovunque, e proprio le religioni, grandi o piccole che siano, stanno lì da millenni a testimoniarlo: ma dire che gli orrori del Novecento sono stati lo sbocco naturale della presunzione razionalistica è solo un modo per non accettare la realtà di una natura umana “originaria” tutt’altro che giocosa e innocente (a prescindere dal fatto che a leggerla senza paraocchi tutta la storia, e segnatamente quella pre-moderna, e quella non occidentale, è una tabella di orrori).

Al contrario, la razionalità è sempre stata consapevole di un suo possibile utilizzo improprio. Kant l’aveva già chiaramente detto parlando di legno storto dell’umanità. Mi torna in mente il confronto tra Antoine Spire e George Steiner di cui ho parlato in Sottolineature. Da una parte c’è chi, evidentemente sintonizzato sulla stessa lunghezza d’onda di Maffesoli, coglie nella musica metal, nei tatuaggi, nei graffiti metropolitani o nelle mandrie che affollano gli stadi e le mostre gli indizi di una nuova cultura, dall’altra chi guardando realisticamente al degrado vuole continuare a sperare che a dispetto di tutto, di Auschwitz ma anche della musica metal o dei postmoderni, non venga buttato quel busto ortopedico che la “vecchia” cultura – illuministica, borghese, scientifica, chiamiamola un po’ come vogliamo – costituisce.

Mi identifico totalmente in quest’ultima posizione. Penso che quando gli uomini si comportano come bestie, o peggio, ciò non dipenda dall’essere diventati troppo razionali ma, al contrario, dal fatto che la stragrande maggioranza non ha raggiunto il traguardo dell’uscita dalla minorità. E questo non perché l’asticella da superare sia troppo alta, e vada abbassata, o peggio ancora rimossa, ma perché ha paura di ciò che c’è dall’altra parte, che il tappeto su cui andrà a ricadere sia troppo duro, che la responsabilità da assumere sia troppo pesante. La cultura “borghese”, con tutte le sue pecche e strumentalizzazioni e strategie di distrazione, queste cose ce le ha comunque messe davanti. Nietzsche e Schopenhauer e lo stesso Heidegger non hanno filosofato in India, alla Mecca o nelle isole Tonga: ne sono figli, magari ribelli, e come tali magari capaci di dire ogni tanto verità spiacevoli, ma la paghetta hanno continuato a riceverla da casa. Lamentarsi perché queste verità non ci piacciono e cambiare canale per non sentirle mi sembra una reazione puerile.

Un’etica “razionalista” è l’unico atteggiamento conseguente. Non mancano, e lo abbiamo visto, gli esempi di una attitudine dignitosa, tutt’altro che nichilistica, di fronte al nulla disvelato: li troviamo lungo tutto il percorso culturale dell’Occidente, senza bisogno di andare a cercarli nelle fughe dal mondo offerte dalle culture alternative. Leopardi e Camus, per citare altri nomi che mi sono cari, sono lì a dimostrare proprio con l’eccezionalità della loro esperienza come la vecchia e vituperata cultura razionale possa produrre anche un “nichilismo reattivo”. E allora, anziché rigettarla, è semmai da spingere perché questa cultura venga fatta propria da chi non l’ha abbracciata, e digerita da chi si limita a masticarla per rinfrescarsi l’alito. Certo, la cultura razionale è fatica, è disciplina: ma una fatica già in sé gioiosa, come quella di chi arrampica per salire una montagna, o compone L’Infinito, o scrive La Peste.

Il futuro immaginato (e caldeggiato) da Maffesoli implica invece il ripudio di quel processo di razionalizzazione e di responsabilizzazione che ha segnato tutta la storia dell’umanità, ma che a suo giudizio sembra aver costruito solo una sorta di inferno terreno, nel quale trionfano sradicamento, alienazione, solitudine, atomizzazione, repressione. Per fare posto a che? A “un universo di riti, giochi e immaginari la cui etica è quella del tragico”. Nel quale il soggetto sperimenta oggi più che mai un affrancamento dal normativo. Beh, direi che quanto ad affrancamento dal normativo ci siamo già portati parecchio avanti, soprattutto in Italia. In questo senso potremmo proporci come l’esempio realizzato della società post-moderna. Ma l’affrancamento dal normativo, una volta applicato alla realtà sociale, non dissolve i ruoli sociali predefiniti (era dal medioevo che non si verificava una cristallizzazione dei ruoli e dei ceti sociali paragonabile a quella degli ultimi trent’anni, con cariche e professioni che paiono essere tornati ereditari): diventa piuttosto un liberi tutti all’interno del quale sono sempre i piccoli, i deboli, le scorze d’uovo, a “stare sotto”.

Nemmeno credo che la dissoluzione delle vecchie regole sociali, l’apertura della gabbia nella quale secondo Maffesoli era imprigionato il soggetto, conduca in automatico all’avvento di una nuova socialità creativa. Anche se il termine viene usato con le dovute virgolette – a dire che si tratta di altro da quello politico novecentesco – qui si parla di “spontaneismo”. La nuova comunità cui si riferisce Maffesoli si fonda sull’idea che la proliferazione spontanea delle reti sociali “virtuali” produca un’intelligenza collettiva necessariamente efficace. E torno a chiedermi: ma dove vive? Si guarda attorno, prova ogni tanto a dare uno sguardo a ciò che davvero accade in rete, o per strada?

Il meno peggio dei mondi possibili

Sino ad ora ho parlato in termini molto teorici di responsabilità personale, individuale: per esemplificare concretamente non posso però che buttarla, come al solito, sul personale. Sulla mia insofferenza per la lettura post-modernista del presente (e naturalmente, del passato e del futuro) pesa senza dubbio una personalissima idiosincrasia: quando sento questi discorsi fiuto immediatamente odore di “garantiti”. È uno degli aspetti della “sindrome di San Francesco” di cui ti ho spesso parlato: solo i ricchi possono scegliere di diventare volontariamente poveri. Non c’entra, bada bene, la condizione sociale, o c’entra relativamente. Certo, c’è gente che non ha mai dovuto combattere per conquistarsi qualcosa, e quindi non ha idea del valore di ciò che vuole buttare, perché esso sta appunto nella fatica e nella soddisfazione della conquista. Ma io nei garantiti faccio rientrare anche coloro che hanno potuto vivere solo per se stessi, scegliere senza farsi condizionare dalla sorte di chi stava loro attorno. L’ho sempre avvertita questa distanza: a scuola prima, all’Università nel Sessantotto, e continuo ad avvertirla anche oggi. È quella che separa chi vive sentendosi sempre in credito con la vita e con l’umanità, da chi ritiene di avere dei doveri nei confronti dell’una e dell’altra.

Maffesoli ed io abitiamo nella stessa parte del mondo: siamo quasi coetanei, quindi abbiamo attraversato anche la stessa fettina di storia. Ma a leggerlo non si direbbe. Anch’io non credo di essere un Candido, vedo come lui tutte le contraddizioni e le storture della civiltà occidentale, non ho nemmeno atteso i postmoderni per rendermi conto del vicolo cieco nel quale ci sta conducendo l’autonomizzazione della tecnica e dove ci ha già condotto quella della finanza: penso quindi sia mio dovere continuare ad oppormi in qualche modo a queste derive, e nel mio piccolo credo sino ad oggi di averlo fatto: ma so anche che altrove, pure al netto dei danni della colonizzazione e di quelli della globalizzazione, è molto peggio. E che prima lo è stato per tutti.

Per questo non tollero i denigratori da diporto del mondo e della storia occidentali, quelli superficialmente indottrinati dai diversi catechismi, marxista, cattolico, terzomondista, pseudo-buddista, induista, a pensare che l’occidente (e l’occidente sono sempre genericamente gli altri) sia all’origine di ogni nefandezza: quelli che visitano luoghi e culture altre sempre con l’attitudine del pellegrinaggio, e rifiutano lo sforzo di vedere anche ciò che sta sotto i loro occhi, e di pensare con la propria testa. Che vanno in estasi di fronte a mondi nei quali non sarebbero mai sopravvissuti, e schifano quello in cui è consentito loro di rientrare dopo la vacanza intelligente.

Non sopporto quindi, e anche questo lo sai da un pezzo, quell’altra sindrome che Pascal Bruckner ha definito “il singhiozzo dell’uomo bianco”, che induce a liquidare il problema del disordine del mondo con l’attribuirne tutte le responsabilità alla civiltà occidentale, e a colpire nel mucchio delegittimandone ogni presupposto. È una sindrome oggi più che mai diffusa, anche dopo il tramonto delle ubriacature terzomondiste, e si manifesta come un peloso senso di colpa, fondato su improbabili esotismi da noia intellettuale più che su una reale coscienza storica, che pregiudica ogni tentativo di valutare le situazioni con un po’ di buon senso. L’occidentalizzazione del mondo c’è stata, è stata cruenta, ha portato lo sfruttamento a livelli esponenziali: ma ha dato contestualmente vita, dall’interno, ad una critica e ad una opposizione serrata. Da de Las Casas in poi, a partire dai primissimi anni successivi alle grandi scoperte geografiche, il numero di coloro che denunciavano la schiavizzazione e lo sterminio dei popoli colonizzati è stato grandissimo, e a dispetto delle apparenze le loro voci non si sono perse nel deserto: hanno scosso nel profondo le coscienze occidentali, tanto appunto da determinare quel senso di colpa cui accennavo sopra. Non mi risulta che altre culture abbiano sviluppato lo stesso tipo di reazione. Gengis Khan e Tamerlano sono eroi indiscussi per le popolazioni mongole e turche, così come lo sono Saladino per l’Islam o Shaka Zulu per i neri sudafricani: mentre per contro Cortès e Pizzarro sono considerati poco più che dei banditi. Eppure, quanto a efferatezza e a mancanza di scrupoli avevano tutto da imparare dai primi.

Lo stesso vale per lo schiavismo: già a partire dal Settecento ha cominciato a fiorire tutta una letteratura dell’abolizionismo, e oggi le opere storiche sull’argomento non si contano più, mentre non mi risulta ne esista una sullo schiavismo arabo, che ha interessato un numero almeno doppio di disgraziati, scritta da un arabo. E per quanto concerne i genocidi, è sufficiente vedere quanta contrizione provino i turchi odierni per quello degli armeni. D’altro canto, lo stesso Vattimo sa benissimo che può esprimere impunemente tutto il suo sprezzo per la cultura occidentale solo perché ne è figlio: ad altre latitudini non solo non potrebbe farlo, ma avrebbe difficoltà anche a sopravvivere. Saranno considerazioni banali, ma sono incontestabili: così come è incontestabile che questa coscienza della negatività del proprio operato, che appartiene solo all’Occidente, nasce proprio da considerazioni razionali, e non da una positiva emotività o empatia.

Questo per la giustizia storica. Quanto all’esperienza privata, a differenza evidentemente di Maffesoli io ho vissuto bene sia la mia epoca che la mia appartenenza culturale. Non è stato difficile: negli ultimi settant’anni l’occidente è riuscito ad evitarsi, almeno al suo interno, le guerre (lo so, le ha portate altrove: ma quando le faceva qui era peggio). Soprattutto non mi sono sentito né costretto in ruoli, né alienato dal lavoro. Ho fatto cose che mi piacevano, che non erano andare in giro in barca per i Caraibi o giocare al casinò, ma insegnare, e farlo il meglio possibile. Gli strumenti per lavorare bene non li ho trovati in casa né per strada: me li sono procurati con uno studio a volte matto, ma mai disperato, perché sono riuscito a farmi piacere persino la matematica. In questo modo, e con questa disposizione, non ho nemmeno avuto la sensazione di lavorare: e lavori ne ho fatti molti, senza dubbio molti più che Maffesoli. Capisco che la mia condizione non sia la stessa della gran parte dell’umanità: ma secoli fa, prima del trionfo della cultura razionale, o fossi nato altrove, non ci sarebbe stata nemmeno la mia. Faccio dunque parte di coloro che in questa cultura ci credono, e non perché lobotomizzati dal mito del progresso o dalle ideologie egualitarie, ma perché molto prosaicamente ringraziano il cielo di aver vissuto oggi e non cento anni fa o nella comunità originaria. E ritengono che questa cultura occorra senz’altro migliorarla, che ne vadano corretti gli aspetti “disumanizzanti”, ma che prima di tutto sia importante difenderla.

Un’etica della responsabile armonia

Qui volevo arrivare. Mi va molto bene l’etica della responsabilità proposta da Hans Jonas: agisci in modo che la conseguenza delle tue azioni sia compatibile con la sopravvivenza della vita umana sulla terra. Ma il primo passo in questa direzione è quello di rendere grazie per l’esistenza di questa vita. Ovvero, rendersi conto che agire eticamente è facile, a dispetto di tutte le giustificazioni prodotte per non farlo. È sufficiente intendere la responsabilità per quel che deve essere, non un peso imposto, ma una scelta sia etica che estetica: fare bene, nei limiti delle nostre capacità, e possibilmente anche un filo oltre, quello che le circostanze ci portano a fare, è decisamente più gratificante del farlo male e svogliatamente. Volenti o nolenti abbiamo in testa un ordine del mondo, un’idea di armonia, che corrisponde poi alla nozione del bello. Il sillogismo qui lo faccio io: l’ordine è razionalità, l’ordine è bello, ergo, la razionalità è sentimento del bello. Il disordine può anche romanticamente attirarci, ma solo perché ci turba e ci offre una occasione per agire, per rimettere a posto le cose (altrimenti che ci staremmo a fare?). È l’equilibrio a darci serenità. Il secondo passo sarà quindi vedere cosa non funziona, e perché, e prendere atto che su alcuni aspetti non possiamo fare nulla per migliorare la situazione, ma per altri si. E il terzo sarà salvaguardare le condizioni perché questa vita sopravviva: ovvero lasciare il mondo, se non migliore, almeno non peggiore di come lo abbiamo trovato.

Allora, anziché rassegnarci a vedere andare in malora l’edificio, cerchiamo di distinguere tra ciò che è elemento di struttura, funzionale e necessario ad un convivere civile, e quelle che sono superfetazioni. C’è una sola cosa che può aiutarci a operare questa distinzione, e non sono né i sentimenti né le emozioni: è la cultura. Non parlo naturalmente di quella pappina precotta e incartata che si spaccia alla luce del sole nei festival della mente, nelle mostre-evento, in televisione o in libreria, ma della cultura vera, quella per cui ti dai da fare a cercare gli ingredienti e ti ingegni poi a cucinarli, e ne trai alla fine vero nutrimento. Una cultura che non può essere che storica (nel senso di storicamente fondata): e questa è una merce che invece tira pochissimo, non ha quasi più quotazione. Guarda caso, uno dei saggi di maggior successo attualmente sugli scaffali si intitola Abbiamo ancora bisogno della storia? (e la domanda se la pone seriamente, perché la storia è accusata di riportare tutto all’Europa e al suo passato). Eccome se ne abbiamo bisogno, di guardare indietro: non per evocare con nostalgia il mondo che abbiamo perduto, ma per capire com’è che siamo arrivati sin qui, e come potremmo proseguire.

Invece sento ripetere il ritornello che dobbiamo guardare avanti senza alcuna paura del cambiamento, delle novità. Questo si (altro paradosso) che è tipicamente moderno: pensare che la novità costituisca un valore di per sé. Perché non dovremmo averne paura? Perché, dice Maffesoli, quello che non riusciamo a capire, che ci spaventa, è al contrario una opportunità. E quando ti dicono così, devi aspettarti la fregatura. I Greci, quando mandavano i loro ragazzi a morire in battaglia, dicevano che muore giovane chi è caro agli dei. Il modo migliore per recuperare l’essenza degli esseri umani è a quanto pare quello di sacrificarne un po’ (e infatti, diversi popoli hanno preso la cosa alla lettera). È una opportunità per chi? Per chi verrà dopo di noi? O per chi quelle offerte dal moderno le ha già sfruttate tutte? Ma coloro che hanno appena raggiunto un minimo di sicurezza oggi, o quelli che di opportunità non ne hanno avuta ancora alcuna? Che vuoi che siano i disagi – dice Maffesoli –, le paure, ma anche le sofferenze, le distruzioni, che attendono individui “intellettualmente pigri, incapaci di cogliere il pensiero nel suo flusso vitale, adagiati nell’ordine e nell’inerzia dei buoni sentimenti”, di fronte all’emergere dell’essenziale, del profondo? Non dobbiamo averne paura.

Non ho certo paura per me. Mal che vada, la mia parte l’ho già vissuta. Ce l’ho per chi rimane, per le generazioni dei miei figli e dei miei nipoti: vivranno un universo di riti, giochi e immaginari? Ne dubito. Temo che il reincanto di cui Maffesoli si compiace sarà solo quello prodotto dagli stupefacenti, naturali, chimici e, sempre di più, mediatici. Che l’affrancamento dalla tirannia del razionale conduca solo alla schiavitù del virtuale. Ma temo soprattutto per coloro che, sfuggendo all’alienazione di un mondo creato da altri, in quello disorganizzato che si fonda sul desiderio dell’effimero difficilmente potranno fluire e circolare, erranti sulla scia casuale delle loro pulsioni. Anche i disabili?

Quanto alla “comunità”, non ho problemi. Solo, la intendo nell’accezione olivettiana (il moderno ha saputo creare anche modelli positivi di comunità, e il fatto che siano risultati perdenti non significa che non debbano essere riproposti), e non in quella di Facebook o di Tarik Ramadan. E neppure nella confusa e ambigua formulazione che passa sotto il nome di “comunitarismo”. Ritengo che di ogni termine vadano tenute ben presenti tutte le valenze, quelle potenziali e quelle storicamente già sperimentate, e ricordo che il modello “comunitario” era un chiodo fisso di Walter Darrè, il ministro nazista dell’agricoltura e del Sangue e suolo. Se il sogno è poi quello di un ritorno al modello di comunità pre-moderno, grazie mille, lo lascio ad altri. In qualche modo gli ultimi scorci di quella comunità li ho conosciuti. Sono cresciuto in un paesino nel quale sessant’anni fa non era ancora arrivata la rivoluzione tecnologica, dove si arava col bue, si prendeva l’acqua dai pozzi, non c’erano telefoni o televisori, e alla cascina che mio nonno aveva a mezzadria nemmeno l’elettricità, e dove i rapporti di proprietà e quelli sociali erano né più né meno quelli medioevali, con l’ottanta per cento dei terreni nelle mani di tre proprietari. Di quell’epoca mi è rimasto certamente un ricordo bellissimo, una nostalgia struggente: ma dell’epoca appunto, che era quella della mia infanzia, non di quel mondo. In esso non c’era soltanto una dignitosa povertà, come quella in cui viveva la mia famiglia: il confine con la miseria era labilissimo, bastava un nonnulla per finirci dentro, e per quanto rassegnati ad un certo fatalismo si viveva costantemente in ansia per un domani legato alla peronospera o alla grandine, senza alcuno scudo. La solidarietà tra poveri era molto più rara di quanto ci si racconti, e anche quando c’era non era comunque sufficiente a garantire nessuno. Era un mondo molto più simile a quello descritto dal Verga o da Gorkij che a quello tolstoiano: in esso l’ingiustizia sociale era sistema, e non poteva creare che timore e servilismo nei confronti dei potenti e cattiveria nei confronti dei più deboli e degli indifesi. Sgombriamo per favore il campo dalle favole. Kant parla di legno storto con tono bonario, ma non scherza affatto: per quanto perso nei cieli della filosofia, sapeva evidentemente guardarsi attorno meglio di Maffesoli.

Ripeto: l’anelito ad una ricostituzione della “comunità”, in opposizione all’odierna società, non può tranquillamente sacrificare tutti coloro che bene o male qualche garanzia di sopravvivenza, o qualche speranza in una esistenza più dignitosa, in questa società pur arida e irrazionale l’hanno conquistata. Certo, sono molti di più quelli che questa garanzia non ce l’hanno ancora, e non è affatto sicuro che l’avranno mai. Ma è sicuro invece che non ne avranno comunque in una comunità ludica e giocosa, dedita al flash mob, allo smatphone, al rave party e all’arte di strada. Siamo alle solite: le grandi ideologie sono morte, il pensiero deideologizzato le ha sepolte, ma sotto le macerie sono destinati a rimanere sempre le “persone”, gli individui. È un hegelismo di ritorno: la storia conferma la sua astuzia.

L’utopia nelle crepe

È ora di tornare finalmente là da dove siamo partiti, alla nostra piccola utopia, e dunque al perché la definizione di Maffesoli mi abbia tanto irritato. Parlavo di un rapporto che senza tante virgolette può essere definito di amicizia. In fondo non mi interessa nemmeno sapere se l’amicizia esiste al di là di tutte le determinazioni storiche: sono convinto di si, perché l’ho sperimentata e credo in assoluto che possa esistere. Certamente poi ne dò la mia interpretazione, la vivo alla mia maniera.

Ne abbiamo già discusso. Credo in una forte componente “chimica” dei sentimenti, ma questo non significa ridurli al determinismo biologico. La componente chimica può valere, anzi, vale senz’altro per emozioni poco ragionevoli come l’amore, ma l’amicizia suppone un alto livello di affinità intellettuale, che non si misura sulla consonanza degli interessi o sulla qualità e quantità delle conoscenze, ma sulla disposizione di fondo nei confronti della vita (anche questa, comunque, una certo tasso di determinazione biologica ce l’ha). Voglio dire che non amo tutti gli umani solo perché sono umani. Sarebbe troppo, e sarebbe poco serio. Invece li rispetto e li considero in linea di principio tutti potenziali destinatari della mia amicizia o della mia stima: quanto poi a concederle, è tutt’altro discorso. Subentra la “sensazione a pelle”, che non dipende da un “sesto senso” ormonale, ma dal cogliere nell’altro un atteggiamento nei confronti della vita compatibile col mio.

Diffido di chi è costantemente mosso dal risentimento, dal vittimismo, di chi si ritiene sempre in arretrato nella riscossione della sua parte. E questo, se ti guardi un po’ attorno, restringe parecchio il campo. Dubito che chi vive in credito perenne possa investire qualcosa di sé in un sentimento disinteressato. Ho persino una sgradevole impressione di codardia, anche fisica.

Diffido peraltro allo stesso modo di chi predica un amore universale e incondizionato, perché ho constatato che, a dispetto del coraggio e delle buone intenzioni, difficilmente riesce a praticare quello quotidiano, concreto. Ama un’astratta idea di uomo, alla quale, per quanto ampia e aperta, non corrispondono mai le persone singole: e corre il rischio, normale nei grandi utopisti, di voler conformare queste ultime a quell’idea.

In sostanza, penso che l’amicizia nasca da un bisogno emozionale, istintuale, ma sia governata poi dalla ragionevolezza. Chi non sa applicare quest’ultima nei rapporti non può conoscerne la vera essenza. Questo ne fa un “valore”, perché mentre ci gratifica ci educa all’incontro e al confronto con gli altri, ci abitua ad una dolce disciplina dei sentimenti.

Bene, dirai: ma questo dove ci porta? Porta al fatto che Maffesoli considera le reti di “amicizie” che si stanno costruendo sui social come una ennesima manifestazione/declinazione “culturale” di quel valore. Non sembra pensare che si tratti di qualcosa di totalmente altro: ritiene sia solo qualcosa di diverso. E qui, capisci, proprio non ci siamo. È la stessa logica in base alla quale si può dire che il centro commerciale è la nuova agorà. Ora, i francesi sono specialisti in queste operazioni di “normalizzazione” della novità: per dire, hanno fatto una rivoluzione devastante, che ha spazzato via tutto un vecchio mondo, e usavano termini come tribuno del popolo e console per definire le nuove istituzioni. Maffesoli dice giustamente che anche allora c’era chi paventava l’irruzione dei barbari, l’apocalisse, e poi di mondo ne è nato un altro. Ne è nato uno anche dopo la seconda guerra mondiale, e immagino che anch’esso sia stato preceduto da molti timori, senz’altro da quello degli ebrei che il mondo nuovo non hanno poi potuto vederlo. Per chi questi timori li aveva l’apocalisse c’è stata davvero.

Ecco: mi identifico anche in costoro. Mi frega assai di sapere che le cose sono sempre andate così, e che se non fossero andate così non ci sarebbe la storia, e che persino in natura tutte le cose nascono dalla morte delle precedenti. Penso che tanto in natura come nella storia non sia difficile leggere alcuni elementi essenziali di continuità, e che in mezzo all’infinità di cose che vorrei vedere cambiare alcune le vorrei invece salvaguardare e trasmettere così come le conosco e le ho ricevute da chi è venuto prima: e anche quelle che non mi piacciono le vorrei vedere cambiare in un certo modo. Per farla breve, non condivido il rassegnato ottimismo di Maffesoli, che pensa che comunque il cambiamento sarà quello, e tanto vale accettarlo e dire che va bene così, e attrezzarci semmai a governarlo. No. Il cambiamento senz’altro ci sarà, è anzi già in stato avanzato, anche se credo e spero che non arriverò a vederne gli esiti più clamorosi: ma quello che vedo adesso mi piace sempre meno.

Nemmeno mi va di inchinarmi all’ineluttabilità della storia. Potrei farlo se non pensassi che il mondo ha molto da perdere, nell’accettare questo cambiamento. Se mi sentissi schiacciato, costretto, vincolato, schiavo del materialismo e della filosofia dell’utile. Non mi sento nulla di tutto questo. Magari non mi piace tutto quel che ho attorno, ma se guardo indietro non posso non meravigliarmi per quanto gli uomini sono riusciti a fare, per quanto mi hanno concesso di poter capire e imparare oggi. Ripeto, non ho nemmeno bisogno di tornare indietro molto, mi bastano gli anni della mia vita per poter ricordare com’era mezzo secolo fa il mondo e quante diverse opportunità questa società mi ha offerto. Vorrei che fosse altrettanto per gli altri. Non è quindi vero che rimanga nulla su cui costruire un’utopia per il futuro. Maffesoli confonde la difesa di un mondo senz’altro “virtuale”, ma che è comunque proiezione di una speranza nelle potenzialità positive dagli uomini, con la resa ad una virtualità totalmente artificiosa, falsa, che degli uomini vellica invece tutto il peggio: e quando dice che queste sono tutte “utopie” spalmate sul presente dice una stupidaggine.

Credo che noi si sia in fondo testimoni dell’esistenza e della possibilità di sopravvivenza di qualcosa di diverso rispetto a quanto offre oggi il megastore. Più o meno consciamente speriamo nella esemplarità, dopo che abbiamo imparato a diffidare del proselitismo predicatorio, e anche quando cerchiamo di convincerci che stiamo guardando solo a noi stessi sappiamo perfettamente che non è così. Una testimonianza “esemplare” ha senso solo se proiettata nel futuro, sulle generazioni successive: e conserva il suo valore solo fino a quando riesce a sottrarsi al gioco, a mantenere una sua freschezza artigianale. Se viene risucchiata e confusa nel novero delle offerte usa e getta, lo voglia o meno diventa come tutto il resto.

È fatta. Non confidavo più di arrivare in fondo, e preferisco non immaginare cosa ne pensavi tu. Ho speso cinquanta pagine per cose che si potevano dire in meno di quattro, e non sono affatto sicuro di avere adesso le idee molto più chiare: ma almeno ci ho provato. Spero solo che il tour de force cui ti ho sottoposto non abbia incrinato la nostra utopia (ma ridiamo valore alle parole: la nostra amicizia). Grazie per questa, e per la tua pazienza.

A presto, Paolo

Bibliografia

P.S. A proposito di sintesi. L’ultimo libro di Maffesoli tradotto in italiano è intitolato “Le virtù del silenzio”. Ti trascrivo la nota editoriale perché è un capolavoro. «Nei momenti di difficoltà la realtà diviene sfuggente e il coro dei ben pensanti prova a districare la complessità del sociale attraverso discorsi astratti e razionali. Michel Maffesoli, invece, invita il lettore a riconciliarsi con il silenzio, abbandonandosi al mistero. Le parole non sono in grado di cogliere il reale, perché esso è fatto della potenza dei sogni, di fantasmagorie, di fantasie. Il reale è sfuggente, ineffabile e giunge a conoscibilità solamente quando prende corpo negli oggetti del quotidiano, nel “divino sociale”. Attraverso la sua analisi erudita, l’autore tenta di comprendere il ritorno del “sacrale”, ovvero del bisogno collettivo di una comunione emozionale, della condivisione e della scomparsa nell’Altro: l’altro della comunità, del cosmo, della deità». (la sottolineatura è mia)

Per uno che negli ultimi quindici anni ha pubblicato quindici libri (mi limito a quelli usciti in Italia) il silenzio mi sembra una bella sfida!

Se poi volessi toccare con mano (non sono consigli di lettura: buona parte di questi libri non li ho letti, un terzo li ho mollati dopo venti pagine), ecco alcune opere di Michel Maffesoli:

Il tempo delle tribù (1988) – Guerini 2004
Il mistero della congiunzione (1999) – SEAM 2000
L’elogio della ragione sensibile (1999) – SEAM 2000
La contemplazione del mondo (1999) – Costa &Nolan 1996
Del nomadismo (2000) – Franco Angeli 2000
L’istante eterno (2003) – Sossella 2003
La parte del diavolo (2003) – Sossella 2003
Note sulla postmodernità (2005) – Lupetti 2005
Reliance (2007) – Mimesis 2007
Fenomenologia dell’immaginario (2009) – Armando 2009
Icone d’oggi (2009) – Sellerio 2009
La trasfigurazione del politico (2009) – Bevivinum 2012
Apocalisse (2010) – Ipermedium 2010
Matrimonium. Breve trattato di Ecosofia (2012) – Bevivinum 2012
Le virtù del silenzio (2016) – Mimesis 2016

Appendici

Rivedendo la prima versione di questa torrenziale missiva mi sono reso conto di aver creato un effetto collo di bottiglia, per cui il mio ragionamento esce a fiotti, si disperde in tanti rivoli e fluisce con difficolta. Nel tentativo di renderlo un po’ meno farraginoso ho allora potato le pagine di un sacco di ripetizioni e di quelle parti che più vistosamente portavano a spasso il discorso. Non a sufficienza, come avrai constatato: ma non ho avuto cuore per un ulteriore passaggio.

Anzi, proprio per la coazione al riciclo che arriva dai miei geni campagnoli ho conservato una parte dei tralci potati, e un paio te li regalo: superflui o addirittura di ostacolo per la vita del tronco, possono risultare utili, sia pure per una brevissima fiammata, in una lettura autonoma.

Itaca ti sia sempre nella mente
La tua sorte ti segua a quell’approdo…
Ma non precipitare il tuo cammino
Meglio che duri anni, che tu vecchio
Approdi finalmente all’isoletta…
Itaca t’ha donato il più bel viaggio
Senza di lei non ti mettevi in via.
Costantino Kavafis, Itaca

Anche se bella, l’isola è deserta
E le impronte stampate sulle rive
Sono tutte dirette verso il mare.
Da qui si può fuggire solo via
E immergersi per sempre nell’abisso
Wislawa Szymborska. Utopia

Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di nuovo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Dalla barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Giacomo Leopardi, La Ginestra, vv 72-77

 

1a. Ragione e razionalità

Nel testo ho ripetuto sino alla noia cosa non funziona, a mio giudizio, nel castello delle accuse mosse alla ragione. Penso sia però il caso di chiarire, a rischio di scadere nell’ovvio, cosa intendo quando parlo di razionalità. Non essendo né un filosofo né un cognitivista andrò molto a spanne, tenendomi a quel poco che dovrebbe essere evidente a tutti.

Per come la vedo, la ragione è solo una facoltà di esercizio del pensiero universalmente condivisa dagli umani. Chi più, chi meno, ragioniamo tutti (anche se non si direbbe). Questa facoltà è direttamente connessa allo sviluppo della capacità linguistica. A differenza di tutti gli altri animali, che comunicano tra loro ma si trasmettono solo informazioni elementari, gli umani sono in grado di comporre, a partire da un numero limitato di suoni (o di segnali visivi), un’infinità di discorsi significativi, che non riguardano solo la realtà oggettiva, ma si allargano a quella presunta, a quella possibile, a quella immaginata. Sono in grado di scambiarsi informazioni non solo sugli oggetti, ma sui simboli, e non solo informazioni, ma opinioni. Proprio il prevalere della funzione simbolica rispetto a quella prettamente denotativa/informativa è ciò che noi chiamiamo storia.

Prevengo l’obiezione: questa è una schematizzazione molto parziale. É verosimile ipotizzare, infatti, una sorta di relativismo linguistico. Gli uomini non entrano in rapporto ovunque con gli stessi aspetti della natura, e quindi sviluppano modalità percettive e strutture linguistiche e lessicali differenti: con la conseguenza, visto che il linguaggio influenza il modello cognitivo, di maturare visioni del mondo le più svariate. Voglio dire, in parole semplici, che un pigmeo della foresta, un beduino e un esquimese per rapportarsi agli ambienti in cui vivono sono forzati ad utilizzare in percentuale diversa i vari sensi: quindi non solo riceveranno input diversi, ma li riceveranno attraverso canali differenti, e li rielaboreranno in sistemi simbolici dissimili. Il che, al fine di definire uno standard comune di razionalità, non è un problema indifferente. Comunque, senza ricadere nella disputa tra Platone e Gorgia, un elemento comune c’è, ed è proprio quello che a me interessa.

La funzione razionale, al di là di ciò che produce, viaggia sempre in due direzioni: da un lato raccoglie, cataloga, elabora e immagazzina nella mente le informazioni contenute o rappresentate dai suoni o dai segni in ingresso (se si tratta di sensazioni olfattive o tattili le traduce), dall’altro mette in ordine questi suoni e questi segni (queste informazioni) in uscita, affinché la loro successione esprima un significato. Compie in entrambi i momenti un’operazione “aritmetica”, nella quale il risultato è superiore alla semplice somma (positiva o negativa) degli addendi, in quanto dipende dalla collocazione, dal posizionamento degli stessi. Lo stesso suono o lo stesso odore, a seconda del momento e della situazione, possono indurre curiosità, piacere o terrore. Allo stesso modo, una parola, un gesto o un’espressione del viso possono comunicare in diversi contesti messaggi opposti. In entrambi i casi viene eseguita una comparazione con la somma delle precedenti esperienze e una valutazione dei possibili atteggiamenti da assumere. Nel secondo, quando l’interlocutore è un essere umano, questa operazione è già di grado complesso, perché suppone la sua capacità di decodificare i segnali, e non di reagire semplicemente al messaggio sensoriale. Suppone che l’altro sia in grado di farsi un’opinione, ovvero di fare a sua volta i suoi conti. Insisto su tutto questo per ricordare che la ragione nasce “calcolante”, è quella la sua natura, e non le può essere imputata: ma anche che il gioco che noi chiamiamo cultura si svolge proprio entro quel margine di valore che una particolare collocazione aggiunge alle parole (o ai segni).

Il meccanismo vale per ogni tipo di conoscenza. La differenza la fanno i materiali e i contesti rispetto ai quali si attiva il ragionamento. Le conoscenze scientifiche riguardano oggetti reali, o almeno, partono da quelli: quelle che potremmo chiamare sociali o relazionali riguardano istituzioni, idee, convenzioni, ovvero cose totalmente create da noi, che non sono date in natura, ma esistono solo perché noi le pensiamo esistenti.

È evidente che nei due diversi ambiti la ragione non può muoversi allo stesso modo. Infatti, a seconda del campo d’azione si esprimerà come razionalità quando informa le scelte gnoseologiche, le modalità del conoscere, e come ragionevolezza quando si applica a quelle etiche, alle modalità dell’agire. Si potrebbe dire, con molta approssimazione, che nel primo caso prevale l’uso quantitativo della ragione, nel secondo quello qualitativo.

Ciò non significa che la razionalità sia oggettiva e la ragionevolezza soggettiva. Significa soltanto che l’una ci organizza delle conoscenze in un sistema coerente, creando delle inferenze logiche, l’altra ci suggerisce come spenderle nella maniera più efficace. Come kantiano ortodosso non penso affatto che la razionalità abbia la presunzione di cogliere il mondo nella sua essenza (né tantomeno l’io e Dio); ha piuttosto la coscienza di interpretarlo secondo schemi (forme, categorie, ecc…) propri della mente del soggetto. Questi schemi non sono arbitrari, perché comuni a tutti gli uomini, ma possono essere variamente combinati: dalle diverse combinazioni nascono come abbiamo visto differenti culture, spirituali e materiali. È inevitabile che quando differenti culture vengono a contatto, o viene intrapreso un progetto di uniformazione all’interno di una di esse (cosa che si è verificata da sempre nella storia, ma in maniera particolare e particolarmente intensa nella seconda metà dell’ultimo millennio), si proceda a delle esclusioni: un sapere unificato non può che partire dal rifiuto dei molteplici saperi tradizionali precedenti, dalla loro cancellazione, a volte anche violenta (si pensi a ciò che è accaduto nel Seicento, proprio mentre la mentalità scientifica stava esordendo: cancellazione della cultura popolare, caccia alle streghe, cristianizzazione dei popoli americani, ecc…). Questo parrebbe avvalorare il quadro dipinto dai post-modernisti: ma proprio perché la ragione è in grado di riflettere su se stessa e sui propri limiti, gli schemi razionali col tempo anziché irrigidirsi acquistano elasticità. Non sono gabbie di contenzione del pensiero, ma lo scheletro che lo sorregge, mentre nervi e muscoli sono dati dalla volontà e dalla capacità empatica e immaginativa.

Tutto sommato la faccenda sino ad ora ha funzionato: malattie gravissime sono state debellate, mandiamo sonde spaziali su Marte (lasciamo stare che poi precipitino: comunque ci arrivano), scrivo queste considerazioni su un computer anziché inciderle su una tavoletta d’argilla o una lastra di pietra, ecc… Sono dati incontestabili. Che poi queste cose non siano sufficienti a riempire di senso la vita, è un altro discorso, questo sì legato ad una presunzione: a quella che un senso debba esserci. Ma tale presunzione, ripeto, non è affatto intrinseca alla razionalità. Conoscere il “come” le cose accadono non implica affatto capire il “perché”, e neppure il volerlo capire. Quando subentra questa volontà, per una indebita enfatizzazione del principio di causalità (questo Kant lo ha detto chiaramente), si finisce nel campo della fede e delle “Verità” definitive, e si parla di un’altra cosa. Certo, esistono anche forme di fideismo indotte dalla ragione, ma allo stesso modo in cui esistono quelle religiose, frutto dalle stesse debolezze umane (fondamentalmente, la paura e la superstizione).

Al contrario, la razionalità di cui io parlo non pretende di giungere alla Verità. Semplicemente perché già la conosce, e ne è addirittura figlia, in quanto generata dalla consapevolezza della morte (ma si potrebbe anche invertire il rapporto: razionalità e consapevolezza sono come l’uovo e la gallina). Semmai dalla Verità riparte, per ricostruire non dico un senso, ma almeno un mondo a misura umana (per chi avesse qualche dubbio sulla presa d’atto della reale condizione umana è sufficiente rileggere Foscolo o Leopardi, senza arrancare dietro Heidegger). Cerca di farlo attraverso la conoscenza scientifica, perché malgrado già si conosca il finale siamo giustamente curiosi della trama, e solo in questo significato possiamo parlare di una approssimazione alla verità: ma lo fa anche perché questa conoscenza ha delle ricadute pratiche, qui e ora, che almeno alleviano lo sgomento creato da quella consapevolezza. Ne ha pure di negative, certamente, e di contradditorie: ad esempio la creazione di strumenti di morte sempre più sofisticati: ma questo dipende dalla razionalità o da un’attitudine pre-razionale, e non solo umana?

La razionalità non è comunque tout court la scienza: è lo strumento che ne permette l’esistenza e lo sviluppo. Al più si può dire che dovrebbe anche esercitare su quest’ultima un controllo efficace, e che non sempre lo fa: ma questo non accade per una congenita disposizione maligna del razionalismo. Il problema è piuttosto che ogni tanto (molto spesso) anche la ragione si prende una vacanza.

Questa coscienza razionale, che da un lato produce la conoscenza scientifica, ma dall’altro la legge alla luce della finitezza umana, sfocia necessariamente nel relativismo? Anche in questo caso bisogna intenderci sull’uso dei termini: e visto che ormai l’accezione comune di “relativismo” è quella negativa, quella per cui una cosa vale l’altra e non esiste una scala di valori, mi sembra di poter affermare che una coscienza razionale non produce nulla di tutto ciò. Nell’ambito scientifico si deve parlare piuttosto di un “razionalismo critico”: a differenza del criticismo kantiano, che sottopone ad esame gli strumenti e i meccanismi della ragione, questo concerne invece i risultati, tanto le teorie quanto le singole nuove acquisizioni scientifiche, e per esso nessuna conoscenza è mai definitiva. Ciò non significa che una conoscenza valga l’altra: significa semplicemente che ciò che oggi funziona, produce risultati, consente di ipotizzare convincenti spiegazioni dei fenomeni, ha comunque un valore provvisorio, può e anzi deve essere continuamente verificato (Popper dice “falsificato”) e, appena possibile, superato. Il relativismo non c’entra un accidente, e la deriva relativistica, che in effetti c’è, ed è anche diffusa, nasce proprio da una interpretazione “emozionale”, tutt’altro che razionale.

 

1b. Ragione e ragionevolezza

Il che ci porta alle scelte etiche. Se applicati fuori dal campo strettamente scientifico, la critica kantiana della ragione pura e il razionalismo critico conducono inevitabilmente al nichilismo? Sarei tentato di chiuderla subito affermando che si tratta di un falso problema: puoi usare un rasoio per farti la barba o per tagliare la gola a qualcuno, e il problema evidentemente non sta nel rasoio, che non ha una sua vocazione maligna a recidere carotidi. Ma qui la materia è ancora più delicata della pelle delle guance, il rasoio non può essere sostituito dall’accetta. Nell’ambito socio-relazionale la ragione deve adattarsi a domini dello spirito che non sono matematizzabili. Non ha a che fare con una realtà oggettiva e tendenzialmente immutabile, ma con le idee che popolano lo spazio di libertà che l’uomo si è conquistato: con qualcosa cioè di volatile, di incerto, di sfuggente. Deve dunque esprimersi come ragionevolezza. La ragionevolezza è la capacità di mediare tra “ragioni” diverse, o meglio, diversamente usate, di evitare o di attutire lo scontro e di trovare i punti in comune dai quali partire per una composizione. Non è tuttavia la ricerca di una mediazione a ogni costo: la ragionevolezza non prescinde dalla razionalità, ne è solo la versione elasticizzata: perché i punti di confronto possano essere individuati è necessario consentire su una base minima. Se questa base non c’è, la ragione calcolante non può che prenderne atto e valutare le opzioni praticabili col minor danno. Farsi cioè machiavellica razionalità. A livello di politica internazionale, ad esempio, posso applicare la ragionevolezza nei rapporti tra le aree in via di sviluppo e quelle già sviluppate, ma con l’ISIS mi conviene fare bene i miei conti; a livello nazionale, funziona tra le istanze espresse da forze politiche diverse, ma non nei confronti di un populismo mediatico che non è più governabile; nei rapporti interindividuali, tra individui che professino magari differenti concezioni della vita, ma della vita abbiano in comune il rispetto.

Nella sfera etico-relazionale non bastano dunque le buone intenzioni, così come non è sufficiente il calcolo dei costi e dei ricavi, o della linea più breve tra due punti. La ragionevolezza è una razionalità che calza suole di gomma, per muoversi con la sensibilità e la duttilità richieste dalla materia in gioco: diversamente può fare disastri. Non bisogna però confondere i guai generati da una sua applicazione non opportuna con quelli originati da un guasto del meccanismo. Per i post-moderni tutto l’impianto del sistema capitalistico, modi di produzione, imprescindibilità dal profitto, incentivazione gonfiata dei consumi, deriva finanziaria, offre l’esempio di dove va a parare la razionalità “calcolante” quando non è temperata dalla “sensibilità” (e questa è la versione soft: per alcuni l’esito invece è comunque quello). In realtà non è nemmeno così. Qui la razionalità non c’entra affatto. Se il valore “virtuale” del capitale finanziario circolante è centinaia di volte superiore a quello della produzione effettiva, e quindi non ha più alcun rapporto con ciò per cui era nato e con la realtà di merci, impianti, scambi materiali, ecc…, ciò è frutto di una deriva irrazionale, non l’esito scontato della razionalità. Allo stesso modo, per stare a cose a noi più prossime, quella che ipotizza fantascientifici tunnel da un versante all’altro dell’Appennino per muovere merci che nemmeno ci sono non è la ragione economica, ma una spudorata volontà speculativa. Non rientra nella “razionalizzazione” dell’economia, ma al contrario, è il prodotto di una deregulation incontrollata.

Per applicazione non opportuna si deve intendere invece il fare la cosa giusta nel momento, nella situazione o nel modo sbagliati. Che può avere conseguenze egualmente devastanti, ma non dipende da un automatismo negativo della ragione. Rientra nel margine di libertà guadagnato agli uomini dalla cultura, quindi può accadere o meno, è frutto di una scelta. Scavare un pozzo nel deserto per consentire un minimo di agricoltura a popolazioni stremate, come ha fatto qualche anno fa un progetto di cooperazione italiano, di per sé è un’ottima cosa. Se però la trivellazione va a intercettare l’unica falda acquifera che alimenta una decina di pozzi nel raggio di cento chilometri, diventa una sciagura. In questo caso non era né irrazionale né speculativa l’intenzione, ma si è dimostrata assurda la scelta di tradurla in realtà in quel luogo.

Ciò che volevo dire con questi due esempi è che il problema non sta mai in un eccesso di razionalità, ma piuttosto nella sua negazione (il tunnel inutile) o nel suo incompleto esercizio. Non si può certo dire che la “ragione sensibile” difettasse nel progetto di cooperazione, ma non è poi stata supportata da un uso adeguato di quella “calcolante”.

Insomma: se nel mondo scientifico esistono delle leggi che descrivono o spiegano i fenomeni naturali, per permetterci di usarli o di difenderci, in quello non scientifico le leggi non spiegano i fenomeni, ma cercano di favorirli o di arginarli. Nascono da esigenze di volta in volta diverse, hanno quindi una validità relativa, temporanea. Non avendo a che fare con un mondo oggettivo, la ragionevolezza diventa impegno soggettivo. Diventa responsabilità individuale. Obbligo di “fare uso pubblico della propria ragione”, come dice Kant.

E non è nemmeno vero che una impostazione razionale conduca necessariamente ad una considerazione egoistica dei rapporti. Per un Hobbes che ritiene che l’uomo lasciato in balìa di se stesso non vada oltre il calcolo del proprio interesse personale, persino uno poco tenero con la ragione come Hume (“La ragione è, e deve solo essere, schiava delle passioni, e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di obbedire e di servire ad esse”), per il quale la vita senza l’ordine sociale e una rigida gerarchia era “solitaria, povera, sgradevole, brutale e breve”, ammette che gli uomini siano anche capaci di gesti e sentimenti che non possono essere spiegati con alcun tipo vantaggio perso¬nale. Non a caso è un maestro di Kant.

Hume non accenna alla ragionevolezza, anzi, sembra escluderne ogni partecipazione al sentimento morale: ma alla fin fine è di questo che parla. Attribuisce alla “simpatia” i nostri comportamenti altruistici, e la simpatia è dettata da una passione, peraltro egoistica. Ma a differenza di Hobbes ritiene che in ciascun individuo agisca una funzione di calcolo che opera a un livello superiore rispetto agli appetiti animaleschi, che tiene conto del contagio del piacere e del dolore (se vedo una persona che soffre, soffro anch’io). Non è anche questo fare “uso pubblico” della ragione? A Kant sarà sufficiente togliere il condizionale (se…, devi) per fondare un’etica assoluta dettata dalla ragione.

Quando si parla di ragionevolezza (a differenza che della razionalità) si può dare l’impressione di cercare rifugio in un termine tanto vago da comprendere tutto, ovvero nulla. Invece il termine ha un significato preciso, talmente preciso da essere assunto come principio nella giurisprudenza (addirittura nella nostra costituzione, riprendendo dal diritto anglosassone). Indica la capacità dell’agire con equilibrio, col famoso buon senso. In altre parole, di adeguare ai fini che si perseguono le azioni che si compiono, tenendo conto che tali azioni in qualche modo vanno sempre a toccare anche gli altri. Questo è l’unico parametro possibile nei nostri comportamenti: agire in maniera tale che il conseguimento dei nostri fini non arrechi danno ad altri (uso volutamente danno, inteso come qualcosa che è in qualche modo oggettivamente valutabile, e non offesa, che è una variabile soggettiva, dipendente dall’umore, dal carattere, dalla cultura altrui).

Il confine tra la razionalità e la ragionevolezza, se pure esiste, è naturalmente molto sfumato. Non è dettato dal prevalere dell’intenzionalità sulla necessità, e nemmeno separa due sfere d’azione totalmente distinte. Guidare mantenendo la propria destra, anche se non ha a che vedere con una qualche realtà o necessità naturale, “oggettiva”, ma è frutto di una convenzione (tanto che in una parte del mondo vige quella opposta), attiene alla razionalità: ha uno scopo eminentemente pratico, serve a far scorrere il traffico, a evitare ingorghi e incidenti. Guidare con attenzione e prudenza attiene invece alla ragionevolezza. Si sceglie questo comportamento sulla base di valutazioni razionali, ma anche e soprattutto per una sensibilità nei confronti dell’incolumità altrui, oltre che per propria. A dispetto del suo prevalente significato “strumentale”, quello della ragionevolezza non è infatti un valore ‘freddo’. È l’ingrediente fondamentale di una convivenza civile, ma sta anche alla base di rapporti che vadano ben al di là della reciproca tolleranza, che si fondino sul rispetto, che possano arrivare alla stima. Di cose, per intenderci, come l’amicizia.

1c. Miti o valori?

E qui devo ulteriormente chiarire, sempre che mi riesca. Nella fretta di liberarsi delle scorie del passato, i postmoderni tendono ad accomunare le idealità squisitamente “storiche” (l’uguaglianza, ad esempio, o l’affermazione della individualità – e naturalmente i miti loro sottesi, il primato della ragione, il progresso, lo sviluppo) – che sono un prodotto “culturale”, in quanto legate a determinate epoche e civiltà (sostanzialmente, a quella occidentale moderna), e che, a loro giudizio, hanno dato luogo alle ideologie, con quei valori che hanno invece una radice “naturale”, e che quindi civiltà e ed epoche le attraversano e le superano senza problemi. Sentimenti appunto, come l’amicizia, o anche virtù come il coraggio: nati da impulsi egoistici alla sopravvivenza o alla continuità della specie, e solo successivamente “coltivati” in funzione sociale. In questo modo buttano non solo l’acqua e il bambino, ma anche la bacinella. I valori di cui parlo non sono infatti il prodotto di specifiche culture, aristocratiche o borghesi, nomadi o stanziali, ma sono addirittura presenti, almeno come attitudini, nelle società animali. Di culturale ci sono poi gli abiti dei quali sono stati nelle diverse epoche rivestiti, ma c’è soprattutto – e questo è l’importante – il fatto che i nostri sentimenti, a differenza delle emozioni, vedono interagire il fattore ormonale della risposta istintiva, o emotiva, con quello “razionale”, inteso appunto come ragionevolezza. Voglio dire che i valori non li ereditiamo col patrimonio genetico in maniera acritica, e neppure sono fondati sulla anarchia dei sentimenti, ma passano al vaglio di un giudizio di ragionevolezza e in base ad esso sono riconosciuti come “giusti”, e declinati di conseguenza. Tradotto in soldoni: così come il coraggio non può essere misurato con l’incoscienza (se mi tuffo dalla finestra dell’albergo direttamente nella piscina non sono coraggioso, sono un idiota), ma è la capacità di fare scelte, magari rischiose, in vista di un bene non prettamente egoistico (sono coraggioso se mi butto tra le onde per salvare uno che sta annegando), allo stesso modo l’amicizia si misura con la capacità di mantenere il rapporto su un binario di ragionevole franchezza e di desiderio del vero bene dell’altro. Cosa che appunto impone delle scelte, anch’esse a volte dolorose. Amico non è chi mi asseconda sempre, ma chi sa mettermi di fronte ai miei sbagli senza rinfacciarmeli, col solo intento di correggerli. E questo lo può fare solo ragionando, e inducendomi a ragionare.

Dunque, anche la correlazione ipotizzata dai postmoderni tra razionalismo e nichilismo non regge. Non è affatto vero che la razionalizzazione spazzi via tutti i valori. In quanto ragionevolezza, invece, crea le condizioni perché questi diventino, o si conservino, veramente tali.

L’approssimazione concettuale (e, paradossalmente, linguistica) dei post-modernisti non è cosa da poco: confonde le carte e cambia davvero tutto. Un conto è venirci a dire che è tramontato il mito della giustizia sociale, o quello del progresso infinito: altro è cercare di convincerci che anche l’amicizia, così come la conosciamo, non è che un prodotto specifico della modernità occidentale, in scadenza come tutti gli altri. L’amicizia, con tutto ciò che comporta in termini di lealtà, fedeltà e reciproco rispetto, non l’abbiamo inventata noi moderni: esiste da quando esiste una coscienza di sé e del mondo, come ci raccontano le letterature degli ultimi tremila anni. Achille e Patroclo, Oreste e Pilade, oppure Gilgamesh ed Enkidu, o Davide e Gionata, se vogliamo spaziare anche oltre la cultura occidentale. Persino Emanuele Severino sarebbe d’accordo. Certo, sono cambiati i modelli sociali, da aristocratica e fondata sul cameratismo si è trasformata in legame civile, ma ha continuato ad essere intesa come un rapporto paritario, fondato sul reciproco rispetto, sulla lealtà, la stima e la fiducia. Voglio credere che tali valori resisteranno per almeno altrettanti secoli, sia pure declinati in contesti diversi, e che teoricamente non sarebbe neppure necessaria alcuna resistenza per salvaguardarli. A meno che anche la coscienza di sé e del mondo che crediamo di aver conseguito non sia essa stessa in toto un autoinganno, o un inganno della “civiltà”, come appunto Maffesoli sembra suggerire.

2. Le astuzie della decostruzione

Per evitare che il mio sforzo di chiarimento diventasse più confuso di quanto già è, ho cercato di concentrarmi sulle questioni di merito. Ormai però sono lanciato, e vorrei segnalarti anche un paio di aspetti che riguardano apparentemente il metodo, ma in realtà sono parte integrante dell’impianto concettuale di fondo del post-modernismo. Si tratta di piccoli trucchi formali, tutt’altro che innocenti, che complicano e al tempo stesso svuotano di senso il discorso.

Partiamo da un vezzo particolarmente irritante, che condensa maliziosamente (e semplicisticamente) nell’uso tipografico una disposizione concettuale, e che avrai senz’altro già rilevato: quello di virgolettare il maggior numero possibile di termini, a significare appunto che quelle parole non coincidono con realtà oggettive o con significati universalmente condivisi, ma suppongono svariate possibili interpretazioni, che cambiano a seconda dei contesti storici e sociali e degli angoli prospettici. É un vezzo che ha contagiato anche i post-moderni non dichiarati (prova a leggere i primi libri di Marco Revelli, o di Magris): ma l’origine è quella. Maurizio Ferraris lo ha ha messo alla berlina nel suo Manifesto del Nuovo Realismo, del quale tornerò a parlare. (Potresti obiettare che ci indulgo anch’io: è vero, ma lo faccio solo quando uso i termini come citazioni, nel significati che sono loro attribuiti da altri. E poi, via, a volte, se non si eccede, torna comodo)

Un altro dei prodotti di risulta della decostruzione consiste nella banalizzazione linguistica: pensa all’uso che si è fatto in questi giorni del termine genio per Dario Fo, o di eroe per Totti e per gli altri protagonisti sui campi di calcio; oppure a quello di una parola come amicizia sui social. La banalizzazione è veicolata dai media, soprattutto dall’uso pubblicitario, che gioca su pochi termini forti, capaci di attizzare, anche e preferibilmente a sproposito, l’immaginazione: ma ha origine dalla sottrazione di significato agli oggetti, alle idee, o dalla sua moltiplicazione incontrollata.

Ancora, sempre per restare a casa nostra, c’è l’impiego di termini inglesi per dire altra cosa dai loro corrispettivi italiani: community ad esempio, ha un significato molto più vago che non comunità, perché prescinde dalle possibili identificazioni storiche di questa ultima e, pur mantenendone l’eco nel suono, si presta a significare tutt’altro. Come sopra, l’uso è apparentemente solo un vezzo da linguaggio internettiano o aziendale: ma c’è un livello oltre il quale diventa ambiguo. Marca un confine, che può essere generazionale se segnato dai termini tecnici in uso per le strumentazioni informatiche, o da quelli del gergo del divertimento, oppure di status, quando a tracciarlo sia la nuova terminologia economica, politica o sociologica. E questo confine sta lì a dirti che al di qua sei un sopravvissuto del moderno, e hai le ore contate.

In altri casi la banalizzazione è molto più sottile. Nel testo ho fatto cenno ad esempio al “comunitarismo”, ovvero alla filosofia anti-individualistica, anti-liberalistica e, naturalmente, anti-capitalistica che ha come bersaglio primo il concetto “neutralistico” della giustizia borghese. L’accusa mossa dai comunitaristi al liberalismo è di esigere dall’individuo lo svuotamento, lo spogliarsi di tutto ciò che lo caratterizza in quante tale, per confrontarsi con gli altri sulla base solo della fredda razionalità. Ora, questa è una lettura per alcuni versi corretta, ma indubbiamente molto riduttiva del liberalismo: tanto da far passare per una “dottrina” (con le virgolette) quella che è la semplice rivendicazione di condizioni di base, di regole chiare che consentano un leale gioco dei rapporti. La fredda razionalità è il metal detector che dovrebbe garantire contro la detenzione di armi. A portare calore nei rapporti saranno poi gli individui, se ne sono capaci, e non gli abiti culturali che indossano.

C’è infine la corsa, oggi più che mai aperta, visto che non va più di moda la stravaganza postmoderna (nel senso che è diventata – negli aspetti più deteriori – quotidianità), ad appropriarsi di tutto ciò che era rimasto sino ad ora escluso perché considerato insignificante, ovvio, e ad applicarci un marchio doc. Faccio un altro esempio. Ultimamente va per la maggiore il filosofo tedesco Hartmut Rosa, che ha introdotto in filosofia il concetto di risonanza. Anche qui, il termine evoca subito lussazioni o menischi, mentre nell’accezione di Rosa significa semplicemente capacità di ascoltare gli altri (in opposizione a dissonanza) e di confrontarsi con essi (a differenza di consonanza, che implica invece un accordo acritico). Hai capito? Questo ha scritto un libro di ottocentotrenta pagine, il doppio di quelle usate da Dawkins per dimostrare l’inesistenza di Dio, per dirci che magari, se mentre parliamo ci guardassimo negli occhi e non nella telecamera reale o immaginaria che ormai ci segue ovunque, ci capiremmo e ci relazioneremmo meglio. Non dirmi che è scontato, perché che si tratta invece di una riduzione ad personam della teoria dell’agire comunicativo di Habermas, e vuoi mettere!

Sembrerebbe, a prima vista, una voglia di normalità: e forse, anzi, probabilmente, lo è anche. Ma è una normalità piegata immediatamente alla trascrizione teatrale. Nella società dello spettacolo nulla può rimanere fuori dalla scena. Il problema diventa, allora, al di là della rilevanza o meno dei protagonisti, l’impianto scenico stesso. L’asserzione di Mc Luhan, per cui il medium è il messaggio, si rivela più che mai valida. Pensa a tutto il barnum di festival della filosofia, della mente, della letteratura, della scienza. Sarebbe intanto da capire di chi è veramente l’esigenza, se dei divulganti o degli spettatori (altro che risonanza), e comunque la radice di divulgazione è la stessa che per volgarizzazione: ovvero, prendere contenuti alti e ridurli alla portata di tutti, semplificandoli ma soprattutto, in sostanza, sterilizzandoli. Che è una pratica già di per sé ipocrita, perché non mira ad alzare il livello di consapevolezza del “volgo”, cosa che può avvenire solo educandolo allo sforzo necessario per conoscere, per sapere, per capire di più, ma asseconda proprio quella pigrizia intellettuale che lo stesso Maffesoli stigmatizza. Non è nemmeno vero che sia giustificata dalla necessità di far intravvedere gli oggetti possibili e auspicabili della conoscenza, perché così come arrivano ad essere proposti non sono nemmeno più tali.

La proposta di contenuti alti ha per forza di cose un risvolto etico. Lo dovrebbe avere tanto più in una operazione di divulgazione, perché rivolta ad un pubblico che non si attende mattoncini lego per giochi concettuali ma indicazioni pratiche di comportamento. Ora, questi risvolti, di norma, sono piuttosto duri da assorbire: pensa ad esempio all’etica kantiana. Il gioco migliore è allora di far pensare a chi riceve queste indicazioni di esserne già in possesso, perché il ricevente cerca in realtà rassicurazioni, piuttosto che nuove strade. Se la rassicurazione sul fatto che i suoi comportamenti sono già in qualche modo “filosoficamente corretti” gli arriva da un luminare, in un festival di filosofia, è come facesse apporre un bollo di certificazione. Magari comprerà anche il libro di ottocento pagine, che non leggerà mai, ma lo farà consacrare dall’autografo.

Più immediata e totale ancora è naturalmente la banalizzazione quando i contenuti sono proposti in contesti o attraverso supporti o media divulgativi che di per sé, senza tanti infingimenti, sono nati per ottundere. Un discorso sui valori fondamentali intervallato dalla pubblicità della carta igienica o dell’auto di lusso, che segue o precede il servizio sui nuovi cagnolini dei reali inglesi, non solo non apre a consapevolezza, ma si pone allo stesso livello. Viene metabolizzato dallo stomaco onnivoro della “cultura” dell’immagine, e ridotto alla stessa qualità e consistenza.

3. Cattive compagnie

Quando sostieni una tua tesi provi sempre a verificare se ci siano potenziali alleati, capaci di fornirti argomentazioni che non avevi considerato o di rafforzare quelle che avanzi. In questo caso non avevo che da scegliere, perché il fastidio che provo per i post-modernisti è abbastanza condiviso, in un arco di posizioni molto diverse tra loro, che vanno da Alain de Benoist ad Habermas. Ho potuto però verificare che non sempre chi il post-moderno lo combatte è molto più credibile dei suoi bersagli. Ti faccio un paio di esempi.

Il primo è rappresentato da Michel Onfray, altro enfant prodige della scuola francese. Onfray in teoria avrebbe tutti i numeri giusti, a partire da un’intelligenza caustica e debordante: in pratica però ne ha sin troppi, al punto che non si capisce affatto da che parte tiri. A conti fatti lo distinguono dai post-modernisti solo alcune sfumature, ma a quelle ci tiene. Si professa anticapitalista, antiliberale, anticomunista, e in positivo post-anarchico ed edonista. Già questo biglietto da visita dovrebbe indurre a non prenderlo troppo sul serio, ma anche nel suo caso la rilevanza mediatica non va trascurata. È una vera star, passa in televisione più tempo di Cacciari e non si tira indietro di fronte a nessun tema (lui stesso si è definito un “ateo di servizio”, che nella sua interpretazione non significa un utile idiota, ma quello che deve sporcarsi le mani con i media e nel dibattito pubblico per contrastare l’oscurantismo).

Fosse solo questo, ripeto, non varrebbe nemmeno la pena parlarne. Ma c’è dell’altro. Ci sono tratti della sua personalità e del suo incasinatissimo pensiero che meritano attenzione. Intanto arriva dal basso, da un’infanzia che ha conosciuto l’orfanotrofio e il lavoro manuale (anche se è durato poco), e la cultura se l’è guadagnata tutta, e per questo la tiene da conto. Poi prende le mosse da Camus, anziché da Sartre (ha scritto una corposa biografia intellettuale del primo, che a dispetto del narcisismo – per cui diventa un’autobiografia, un po’ come quelle di Citati – è ricca di intuizioni brillanti): e già partire di lì è come fare il settebello a scopa. Infine ha una formazione di base di stampo vetero-anarchico, che nulla ha a che vedere con lo pseudo anarchismo da centri sociali vellicato da Maffesoli: il che significa ulteriore rispetto per il patrimonio culturale che ha alle spalle, anche quando ne combatte certi esiti. Certo, se poi scendiamo nel dettaglio delle sue idee c’è da mettersi le mani nei capelli. Ma anche qui, devo ammettere che su molte cose è di una lucidità e di una schiettezza indiscutibili. Come quando ad esempio parla, ne La politica del ribelle, della sinistra del ressentiment: quella che “non abbraccia i valori che si richiamano alla vita, i valori positivi, ma pende piuttosto per i valori negativi, cioè non vuole che i poveri diventino ricchi ma vuole che i ricchi diventino poveri. Questa sinistra del risentimento non si richiama tanto alla fratellanza, alla solidarietà, alla felicità del più grande numero possibile di cittadini, ma preferisce sbattere i ricchi in galera, metterli alla gogna, nei campi di concentramento o di rieducazione. Questo tipo di sinistra è la sinistra marxista-leninista, la sinistra maoista, la sinistra stalinista, la sinistra di Robespierre, una sinistra che, di fatto, vuole vendicarsi, vuole vendicarsi dell’ordine del mondo”. Salvo poi identificare anche lui la sinistra libertaria, quella che dovrebbe cercare la felicità per tutti, in una sinistra dionisiaca, sia pure un po’ diversa da quella di Maffesoli, perché non rigetta né il sapere scientifico né lo stesso capitalismo, a patto che sia “libertario” anziché “liberale”. La stessa schiettezza usa nei confronti delle risorgenze religiose, dell’Islam in particolare: ma non fa sconti nemmeno al cristianesimo, tanto da scrivere un Trattato di ateologia per sostenere che fino a quando non si saranno spazzati via i fondamenti di ogni teologia non si potrà dare corso ad alcun progetto di nuova etica laica (ma ne propone immediatamente uno lui stesso, improntato all’edonismo). Insomma, hai capito il personaggio: un guitto di genio.

Ora, lasciando perdere le altre confusioni e contraddizioni, e rimanendo su quello che sembra essere il suo impegno più serio, la costruzione di un’etica laica, credo che questa insistenza su una rivendicazione forte delle ragioni dell’ateismo, in risposta proprio alla risorgenza delle fedi, finisca per fare il gioco dell’avversario. Quando dedichi alla professione dell’ateismo un Trattato che esce contemporaneamente alla Storia dell’ateismo di George Minois, alle quasi cinquecento pagine dedicate da Richard Dawkins a dimostrare che Dio non esiste e a quelle di Dennett, di Pievani, di Oddifreddi a spiegare che non è un problema e se ne può fare benissimo a meno (oltre naturalmente ai numeri speciali di Micro-Mega), la frittata è fatta. Non si era parlato tanto di Dio negli ultimi duecento anni.

Come avrai capito, Onfray per certi versi mi è persino simpatico. Ma lo ritengo altrettanto pericoloso di Maffesoli, perché “brucia” nella sua bulimia un sacco di argomentazioni e di idee che andrebbero invece trattate con maggiore cura, e mescolandole nel calderone le rende inoffensive. E questo è uno degli aspetti più caratteristici e insidiosi del postmodernismo.

L’altro modello è nostrano, in qualche modo dovrebbe riuscire di segno diametralmente opposto, nel senso che professa di ricondurre il discorso su un piano più realistico e serio, ed è rappresentato da personaggi come il già citato Maurizio Ferraris. Ferraris porta avanti ormai da un sacco di tempo una diatriba filosofica che lo ha visto opporsi ai nipotini nostrani di Lyotard e ai figli di Vattimo, e che è sfociata in un Manifesto del Nuovo Realismo, o NeoRealismo. L’operazione in sé è più che lodevole. È anche, come Onfray, come Maffesoli, come tutti, uno che si presta spesso e volentieri alla divulgazione (ricordi il suo Filosofia per dame?). E questo può non piacere, ma non sarebbe grave se la divulgazione servisse anche a liquidare un po’ di quell’aura sacrale che continua a tenere sospeso per aria il pensiero. Invece non è affatto così. Mi spiego. Nel Manifesto del Nuovo Realismo Ferraris demolisce senza tanti complimenti tutto l’impianto ermeneutico del postmoderno. Richiama al fatto che la realtà esiste indipendentemente dalle nostre interpretazioni, e che semmai vanno distinti gli ambiti in cui se ne parla. Santissime parole, da condividersi in pieno. Il problema è che questo discorso lo fa discendere da un modello di pensiero “Realista” che etichetta come Nuovo.

Ora, avrai notato che ho ripetuto le maiuscole del titolo del suo manifesto. Ti ho appena parlato di quei vezzi che sembrano in apparenza innocui, anche un po’ patetici, ma in realtà sono significativi, e come tali irritanti. In particolare dell’uso delle virgolette. Bene, nel suo Manifesto Ferraris lo mette alla berlina: solo che dopo aver irriso quello postmoderno del “virgolettato”, cade nel vezzo eterno del “maiuscolato”, che persegue l’effetto opposto, quello di una consacrazione anziché di una dissacrazione, ma funziona allo stesso modo. E gioca banalmente con l’appeal del “nuovo”, come nelle pubblicità degli shampoo.

Per cosa lo usa? Per ribadire ciò che è ovvio: che una pantofola è innanzitutto una pantofola, prima e al di là di tutti i significati che posso attribuirle se sono un orientale o un occidentale, un ricco o un povero, un cane o una tarma. E fa bene: ma che bisogno c’è di chiamarlo Nuovo Realismo, con tanto di doppia maiuscola, se non quello di imbottigliare aria e venderla al mercatino del biologico?

 

Bibliografia

A questo punto devo integrare anche la bibliografia. Ti segnalo allora alcune opere di Michel Onfray (circa un decimo del totale):
L’arte di gioire. Per un materialismo edonista – Fazi, 2009.
La scultura di sé. Per una morale estetica – Fazi, 2007
La politica del ribelle. Trattato di resistenza e insubordinazione – Ponte alle Grazie, 1997/1998
Teoria del corpo amoroso. Per un’erotica solare – Fazi, 2006
Trattato di ateologia. Fisica della metafisica – Fazi, 2005
La potenza di esistere. Manifesto edonista – Ponte alle Grazie, 2006/2009.
Filosofia del viaggio – Ponte alle Grazie, 2010
Controstoria della filosofia (9 vol) – Fazi, 2006-2013

Le più conosciute di Maurizio Ferraris
Filosofia per dame – Guanda, 2011
Bentornata Realtà. Il Nuovo Realismo in discussione – Einaudi, 2012
Manifesto del Nuovo Realismo – Laterza 2012

e quelle del suo bersaglio, Gianni Vattimo
Le avventure della differenza – Garzanti, 1980
Il pensiero debole – Feltrinelli, 1983 (assieme a P. A. Rovatti)
La fine della modernità – Garzanti, 1985
Oltre l’interpretazione – Laterza, 1994
Credere di credere – Garzanti, 1996

Infine, per il nuovo Ateismo
Telmo Pievani, Creazione senza Dio – Einaudi, 2006,
Piergiorgio Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici) – Longanesi, 2007
Eugenio Lecaldano, Un’etica senza Dio – Laterza, 2006
Georges Minois, Storia dell’ateismo – Editori Riuniti, 2000
Daniel Dennett, Rompere l’incantesimo. La religione come fenomeno naturale – Cortina, 2007
Richard Dawkins, L’illusione di Dio – Mondadori, 2007.

NOTE

[1] (cfr. “La Lettura”, n. 252 del 25/9, pag 9, ‘Modernità addio’)

[2] La ricetta più gettonata è quella che spazia da Schopenhauer al Marx dei Manoscritti (dove parla di “infanzia sociale dell’umanità, quando l’umanità si espande in completa bellezza”), da Spengler a Freud, e naturalmente Nietzsche e Martin H. e la scuola di Francoforte. Ultimamente viene insaporita da una spruzzata di Alain de Benoist.

[3] Il tramonto del post-modernismo è al centro di un dibattito ospitato dall’Almanacco di Filosofia 2016 di MicroMega (“Ritorno alla realtà o fughe metafisiche?”). Ti confesso comunque che del dibattito in sé mi interessa ben poco, perché al solito vola alto e non prende in considerazione le ricadute spicciole, i danni collaterali, materiali e irrimediabili, provocati dalla guerra delle idee.

[4] L’interpretazione della didascalia apposta all’acquaforte di Goya è in realtà controversa. Il termine sueño in spagnolo significa sia sonno che sogno. Adottando questo secondo significato avremmo “Il sogno della ragione genera mostri”, in questo caso perfettamente in linea con la lettura post-modernista.

[5] Al quale oppongono il pensiero di Spinoza, tutt’altro che irrazionalista, ma adattato convenientemente alla bisogna.

[6] Questa convinzione accomuna tutto il fronte postmodernista, ma è rilanciata ed esplicitata con molta convinzione soprattutto da una frangia estremista dell’antropologia, segnatamente da Marshall Sahlins, che in “Un grosso sbaglio” legge tutta la storia della cultura occidentale come un progressivo asservimento all’ideologia del dominio.

[7] Su questo tema è illuminante (e definitiva) l’analisi di George Steiner (cfr. La nostalgia dell’assoluto).

[8] Per le origini di questa differenza rimando a “La vera storia della guerra di Troia”, Viandanti delle Nebbie, 2016

[9] Viandanti delle Nebbie, 2008

[10] Raccontando le difficoltà dei fiorentini a tenere sotto controllo Pistoia, commenta che se avessero eliminato subito, a freddo, quattro o cinque capi delle fazioni in lotta in quella città si sarebbero evitati un centinaio di morti un anno dopo.

[11] Per gli intrecci tra scienza ed economia, e in particolare per la rilevanza economica della botanica nel ‘700, sono utili e divertenti testi come Cacciatori di piante, di Tyler White, o La confraternita dei giardinieri di Andrea Wulf.

[12] Ne L’idioma analitico di John Wilkins (in Altre inquisizioni).

[13] Anche se le recenti scoperte in Europa e in Africa di fosse comuni risalenti al paleolitico superiore, piene di corpi brutalmente martirizzati, compresi quelli di donne e bambini, sollevano multi dubbi sul carattere pacifico delle società pre-agricole.

[14] Anche perché proprio Lyotard e Derrida, quando si sono resi conto di dove andavano a parare i loro esegeti, hanno preso velocemente le distanze, proponendo in definitiva un ritorno a Kant e un rilancio dell’Illuminismo. Il danno, comunque, era già fatto.