Lettere ai nipoti orfani della politica

di Paolo Repetto, 10 febbraio 2023

Quando in uno scritto precedente (vedi Anni perduti) azzardavo che siamo ancora in grado (e in obbligo) di fare qualcosa per i nostri ragazzi, non avevo in mente i grandi progetti di riconversione ecologica del pianeta o di realizzazione della pace mondiale: o almeno, non mi riferivo direttamente a quelli. Ritengo che l’impegno a lasciare loro un mondo ancora passabilmente vivibile sia sacrosanto e imprescindibile, ma ad essere sincero nel momento stesso in cui lo ribadisco avverto una sensazione di impotenza, mi rendo conto di quanto irrilevante nel concreto sia il nostro singolo contributo. Possiamo adottare “buone pratiche” e proporle agli altri col nostro esempio, ma sono gocce infinitesimali rispetto all’oceano nel quale stiamo affogando. Purtroppo non sarà una impennata di buon senso a decidere del destino dell’umanità: noi in realtà lo stiamo solo affrettando, in una direzione dettata dalla nostra miopia e dalla nostra presunzione. La stessa impressione proviamo d’altra parte anche nei confronti di obiettivi assai più limitati, come potrebbe essere nello specifico italiano quello di non lasciare in eredità a figli e nipoti un debito pubblico spaventoso e una voragine nelle casse dell’INPS. In cuor nostro sappiamo che avrà la meglio l’egoismo generazionale.

E allora? I casi sono due: o accettiamo di considerare chiuso il discorso, rinunciando ad accodarci alla recita rituale degli slogan pacifisti ed ecologisti (che nell’adolescenza è ingenuità, nella maturità è ipocrisia), o proviamo ad individuare qualche azione alla nostra portata, praticabile da subito e anche singolarmente. Un’azione che abbia un valore intrinseco, per chi la compie come per chi la riceve, ma che non si esaurisca affatto in se stessa. Il classico insegnare a pescare, anziché distribuire pesci.

In questo senso, la cosa più urgente cui mettere mano è senz’altro la riabilitazione della politica agli occhi dei nostri ragazzi: della politica seria, s’intende, non dello spettacolo di burattini offerto nei salotti televisivi. Non possiamo permettere che identifichino la politica con Salvini e Berlusconi, e meno che mai con Putin o Biden. È un impegno che dovremmo assumerci subito, e quando scrivo “dovremmo” mi riferisco ad una categoria anagrafica particolare, alla quale appartengo da un pezzo, quella dei nonni. Non solo perché come pensionati disponiamo di tempo (ancora poco, purtroppo) che andrebbe speso anziché perso, ma perché nel bene o nel male abbiamo maturato esperienze che dovrebbero conferire – almeno a chi le ha digerite – una qualche credibilità: e soprattutto perché a quanto pare non ci sono altri con la capacità o la volontà di farlo.

Non lo possono fare infatti i nostri figli, che abbiamo cresciuto nel rifiuto e nel disprezzo della politica: un rifiuto certamente motivato dal puzzo di marcio che ristagna in quella dimensione, ma che è diventato una posizione di comodo, senza mai tradursi in una responsabilizzazione personale. E meno che mai poi lo possono le istituzioni, che si limitano a bandire periodicamente delle svogliatissime crociate all’insegna del “civismo”, puri manifesti di facciata per dare una parvenza di senso alla propria esistenza.

L’esempio peggiore (perché raccolto direttamente da chi è ancora è in fase di formazione) è offerto proprio dalla scuola. L’educazione civica è stata ultimamente reintegrata al rango di disciplina curricolare, con tanto di valutazione autonoma: ciò che di per sé ne nega il ruolo di ispiratrice di base e di scopo finale di ogni disciplina (a dispetto del fatto che tutte risultino ufficialmente coinvolte, in un calderone caotico nel quale ciascun docente annaspa a modo suo), ma soprattutto travisa completamente il concetto stesso di educazione. In più, tutto questo è stato fatto senza badare minimamente alla realtà del contesto nel quale si andava ad agire e senza prevedere alcuna azione correttiva concreta là dove quel contesto appare irrimediabilmente degradato. Si è finto di ovviare con un tratto di penna all’oggettiva impreparazione dei docenti, allo straripare nei media di proposte di comportamenti incivili, alla rottamazione di ogni valore portata avanti senza alcun distinguo dalla cultura post-moderna della spettacolarizzazione e del successo mediatico. Il risultato è che agli occhi della stragrande maggioranza degli studenti l’educazione civica si riduce ad un inserto particolarmente uggioso in quello che è già di per sé un mare di nebbia.

Meno che mai, poi, c’è bisogno di “scuole di politica”, nelle quali quest’ultima sia trattata come una professione. Anzi, va combattuto proprio questo distorcimento, perché nella realtà la politica è già interpretata così dalla maggioranza dei suoi praticanti, ma non certo nel senso di “un’etica della convinzione” o di “un’etica della responsabilità” come predicato da Max Weber. Al contrario, è considerata una scorciatoia per il successo, per il potere e per l’ascesa economica.

È contro queste interpretazioni che possiamo e dobbiamo ancora agire. Perciò, pur senza farmi soverchie illusioni, rimango convinto sia mio dovere di nonno e di cittadino trasmettere a un nipote le poche cose che ho imparato e che presumo di aver capito. Sono consapevole del rischio (anzi, della forte probabilità) di ribadire cose ovvie, di semplificare e banalizzare eccessivamente tematiche complesse. Ma è un rischio che ritengo valga la pena correre. Indirizzo allora le considerazioni che seguono a Leonardo e a tutti coloro che sento come nipoti spirituali, agli studenti di cui parlavo sopra e ai tantissimi come loro che sono certo esistano.

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Lettera a Leo (in pratica, un testamento)

Caro Leo, capisco il tuo desiderio di sentirti da subito un cittadino “attivo”, prima ancora che ti venga riconosciuto ufficialmente il diritto alla partecipazione formale (leggi: diritto di voto). La cosa non mi sorprende, perché un po’ ti conosco, anche se meno di quanto vorrei, e so che la vivi non come un’infatuazione o una stravaganza passeggera, ma mosso da un interesse sincero. Non solo: sulla situazione geopolitica mondiale sei indubbiamente molto più informato della gran parte dei nostri connazionali, segnatamente di quelli eletti a rappresentarci, quindi hai i numeri per mettere a frutto positivamente la tua sete di conoscenza e di partecipazione. Davvero non potevo sperare di meglio. E in qualche modo, attraverso te, vorrei continuare a partecipare anch’io.

Le considerazioni che ti propongo sono frutto di una militanza molto sui generis (nel senso che non ho mai voluto ufficializzarla, tesserarla, piegarla a ragioni di partito o di carriera né asservirla ad una ideologia), che va avanti da tantissimi anni, praticamente da quando ho cominciato ad avere consapevolezza di me, del mondo e del rapporto tra me e il mondo. In tutto questo tempo ho maturato alcune semplici convinzioni; giuste o sbagliate che siano, mi hanno dato una ragione per non sedermi a lato della strada aspettando un passaggio, e per continuare invece a camminare con le mie gambe, a scegliere con la mia testa ad ogni bivio. Ne abbiamo già parlato in qualche occasione, soprattutto ne ho scritto a più riprese: ora provo a ripensarne e a riassumertene alcune, sia pure in ordine sparso. (Ma intendiamoci subito. Anche se mi chiamo Paolo non pretendo di scrivere Epistole: prendi queste cose per quel poco che valgono. Potrebbero quantomeno fornirci materia per i prossimi incontri.)

Per cominciare, io credo che la politica non debba essere vissuta come una passione, e in questo mi dissocio da Max Weber (so che ancora non lo conosci, ma ne parleremo), il quale diceva che si può vivere “di” politica (la politica come professione) o vivere “per” la politica (la politica come passione). In realtà, i miei distinguo riguardano solo l’interpretazione da dare ai termini. Quanto al primo, l’idea di una militanza politica vissuta come professione proprio non l’accetto, a meno che non si voglia intendere “esercitata con professionalità”, ovvero con competenza. Quanto al secondo, va anch’esso interpretato in un significato restrittivo, a indicare la dedizione. Quando si parla genericamente di passione ci si riferisce ad un sentimento che è per l’appunto “passivo”, generato da impulsi che prescindono da ogni ragionevolezza e dei quali si subisce l’effetto sia fisico che psicologico. Quella politica deve essere invece una “disposizione”. Cerco di chiarire la differenza.

Perché la politica non deve essere vissuta passionalmente? Perché non è un fine ma un mezzo, un gioco (se così vogliamo chiamarlo) attraverso il quale si persegue un risultato (un ideale): e il gioco può risultare appassionante e divertente anche di per sé (o comunque per motivi privati, come l’ambizione, il tornaconto, ecc…, tutti ascrivibili a una qualche passione), ma nella misura in cui coinvolge anche altri, coi quali ci si può porre in competizione o in cooperazione, deve svolgersi secondo regole almeno comprese, e possibilmente accettate, da tutti: e dal momento che è finalizzato a realizzare uno scopo comune non può risolversi nella soddisfazione individuale. Voglio dire – così sgombriamo subito il campo da un grossolano equivoco nel quale purtroppo oggi sguazzano molti giovani, e non solo – che il comportamento politico è cosa ben diversa dal tifo sportivo o da altre affezioni similari che hanno per oggetto i protagonisti del mondo dello spettacolo: queste cose rientrano nel campo delle malattie sociali, trovano sfogo in momenti specifici e in luoghi deputati e si manifestano esibendo simboli (sciarpe, magliette, bandiere, ecc,,,) e seguendo rituali o mandando segnali particolari (gli applausi, i cori, gli slogan, i fischi, ecc…). Quello che tu vedi espresso nelle manifestazioni e nei cortei, appunto kefiah, magliette del Che, bandiere, striscioni, cartelli, non attiene alla politica ma alla partigianeria, e nella fattispecie odierna è il tributo pagato alla società dello spettacolo e alla cultura televisiva.

La politica la si fa invece nei comportamenti quotidiani, in ogni momento e in ogni luogo, a scuola, in casa, nei ritrovi, sul lavoro: è il modo di rapportarsi agli altri, ma anche alle cose, alla natura e alla cultura in genere. Non è una passione perché comporta l’esercizio costante della capacità razionale di mediare, di ascoltare gli altri e di farsi ascoltare dagli altri senza bisogno di urlare, di proporre argomenti (e non slogan), e di opporli a quelli altrui (senza ricorrere alle invettive). È una “disposizione” che suppone senz’altro una base biologica, una componente naturale (che definirei “attitudine”): ma questa viene temperata, orientata e controllata dalla razionalità. Con buona pace della definizione aristotelica, l’uomo diventa politico nella misura in cui cessa di essere semplicemente un animale istintuale.

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Si possono comunque distinguere diversi livelli di comportamento politico. Il primo, quello privato (che poi in realtà del tutto privato non è), coincide sostanzialmente con l’etica. L’individuo che persegue coerentemente i valori che egli stesso ha scelto a propria guida si dispone ad un comportamento “politico” nel momento in cui li confronta coi valori altrui (eccola, la “disposizione”). In realtà questo livello può essere considerato ancora pre-politico: è necessario, perché apre al confronto, ma non è sufficiente, perché non comporta automaticamente una volontà di mediazione. E soprattutto perché trova la sua ragion d’essere in una gratificazione personale: mi comporto eticamente per essere in pace con me stesso, soddisfatto di me.

C’è poi un comportamento “morale”. È quello per cui penso o agisco sulla base di parametri esterni, dettati da altri. A questi parametri, che sono i valori professati dalla comunità in cui vivo, posso conformarmi, ma posso anche non farlo, posso trasgredire. Magari proprio in coerenza con la mia etica (è il caso, ad esempio, dell’obiezione di coscienza). Ora, tutti questi sono già comportamenti politici. Del mio comportamento “morale” sono giudici gli altri: e in base ai criteri vigenti potrò essere approvato o, al contrario, essere giudicato immorale, o amorale. Va comunque direttamente ad operare sui rapporti collettivi.

Per inciso: non a caso si parla di una “etica protestante” – vedi ancora il nostro amico Max Weber –, perché per il protestantesimo è l’individuo ad assumersi la responsabilità di scegliere, e di una “morale cattolica”, perché per il cattolicesimo la scelta non c’è, è già stata fatta una volta per tutte ed è garantita dalla comunità.

Il comportamento compiutamente “politico” è infine quello per cui mi confronto con gli altri tenendo presenti le regole del gioco, al limite cercando un accordo per cambiarle, e provo a convincere i miei interlocutori della bontà e dell’efficacia delle idee che professo.

Insomma, per riassumere: eticamente rispondo a me stesso, moralmente rispondo agli altri, politicamente mi confronto con gli altri. E mentre eticamente posso (e devo) aspirare all’infinito, alla società perfetta (comportandomi “come se” questa fosse possibile), politicamente mi misuro invece con uomini, idee, istituzioni, tradizioni, condizionamenti ambientali e sociali che confliggono tra di loro e originano “imperfezione”, e devo agire quindi secondo una ragionevole coscienza e una disincantata conoscenza della società reale. Non potrò farmi guidare dalle emozioni e dai sentimenti (ciò non significa che occorre soffocarli, ma che vanno gestiti e controllati) e non dovrò predicare o imporre, ma discutere. Dovrò in sostanza evitare di pretendere dagli altri risposte che non possono dare. In proposito, l’immarcescibile Max Weber sostiene che politica ed etica sono inconciliabili, perché la politica si basa anche e soprattutto sull’uso della violenza: e a rigor di termini avrebbe ragione, ma poi consente anche lui che all’atto pratico si possa operare in politica seguendo l’etica “dei principi” (che tiene conto solo della bontà delle intenzioni) oppure l’etica “della responsabilità” (che valuta attentamente le conseguenze delle proprie azioni – e che è appunto quella di cui ti stavo parlando).

Cosa significa comunque che “devo” aspirare all’infinito? Allora: una società “politica” (quella che Aristotele chiamava politèia) presuppone che a confrontarsi siano dei soggetti passabilmente maturi e responsabili. In realtà noi sappiamo benissimo che non tutte le persone sono tali, vuoi per carattere (motivi biologici), vuoi per ignoranza (motivi culturali), vuoi per vicissitudini (motivi ambientali e sociali). In altre parole, sulla capacità degli umani di partecipare ad un agire politico collettivo influiscono sia la natura (l’eredità genetica), sia la cultura (l’eredità culturale), sia la ventura (la condizione esterna, il tempo e il luogo, in cui si trovano a vivere): la politica dovrebbe essere appunto il terreno sul quale si realizza una mediazione tra questi diversi influssi. Non sempre però lo è, perché – e questo è un mio parere, altri la pensano diversamente – la determinazione biologica del carattere rimane comunque fortissima, e se uno nasce stupido o carogna non c’è verso a cambiarlo, ma occorre senz’altro contenerlo. In questo caso occorre usare brutalmente la politica come uno strumento di difesa. Ne consegue che non dovremo mai attenderci la società ideale, e dovremo scendere a compromessi con noi e con gli altri: ma chi davvero è animato da una genuina volontà politica non deve mai rinunciare a pensare e ad agire come se questa società fosse possibile, pur rimanendo consapevole che persegue una direzione, e non una meta.

Ora, in questa prospettiva, esiste qualche tipo di società che più si avvicini a quella ideale? Sul piano della politica applicata, ovvero delle forme di governo, l’unico modello che sembra possedere questo requisito è quello democratico. Uno che per la democrazia non nutriva una gran simpatia, Winston Churchill, scriveva: “È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”. Un modo elegante per dire: al momento non ci sono alternative.

Il termine “democrazia” ha etimologicamente un significato ben preciso: è quella forma di governo nella quale la sovranità viene esercitata dal popolo. Ma al di là di questo, molto meno precisi sono invece i modi nei quali questa sovranità può essere esercitata, le istituzioni nelle quali si concretizza e persino chi e cosa si debba intendere per popolo. Non bisogna dimenticare che questo sistema politico è stato inventato (o almeno, formalizzato) in una pòlis nella quale i due terzi della popolazione (le donne e gli schiavi) non erano considerati facenti parte del popolo, non godevano di alcun diritto di “cittadinanza”. E neppure che l’idea di democrazia si è poi eclissata per i due millenni successivi, ed è tornata in auge solo da due o tre secoli a questa parte. Non si tratta quindi di un modello perenne e definitivo, ma di qualcosa che è soggetto a trasformazioni e potrebbe sparire già domani. In tal senso la democrazia come la intendiamo oggi, quella nella quale l’opportunità di partecipare è estesa a tutti, e viene collegata non solo al valore della libertà individuale ma anche quello della giustizia sociale, è un’invenzione decisamente recente.

Non sto ad elencarti quali siano stati i percorsi diversi e accidentati della democrazia moderna, né a decantarne i frutti. Li hai di fronte, li vivi tutti i giorni, puoi facilmente coglierne l’essenziale attraverso lo studio della storia contemporanea e la comparazione con la qualità della vita nelle aree del mondo governate da regimi non democratici. L’importante è non dare questi frutti per scontati o per acquisiti una volta per sempre.

A questo proposito, vediamo piuttosto di capire che pericoli corre la democrazia, da quali tarli è rosa all’interno e da quali agenti esterni può essere messa in forse. Ultimamente gli attacchi alla democrazia sono sferrati un po’ da ogni parte, da destra e da sinistra, con motivazioni originariamente diverse ma con diagnosi che spesso arrivano a coincidere.

Il pensiero di destra sostiene che il mondo pre-industriale (e pre-democratico) faceva perno sulla comunità, era cioè strutturato come un “organismo”, all’interno del quale le funzioni erano distribuite e accettate in ossequio a un ordine superiore (che rispecchiava quello naturale) e i rapporti erano appunto imperniati sulle gerarchie naturali. La democrazia sarebbe invece lo strumento e nel contempo il frutto di una “atomizzazione” sociale, che ha disgregato l’originale appartenenza “organica e comunitaria” e l’ha sostituita con una “organizzazione” delle individualità isolate, all’interno della quale i rapporti sociali sono impersonali, artificiosi, meccanici e freddi.

Il pensiero di sinistra sostiene al contrario che la democrazia liberale, quella in pratica che è nata e si è affermata in occidente, è una democrazia limitata, più formale che sostanziale, incapace di assicurare la giustizia sociale: uno strumento di facciata, insomma, per mascherare il totalitarismo capitalistico. Le contrappone formule piuttosto nebulose, che vanno dalla “democrazia diretta” (invocata – sia pure per ragioni e con finalità diverse – anche dal populismo di destra) a criteri alternativi di rappresentanza, e ritiene comunque che qualsiasi modello debba anteporre la promozione dell’uguaglianza a quella della libertà individuale.

Persino il pensiero liberal-moderato (quello rappresentato ad esempio da Tocqueville – parleremo anche di lui), pur ritenendo ineluttabile l’avvento di società democratiche, già due secoli fa metteva in guardia contro le loro possibili derive autoritarie, o contro i rischi di dissoluzione del tessuto sociale, ed anzi li prefigurava (la democrazia che si trasforma in demagogia, ecc…). La coscienza delle imperfezioni e delle fragilità della democrazia era quindi già ben presente sin dalle sue origini (e addirittura nel pensiero greco). Con una differenza: per i pensatori liberali si trattava di effetti collaterali (e quindi di studiare i possibili rimedi), per quelli odierni di destra o di sinistra si tratta di un difetto d’origine (che non può essere sanato, e quindi può essere superato solo modificando radicalmente il modello).

Negli anni più recenti ha cominciato a circolare una quarta posizione, non apertamente esplicitata ma sotterraneamente diffusa, dettata dalle urgenze economiche, demografiche e ambientali che si vanno profilando. Tale posizione auspica per l’intero globo un modello di “democrazia controllata”, vagamente ispirato a quelli dell’estremo oriente (quello cinese e quello sudcoreano, in particolare – ma in qualche modo era già presente in Rousseau): anche se il termine democrazia in questo caso è decisamente inappropriato, perché si tratterebbe in sostanza di una dittatura delle élites. La variante più gettonata è quella di un “governo dei tecnici”, che dovrebbe consentire domani di pianificare e imporre una “decrescita” controllata. È anche quella che ha maggiori probabilità di attuazione, perché mira a conciliare gli interessi di un capitalismo in difficoltà con i tentativi di ovviare all’emergenza ecologica e climatica (la cosiddetta economia green e i progetti di transizione ecologica ne sono già un esempio).

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Questo quarto modello rimanda direttamente ad un altro problema, quello dell’esportazione della democrazia tentata nella seconda metà del secolo scorso dall’Occidente, e rivelatasi fallimentare perché si è scontrata con situazioni politiche (conflitti interetnici, inadeguatezza delle classi dirigenti, ecc…) e con culture che hanno radici completamente diverse, sulle quali l’innesto si è rivelato impossibile. Ma soprattutto rimanda alla piega del tutto nuova che il problema ha preso, dopo essere migrato dalle aree ex-coloniali, o comunque sottosviluppate, alla patria stessa della democrazia: oggi non ci chiediamo più se è possibile “democratizzare” gli altri mondi, ma se è possibile far convivere nel nostro mondo la cultura occidentale con quelle degli immigrati provenienti da ogni parte del globo. Mutato così radicalmente il contesto, sono cambiati anche i modi del rapporto: le istituzioni democratiche, e quindi la mentalità e gli stili di vita che stanno loro a monte, non solo non sono esportabili, ma debbono essere difese là dove esistono, perché corrono un rischio serio di estinzione.

Sul tema della difesa della cultura occidentale e della democrazia sentirai le voci più discordanti. Non tutti in occidente sono convinti ne valga la pena, molti auspicano addirittura la cancellazione della “ipocrisia democratica” e di un modello di civilizzazione che si è macchiato del colonialismo, dell’imperialismo e di tutte le altre peggiori nefandezze. Se sei intelligente come credo avrai modo (spero che ti sia ancora dato) di renderti conto da solo di quanto siano insensate e davvero ipocrite queste posizioni. Chi le prende sa o dovrebbe sapere benissimo che gli è consentito farlo solo all’interno di questa civiltà “colpevole e decadente”, che altrove la sua voce sarebbe stata strozzata sul nascere, e non solo la sua voce. I cultori del mito del buon selvaggio che tra i selvaggi hanno scelto di vivere si contano sulle dita d’una mano, e l’hanno fatto sempre conservando posizioni di privilegio (non fosse altro per una soggezione dettata dal colore della pelle, o per particolari competenze e conoscenze proprie della cultura dalla quale “fuggivano”), e tenendosi aperta una porta per il ritorno. Come gli odierni frequentatori degli ashram indiani, si sono comprati la purificazione in valuta occidentale. Allo stesso modo i laudatori contemporanei dei modelli di civiltà antagonisti, quello cinese, quello islamico, quello russo-sovietico o russo-putiniano, ecc… si guardano bene dal trasferirsi altrove con armi e bagagli. Rientrano nei costi che solo la democrazia può permettersi, e sfruttano cinicamente lo spazio loro concesso.

Quanto alla convivenza in Occidente delle diverse culture, il problema è scottante. Ha cominciato a porsi nella seconda metà del secolo scorso, quando è iniziato l’afflusso verso l’Europa di migranti provenienti dai paesi ex-colonizzati, ed è stato affrontato con una disposizione mutevole di fronte al crescere delle ondate. Se in un primo momento si faceva conto su una spontanea assimilazione, dando per scontato che gli individui o i gruppi in ingresso, ancora relativamente ridotti, si sarebbero velocemente adeguati alle regole e ai costumi del loro nuovo paese, la portata raggiunta dall’esodo negli ultimi due decenni del secolo ha reso necessario ripensare le strategie di accoglienza.

Si è cominciato dunque a ragionare in termini di “integrazione”, che contempla la possibilità/necessità per un individuo di diventare pienamente membro di una comunità, e di contribuire semmai “dall’interno”, col suo portato culturale diverso, a cambiare la società, a farla crescere. Neanche questo modello ha funzionato, come dimostra il caso della Francia, perché le comunità dei migranti, una volta raggiunta una certa consistenza, hanno sviluppato o si sono lasciate imporre una forte coesione “difensiva” interna, che si è tradotta in rifiuto dell’integrazione.

Per un certo periodo ha di conseguenza prevalso l’idea del multiculturalismo: in sostanza, la società multiculturale è quella al cui interno la diversità culturale è riconosciuta, tollerata e se possibile incoraggiata. Anche in questo caso la politica adottata si è rivelata fallimentare (vedi i problemi che vivono oggi l’Inghilterra e i paesi nordici). Questo perché il riconoscimento unilaterale di diritti, non bilanciato dall’assunzione dalla controparte dei corrispettivi doveri, fa crollare tutti i presupposti su cui si fonda la democrazia.

E siamo all’oggi: non si può dire che l’Occidente non abbia mostrato nei confronti del problema un’apertura che solo il suo particolare modello di civiltà poteva consentire: ma la cosa non ha funzionato, vuoi per i pregiudizi e le resistenze che gli occidentali senz’altro ancora scontano, vuoi essenzialmente per il rifiuto all’incontro attivo e al dialogo opposto da culture che rifiutano di mettersi in gioco. Il sogno dell’incontro interculturale è svanito: quello che si prospetta, con buona pace del progressismo senza se e senza ma, è uno scontro sempre più aspro.

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Il che ci porta direttamente ad un altro tema molto “caldo”. La democrazia si fonda sul riconoscimento a tutti di una “cittadinanza”, ovvero di una serie di diritti individuali, ai quali fa però da contrappeso una serie di doveri nei confronti della collettività. Il mancato rispetto di questi ultimi mette in crisi il funzionamento dell’intero sistema, perché comporta in definitiva che i diritti altrui siano negati. Quando ciò accade si viola la legalità, cioè quell’insieme di regole che deve esistere per garantire una civile convivenza. Pertanto, sino a quando queste regole non vengano cambiate per comune accordo vanno rispettate da tutti, e fatte rispettare.

Lo statuto della cittadinanza dovrebbe fondarsi su queste semplicissime basi, al di là dalle “certificazioni” ufficiali e della condizione anagrafica (ius soli, ecc..). E almeno in teoria le cose stanno così; nella realtà però acca-de che la cittadinanza abbia finito per essere considerata o come una prerogativa ereditaria (sono cittadino per una pura condizione di nascita, e solo in ragione di tale condizione – così come un ebreo è tale solo se nato da madre ebrea) o come un diritto automaticamente acquisito da chiunque viva all’interno di determinati confini, in entrambi i casi prescindendo dal livello di adesione alle regole.

Qui si entra in un terreno molto delicato, quello delle diverse nature del diritto (diritto naturale – diritto positivo) e delle loro reciproche limitazioni, per cui non mi sembra il caso di avventurarci oltre. Preferisco semplificare mettendola così: nel mondo ideale, quello al quale, come dicevo più sopra, il nostro comportamento politico deve quanto meno tendere, il cittadino è colui che partecipa attivamente e responsabilmente alla vita politica: quindi alla elaborazione delle regole, alla loro applicazione e al loro rispetto. Non importa dove e da chi sia nato: la sua “cittadinanza”, i suoi diritti “politici” conseguono dal suo agire, gli sono riconosciuti previa valutazione di quest’ultimo. Parrebbe un automatismo logico, ma già su questa istanza di principio c’è chi storce il naso e vorrebbe il godimento dei diritti sganciato dall’adempimento dei doveri. Anche dando comunque per scontata l’equità dell’automatismo, quando lo trasferiamo dal mondo ideale a quello reale nasce un altro problema, quello di garantire che la valutazione sia equa. Sappiamo benissimo quanto le istituzioni che dovrebbero fornire questa garanzia siano screditate.

Quindi: poggiati i piedi per terra non dobbiamo per questo rinunciare a dare un senso più alto alla cittadinanza. Pur nella consapevolezza che la mia proposta presenta grossi limiti e pone diversi problemi io sarei per una sorta di cittadinanza a punti, un po’ sul modello di quella esistente nella Corea del Sud. Le infrazioni producono una decurtazione, e oltre un certo limite o nei casi particolarmente gravi una sospensione, temporanea o definitiva: mentre la partecipazione positiva (che non si misura solo nell’attivismo a livelli “istituzionali” di qualsiasi genere, a partire dall’assemblea condominiale e dalle associazioni di volontariato a salire sino ai vertici più alti, ma nella correttezza globale dei comportamenti) permette di reintegrare il punteggio. È solo un gradino, per di più controverso e scivoloso, ma bisogna pur cominciare a salirlo per riconferire alla cittadinanza una qualche dignità e credibilità.

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Infine, e poi ti prometto che chiudo, un ulteriore problema è rappresenta-to dalla sfiducia generalizzata nei confronti della democrazia rappresentati-va e dal miraggio di poterla superare con l’aiuto delle tecnologie digitali. Al modello democratico attuale si imputa di non avere tenuto il passo dei tempi, e in particolare di non essersi adeguato alle opportunità che le nuove tecnologie oggi offrono. Le modalità di rappresentanza sulle quali la democrazia si basa sin dalle origini (in sostanza, tutte le varie forme di parlamentarismo) sono considerate obsolete, non più in sintonia con un mondo che viaggia ad altri ritmi e sfrutta altre energie. Si è quindi diffusa la convinzione che le nuove tecnologie, prima tra tutte la possibilità di lavorare in rete, consentano una gestione e un controllo della cosa pubblica più diretti e più trasparenti.

Ora, la sfiducia nella democrazia rappresentativa è condivisa anche da chi molto idealisticamente propugna un ritorno alla partecipazione politica originaria (per intenderci, sul modello della pòlis greca), come la filosofa Hanna Arendt, ma in genere le motivazioni che la determinano sono meno nobili e profonde.

Si applicano alla politica i costumi del calcio, e anziché convenire che il problema non sta nella formula della rappresentanza (pur con tutto ciò di imperfetto che essa comporta), ma nel modo in cui sia i rappresentanti e che i rappresentati la applicano, si cambiano il modulo e l’allenatore. Come ho già scritto altrove, “è vero che oggi è garantita ai cittadini solo l’espressione di un voto, mentre ogni concreta possibilità di controllo e di intervento è delegata ad organismi di intermediazione che nel tempo si sono trasformati in feudi autonomi: ma è altrettanto vero che i cittadini non possono continuare a scaricare le loro responsabilità rispetto a questo esautoramento decisionale. La corsa a trasformare ruoli di servizio in ruoli di potere da parte delle istituzioni intermediarie è stata consentita dalla scarsa volontà di partecipazione dei cittadini stessi, dalla loro mancata assunzione di responsabilità civica”. Quindi, teniamoci la rappresentanza e cambiamo semmai i rappresentanti, o meglio ancora, cambiamo i criteri coi quali questi vengono scelti.  Non è necessario però dettare nuove regole: sarebbe sufficiente che i rappresentati si decidessero ad assumere un ruolo attivo, che implica anche l’essere disponibili a svolgere funzioni “politiche” in prima persona, anziché limitarsi a delegarle per amore del quieto vivere.

Quanto alla fiducia in una democrazia digitale, mi sembra davvero mal riposta. Si fonda infatti sul presupposto che l’accesso al cyberspazio sia egualmente libero per tutti. La rete è democratica, si dice. Il che, in linea teorica, è vero: tecnicamente ciascuno può avere accesso ad ogni informazione, stabilire contatti con chiunque, esprimere liberamente la propria opinione e il proprio voto. Ma nella realtà le cose stanno diversamente. Intanto, per quanto concerne l’informazione, chi si mette in rete lo fa partendo necessariamente dai propri valori e dai propri pregiudizi, quindi sa già cosa vuole trovare, e per farlo sceglie percorsi particolari, rinunciando in partenza ad altri itinerari. Può sembrare una cosa ovvia, lo è certamente, ma questo significa entrare in rapporto non con chiunque, ma quasi esclusivamente con chi già condivide gli stessi valori e gli stessi pregiudizi, e fa quindi gli stessi percorsi.

Il risultato è la nascita di “comunità virtuali” caratterizzate dall’unanimità di vedute e dall’assenza di un vero scambio, di un dibattito interno. Le comunità di rete sono totalmente autoreferenziali, stimolano un senso di appartenenza quasi settario e liquidano le differenze di opinione. Tocqueville aveva già previsto questa deriva due secoli fa: “Gli americani si dividono con grande cura in piccole associazioni molto distinte per gustare a parte le gioie della vita privata” scriveva ne La democrazia in America. “Ognuno di essi vede con piacere che i suoi concittadini gli sono uguali… io credo che i cittadini delle nuove società, invece di vivere in comune, finiranno per formare piccoli gruppi”.

Insomma, la realizzazione di una democrazia “immediata”, “veloce”, “semplice”, è una pura chimera populista, una menzogna subdola, perché asseconda la frenetica pulsione alla velocità, l’insofferenza per un meditato approfondimento dei problemi e l’illusione di partecipare attraverso le reti digitali alle decisioni su qualsivoglia tematica. D’altro canto, come funzioni la partecipazione mediatica abbiamo potuto verificarlo in questi ultimissimi anni: gli strumenti che dovrebbero garantire l’esercizio della democrazia si sono rivelati fragili e pericolosamente permeabili, e sono gli stessi che veicolano delle campagne massicce di disinformazione e di condizionamento, orchestrate addirittura a livello mondiale.

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Torniamo dunque al punto di partenza: quello che conta non sono i modi, i moduli o i modelli, ma una educazione politica di base che consenta ad ogni singolo soggetto di vivere il diritto come una quotidiana conquista e responsabilità. Tutto il resto è suppellettile.

Come vedi, caro Leo, di carne al fuoco ne ho messa molta. Spero solo, con questa lunga tirata, di non averti fatto perdere l’appetito. Ci sarebbe ancora molto altro da condividere.

Quindi, alla prossima

Sinistre immagini

di Fabrizio Rinaldi, 15 gennaio 2023

Vagando da un canale all’altro, l’altro giorno mi è apparso Cuperlo su Rete4. Era intervistato non so da chi, perché non frequento quel canale, ma soprattutto non so cosa dicesse (anche se non fatico a immaginarlo), perché la mia attenzione era concentrata su come si presentava ai telespettatori con l’intento di racimolare consensi uno dei candidati più autorevoli alla segreteria del PD. Dietro di lui non c’era l’ormai classica libreria coi libri, i ninnoli e i quadri che strizzano l’occhio allo spettatore, ma faldoni e fascicoli grigi e marrone con scritte a mano (chissà se era a casa sua o in qualche archivio segreto di Andreotti). Indossava una camicia bianca sotto un maglioncino beige pallido pallido e una giacca grigia, pendant con i faldoni sullo sfondo. Ora, va bene esser sobri e pacati, e volersi distinguere da chi indossava il giubbotto in pelle alla Fonzie (Renzi), ma non è il caso di personificare la tristezza più assoluta!

Senato: registrazioni al completo, mancano solo i 26 subentrantiCuperlo avrà detto pure delle cose sensate, ma mi rimane l’immagine di un uomo insipido, sbiadito, senza prospettive per un futuro diverso da quello attuale, senza proposte che vadano oltre la misera quotidianità del decidere se togliere o lasciare le accise sul carburante (che comunque è una scelta che al momento non gli compete). Umanamente potrei anche condividere ciò che pensa, ma mediaticamente è un disastro.

Sinistre immagini 03 BersaniUn’altra immagine della sinistra che mi viene alla mente è quella di Bersani al bar (forse quello di Happy days), dove, invece di confrontarsi con altri su cosa sia esser di sinistra, ha come unico interlocutore un calice di birra. È la perfetta raffigurazione di una dignitosa ritirata umana, che è tale anche politicamente, ma fa comunque tristezza.

È pur vero che c’è chi specula impietosamente, come un avvoltoio sugli animali morenti, nello scovare foto che esprimano al meglio le difficoltà e le debolezze del malcapitato personaggio pubblico, di turno: ma un politico avveduto dovrebbe porre molta più attenzione a come si propone rispetto a ciò che dice. Altrimenti è bene che resti nel privato e non ambisca ad occuparsi della cosa pubblica. Purtroppo è così che va il mondo attuale. “E tu non puoi farci niente! Niente!” (L’ultima minaccia di Richard Brooks). È passato il tempo in cui Moro andava in spiaggia con giacca e cravatta e Berlinguer si fermava a parlare agli operai di un cantiere col trench alla tenente Colombo.

Sinistre immagini 04 Moro    Sinistre immagini 05 Berlinguer

Eppure negli ultimi decenni ci sono state delle immagini iconiche che hanno alluso a un diverso futuro: Prodi in bicicletta, ad esempio, e D’Alema in barca. Lo so, vien da chiedersi come siamo messi, però almeno un tentativo di offrire una “visione” c’era. Il primo, interpretato anche da Guzzanti come il “semaforo fermo e immobile”, sotto l’aspetto sornione sapeva esser risoluto e avere un’idea, giusta o sbagliata che fosse (vedi la rocambolesca entrata dell’Italia nell’area euro). Il secondo era – ed è tuttora, anche se ufficialmente si è ritirato dalle scene, – il “baffo” più odiato dagli italiani, accusato di incoerenza per il fatto di possedere una barca (e non solo quella) nonostante si professasse comunista: ma almeno, anche se più in apparenza che nella realtà, quel baffo pareva essere alternativo all’infoiato, colluso, mediatico e trapiantato Berlusconi.

Sinistre immagini 06 Prodi

Se la sinistra tradizionale vuole avere una qualche futuro e non sparire (è sotto il 15% ed è in discesa, di contro all’oltre 30% di Fratelli d’Italia) deve individuare poche ma chiare idee che la identifichino, diciamo pure dei segni o dei “sogni”, sui quali costruire prospettive differenti da quelle offerte dalla Meloni, ma pure da Draghi, Conte o Renzi.

Ed è necessario che lo faccia immediatamente, per poterne trarre un minimo di indicazioni di principio. Quelle che non verranno certo da un congresso presieduto da fantasmi litigiosi, i quali quasi sicuramente convalideranno un’insipienza congenita. Coloro che si riconoscono (o no) nel PD di oggi (come pure in quello di ieri) vorrebbero vedersi proporre, alle prossime elezioni, un’idea per la quale valga la pena andare a votare per quel partito. Saranno anche solo sogni, illusioni, ma si vive pure di quelli.

Sinistre immagini 07 PD

C’è innanzitutto bisogno di chiarirsi su ciò che s’intende oggi per sinistra progressista, su quali obiettivi si possano concretamente perseguire, e di escogitare anche una comunicazione mediatica che sostenga quelle affermazioni. È essenziale tradurre i concetti in immagini, in simboli forti e riconoscibili affinché ci sia una reciprocità fra la parola e la sua raffigurazione. È inutile ostinarsi a credere che la genuinità delle idee sia sufficiente per ottenere consensi. Non piacerà ai talebani della sinistra dura e pura, ma le cose stanno così: serve saper comunicare efficacemente e chiaramente. E spesso non basta neppure quello.

Chi si ostina a pensarsi di sinistra si nutre di sogni che possano narrare una società più equa; di “barbari” che arricchiscano la nostra cultura ferma da decenni; di scelte economiche a lungo termine concretamente praticabili, nella consapevolezza che quelle attuali vanno sempre e comunque a discapito dell’ambiente, e spingono l’umanità verso il suicidio; di recuperare una solidarietà e un interesse comune che offrono l’unica vera via d’uscita. Sono i sogni a mantenere in vita la speranza.

E per cominciare, occorre fare pulizia nel proprio cortile, liberarsi di tutte quelle ipocrisie relative al genere, alla razza, alla pseudo-correttezza politica, che portano a far su alla rinfusa figure come Soumahoro, pur di sventolare una bandierina “progressista”. A riempire il Parlamento o gli uffici di Bruxelles di canaglie o di incompetenti ci pensano già tutti gli altri: almeno in questo la sinistra dovrebbe distinguersi.

Ciò non mi toglie la convinzione che ci siano ancora persone che perseguono delle idee per avere un mondo ben differente da quello attuale, senza però perdere la lucidità di inseguire delle chimere. Basta cercarle e avere il coraggio di offrire loro spazio e dignità, smettendola di tarpare le ali a chi ha ancora l’“intenzione del volo”, per dirla alla Gaber.

Sinistre immagini 08 candidati segreteria

Quel che vale per la politica vale pure per la cultura. E qui vengo al mio disaccordo sull’opinione espressa da Vittorio Righini nel pezzo I libri che non mi sono piaciuti, in cui critica il modo pacatamente ruffiano che ha Cognetti di scrivere i suoi libri.

Sinistre immagini 09 CognettiHo letto quelli precedenti a Le otto montagne e mi sembravano buoni. Un po’ “semplici” e immediati, ma ciò è una colpa? Non saranno capolavori, ma è vero che Cognetti è diventato un riferimento per coloro che si riconoscono in un certo modo di concepire il rapporto con la natura. Io mi sento perfettamente in linea con lui (ricordo un suo pezzo contro l’ennesima pista da sci), e non penso che questo sia cavalcare una moda e sfruttarla a fini utilitaristici. Semmai è un modo per veicolare messaggi un po’ differenti da quelli che vanno per la maggiore. I suoi testi non saranno il massimo di originalità e di profondità, ma, visti i tempi, che vengano pure queste mode i cui riferimenti sono London, Levi, Rigoni Stern, ecc…

Non dobbiamo star sempre lì a cercare il pelo nell’uovo… E che cazzo! Almeno quest’anno al cinema c’è stata la possibilità di vedere Le otto montagne, anziché i soliti cinepanettoni di Boldi, Checco e simili.

In fondo, nella mediocrità culturale attuale, Cognetti spicca per delle iniziative finalizzate a promuovere modi più rispettosi di stare in montagna e ha provato a fare qualcosa di diverso, impiegando i soldi vinti con lo Strega per sistemare un rifugio ad uso di amici e montanari.

Facce come la sua e quella dell’amico illustratore Nicola Magrin rappresentano un’ottima alternativa a quelle dei vari Calenda, Conte e compagnia bella. Dicono che, nonostante tutto, il sogno non “si è rattrappito”.

Sinistre immagini 10 Cognetti e Magrin

Collezione di licheni bottone

Anni perduti – e da dimenticare

(appunti sparsi sullo stato mio e della nazione)

di Paolo Repetto, 24 dicembre 2022

Nel solco di una tradizione recentissima, inaugurata su questo sito solo dodici mesi orsono con lo scritto sui Buoni propositi, propongo un sintetico resoconto dell’anno che sta mestamente per chiudersi. È un bilancio da economia domestica, nel quale si mescolano le voci più disparate: ma proprio per questo credo corrisponda nella maniera più veritiera a ciò che tutti abbiamo percepito di un anno decisamente infausto.
In questa prima parte ho inserito senza aggiornarle alcune riflessioni maturate nel corso dell’estate: non vanno oltre il livello di una bozza, ma mi sembra rimangano tuttora valide. A breve saranno postate quelle più recenti. Mi propongo di sviluppare meglio in futuro alcuni degli argomenti toccati, ma prima di tutto spero di muovere anche altri ad occuparsene. A quanto pare il mio ottimismo resiste, è a prova di sanità pubblica e di imbecillità private, di crisi energetiche e di smottamenti a destra. Per questo non ho ritegno a fare (e a farmi) ancora gli auguri.

Anni perduti 01

Se esiste una mente universale,
deve necessariamente essere sana?

La Débâcle

Non piove praticamente da nove mesi. Fiumi in secca, laghi che scompaiono, ghiacciai che si sciolgono o si disintegrano a ritmi sempre più accelerati. Mentre i campi e le risaie sono bruciati dall’arsura, le sorgenti e i rubinetti cominciano a tossire. Di quando in quando, con frequenza incalzante, arriva una tromba d’aria a movimentare un po’ il paesaggio. Da qualche giorno poi hanno ripreso a crepitare anche gli incendi. La peggiore siccità dell’ultimo secolo, si dice, ma solo perché non sono possibili raffronti con quelli precedenti. Saranno anche fenomeni in larga parte indipendenti dalle attività umane, come testimonia la ciclicità delle glaciazioni, ma non si può negare che l’umanità ci stia mettendo molto del suo, con comportamenti che moltiplicano gli effetti degli sconquassi naturali.

Anni perduti 02

In compenso sono ricomparsi il covid, che s’inventa sempre nuove varianti, e l’inflazione, invocata fino a ieri come la pioggia, ma subito sfuggita di mano e schizzata a due cifre: e soprattutto la violenza, tanto quella pubblica come quella privata. Qui la natura non c’entra, facciamo tutto da soli.

La violenza internazionale è riesplosa improvvisa persino nel vecchio continente. Anche se si mantiene stabilmente “a bassa intensità”, da febbraio il conflitto tra la Russia e l’Ucraina chiede il suo quotidiano tributo di morti (di quelli russi non si sa), desertifica intere regioni e le spoglia delle loro strutture produttive, impedendo tra l’altro l’esportazione di quel grano dal quale dipende la sopravvivenza di metà della popolazione africana. Di conseguenza questa a breve si sposterà con un esodo ben più che biblico verso le coste europee. Le sanzioni inflitte alla Russia dall’occidente si sono rivelate un boomerang, stanno logorando soprattutto le economie europee e hanno spinto i Russi nelle braccia sempre tese (a prendere) della Cina.

Anni perduti 03

In questo allegro panorama le “democrazie” occidentali sono guidate da governi deboli e da classi politiche decisamente incapaci. La nostra è neppure più guidata: siamo riusciti a mandare a casa anche il meno peggio, e affideremo tra un paio di mesi il nostro destino al “paese reale”.

In situazioni come queste non esiste una terminologia capace di rendere appieno l’entità di quanto sta accadendo. Almeno nella lingua italiana, che in linea con il nostro modo di pensare bada più a lasciare spazio alle sfumature sottili di significato, consentendoci di giocare con interpretazioni ambigue o riduttive. Il francese, invece, dispone quasi sempre della parola giusta, capace di riassumere tutti i sinonimi e di andare oltre. Lo abbiamo già visto in un’altra occasione, con bêtise. Nel caso attuale la parola appropriata e definitiva mi sembra débâcle, che sta per sconfitta, disfatta, batosta, resa umiliante, disastro, sfacelo, fallimento, ecc., e sottintende un ampio margine di responsabilità umana.

Il riassunto che ho fatto è ovviamente tanto generico da sembrare banalmente superfluo: il disagio che tutti quanti stiamo vivendo è evidente, anche se si manifesta nei modi più disparati. Ogni tanto però fa bene anche sintetizzare la situazione in un quadro generale, perché di norma tendiamo a preoccuparci dei singoli problemi uno alla volta: il che è normale e comprensibile, ma finisce poi per distrarci dal guardare in faccia l’aspetto più angosciante e immediato della tragedia, che è proprio lo stato del “paese reale”.

(luglio 2022)

 

Un paese di farlocchi

Giudicato in base all’immagine che ci torna dai media, il paese reale è una jungla (secondo la stampa) o un serraglio di deficienti (secondo la televisione). Sappiamo però che i media non raccontano la verità, e allora proviamo a fidarci dei nostri occhi, del nostro intuito. Ci diciamo che questa è una falsa immagine, che in fondo a guardarci attorno siamo circondati da un sacco di gente normale, di persone che fanno il proprio lavoro, che non uccidono la moglie o i vicini di casa, non frequentano i siti pedofili e non incassano pensioni per finte invalidità.

Ed è anche vero: ma nemmeno questa è un’immagine oggettiva del paese reale. Certo, se evitiamo di frequentare le discoteche o i parchi cittadini, di uscire a fare quattro passi la sera, di andare allo stadio per partite o mega-concerti, di partecipare alle adunate politiche, di farci candidare alle amministrative o semplicemente alla rappresentanza condominiale, allora sì, abbiamo l’impressione che tutto sommato le cose funzionino. Ma se soltanto usciamo di un passo dal perimetro di sicurezza che ci siamo ritagliati, e che si riduce ogni giorno di più, allora il paese reale lo incontriamo davvero.

C’è una quotidianità che non possiamo ignorare, a dispetto dell’ottimismo della volontà cui facciamo sempre meno convintamente ricorso. Parlo delle piccole irritazioni dalle quali siamo continuamente assaliti, dal momento in cui scendiamo a buttare la spazzatura a quello in cui cerchiamo di prendere sonno a dispetto di sagre, di sfide motoristiche notturne o di cani che latrano tutta la notte alla luna, anche quando la luna non c’è. Parlo della sensazione che nulla sia più sotto controllo, che se ci è andata bene oggi già domani potremo imbatterci in un pazzo o in un cinghiale in libertà, o trovarci coinvolti in un crack finanziario di cui nessuno alla fine sarà tenuto responsabile e tutti (o quasi) pagheranno le conseguenze. Non è questione di catastrofismo: è evidente come su questa percezione pesi anche il battage dei media, ma lo è altrettanto il fatto che lo smottamento sociale procede palpabile e accelerato. Questo è il “paese reale”.

Del quale, naturalmente, facciamo parte anche noi. Ne fanno parte i piccolissimi e costanti cedimenti alla non legalità o alla non correttezza cui siamo costretti per sopravvivere (anche perché quali siano la legalità e la correttezza non è mai ben chiaro), che riusciamo a giustificare con sempre meno rimorsi e ai quali ci stiamo velocemente assuefacendo.

Da sociale dunque il problema diventa in prima battuta individuale. Lo smottamento coinvolge anche noi, già per il solo fatto, quando non troviamo una risposta credibile al “cosa posso farci io, concretamente” (di fronte all’inquinamento, ai cambiamenti climatici, al degrado sociale, culturale, scolastico, linguistico, ecc…) di assistervi inerti. E peggio ancora va quando la risposta la diamo abbracciando posizioni che non tardano a diventare ideologiche, quando chiamiamo a responsabili tutti gli altri, quelli che si ostinano a non capire, dall’alto di una nostra presunta (e presuntuosa) esemplarità.

Anni perduti 04

Qualche giorno fa (per la precisione il 19 giugno) Luca Mercalli, meteorologo, climatologo e divulgatore scientifico superdecorato e onnipresente in tivù, ha tenuto a Lerma una “Chiacchierata ecologica”, per spiegare al popolo quanto gravi siano i problemi ambientali, quanto siamo in ritardo per risolverli e quali piccoli accorgimenti comportamentali ciascuno di noi può adottare da subito per dare un suo contributo. Tutte cose molto giuste e vere, supportate da fior di dati sull’oggi e di proiezioni sul domani, in una serata talmente afosa da far percepire sulla loro pelle agli astanti la portata dei cambiamenti climatici. Tanto che ad un certo punto qualcuno ha pensato di procurare a un Mercalli grondante sudore un paio di bottigliette di acqua minerale. Lo avesse mai fatto! Le bottigliette (di plastica) sono state sgarbatamente respinte dall’oratore, in coerenza perfetta quanto al merito con ciò che andava predicando sull’inquinamento, ma molto meno, quanto ai modi, con quel che pretendeva di insegnare sui comportamenti. Dubito che la chiacchierata abbia segnato qualche punto a favore della causa ambientalista. Il giorno successivo nessuno probabilmente ricordava qualcosa dell’argomento, ma tutti avevano ben presente la malagrazia dell’illustre ospite. Mi sembra un esempio palese di come ogni integralismo, anche quello applicato a giuste cause, finisca per perdere di vista quello che è il nocciolo di qualsivoglia problema sociale, ovvero la mancanza di buona educazione.

(luglio 2022)

Anni perduti 05a

Un fil di fumo

Avrei svariati motivi per sentirmi a terra. Alcuni sono indubbiamente seri, e richiedono continui e sempre più faticosi colpi di reni per rialzarsi. Altri, non meno seri, sono comuni a tutti, riguardano la situazione politica, e più ancora quella ambientale, ma sembrano ormai sfuggire ad ogni nostra possibilità di controllo e spingono alla rassegnazione. Altri ancora, invece, possono apparire decisamente futili, sono sindromi del tutto personali, ma per accumulo provocano alla lunga un’insostenibile pesantezza.

Io patisco soprattutto questi ultimi, nel senso che ai primi bene o male reagisco, mentre di fronte ai cumuli di cretinate mi sento impotente. Soffro di una sensibilità addirittura morbosa per la stupidaggine, segnatamente nei confronti di quella che viaggia col passaporto “culturale”. Mi arrabbio ad esempio se sento su RaiTre che vogliono consacrare a museo un appartamento abitato da Pasolini per qualche mese, interrompo immediatamente la lettura di un saggio filosofico sull’avventura quando vi trovo scritto che nel 1794 le truppe napoleoniche (?) marciavano sulla superficie ghiacciata del Reno, spengo il televisore se mi propone un dibattito sul sacro cuore di Maradona o un concerto polemico del maestro Muti, diserto le mostre sui cugini o sui vicini di casa degli impressionisti, ma anche quelle sugli impressionisti stessi, e le conferenze degli storici a gettone. Va da sé poi che evito come la peste i film che “devi” vedere, i libri che “devi” leggere, i musicisti che “devi” ascoltare per non sentirti fuori sintonia. Intendiamoci, ciascuno è libero vedere e leggere e ascoltare ciò che gli pare, purché non pretenda poi di dettare più o meno larvatamente un canone.

Un’attitudine di questo tipo crea naturalmente dei problemi. A volte mi sento sotto assedio, soprattutto quando vedo cannibalizzati e banalizzati a merce di consumo interessi, argomenti, personaggi che coltivo da sempre con devozione quasi religiosa. Allora trovo conforto solo nel mio frutteto, e più ancora nella mia biblioteca, che un filtro sessantennale ha reso affidabile, ma che mi spinge inesorabilmente a guardare indietro. È la depressione post-postmoderna. O forse è solo lo scotto da pagare all’invecchiamento galoppante, uno scotto nel mio caso particolarmente pesante perché si somma ad una disposizione congenita. Insomma, è dura.

Non voglio però ricominciare con le geremiadi: al contrario, voglio testimoniare che è possibile, sia pure per qualche attimo, uscire dal rigor mortis della post-modernità e da quello dell’ineluttabile consapevolezza della propria irrilevanza. Che quando sembra nulla valga più la pena di essere visto o ascoltato, tentato o sperato, basta davvero poco a squarciare la bruma grigia che avvolge il mondo.

Anni perduti 05

È accaduto la primavera scorsa. Incontro per una conversazione extracurricolare un paio di classi terminali dell’ultimo liceo che ho diretto, su sollecitazione di un docente col quale si è creata una buona sintonia. Logorroico e semirimbambito quale sono, la tiro in lungo per quasi due ore, ma constato con crescente meraviglia che non uno dei cinquanta ragazzi presenti si alza e si assenta per urgenze: il che, stante la debolezza ritentiva dei nostri giovani, è quasi un miracolo. Non solo: dal momento che amo conversare deambulando, posso realizzare che nessuno si trastulla con lo smartphone, risponde a messaggi o si addormenta con gli occhi aperti (se accadesse, non la tirerei così in lungo). I ragazzi mi seguono con lo sguardo, avanti e indietro, come in una partita a tennis al rallentatore, e non in ossequio ad ordini di scuderia, né per una particolare reverenza dovuta a un dirigente: quando sono entrati in quel Liceo me n’ero già andato da un pezzo, e non mi hanno mai visto, e comunque quella forma di rispetto per i ruoli è venuta meno da un bel pezzo. Forse è l’argomento a intrigarli, perché la conversazione viaggia un po’ fuori degli schemi, ma alla fin fine non si parla né di calcio né di Greta Thunberg, della crisi ambientale o dei problemi adolescenziali: si parla di filosofia, o meglio, delle possibili e conflittuali visioni del mondo che stanno dietro ogni nostra scelta o comportamento. Non devo interrompermi nemmeno per un secondo, malgrado in queste occasioni sia molto esigente rispetto all’atteggiamento dell’uditorio: e magari m’illudo, ma ho l’impressione che quei ragazzi capiscano tutto ciò di cui sto parlando, anche se molte delle cose tirate in ballo non sono loro affatto consuete. Insomma, ne esco stupito, mi prende persino un po’ di nostalgia dei bei tempi dell’insegnamento, cosa che non mi capitava più da quel dì.

Ora, il passaggio logico successivo, quello che ci si aspetta (e arriva inesorabilmente) nei talk show, dovrebbe essere un proclama di assoluta fiducia nei giovani e di speranza che saranno loro a salvare il mondo. Invece no. Non nutro alcuna fiducia speciale nei giovani, non ne ho motivo, ma allo stesso modo in cui non la nutro nei biondi o nei mancini o nelle persone che portano gli occhiali, o in qualsiasi altra categoria morfologica o anagrafica. I giovani oltretutto, purtroppo per loro, saranno tali solo per breve tempo. Non so se salveranno il mondo o lo affosseranno definitivamente, so soltanto che lo abiteranno nei prossimi sessanta o settant’anni e temo che non sarà uno spasso; senz’altro sarà meno facile di quanto lo è stato per noi. Credo però nelle persone educate e responsabili, e quindi intelligenti. Il passaggio successivo è dunque che mi sono stupito di trovarmi di fronte, raccolte in un’unica sala e nello stesso lasso di tempo, tante persone con queste ultime caratteristiche. Non c’ero più abituato.

Ho anche provato ad immaginare la stessa situazione retrodatandola di sessant’anni e spostandomi in mezzo all’uditorio. Che tipo di attenzione avremmo prestato io e i miei compagni? Senz’altro silenziosa, per una coazione tutt’altro che tenera alla disciplina (l’aver lasciato cadere una penna dal banco mi fece sbattere una volta fuori dalla classe, dopo una solenne lavata di capo), e magari anche un’attenzione genuinamente interessata, se il relatore e l’argomento trattato lo avessero meritato: ma non posso dimenticare che io stesso, per tanti aspetti allievo modello, seguivo le spiegazioni dei miei insegnanti con un doppio taccuino, uno per gli appunti e uno per le mie creazioni artistiche, sul quale annotavo però anche il ricorrere di certi intercalari, per determinarne in maniera quasi scientifica la frequenza e arrivare ad anticiparli; oppure sottolineavo l’uso di termini che potevano essere piegati ad un doppio senso (era il massimo della licenziosità che all’epoca potevamo permetterci). Altri si tenevano svegli con distrazioni non molto diverse. Insomma, dietro la facciata, come nei western all’italiana, spesso c’erano solo dei pali di sostegno e dei tiranti.

Per questo, se provo a mettermi nei panni dei miei insegnanti, credo che avrei nutrito forti dubbi di poter trarre qualcosa da quegli adolescenti pieni di brufoli e pateticamente presuntuosi. E invece il qualcosa è venuto fuori: non in termini di “successo”, che non considero un indicatore di rilievo, e del quale non ho mai tenuto un registro, ma senz’altro in termini di qualità umana. Non c’è un mio ex-compagno che non riveda o che non rivedrei con piacere.

La stessa cosa potrebbe senz’altro verificarsi domani per i ragazzi di quelle due classi. Magari a vederli poi in giro, l’uno accanto all’altro ma ciascuno immerso nei suoi social, siamo portati a scrollare il capo e a chiederci cosa ne sarà tra vent’anni, e difficilmente ci diamo risposte positive: ma questo è accaduto dai tempi di Adamo nei confronti di ogni nuova generazione, anche se la nostra attuale perplessità parrebbe più che giustificata dalla accelerazione impressa alle trasformazioni dei costumi e dei rapporti. Forse però dovremmo avere maggiore fiducia nella capacità umana di fare fronte a cambiamenti anche traumatici, in quella che oggi con un termine abusatissimo negli pseudo dibattiti televisivi e quindi sempre più vago viene definita “resilienza” (in questo caso assunta nel suo significato originario). Se in una qualsiasi occasione questi ragazzi hanno dimostrato collettivamente intelligenza e responsabilità, significa che possono essere intelligenti e responsabili. Basta dar loro l’opportunità di esserlo. Che siano poi anche giovani è un valore aggiunto, una condizione né necessaria né sufficiente.

Dove voglio arrivare, con tutto questo giro? Semplicemente al fatto che di norma prestiamo attenzione solo a quello che non va, che non funziona, che ci disturba, mentre ignoriamo piuttosto ciò che proprio perché funziona ci sembra scontato. Ecco, io credo che il gesto veramente rivoluzionario, l’unico ancora possibile, sia quello di non dare nulla per scontato, e meno che mai le manifestazioni di una intelligente normalità. Queste andrebbero al contrario sottolineate, in maniera sobria ed efficace, puntando sull’effetto emulativo che può avere la pura e semplice ripetizione. Non si tratta insomma di riesumare il premio “Livio Tempesta”, quello che si assegnava ai miei tempi ai bimbi buoni che si prendevano cura dei loro compagni sfortunati o dei nonni, o percorrevano il mattino chilometri di sentieri con l’amico disabile a spalla per arrivare a scuola (anche se rispetto a quelli che quotidianamente si distribuiscono per le motivazioni più insensate ci starebbe tutto): il sentir ribadire ogni mattina che un comportamento intelligente paga, in termini di risultati, ma prima ancora di amicizia e di rispetto di sé, potrebbe fornire qualche rassicurazione ai molti che sarebbero portati a tenerlo, ma sono resi dubbiosi sulla propria normalità dall’esemplificazione malefica proposta in maniera martellante dai media.

Sto cercando di dire, anche se temo di non essere stato abbastanza chiaro, che a dispetto di tutto abbiamo ancora la possibilità di fare qualcosa. Come, lo vedremo la prossima puntata (e stavolta la prossima puntata ci sarà davvero).

(agosto 2022)

Anni perduti 06

Assente ingiustificata

di Paolo Repetto, 16 settembre 2022

Non sono un appassionato ermeneuta di programmi elettorali. Voto da quasi sessant’anni e non ne avevo mai letto uno. Questa volta l’ho fatto. Si potrebbe pensare ad un tardivo soprassalto di responsabilizzazione civica, ma in realtà sono stato mosso da semplice curiosità: volevo verificare quanto spazio vi fosse riservato ai problemi della scuola. La mia è senz’altro una deformazione professionale: capisco che con questi chiari di luna, tra guerre, emergenze ambientali, pandemie, recessioni economiche, il degrado della scuola possa apparire ai più un problema secondario, ma per fortuna non sono l’unico a pensarla diversamente. Lo spunto per queste righe è arrivato infatti da alcune osservazioni di Nico Parodi, che ha sempre operato in tutt’altro settore e della mia deformazione non soffre.

Giorni fa Nico mi raccontava lo sconcerto di una sua nipote per il fatto che nei testi scolatici dei figli (entrambi esordienti in nuovi cicli di studi) le immagini prevalgono sulla parte scritta. Alla fine ha commentato: «Ormai si studia sulle didascalie. La conoscenza che si acquisisce è solo un cumulo di frammenti estremamente volatili, che non attivano una linea di pensiero e non abituano ai passaggi logici. Anche di questi tempi il primo problema dovrebbe essere “il modo” in cui trasmettiamo la cultura, e invece pare che di questo freghi niente a nessuno». Ha ragione, e lo dimostra l’assenza totale di questo tema dallo sciagurato “dibattito” elettorale in corso. Il primo vero problema da affrontare, quello che dovrebbe aprire ogni programma, riguarda il ruolo e la “qualità” della scuola, il tipo di cultura che trasmettiamo, perché da quest’ultima dipende poi la capacità di comprendere e affrontare qualsiasi situazione: ma nessuno se lo pone.

Non è una novità. L’ultima riforma scolastica che esplicitava una “idea” del ruolo della cultura, e di conseguenza delle finalità della scuola, risale giusto a sessant’anni fa. Fu un mezzo disastro, perché quell’idea era equivoca, si era in pieno boom economico e la scuola veniva piegata a rispondere pedissequamente alle esigenze della “crescita”, dietro la facciata della democratizzazione e della promozione sociale; ma almeno testimoniava una consapevolezza del mutare dei tempi e una sia pure confusa volontà di affrontare il problema. I continui aggiustamenti venuti dopo non hanno fatto che accelerare la deriva: si sono persi completamente di vista la realtà scolastica e lo spirito che dovrebbe informarla.

Mi importava però capire se di quella consapevolezza rimane qualche traccia negli odierni programmi elettorali. Li ho dunque sfogliati e confrontati, limitandomi ovviamente a quelli dei partiti o dei raggruppamenti percentualmente più significativi, almeno a dar retta ai sondaggi. Ho trovato quello che era prevedibile, ovvero il nulla, ma cucinato in salse diverse. Ne do schematicamente conto qui di seguito, a beneficio di altri improbabili pignoleschi esegeti della letteratura propagandistica. Potranno tranquillamente risparmiarsi la fatica e la noia.

Nota tecnica. Nella disamina procedo in senso orario, a partire dalla estrema sinistra, come da rappresentazione classica dei posizionamenti parlamentari. La collocazione sui lati o al centro non è esattamente quella rivendicata dai diversi schieramenti, ma quella che io percepisco.

Alleanza Verdi-Sinistra. Il documento consta di 38 pagine. Si apre con un’ampia dichiarazione d’intenti, poi passa alla “politica verde” (si a rinnovabili, no a nucleare e trivelle; incentivi per la coltivazione della canapa, ecc…) ai diritti civili (cittadinanza femminile), al fisco, alla biodiversità, alla protezione degli animali (riduzione dell’aliquota IVA su cibo per animali e prestazioni veterinarie, oggi soggetti a tassazione come “beni di lusso”), alle migrazioni e all’accoglienza. Metà del testo è dedicata alle recriminazioni rispetto alle politiche dei famigerati governi di Draghi e di Renzi. Curiosamente non viene mai citato il doppio mandato di Conte.

La scuola arriva solo a pagina 22, e occupa tre pagine. Si parte bene: “Occorre ribaltare la funzione prevalentemente produttivistica del sapere, nel linguaggio come nella sostanza; una logica aziendalista nella gestione, una quantificazione esecutiva nelle metodologie, un prevalente economicismo nelle finalizzazioni”. Ma poi non viene chiarito in che direzione dovrebbe andare il ribaltamento, se non affermando che “La formazione e la ricerca, la loro libertà, la qualità e le finalità che le orientano sono una grande questione democratica. Sono, anzi, componente essenziale delle democrazie”. Infatti. Ma allora occorre spiegare a cosa si sta pensando quando si scrive che “È necessario far sì che la scuola torni a essere un vettore di mobilità sociale e non che certifichi, cristallizzi o addirittura moltiplichi le disuguaglianze in essere”. Quello di “mobilità sociale” è un concetto che si presta a interpretazioni ambigue: ciò che qui si intende è chiaro, ma rischia di degradare la scuola a veicolo per il successo. Se questo è il tipo di riscatto inteso dalla sinistra-sinistra (odio questa auto-rappresentazione presuntuosa, mi ricorda l’uso di sapiens sapiens per indicare un livello più alto dell’evoluzione), temo che abbiamo sempre parlato lingue diverse.

Non va meglio quando si passa dai propositi alle proposte. La “riduzione a un massimo di 15 alunni per classe e il recupero di spazi pubblici per le nuove aule” sono più che condivisibili, così come “l’estensione del tempo scuola (tempo pieno e tempo prolungato, a seconda dei diversi ordini di scuola) in tutte le scuole del territorio nazionale”. Tutte bellissime cose. Non fosse che per applicarle sarebbe necessario disporre di un organico ad occhio e croce almeno doppio rispetto a quello attuale, e il problema non si risolverebbe “assumendo un numero molto più ampio di docenti a tempo indeterminato,” e meno che mai “stabilizzando coloro che insegnano precariamente da più tempo”. L’uno e l’altro provvedimento inciderebbero solo in senso quantitativo (e comunque, quanti insegnanti si potrebbero assumere, se già oggi si fatica a reperirli anche andando a raschiare il fondo delle graduatorie?), mentre il problema è di ordine qualitativo. Le assunzioni indiscriminate di docenti che “insegnavano precariamente da più tempo” sono già state fatte, anche recentemente, col governo Renzi: il risultato è stata l’immissione in ruolo di un sacco di gente che vantava requisiti di anzianità anziché di competenza. La distorsione ottica della sinistra riemerge sempre: la “mission” della scuola non è quella di creare posti di lavoro, ma di educare persone e cittadini responsabili.

Assenze 02a

Insieme per un’Italia democratica e progressista. (Ma “insieme” a chi?) Il programma del PD occupa 35 pagine fitte fitte, suddivise in quarantaquattro schede tematiche. Undici di queste pagine sono dedicate a un preambolo e a una “Cornice” che incorniciano davvero di tutto, dall’Europa alle amministrazioni comunali. Il tono è decisamente volitivo (Vogliamo proteggere, vogliamo riaffermare, vogliamo approvare, vogliamo impedire, ecc). Quando è assertivo non si scosta dalle formule rituali (Due devono essere i protagonisti del rilancio del Paese: le donne e i giovani).

In compenso la scuola arriva solo a pag 22 (come sopra) e occupa una paginetta scarsa. “La nostra proposta sulla scuola come motore del Paese parte da qui (era ora). Vogliamo rimettere al centro la scuola e restituire al mestiere dell’insegnante la dignità e centralità che merita, garantendo una formazione adeguata e continua e allineando, entro i prossimi cinque anni, gli stipendi alla media europea”. Quindi, la dignità e la centralità dell’insegnante si garantisce con la formazione continua. Altra ricetta magica, e segreta e vaga come quelle della perbureira e della lotta all’evasione fiscale. Ora, chi come il sottoscritto ha lavorato nella scuola per oltre quattro decenni sa benissimo a cosa si riduce la formazione continua: quando va bene vengono fornite due nozioni basilari per l’uso di nuove tecnologie, che diventano obsolete nel giro di un paio d’anni e che i docenti davvero motivati acquisiscono in genere per conto proprio, con largo anticipo sulle tardive proposte ministeriali: quando va male, piovono mappazzoni propinati da pedagogisti, psicologi, sociologi, di tutto esperti tranne che di pratica didattica, che spiegano come ci si rapporta con gli allievi problematici: in sostanza assecondandone tutte le ribalderie e le furbate, loro e dei loro genitori. A meno che non rientrino tacitamente negli intenti degli estensori anche i corsi di difesa personale contro le aggressioni. In mancanza di questi ultimi, si compensa con l’adeguamento degli stipendi.

A non essere mai presa in considerazione è l’idea che la dignità al loro “mestiere” gli insegnanti veri, quelli che hanno i requisiti per essere davvero tali, sono in grado di restituirla da soli, purché si consenta loro di farlo. E questo non dipende dall’entità dello stipendio (che sarà pure da fame, ma non diversamente da quelli di tutti gli altri dipendenti), quanto piuttosto dal fatto che ad un aumento esponenziale delle loro responsabilità non didattiche (devono farsi carico anche di quelle un tempo demandate a una varietà di agenzie educative, la famiglia, la chiesa, ecc…) ha corrisposto la graduale spoliazione di ogni strumento di correzione e di controllo. In un clima ambientale normale l’autorevolezza fa a meno dell’autorità, ma chi opera oggi nella scuola sa benissimo che il clima non è affatto normale, sia per la diseducazione dei giovani coi quali ci si confronta, sia per le interferenze incrociate dall’interno e dall’esterno dell’istituzione. Insomma, se in Inghilterra alcune scuole private sono arrivate al punto di reintrodurre le punizioni corporali (a quanto pare incontrando il gradimento dell’utenza parentale, che si è tradotto in un notevole aumento delle iscrizioni) un motivo ci sarà.

Di questi problemi (non delle eventuali punizioni corporali, ma nemmeno del disagio profondo da impotenza vissuto dai docenti), nel documento non si fa minimamente cenno. Si va giù invece con le proposte e le promesse, da quelle sensate ma economicamente insostenibili (l’accesso universale e gratuito di bambine e bambini alle mense scolastiche, l’aumento dei docenti di ruolo di sostegno per affiancare nel percorso scolastico tutte le persone con disabilità, l’estensione del tempo pieno, con particolare attenzione al Sud – dove peraltro sarebbe già un successo realizzare il tempo ordinario), a quelle decisamente peregrine (Fondo nazionale per i viaggi-studio, le gite scolastiche, il tempo libero nel doposcuola e l’acquisto di attrezzature sportive e strumenti musicali), per arrivare al rilancio del vecchio sogno del ministro Berlinguer – un computer su ogni banco, quando i banchi mancavano – (permettere l’acquisto di un computer a tutti gli studenti delle scuole (medie e superiori) e delle Università). Dimenticando che durante due anni di scuola a distanza tutti gli alunni hanno già operato attraverso il computer, il che fa presumere che ne siano già in possesso.

Applicando il modello veltroniano di infausta memoria (così, ma anche …) dopo il colpo al cerchio viene quello alla botte. La scuola digitale strizza l’occhio al vecchio mondo cartaceo e si rispolverano antichi menù. «Occorre rafforzare il “Piano nazionale per la promozione della lettura”, favorendo virtuose sinergie tra reti di scuole, biblioteche, archivi e luoghi della cultura». Ho partecipato ad un progetto analogo nel 2000, lanciato con grandi squilli di fanfare e abortito dopo neanche un anno nella più totale indifferenza (cfr. La gran crollo del muro di carta). Per l’occasione è stato ripreso letteralmente perfino il refrain: favorendo virtuose sinergie, ecc…. Nel frattempo, con le restrizioni da Covid che sembrano essere rimaste in piedi solo per le biblioteche, le sinergie da virtuose che erano sono diventate addirittura frigide. Provate a frequentare una biblioteca oggi: nemmeno Fort Knox è così blindato.

Il resto è ancora peggio. Si annaspa a vanvera per insaporire cibi già scaduti da un pezzo o scongelati momentaneamente ad ogni tornata elettorale (far ripartire i “Giochi della Gioventù”, favorire l’utilizzo delle palestre scolastiche in orario extra-curricolare o quando le scuole sono chiuse).

Insomma per tagliar corto: poiché “conoscere è potere”, “via a un piano da 10 miliardi con aumento degli stipendi agli insegnanti, edilizia scolastica sostenibile, libri, mense e trasporti pubblici gratis per gli studenti con redditi medi e bassi”. I dieci miliardi, sempre ammesso che poi si trovino, non basterebbero nemmeno per mettere a norma gli edifici esistenti, e dubito comunque che quel tipo di interventi, se non agganciati ad una idea di ciò che la scuola deve essere e rappresentare, sposterebbero di una virgola il problema.

Assenze 03a

Azione-Italia viva. Il movimento creato dalla strana coppia Calenda-Renzi distende il proprio programma addirittura su 68 pagine e lo suddivide in venti punti. Anche in questo caso, neanche a farlo apposta, la parte relativa alla scuola arriva a pagina 22. È il solo punto in comune coi due programmi precedenti: per il resto, le priorità sono decisamente diverse.

Si va subito al sodo. “1. A scuola fino a 18 anni e tempo pieno per tutti. Proponiamo un riordino complessivo dei cicli scolastici ed in particolare: portare l’obbligo scolastico da 16 a 18 anni, al termine del percorso di scuola superiore. Rivedere i cicli scolastici a parità di tempo scuola frequentato: da 13 a 12 anni, con termine delle superiori a 18 anni e anticipo dell’ingresso dei giovani all’università e nel mondo del lavoro, allineandoci agli standard europei.” Se ho capito bene, si tratta di ridurre a quattro i cinque attuali anni di frequenza delle superiori, aumentando di un quarto il monte ore di ciascun anno. Spalmare questo monte ore sui sette precedenti non avrebbe infatti alcun senso (e non sarebbe fattibile). Ora, se lo scopo ultimo della scuola fosse certificare la frequentazione per un certo periodo delle aule e dei banchi, potrebbe andare benissimo. Se invece la sua funzione è leggermente meno prosaica, Calenda ha fatto i conti con i fagioli. Non è necessario un computer per arrivarci. Attualmente il monte-giorni minimo di frequenza è di duecento l’anno, distribuiti su circa nove mesi. Aggiungerne cinquanta significa portare il monte a duecentocinquanta giorni frequentati, pari a 50 settimane “corte” (sette ore per cinque giorni), ai quali ne vanno sommati altri 100 di fine settimana, più 8 (o 9) di festività infrasettimanali religiose o civili. Il totale dà 358 giorni, che ne lasciano liberi ben 7, comprensivi però degli attuali giorni di vacanza agganciati alle feste natalizie e alla Pasqua. Una pacchia.

Distribuire invece le ore in più sugli orari esistenti sarebbe altrettanto demenziale, dal momento che già adesso, con la scelta scellerata del sabato libero compiuta dalla quasi totalità degli istituti, gli allievi frequentano di norma per sette ore al giorno. E anche ripristinando la settimana di sei giorni, le sei ore quotidiane diverrebbero sette. Il sistema non reggerebbe nemmeno considerando definitivamente la scuola come un parcheggio.

Il problema vero è però un altro. Sta nel fatto che a nessuno sembra passare per l’anticamera del cervello la necessità di considerare l’efficacia della didattica in certe condizioni. Ragazzi che hanno soglie di attenzione più brevi di uno spot televisivo sono già refrattari ad assimilare qualsiasi conoscenza dopo un paio d’ore, figuriamoci dopo cinque o sei. Ed eventuali rientri pomeridiani, con tempo pieno alla svedese o alla danese, al di là dei problemi logistici che creerebbero, se anche fossero accettati dagli studenti (cosa impensabile, non si concilierebbe con i vari impegni extrascolastici, sportivi o di qualsivoglia altro genere, cui sono avviati sin dall’infanzia) potrebbero essere dedicati solo allo studio o a eseguire gli esercizi assegnati, attività che oggi svolgono tra le mura domestiche, e non ad un ulteriore aggravio didattico.

Si prosegue poi con “2. Sistema nazionale di valutazione. Va ripreso il percorso interrotto dai governi Conte, perché non può esserci autonomia senza valutazione. E solo un sistema nazionale di valutazione efficace può consentire di individuare le aree su cui è necessario migliorare”. È molto significativo dell’idea di scuola che sta a monte. Valutazione efficace significa in questo caso essenzialmente valutazione dell’efficacia. Ma quali sono i parametri? Le prove Ocse, che nella loro “oggettività” ci piazzano regolarmente agli ultimi posti in ogni graduatoria, ma sono poi smentite ad esempio dai successi all’estero dei nostri ricercatori; il numero di allievi che arrivano al diploma, che è troppo basso, o quello dei promossi alla maturità, che è troppo alto? E una volta fatte le valutazioni, come si interviene? La valutazione presenta un sacco di ambiguità, già nella concezione, che preconizza un clima concorrenziale da libero mercato in uno spazio in cui il mercato non dovrebbe entrare affatto, ma anche nell’ambito di quella stessa visione, nei modi in cui applicarla. Ad esempio: migliorare come? Elargendo più finanziamenti a chi è indietro? In questo caso si arriverebbe al paradosso di premiare le scuole che funzionano peggio.

Gli altri otto punti non meritano commenti. Sono proposte già sentite, che ricorrono ritualmente in tutte le dichiarazioni di intenti relative alla scuola, ma reinterpretate con un occhio di riguardo sempre all’efficienza “produttiva”.

Un’ultima considerazione. Come tutto il resto del documento, la sezione dedicata alla scuola tende decisamente alla prolissità. Il che è anche comprensibile, dal momento che Azione si presenta come la “novità” che viene a scuotere la politica, e deve costruirsi una identità. Quella che vien fuori di qui è però sostanzialmente una identità per l’appunto solo “prolissa”.

Movimento Cinque Stelle. I grillini – ormai dovremmo dire i contiani – hanno scelto una modalità comunicativa più articolata. Esistono due versioni del programma, quella completa (250 pagine, in formato slide) e quella breve (13 pagine). Nella sostanza la prima non dice molto di più della seconda. Anzi, in quella breve nell’intestazione di ogni pagina campeggia lo slogan Cuore e Coraggio per l’Italia di domani, mentre a piede di pagina viene ribadito Capo della forza politica Giuseppe Conte. È un abstract elettorale, ma serve giusto anche a chiarire i ruoli recentemente ridefiniti.

Va da sé che della versione completa ho letto solo la parte concernente la scuola (6 pagine). Mi ha colpito il fatto che dopo le solite proposte rituali e un azzardo quasi originale (“Scuola dei mestieri. Spingere affinché le aziende dei medesimi settori si mettano in rete e creino le scuole dei mestieri, con l’obiettivo di incentivare i giovani a sviluppare l’expertise artigianale e a mantenere il savoir-faire tradizionale”), venisse un capitoletto dal titolo: “Strategia per la Cultura”.

L’esordio era promettente: “Risulta fondamentale un nuovo umanesimo che ponga il benessere dell’Uomo e del pianeta al centro di ogni politica. Ciò presuppone che accanto alla transizione ecologica e digitale si sviluppi di pari passo una transizione culturale che ci indichi la strada per un nuovo modo di co-abitare il pianeta e affrontare pacificamente i cambiamenti”.

E subito sotto: “La cultura è dunque politica laddove è la politica a immaginare un futuro, forte della conoscenza del passato, la cui eredità va protetta, conservata e trasmessa alle generazioni future”.

Sino ad arrivare a: “Proponiamo, accanto allo sviluppo di capacità legate al problem solving e ai meccanismi di ricerca, una maggiore attenzione per l’insegnamento della lingua italiana, della storia e della geografia anche come elementi che favoriscono la coesione e l’integrazione sociale”.

Mi sono detto: “Alè, ci siamo”: ma l’allerta è rientrata subito. Intanto non ho trovato una volta, nelle cinque paginette dedicate, il sostantivo responsabilità, l’aggettivo responsabile e il verbo responsabilizzare (né nella forma transitiva né in quella forma riflessiva). Poi mi sono reso conto che al dunque le strategie diventano quelle virtuali del Risiko. “È importante istituire una dote educativa in sinergia con i patti di comunità educanti (!?) Le comunità educanti possono diventare una misura strutturale di contrasto alla povertà educativa e culturale, con esperienze dirette di outdoor, con le discipline sportive, le competenze artistico-creative, educazione civica e professionale”. Ah, ecco, volevo ben dire. Ma non basta: “Occorre creare equipe di psicologi, educatori e pedagogisti a scuola che, dismettendo la loro funzione in modalità sportello, diventino figure strutturali a supporto della comunità scolastica”. Mancano i docenti e i bidelli, oltre che gli spazi, ma potremo sempre ovviare con le equipe di psicologi. “Proponiamo il potenziamento del tempo pieno (5 giorni la settimana) su tutto il territorio nazionale, con un investimento che ampli l’offerta pomeridiana e di mense, affiancando ciò ad un adeguato programma di educazione ad una corretta alimentazione”. Lì ti volevo, si va verso le mense vegane.

Ora, tutto questo e altro che non sto a riportare rientra piuttosto nelle soluzioni tattiche che non nel disegno strategico. E la strategia? Vola molto più alto. «La “Strategia per la Cultura” del M5S “ si articola lungo tre pilastri che attraversano tre grandi questioni quali la sostenibilità, il contrasto, la mitigazione e l’adattamento all’impatto dei cambiamenti climatici sul paesaggio e sui beni culturali; le competenze, le infrastrutture sociali, digitali e le risorse umane necessarie per consentire a tutti i territori di valorizzare e gestire il patrimonio culturale in chiave sostenibile e con l’obiettivo di generare benessere sociale ed economico; le tutele per i lavoratori e la valorizzazione delle nuove professioni culturali e creative legate alle competenze digitali, tecnologiche e ambientali».

Col che tanti saluti al recupero delle competenze “tradizionali” e delle modalità tradizionali della loro trasmissione. Infatti: “Incentivare le case editrici a realizzare versioni digitali dei testi necessari allo studio e alla formazione e fornire agli istituti i formati eBook dei testi scolastici ed universitari attraverso la formula del prestito digitale. Bisognerebbe concedere un contributo ad ogni studente per l’acquisto di dispositivi e-reader”. Non so cosa sia l’e-reader, ma so che non mi piace.

Nell’insieme, questa parte del programma non sembra essere stata molto curata. Forse dipende dal rapporto conflittuale che sin dall’inizio i pentastellati hanno avuto con l’istruzione e la cultura in genere, avvertiti come strumenti subdoli del dominio e della mistificazione. Non a caso quelli che nel frattempo hanno “studiato”, sia pure con esiti tutti da verificare (vedi Di Maio), sono stati bollati come corpi estranei ed allontanati.

L’attenzione per la scuola è comunque una novità in assoluto. Nel programma elettorale del 2018, quando capo del movimento figurava lo stesso Di Maio, questa voce proprio non c’era, non compariva in alcuna delle quarantotto pagine, tutte dedicate alla difesa, all’immigrazione, alla sicurezza, alla giustizia e allo smantellamento della troika. Un confronto tra i due testi sarebbe interessante (lo lascio fare ad altri), ma per quel che riguarda lo specifico del mio assunto manca del tutto la materia con cui confrontarsi.

Assenze 04

Centro Destra. Il testo di “Per l’Italia –Accordo quadro di programma per un Governo di centrodestra” è il più stringato in assoluto. Trattandosi di un documento comune, stilato da tre forze politiche tenute assieme solo dalla convenienza elettorale, è normale che rimanga molto sul generico, senza dare troppe spiegazioni. In 15 pagine sono sviluppati in maniera telegrafica, sotto forma di slides, quindici punti.

Scuola, università e ricerca arrivano al quattordicesimo, e vedono in mezzo alle consuete litanie (formazione e aggiornamento dei docenti, ammodernamento e nuove realizzazioni di edilizia scolastica, eliminazione del precariato, ecc…) un paio di proposte che danno il tocco caratterizzante, ci avvertono che stiamo camminando in territorio di Destra.

Si parla infatti di “Rivedere in senso meritocratico e professionalizzante il percorso scolastico” (sul come siamo lasciati nell’incertezza) e di “Valorizzare e promuovere le scuole tecniche professionali volte all’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro”.

Tutto qui. Per saperne qualcosa di più ho dovuto rivolgermi direttamente ai programmi dei singoli partiti facenti parte della coalizione.

Il programma di Fratelli d’Italia ha un titolo che la dice lunga sulle aspettative di chi è alla guida del partito. Un bel Pronti fa da didascalia ad un accattivante primo piano della Meloni. Sono 40 pagine, piuttosto sobrie, per non dire generiche (ma un codice qr rimanda per ciascun tema agli Approfondimenti), due delle quali sono dedicate a scuola e università. Una particolarità: nel testo, fatta eccezione per il preambolo, non vengono usati i verbi, o vengono coniugati solo all’infinito. Sembra un manifesto futurista: concretezza e velocità.

Molta concretezza. “La scuola prepara il futuro di una Nazione, l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani, la crescita economica e la consapevolezza di essere cittadini e parte di una comunità.” L’ordine in cui sono esposte le finalità della scuola parla da solo.

Poi si va nello specifico, almeno per quel che concerne le linee guida. “Rimettere il merito al centro del sistema scolastico e universitario, per alunni e corpo docente”. Di per sé è un’idea che andrebbe riconsiderata, ma esposta così ricorda i toni di certi slogan scritti in nero che campeggiavano sui muri quasi un secolo fa (e che ogni tanto riemergono dagli intonaci scrostati).

Valorizzazione degli Istituti tecnici e riforma dei Percorsi trasversali per le competenze e l’orientamento (Pcto). Ripristinare gli indirizzi di studio abilitanti al lavoro. Istituzione del liceo del Made in Italy.” Un po’ di praticità, perdio. Meno filosofia, più competenze artigianali.

Raggiungimento dell’obiettivo della piena padronanza della lingua inglese per tutti gli studenti”. Quella dell’italiano è probabilmente data per scontata, visto che non se ne parla. O forse per obsoleta. Il che in realtà mal si concilia con la vocazione “nazionalista” del movimento.

Verificare la praticabilità di ridurre di un anno il percorso di studio scolastico, a parità di monte ore totale, per consentire ai giovani italiani di diplomarsi a 17-18 anni.” Ci risiamo. E per che fare dopo?

Acquisto e utilizzo dei libri di testo in formato elettronico per diminuire il costo sostenuto dalle famiglie”. La famiglia è giustamente il terzo valore della famosa triade (la più citata negli slogan di cui sopra) e va coinvolta con un occhio di riguardo. Per questo il programma di Fratelli d’Italia si apre proprio col “Sostegno alla natalità e alla famiglia”, e per questo tra i principi da affermare nella scuola è importante includere “che la formazione si svolge principalmente in aula e che i compiti a casa devono essere gestiti con misura e buonsenso”.

Sottolineo una dimenticanza strana, o che almeno mi è parsa tale per un partito che del passato vorrebbe nutrirsi. Manca qualsiasi riferimento all’insegnamento della storia. Ma forse non è una stranezza. La crescita recente di questo partito può spiegarsi proprio con l’ignoranza, o meglio ancora col rifiuto, della storia. In compenso si promette “Più sport nelle scuole, con nuovi impianti, piscine e palestre”. Altro che Giochi della Gioventù: tornano i Littoriali.

Bisogna ammettere che la Lega non ha badato a spese. Presenta un programma di 200 pagine, sia pure piuttosto smilze, nel quale l’Istruzione arriva a pagina 108 (e occupa tre paginette).

Il nostro programma per la scuola prevede cinque interventi fondamentali: • sviluppare gli istituti professionali come scuole di alta specializzazione; • conciliare inclusione e valutazione studenti; • prevenzione sanitaria, mai più didattica a distanza; • garantire specializzazione sostegno; • superare il precariato, coprire carenza personale docente e Ata, adeguare gli stipendi.”

Queste cose più o meno le abbiamo già viste tutte altrove, magari complete di articoli e preposizioni. Più caratterizzanti sono invece altre proposte. Ad esempio: “Riorganizzare il curricolo di studi dell’istruzione tecnica e professionale potenziando laboratori e prevedendo un’area territoriale, che consenta di adattare il percorso di studi alle esigenze del contesto territoriale e delle filiere produttive che lo caratterizzano”. Vale a dire, se vivi in un territorio che produce patate sarà bene che la scuola ti insegni in primo luogo a produrre patate.

Oppure: “Inserire l’educazione finanziaria in tutto il sistema di istruzione e formazione”. Ovvero: anche il produttore di patate che ha imparato a lavorare bene ed è entrato nella filiera deve poter allargare i suoi orizzonti, diventare trader di se stesso e azzardare qualche speculazione (se poi andrà male, ci penserà lo stato a rimborsarlo). O tenere in proprio la contabilità aziendale e fiscale, realizzando a livello individuale quel massimo di autonomia che a livello istituzionale rimane un sogno nel cassetto. L’emancipazione economica come finalità priorità.

Da notare che nei paragrafi meno “dedicati” tornano i modi verbali: o meglio, tornano soprattutto l’indicativo e il gerundio, perché il congiuntivo è usato con estrema parsimonia (è scivoloso) e il condizionale proprio non è previsto.

Il programma di Forza Italia (36 pagine, senza indice) esordisce giustamente coi temi del fisco (Per una seria riforma fiscale) e della giustizia (Per una giustizia imparziale). Prima di tutto sistemiamo le grane di casa. Della scuola si occupa alle pagine 18 e 19, con proposte perfettamente in linea con la visione del mondo che rappresenta.

  • Campus di scuole secondarie superiori con laboratori scientifici, centri sportivi.
  • libertà di scelta delle famiglie attraverso il buono scuola.
  • Formazione di una nuova generazione di docenti (più tutor e più coach).
  • Introduzione del coding e della didattica digitale, con copertura con la banda larga.
  • Più formazione professionale (sistema duale) e più tecnologi del futuro.
  • Istituzione della figura dello psicologo scolastico e dello psicologo per l’assistenza primaria.
  • Introduzione nel programma scolastico di un’ora curricolare di educazione emotiva utile per avere un confronto con i genitori non solo sulla didattica ma anche sulla personalità degli alunni
  • Potenziamento dell’Orientamento dei giovani in età scolare con particolare attenzione all’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

Questo si chiama parlare chiaro. Dritti alla sostanza, scompare anche l’infinito verbale. Altro che storia e geografia e filosofia. Formazione professionale, orientamento calibrato sulla domanda-offerta, didattica digitale, meno docenti e più tutor, coach e psicologi, tecnologi. Persino l’educazione emotiva, per controllare e indirizzare produttivamente anche le emozioni. Oggettivamente, gli estensori di questo programma non si sono sprecati granché. E hanno fatto bene, perché erano consapevoli del fatto che nessuno si sarebbe mai preso la briga di andare a leggerlo (non avevano previsto il sottoscritto, ma io costituisco un’anomalia). Gli elettori di Forza Italia il programma lo scaricano quotidianamente, da una batteria di canali televisivi che nemmeno più fingono un salto tra gli spot commerciali diffusi e lo spottone esistenziale continuativo (e di questo va reso loro merito. Bando all’ipocrisia).

Assenze 05 1

Ormai lanciato, volevo dare un’occhiata anche alle schegge impazzite della destra, e non ho trovato di meglio che il programma di ITALEXIT. Devo ammettere che é frutto di uno sforzo intellettuale notevole (122 pagine, delle quali cinque riservate alla scuola), reso ancora più meritorio dalla evidentemente scarsa dimestichezza dell’estensore o degli estensori con la grammatica e la sintassi. Al di là di questo, però (lo so che non è un particolare di scarso rilievo, ma da un movimento no vax, no green pass, no Europa, no OMS, no Ucraina, ecc. ti devi anche aspettare il no alle concordanze dei generi e dei numeri e quello alla costruzione sensata dei periodi), è l’unico programma nel quale venga adombrata una certa idea del ruolo della scuola. Non dà le risposte che darei io, anzi, non ne dà proprio, ma almeno pone le domande.

Dice infatti: “Un punto critico riguarda il fatto che la scuola deve preparare i ragazzi per una società in cui vivranno in futuro, senza sapere esattamente come evolverà la società. Ciò pone un primo grande dilemma, con ricadute importantissime sulla stessa organizzazione concreta dei curricoli, delle materie da insegnare, di quali competenze sviluppare, delle metodologie innovative da introdurre”. Il che sostanzialmente è vero. Ma allora occorre riflettere sull’importanza di una linea di continuità culturale, di un filo d’Arianna che consenta di procedere in avanti ma anche eventualmente di tornare indietro quando la direzione imboccata risulti un vicolo cieco.

È quanto il programma del movimento creato da Paragone sembra perseguire nella pars destruens: “Riteniamo indispensabile rivedere gli aspetti normativi delle riforme scolastiche: Berlinguer, Moratti, Gelmini e legge107 di Renzi, che hanno impresso una dimensione aziendalistica e dirigistica, determinando la diffusione di una cultura solipsistica e sempre più performativa, con la progressiva disumanizzazione degli operatori dell’istruzione e dei loro stessi utenti finali. Ripristino delle materie di studio funzionali al percorso formativo che sono state tolte o ridotte nell’orario”.

E ancora: “Non siamo d’accordo con l’uso sempre più pervasivo della tecnologia digitale, che riduce la relazione nella dimensione fisico-corporea, fondamentale per le persone in crescita e rischia di favorire disturbi da iperconnessione che colpiscono i giovanissimi, ai (?) rischi del ritiro sociale, al senso di insicurezza fino agli attacchi di panico.(sic) Vogliamo ridurre l’inutile e ridondante burocrazia (Ptof, Pdp, Clil, Rav) che hanno (sic) standardizzato e spersonalizzato la funzione docente”. (copyright Cinquestelle)

Oppure: “I sistemi valutativi basati su quesiti a risposta multipla allenano solo la capacità di risolvere quesiti di questo tipo e insinuano il pericoloso concetto che per ogni situazione vi sia sempre e solo un limitato numero di opzioni e una sola risposta semplice ed esatta, che rappresentano solo meri adempimenti burocratici”.

Quella construens parte bene: “Va ricostruito un clima scolastico serio e propositivo, va tutelata la figura dell’insegnante, vanno migliorati i programmi sia in direzione di un recupero della nostra cultura umanistica e civica. (? sic) […]. Bambini e bambine, ragazzi e ragazze si trovano a essere posti di fronte a scelte importanti, difficili e a volte controverse eticamente. Essi devono, perciò, essere aiutati a individuare un’etica che serva come bussola durante le loro vite, come esseri umani, cittadini, elettori, lavoratori. ) […] I bambini e i ragazzi devono poter sviluppare la capacità di diventare consapevoli dei problemi, delle contraddizioni e delle manipolazioni: costruire, cioè, uno sguardo avvertito e critico sul mondo”.

Ma poi si ferma lì. Il ghostwriter che ha scritto queste cose non se l’è sentita di specificare quali siano le materie di studio formative eliminate dagli orari, di azzardare un’ipotesi di “conservazione intelligente”: il committente, Paragone, probabilmente non lo sa nemmeno. Nel suo caso quelle materie sembrano non essere servite a molto.

Assenze 06 1

Bene, questo è il panorama. Il bilancio complessivo è quello di una sconfortante povertà di idee, anche spicciole, dell’assoluta mancanza di una visione realistica della scuola e, peccato originale, dell’incapacità di concepire la cultura come valore a sé, come promozione individuale non finalizzata, di autocoscienza, di autoresponsabilizzazione. Chi volesse maggiori dettagli può andarseli a cercare. Nella rete c’è tutto. E non credo di dover aggiungere altri commenti. Come intendo io la scuola l’ho già ripetuto e spiegato in più occasioni (in particolare cfr. Sul futuro delle nostre scuole, La scuola al tempo della crisi, Una modesta proposta, Il supplente nella neve).

Si è rivelata comunque un’indagine pericolosa, nel senso almeno che rischio perla prima volta di non andare a votare. Se dicessi che è stata anche divertente mentirei, ma interessante si, lo è stata: per arginare la noia delle identiche formulette che si ripetevano ho cercato di leggere il più possibile tra le righe. Ne è venuto fuori un romanzo dell’orrore, il quadro inquietante della più verosimile delle distopie, e della più prossima.

Ci siamo già dentro.

Il giovane Orwell (1° parte)

di Paolo Repetto, 3 luglio 2022

Il giovane Orwell copertinaAvvertenza 2022. Avevo iniziato a scrivere questo mini-saggio circa un anno fa, prima di essere dirottato in un fastidiosissimo tunnel sanitario che si sta rivelando interminabile. All’epoca mi erano chiari gli argomenti da trattare e la modalità nella quale intendevo svilupparli, ma una volta entrato nel balletto delle terapie, delle mezze guarigioni e delle ricadute non ho più trovato la concentrazione per tornarci su e soprattutto la motivazione per portare a termine il mio proposito. È incredibile quanto il crollo della confidenza col tuo stato fisico possa mutare drasticamente l’ordine delle priorità.

Riprendendo oggi in mano, grazie ad una pausa che spero definitiva, le pagine cui avevo già dato una certa sistemazione, mi sembra che in fondo una loro autonomia queste arrivino ad averla, e che il postarle, magari anche solo come bozza di un lavoro destinato ad essere ampliato ed approfondito, possa mettermi in una condizione di debito col lettore: debito al quale, per carattere, sarò poi stimolato ad ottemperare.

Non intendo farla diventare un’abitudine (è vero: ci sono già sul sito altri lavori sospesi): semplicemente, è l’unica proposta che oggi sono in grado di fare.

Quando penso all’antichità, il particolare che più mi spaventa è che quelle centinaia di milioni di schiavi sulle cui schiene poggiò la civiltà, una generazione dopo l’altra, non hanno lasciato di sé traccia alcuna. Non ne conosciamo nemmeno i nomi.
In tutta la storia greca e romana, quanti nomi di schiavi conoscete? Io non so citarne che due o al massimo tre. (George Orwell)

Premessa 2021

Sto rileggendo Nel ventre della balena, di George Orwell, e mi chiedo se la maggior parte delle idee e delle convinzioni che ho l’impressione di portarmi dietro da sempre non arrivino in realtà direttamente da queste pagine. È come le avessi apprese tantissimo tempo fa, e non solo, ma assimilate in vena, fatte mie fino a dimenticarne la provenienza e a riscriverle alla mia maniera. Al tempo stesso però continuo a dubitare di averli già letti tutti, questi saggi, perché di alcuni proprio non ho ricordo, e nemmeno ne trovo traccia quando vado a consultare le vecchie agende nelle quali fino al Duemila, per trent’anni, ho tenuto un diario delle letture.

Non è la prima volta che capita: d’altro canto, alla mia età la smemoratezza è da mettere in conto, e andrà sempre peggio. Solo che mentre in genere riesco poi a rintracciare le fonti dei “deja vu”, scoprendo pagine sottolineate in libri che da decenni avevo dimenticato persino di possedere, in questo caso ho l’impressione che la cosa sia un po’ più complessa, che la consonanza che avverto con l’autore abbia un’altra origine.

Il dubbio si è insinuato già a partire dal piccolo excursus autobiografico che apre la raccolta, intitolato Giorni Felici. Al di là delle ovvie differenze che corrono tra chi cresce in epoche e ambienti totalmente diversi, ho rivissuto attraverso Orwell l’intera gamma delle mie esperienze infantili e adolescenziali, soprattutto di quelle scolastiche, le positive e più ancora le negative. Le sintonie che ho riscontrato non potevano essere frutto solo di una precedente lettura, stavano a monte. Certe emozioni, certe rabbie, aspettative e delusioni già le conoscevo, e mi ci riconoscevo, ben prima di sentirmele raccontare.

È quindi ora che mi chiarisca un po’ le idee, anche per pagare ad Orwell il giusto tributo.

Tributare un Omaggio ad Orwell non significa azzardarne una biografia, come invece ho fatto con altri, sia pure a mio modo. Per più ragioni. Intanto Orwell aveva dettato, tra le sue ultime volontà, “desidero che dopo la mia morte non mi vengano dedicate funzioni commemorative e che di me non sia scritta alcuna biografia”. Le volontà come al solito non sono state rispettate, gli sono stati dedicati un profluvio di studi critici e biografici, oggi è persino protagonista di una grafic novel, per cui è molto noto (anche se questo non significa che sia altrettanto “conosciuto”: è noto, come vedremo, soprattutto per le ragioni sbagliate). Nemmeno intendo poi riassumere o recensire i suoi libri: li do per scontati, penso che tutti dovrebbero averli letti, e quelli che ancora non l’hanno fatto sarà bene si affrettino.

Preferisco invece fare una chiacchierata a ruota libera sul mio particolare rapporto con Orwell, mettere in luce alcuni aspetti particolari della sua vicenda umana e della sua opera (soprattutto della parte più sottovalutata) e sottolineare quei tratti della sua personalità e del suo pensiero che oggi più che mai me lo fanno sentire vicino. Senza trascurare, visto che ne ho l’occasione, di saldare qualche altro debito e di suggerire alcuni possibili apparentamenti. Spero che la cosa non mi prenda la mano, come in realtà accade troppo spesso: ma dovesse succedere, sarebbe un deragliamento annunciato.

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1. La mia conoscenza di Orwell non ha seguito il tracciato canonico, che in genere procede a ritroso, dai capolavori alle opere minori (o si ferma direttamente ai primi). Ho letto Animal farm piuttosto tardi, forse ne ho addirittura visto prima la trasposizione cinematografica a cartoni animati (quella del 1954). È uno di quei libri che dopo un po’ dai per conosciuti, e finisci quindi per scoprirli con enorme ritardo. E neppure di 1984 posso vantare una lettura precoce. È andata pressappoco alla stessa maniera, ho visto prima il film (anche questo del 1954) con Edmond O’Brien nella parte di Winston Smith.

Sono convinto d’altra parte che sia proprio questo il miglior tipo di approccio. Ci sono pagine che messe prematuramente in mano ai ragazzi rischiano di non essere capite, di suscitare un amore o un rifiuto tutti di pancia (ma, soprattutto, di non essere rilette). Conoscendomi, temo che sarebbe andata proprio così. Credo che persino Animal Farm guadagni da una lettura matura e consapevole più di quanto non perda di impatto sull’ immaginario di un ragazzo o di un adolescente. Il discorso vale poi in assoluto per 1984: ho visto troppi studenti abbandonarne la lettura a metà, traditi dall’eccessivo entusiasmo di insegnanti che alle medie non consiglierebbero mai Salgari o Verne. Ora, non nego che da opere particolarmente significative possa essere colto qualche frutto ad ogni età, ma varrebbe la pena lasciare che i frutti fossero maturi.

Ciò che in realtà voglio dire è che i libri (alcuni libri) possono incidere sulla vita in due modi diversi: o perché ti indirizzano, ti indicano un possibile percorso (e questo accade in genere se li leggi nell’adolescenza; ma non solo) o perché ti danno conferme rispetto a percorsi che hai almeno in parte già compiuti (e questo accade, necessariamente, in età più matura). Nel caso del mio rapporto con Orwell la sua opera ha funzionato in entrambe le maniere, ma proprio perché l’ho accostata gradualmente, ogni volta con motivazioni diverse, e ogni volta uscendone diversamente segnato.

Ho frequentato dunque Orwell fin dall’adolescenza, ma per vie traverse. Attorno ai vent’anni conoscevo direttamente (nel senso che li avevo davvero letti) solo Giorni in Birmania, Senza un soldo a Parigi e Londra e, soprattutto, Omaggio alla Catalogna. Col senno di poi posso affermare che i tratti essenziali del carattere e delle idee di Orwell li avevo incontrati già tutti. Devo anche aggiungere che per questa occasione ho rinfrescato la conoscenza, andando a rileggere i libri di cui si parlerà nelle pagine che seguono. Un piacere enorme e una scoperta continua.

Mi ero imbattuto nel primo romanzo seguendo un percorso a zig zag che dal ciclo salgariano della jungla e dai fumetti de Il Cavaliere ideale e de Il Principe del sogno (pubblicati sul L’Intrepido) conduceva ai racconti indiani di Kipling (ma prima ancora agli straordinari film che negli anni cinquanta ne erano stati tratti, come Kim e Gunga Din) e a Lord Jim di Conrad.

L’approdo a Giorni in Birmania ha costituito un bel salto, e soprattutto mi ha impartito una salutare doccia fredda. Il fascino misterioso del paese evocato nel titolo mi aveva spinto a e cercare un supplemento di esotismo, l’anello di congiunzione tra le jungle indiane e quelle malesi: cosa che naturalmente non ho trovato, perché era del tutto estranea agli intenti dell’autore. Ho invece conosciuto l’aspetto più subdolo del colonialismo, forse meno brutale di quello raccontato nei libri sullo schiavismo, ma non meno odioso: quello del degrado morale che infetta tutti coloro che ne sono coinvolti, quale che sia il loro ruolo, passivo o attivo.

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Orwell era un adolescente tutt’altro che sereno, come lui stesso racconta proprio in Giorni felici. Era incline per indole (e certamente anche per il retaggio di una educazione puritana) ai sensi di colpa, e proprio questo lo aveva spinto, dopo il mezzo fallimento negli studi rimediato al college di Eton, a mollare tutto e ad arruolarsi nella polizia coloniale. Non aveva tardato a pentirsene e a maturare un disgusto e un rimorso ancora maggiori per i cinque anni di servizio prestati in Birmania. Il libro che ci svela tutto questo non ha un carattere autobiografico in senso stretto, perché non racconta le vicende vissute dell’autore: ma raffigura impietosamente la protervia presuntuosa e l’avvilente meschinità in mezzo alle quali si è trovato e il crescente disagio da cui si è sentito pervadere. Era la cosa più antieroica che avessi letto sino ad allora: nessuno dei personaggi, coloni o colonizzati che fossero, poteva vantare non dico la statura di un eroe ma nemmeno una dignità morale accettabile. Stranamente però non ne ero rimasto deluso, perché del tutto ingenuo non ero e alcuni tratti di quel volto li avevo già intravvisti persino in Kipling: anche se poi, per capire l’ambiguità del rapporto del poliziotto Blair (ancora non aveva adottato il nom de plume) nei confronti dei colonizzati, ho dovuto attendere la lettura di racconti come Una impiccagione e Sparare all’elefante.

Il giovane Orweell04Orwell è in genere presentato come il contraltare di Kipling; in tutta la sua opera, e non solo in Giorni in Birmania, c’è una indignata condanna del colonialismo e di ogni forma di imperialismo. In tal senso gli autori a lui più prossimi sono senz’altro Multatuli e Conrad (dei quali troverò modo di parlare altrove). Ma al netto delle differenti esperienze – e del fatto che Orwell abbia preso progressivamente le distanze da Kipling, fino a dichiarare senza mezzi termini di odiarlo – sono convinto che i loro atteggiamenti non fossero poi così lontani, se li leggiamo scomodando il parametro del “razzismo”: nel senso che “razzista” non era neppure il secondo, a dispetto delle sue idee sul “fardello dell’uomo bianco”. In fondo, davanti alla cultura indiana Kipling semplicemente sospendeva il giudizio: “Io ho vissuto abbastanza in questa India per sapere che è meglio non sapere nulla, e posso raccontare solo com’è andata[1]. Cosa che puntualmente, ma in termini molto più pessimistici, pensa anche Orwell: per il quale però, a differenza di quanto pensava Kipling, il rapporto coloniale non fa che portare allo scoperto il peggio di entrambe le culture che si confrontano.

Detto in altri termini: Kipling manifestava ammirazione e meraviglia per la cultura indiana, soprattutto per il suo retaggio sapienziale ed esoterico, ma la giudicava poi alla luce dell’evoluzionismo spenceriano. Ovvero, è tutto molto bello, ma è un mondo che non regge il passo dei tempi. Riteneva che quella antichissima civiltà non avesse mai superato lo stadio della stupefazione infantile, ed era convinto che per far uscire le popolazioni indiane dalla condizione di minorità fosse necessario il pungolo duro ma stimolante del dominio inglese. Ma pensava anche che non si può amministrare un paese se non si convive con la sua cultura, le sue tradizioni, le sue religioni, se non si è in grado di parlare con la sua gente. Un esempio limite di questo possibile rapporto lo proponeva nella simbiosi e nel reciproco rispetto tra il giovanissimo Kim e l’anziano lama, nel legame che si crea tra i due, a dispetto delle differenze e, volendo a tutti i costi scorgerla, della “superiorità” del ragazzo anglo-indiano (perché è Kim in fondo a procurare ad entrambi di che vivere e a superare con la sua scaltrezza e la sua conoscenza del territorio gli ostacoli che di volta in volta si frappongono alla loro “ricerca”).

Orwell non era altrettanto entusiasta, perché considerava di quella cultura anche gli aspetti pratici, le ricadute sui rapporti sociali, e ne coglieva quegli stessi esiti di diseguaglianza e di sfruttamento che sono comuni ad ogni forma di dominio. In più riteneva la civiltà orientale totalmente inquinata dal rapporto di sottomissione agli inglesi: i birmani che ci racconta, quale che sia il loro livello economico o di educazione, non sono molto diversi dai poliziotti inglesi che li bastonano e dai funzionari e dai commercianti che li discriminano. “È di dominio comune – scrive ne Il leone e l’unicornoche l’indiano soffre molto più a causa dei suoi concittadini che non per colpa degli inglesi. Il piccolo capitalista indiano sfrutta gli operai nel modo più spietato. Il contadino trascorre la vita, dalla nascita alla morte, tra le grinfie dell’usuraio”. Anche se era perfettamente cosciente che “questo stato di cose è un risultato indiretto del dominio inglese che, coscientemente o no, cerca di mantenere l’India il più possibile in uno stato primitivo” (esattamente il contrario di quanto pensava Kipling).

Meno che mai confidava che il divario, il discrimine tra le due condizioni, sarebbe stato superato in un sincero rapporto d’amicizia. Il suo alter-ego romanzesco, John Flory, è anch’egli attratto dalla cultura orientale e insofferente dei codici di comportamento dei sahib bianchi, ma deve ad un certo punto prendere atto che i suoi interlocutori indigeni quei codici li hanno introiettati, li applicano anche nei loro rapporti orizzontali e non vogliono affatto mutarli o rifiutarli. In definitiva, piuttosto che del destino dell’una o dell’altra cultura gli importa di quello degli esseri umani, e punta il dito sullo stato di degrado cui questi possono essere ridotti. Ma questa situazione, come vedremo, non è precipua del mondo coloniale.

Nell’un caso e nell’altro non parlerei affatto di razzismo. Nessuno dei due romanzieri è motivato da pregiudizi di tipo biologico. Per entrambi le differenze esistono, e in effetti sarebbe un po’ difficile negarle, ma non si iscrivono in una scala valoriale delle diverse etnie. Le differenze riguardano gli individui, non le razze, e sono addirittura più accentuate all’interno delle culture alle quali quegli individui appartengono.

«Nei riguardi dei “natives” non si nutriva lo stesso sentimento che si nutriva in patria per la ‘gente bassa.’ – confessa Orwell – Il punto essenziale era che gli ‘indigeni’, i birmani, ad ogni modo, non davano l’impressione di essere fisicamente repulsivi […] Sentivo nei riguardi di un birmano quasi quello che sentirei nei riguardi di una donna. Come quasi ogni altra razza, i birmani hanno un odore caratteristico, che non so descrivere: è un odore che ti dà come un formicolio ai denti, ma che non mi ha mai disgustato. (Incidentalmente, gli orientali dicono che ‘noi’ abbiamo odore. I cinesi, credo, dicono che un bianco puzza come un cadavere. I birmani dicono lo stesso, sebbene io non abbia mai trovato un birmano così scortese da dirmelo in faccia.)»

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Piuttosto, sono le convinzioni di fondo da cui i due partono, il diverso rapporto con l’idea di progresso, a segnare in direzioni opposte le loro opere. Orwell, come Conrad e al contrario di Kipling, non crede affatto che gli uomini siano fondamentalmente buoni, e nemmeno crede che con la civilizzazione possano diventarlo. Della marcia del progresso vede soprattutto la parte che rimane in ombra, le scorie e i cadaveri che lascia al bordo della strada, come testimoniano le righe che ho posto in esergo a questo scritto.

Sa anche che l’ottimismo rispetto ad una supposta “natura umana” è alla radice di ogni grande utopia sociale, e Orwell è l’autore distopico per eccellenza. Crede in compenso che tutto ciò che riesce ad assicurare agli individui un maggiore margine di libertà, intesa sia come negativa (la libertà dalle costrizioni, di non fare), sia come positiva (la libertà di pensare e di agire, nella consapevolezza naturalmente del limite, ovvero del diritto altrui alla stessa libertà), valga la pena comunque di essere perseguito. La libertà è condizione irrinunciabile per una esistenza dignitosa. E questo vale per ogni essere umano, a qualsiasi latitudine o longitudine.

Orwell pone quindi già nel suo primo libro il tema dell’illegittimità del dominio coloniale, in un’epoca in cui anche le sinistre, quella inglese principalmente, ma in sostanza tutte le altre europee, lo trovavano compatibile con gli interessi della classe operaia. Lo fa nei termini individuali ed emotivi della reazione disgustata ad uno spettacolo avvilente, ma questo lo porta a prendere le distanze dal compromesso “politico”. Se non si potrà mai realizzare una società perfetta, si dovrà pur sempre aspirare ad una meno ingiusta, partendo dall’eliminazione delle storture più vistose, rispetto alle quali l’unico strumento di riscatto è quello della crescita culturale. E se non si arriverà a migliorare il mondo, si sarà comunque in pace con la propria coscienza, per averci almeno provato. Che è ciò che ho sempre pensato anch’io.

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Penso anche un’altra cosa. Paradossalmente, malgrado il ribaltamento dei rapporti (nel senso che oggi sono gli ex-colonizzati a invadere il mondo occidentale) abbia definitivamente sfatato il mito di una possibile società multiculturale, e malgrado su Kipling sia stato stampigliato il marchio scarlatto dell’imperialismo, la sua posizione sembra preludere alle mode new-age e alla filosofia post-moderna. Persino l’amicizia tra Kim e il vecchio lama, che pure è un rapporto bellissimo e genuino – con buona pace di chi vuole leggervi una strumentalizzazione imperialistica – rischia di essere letta in questa chiave. In qualità di ammiratore precocissimo e tuttora entusiasta di Kipling respingo categoricamente questa interpretazione. Credo invece che l’ulteriore ribaltamento, quello dell’immagine, nasca da una ambiguità che non è affatto di Kipling, la cui posizione (e chiamiamola pure “imperialistica”) è chiara.

L’ambiguità è piuttosto nell’atteggiamento preconcetto di chi lo legge, e si esprime essenzialmente in due modi. Da un lato c’è il lamento vittimistico (mi riferisco alla sua espressione più raffinata, quella resa popolare ad esempio da Edward Said con il suo celebratissimo saggio sull’Orientalismo), per il quale esiste un pregiudizio eurocentrico a tutt’oggi non superato nei confronti delle culture orientali (in particolare nei confronti di quelle arabo-islamiche), nato già con la riscossa medioevale dell’Europa, alimentato nell’Ottocento dalle rappresentazioni romanzesche dei popoli d’Oriente come irrazionali e moralmente corrotti, e supportato da teorie scientifiche che certificavano la loro inferiorità. Tutto vero, fatto salvo un particolare che Said e coloro che si attestano su queste posizioni tendono a trascurare. Il fatto cioè che questa lettura non solo è stata consentita, ma ha ottenuto un vasto consenso, unicamente perché chi l’ha adottata risiedeva e insegnava in Occidente. Un’operazione del genere, la critica radicale della cultura attraverso le cui istituzioni ti esprimi, non sarebbe mai stata possibile né nel vicino né nell’estremo Oriente.

Dall’altro lato c’è quello definito da Pascal Bruckner “il singhiozzo dell’uomo bianco”, che si presenta in apparenza come un doveroso ripensamento sulle storture e le ingiustizie perpetrate nei confronti del resto del mondo in nome di una presunta “missione” occidentale. Anche in questo caso, l’intento è più che positivo: ma quando dal ripensamento si passa al rifiuto in blocco degli esiti del millenario percorso della civiltà occidentale, per cercare altrove significati e valori “autentici”, si scade nella filosofia di comodo. In realtà quei valori e quei significati sono frutto di storie completamente diverse, sono impenetrabili ai nostri occhi, inconciliabili con una sensibilità diversamente educata, sono in disuso persino nei luoghi d’origine, dove continuano ad essere venduti solo sulle bancarelle per turisti, nei pacchetti “tutto compreso” degli ashran. È una filosofia deresponsabilizzante, che induce a cambiare l’arredo e la suppellettile anziché a intervenire decisamente sulle parti strutturali. (Un chiaro esempio di questa interpretazione l’ho poi ritrovato ad esempio, molto più tardi, nella Trilogia Malese di Antony Burgess: ma non mancano anche da noi gli esempi, Terzani in primis)

Quella di Orwell è invece la coscienza lucida che in un mondo governato dalle leggi del mercato non c’è cultura “alternativa” che tenga: non basta fuggirne, bisogna immergercisi per cambiarlo, nei limiti del possibile ma mirando alla sostanza. Come Kipling, che in India aveva trascorso gli anni dell’infanzia, e che da quella suggestione in fondo non era mai uscito, anche Orwell rimpiange lo sguardo del bambino, torna volentieri a rievocare un mondo precedente: ma lo fa nella piena consapevolezza di coltivare un sogno. «Non apro mai uno dei libri di Kipling – scrive – senza pensare: “Mutamento e decadenza in tutto quello che vedo intorno”» Il pensiero immediatamente successivo è però come arginare questa decadenza, senza perdersi nella nostalgia del passato: e questo sarà uno dei temi ricorrenti nella sua narrativa.

2. Da Giorni in Birmania qualcosa della vita di Orwell avevo appreso: ora ero curioso di conoscere il resto. L’occasione è arrivata qualche anno dopo con Senza un soldo a Parigi e Londra, per il quale funzionava ancora una volta la suggestione del titolo. Uscivo infatti dalla lettura di Furore e di Sulla strada, oltre che da un paio di esperienze di brevi espatri a tasche vuote, proprio nelle città cui si riferiva Orwell. Come nel caso precedente, il libro non corrispondeva affatto a ciò che cercavo, ma fotografava perfettamente quel che già avevo trovato in giro, e dava del vagabondaggio un’idea molto meno romantica di quella che Kerouac e la beat generation diffondevano in quegli anni.

Rientrato dalla Birmania, ancora nauseato per quello che aveva visto e di cui era stato anche attore, tormentato come già ho detto dai sensi di colpa, Eric Blair rifiuta di integrarsi attraverso un qualsivoglia impiego e sceglie di vedere il mondo dalla parte degli sconfitti: «Sentivo di dover sottrarmi non soltanto all’imperialismo ma ad ogni forma del dominio dell’uomo sull’uomo. Volevo sommergermi, scendere in mezzo agli oppressi, essere uno di loro e schierarmi al loro fianco contro i loro tiranni. E, soprattutto perché avevo dovuto riflettere e scoprire ogni cosa in solitudine, avevo finito per portare il mio odio dell’oppressione al di là d’ogni limite. In quel periodo, il fallimento mi sembrava essere la sola virtù. Ogni sospetto di carriera, di “successo” nella vita anche nel senso di riuscire a guadagnare qualche centinaio di sterline all’anno, mi pareva spiritualmente turpe, una specie di prepotenza».

È attratto da Parigi, che negli anni venti era la capitale della cultura europea, cosmopolita e liberale. Non ha molto chiaro quel che vuole fare, ma vuole senz’altro sottrarsi all’atmosfera ipocrita e spocchiosa dell’Inghilterra post-vittoriana. Spera che nel clima di creatività e di assoluta libertà di pensiero promesso dalla metropoli francese ci si possa seriamente dedicare alla letteratura. Le cose non sono però così facili. “Nella primavera del 1928 partii per Parigi, dove intendevo vivere con poco mentre scrivevo due romanzi (mi spiace dirlo, mai pubblicati) e magari imparare anche il francese. Nell’estate del 1929 i miei due romanzi erano terminati; ma gli editori non vollero che me ne separassi, e così mi trovai quasi senza un soldo e con un impellente bisogno di lavorare.”

Non entra nel giro che conta, non incontra i protagonisti della vita culturale, letterati e artisti, e nemmeno ha contatti con l’ambiente dei fuorusciti, russi e italiani in testa. Una volta rapidamente esaurito il piccolissimo gruzzolo sul quale faceva conto per i primi tempi, deve ingegnarsi a sbarcare il lunario. “Dici che vuoi scrivere. Scrivere è un’assurdità. C’è un solo modo per far soldi con la penna, ed è quello di sposare la figlia di un editore – gli dice un suo occasionale coinquilino – Ma tu potresti diventare un buon cameriere se ti tagliassi quei baffi.” I baffi non li taglia, e nemmeno riesce a diventare un buon cameriere, ma sopravvive.

Se si confronta la sua esperienza con quanto raccontato da Henry Miller in Parigi 1928 si ha l’impressione che il nostro sia finito in un’altra città. I suoi compagni nell’anno e mezzo di permanenza in Francia sono solo dei falliti che vivono di espedienti, una fauna internazionale sì, ma che si trascina da una occupazione miserabile all’altra, quando la trova. Niente ritrovi di intellettuali o grandi sbornie collettive con risse finali da operetta, non una serata trascorsa nei bistrot del Lungosenna a discutere di letteratura. Solo bevute solitarie per dimenticare la fatica, lavate di testa per il minimo ritardo o errore nel servizio, fregature rimediate da compagni di sventura, dagli strozzini del monte dei pegni o da professionisti dell’arte di arrangiarsi, lunghi periodi di fame nera e ambienti perennemente luridi.

La fatica, il sudiciume, le umiliazioni sono raccontati senza rancore, sono vissuti con passiva rassegnazione, ma costituiscono le uniche costanti di questa esperienza. Dopo aver letto queste pagine e dato uno sguardo a quel che accade oltre le porte delle cucine sarà difficile apprezzare un pranzo in un ristorante parigino o la sosta in un albergo. La cosa più straordinaria è però che tutto questo, in fondo, non ci indigna: come accade per i coevi film di Chaplin, siamo immersi in una vergogna sociale, ma se un riscatto ci attendiamo è solo quello individuale (forse perché sappiamo che il protagonista la sua condizione in qualche modo se l’è scelta). È significativa in proposito la descrizione delle diverse mentalità di chi lavora in questi ambienti:

Il giovane Orweell07«Un albergo va avanti perché chi vi lavora è sinceramente fiero di quello che fa, per quanto possa essere stupido e orribile il suo lavoro. Se uno batte la fiacca, gli altri se ne accorgono subito e cospirano contro di lui per farlo licenziare […] Anche il cameriere è, in certo modo, fiero della propria abilità, che però consiste soprattutto nell’essere servile. Il lavoro gli conferisce l’abito mentale non già dell’operaio, ma dello snob. Vive sempre con gente ricca sotto gli occhi, ne ascolta le conversazioni, sta in piedi accanto al loro tavolo, li adula con sorrisi e piccole facezie discrete. Ha il piacere di spendere denaro per procura.

Per di più ha sempre la possibilità di diventare ricco a sua volta, perché, sebbene la maggioranza dei camerieri muoia povera, ogni tanto godono di lunghi periodi di fortuna. Il risultato è che, a furia di vedere sempre denaro e sperare di farne, il cameriere finisce con l’identificarsi, in un certo senso, col suo datore di lavoro. […] Si adopererà per servire un pranzo con stile, perché sente di partecipare egli stesso a quel pranzo […].

I “plongeurs” (è questo il solo tipo di impiego che Orwell riesce a rimediare), a loro volta, hanno una mentalità diversa. Il loro è un lavoro senza prospettive, è molto gravoso e nello stesso tempo non richiede la minima abilità, così come non presenta il minimo interesse; è il genere di lavoro che solo le donne farebbero, se avessero la forza necessaria. Tutto quello che si chiede loro è di essere sempre in attività, e sopportare un orario gravoso e un’atmosfera soffocante. Non hanno modo di cambiar vita, perché con la loro paga non possono mettere da parte un soldo, e un orario di lavoro che va dalle sessanta alle cento ore settimanali non lascia loro il tempo d’imparare a fare qualcos’altro. Tutt’al più possono sperare di trovare un lavoro un po’ più leggero come guardiano notturno o inserviente ai gabinetti

Per uno che era partito avendo in mente soprattutto di conservare ad ogni costo la propria libertà di pensiero e di movimento non è certo il massimo.

Il giovane Orweell08Rientrato alla fine in patria, cambia scenario, ma non condizione. L’esistenza vagabonda Orwell la conduce per altri tre anni. Finisce persino in carcere, per ubriachezza (sia pure volutamente, per conoscere dall’interno anche quell’ambiente). Si concede delle rare pause quando gli capita qualche offerta per brevi periodi di insegnamento o di collaborazione a piccole riviste, poi torna a peregrinare con gli altri disgraziati seguendo la mappa delle stagioni dei raccolti, del luppolo o delle mele. È talmente impegnato a sopravvivere che non ha molto tempo per pensare. Lo farà solo dopo, al momento di tirare le somme di quell’esperienza: e sarà un bilancio tutt’altro che esaltante.

«Nel complesso il primo contatto con la miseria è un fatto curioso. Ci avete pensato tanto, alla miseria: l’avete temuta tutta la vita, sapevate che prima o poi vi sarebbe piovuta addosso; ma in realtà tutto è totalmente, prosaicamente diverso. V’immaginavate che fosse una cosa semplicissima, e invece è quanto mai complicata. V’immaginavate che sarebbe stata terribile, ma è soltanto squallida e noiosa. Innanzitutto scoprite l’“abiezione” della miseria, gli espedienti ai quali vi costringe, le complicate meschinità, le pitoccherie.

Scoprite il tedio, che è compagno inseparabile della miseria; non avete niente da fare, e siccome siete denutrito non riuscite a interessarvi a niente. Nient’ altro che il cibo potrebbe scuotervi. Scoprite che quando un uomo va avanti una settimana a pane e margarina non è più un uomo; è solo un ventre con qualche organo accessorio

Potevo riconoscermi in qualche modo nella prima parte del libro, quella appunto che si svolge a Parigi, per aver lavorato come lavapiatti su una nave per qualche tempo: capivo dunque di cosa parlava quando raccontava di giornate lavorative da diciotto ore e di settimane da sette giorni senza riposo, e soprattutto conoscevo il disagio di svolgere un lavoro che non ti insegna nulla e ti costringe a prendere ordini da gente per la quale in genere nutri solo disprezzo. Allo stesso modo, in un’altra occasione avevo anche sperimentato cosa significa resistere a Londra senza una lira in tasca, sia pure per un solo mese e mezzo, e come ci si può ingegnare per sopravvivere, passando sopra anche a certi piccoli scrupoli morali.

Senza un soldo mi aveva comunque spiazzato. L’ho letto a vent’anni, col cuore che opponeva qualche resistenza, perché a quell’età per quanto scafati ci si aggrappa ancora ai miraggi di palingenesi: ma nella testa sentivo che era giusto non tacere del degrado morale che si accompagna con la fame e le privazioni a quello fisico, anche a costo di veder svanire quei miraggi. Orwell era il primo autore che riconoscevo totalmente onesto nel raccontare queste vicende e nel descrivere il mondo dei marginali e dei diseredati con i quali aveva convissuto. E, soprattutto, nel valutare lucidamente la parte giocata dal narratore all’interno del quadro: “Sfortunatamente non si risolve il problema classista diventando amici di vagabondi. Al massimo, facendolo, ci si libera di qualche pregiudizio di classe”.

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3. Quanto avevo trovato in Senza un soldo mi è stato confermato qualche anno dopo da La strada di Wigan Pier. Quest’ultimo non è il resoconto di un vagabondaggio, ma un vero e proprio studio sociologico, avvalorato da cifre, dati e statistiche, sulle condizioni in cui vivevano i lavoratori nel nord-ovest industriale dell’Inghilterra, una delle zone più desolate del paese. Il quadro che risulta dalla prima parte dell’indagine è impressionante, sia quando descrive il decadimento fisico e morale degli abitanti dei quartieri poveri che quando racconta il lavoro semischiavile nei pozzi minerari.

Orwell non è affatto un osservatore freddo e distaccato. Anzi: questa sua esperienza diretta la rivendica costantemente, per dire che lo squallore lui l’ha visto da vicino, l’ha addirittura fisicamente vissuto, e proprio per questo può parlarne senza retorica, esponendo le cose così come sono. “Mi sono recato colà un po’ perché volevo vedere che cosa sia la disoccupazione di massa nella sua fase peggiore e un po’ per osservare da vicino la più tipica sezione della classe operaia inglese. Ciò era necessario per me come parte del mio aderire al socialismo. Perché prima di sentirci sicuri di essere genuinamente socialisti si deve decidere se le cose al presente siano tollerabili o non tollerabili e si deve assumere un atteggiamento definito sul problema terribilmente difficile del classismo”.

Nel suo resoconto/racconto c’è un intento fortemente polemico nei confronti della tendenza della sinistra alle costruzioni dottrinarie e puramente teoriche. In virtù di quanto ha potuto conoscere sul campo Orwell si ritiene autorizzato a lanciarsi, nella seconda parte, in un pamplet su ciò che non funziona, non tanto nel socialismo in sé, quanto nel modo in cui viene propagandato e professato. “Per difendere il socialismo occorre cominciare attaccandolo” – scrive, e precisa: “Il socialismo come lo intendo io.” La domanda da cui parte è: “come mai non siamo tutti socialisti, considerata la semplice e palese bontà dell’idea?” La risposta, o meglio, le diverse risposte che si dà mettono impietosamente a nudo le contraddizioni e le ipocrisie della sinistra, e ciò spiega perché il suo editore, un convinto militante, abbia fatto pressioni per pubblicare solo la prima parte. Il libro era stato commissionato infatti dal Left Book Club, e le riflessioni che conteneva non andavano certamente nella direzione attesa. Ma a questo punto Eric Blair era già diventato George Orwell (firma questo libro per la prima volta con lo pseudonimo che lo renderà famoso), e non aveva ceduto. All’editore non era rimasto che cercare di mitigare la deriva “ereticale” con una prefazione “allineata”, che difendeva ad esempio la politica di industrializzazione forzata portata avanti in quegli anni dall’Unione Sovietica, sulla quale invece Orwell picchiava pesante.

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D’altro canto, le ragioni che Orwell adduceva per spiegare la diffidenza della maggioranza degli inglesi, lavoratori compresi, nei confronti del socialismo, rapportate alla sua epoca appaiono perfettamente plausibili (e per certi versi lo sono ancora oggi). Lo erano tanto più proprio perché nascevano dalla personale immersione nell’inferno rivelato dall’indagine. Orwell non si stanca mai di ribadire: “Questa è la realtà dei fatti, così stanno le cose”, e di sottolineare come il socialismo dottrinario quella realtà la ignori, attaccato com’è al dogmatismo dei principi e all’uso di un linguaggio stereotipato, al culto del progresso tecnologico e al pregiudizio di classe esercitato alla rovescia.

«La letteratura socialista – scrive ad esempio a proposito dei modi della comunicazione, del linguaggio della propaganda – anche quando non è apertamente scritta dall’alto in basso, è sempre totalmente estranea alla classe operaia in linguaggio e modo di pensare… È dubbio che qualcosa definibile come letteratura proletaria esista attualmente, ma un buon autore di commedie musicali si avvicina a produrre qualcosa del genere più di qualunque scrittore socialista a cui io possa pensare. Quanto al gergo tecnico dei comunisti, è tanto lontano dal linguaggio comune quanto quello di un manuale di matematica. Ricordo di aver udito il discorso di un oratore comunista a un pubblico operaio. Era un discorso zeppo delle solite cose libresche, tutto frasi lunghissime, parentesi e “ciò non ostante” e “comunque possa essere”, oltre alle consuete espressioni a base di “ideologia”, “solidarietà proletaria”, “coscienza di classe” e così via.»

Il sarcasmo orwelliano tocca però il culmine quando stigmatizza l’ostentazione di anticonvenzionalismo, un atteggiamento che irrita chi ne è spettatore e induce una rancorosa aggressività in chi lo pratica. «Come per il cristianesimo, gli adepti al socialismo sono la sua peggiore pubblicità … c’è l’orribile prevalenza – davvero preoccupante – di eccentrici e di svitati, ovunque si raccolgano dei socialisti. A volte si ha ‘impressione che le sole parole ‘socialismo’ e ‘comunismo’ attraggano a sé con forza magnetica ogni vegetariano, ogni nudista, ogni portatore di sandali, ogni maniaco sessuale, quacchero, guaritore naturista, pacifista e femminista d’Inghilterra.» Può sembrare una notazione molto forzata, ma se traduciamo i termini socialista e comunista, ormai in disuso, con i più vaghi “disobbediente” o “antagonista”, e proiettiamo l’immagine un secolo avanti, magari integrando la galassia degli ‘eccentrici’ con nuove categorie, abbiamo la fotografia della situazione attuale.

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Quanto invece al progresso e alla tecnica, la posizione di Orwell è più articolata: «La specie di individuo che prontamente accetta il socialismo è anche la specie di individuo che guarda al progresso meccanico, “come tale”, con entusiasmo. E ciò è talmente vero che i socialisti sono spesso incapaci di capire che esiste l’opinione opposta. Di norma, l’argomento più persuasivo a cui possano pensare è di dirvi che la presente meccanizzazione del mondo è niente a paragone di ciò che vedremo quando il socialismo si sarà stabilito. Dove oggi c’è un solo aereo, in quei giorni ce ne saranno cinquanta! Tutto il lavoro che è fatto oggi dalla mano sarà allora fornito dalle macchine; tutto ciò che oggi è di cuoio, legno o pietra sarà fatto di gomma, vetro o acciaio; non ci sarà disordine alcuno, non ci sarà incertezza alcuna, non ci saranno distese desertiche, selvagge, non ci saranno belve feroci, male erbe, malattie, non ci sarà né povertà né dolore e così via. Il mondo socialista sarà soprattutto un mondo ‘in ordine’, un mondo efficiente. Ma è precisamente da questa visione del futuro come una specie di scintillante mondo wellsiano che rifuggono le menti sensibili.»

I tre quarti di secolo trascorsi hanno in realtà ribaltato oggi le posizioni della sinistra, almeno di quella più radicale, spingendola su posizioni che un tempo erano proprie del conservatorismo. Orwell fa però riferimento alla forma di pensiero “progressista” dominante nella sua epoca, e la sua originalità sta nel fatto che non si limita a stigmatizzare la mitizzazione della tecnica o l’uso distorto che si ne è fatto, ma ne denuncia la natura già intrinsecamente alienante. Fa parte anche lui delle “menti sensibili”, anche se poi prende atto che un’alternativa credibile al suo utilizzo non c’è. Ma su questo mi riservo di tornare tra poco.

Ciò che più mi aveva colpito in Senza un soldo (e che ho ritrovato in un’altra accezione in Wigan Pier: per questo li accomuno) è la distanza che con disarmante sincerità Orwell confessa di provare nei confronti dei ‘poveri’ ai quali si mescola. “Avevo affetto per loro e spero che essi lo avessero per me; ma mi aggiravo in mezzo a loro come un estraneo, e ne eravamo tutti consapevoli. Da qualunque parte vi volgiate, questa maledizione della differenza di classe vi si para dinanzi come una muraglia. O meglio, non tanto come una muraglia quanto come la parete di vetro di un acquario; è così facile fingere che non ci sia e così impossibile penetrarla.”

Non ha alcuna pretesa di diventare un “proletario ad honorem”: partecipa della miseria, ma non si identifica con i miserabili, Rimane sempre un testimone, ed è aiutato a mantenerne la consapevolezza dal fatto che gli altri avvertono la sua diversa estrazione, vuoi per come muove le mani, vuoi per l’accento o il modo di parlare o di camminare, per l’aspetto nel suo assieme, che a dispetto degli abiti logori mantiene una sua borghese “eleganza”.

Prendiamo me, membro tipico del ceto medio. È facile per me dire che voglio liberarmi delle differenze di classe, ma quasi tutto ciò che penso e faccio è il risultato di differenze di classe. Tutte le mie nozioni – nozioni del bene e del male, del piacevole e dello spiacevole, del buffo e del serio, del bello e del brutto – sono essenzialmente nozioni piccoloborghesi; il mio gusto in fatto di libri, di cibi e di abiti, il mio senso dell’onore, il modo in cui so stare a tavola, il giro delle mie frasi, il mio accento, perfino i movimenti caratteristici del mio corpo, sono i prodotti di un genere particolare di educazione e di una nicchia particolare a mezza via della scala sociale. Quando capisco questo capisco anche che non serve a nulla dare una manata sulle spalle di un proletario, dicendogli che è un uomo bravo quanto me; se voglio avere un autentico rapporto con lui, devo fare uno sforzo per il quale molto probabilmente non sono preparato. Per tirarmi fuori dal brutto affare classista, devo sopprimere non solo il mio snobismo personale, ma anche quasi tutti gli altri miei gusti e pregiudizi. Devo alterare me stesso così completamente che alla fine non sarei più riconoscibile come la stessa persona”.

E allora, per evitare ipocrisie, occorre aver ben chiaro da dove arrivi la distanza, come si è generata. “Ero piccolo, molto piccolo, non avevo più di sei anni, quando mi resi conto per la prima volta delle distinzioni di classe. Prima di quell’età, i miei eroi principali erano stati generalmente operai, perché sembravano sempre intenti a fare cose interessanti come pescare, battere il ferro o costruire case. […]

Ma non passò molto tempo prima che mi si proibisse di giocare coi figli dell’idraulico; erano ‘ordinari’ e mi si disse di stare lontano da loro. Era una cosa un po’ snob, se volete, ma anche necessaria, perché gente del ceto medio non può permettere che i suoi figli imparino a parlare con accento plebeo.”

Arriva ad inserire una considerazione che, malignamente estrapolata, farà gridare allo scandalo i recensori “benpensanti” e i politicamente corretti ante-litteram, e sarà usata per screditarlo, a dispetto della chiarezza e della verità del suo significato: “Ecco che cosa ci insegnavano, che ‘la gente bassa puzza’. E qui, ovviamente, ci troviamo di fronte a una barriera insuperabile. Perché nessun sentimento di simpatia o di antipatia è così fondamentale come un sentimento fisico. L’odio di razza, l’odio di religione, differenze di educazione, di temperamento, d’intelletto, perfino differenze di codice morale, possono essere superate; ma la ripugnanza fisica non si può superare. Potete avere dell’affetto per un assassino o un sodomita, ma non per un uomo dall’alito fetido, abitualmente fetido, intendo. Per quanto bene possiate augurargli, per quanto possiate ammirare il suo carattere e la sua mente, se gli puzza il fiato, è un uomo orribile e, nel più segreto fondo del cuore, lo odiate. Può non avere grande importanza che il borghese medio sia allevato nell’idea che la classe operaia è ignorante, pigra, beona, triviale e disonesta; è quando vi si cresce nell’idea che l’operaio è anche sporco che si fa il guaio. E nella mia infanzia ci crescevano nell’idea che la gente del popolo è sporca. Molto presto nella vita acquisivi il concetto che c’è qualcosa di repulsivo in un corpo d’operaio […].

Il giovane Orweell12Tutto questo non mi indignava e non mi disturbava affatto, anzi: se una cosa non sopporto è proprio l’ipocrisia che sta dietro la mistica del proletariato, la presunzione di saperne cogliere e interpretare le aspettative e le paure, addirittura meglio dei proletari stessi, di esserne insomma la coscienza avanzata. Questa sì, mi è sempre parsa una forma insopportabile di ‘colonialismo sociale’. Persino io, che di quel proletariato facevo parte senza ombra di dubbio, avvertivo una distanza, e non perché fossi stato educato a “percepirne gli odori” (che tra l’altro, l’igienizzazione sempre più diffusa ha cancellati, reali o metaforici che fossero, così come la standardizzazione dell’abbigliamento o la scomparsa dei dialetti ha livellato gli altri indicatori sociali più eclatanti), quanto per il fatto che bene o male avevo potuto accedere a un certo livello d’istruzione e già vedevo la mia condizione da un altro punto di vista. Percepivo (e pativo) la differenza nelle aspettative “di senso”, individuali e sociali, rispetto alla maggior parte dei miei compagni del paese: ma ho patito ancor più quella rispetto ai miei compagni di studi, soprattutto all’università, e di militanza politica successivamente, che si arrogavano l’interpretazione autentica delle “istanze proletarie” e si candidavano ad avanguardie.

In Orwell la consapevolezza di quella distanza non si traduceva in rassegnazione; era il gesto di onestà necessario per cominciare sul serio a parlare di un qualche possibile cambiamento. La confessava senza tanti infingimenti e senza cercare scusanti: le cose stanno così, sembrava dire, ed è inutile e disonesto cercare di raccontarsele in altro modo. Importante è saperlo, e comportarsi di conseguenza.

Per questo, già molto prima di arrivare a quello che sarebbe stato poi giudicato un “tradimento”, non perdeva l’occasione di attaccare i “compagni” borghesi. Ne distingueva diverse tipologie: “gli schiumanti accusatori della borghesia, gli annacquati riformatori… i giovani astutissimi arrampicatori social-letterari che sono oggi i comunisti … e finalmente tutta quella deprimente tribù di donne magnanime, di uomini in sandali e di barbuti bevitori di succhi di frutta”, e di ciascuna denunciava in un aggettivo o in una lapidaria immagine la povertà di spirito, l’ambiguità, la grettezza delle motivazioni. “Un borghese abbraccia il socialismo e forse s’ iscrive addirittura al partito comunista. Ciò, che reale differenza fa? c’è qualche mutamento nei suoi gusti, nelle sue abitudini, nei suoi modi, nella sua mentalità, nella sua ‘ideologia’, per usare il termine dei comunisti? È da notarsi che egli continua a frequentare abitualmente le persone del suo ceto; si sente infinitamente più a suo agio con un membro della sua classe, il quale lo ritiene un pericoloso bolscevico, che con un membro della classe operaia, il quale si suppone condivida le sue idee; i suoi gusti in fatto di cibo, vino, abiti, libri, quadri, musica, balletto sono ancora riconoscibilmente gusti borghesi. I più dei socialisti borghesi, mentre teoricamente aspirano a una società senza classi, restano attaccati come pece ai miserabili frammenti del loro prestigio sociale”.

L’ironia di Owell è incapace di sconti nei confronti di coloro i quali, giocando a identificarsi con il proletariato, lo tradiscono. “Forse, le buone creanze a tavola non sono una cattiva dimostrazione di sincerità. Ho conosciuto molti socialisti borghesi, ho ascoltato per ore la loro tirata contro la loro classe eppure mai, neppure una volta, ne ho incontrato uno che a tavola avesse preso a comportarsi come un proletario – osserva Orwell. – Può essere solo perché in cuor suo sente che le maniere proletarie sono disgustose.

Più tardi, in Fiorirà l’aspidispra, disegnerà la figura di Philip Ravelston, un intellettuale alto borghese che aderisce al marxismo e se ne fa ardente propugnatore, ma che a dispetto degli sforzi per scimmiottare i modi di vita dei proletari non riesce a tagliare i ponti con la classe sociale da cui proviene, e ne conserva inconsciamente gli atteggiamenti e la disposizione mentale. “Gli piaceva pensare alla gente perduta, alla gente del sottosuolo, vagabondi, mendicanti, criminali, prostitute. È un mondo buono quello in cui vivono nelle loro fetide pensioncine equivoche, nelle loro infermerie d’ospizio. Gli piaceva pensare che sotto il mondo del denaro si stendono i vasti bassifondi della sporcizia e della degradazione, dove sconfitta o riuscita non hanno più significato alcuno; una specie di regno di spettri, dove tutti sono uguali.” Ravelston lo pensa però seduto nel proprio salotto, e lo afferma durante le sedute del club di cui è socio. Eppure diventa una figura di riferimento per il protagonista del romanzo, in positivo (lo invidia) e in negativo (si compiace di coglierne le incongruenze). Questi è a sua volta un aspirante intellettuale che della propria frustrazione vuol fare virtù, imponendosi una coerenza esterna estrema nei modi di vivere: ciò che in realtà non lo porta a nulla e non lo rappacifica con se stesso.

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4. L’idea di Orwell di studiare le classi più povere dall’interno non era così originale. Trent’anni prima Jack London, per scrivere Il popolo degli abissi, aveva vissuto per un mese e mezzo travestito da barbone nell’East End di Londra. Ne ho già parlato altrove (cfr. Tre vagabondi), e quindi non sto a ripetermi. Mi limito a cogliere la sottile differenza sia delle motivazioni che dei modi, ma soprattutto dello spirito, coi quali l’esperienza è stata vissuta dai due.

In entrambi i casi la finalità è quella del reportage giornalistico, ma la destinazione di questo reportage cambia. London intendeva, non senza una punta di sciovinismo, raccontare agli americani il ritardo dell’Inghilterra quanto a progresso sociale. Chiarisce nella nota di presentazione che la sua è una descrizione realistica dell’altra faccia della società inglese, quella che ospita gli sconfitti e gli sfruttati, e che viene sempre celata dietro l’immagine di una crescita economica straordinaria. È una sorta di rivincita nei confronti dello snobismo col quale gli inglesi avevano sempre trattato la cultura e la civiltà americana; nasce come un’indagine sociale, ma alla fine assume il significato di un j’accuse politico.

Il giovane Orweell13Anche London, come Orwell, era un socialista. Sia pure in una maniera tutta sua, molto americana, che combinava Marx con Nietzsche e con Sorel. E anche lui, come Orwell, col socialismo, o meglio, coi socialisti, ebbe un rapporto conflittuale, soprattutto dopo che si rese conto che la gran parte dei suoi consistenti contributi economici alla causa era finita nelle tasche dei capi. Ciò lo aveva indotto, ad un certo punto, a prendere le distanze dal movimento e dalle organizzazioni sindacali, per coltivare un socialismo personalissimo e molto disincantato.

È chiaro che Orwell ha preso a modello il London de Il popolo degli abissi, ed egli stesso non ha esitazioni a confessarlo: così come più tardi riconoscerà, a proposito di 1984, il debito con Il tallone di ferro, tra i primi romanzi distopici del ventesimo secolo.

La disposizione con la quale i due si calano nei bassifondi dell’umanità non è però identica. Intanto, quando aveva deciso di camuffarsi da relitto umano, assumendo le sembianze di un marinaio americano senza un soldo e alla ricerca di un imbarco, London era già uno scrittore ricco, famoso e osannato. Era uscito da una povertà che aveva conosciuto da dentro, senza bisogno di cercarla, e l’impegno di tutta la sua vita fu poi di non ricaderci. Al contrario di Orwell, quindi, arrivava da una educazione tutt’altro che borghese, che non gli aveva trasmesso pregiudizi. In quelle «bande di “cads”, ragazzacci ineducati che ti si buttavano addosso spesso in cinque o dieci contro uno”, che erano il terrore di Orwell bambino, o tra quei “figli della strada londinesi, con la loro voce squillante e la loro mancanza di scrupoli intellettuali, potevano rendere impossibile la vita a coloro che consideravano inferiore alla propria dignità rispondere loro per le rime» London sarebbe stato un capo.

Non stupisce dunque quello gli accade, la sensazione che prova: «Per strada fui ben presto colpito dalla differenza di status causata dal mio abbigliamento. Qualsiasi servilismo era scomparso dall’ atteggiamento della gente comune con cui entravo in contatto. Oplà! Un battito di ciglia, per così dire, ed ero diventato uno di loro. La mia giacca logora, dai gomiti consunti, era il segno e l’attestazione della mia classe, che era anche la loro classe. Mi rendevo simile a loro, e invece dell’attestazione servile e troppo rispettosa che avevo ricevuto fino ad allora, mi trovavo a condividere un certo cameratismo. L’uomo con i calzoni di velluto e la cravatta lercia non mi chiamava più “signore” o “principale”: ero diventato “amico”, adesso, una parola bella e sincera».

Naturalmente la solidarietà cameratesca degli uni ha il suo contraltare nel declassamento da parte degli altri: “Dal mio nuovo abbigliamento discendevano altri mutamenti di condizione. Scoprii che quando attraversavo un incrocio affollato dovevo stare più attento a evitare i veicoli, e mi apparve chiaro che il valore della mia vita era sceso in proporzione a quello dei miei vestiti. Prima, quando chiedevo la strada a un poliziotto, in genere mi domandava: – In bus o in carrozza, signore? – Adesso mi chiedeva: – A piedi? – E nelle stazioni ferroviarie mi davano un biglietto di terza classe, come fosse del tutto ovvio”.

Anche questa era una sensazione che conoscevo: la mia particolare percezione della ‘distanza’, quella di cui parlavo più sopra, l’avevo vissuta anche a parti ribaltate. Ricordo che una notte, nei tardi anni Sessanta, mentre ci aggiravamo per il quartiere di Soho dopo una giornata di digiuno quasi totale e non volontario, il mio compagno di avventura mi chiese: “Ma non dovremmo aver paura?”. Al che risposi: “Guardati attorno: sono loro ad aver paura di noi”.

London la mette giù in maniera più delicata: “E quando finalmente arrivai nell’East End, scoprii con soddisfazione che non avevo paura della folla. Ero entrato a farne parte. Il mare vasto e maleodorante si era richiuso sopra di me, o meglio mi ci ero immerso dolcemente, e non c’era nulla di terribile in questo, fatta eccezione per la maglia da fuochista”.

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Di terribile c’è invece quello che nell’East End London vede, in un’epoca nella quale l’Inghilterra ha ancora un impero, è la maggiore potenza navale del mondo e accumula ricchezze che affluiscono da tutti i continenti. Vede masse enormi di diseredati: quelli che lavorano, retribuiti con salari da fame e strangolati dai debiti, costretti a spaccarsi la schiena per tirare su pochi spiccioli; i disoccupati e i vagabondi che si aggirano pressoché invisibili per le strade, sperando di trovare un qualsiasi momentaneo lavoro, a dispetto magari dell’’età avanzata o della debolezza fisica, raccolgono gli avanzi di cibo nella spazzatura e dormono di notte sulle panchine: gli uni e gli altri impegnati con tutte le loro forze solo a sopravvivere.

In quella che definisce una “voragine umana infernale” London incontra tuttavia anche alcuni personaggi che sono riusciti a dispetto della miseria a conservare la loro dignità e oppongono una resistenza eroica e solitaria alla nullificazione. Ci offre ogni tanto immagini di un socialismo un po’ deamicisiano, che devono qualcosa anche al culto superomistico di origine nietzschiana. Del resto, lui stesso rappresenta l’esempio più clamoroso di chi dalla miseria ha saputo emanciparsi con la sola forza della sua volontà e con una cultura conquistata con i denti. Sono convinto che fosse questo a fargli scorgere la possibilità di risalita dalla voragine: ma anche che figure come quelle che racconta potessero esistere veramente, prima che la burocratizzazione della lotta del proletariato ne decretasse la scomparsa.

In questo differisce da Orwell, che invece non si fa concessioni. Anche nel quadro da lui dipinto alcune figure emergono rispetto allo squallore generalizzato, ma l’impressione è che lo spazio concesso alle individualità sia davvero ridottissimo. C’entra forse il fatto che Orwell descrive la situazione creatasi immediatamente a ridosso della grande crisi del ‘29, ma la convinzione dello scrittore inglese è quella cui ho già accennato: la fame e la misera disumanizzano totalmente. La sua esperienza non dura sei settimane, ma anni, e il contatto prolungato con quella realtà finisce non per renderla normale, ma per farla cogliere al di là dell’eccezionalità e dello scandalo. Inoltre, a differenza di London, Orwell nella povertà ci si imbatte: almeno per quanto concerne le esperienze parigina e londinese non si può dire che la scelga.

Arrivano comunque alla stessa conclusione. Come scrive London: “Non ci si può sbagliare. La civiltà ha centuplicato le capacità produttive dell’uomo e, a causa della cattiva gestione, i suoi uomini vivono peggio delle bestie”. La cattiva gestione, tanto per lui quanto per Orwell, è quella operata dal modo di produzione industriale. Con la differenza che per il primo il fattore più grave è la redistribuzione ineguale delle risorse, mentre per il secondo l’industrialismo non determina soltanto una sopravvivenza fisica sempre più precaria, ma cancella nei lavoratori poveri anche ogni dignità morale, li rende quasi disumani. I personaggi disgustosi “il cui modo di parlare – dice Orwell – ti dà la sensazione che non siano persone vere, ma un tipo di fantasma che ripete in eterno lo stesso discorso senza né capo né coda […] esistono in centinaia di migliaia, e sono i prodotti caratteristici del mondo moderno, di quello che l’industrialismo ha fatto per noi”.

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5. La denuncia della nuova miseria creata dal produttivismo arriva principalmente dagli scrittori inglesi, ed è comprensibile, dal momento che in Inghilterra le prime due fasi della rivoluzione industriale sono già compiute alla fine dell’Ottocento, e i loro risvolti negativi, a livello sia ambientale che sociale, sono ormai evidenti. La povertà narrata dai romanzieri francesi (da Hugo a Zola), da quelli russi (Gorkij) o scandinavi (Hamsun, Martinsson) o italiani (Verga) è ancora legata ad un mondo preindustriale. Orwell è stato invece preceduto anche da diversi connazionali. Dando per scontato Dickens, autore d’obbligo nella formazione culturale vittoriana, che in opere come Tempi difficili o Oliver Twist lancia una indignata protesta sociale (anche se è poi costretto da esigenze di cassetta ad annacquarla con finali dolciastri), dietro l’opera di Orwell si può ad esempio facilmente cogliere l’influsso di quella di George Gissing.

Gissing la povertà non l’aveva cercata, né ci si era imbattuto. C’era proprio cascato dentro, in seguito ad una serie di disavventure sentimentali che ne avevano troncato le aspirazioni di umanista brillante e appassionato. Aveva conosciuto persino il carcere, e si era trovato a condividere la vita degradata e umiliante degli abitanti dei più squallidi bassifondi londinesi. Non gli restava che fare di necessità virtù, denunciando nei suoi primi romanzi la miserabile realtà degli slums londinesi. “L’arte deve essere oggi il portavoce della miseria, perché la miseria è la nota dominante del nostro mondo” – faceva dire ad uno dei suoi protagonisti – “Voglio far capire alla gente le spaventose condizioni (materiali, intellettuali e morali) delle nostre classi povere, per mostrare l’orrenda ingiustizia di tutto il nostro sistema sociale, e illuminare un piano per riformarlo.”

Quella miseria Gissing la conosce meglio degli stessi London e Orwell, perché è costretto ad affrontarla non da più o meno allegro vagabondo, ma avendo sulle spalle la responsabilità di una famiglia. Per questo motivo, e soprattutto per un’attitudine caratteriale decisamente pessimista, nei confronti dell’ambiente che descrive prova soltanto antipatia ed avversione. C’è un divario enorme tra la sua capacità di rappresentare il degrado sociale e l’incapacità di entrare in sintonia con la massa che lo vive, di intenderne e di parlarne il linguaggio. Non ha nemmeno bisogno di confessare apertamente i suoi sentimenti, come farà Orwell; questo rifiuto lo si avverte subito, perché Gissing non si sforza affatto di mantenersi neutrale. Vive tra i poveri, osserva i poveri e si propone, con i suoi libri, di rendere loro un servizio, ma non riesce né ad amarli né a sopportarli, prova quasi un odio fisico, è costantemente irritato dalla loro meschina materialità. Si sente tra loro come un prigioniero, e i soli personaggi che si distinguono positivamente in tanto squallore sono i prigionieri come lui, costretti in un mondo che è loro estraneo e che tarpa l’ingegno e le speranze.

Il giovane Orweell15Malgrado ciò, per molti aspetti Gissing è molto più prossimo ad Orwell di quanto potrebbe sembrare. Nel suo unico libro di viaggi, Sulle rive dello Ionio, scrive ad un certo punto: “Ogni uomo ha un suo anelito intellettuale; io ho quello di sfuggire alla vita che conosco e di tornare, per virtù del sogno, in quell’antico mondo che deliziò la mia immaginazione di fanciullo” (nel suo caso si tratta del mondo greco e romano). Le vestigia di questo mondo le trova ad esempio nel Meridione italiano, e segnatamente nella sua area più arretrata, in Calabria: ne è talmente suggestionato da tollerare la miseria delle popolazioni calabresi, che gli appare comunque solare, mentre considera torbida e insopportabile quella delle masse londinesi. (In questo è simile a molti suoi contemporanei in fuga dalla società vittoriana, ma molto diverso da Dickens, che nel suo resoconto di un viaggio in Italia parla di “Città sporche e tristi, paese decadente, umanità ambigua” e scrive, in una lettera ad un amico: “Se tu potessi vedere i lazzaroni come sono in realtà: meri animali, squallidi, abietti, miserabili, per l’ingrasso dei pidocchi; viscidi, brutti, cenciosi, avanzi di spaventapasseri!”).

Ora, anche Orwell, come ho già accennato, rimpiange il passato. In effetti moltissime sue pagine appaiono intrise di nostalgia (e questa la fa addirittura da protagonista in Una boccata d’aria). Ma è necessario distinguere tra le possibili disposizioni d’animo con le quali la nostalgia viene vissuta. Nel caso di Orwell la rievocazione nostalgica riguarda un tempo, un mondo, una condizione che ha direttamente conosciuto; per altri, come appunto Gissing, è rivolta invece a mondi solo idealizzati, anche se amati al punto da diventare comunque condizionanti per l’esistenza. In quest’ ultimo caso non è soltanto questione di tornare indietro, ma di andare proprio altrove. In fondo si tratta di utopie personalissime, di nicchie individuali che ci si ritaglia e che paradossalmente possono essere rese concrete, per brevi periodi e in condizioni particolari come quelle che si realizzano per Gissing lungo le rive dello Jonio.

Orwell rimane invece sempre perfettamente consapevole che quel tempo, quel mondo e quella condizione ai quali va con la memoria non possono tornare, e sa benissimo che il ricordo ne ha selezionato solo i lati positivi. “Rassegniamoci al fatto che il ritorno a un modo di vivere più semplice, più libero, meno meccanizzato, per desiderabile che possa essere, non si verificherà. Questo non è fatalismo, è semplice accettazione dei fatti.”

Questo perché: “Nessun essere umano vuol fare checchessia in modo più scomodo di quel che sia necessario. Da qui l’assurdità di quel quadro dei cittadini di Utopia che si salvano l’anima con lavoretti decorativi. In un mondo dove tutto possa essere fatto dalle macchine, tutto sarà fatto dalle macchine. Tornare deliberatamente a metodi primitivi, usare strumenti arcaici, porre piccoli ostacoli idioti sulla propria strada, sarebbe dar prova di dilettantismo, darsi arie da falso artista, rendersi ridicoli. Sarebbe come sedersi solennemente a tavola per far colazione con posate di pietra”.

Usa dunque la memoria solo per trarne una qualche consolazione di fronte ad un presente e a un futuro che non lasciano presagire nulla di buono. Se non altro, essa testimonia il fatto che modi di vita differenti sono stati possibili, e se pure irripetibili, possono fungere da parametro per orientare le nostre scelte future, per non lasciare cadere ogni speranza.

Le città industriali erano lontane, una macchia di fumo e di sofferenza nascosta dalla curvatura della terra. Qui si era ancora nell’Inghilterra che ho conosciuto nella mia infanzia: le scarpate lungo la ferrovia ricoperte di fiori selvatici, i prati dall’erba alta dove grandi cavalli lustri brucano e meditano, i lenti ruscelli in mezzo ai salici, le verdi distese di olmi, la speronella nei giardini delle casette di campagna; e poi il grande deserto tranquillo della periferia londinese, le chiatte sul fiume fangoso, le strade familiari, i manifesti che annunciano gli incontri di cricket e i matrimoni della famiglia reale, i signori in bombetta, i piccioni di Trafalgar Square, gli autobus rossi, i poliziotti in blu – tutti addormentati nel profondo, profondissimo sonno dell’Inghilterra, da cui a volte temo non ci sveglieremo mai finché non ne saremo strappati di colpo dal boato delle bombe.

Quanto a Gissing, Orwell lo stima moltissimo: “Era un uomo intelligente e caritatevole, una persona erudita e raffinata che, dopo aver sperimentato il contatto diretto con i poveri di Londra, arrivò alla seguente conclusione: quella gente è selvaggia, mai e poi mai deve avere accesso al potere politico […] Da questo scrittore, che amava la tragedia greca, odiava la politica e cominciò a scrivere molto prima che Hitler nascesse, si può imparare qualcosa sulle origini del fascismo”.

Sono pienamente d’accordo.

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Il giovane Orweell166. In una delle primissime recensioni italiane ad Orwell, Giuseppe Bonura scrive che aveva la tempra del martire laico. Questa definizione richiama immediatamente il confronto con un’altra esperienza simile e pressoché coeva, quella vissuta da Simone Weil, e raccontata poi dalla filosofa francese ne “La condizione operaia”.

Nel dicembre del 1934 la Weil, che vuole conoscere “dall’interno” le condizioni di lavoro della classe operaia, entra come manovale nelle officine metallurgiche della Renault. È cresciuta in una famiglia alto borghese, ha ricevuto un’istruzione laica e raffinata, è cagionevole di salute ma incredibilmente determinata, sorretta da uno spirito missionario che sconfina nella patologia.

Regge per otto mesi, sufficienti a farle sperimentare lo stato di semi-schiavitù nel quale il lavoro si svolge, i ritmi infernali della catena di montaggio, la prostrazione da fatica, l’annullamento della personalità in una rassegnata obbedienza. Sono le stesse cose raccontate da Orwell, ma sono vissute in maniera diversa. “Per me, personalmente, ecco cosa ha voluto dire lavorare in fabbrica: ha voluto dire che tutte le ragioni esterne (una volta avevo creduto trattarsi di ragioni interiori) sulle quali si fondavano, per me, la coscienza della mia dignità e il rispetto di me stessa sono state radicalmente spezzate in due o tre settimane sotto i colpi di una costruzione brutale e quotidiana […] Mettendosi dinanzi alla macchina, bisogna uccidere la propria anima per otto ore al giorno, i propri pensieri, i sentimenti, tutto […] Questa situazione fa sì che il pensiero si accartocci, si ritragga, come la carne si contrae davanti a un bisturi. Non si può essere coscienti”.

Quello che la Weil racconta è tutto vero. C’è però un piccolo particolare, tutt’altro che irrilevante. La condizione interiore di cui parla la si vive quando si ha coscienza che ne esistono altre possibili: e diventa tanto più insopportabile quando si sa che è a tempo determinato, che se ne potrà uscire quando lo si vorrà. “Ho creduto di essere minacciata, a causa della prostrazione e dell’aggravarsi del dolore, da una degradazione così spaventosa di tutta l’anima che, per molte settimane, mi sono domandata con angoscia se morire non fosse per me il dovere più imperioso, benché mi sembrasse mostruoso che la mia vita dovesse concludersi nell’orrore.

Ciò che maggiormente preoccupa la Weil è la “degradazione dell’anima”, cosa della quale i suoi compagni di lavoro non hanno affatto modo di rendersi conto, occupati come sono a sopravvivere a quella del corpo. Di fatto, quando non regge più la Weil torna all’insegnamento e alle sue frequentazioni elitarie: è vero che si impone digiuni e ogni tipo di ristrettezza per vivere il più possibile come i poveri, per entrare in “comunione spirituale” con essi: ma è altrettanto vero che può scegliere di farlo o meno.

Intendiamoci: di fronte ad una persona che potrebbe vivere tranquillamente, fregandosene degli orrori e delle ingiustizie che la circondano, e che sceglie invece l’impegno nella sua forma più radicale, ed è coerente con la sua scelta fino ad essere uccisa dai sacrifici che si è autoimposta, non posso che inchinarmi. Ma nemmeno posso impedirmi di pensare che questa scelta sia intrisa di ambiguità, di una esasperazione mistica e religiosa che pare mirata più alla salvezza della propria anima che al miglioramento della condizione altrui. L’altruismo esasperato, quando si traduce in ascesi, mi fa sempre sospettare una forte venatura di egoismo.

Tutto questo in Orwell non c’è. Vive in mezzo ai barboni e ai vagabondi, condivide dormitori pubblici e luride stamberghe, frequenta le povere case e gli infernali luoghi di lavoro dei minatori, ma poi lo racconta rimanendo sempre consapevole della distanza della sua posizione rispetto alla loro. Orwell è un ribelle nell’animo e un riformatore nella testa, la Weill è un’asceta visionaria che anela al martirio, e lo trova.

Ad accomunarli è piuttosto la messa in discussione del progresso, inteso come transizione al modo di produzione industriale. In Simone Weil naturalmente questa opposizione si esprime nella forma più esasperata: “Niente può avere come destinazione qualcosa di diverso dalla sua origine. L’idea opposta, l’idea del progresso, è veleno”.

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In Orwell è più ragionata, anche se non meno radicale. «Noi tutti dipendiamo dalla macchina, e se le macchine cessassero di lavorare la maggioranza di noi morrebbe. Si può detestare la civiltà meccanica, probabilmente avete ragione di detestarla, ma per il momento non si tratta di accettarla o respingerla. La civiltà meccanica è “qui”, onnipresente, e si può soltanto criticarla dall’interno, perché tutti noi ci troviamo nel suo interno. Sono semplicemente degli idioti romantici coloro che si lusingano di essere fuggiti, come il letterato snob nella sua villa in stile Tudor con bagno e acqua calda e fredda, e come il “vero uomo” che se ne va a fare il primitivo nella giungla con un fucile Mannlicher e quattro furgoni carichi di cibarie in scatola. E quasi certamente la civiltà meccanica continuerà a trionfare […]». Però «la tendenza del progresso meccanico, dunque, è di frustrare il bisogno umano di sforzo e di creazione. Esso rende inutili e perfino impossibili le attività dell’occhio e della mano. L’apostolo del “progresso” dirà che ciò non ha importanza, ma potrete metterlo con le spalle al muro facendogli notare a quali estremi orribili può essere portato il processo. Perché, per esempio, usare le mani addirittura, perché usarle anche per soffiarsi il naso o far la punta a una matita?»

Per il resto, ciò che l’una scrive potrebbe essere sottoscritto anche dall’ altro, tranne forse l’ultima considerazione. “Il lavoro di per sé non è opprimente; – scrive la Weil – può certo produrre noia, costrizione, ma non avvilisce. È quanto ad esso si aggiunge nella produzione industriale che opprime: l’idea che il tempo passato lavorando sia perduto per la vita, l’impressione che in nessun momento si produca qualcosa di reale, la cadenza monotona dei gesti, la sottomissione passiva ai capireparto, la schiavitù cui bisogna costringersi da soli, il senso di solitudine pur in mezzo agli altri, l’esperienza dello sradicamento perché si vive in un luogo che non appartiene al lavoratore, la schiavitù che differisce da quella classica perché non consente una libertà interiore come è invece possibile per la figura dello schiavo stoico: meschina consolazione, senza dubbio, ma proibita all’operaio.”

E allora? Da dove può venire la liberazione? Non certo dalle forme di lotta tradizionali: “Gli operai fanno lo sciopero – scrive la Weil – ma lasciano ai militanti il compito di studiare il particolare delle rivendicazioni. L’abitudine della passività contratta quotidianamente nel corso di anni ed anni, non si perde in pochi giorni, anche se così belli”. Neppure da quelle più estreme, come la rivoluzione: “In questa rivolta contro l’ingiustizia sociale l’idea rivoluzionaria è buona e sana. In quanto rivolta contro l’infelicità essenziale inerente alla condizione propria dei lavoratori, è una menzogna. Perché nessuna rivoluzione potrà abolire quell’ infelicità, risolvere i veri problemi dell’uomo che invece trovano radice nel profondo del suo animo […] Infine la rivoluzione è una compensazione dello stesso tipo; è l’ambizione ad un’altra condizione sociale per se stessi o per i propri figli, l’ambizione trasferita nel collettivo, la folle ambizione dell’ascensione di tutti i lavoratori al di sopra della condizione di lavoratori”.

Orwell è decisamente più pratico e concreto: «Compito dell’individuo ragionevole, quindi, non è di respingere il socialismo ma di decidersi a umanizzarlo. Una volta che il socialismo stia in un certo senso per essere, quelli che hanno capito completamente l’inganno del “progresso” si accorgeranno probabilmente di opporgli resistenza. Infatti la loro particolare funzione è di resistergli. Nel mondo delle macchine essi devono rappresentare una specie di opposizione permanente, cosa ben diversa dal fare dell’ostruzionismo o dal tradire. Ma io sto parlando del futuro. Per il momento la sola via possibile aperta a un galantuomo, per quanto anarchico o conservatore possa essere di temperamento, deve lavorare per l’edificazione del socialismo. Nessun’altra cosa può salvarci dalla miseria del presente o dall’incubo del futuro

Entrambe le posizioni, comunque, ci dicono che tra le altre esperienze i due condividono anche il rapporto conflittuale con la sinistra “ortodossa”. Simone Weil non entra mai nei quadri di partito, ma si impegna fortemente nel lavoro sindacale, nella stampa, nell’organizzazione di manifestazioni antifasciste. Arriva ad ospitare in casa propria Trotszkij, col quale litiga immediatamente, e denuncia la politica staliniana già nei primi anni Trenta. Potrebbe riconoscersi perfettamente in questa considerazione di Orwell: “Il potere non è un mezzo, è un fine. Non si stabilisce una dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione; ma si fa una rivoluzione nell’intento di stabilire una dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere.”

Naturalmente anche la posizione ereticale che parrebbe unirli viene vissuta in maniera differente. Quella della Weil si libra alla fine in una mistica della libertà: “La libertà è una condizione politica ma deve essere inquadrata all’interno di una visione etica: non basta essere liberi, bisogna diventare liberi, cioè bisogna sapere come spendere la propria libertà”, dove l’altro corno della concezione socialista, la giustizia, sembra avere un rilievo molto minore. Quella di Orwell si mantiene invece terra terra, a difesa di un valore etico per lui altrettanto importante e niente affatto disgiunto dalla “libertà”: quella che lui chiamava la “decenza”: «Sarebbe un grandissimo vantaggio se quel continuo, insignificante e meccanico punzecchiare i borghesi, che fa parte di quasi tutta la propaganda socialista, fosse abbandonato per il momento. In tutto il pensiero e gli scritti di sinistra – dagli articoli di fondo del “Daily Worker” alle colonne umoristiche del “New Chronicle” – si perpetua una tradizione anti-cortesia, uno schernire persistente e spesso molto stupido le buone maniere e gli ideali dei ceti evoluti (o, per, usare il gergo comunista, i “valori borghesi”). È in gran parte una impostura, venendo come viene da punzecchiatori della borghesia che sono essi medesimi borghesi, ma fa gran danno, perché lascia che un problema minore ne ostacoli uno maggiore. Storna l’attenzione dal fatto centrale che la povertà è povertà, tanto se il tuo strumento di lavoro è un piccone quanto se è una penna stilografica. Tutto quello che occorre è martellare e ribadire bene nella coscienza pubblica due fatti. Uno, che gli interessi di tutti gli sfruttati sono gli stessi; l’altro che il socialismo e il comune decoro possono andare perfettamente d’accordo».

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7. Con Simone Weil (e con molti altri) Orwell ha infine in comune la partecipazione attiva alla guerra civile spagnola, un’esperienza che per una larghissima parte degli intellettuali formatisi tra le due guerre ha rappresentato un momento di svolta, più ancora del secondo conflitto mondiale.

Il resoconto del suo contributo alla lotta al fascismo si trova in Omaggio alla Catalogna, che ho letto quando già frequentavo l’università. Al liceo naturalmente nessuno mi aveva mai parlato della guerra di Spagna: alla fine del ciclo si approdava si e no alla prima guerra mondiale, e anche i libri di testo vi accennavano appena. Nemmeno era mai stato oggetto di conversazione in famiglia, perché credo che i miei ne sapessero ben poco, o avevo avuto occasione di imbattermi in qualche opera storica sull’ argomento, visto che in Ovada non c’era una biblioteca pubblica. In definitiva tutto ciò che conoscevo di questa vicenda veniva da notizie scarse e contraddittorie raccolte su qualche rivista.

Ad accendere l’interesse era stata però la letteratura, quella frequentata fuori dalle mura scolastiche: l’Hemingway di Per chi suona la campana e il Malraux de La speranza. Di lì a I grandi cimiteri sotto la luna di Bernanos, e finalmente ad Omaggio alla Catalogna, il passaggio era obbligato.

Prima di arrivare a quest’ultimo già sapevo che Orwell aveva militato nelle file del POUM (ma non avevo idea di cosa precisamente fosse il Partido Obrero de Unificaciòn Marxista: d’altro canto, al momento della sua adesione neppure Orwell lo sapeva), che aveva combattuto sul fronte aragonese e che era stato gravemente ferito. Mi intrigava però soprattutto ciò di cui avevo avuto solo sentore, e che sembrava totalmente rimosso dalla memoria ufficiale: le epurazioni degli anarchici e dei trotskisti per mano degli emissari di Mosca (leggi: Togliatti), la sconfortata presa di coscienza degli intellettuali e dei militanti accorsi ad arruolarsi nella Brigata internazionale, l’ambiguità degli atteggiamenti delle potenze “democratiche”. Ho letto quindi la prima volta Omaggio alla Catalogna pieno di aspettative, e queste non sono andate deluse. Ciò che Orwell raccontava costituiva davvero una rivelazione, e ha contribuito in maniera determinante, in un momento di grande confusione (collettiva), a indirizzare le mie scelte di “posizionamento”.

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In Perché scrivo, che fa parte della raccolta che ho tra le mani, Orwell spiega cosa ha ispirato la sua attività di saggista: “La Guerra civile spagnola e altri avvenimenti del 1936-37 hanno contribuito a farmi prendere una decisione, e da allora ho capito da che parte stavo. Ogni riga del lavoro serio che ho prodotto dal 1936 l’ho scritta, direttamente o indirettamente, contro il totalitarismo e per il socialismo democratico così come lo intendo io”.

Omaggio alla Catalogna racconta appunto il prima e il dopo di questa decisione. Alla fine del 1936 Orwell arriva in Spagna, nel pieno della guerra civile, nutrito ancora di sogni di rivoluzione e di immagini romantiche della Spagna e degli spagnoli, e accompagnato dalla moglie. Vuole raccontare quello che accade, essere un testimone. Ma si rende conto subito di non poter rimanere neutrale, e diventa protagonista. Si arruola nelle milizie del POUM, non per una scelta meditata ma perché è la prima caserma che trova, e perché ritiene che combattere con l’una o con l’altra formazione non faccia differenza, davanti ad un nemico comune. «Credevo fosse un’idiozia che gente che combatteva per salvarsi la vita dovesse appartenere a partiti diversi; il mio atteggiamento era sempre del tipo: “Perché non la smettiamo con queste sciocchezze politiche e ci concentriamo sulla guerra?”. Naturalmente questo era il corretto atteggiamento “antifascista” che era stato accuratamente diffuso dai giornali inglesi, in gran parte al fine di impedire che la gente comprendesse la vera natura del conflitto. Ma in Spagna, specialmente in Catalogna, era un atteggiamento che non si poteva mantenere a tempo indeterminato e infatti nessuno lo mantenne. Pur se a malincuore, tutti prima o poi si schieravano da una parte o dall’altra».

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Va al fronte, è ferito, dopo un paio di settimane torna a combattere, e quando a maggio del 1937 rientra a Barcellona per un normale avvicendamento si rende conto che è in atto una guerra interna allo stesso schieramento repubblicano in cui milita, anzi, una vera e propria epurazione nei confronti degli anarchici e dei trotskisti, nella quale è direttamente coinvolto. Anche lui è nella lista degli accusati di “tradimento”. A differenza di molti altri (Camillo Berneri, ad esempio, è “giustiziato” per strada in quegli stessi giorni) riesce a scappare per il rotto della cuffia. Appena in tempo per rientrare in Inghilterra e raccontare ciò che ha visto.

Il reportage che scrive a caldo (uscirà nell’ottobre dello stesso anno) si suddivide anch’esso, come Wigan Pier, in due parti. La prima è il resoconto puro e semplice dei fatti bellici, nel quale non nasconde nulla, e va dall’entusiasmo immediato che respira appena giunto a Barcellona («Camerieri e commessi ti guardavano negli occhi e ti trattavano da pari a pari. Le formule d’indirizzo servili o addirittura cerimoniose erano per il momento scomparse. Nessuno più diceva “Señor” o “Don” e neanche “Usted”; tutti si chiamavano “Compagni” e si davano del tu, si salutavano con “Salud!” invece che con “Buenos días” […] si vedevano pochissime persone visibilmente povere e nessun mendicante, tranne gli zingari. Soprattutto c’era fede nella rivoluzione e nel futuro, la sensazione di trovarsi improvvisamente in un’epoca di eguaglianza e di libertà. Gli esseri umani stavano cercando di comportarsi come tali e non come ingranaggi nella macchina capitalista […]») all’insofferenza per l’impreparazione e la disorganizzazione totale che regna nelle fila repubblicane; non parla di atti di eroismo, ma della noia e dei disagi della guerra di posizione (freddo, soprattutto, e poi sporcizia, piattole, indisciplina, ecc…). Nella seconda, che viene sviluppata come una lunga appendice, fa invece un’analisi delle vicende politiche, delle menzogne, degli intrighi internazionali che hanno portato alla disfatta. Orwell vuole raccontare con voce onesta, in base a ciò che visto, i risvolti meno nobili della tragedia spagnola. Partendo dal denunciare che: “Uno degli effetti più terribili di questa guerra è stato apprendere che la stampa di sinistra è falsa e disonesta quanto quella di destra”.

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La motivazione che Orwell dà del suo impegno è chiara, perfettamente in linea con i suoi libri precedenti: «Quando i combattimenti iniziarono il 18 luglio è probabile che ogni antifascista in Europa abbia provato un brivido di speranza. Perché, almeno in apparenza, ecco finalmente una democrazia che resisteva al fascismo. Per anni, in passato, le cosiddette nazioni democratiche avevano ceduto al fascismo a ogni piè sospinto […] e si limitavano a elevare pie proteste “fuori scena”. Ma quando Franco aveva tentato di rovesciare un governo moderatamente di sinistra, il popolo spagnolo, contro le aspettative di tutti, gli si era rivoltato contro».

Lo è anche la disposizione positiva che lo sorreggerà nel primo periodo: l’impressione di combattere a fianco di uomini finalmente all’altezza degli ideali che professano. “Nella caserma Lenin di Barcellona, il giorno prima di arruolarmi nella milizia, ho visto un volontario italiano in piedi davanti al tavolo degli ufficiali. Era un giovanottone dall’aspetto rude di venticinque-ventisei anni, dai capelli biondo-rossicci e un gran paio di spalle. Portava il berretto di cuoio con la visiera minacciosamente inclinato su un occhio. Era di profilo rispetto a me, con il mento sul petto, e scrutava con aria perplessa una cartina che uno degli ufficiali aveva aperto sul tavolo. C’era qualcosa nella sua espressione che mi commosse profondamente. Era l’espressione di un uomo che per un amico avrebbe ammazzato qualcuno e sacrificato la propria vita – l’espressione che ci si sarebbe aspettati di vedere sul volto di un anarchico, anche se con ogni probabilità lui era comunista. C’era un misto di candore e di ferocia in essa, ma anche la patetica riverenza che gli analfabeti mostrano per quelli che ritengono essere i loro superiori. Era chiaro che della cartina non capiva un accidente; che riteneva la capacità di leggere una carta topografica un’impresa intellettuale stupefacente. Non so bene perché, ma mi è capitato raramente di vedere una persona – voglio dire un uomo – che mi abbia ispirato una simpatia così immediata”.

Questa impressione non è destinata a ripetersi. Le differenti motivazioni non tardano a venire a galla, e a creare lo strappo. Tutta la vicenda, alla fine, potrebbe essere riassunta nelle poche righe che descrivono il suo sconcerto al rientro a Barcellona: «C’era lo sconvolgente mutamento nell’ atmosfera sociale – un fenomeno inconcepibile se non lo si è provato di persona. Appena arrivato a Barcellona l’avevo considerata una città in cui quasi non esistevano distinzioni di classe e grandi dislivelli di ricchezza. E senza dubbio l’apparenza era quella. I vestiti “eleganti” erano un’anomalia, nessuno era servile o accettava mance, camerieri, fioraie e lustrascarpe non abbassavano lo sguardo e davano del “compagno” a tutti. Quello che non avevo capito era che tutto questo era un misto di speranza e di mimetizzazione. La classe operaia credeva veramente in una rivoluzione che era iniziata, ma non si era ancora consolidata, mentre i borghesi si erano spaventati e si erano per il momento travestiti da lavoratori. Nei primi mesi della rivoluzione dovevano esserci state molte migliaia di persone che avevano indossato le tute e gridato slogan rivoluzionari solo per salvarsi la pelle. Ora le cose stavano tornando alla normalità».

Lo spettacolo della rivoluzione spontanea è finito. Il finale lo detta una regia remota. Gli attori, quelli stabili e quelli che si sono improvvisati o sentiti per un breve atto protagonisti, le comparse e il coro, dismettono l’abito di scena e tornano ciascuno al ruolo quotidiano. Almeno, quelli sopravvissuti.

«Era strano notare quanto le cose fossero cambiate. Solo sei mesi prima, quando gli anarchici dominavano ancora, si era rispettabili se si aveva l’aspetto di un proletario. Mentre scendevo da Perpignan a Cerbères un commesso viaggiatore francese nel mio scompartimento mi aveva detto tutto serio: “Non deve andare in Spagna con quell’aspetto. Si tolga il colletto e la cravatta. Altrimenti a Barcellona glieli strapperanno di dosso”. Esagerava, ma il suo atteggiamento dimostrava in che considerazione era tenuta la Catalogna. E alla frontiera le guardie anarchiche avevano respinto un francese elegante e sua moglie soltanto perché – secondo me – avevano un aspetto troppo borghese. Adesso era tutto il contrario; assumere un aspetto borghese era l’unica salvezza

***

8. Dopo quella di Orwell ho letto innumerevoli altre testimonianze dirette sulla guerra di Spagna, e ho notato un effetto particolare: a differenza dei testimoni della Resistenza, che al di là dei ruoli, delle opinioni, delle singole vicissitudini, raccontano tutti una vicenda che nei grandi tratti è comune, i reduci dalla guerra civile spagnola narrano la stessa storia con sguardi talmente diversi da renderla quasi irriconoscibile. Ciò vale soprattutto per i testimoni stranieri, naturalmente per gli intellettuali, e segnatamente per coloro che hanno combattuto nello schieramento repubblicano[2]. E si spiega col fatto che ognuno di loro portava con sé in Spagna una sua individualissima e particolare motivazione.

In linea di massima la guerra civile spagnola offriva a tutti la possibilità, o se vogliamo, l’illusione, di sottrarsi all’inerzia: di tornare protagonisti attivi in una storia che sembrava invece scorrere sempre più per conto proprio, indifferente alle individualità, agli ideali, ai sogni dei singoli, e che non forniva più stimoli all’azione. Finalmente c’era un nemico ben identificabile contro il quale combattere, in uno scontro almeno sulla carta non totalmente impari, e comunque giustificato, al di là degli esiti possibili, dalla volontà di resistenza finalmente dimostrata da un popolo. “Non fu tanto l’adesione incondizionata ad una causa, quanto piuttosto un atto estremo d’individualismo, una ricerca di conferme, nell’azione, alle proprie concezioni sociali e artistiche.”

Con questi presupposti, la varietà delle percezioni individuali di quella esperienza è più che giustificata. Simone Weil, ad esempio. Ancora lei, e non c’era da dubitarne. È già a Madrid nell’agosto del 1936, a pochi giorni dallo scoppio dell’insurrezione falangista, tra i primi ad accorrere. A dispetto del suo pacifismo è convinta che quando non si può più fare nulla per evitare la guerra l’unica alternativa sia impegnarsi nella lotta. Entra anch’essa col visto da giornalista, ma si arruola immediatamente nelle formazioni anarchiche. Non può accettare di vivere la lotta nelle retrovie. Le mettono in mano un fucile, si rendono conto che potrebbe farsi solo del male e la destinano al servizio in cucina e alle mense. Riesce a farsi del male lo stesso, cacciando un piede in una pentola d’olio bollente. L’ustione è abbastanza seria, e si accompagna ai dubbi velocemente maturati sulla partecipazione alla guerra. Ai primi di settembre Simone viene riaccompagnata a Parigi dai genitori, che conoscendola bene l’avevano seguita in Spagna.

La parentesi spagnola si è rivelata per lei particolarmente deludente, tanto che non ne lascia alcun resoconto: ciò che sappiamo lo si può ricostruire solo attraverso la sua corrispondenza. Intuisce le stesse cose che Orwell vedrà pochi mesi dopo, ma che le inducono un giudizio e una reazione molto diversi. La spiegazione ufficiale che darà del suo disimpegno è che la guerra non era una rivolta dei contadini affamati contro il clero e i latifondisti, ma una questione politica internazionale dietro la quale agivano l’URSS, l’Italia e la Germania nazista. A farle considerare tutti sullo stesso piano sono anche le violenze commesse dai repubblicani, in particolare dagli anarchici, che le sembrano mossi solo da una volontà distruttiva di rivincita, e non da ideali rivoluzionari. Il risultato è che la sua temporanea infatuazione per il marxismo, già messa alla prova dal rapporto con Trotskij, è definitivamente accantonata.

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Altrettanto precoce di quella della Weil è l’adesione al fronte repubblicano da parte di Nicola Chiaromonte. Esule a Parigi, in rotta con Carlo Rosselli e con Giustizia e Libertà, cui aveva inizialmente collaborato, Chiaromonte è in cerca di un ideale chiaro per il quale combattere una buona volta, uscendo dalla palude delle rivalità, dei sospetti e dei distinguo tattici e ideologici che allignano tra i fuorusciti antifascisti. L’occasione gliela offre André Malraux, col quale nel frattempo ha stretto amicizia. Malraux ha messo assieme una squadriglia aerea, raccattando gli scarti dell’aviazione militare francese, e porta con sé in Spagna un gruppo di altri esuli italiani. Come per tutti coloro che vivono questa avventura, anche per Chiaramonte il primo momento è di grande entusiasmo. Lo vive come l’occasione per dare finalmente vita, di fronte all’esigenza dell’azione, ad un fronte unico internazionale contro il fascismo. Immediatamente dopo subentra però la delusione, e anche l’irritazione, sia per la confusione che inevitabilmente si accompagna allo spontaneismo, sia perché vengono subito alla luce le manovre politiche delle diverse forze che si muovono nel campo repubblicano. Non tarda ad essere nauseato dalla strumentalizzazione operata soprattutto dai comunisti staliniani, e a novembre è già di ritorno in Francia, rompendo anche con Malraux.

Malraux invece rimane, e ci mostra anche un’altra faccia di questo variegato schieramento. Lo fa attraverso un romanzo che avrà un grande successo, La speranza, nel quale sono riconoscibilissime le varie figure storiche, dall’autore stesso, sotto le spoglie di Magnin, a Chiaromonte, ma dal quale si ricava anche lo spirito col quale ha affrontato tutta la faccenda. Malraux è un avventuriero di stampo dannunziano, determinato ad essere sempre al centro della scena, si tratti dell’Estremo Oriente, della Spagna, della Resistenza e successivamente anche del governo della Francia. Sta attraversando in quel periodo una fase di avvicinamento al comunismo, proprio mentre molti altri intellettuali se ne stanno allontanando (e alcuni di essi, come Andrè Gide, lo fanno denunciando apertamente la realtà criminale dello stalinismo, guadagnandosi il disprezzo e gli anatemi dei compagni): non è affatto un ingenuo, ma pur non potendo evitare di rendersi conto di quanto sta accadendo si forza a pensare che per fare argine contro i fascismi sia necessario anche ricorrere ai metodi staliniani. Emozionalmente sta magari dalla parte degli anarchici, ma il buon senso pratico, del quale non manca, gli dice che è necessario fare ordine nelle file dei repubblicani e ricondurre i vari gruppi militanti sotto un unico comando. Peccato che si tratti di quello stalinista, e che l’eliminazione dei dissensi interni finisca per prevalere alla fine anche sulla necessità di resistere ai fascisti. Il risultato è che il fronte libertario si sfascia, così come la squadriglia aerea, e l’azione d’ordine si rivela inutile e addirittura controproducente.

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Di una pasta per molti versi simile a quella di Malraux potrebbe sembrare Arthur Koestler, ungherese di origine ma apolide praticamente da sempre. La sua vita è altrettanto avventurosa, ma non per una scelta estetizzante, quanto piuttosto per la condizione di nascita (tra le altre cose, era ebreo) e per un carattere già naturalmente molto forte e consolidato ulteriormente dalle traversie: così che completamente diversa risulta alla fine la sua esperienza. Dopo una giovinezza decisamente movimentata, nei primi anni Trenta Koestler è entrato nel partito comunista tedesco e si è spostato a Parigi in seguito all’avvento del nazismo. Di lì passa nel 1936 come giornalista in Spagna, ufficialmente per seguire gli sviluppi dell’insurrezione falangista come inviato di un’agenzia di stampa, in realtà come agente del Comintern. Finisce per tre volte oltre le linee dei falangisti, la seconda viene riconosciuto da un ex-collega tedesco e denunciato come comunista, ma la sfanga, la terza è catturato dagli uomini di Franco e viene condannato a morte. Per tre mesi attenderà notte dopo notte nel carcere di Siviglia il momento dell’esecuzione, e nel frattempo vedrà sparire ad uno ad uno i suoi compagni di detenzione. La scamperà solo per l’intervento della diplomazia britannica, che organizza uno scambio di prigionieri.

La drammatica esperienza ha comunque lasciato il segno. Esce dal braccio della morte con una consapevolezza politica estremamente lucida. Come scrive Tony Judt, “ciò probabilmente accadde perché era lontano da Parigi, dalla comunità feconda di intellettuali progressisti, isolato da un contesto in cui esistevano molte buone ragioni non tanto per fingere, ma per tacere riguardo ai propri dubbi”. Una volta tornato in Francia, dopo l’ennesimo tradimento rappresentato dal patto Molotov-Von Ribbentrop non solo abbandona il partito, ma ne denuncia i crimini, in un libro che diverrà un classico dell’antistalinismo, Buio a mezzogiorno.

Le sue vicende spagnole sono invece narrate in un’altra opera, Testamento spagnolo, che racconta nella prima parte la resistenza ormai agli sgoccioli delle città assediate, lo scoordinamento evidente nelle fila dei miliziani, le divisioni ideologiche che contrappongono le fazioni diverse, e nella seconda il tran tran di una detenzione che per essere effettuata nel carcere più moderno di Spagna, costruito pochi anni prima secondo un modello liberale, consente un trattamento quotidiano relativamente umano, contraddetto poi drammaticamente dalle angosce della notte.

Orwell scriverà che a quel tempo Koestler era ancora un membro del partito comunista, e la complessa politica della guerra civile rendeva impossibile per ogni comunista scrivere con sincerità della lotta interna al fronte governativo. Lui stesso rivela che “dopo il ritorno dalla Spagna un certo numero di persone mi ha detto con vari gradi di franchezza che non si deve dire la verità su ciò che sta accadendo in Spagna e sul ruolo svolto dal Partito Comunista, perché farlo sarebbe pregiudicare l’opinione pubblica contro il governo spagnolo e così aiutare Franco”. Non ha accettato il ricatto. Ciò è vero solo in parte, ma è comunque significativo della differenza di approccio al tema dell’antitotalitarismo che i due manterranno anche in seguito. Non è un caso, ad esempio, che una bozza di manifesto dei diritti universali dell’uomo redatta nel 1946 da Orwell sia stata rielaborata da Koestler e da Bertrand Russell in senso molto più libertario e molto meno egualitario, e alla fine sia stata sconfessata da Orwell stesso.

Una vicenda non meno avventurosa e controversa di quelle di Malraux e di Koestler vede protagonista Claude Simon. “La prima parte della mia vita è stata piuttosto movimentata: – scrive quest’ultimo nel discorso di ringraziamento per l’ attribuzione del Nobel per la letteratura – sono stato testimone di una rivoluzione, ho combattuto in condizioni particolarmente truculente, sono stato fatto prigioniero, ho conosciuto la fame, la fatica fisica fino allo sfinimento, sono evaso, mi sono gravemente ammalato e sono stato più di una volta vicino alla morte, violenta o naturale, mi sono trovato al fianco di persone di vario genere, preti e incendiari di chiese, tranquilli borghesi e anarchici, filosofi e analfabeti, ho condiviso il pane con mendicanti, infine ho viaggiato un po’ ovunque nel mondo… e tuttavia non ho ancora mai, a settantadue anni, trovato alcun senso in tutto ciò, se non che ‘se il mondo significa qualcosa, è che non significa niente’, tranne che esiste”.

La desolante conclusione di questo abstract autobiografico ci presenta un ulteriore aspetto di questa partecipazione, e lo fa dall’alto di una esperienza durata oltre due anni. La racconta attraverso un romanzo, Le palace (del 1962), scritto in forma sperimentale, secondo i dettami dell’Ecole du regard. L’autore vi appare nei panni dello “studente”, testimone silenzioso delle discussioni tra altri personaggi, tra i quali spiccano “l’americano” (Orwell) e “l’italiano” (un sicario). È un ritorno sul luogo degli avvenimenti vissuti venticinque anni prima, un margine di tempo sufficiente a incrinare le verità del mito e a mettere sotto indagine la Storia ufficiale (che cosa è accaduto veramente?, è la domanda che ricorre) fino a sancire il fallimento di tutte le utopie. Non è un punto di vista, ma la messa in discussione di ogni punto di vista. E non finisce qui.

Un altro quarto di secolo dopo Simon torna sull’argomento con un romanzo-saggio, Les georgiques, nel quale mette nel mirino proprio l’opera di Orwell. A quest’ultimo rinfaccia una doppia contraddizione: da un lato, di non essersi accontentato di riferire le proprie emozioni, e di aver tentato una spiegazione politica e razionale di avvenimenti che non erano in realtà razionalmente inquadrabili (almeno, a caldo); dall’altro di aver dato di questi avvenimenti una versione lacunosa e distorta. Non lo scrive in difesa dell’operato degli stalinisti – lui stesso era finito nelle liste di proscrizione – ma in nome di una particolare (e piuttosto confusa) idea del ruolo della letteratura. Nella sostanza non intacca affatto la credibilità di Orwell. Mette in luce al più la complessità e i pericoli di operazioni letterarie che ambiscano ad andare in direzione della conoscenza e della spiegazione del mondo. Come a dire: o si fa della letteratura o si fa del giornalismo, e gli ibridi rischiano di falsare il vero e di sporcare il bello.

Orwell dal canto suo aveva già preventivamente risposto a questa critica: «Il mio libro sulla guerra civile spagnola è senza dubbio un libro schiettamente politico, ma è per gran parte scritto con un certo distacco e un certo riguardo per la forma. In esso ho cercato con ogni mezzo di dire tutta la verità senza sopraffare i miei istinti letterari. Ma tra le altre cose esso contiene un lungo capitolo, pieno di citazioni giornalistiche e cose simili, teso a difendere i trotzkisti che furono accusati di ordire un complotto con Franco. Chiaramente un capitolo del genere, che dopo un anno o due perderebbe d’interesse per ogni comune lettore, era destinato a rovinare il libro. Un critico che stimo mi fece su questo una ramanzina. “Perché ci hai messo dentro tutta quella roba? Hai trasformato in giornalismo quello che avrebbe potuto essere un buon libro.” Quello che diceva era vero, ma non avrei potuto fare altrimenti. Mi accadde di venire a conoscenza … che degli innocenti erano stati ingiustamente accusati, per cui se non fossi stato indignato non avrei scritto il libro

Il giovane Orweell23

9. Penso che alla luce della sua particolare concezione della letteratura Simon abbia invece apprezzato la testimonianza letteraria fornita da un altro militante inglese, Laurie Lee. Nel 1935, a ventun anni, Lee aveva attraversato a piedi in otto mesi tutta la Spagna, per fermarsi poi a svernare in un paesino nei pressi di Malaga. Lì lo aveva raggiunto nell’estate successiva la guerra, ed era stato rimpatriato. Ma ormai la Spagna gli era entrata nel cuore, e l’inverno successivo, alla fine del ‘37, quando quasi tutti coloro di cui ho parlato sinora erano rientrati in patria, aveva rivalicato clandestinamente i Pirenei per andare ad arruolarsi tra i repubblicani.

Cosa ci aveva portati lì, insomma? Le mie ragioni sembravano abbastanza semplici, nonostante una certa confusione: ma erano così quelle della maggioranza degli altri: fallimenti, miseria, debiti, la legge, tradimenti di mogli o amanti, la maggior parte delle motivazioni che spingevano uno a partecipare a guerre straniere. Ma nel nostro caso, credo, condividevamo qualcos’altro, che ritenevamo unico allora: la possibilità di compiere un gesto grandioso e semplice di sacrificio e di fede personali che poteva non presentarsi mai più. Certamente era l’ultima volta nel secolo che una generazione aveva una simile opportunità, prima che si addensasse la nebbia del nazionalismo e degli stermini di massa. […] Per il momento non c’erano mezze verità o esitazioni, avevamo trovato una nuova libertà, quasi una nuova morale, e scoperto un nuovo Satana: il fascismo.”

La vicenda spagnola aveva toccato nel profondo gli animi della gioventù progressista inglese. Come testimonia Eric Hobsbawm, “Chiunque entrasse nelle stanze degli studenti socialisti e comunisti di Cambridge in quei giorni era quasi certo di trovare in esse la fotografia di John Cornford, intellettuale, poeta, leader del Partito Comunista studentesco, caduto in battaglia in Spagna nel giorno del suo ventunesimo compleanno nel dicembre 1936.”

Il racconto che della propria esperienza Lee fa in Un bel mattino d’estate e in Un momento di guerra sarebbe piaciuto a Simon, perché l’autore non tenta di darsi alcuna spiegazione di quanto gli accade, e gliene accadono davvero di ogni colore. Dopo il rientro in Spagna la metà del suo tempo la trascorre in carcere, sospettato a più riprese di essere una spia, un infiltrato, un anticomunista, e rischia costantemente di essere messo al muro. Per il resto, è sballottato lungo il fronte senza mai sapere quale sia la sua destinazione e il suo ruolo, sino a trovarsi in mezzo alla battaglia di Teruel, che vive solo come una serie di scaramucce per salvare la pelle e sganciarsi dal nemico. Credo anch’io che questo racconto sia, tra tutti quelli che ho letto, il più capace di darci una immagine della realtà di cui fu fatta quella guerra: freddo, fame e pidocchi, ma soprattutto un senso di sospetto continuo, di rivalità interne e di assoluta disorganizzazione.

Altri due connazionali di Orwell e di Lee, i poeti Wynstam Auden e Stephen Spender, interpretano ancora diversamente il loro impegno. Sono già famosi, legati a quel circolo sofisticato che i critici più severi, tra cui Orwell stesso, chiamano “la cricca di Bloomsbury”. Arrivano in Spagna poco più tardi di Orwell, ai primi del 1937, mossi da un entusiasmo piuttosto snobistico, dettato da una confusa e superficiale simpatia per il comunismo. A Auden in realtà è stato chiesto di recarsi in Spagna perché il suo nome e la sua partecipazione possono esercitare un certo richiamo propagandistico, e non ha molto chiaro che ruolo può svolgere. Ad un amico scrive: “Probabilmente sarò un maledetto cattivo soldato. Ma come posso parlare per loro senza diventarlo?” I due si arruolano per prestare servizio nella sanità, ma vengono immediatamente spostati alla propaganda. Come scriverà Spender: “Il compito di Auden era di guidare autoambulanze. Mi domando ancora come facesse, perché non sapeva guidare”. Il che la dice lunga sullo spirito col quale l’avventura era stata affrontata.

E infatti, la militanza di Auden dura sette settimane. Dopo aver visto il fronte aragonese, lo stesso sul quale combatte Orwell, scrive di aver scoperto che “una parte di me chiede di vivere disperatamente”, ma è l’altra, quella che scopre le atrocità commesse da ambo le parti e la lotta per la spartizione del potere interna allo schieramento antifascista, ad avere la meglio. Fiaccato anche da condizioni quotidiane di vita cui non è assolutamente abituato, se la fila. Di quella esperienza è rimasto nella sua opera solo un piccolo poema, Spagna, 1937, ispirato proprio dalla visita al fronte, scritto immediatamente dopo il rientro e divenuto subito famoso. Ma Auden lo toglierà pochi anni dopo dalla raccolta poetica nella quale era stato pubblicato, e non tornerà mai più sull’argomento.

Orwell giudicava Spagna 1937 una delle poche cose buone uscite dal conflitto. Ma ad Auden non faceva altre concessioni. Non aveva mai nascosto il suo disprezzo per i “poeti effeminati” (“Volete piantarla di mandarmi queste stronzate? Io non sono uno dei vostri finocchietti alla moda come Auden e Spender… Io so cosa sta succedendo, cioè che il fascismo viene imposto ai lavoratori spagnoli con il pretesto della resistenza al fascismo”, scriveva alla “Left Review”, in risposta a un questionario per intellettuali) ed era rimasto molto urtato da un verso del poema stesso, quello in cui si parla de “[…] La consapevole assunzione di colpa nell’omicidio inevitabile”, nel quale leggeva una legittimazione delle epurazioni “necessarie” operate dagli stalinisti. “Qualcuno nell’Europa dell’Est liquida un trotskista, qualcuno a Bloonsbury ne scrive la giustificazione”. Evidentemente leggeva giusto, se Auden si era poi affrettato a cambiare il verso.

Il giovane Orweell24Le motivazioni che avevano portato Auden e Spender in Spagna sono espresse invece molto chiaramente dal secondo nella sua autobiografia, Un mondo nel mondo: andare a combattere dalla parte comunista in Spagna sembrava il solo modo possibile di essere antifascisti. «Il comunismo “occidentale” – scrive – in quegli anni era una cosa molto diversa. Uscivamo dal disastro del 1929, il capitalismo sembrava un sistema finito, incapace di trovare soluzioni, pareva invece che in Urss avessero la risposta, e la risposta stava in un modello economico e sociale ideale applicabile anche qui […] Eravamo consapevoli dell’abisso ma non vedevamo nuovi valori che potessero sostituire quelli che ci avevano sorretto nel passato. Nel giro di poche settimane, la Spagna divenne un simbolo di speranza per tutti gli antifascisti. Offriva un 1848 al ventesimo secolo».

Spender racconta di essere stato comunista solo per poche settimane. Il suo comunismo, come quello di molti altri suoi amici che con lui andarono a combattere dalla parte comunista in Spagna – tra cui Julian Bell, il nipote di Virginia Woolf, che ci morì – esprimeva in definitiva, a suo parere, il solo modo possibile di essere antifascisti. E giustifica così quel futile entusiasmo: “Bisogna aver vissuto quegli anni per capire cosa significasse. Le cose che si dicevano su Mosca, sui processi staliniani, avrebbero potuto essere, dopo tutto, un grande macchinazione della propaganda di destra”.

Mi sembra peraltro interessante una lettera scritta da Orwell a Spender l’anno successivo il loro rientro in Inghilterra. Interessante perché testimonia della estrema schiettezza del primo, ma al tempo stesso della sua capacità di correggere i propri giudizi quando dal piano politico scende su quello umano, senza tuttavia rinnegare nessuna delle proprie convinzioni. «“Mi chiedi come mai ti abbia attaccato nonostante non ti avessi mai incontrato, e d’altro canto abbia cambiato idea dopo averti incontrato. Non so se si può dire che ti abbia attaccato, ma ho certamente fatto osservazioni offensive sui “chiacchieroni Bolscevichi come Auden e Spender” o qualcosa di simile. Ti ho usato come simbolo del parlatorio Bolshie perché a) il tuo verso, ciò che ho letto di esso, non vuol dire molto per me, b) ti ho preso per una specie di uomo alla moda, di successo, un Comunista o un simpatizzante Comunista, e sono stato piuttosto ostile al Partito Comunista dal 1935, e c) perché non avendoti incontrato ti consideravo un tipo e dunque un’astrazione. Anche se quando ti ho incontrato non è capitato che ti piacessi, avrei dovuto comunque cambiare atteggiamento, perché quando incontri una creatura di carne ti rendi immediatamente conto che è un essere umano e non una specie di caricatura che incarna alcune idee. Anche per questa ragione non frequento i circoli letterati, perché so per esperienza che una volta incontrato e parlato con qualcuno non sarò più in grado di mostrare alcuna brutalità intellettuale nei suoi confronti, anche quando mi sentirei in dovere di farlo, come quelli del Labour Party, che più vengono pigliati a bastonate dai duchi e più si perdono

Non tutti i letterati inglesi hanno però militato nelle file dei repubblicani. Occorre ricordarlo, e non solo per par condicio. Quando scoppia la guerra civile il poeta Roy Campbell si trova già da diversi anni in Spagna. È un personaggio complesso, originario del Sudafrica, dove ha imparato a parlare la lingua zulu e dove sarà sempre poco tollerato per le sue posizioni anti apartheid e per la denuncia delle nefandezze del colonialismo: si era trasferito molto presto in Inghilterra, suscitando entusiasmo per le sue doti poetiche ma attirandosi anche molte antipatie per le critiche sarcastiche rivolte ai circoli “progressisti”, soprattutto al gruppo di Bloomsbury, che non sopporta (definisce Auden e Spender “fanciulli effeminati che suonano il piffero e si scuotono, annoiati” e “intellettuali ma senza intelletto / gente senza un sesso i cui sessi si trovano a metà”; con Spender fa anche a cazzotti). Aveva poi lasciato l’isola per trasferirsi sul continente, come moltissimi altri inglesi, per ragioni economiche. Condivide comunque con Orwell molte idiosincrasie nei confronti dell’establishment culturale.

Il giovane Orweell25In un primo momento Campbell non prende posizione, ma si è da poco convertito al cattolicesimo e le sue simpatie non vanno certo agli anarchici e ai comunisti. Tanto più dopo che assiste all’incendio delle chiese di Toledo, ai roghi di libri e di immagini sacre e alle fucilazioni di frati e suore. A questo punto si arruola nelle truppe carliste (ufficialmente come corrispondente di guerra), e in queste continuo militare sino alla fine del conflitto. Come Auden, non racconta direttamente la sua esperienza, ma la traduce in una serie di poesie, alcune delle quali molto efficaci “I nostri fucili erano troppo caldi per tenerli / La notte era fatta di acciaio lacerante, / E lungo la strada le raffiche rotolarono / Dove come in preghiera i cecchini si inginocchiano.” Nel ‘39, al termine del conflitto, scrive il poema Fucile Fiorente, e questo gli vale la patente definitiva di filo-fascista. In effetti è un’ode a Franco, ma Campbell protesterà sempre di credere non solo nella famiglia e nella religione, ma soprattutto nella tolleranza.

La guerra diventa nella sua poesia lo scenario di una battaglia superiore, apocalittica, tra le forze del bene e quelle del male, tra lo spirito e la materia, tra dio e il nulla, e il poeta si fa testimone delle persecuzioni contro il cristianesimo, i suoi luoghi di culto, i suoi fedeli. “Più persone sono state imprigionate per la Libertà, umiliate e torturate per l’Uguaglianza e massacrate per la Fraternità in questo secolo, che per motivi meno ipocriti, durante il Medioevo.”

A differenza di Auden, che allo scoppio del secondo conflitto mondiale si rifugia in America e si trincera dietro un opportuno e apolitico pacifismo, Campbell si arruola, viene accolto tra i fucilieri reali a dispetto dell’età e di condizioni fisiche precarie e viene inviato nell’Africa orientale britannica, dove si rivela prezioso per le sue conoscenze linguistiche. Non fa tutto questo per riscattarsi, non rinnega nulla della sua esperienza precedente, anche se rispetto al regime di Franco ha cambiato idea (e infatti, ha lasciato la Spagna per trasferirsi in Portogallo, considerato meno fascista).

Mi sembra strano non aver trovato nei saggi e negli articoli di Orwell alcuna menzione di questo personaggio, che pure godeva nell’ambiente letterario di una certa notorietà. Immagino però che non avesse molto da dire in proposito: in fondo Campbell si era schierato e aveva coerentemente combattuto sino alla fine per la parte scelta. Politicamente era stato un avversario, ma non lo aveva combattuto standogli alle spalle, ed eticamente meritava rispetto. O almeno, il silenzio.

Insomma, mi rendo conto che Orwell a questo punto sembra essere diventato solo un pretesto per parlare d’altri. Ma non è così. Credo che il confronto tra le sue esperienze e quelle di chi ne ha vissute di analoghe, o meglio, tra i resoconti che di quelle esperienze sono state date, possa riuscire illuminante per comprendere gli aspetti più particolari della sua mentalità e della sua personalità. Ciò spiega anche perché dalla carrellata sui partecipanti alla guerra di Spagna abbia escluso gli italiani, con l’eccezione di Chiaromonte. Non perché le esperienze di questi ultimi risultino meno significative, ma perché in quel periodo gli italiani, proprio per la loro condizione di esuli che il fascismo lo conoscevano bene, e da anni, avevano una consapevolezza politica diversa. Erano in sostanza molto più “politicizzati” degli altri, e arrivavano da un dibattito ormai più che decennale. Per nessuno di loro la partecipazione fu un’avventura: era in gioco qualcosa di molto più ampio della semplice realizzazione individuale. Non è un caso che una presenza così massiccia non abbia poi prodotto opere particolarmente significative sul piano della memorialista personale, ma solo resoconti di interpretazione o di giustificazione politica.

Lo spirito di quella partecipazione, almeno quello di chi accorse a combattere nelle file repubblicane, era comunque perfettamente espresso nelle famose parole di Aldo Rosselli: “È con questa speranza segreta che siamo accorsi in Ispagna. Oggi qui, domani in Italia. Ogni sforzo sembra vano contro la massiccia armata dittatoriale. Ma noi non perdiamo la fede. Sappiamo che le dittature passano e che i popoli restano. L’esperienza in corso in Ispagna è di straordinario interesse per tutti. Qui, non dittatura, non economia da caserma, non rinnegamento dei valori culturali dell’Occidente, ma conciliazione delle più ardite riforme sociali con la libertà. Non un solo partito che, pretendendosi infallibile, sequestra la rivoluzione su un programma concreto e realista: anarchici, comunisti, socialisti, repubblicani collaborano alla direzione della cosa pubblica, al fronte, nella vita sociale. Quale insegnamento per noi italiani!

Lo spirito non era poi in fondo così diverso da quello che animava Orwell. Molto diverso fu invece l’insegnamento che da quella vicenda gli arrivò.

Una bibliografia provvisoria

George Orwell, Un’autobiografia involontaria, Rizzoli, 2021

George Orwell, Nel ventre della balena, Rizzoli, 2013

George Orwell, Giorni in Birmania, Rizzoli, 2013

George Orwell, Senza un soldo a Parigi e a Londra, Mondadori, 1966

George Orwell, La strada di Wigan Pier, Mondadori, 1960

George Orwell, La fattoria degli animali, Rizzoli, 2013

George Orwell, Omaggio alla Catalogna, Mondadori, 1948

George Orwell, 1984, Rizzoli, 2013

George Orwell, Romanzi e saggi, Mondadori, Meridiani, 2000

George Orwell, Una boccata d’aria, Mondadori, 1966

George Orwell, Fiorirà l’aspidistra, Mondadori, 1960, 2006

George Orwell, Diari di guerra, Mondadori, 2007

AA VV, Orwell e i maiali della libertà, Bevivino editore, 2004

Bernard Crick, George Orwell, Il Mulino, 1991

Christopher Hitchens, La vittoria di Orwell, Scheiwiller, 2008

Filippo La Porta, Maestri irregolari, Bollati Boringhieri, 2007

Ruyard Kipling, Kim, Adelphi, 2000

Ruyard Kipling, Racconti del mistero e dell’orrore, Bompiani, 1990

Ruyard Kipling, Tutte le opere, Mursia, 1964 (4 voll.)

Ruyard Kipling, Qualcosa di me, Einaudi, 1987

Jack London, Il popolo dell’abisso, Mondadori, 2018

George Gissing, Sulla riva dello Ionio. Cappelli, 1957

George Gissing, Il giornale intimo di Henry Ryecroft, Paoline, 1962

Simone Weil, La condizione operaia, Edizioni di Comunità, 1952

Simone Weil, La prima radice. Edizioni di Comunità, 1954

Simone Weil, Sulla guerra. Scritti 1933-1943, Pratiche, 1998

André Malraux, La speranza, Bompiani 1986

Nicola Chiaromonte, Il tempo della malafede e altri scritti, Edizioni dell’Asino, 2013

Nicola Chiaromonte, Scritti politici e civili, Bompiani, 1976

Arthur Koestler, Dialogo con la morte, Il Mulino, 1993

Claude Simon, Le Georgiche, Lavieri edizioni, 2012

Claude Simon, Le Palace, Éditions de Minuit, 1962

Laurie Lee, Un momento di guerra, L’Ippocampo, 2007

Laurie Lee, Un bel mattino d’estate, L’Ippocampo, 2008

Wystan Auden, Un altro tempo, Adelphi, 1997

Stephen Spender, Un mondo nel mondo, Barbès, 2009

Roy Campbell, Flowering Rifle, A poem from the battlefield of Spain, Longmans & Company, 1939

Utili e interessanti:

Aldo Garosci, Gli intellettuali e la guerra di Spagna, Einaudi,1959

Sara Polverini, Letteratura e memoria bellica nella Spagna del xx secolo, Firenze University Press, 2013

(Fine della prima parte)

[1] “A viva voce”, in Racconti del mistero e dell’orrore, Bompiani 1990

[2] La cifra più attendibile per la forza del corpo di volontari stranieri che combatterono per la Repubblica è di circa 35.000. Hugh Thomas, il principale storico della guerra, parla di 40.000.

Concedersi una gamba a riposo

di Fabrizio Rinaldi, 29 maggio 2022

Sulla parete accanto alla scrivania ho una riproduzione della fotografia di Luigi Ghirri che vedete qui sopra. Sembra una delle infinite varianti del Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich, ma in essa chi guarda, anziché picchi e nubi, questa volta ha davanti a sé un oceano di persone che lo ascoltano (ho ingrandito l’immagine per verificarlo, ed effettivamente è così per gran parte di loro).

Essendo restio ad espormi in qualsiasi uditorio, non riesco ad immaginarmi in una situazione del genere. Quel signore in doppiopetto invece sembra perfettamente a proprio agio nello stare di fronte a più di un milione di persone in quella piazza di Reggio Emilia nel 1983. e a parlare loro con sicurezza e tranquillità.

Ciò che più mi colpisce in questa immagine è proprio quella gamba accavallata in stato di riposo. Se non fosse convinto di ciò che sta dicendo, probabilmente non riuscirebbe a concedersi il lusso di riposare una gamba, issare il busto sul braccio sinistro e contemporaneamente dire parole sensate e giuste. È un equilibrio fra compostezza e misurata fierezza. Quell’uomo era Enrico Berlinguer.

Appartengo alla generazione che non lo ha votato semplicemente perché ero ancora minorenne quando morì, l’anno successivo a questo comizio. I miei, però, sì: credo che lo facessero non tanto per una convinzione politica, ma, come diceva Giorgio Gaber in una canzone, “perché Berlinguer era una brava persona”. Già allora si votava il leader di fans club più che il partito. Ne sono degli esempi Craxi, Bossi, Berlusconi, e più recentemente Renzi e Salvini.

A differenza di questi pifferai magici, Berlinguer non si limitava alle invettive contro gli avversari (pratica indispensabile oggi), ma esponeva il suo pensiero in maniera tale da conquistare la fiducia in ciò che proponeva. Nonostante parlasse forbito (lontanissimo dai canoni televisivi attuali), arrivava non solo al cuore, alla pancia, ma pure al cervello delle persone, e riusciva a traghettare il carrozzone del suo partito verso i successi elettorati.

Non sto a descrivere la sua figura politica ed umana perché in questi giorni, in occasione dei cento anni dalla nascita, lo si fa già ovunque e in tutte le salse. Però mi chiedo quale posizione assumerebbe rispetto alla guerra in Ucraina, al votare l’invio di armi per sostenerne la resistenza. In fondo, nel 1968 non temette di esporsi stigmatizzando la scelta dei sovietici di reprimere con i carri armati la effimera svolta democratica in Cecoslovacchia: ed erano tempi in cui certe posizioni all’interno del partito comunista erano ancora tutt’altro che maggioritarie.

Non lo sapremo mai, comunque, perché da quel palco Berlinguer non scese. Farlo avrebbe implicato comprendere davvero le mutazioni profonde dei valori e dei bisogni della folla che lo applaudiva. Non lo fece lui, così come non lo fecero i suoi eredi e coloro che lo assunsero come icona ideale di un certo modo di vedere la politica e l’uguaglianza sociale. La conseguenza è l’attuale evaporazione della sinistra, come la nebbia del dipinto di Friedrich.

Concedersi la gamba a riposo02

Il disarmo totale può essere considerato una “utopia”? Io dico di no. Tecnicamente oggi è possibile controllare il disarmo, mentre nel passato non era così. Io dico che esso diventerà una necessità, non solo per sopravvivere, ma anche per risolvere i problemi dell’umanità a cominciare da quelli dello sviluppo. Certo oggi il mondo sembra andare in un’altra direzione, ma io credo che questa che è stata una tipica utopia del movimento socialista ritorna oggi di grande attualità.
Enrico Berlinguer, da La Democrazia Elettronica,
intervista di Ferdinando Adornato, l’Unità, 18 dicembre 1983

Collezione di licheni bottone

A la izquierda, Pablo. Con Juicio

di Paolo Repetto, 19 maggio 2022

Nella sua ultima autobiografia (Gianni Repetto, My name is Jack, vol.1) mio fratello, accennando a quella che era la mia militanza politica nel ’68, usa l’espressione “blandamente di sinistra”. L’amico che mi ha segnalato la cosa ha chiesto se mi riconosco in quella definizione. Forse si attendeva che ne fossi un po’ disturbato. Invece ho risposto: “Sì e No”.

Allora. Sì, se il termometro col quale misuriamo la “lateralizzazione” è tarato sulle scale in voga all’epoca. In questo caso la mia temperatura non avrebbe superato i trentasette gradi. No, invece, in base a quelli che all’epoca erano già i miei personalissimi valori caratterizzanti “l’essere a sinistra”.

Mi spiego, concedendomi anch’io un ennesimo spezzone autobiografico e ripetendo cose già dette più volte. Nel sessantotto avevo vent’anni ed ero al primo di università. Arrivavo dalla campagna e da un liceo di provincia, e mi sono trovato in mezzo a gente molto più “avanti” sul piano della conoscenza dei testi sacri del marxismo o del socialismo ereticale (quanto più avanti non lo so, ho sempre sospettato che i più millantassero un credito di letture non fatte o, quando fatte, digerite male).

Più che frequentare l’ateneo in realtà lavoravo (portavo mobili, cucine e lavatrici in fatiscenti caseggiati del centro storico, sei piani rigorosamente senza ascensore), ma ho partecipato – forse sarebbe più corretto dire “ho presenziato” – ad assemblee nelle quali si sventolavano i libretti rossi di Mao, si inneggiava a Cuba e si pianificavano spedizioni di aiuto alla sua rivoluzione (vitto e alloggio alla cubana, sei mesi di canna da zucchero e sei di università, – e non si pianificavano soltanto, un gruppo partì veramente e fu di ritorno dopo neppure un mese: evidentemente avevano iniziato dalla canna da zucchero), si organizzavano cortei di protesta contro la guerra nel Vietnam, si sbertucciavano e si cacciavano i docenti di filosofia rei di aver studiato Heidegger (i contestatori più scatenati erano gli stessi che pochi anni dopo, assurti a loro volta alla cattedra, di Heidegger avrebbero fatto il faro del Novecento). All’epoca nemmeno sapevo chi fosse Heidegger, e oggi sono io stesso a tagliare corto con chi me lo tira in ballo: ma erano la protervia, l’arroganza ignorante e vigliacca di gente che lo conosceva non più di me a darmi fastidio.

Mi sono trovato coinvolto anche in una assemblea unitaria con i lavoratori della Piaggio, all’insegna dello slogan “studenti e operai, uniti nella lotta”. Gli operai chiedevano un aumento di trentacinque lire l’ora, gli studenti spiegavano loro che erano gli attori principali della rivoluzione, che dovevano rifiutare la mediazione sindacale, che trentacinque lire erano una miseria e bisognava piuttosto rovesciare il sistema. Finirono per lottare separatamente.

Un paio di volte poi sono finito (del tutto involontariamente) di fronte a cariche della polizia, e ne sono uscito indenne grazie a buone gambe, non abbastanza veloci però da evitarmi una segnalazione e un monito sibillino a mia madre da parte di un compaesano che lavorava in questura. In una di queste occasioni, dei trenta compagni fermati dai questurini ventinove era già a casa la sera stessa, mentre un amico della valle Scrivia, che non aveva il telefono in casa e meno che mai un avvocato di fiducia cui telefonare, dovette rimanere in carcere per venticinque giorni.

A la izquierda 02Ho persino fatto da guardaspalle per un breve periodo ad un amico che sarebbe poi diventato un dirigente di Lotta Comunista, minacciato di pestaggio da parte di un gruppo neofascista. E non me ne vergogno, perché ero ancora nella fase in cui non mi spiaceva menare le mani, e non era certo l’ideologia a motivarmi: quelle notti trascorse ad accompagnare a casa prima l’uno e poi l’altro compagno, reduci dalle proiezioni di Ottobre o de La corazzata Potiemkin al Centrale, attraversando una Genova deserta e ritrovandomi a fare ritorno da solo all’altro capo della città alle tre, sono tra i miei ricordi più belli.

Dunque è chiaro che, al di là dei vincoli di amicizia che comunque esistevano, “quella” sinistra fatta di figli di papà e di garantiti non potevo che disprezzarla, e non solo blandamente, ma con tutto il cuore, così come disprezzavo buona parte di quella del mio paese, nostalgica di Baffone e rancorosa. In tal senso l’espressione usata da Gianni (nella quale non trovo nulla di riduttivo) pecca addirittura per eccesso.

A la izquierda 03

Arriviamo invece al No, al mio modo di intendere lo stare a sinistra, che non è (e non lo era nemmeno cinquant’anni fa) ispirato ad un sogno rivoluzionario, ma alla coerenza nel rispetto di pochi principi fondamentali. Beninteso, sono anch’io convinto che sia necessario impegnarsi a migliorare le cose, lo stato del mondo, ma non credo che questo si ottenga ribaltandolo. Le esperienze del passato lo confermano. Ciò non significa che io sia un “riformista”. Le riforme, come le rivoluzioni, tendono a calare dall’alto, a guidare dall’esterno la presa di coscienza degli individui. A differenza delle seconde possono essere a volte le benvenute, ma non risolvono mai il problema di fondo.

Per come la vedo io, e sintetizzando al massimo, le caratteristiche “necessarie” per potersi definire di sinistra sono:

  • un atteggiamento di indignazione nei confronti di ogni forma di privilegio, di sopraffazione e di sfruttamento;
  • il rifiuto di considerare l’ineguaglianza sociale come una fatalità o un portato naturale inestirpabile, e quindi la volontà di battersi per cancellarla o almeno alleviarla;
  • la fiducia nella volontà e nella capacità degli uomini di mettere mano ad un miglioramento della società.

Credo che tutti coloro che si professano di sinistra possano essere d’accordo. Ma per me lo “stare a sinistra” non si esaurisce qui: parte molto più a monte. Questi atteggiamenti sono infatti sì necessari, ma non sufficienti. Si tratta di atteggiamenti “di massima”, che possono di volta in volta suggerire un orientamento nell’azione, ma devono già prima trovare un riscontro continuativo in valori vissuti nella quotidianità. Tali valori sono il rispetto di sé e degli altri, la correttezza, la lealtà, la solidarietà con le vittime, il rifiuto di ricevere o infliggere umiliazioni, la capacità insomma del singolo di assumersi in ogni situazione la responsabilità di una condotta eticamente coerente. L’ indignazione nei confronti della sopraffazione deve esprimersi già nel giro della famiglia, della compagnia, delle amicizie, dei rapporti scolastici e di quelli lavorativi, così come la condivisione degli impegni e degli sforzi e la solidarietà nei confronti dei meno fortunati. La reazione collettiva, la mobilitazione delle masse, può aver senso solo se queste ultime sono passate attraverso una preventiva presa di coscienza individuale. Diversamente, non sarà certo il marciare dietro una bandiera, scandendo slogan e impastandosi la bocca di ideologie decotte, a poterle riscattare.

Nel Sessantotto dell’interpretazione autentica di Marx o di Lenin sapevo nulla, e non mi fregava nulla, mentre in storia ero ferrato e conoscevo dunque i disastri cui le “interpretazioni autentiche” avevano condotto. Una cosa comunque avevo cominciato a capire: era su me stesso che dovevo lavorare per mettere ordine in quello che mi era sino ad allora arrivato dai dignitosi silenzi di mio nonno e dal titanismo eroico di mio padre, dalla frequentazione dell’oratorio, dai fumetti di Tex e di Corto Maltese, dai film di John Ford e dai romanzi di London. La mia linea di lotta e di condotta passava per quelle cose lì, e quello che coltivavo era piuttosto un ideale cavalleresco che un credo politico (il che potrebbe rendermi addirittura sospetto di una “lateralizzazione” in direzione ben diversa). Questo ideale l’ho poi vissuto, nelle relazioni e nel lavoro, per quanto possibile, sempre come un personalissimo codice comportamentale.

Qui sta il punto. Confesso di aver a lungo pensato (nel Sessantotto lo pensavo senz’altro) che la capacità di auto-responsabilizzarsi fosse un portato della cultura, dipendesse dal livello e dalla qualità dell’istruzione ricevuta e delle esperienze vissute. Non mi illudevo che col tempo questa capacità si sarebbe diffusa al punto da consentire la nascita di una società fondata su relazioni sociali del tutto nuove, ma una qualche speranza di miglioramento la mettevo in conto.

Di lì a breve, però, ho cominciato a realizzare che la “disposizione a sinistra” non la si può né insegnare né imparare. In essa agiscono fattori sia biologici che culturali, e i primi sono in sostanza più determinanti dei secondi, nel senso che laddove indirizzino un carattere nella direzione contraria nessuna “rieducazione” è possibile. Per farla breve, sono convinto che una parte degli umani viva, per una pura disposizione caratteriale, sentendosi costantemente in debito, non nel senso oppressivo di certo protestantesimo, ma in quello sereno che porta a vivere come un personale piacere il rispetto per gli altri; mentre un’altra parte (temo sia la più numerosa) nutre la costante convinzione di essere in credito, di non aver ricevuto dalla vita quanto meritava, di vedersi negare dei diritti e dei riconoscimenti. I primi, quando non esasperano il loro atteggiamento, vivono passabilmente in pace con se stessi e con gli altri: i secondi covano un risentimento sordo, sono coloro che predicano più convintamente gli ideali, compresi quelli della sinistra, adattandoli magari a sempre nuove “interpretazioni autentiche”, ma cercano in realtà solo l’affermazione di sé.

In sostanza ho capito che esiste “la sinistra” eterna, immutabile, dei valori fondamentali e non negoziabili: ed esistono “le sinistre”, transitorie, mutevoli, infarcite di ideologie e conflittuali tra loro, quasi sempre ostaggi di “avanguardie intellettuali” che si arrogano il monopolio del pensiero. Ho la presunzione di appartenere, e tutt’altro che blandamente, alla prima. Che non trionferà mai, ma con la sua sola esistenza fa da baluardo al precipitare nella barbarie. E che, proprio in quanto geneticamente determinata, continuerà ad esistere (magari con altro nome, come già esisteva prima dell’Ottocento) e ad essere trasmessa alle nuove generazioni. Sperando che le bio-tecnologie non arrivino a cancellare anche questo millenario corredo.

Troppo semplicistico? Può darsi: ma è l’unica spiegazione che regga alla prova della mia esperienza.

A la izquierda 04

Rifiuti

di Paolo Repetto, 26 aprile 2022

Due settimane di forzata semi-immobilità fiaccano qualsiasi resistenza. Negli ultimi giorni ho cominciato a giocare coi tasti del telecomando e a fare lo slalom tra le pause pubblicitarie, per rivedere per l’ennesima volta vecchi film western ed episodi del primo Barnaby. Ma ho anche seguito i telegiornali e le rassegne stampa, su quattro o cinque canali diversi, illudendomi di accedere a una varietà di opinioni e trovando invece le stesse discussioni oziose e addirittura gli stessi ospiti che si avvicendavano da una rete all’altra, dando prova di una straordinaria ubiquità. Risultato: tra virologi e psicologi e sociologi e generali in pensione, le nuove star degli ormai onnipresenti talk di “approfondimento”, ho capito che della situazione sanno tutti più o meno quanto me.

Se voglio fare un paio di riflessioni non devo dunque tenere conto delle notizie principali, quelle che occupano la gran parte dei servizi televisivi e le prime dieci pagine dei quotidiani, la guerra in Ucraina e la persistenza del Covid, né della mattanza strisciante che si consuma sui luoghi di lavoro o tra le mura domestiche. Mi concentro invece su alcuni episodi di cronaca spicciola, che vengono segnalati ed esecrati, ma sui quali si riflette poco o si fanno solo stucchevoli discussioni da salotto.

Dunque. Negli ultimi quindici giorni ho appreso che:

  • a Napoli un anziano sceso in strada per buttare la spazzatura è stato aggredito e strattonato da un gruppo di giovinastri, e cacciato alla fine lui stesso nel cassonetto. Il tutto, comprese le urla e le richieste di aiuto della vittima e le risate dei persecutori, filmato e messo in rete da spettatori evidentemente molto divertiti.
  • Sul treno Genova-Torino una carrozza con posti riservati e prenotati per un gruppo di disabili è stato occupata da altri passeggeri, che si sono rifiutati non solo di sgomberare ma persino di lasciarsi identificare dai poliziotti intervenuti. I disabili hanno dovuto attendere i treno successivo.
  • A Milano uno psicologo sessantenne è stato aggredito mentre passeggiava per strada e colpito con un pugno in pieno viso da un giovane staccatosi da una banda che sopravveniva in direzione opposta. Tutto questo senza alcuna motivazione, probabilmente come gesto di iniziazione. Lo psicologo rischia ora di perdere la vista da un occhio.

Rifiuti 02

Mi fermo qui, ma potrei continuare all’infinito, perché episodi di questo tipo, che in fondo appaiono secondari di fronte alle continue esplosioni di violenza omicida per un posteggio, per uno sguardo storto in discoteca o per una lite condominiale, sono comunque ormai la quotidianità, e vengono riportati in genere solo sui giornali o nelle emittenti locali. In realtà secondari non sono affatto, perché non sono nemmeno “giustificati” da una pur futile motivazione. Sono il frutto di stupidità pura, di assenza di qualsivoglia sensibilità civica, della presunzione (purtroppo fondata) di godere di una totale impunità. Cinquant’anni fa sarebbero state notizie da prima pagina, e avrebbero suscitato uno sdegno unanime. Oggi sembrano accettate con una passiva rassegnazione.

Quello che colpisce è appunto il tipo di reazione: rassegnata, come ho già detto, da parte dell’opinione pubblica, e totalmente passiva da parte di quelle istituzioni che dovrebbero garantire un minimo di sicurezza. Nello stesso periodo non ho letto né visto infatti che qualcuno dei protagonisti negativi sia stato identificato, malgrado provvedano essi stessi in genere a diffondere le immagini delle loro gesta. E meno che mai che sia stato sbattuto in galera o, come io auspicherei, messo alla gogna (non quella mediatica, ma quella reale) o preso a calci nel sedere o lasciato alla mercé delle vittime. Ho saputo invece di macchine della polizia assediate e danneggiate, di vigili e conducenti di autobus massacrati, di raid per le vie principali delle grandi città, in pieno giorno, da parte di bande che quando va bene si danno appuntamento per scontri a bastonate e coltellate, e quando va male danno la caccia ai passanti. Tutto questo è intollerabile, sento ripetere ad ogni nuovo episodio: ma in realtà continua ad essere tranquillamente tollerato. Sono vicende assimilate ormai ai fenomeni atmosferici: accadono e non possiamo farci niente, salvo lamentare nebulose responsabilità “sociali”.

Le responsabilità invece non sono affatto nebulose. Se le forze dell’ordine non intervengono, o se quando intervengono non sembrano avere alcun potere di dissuasione, è anche perché ad ogni randellata distribuita dalla polizia si levano immediatamente accuse di uso eccessivo della violenza e scattano provvedimenti che dissuadono gli agenti da un impegno che (e questo costituisce un altro aspetto del problema) è già di per sé piuttosto scarso. È perché qualsiasi delinquente arrestato, a meno che non abbia sterminato una famiglia e sia stato beccato con il coltello insanguinato o con la pistola fumante, viene “denunciato a piede libero”, così che possa riprovarci dopo mezz’ora, come è appunto accaduto un paio di volte in questi giorni. È perché personaggi con curriculum delinquenziali impressionanti girano impuniti per strada, colpiti da provvedimenti ridicoli e inapplicabili come il daspo, che sembra essere diventato una patente per stalker e persecutori e potenziali assassini. È infine perché magistrati animati da un malinteso spirito di redenzione (o semplicemente da una interpretazione lassista delle leggi) concedono disinvoltamente scarcerazioni o libertà condizionate ad assassini efferati.

Ora, queste cose parrebbero scritte da Belpietro o da Feltri, ragionamenti da osteria, e proprio qui sta il nocciolo del problema: sta nel fatto che si lascino cavalcare questi problemi, fingendo che non esistano o liquidandoli con uno sbrigativo sdegno rituale, agli esponenti della reazione più becera o ai nostalgici del manganello, a quelli che poi paradossalmente della violenza di strada sono in realtà i principali supporter. Paiono ragionamenti da osteria perché per queste cose la sinistra dei salotti non ha tempo. Soprattutto, non ha la voglia né la capacità di operare un ripensamento che scenda un po’ più terra terra, per cogliere le motivazioni spicciole, le necessità immediate, senza perdersi nell’aria fritta del “disagio sociale”.

Se questa violenza esiste, argomenta infatti la sinistra diligente e dottrinaria, è perché essa manifesta un disagio “sociale” crescente: quindi occorre agire sul disagio e sulla società. Perfetto. Tranne per un paio di fatti. Il primo è che poi quella stessa sinistra non esprime una minima idea concreta di come “agire sulla società”, e riserva le sue priorità alle problematiche oziose del numero dei generi o alla “correttezza politica”. Il secondo è che questo disagio diventa una giustificazione riservata ai soli persecutori, mentre non viene mai considerato quello delle vittime. La società, alla fin fine, sono gli altri. Attribuire la responsabilità alla società è come dire che se qualcuno sbaglia la colpa è di chi gli sta attorno. In quest’ottica il vecchietto, i disabili e il passante un po’ se la sono meritata. Non sto scherzando; c’è tutta una frangia, nemmeno tanto ristretta, dell’estrema sinistra demenziale, che giustifica Cesare Battisti (il brigatista, non l’irredentista) come un combattente per la libertà. È l’ennesima interpretazione distorta del dettame evangelico, di quel “chi è senza colpa scagli la prima pietra” che mi ha sempre lasciato perplesso, perché si presta a troppe interpretazioni di comodo.

Parliamoci chiaro. Se un adolescente viziato, figlio in genere di genitori distratti o protettivi ad oltranza, o un energumeno frustrato o un semplice idiota in vena di bravate si aggirano per le strade, non c’è dubbio che costoro abbiano alle spalle situazioni di disagio, ma non raccontiamoci che queste nascono dalla povertà, dal bisogno, dallo sfruttamento, ecc. Stiamo parlando di gente che vive né più né meno lo stesso disagio che viviamo io e la maggioranza degli umani, aggravato nel nostro caso dal fatto di scoprici anche potenziali e inconsapevoli vittime del primo idiota di passaggio.

Rifiuti 03

E allora, occorre ammettere innanzitutto che qualcuno nasce più stupido o più carogna degli altri. L’ambiente, l’educazione, la famiglia, le compagnie, faranno poi il resto, ma il dato di fondo rimane una inclinazione particolarmente perversa (dico “particolarmente” perché la natura egoistica è comune a tutti gli uomini: qui non si tratta però di semplice egoismo, ma di violenza gratuita e insensata). Questa inclinazione può essere nella maggior parte dei casi contenuta o persino corretta quando gli strumenti di integrazione sociale (quelli appunto che ho citato prima) funzionano: trova invece libero sfogo quando quegli strumenti sono essi stessi allo sfacelo. Hobbes aveva visto giusto. Lasciati a se stessi gli umani finirebbero per scannarsi a vicenda, non fosse altro perché la presenza di soggetti particolarmente aggressivi o squilibrati innescherebbe reazioni a catena di autodifesa. Se si vuole evitarlo occorre riservare il monopolio della violenza ad una “istituzione” superiore. Questo non è un portato della nostra “specificità” umana (e qui Hobbes sbagliava, ma in buona fede, perché i comportamenti sociali degli animali all’epoca sua non erano affatto conosciuti): è un modello naturale che troviamo in tutte le società delle antropomorfe, e non solo. Il portato umano, la differenza che rende unica la nostra specie, sta piuttosto negli strumenti di controllo che la “civilizzazione” ha sviluppato per controllare e limitare i possibili abusi di questo monopolio. Ovvero, il diritto individuale, la coscienza “civica”, la partecipazione diretta o indiretta al potere.

Messa così, la questione non si riduce più ai discorsi da osteria o alle sparate populiste dei vari Belpietri, ma va a toccare quei delicati equilibri di convivenza che la nostra cultura e nostra civiltà in particolare hanno saputo trovare con laboriose e secolari alchimie, e che non saranno la perfezione, ma andrebbero comunque difesi strenuamente, perché al momento non siamo in grado di immaginarne altri. Questi equilibri sono basati sul giusto dosaggio di molteplici ingredienti, che si chiamano libertà, legalità, diritto, giustizia sociale, autorità, democrazia, ecc… Possono e debbono certamente essere migliorati, adeguandoli alle sempre più veloci trasformazioni ambientali, culturali ed economiche, ma non possono essere semplicemente ignorati o addirittura rifiutati, come invece sta accadendo, in nome di un “liberi tutti” che azzera tutti i valori e che nella foga di riconoscere pari legittimità ad ogni cultura ne cancella in realtà le differenze maturate storicamente.

Mi sono spinto in un discorso che può sembrare troppo complesso e scivoloso per essere affrontato in quattro righe, dal quale esco subito ma che va comunque tenuto presente per leggere entro un quadro di sfondo anche le situazioni “spicciole” da cui sono partito. Intendo dire che gli equilibri cui accennavo sopra prevedono una linea abbastanza netta di demarcazione tra i comportamenti, e che i comportamenti che si pongono al di là di questa linea comportano l’esclusione dal contesto sociale, se si vuole evitare che questo contesto esploda. Che abbiano poi una origine “culturale” (nel senso negativo dell’assenza di una cultura o di un suo distorcimento) o siano dettati semplicemente dalla stupidità, all’atto pratico immediato importa poco.

Importa invece che siano sanzionati prontamente e adeguatamente. Prontamente perché una comunità il cui equilibrio è stato violato deve sentirsi rassicurata e rafforzata da fatto che esso viene immediatamente ripristinato. Questo significa in pratica, almeno allorché l’evidenza del reato e l’identità dei protagonisti sono fuori discussione, evitare le lungaggini procedurali e gli eccessi di guarentigie che servono solo a “raffreddare” l’impatto emozionale della vicenda, a farla dimenticare sotto l’incalzare di altre vicende analoghe: quando invece è proprio l’effetto emozionale ad avere una valenza educativa. Lo sdegno si rafforza e agisce psicologicamente sia sui singoli che sulla comunità, nel senso che ribadisce l’esistenza di valori condivisi e la necessità di difenderli, quando riceve una risposta immediata: in caso contrario lascia il posto solo alla rassegnazione, alla sensazione di impotenza, alla sfiducia nei confronti dell’appartenenza.

Per essere efficaci, inoltre, i provvedimenti debbono essere adeguati: ovvero evidenti, tangibili e possibilmente anche investiti di una carica simbolica. Personalmente, come cultore dell’“occhio per occhio”, avrei in mente un sacco di punizioni con queste caratteristiche. Ma anche rimanendo nei limiti di un equilibrio superiore dettato dalla civiltà e dalla cultura del diritto, la prevalenza del bene comune sugli egoismi e sulle intemperanze individuali può essere ribadita senza scendere allo stesso livello degli stupidi o dei delinquenti. Ad esempio: per i buontemponi che si divertono a cacciare gli anziani nei cassonetti, dopo un opportuno soggiorno in galera per schiarirsi le idee potrebbe riuscire molto educativo collaborare (e non alla patetica maniera attuale dei “lavori socialmente utili”, ma in un regime di lavoro forzato modello “Nick mano fredda”), alla raccolta dei rifiuti lasciati per strada e allo svuotamento, al lavaggio, alla manutenzione dei contenitori stessi. Col triplice vantaggio di rendere coscienti i balordi di un grosso problema sociale, di costringerli a collaborare per risolverlo e di raffreddare di molto in loro gli entusiasmi per i cassonetti. Non so quanto poi questa “coscienza civile” in certe teste e in certi animi possa attecchire, ma senza dubbio quella delle vittime e di tutti coloro che in queste ultime possono identificarsi ne uscirebbe rinsaldata. Sempre, appunto, che l’intervento sia tempestivo, visibile e senza sconti.

Rifiuti 04

Tutto ciò che ho scritto sin qui non ha naturalmente alcun valore propositivo. So benissimo in che mondo vivo. E per certi aspetti ne ho maturato esperienze molto significative, che possono essere applicate al nostro discorso. Ho assistito infatti per anni (e cercato, nei limiti delle mie funzioni, di oppormi) al disfacimento del sistema scolastico e all’avvicendarsi di riforme che non andavano a scalfire minimamente la sostanza dei problemi, che hanno anzi definitivamente liquidato ogni parvenza di autorità e autorevolezza del corpo insegnante, con ogni mezzo, a partire dai sistemi di reclutamento sino ad arrivare alla sudditanza totale nei confronti di alunni e genitori. So che da una scuola del genere non possono uscire che individui totalmente fuori controllo, ignari di vincoli e di doveri nei confronti degli altri, abituati ad essere difesi e tollerati ad oltranza, a dispetto di ogni loro idiozia o carognata. Una scuola che impone l’educazione civica come materia obbligatoria, confessando così apertamente di non essere in grado di trasmetterla, come sarebbe ovvio e doveroso, attraverso tutti i suoi contenuti e il suo modo stesso complessivo di operare, rende vana ogni speranza di poter agire non solo sugli individui ma su tutte le istituzioni successive con le quali gli individui si troveranno a confrontarsi.

Credo che la scuola sia proprio lo scenario più significativo al quale guardare per avere una immagine del presente. E che sia diventata addirittura, nelle condizioni presenti, il laboratorio nel quale la prevaricazione nei confronti di compagni e insegnanti e il senso di totale impunità vengono coltivati in provetta. Sarò catastrofista, ma una scuola nella quale una insegnante che ha sgridato gli alunni perché avevano lordato tutti i bagni con i loro escrementi viene licenziata in tronco, lascia sperare poco. Spero almeno che li abbia anche presi a ceffoni, e auspico che le nostre povere vittime ripetano a casa le loro imprese.

Finale alla Feltri, me ne rendo conto: ma queste considerazioni vanno prese per ciò che sono: uno sfogo, che consenta almeno di rappresentare con parole (spero) chiare lo stato d’animo di chi si ostina credere nella possibilità di una convivenza civile, e si accorge che sono sempre meno quelli che condividono la sua ostinazione.

Rifiuti 05a

Il lato sinistro della storia3

(parte terza)

di Paolo Repetto, 6 aprile 2022

Da questo punto in poi mi avventuro in un racconto che paradossalmente, pur concernendo epoche sempre più vicine alla nostra, e quindi conoscenze relativamente più concrete, lascia maggiore spazio a interpretazioni già orientate o orientative. Intendo dire che la paleontologia e l’antropologia, a differenza delle scienze biologiche, concedono ampi margini alle letture “ideologizzanti”, ciò che riesce evidente dal persistere oggi ancora dell’annoso dibattito sulla “natura umana”. Cercherò di mantenermi per quanto possibile al margine di questo dibattito, basandomi sui dati di fatto piuttosto che sulle ricostruzioni edeniche o bestiali della nostra preistoria. Ma proprio l’aumento esponenziale dei dati, e delle relative interpretazioni che possono esserne desunte, mi costringe a questo punto a procedere per successive “scelte di campo”. Credo sia importante dunque che, trattandosi di un lavoro che ha non ha alcuna velleità “scientifica”, queste risultino quantomeno chiare.

3.4 Creare

L’uomo ha dunque esplorato tutte le strategie per garantirsi la sopravvivenza, e per farlo si è dotato degli strumenti opportuni. Lo ha fatto, come abbiamo visto, cominciando con l’emancipare alcune parti del suo corpo dalle loro originarie funzioni istintuali. Ma se già la possibilità di fare qualcosa con gli arti superiori mentre quelli inferiori compivano un movimento diverso favoriva lo sviluppo cerebrale, in quanto esigeva che più sistemi di controllo si attivassero in contemporanea, è stata però la creazione di utensili, il passaggio cioè alla “tecnica”, a spingere verso una qualità del pensiero (e della vita) radicalmente diversa.

La tecnica era per la mitologia antica un dono di Prometeo (da pro-mathéin, aver pensato prima): il regalo di un cervello che “pensa prima”, che “pensa più veloce”. Come sempre, il mito ci offre la sintesi e la spiegazione più efficaci di quanto è effettivamente accaduto. Il volume cerebrale degli umani, e quindi la loro capacità di risposta adattiva, cresce in concomitanza proprio con la produzione dei primi strumenti litici. La nascita della tecnica segna infatti l’avvento di un pensiero mirato ad uno scopo. Creare uno strumento significa prefigurare una situazione nella quale quello strumento potrà tornare utile: quindi programmare, e insieme immaginare. Immaginare ad esempio di poter incontrare nella savana, lontano da vie di fuga o da alberi su cui rifugiarsi, dei predatori, e procurare di essere sempre attrezzati alla difesa, scegliendo nodosi bastoni e scheggiando pietre per renderle taglienti, e magari innestando queste ultime sui bastoni.

Significa anche però imboccare una direzione “lineare obbligata”: l’uscita per la tangente dal ciclo dell’eterno ritorno. (uso questa formula nella consapevolezza che si tratta solo di una percezione e di una convenzione filosofico-letteraria, perché nella realtà sui tempi lunghi in natura nulla torna mai eguale a se stesso). La “cultura” indotta dalla tecnica diventa la specializzazione (oserei dire, la “specificità”) dell’uomo, ed è qualcosa che ridisegna totalmente sia le modalità che i tempi evolutivi. Per quanto lunghissimi, estremamente diluiti nel tempo e dispersi nello spazio, i passaggi sono ormai percettibili (naturalmente, a posteriori). I più antichi manufatti umani, costituiti da ciottoli scheggiati su una sola faccia (chopper), oppure a scheggiatura alterna o multidirezionale, compaiono in Africa a partire da circa due milioni e mezzo di anni fa, accanto ai resti fossili di Homo habilis, e sono ascrivibili alla più primitiva tecnologia litica, quella Olduvaiana. Un milione e quattrocentomila anni fa, sempre in Africa, associata stavolta ad Homo erectus, si affermala cultura Acheuleana, caratterizzata dalla produzione di utensili scheggiati su entrambi i lati in modo simmetrico (le amigdale, o bifacciali). In ultimo, verso la fine del Paleolitico inferiore, attorno a trecentomila anni fa, si diffonde in Europa la scheggiatura Levallois, che consente la fabbricazione di strumenti più vari e specializzati.

A quel punto per sopravvivere gli uomini sono già totalmente dipendenti dalla tecnica: prima di tutto dal controllo del fuoco e dal suo utilizzo come arma di difesa contro i predatori e per cuocere i cibi e riscaldarsi. E se gli utensili creati dall’erectus e dell’habilis erano rimasti pressoché inalterati per centinaia di migliaia di anni, con una evoluzione quasi impercettibile, dopo l’avvento dell’Homo sapiens il ritmo delle innovazioni conosce una progressione costante: un milione di anni separano i primi choppers dell’olduvaiano dalle amigdale dell’ acheuleano e mezzo milione queste ultime dai veri e propri attrezzi in pietra e legno del Musteriano, ma tra la pietra levigata e le tecniche più sofisticate dell’arco e degli attrezzi per colpire a distanza ne intercorrono meno di centomila. Di qui in poi le rivoluzioni si succedono con frequenze sempre più ravvicinate: dopo l’arco l’agricoltura, la domesticazione degli animali, la lavorazione dei metalli, la scrittura, la ruota, eccetera. Senza dimenticare, fondamentale, l’approdo ad una comunicazione verbale compiutamente strutturata. Tutto questo mentre, come abbiamo già visto, la base biologica del Sapiens e la sua anatomia rimangono in quegli ultimi centomila anni praticamente invariate.

Nello stesso periodo muta invece radicalmente la sua attitudine mentale: muta nei confronti dell’ambiente in cui è immerso, della natura, perché la progettualità implica un atteggiamento intrusivo, oltre che una percezione “temporalizzata”: ma muta anche nei confronti di chi lo circonda, dei suoi simili come degli altri ominidi e degli animali coi quali ha una parentela più o meno più o meno prossima: nonché nei confronti di se stesso. Si sviluppa una “coevoluzione” che riguarda in primo luogo il rapporto tra l’azione tattile e la facoltà del linguaggio. “Mani e parole sono, in primo luogo forme di intervento che modificano il contesto in cui si insediano. Hanno un impatto ecologico tale da richiedere spesso un’azione ulteriore dal carattere intrinsecamente ambivalente: sono riparazione, poiché cercano di rimediare al cambiamento provocato (ad esempio l’estinzione delle prede cacciate o l’impoverimento del terreno sfruttato attraverso l’agricoltura); sono ancora invasione poiché l’intervento umano (l’allevamento, oggi l’uso di fertilizzanti) non può non avere un effetto antropico, non può non comportare un cambiamento dell’ambiente a immagine e somiglianza dell’Homo sapiens.[1]

Il mondo non viene più dunque semplicemente vissuto dal sapiens, e passivamente subito, ma è indagato e saccheggiato e ricreato[2]. Il primo mutamento riguarda la curiosità nei confronti dell’ambiente. La curiosità è propria di ogni organismo animale, ma nella forma propriamente “conoscitiva” appartiene solo alle specie evolutivamente più complesse, e in quella performativa soltanto all’uomo. L’uomo è l’unico animale in grado di prevedere o quantomeno immaginare le conseguenze di una determinata azione: e quindi di pianificare il futuro, e di compiere all’occorrenza scelte che possono anche mettere in forse la sua sopravvivenza, andando contro i dettami dell’istinto, ma valutando o auspicandosi possibili futuri vantaggi. Questa capacità di costruire o immaginare situazioni alternative, di sganciarsi dal qui e ora, spiega la progressiva e inarrestabile diffusione della specie umana in ogni angolo del globo. Le migrazioni dei primi ominidi sono avvenute certamente sotto la spinta dei mutamenti ambientali, dell’ esaurimento delle risorse o delle pressioni esercitate da gruppi di consimili: ma sono state rese possibili dall’incredibile capacità di adattamento che la specie ha dimostrato in ogni condizione, dalle soluzioni tecniche e culturali che è stata capace di escogitare, e soprattutto, direi, dallo spazio mentale consentito alla funzione immaginativa, che diventava stimolo a esplorare e conoscere quel che c’era oltre l’orizzonte. Non si spiegherebbero altrimenti imprese incredibili come quelle degli ominidi che cinquantamila anni fa attraversarono bracci larghissimi di mare per approdare in Australia, o lande ghiacciate per passare sul continente americano.

Al di là degli spostamenti, però, ad essere percepita in maniera diversa è innanzitutto la quotidianità. I primi strumenti usati dai nostri antenati per raggiungere i loro obiettivi erano oggetti naturali: pietre, bastoni, ossi, ecc… Né più né meno come accade per altri animali, e particolarmente per i primati superiori. L’uso che ne facevano era immediato e spontaneo: si servivano della prima cosa che capitava loro a tiro. Dal momento però in cui questi oggetti hanno cominciato ad essere lavorati e adattati in vista di una ipotetica necessità futura, sono stati proiettati un contesto “culturale” che andava a sovrapporsi a quello naturale, a trascenderlo. Il discrimine sta proprio a questo punto: negli umani il ricorso allo strumento non rimane occasionale e dettato dal bisogno immediato, ma diventa consapevolezza della possibilità di un uso alternativo di fronte alle molteplici incognite ambientali, e questa consapevolezza continua ad essere presente alla memoria anche in assenza dell’occasione di applicarla. Diventa cioè funzionale ad una possibile strategia, nella quale finiscono per combinarsi diverse opportunità. L’uomo si scopre capace non solo di sfruttare l’occasione, ma di cercarla o di crearla. Acquisisce una coscienza temporale che non ricorda solo dei fatti, ma ricostruisce degli eventi, collocandoli nel passato o nel futuro.

3.5 Specchiarsi

Contrariamente all’immagine stereotipa dei nostri progenitori come cacciatori, l’economia dei primi ominidi era basata sulla raccolta itinerante di frutti e radici e sullo spolpamento delle carcasse lasciate dai grandi carnivori[3]. In un inseguimento era più probabile che recitassero la parte della preda. Ora, l’economia di raccolta comportava l’esplorazione di ampie distese poco alberate, nelle quali la postura eretta consentiva di muoversi più rapidamente e soprattutto di mantenere un maggiore campo visivo, per evitare i predatori. Essere però a propria volta più visibili esponeva a grossi rischi. Muoversi isolati era estremamente pericoloso, per cui divenne di vitale importanza rimanere in contatto visivo con altri membri del gruppo, sviluppare legami stabili tra i membri della comunità e progredire di conseguenza verso un’organizzazione sociale più articolata[4].

L’altro cambiamento fondamentale concerne dunque il rapporto con i propri simili. L’aiuto reciproco era imposto da necessità immediate di sicurezza e di sopravvivenza, cosa che accade del resto anche per i banchi di pesci o per le società degli insetti: ma gli umani non si sono fermati al livello della pura associazione istintuale. Per cooperare su progetti sganciati dalle ricorrenze e dai ritmi naturali era indispensabile che tra i diversi attori si aprisse un credito reciproco di fiducia: ciò che implicava il riconoscimento degli altri come propri simili[5]. Si scopriva cioè l’umanità altrui (anche se questo credito non va sopravvalutato, perché in un primo momento era riservato solo ai membri del proprio gruppo o della propria tribù). Questo riconoscimento non rimaneva confinato alla superficie. Scendeva in profondità, e portava ad attribuire agli altri le stesse intenzioni che animano noi: quindi ad accoglierne, o quanto meno a interpretarne, anche il punto di vista.

Ma quali meccanismi sono entrati in gioco perché tutto questo accadesse?

Per cooperare, si diceva sopra, è necessario agire in sintonia con gli altri: cogliere le loro intenzionalità, vedendoci agire al loro posto, così come essi cercheranno di cogliere le nostre. Oggi sappiamo che la nostra capacità empatica, la nostra compartecipazione e comprensione dell’altro scaturisce da una predisposizione presente in qualche maniera in noi sin dalla nascita, su base neurale. Che insomma la radice di questa sintonia è biologica, mentre gli sviluppi sono poi culturali: e lo sappiamo grazie alla recente individuazione dei neuroni specchio.

La scoperta non è avvenuta casualmente: da tempo si cercava di dare una spiegazione scientifica ad un meccanismo mimetico che era già stato individuato come esplicativo dei comportamenti animali da etologi ed antropologi (ad esempio da Konrad Lorenz, o da René Girard – ma prima ancora era stato genialmente anticipato da Giovanbattista Vico, e da Schopenhauer[6]). Del tutto casuali sono state invece le circostanze, una serie di test effettati sui macachi per studiare i meccanismi di attivazione cerebrale in corrispondenza di particolari azioni. In sostanza, si è scoperto che in alcune aree del cervello (denominate F5 e F4) operano dei neuroni che si attivano sia quando il soggetto compie un’azione che quando osserva altri individui compiere la stessa azione. Essi riflettono cioè direttamente nel cervello dell’osservatore le azioni realizzate dagli altri, ma anche da sé (per questo sono definiti neuroni specchio). E il meccanismo è attivo non solo nei primati o più in generale nei mammiferi, ma anche in altre classi dei vertebrati, sicuramente, ad esempio, negli uccelli.

Negli altri animali però i neuroni specchio non sono attivati da qualsiasi tipo di azione: lo sono, di norma, solo da quelle transitive (cioè rivolte a o ricadenti su un altro oggetto), quelle la cui intenzionalità è palese e immediata. Ciò non vale per l’uomo: nel sistema neuronale umano il sistema specchio non si attiva solo in presenza di azioni transitive (e in molti casi anche intransitive), ma si estende anche a quelle semplicemente mimate. Questo significa che il cervello umano è in grado di selezionare non solo rispetto alla tipologia di azione, ma anche rispetto alla sequenza di movimenti dai quali essa è composta. E può farlo perché ha una coscienza “diretta” di quei movimenti, indotta dalla consapevolezza del proprio corpo.

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Noi siamo infatti in possesso delle conoscenze motorie che regolano le rappresentazioni coinvolte, nelle azioni esecutive come nella comprensione. Il rapporto cervello-mano non è puramente istintuale e a senso unico, ma comporta un passaggio di informazioni bidirezionale, in ingresso e in uscita. I dati (prevalentemente visivo-uditivi) che raccogliamo dal mondo esterno li trasmettiamo al circuito sensoriale-motorio, dopo però che quei dati sono stati pre-selezionati dallo stesso sistema. Vale a dire che se vedo la maniglia di una porta la prima informazione che viene trasmessa al mio cervello non è relativa all’aspetto estetico, alla fattura o ai materiali, ma al modo in cui posso afferrare la maniglia (l’esempio più ricorrente nella letteratura scientifica è quello del manico della tazzina da caffè). In automatico i miei neuroni attivano la “disposizione” ad afferrare. L’attivazione del sistema specchio non avviene dunque sulla base delle informazioni visive, ma sulla base dell’anticipazione di uno “scopo”. La percezione di un oggetto, ma più in generale tutte le caratteristiche oggettive di un ambiente, ci inducono automaticamente ad agire in maniera appropriata rispetto a quell’ambiente o a quell’oggetto: che significa anche, a volte, non agire affatto.

Noi dunque istintivamente “sappiamo” cosa sta alla base di determinate azioni, nel senso che abbiamo una istintiva conoscenza del loro stretto rapporto con particolari stati mentali. Diamo quindi alle azioni compiute da un’altra persona un significato che si basa su ciò che abbiamo in mente noi quando compiamo la stessa azione. Ciò naturalmente vale anche per come sono interpretate le nostre azioni agli occhi degli altri. Ovviamente gli stimoli esterni vengono riconosciuti e compresi dall’osservatore solo se il modo in cui si configurano fa parte del suo bagaglio sensoriale-motorio. Certe azioni o comportamenti che sono peculiari di altre specie o ordini animali non attivano nell’uomo alcuna risposta neuronale, se non quella della pura percezione visiva. La attivano invece, e segnatamente, anche le espressioni facciali e le azioni comunicative dei suoi conspecifici. In altre parole, siamo in grado di partecipare delle stesse emozioni degli altri, in quanto la percezione delle emozioni di base negli altri coinvolge le stesse strutture cerebrali che si attivano quando esprimiamo le nostre.

A questo punto dovrebbe essere più o meno chiaro come sia possibile per l’essere umano comprendere le intenzioni e le emozioni altrui: e come, magari, proprio riflettendosi in questo specchio, sia pervenuto a prendere piena coscienza di sé, e di conseguenza possa aver sviluppato la capacità di pensare e di agire in sintonia con altri. Di dare vita, in sostanza, a forme di comunità e di socialità dapprima elementari e poi via via più complesse.

Il gruppo (in un secondo momento, la tribù) è una società cooperativa, ma a differenza di quelle che caratterizzano altre specie o altri ordini non è tale solo per via di una determinazione genetica. Nasce da una scelta, sia pure utilitaristica. Ci si associa “volontariamente” in funzione di un progetto comune, che va dalla battuta di caccia o di raccolta alla coabitazione ai fini della difesa. Molti occhi vedono anche ciò che può sfuggire a un paio d’occhi, e molti individui hanno un potere di dissuasione anche nei confronti di un aggressore temibile[7].

3.6 Comunicare

Per socializzare, e tanto più per programmare in gruppo, è però necessario comunicare. Anche gli animali comunicano, ma i segnali che inviano, indipendentemente dal loro livello di complessità, sono risposte meccaniche alle situazioni che stanno effettivamente vivendo (per loro si parla di una “cultura episodica”). Gli scimpanzé non convocano riunioni condominiali per il giorno o per la settimana seguenti, così come non si attrezzano di armi o altri bagagli in vista di uno spostamento. Reagiscono d’istinto, in maniera se vogliamo astuta, ma non programmano[8].

Gli umani, al contrario, sono in grado di sganciarsi dal presente e di proiettarsi a piacere nel tempo, ovvero nel passato e nel futuro, e nello spazio, di prefigurare situazioni a venire partendo dalle esperienze cumulate nel passato. Più o meno coscientemente, comunque non solo istintivamente, programmano il loro avvenire. Facendo però riferimento a situazioni, emozioni, accadimenti e oggetti che non sono qui e ora, gli umani entrano in una dimensione astratta, che può essere evocata solo in termini simbolici. E a questa dimensione astratta chiamano a partecipare i loro simili, introducendo una modalità di comunicazione non più limitata ai segnali essenziali. È questo che autorizza a parlare solo per la nostra specie di un vero e proprio linguaggio. “Non diversamente dalle scimmie antropomorfe, come oranghi e scimpanzé, anche i nostri antenati erano esseri sociali capaci di risolvere problemi grazie al pensiero. Ma erano in competizione fra loro e miravano soltanto ai propri scopi individuali. Quando i cambiamenti ambientali li costrinsero a condizioni di vita più cooperative, dovettero imparare a coordinare menti e azioni per perseguire obiettivi condivisi, e a comunicare i propri pensieri ai partner della collaborazione. In definitiva l’esigenza di lavorare insieme è ciò che rende possibile il linguaggio, le forme di pensiero complesse, la cultura.[9]

La creazione di un linguaggio complesso fu dunque il fattore che permise all’uomo di sganciare il legame tra la tecnologia e la propria evoluzione biologica. Le tecniche di costruzione e le modalità d’uso di strumenti semplici potevano essere apprese per semplice imitazione, ma di fronte all’imprevedibilità degli ambienti sempre nuovi guadagnati nelle migrazioni o di quelli consueti trasformati dalle variazioni climatiche dovevano essere aggiornate e trasmesse attraverso uno scambio di informazioni più costante e completo. L’evoluzione culturale esce dalla sua lunghissima fase di decollo e si alza in volo quando lo scambio non è più solo materiale (partecipazione collettiva alla caccia o eventuale spartizione dei frutti della raccolta), ma diventa immateriale, diventa scambio di informazioni. Di qualsiasi tipo. Questo scambio non ha più a che fare con la biologia: anzi, il suo effetto è semmai quello di rallentare l’azione selettiva della natura. Attraverso lo scambio di informazioni, anche i meno adatti hanno delle chanches di sopravvivenza. La conoscenza è un’arma sganciata dalla fisicità. Questo probabilmente spiega l’invarianza anatomica del sapiens negli ultimi centomila anni.

La forma primordiale di linguaggio (il protolinguaggio attribuito all’Homo erectus) era quella gestuale, mimetica, che passa appunto principalmente attraverso le mani, ma non solo, e utilizza modalità espressive visivo-motorie per dare una rappresentazione della realtà, o per costruirne una. Ora, questo passaggio non è indifferente. A ben considerare ci dice due cose importanti: la prima è che esiste una continuità tra le nostre capacità espressive e quelle di altre specie (anche le scimmie praticano forme elementari di comunicazione mimetica), ovvero che non c’è stato un salto, ma una evoluzione; la seconda è che l’avvento del linguaggio simbolico non è subordinato al carattere fonico della verbalizzazione. Anche il linguaggio dei segni è infatti soggetto nel tempo ad una semplificazione che poco conserva dell’originario rapporto mimetico con la realtà che si vuole rappresentare. In qualche misura ha già una valenza simbolica.

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Questa seconda informazione è a mio parere in diretto rapporto col tema delle dominanze dei due emisferi. La comunicazione mimetica passa infatti per i gesti della danza, per la mimica del linguaggio corporeo o del rito, per alcune forme di musica: ovvero per tutto ciò che rientra nel dominio di competenza dell’emisfero destro[10]. A rigor di termini, non è simbolica, ma iconica: nella sua funzione descrittiva, la natura combinatoria dei gesti e delle espressioni deve rispecchiare quella degli eventi descritti. Il margine consentito all’arbitrarietà è ancora molto ristretto. È invece questo a caratterizzare la comunicazione verbale: tranne i rarissimi casi nei quali si può risalire ad una origine onomatopeica, i suoni non hanno alcuna relazione diretta con gli oggetti o le azioni che designano. La comunicazione verbale è, almeno in questo senso, totalmente astratta e arbitraria. Anche se, naturalmente, non è indipendente da vincoli di carattere neurofisiologico e dall’ organizzazione anatomica della fonazione[11].

Quella gestuale-mimetica è stata dunque solo una tappa intermedia. Con ogni probabilità lo strumento vocale l’ha inizialmente affiancata per rispondere alle necessità di una comunicazione notturna, o comunque al di fuori della portata visiva, per la presenza di ostacoli o di macchie d’alberi. Solo molto più tardi l’ha soppiantata (non del tutto, però, in quanto gestualità ed espressione sono ancora una componente essenziale della comunicazione). Il salto di qualità decisivo è avvenuto solo con l’approdo ad una fonazione sintatticamente disciplinata e complessa. Questa a sua volta ha modificato il tratto vocale, coinvolgendo altre funzioni; per decodificare i segmenti linguistici, infatti, anche la percezione uditiva si è ulteriormente specializzata. Ciò è avvenuto in tempi molto recenti rispetto a quelli globali della nostra evoluzione. Ma è il percorso ad interessarci.

Se fino a qui ho parlato in termini di una evoluzione naturale della comunicazione umana, sia pure nella sua eccezionalità, a questo punto entrano invece in scena altri fattori: quelli sociali e culturali. Entra in scena la “convenzionalizzazione”. La comunicazione “mimetica” fa riferimento come si diceva ad una riconoscibilità oggettiva e immediata, alla diretta simulazione o indicazione di ciò che si vuole rappresentare. È indubbio che col tempo dalla primitiva semplicità del gesto puramente indicativo si sia approdati ad una funzione “rappresentativa”, con combinazioni in sequenza che possono formare una frase, o con la fissazione ritualizzata ad esprimere sentimenti e disposizioni particolari (i gesti di saluto, di accoglienza, di commiato, di amicizia, ecc…). Quella verbale, evidentemente, deve prescindere in toto da questa “riconoscibilità”. Può esistere solo se in qualche modo tra gli interlocutori esiste un accordo, una convenzione appunto, per cui un determinato suono, anziché un determinato segno, espressivo o gestuale, “rappresenta” l’oggetto, il luogo o l’azione cui ci si sta riferendo. Mentre il segno mostra, il suono evoca: e per evocare deve fare riferimento a qualcosa che è già presente nella mente e nella memoria di chi lo ascolta.

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3.7 Parlare

La faccenda si complica ulteriormente. La domanda che si pone ora è: come si configura precisamente il rapporto tra pensiero e linguaggio? È il primo a generare il secondo, o viceversa? Ovvero: come è possibile che il linguaggio sia in grado di trasmettere ciò che ci passa per la mente? E che fondamento comune ha, per poter essere condiviso con altri?

È difficile immaginare un accordo in merito a un qualcosa che non è presente o che ancora non esiste. È presumibile quindi che inizialmente il passaggio da un sistema iconico ad uno simbolico sia stato casuale. Possiamo ipotizzare ad esempio che un membro autorevole del gruppo abbia associato un suono specifico al segnale visivo che indicava un particolare pericolo (ciò che rientra ancora nell’ambito degli strumenti comunicativi animali). E che questo suono sia stato successivamente usato non per segnalare la presenza immediata di quel pericolo, magari di un predatore, ma per esorcizzarlo per il futuro, o per infondere coraggio rievocandone la sconfitta nel passato. Questo uso può aver dato origine ad un processo di ritualizzazione. D’altro canto, certi vocaboli, certe locuzioni, nascono ancora oggi allo stesso modo. Se durante una conversazione conio un termine nuovo, o ne uso uno già esistente traslandone il significato per esprimere una particolare situazione o emozione, e chi mi ascolta intende comunque ciò che voglio dire, qualora quel termine abbia significative caratteristiche di icasticità è possibile che venga adottato e ripetuto.

Oppure (e questa è un’ipotesi formulata non da me ma da eminenti linguisti), la transizione può essere avvenuta tramite i suoni adottati dalle madri per tranquillizzare i neonati[12]. C’è anche chi azzarda che la comunicazione verbale abbia avuto origine dai pettegolezzi tipici che nascono nei gruppi femminili. Ipotesi bizzarra, ma non del tutto inverosimile. “Se la nostra umanità dipende dal linguaggio, sono le chiacchiere della vita quotidiana a fare andare avanti il mondo, più che le perle di sapienza che possono cadere dalle labbra degli Aristotele e degli Einstein[13]. In effetti, è ipotizzabile ad esempio che, una volta domesticato anche il buio, la sera i nostri antenati sedessero attorno al fuoco, e che dai gesti e dai grugniti scambiati in quei convegni sia scaturita una forma di comunicazione linguistica che andava a incrementare la spinta alla cooperazione e alla socialità.

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Si può anche spiegare l’esistenza di tante lingue diverse. Occorre distinguere tra due livelli. Uno è quello che potremmo definire di conformità: tutti i linguaggi attingono le loro regole all’interno di una “grammatica universale”, che è frutto della selezione naturale. L’altro è quello dell’arbitrarietà, per cui ogni comunità di parlanti sceglie poi, all’interno del primo livello, proprie regole sintattiche e propri segni lessicali. E questo attiene invece ad una tradizione culturale. Tutti i bambini utilizzano in una prima fase sistemi comunicativi molto semplici, che rispondono ad uno standard pressoché comune: poi si sintonizzano sul codice particolare della comunità in cui vivono, ma questo non esclude che possano arrivare ad utilizzarne anche altri (imparare le lingue), proprio per l’esistenza di un comune sostrato. Ma questo ci porta già oltre.

Ci interessa piuttosto il passaggio precedente, quello da segno a linguaggio, che in realtà non può essere mai del tutto casuale. Può avvenire solo se la comprensione di segni nuovi (visivi o fonici che siano) è favorita da una loro lettura nel contesto: se cioè esiste già nell’ascoltatore una disposizione a “interpretare” il segno nuovo alla luce di quello che il comunicante vorrebbe dire, entro uno spettro ampio di possibilità di significato. Se cioè è in grado di attribuire a quel complesso di segnali diverse intenzionalità, desumibili dal tono di voce, ad esempio, dalle espressioni del volto o da uno stato di maggiore o minore eccitazione.

Questa disposizione di fondo può essere intesa in modi molto diversi. Si può parlare, come fanno Noam Chomsky e altri innatisti, di una “grammatica generativa” iscritta nella mente umana, di un “dispositivo” quindi, piuttosto che di una “disposizione”, di un organo di cui gli umani sono dotati al pari dei polmoni e della milza (ciò che non esclude una origine evolutiva, ma la lascia poi nel mistero, e postula comunque una discontinuità netta tra l’uomo e gli altri animali)[14]. Oppure si adotta una linea interpretativa molto più umile, quella che pone la specie umana in diretta continuità con tutte le altre, e che presenta a sua volta svariate sfumature, riconducibili poi sostanzialmente a due: una che sostiene la natura totalmente “culturalista” del linguaggio, ovvero ritiene che la comunicazione abbia sfruttato dispositivi cognitivi nati con altre finalità, e quindi si sia adattata per utilizzare quello che il cervello metteva a disposizione; l’altra che ritiene invece che il cervello e il linguaggio abbiano seguito un percorso coevolutivo, si siano cioè influenzati reciprocamente.

Nel primo caso, quello di Chomsky, si suppone chiaramente un primato del pensiero sul linguaggio: il linguaggio può esprimere il pensiero perché ne ricalca la forma. Io capisco il mio interlocutore e lui capisce me perché nelle nostre menti è presente, già a livello genetico, lo stesso modello sintattico di base, originato da una casuale e improvvisa ricombinazione delle funzioni cerebrali.

Nel secondo, quello dei culturalisti, si va nella direzione opposta: è stato il linguaggio a dettare le regole in base alle quali si articola il pensiero, e a sua volta il linguaggio risponde alle pressioni culturali provenienti dall’ambiente esterno, le raccoglie e le traduce in segni, dapprima gestuali e poi fonici, prima semplici e poi sempre più strutturati e complessi. Ciò indirizza la mente a organizzare le informazioni secondo gli schemi sbozzati dalle funzionalità percettive (vista, udito, tatto, ecc..) e messi a punto attraverso le esperienze “culturalmente” acquisite: questi schemi non hanno origine genetica, non sono dettati dall’istinto o da una modularità invariabile, ma si adeguano di volta in volta alle trasformazioni ambientali e alle necessità di risposta che queste inducono.

Nel terzo caso invece, quello del meccanismo coevolutivo, il linguaggio origina da una serie di mutamenti anatomici, fisiologici[15], che hanno creato un rapporto diverso dell’uomo con il mondo esterno, ma anche una diversa consapevolezza del proprio essere nel mondo. Dapprima denotativo, e poi comunicativo, il linguaggio diventa così strumento riflessivo. In fondo siamo costantemente impegnati in un monologo interiore, operiamo scelte continue tra le diverse pulsioni che ci agitano, e lo facciamo ponendoci domande e dandoci risposte che prescindono dall’immediatezza o meno dello stimolo. Parliamo prima con noi stessi, e solo in un secondo momento esternalizziamo, agendo o parlando, le conclusioni e le scelte cui siamo pervenuti.

Il lato sinistro della storia3 06Ma nel monologo interiore, in che lingua parliamo? Le variazioni nelle lingue dipendono quasi certamente da un utilizzo diverso dell’insieme dei meccanismi mentali, non dall’esistenza di dispositivi diversi. Per questo è importante comprendere che origine abbia il sostrato comune.

Il lato sinistro della storia3 07Il dibattito in proposito è vivacissimo, costantemente alimentato dalle scoperte paleontologiche, ma soprattutto da quelle neurofisiologiche. Non è un dibattito ozioso, perché suppone interpretazioni molto divergenti del posto dell’uomo nella natura, dalle quali scaturiscono letture completamente opposte della nostra storia. È comunque viziato a parer mio da alcune pregiudiziali, a volte ideologiche (è senz’altro il caso di Chomsky, di Marshall Shalins, ma anche di Steven Pinker), più spesso dettate proprio dal tipo di approccio professionale (Dennett, Fodor, ecc…). Un cognitivista, un paleontologo, un neuroscienziato, un antropologo, partono da punti di vista completamente diversi, e per quanti sforzi facciano di essere interdisciplinari si portano sempre appresso lo stigma del punto di partenza.

Il lato sinistro della storia3 08Non ho competenze sufficienti per entrare nel merito. Quella che a naso più mi convince è però la tesi della natura coevolutiva del linguaggio, che oltretutto si presta perfettamente alla prosecuzione del mio percorso. Chi la sostiene[16] parte da un assunto ineccepibile: le capacità cognitive sono strettamente dipendenti dallo sforzo che ogni organismo mette in campo per mantenersi in equilibrio con l’ambiente esterno. Questo sforzo, lo scriveva già Darwin ne L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, è prima di tutto uno sforzo di comprensione. Noi umani, quando nel corso di un ragionamento incontriamo un ostacolo, una difficoltà, aggrottiamo le sopracciglia, e ciò accade perché ci stiamo sforzando di ovviare alla rottura del filo del nostro pensiero. Oppure, come sottolineava ancora Darwin, somatizziamo e manifestiamo il nostro imbarazzo, la nostra emozione, arrossendo. Sono riflessi involontari, che costituiscono comunque una primordiale forma di comunicazione: sono segnali offerti all’interpretazione dell’interlocutore.

Naturalmente lo sforzo adattivo non è una peculiarità esclusiva della nostra specie. Tutti gli organismi si comportano in questa stessa maniera: di fronte ad ogni interruzione dell’abituale scorrere delle cose reagiscono adattando, modificando, magari anche solo temporaneamente, le proprie risposte istintive. La differenza sta nel fatto che per gli altri organismi, per tutte le altre specie, è di norma una condizione eccezionale, e comunque subita passivamente, nel senso che di ricomporla si occupa il meccanismo selettivo, mentre nel caso degli umani si tratta della condizione abituale, perché lo squilibrio è congenito alla loro condizione di “inadatti”.

Ma qui sta anche la loro eccezionalità. Perché un animale specializzato è adatto proprio in quanto viaggia su un binario che non consente deviazioni: o risponde a certe condizioni ambientali oppure si estingue. L’uomo invece non è predeterminato da alcuna specializzazione, è un animale costantemente “potenziale”, e ha quindi di fronte un campo di possibilità più vasto, teoricamente infinito. Ciò significa che vive in uno stato di perenne “tensione”, intesa come tendenza a radicarsi in un ambiente rispetto al quale è sempre meno “naturalmente” adatto, per via sia delle mutazioni anatomiche che delle migrazioni: e che per mantenere una relazione flessibile di stabilità con l’ambiente, ha sviluppato risposte adattive basate sulla cognizione anticipatoria, ovvero sulla capacità di proiettarsi in situazioni contestuali alternative a quella in cui è effettivamente immerso.

Questa capacità si esprime anche nel rapporto con altri soggetti, e nello specifico determina la possibilità del linguaggio. Sopra il primo livello comunicativo, quello dello scambio e dell’interpretazione di segnali elementari, la comunicazione è resa possibile dalla capacità di ciascun interlocutore di decrittare il messaggio trasmesso dall’altro attraverso la sua “contestualizzazione”, prima ancora che attraverso il riconoscimento dei suoni. E qui entra in gioco la lettura di segnali come l’arrossire o il corrugare la fronte. Non si attiva quindi solo un processo meccanico di decodifica, ma uno sforzo “cognitivo” di analisi del contesto nel quale il discorso si situa. “Lo sforzo della comunicazione è sotto gli occhi di tutti: è diverso seguire una lezione di filosofia analitica o ascoltare le confidenze sentimentali di un amico.[17] In questo senso condivido l’ipotesi coevolutiva: non postula una “grammatica universale”, non demanda in toto all’ambiente gli input per la creazione del linguaggio, ma considera appieno questo sforzo come forma di adattamento dell’organismo all’ambiente.

3.8 Collaborare

L’adattamento degli umani, però, per le ragioni che abbiamo già visto, non passa attraverso il semplice meccanismo della selezione naturale. O meglio, passa attraverso un tipo di selezione che nella individuazione del “più adatto” contempla a questo punto anche parametri diversi da quelli naturali. Si chiama “effetto reversivo” dell’evoluzione. Darwin questa componente l’aveva già considerata: “La selezione naturale non è più, a questo stadio dell’evoluzione, la forza principale che governa il divenire dei gruppi umani, avendo essa ceduto tale ruolo all’educazione […] Le qualità morali sono progredite, sia direttamente che indirettamente, molto più per effetto dell’abitudine, delle facoltà raziocinanti, dell’istruzione, della religione, ecc. che per la selezione naturale; sebbene a quest’ultima si possano sicuramente attribuire gli istinti sociali, che hanno costituito la base per lo sviluppo del senso morale[18].

Il “senso morale” rappresentava per Darwin un problema, un po’ come accadeva con la coda del pavone. La domanda era: se la selezione naturale premia i più adatti, ovvero coloro che riescono a creare le condizioni più favorevoli per riprodursi, come si spiega il persistere dell’altruismo[19]? Gli altruisti, in teoria, non dovrebbero lasciare alcuna eredità biologica, dovrebbero essere degli “inadatti”, degli umani mal riusciti che la selezione spazza via. Per Darwin non è così, e la soluzione sta nell’angolo prospettico dal quale ci si pone. Non è infatti la selezione individuale a dover essere considerata significativa, ma quella di gruppo. In questa ottica, per la salvaguardia e la sopravvivenza del gruppo, un altruista è molto più importante di un egoista. E a suo parere le regole morali improntate all’altruismo si sono a loro volta evolute a partire dalle cure parentali e dagli “istinti sociali”. Queste regole sono poi state premiate dalla selezione naturale perché si sono rivelate utili al rafforzamento del gruppo.

Darwin non conosceva le leggi di Mendel (che lo scienziato moravo aveva peraltro enunciato solo sette anni dopo la pubblicazione de L’origine della specie), non era quindi in grado di descrivere il meccanismo attraverso il quale i caratteri premiati dalla selezione naturale sono trasmessi alla generazione successiva. E infatti l’appunto critico più ricorrente che veniva rivolto alla sua teoria riguardava proprio l’insufficienza delle spiegazioni sull’origine della variabilità biologica. Probabilmente, se le avesse conosciute si sarebbe posto il problema se le regole morali sono “premiate” o sono invece “dettate” dalla selezione naturale. Che non è, come vedremo, esattamente la stessa cosa.

Dopo essere rimasta in sonno per decenni (solo gli anarchici, come Kropotkin[20], avevano sottolineato questo aspetto) la spiegazione di Darwin è stata rispolverata nel secolo scorso, questa volta rimodulando il concetto di “gruppo” e avvalendosi del supporto della genetica delle popolazioni e della biologia teorica, che applicando il coefficiente di parentela è approdata al calcolo della “fitness”[21]. Successivamente è stata ulteriormente corretta introducendo un altro valore, quello di “reciprocità”. In sostanza, la sua formulazione attuale si può riassumere così: “Se agisco altruisticamente nei confronti di parenti, che sono portatori, in percentuale diversa a seconda del grado di parentela, dei miei stessi geni, in termini di patrimonio genetico non andrò mai incontro ad una perdita secca. Se mi comporto in modo altruistico nei confronti di un estraneo, creo quantomeno le condizioni per un rapporto di reciprocità”.

Messo così naturalmente l’altruismo perde molto del suo valore “etico” e sembra ridursi a un puro calcolo economico consentito dallo sviluppo delle facoltà raziocinanti. In realtà, abbiamo visto che per Darwin esistevano, a monte, degli “istinti sociali” che erano stati selezionati naturalmente. E proprio sulla loro esistenza o meno verte oggi il dibattito sul “senso morale” degli umani, dibattito che è peraltro speculare a quello sul linguaggio, e spesso vede protagonisti gli stessi studiosi.

Anche in questo caso, infatti, da un lato c’è un modello che postula l’esistenza di una serie di istinti, principi e giudizi morali “innati”, determinati, sia pure in modo indiretto, dal nostro corredo genetico. Secondo questo modello quindi il nostro “senso morale” è universale, è inscritto nel cervello umano, è legato fattori ereditari e non è soggetto a condizionamenti sociali[22]. Ed è anche una caratteristica esclusiva della nostra specie. La versione esasperata di questa tesi (quella trasmessa e banalizzata dalla comunicazione pseudoscientifica) ipotizza l’esistenza di geni specifici delle varie attitudini, della timidezza, della paura, degli orientamenti sessuali, ecc…; quella più morbida, proposta ad esempio da Steven Pinker, è che «forse non abbiamo nel cervello una lista di regole “tu devi”, ma almeno qualche regola del tipo “se-allora”[23]».

Dall’altro lato c’è invece chi sostiene che nel nostro cervello non ci sono né grammatiche universali né una normativa morale specifica, ma che esso agisce secondo un programma di apprendimento che ci indica cosa dobbiamo imparare: in questo modo, a partire dalla primissima infanzia noi assorbiamo dall’ambiente, dalla società in cui siamo nati, i fondamentali per una impalcatura morale, sui quali poi andremo a costruire sulla base delle nostre esperienze. Quindi non si parla di innatismo e di fattori ereditari, ma di un condizionamento storico e ambientale, ovvero culturale. Qualcosa che dipende in toto dall’esperienza esterna (quella che l’etologo De Waal, e prima di lui Konrad Lorenz, chiamano imprinting)[24].

Questo intendevo quando accennavo alla differenza tra dettare e premiare. Nel primo caso si ritiene che la selezione abbia già operato a monte, definendo dei caratteri ereditari fissati una volta per tutte, che dettano il nostro comportamento morale. Per i secondi invece la capacità morale di noi umani si è evoluta a partire da una caratteristica che condividiamo con gli altri animali sociali, e segnatamente con gli altri primati, la capacità empatica, che nella misura in cui si è rivelata determinante nella mediazione dei conflitti interni al gruppo e nel promuovere la cooperazione sociale è stata premiata dalla selezione. In questo senso esiste un condizionamento, ma non è quello naturale, bensì quello sociale, quello dei modelli comportamentali e valutativi fissati dalla tradizione culturale.

C’è infine una terza posizione, che in fondo consegue a quanto sono venuto dicendo sino ad ora e appare senz’altro plausibile, sostenuta da Michael Tomasello. In sostanza: i mutamenti ecologici (glaciazioni, desertificazioni, ecc…) hanno portato a un aumento della naturale interdipendenza tra gli umani e allo sviluppo della loro capacità cooperativa, soprattutto col passaggio da una economia di raccolta a quella della caccia ad animali anche di grandi dimensioni. Questa capacità si differenzia da quella dei primati in quanto prevede, accanto a una base empatica che è comune a tutti i primati a noi più simili, la formazione di una morale dell’equità, che è più complessa ed esclusivamente umana: ovvero postula, oltre alla capacità di cooperare per lo stesso fine, quella di riconoscere l’uguaglianza tra sé e l’altro, obbligati dall’ambiente a procurarsi insieme il cibo e tenuti a dividerlo equamente.

Detto in termini pratici, coloro che si dimostravano più affidabili, non solo per le abilità, ma per la lealtà e la correttezza nel dividere la preda, erano quelli che si preferiva coinvolgere nelle cacce successive, e per non perderli li si trattava equamente e lealmente. Tali capacità hanno quindi selezionato nel tempo i più dotati e altruisti, a dispetto delle inclinazioni egoistiche presenti in tutti gli individui.

Questa spiegazione in fondo riesce a far coesistere tutto, dall’empatia innata (quella legata ai neuroni specchio) al condizionamento storico e ambientale (quindi all’esistenza di un dispositivo di apprendimento), dalla giustificazione evoluzionistica dell’altruismo all’importanza della reciprocità. E al di là delle sfumature sembra essere quella ormai universalmente accettata. Un altro eminente “grande vecchio”, Edward O. Wilson, nel suo saggio più recente, Le origini profonde delle società umane, partendo dall’idea di eusocialità, ovvero dal fatto che le grandi transizioni evolutive si sono verificate sempre quando ha prevalso all’interno di una specie la tendenza all’aggregazione, perché questo fa emergere un livello superiore di complessità biologica e porta enormi vantaggi in termini di sopravvivenza e di riproduzione, ha così definito le tappe di passaggio della socialità umana: cura della prole e difesa collettiva del nido; divisione del lavoro e gerarchia sociale; selezione all’interno del gruppo di quei geni e comportamenti che lo rendono più coeso e lo avvantaggiano nella competizione con gruppi rivali.

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Ora, quanto si è scoperto o ipotizzato negli ultimi trent’anni a livello di spiegazione dei comportamenti umani di base non fa che confermare su base biologica una lunga serie di anticipazioni che venivano soprattutto dal campo dell’antropologia, dal campo cioè di Hertz. Ad esempio, Marcel Mauss aveva individuato già nei primi decenni del Novecento, nel Saggio sul dono (1924), come base dello scambio arcaico il triplice obbligo, radicato nella mente umana, di dare, ricevere e restituire: ossia un principio di reciprocità, dal quale dipendono le relazioni di solidarietà tra individui e gruppi, mediante lo scambio di doni pregiati. E dopo di lui il tema era stato ripreso da Claude Levi-Strauss ne Le strutture elementari della parentela. Indagando la struttura invariante che sottostà a tutti i sistemi di parentela, Levi-Strauss arrivava a identificarla nella proibizione dell’incesto, perché questo rende disponibile una donna, cioè un bene pregiato, per altri gruppi sociali, consentendo di stabilire forme di reciprocità e di solidarietà che garantiscono la sopravvivenza del gruppo.

Non sono sicuro che le conclusioni di Levi-Strauss possano essere considerate sempre valide (presso alcune culture l’incesto non è affatto proibito): ma ciò che qui importa è che se valesse la pura contabilità genetica questa proibizione apparirebbe suicida, così come lo appare la pratica del dono, mentre introducendo il principio della reciprocità i conti cominciano a tornare. Il dono, di qualunque natura esso sia, crea un vincolo solidale e seleziona gli individui capaci di rispettarlo. Quando il vincolo funziona, quando cioè la reciprocità diventa il modello collettivo di comportamento, il gruppo si allarga, diventa più competitivo e aumenta la propria capacità di sopravvivenza.

3.9 Competere

Anche De Waal, Tomasello e Wilson, però, e prima di loro Lorenz, così come in fondo persino Pinkler, non dimenticano che al di là delle dinamiche altruistiche che si creano all’interno del gruppo la pulsione di base in ciascun individuo è quella egoistica, e che l’altruismo è appunto un “prodotto” dell’evoluzione, naturale o culturale che si voglia: crea un’alternativa, ma non sostituisce in toto l’istinto primordiale. Questo ci riporta all’azione dei neuroni specchio, e all’ipotesi interpretativa dei comportamenti umani cui volevo arrivare.

La coscienza di sé, come abbiamo visto, nasce dall’osservazione consapevole dell’altro, da un suo riconoscimento, e a sua volta poi sull’altro si riverbera. Si agisce, si reagisce, si progetta tenendo conto delle azioni e delle intenzioni altrui. Si sviluppa in questo modo una “intelligenza sociale”. Ma l’intelligenza sociale può funzionare, per quanto concerne le dinamiche relazionali interne al gruppo, tanto in positivo come in negativo. In positivo, la capacità di entrare nella mente altrui consente come abbiamo già visto una empatia, una progettualità comune, una convivenza allargata. Rende possibile quell’altruismo che è necessario alla sopravvivenza del gruppo, a difenderlo dalle minacce esterne, ambientali o arrecate da altri gruppi. E rende possibile appunto il linguaggio, una comunicazione complessa e sfumata, e dal linguaggio è a sua volta esaltata.

In negativo induce invece a quello che è stato definito, a proposito anche di altre scimmie antropomorfe, un “comportamento machiavellico”. A giocare dunque, anche all’interno del proprio gruppo, con l’inganno, la finzione, la menzogna, la competizione, l’invidia.

La conflittualità interna al gruppo è diffusa presso quasi tutte le altre specie (non negli imenotteri), sia pure in misure diverse: ma quella subdola perpetrata con l’inganno e quella gratuita che si traduce in crudeltà appartengono solo ai primati, e l’ultima solo agli antropomorfi. E tra questi, gli esseri umani e gli scimpanzé sono gli unici che si impegnano frequentemente in lotte fra conspecifici con esiti letali. È un aspetto di tutta questa vicenda che sinora ho volutamente lasciato in ombra, perché è quello che consente il raccordo con il resto della narrazione, e va trattato a parte. Del resto, è anche un aspetto comprensibile. La condizione precaria in cui i sapiens hanno vissuto fino ad almeno cinquantamila anni fa, esposti costantemente al pericolo e poco equipaggiati per la grande caccia, li ha resi particolarmente bellicosi. Si è sviluppata in loro anche la crudeltà. Ma questo sentimento non è solo frutto dell’azione ambientale. Nasce prima ancora da dentro. Il perché e il come ci aiuta a capirlo la “teoria mimetica” proposta dall’antropologo René Girard.

Dopo la lunga galoppata nella biologia e nella neurofisiologia il testimone passa dunque ora all’antropologia. (…)

NOTE

[1] Marco Mazzeo, Tatto e linguaggio (cit)

[2] L’indagine e la manipolazione sono a loro volta connessi, col progredire della “culturalizzazione”, a quella che si può definire “esperienza mediale”. Se la realtà viene esperita attraverso particolari media, tenderà anche ad organizzarsi attraverso regole imposte dai media stessi. Questo aspetto è particolarmente importante e visibile oggi, con una percezione che mescola sempre più indiscriminatamente realtà naturale e realtà virtuale.

[3] A differenza delle altre scimmie antropoidi, i nostri progenitori sono diventati, durante il processo di ominazione, carnivori e cacciatori. Per milioni di anni però hanno cacciato piccole prede e raccolto quel che potevano, e contemporaneamente sono rimasti esposti alla pericolosa attenzione dei predatori. La selvaggina di grossa taglia è entrata nella loro dieta solo 400.000 anni fa.

[4]Tra 4,4 e 3,8 milioni di anni fa, abbiamo a che fare con creature che si diffondono in nuovi ambienti come sponde di laghi, savane e praterie. L’unico modo in cui questi animali potevano farlo era grazie a una sofisticata cultura sociale. Nella savana, un bipede lento è un bipede morto: a meno che non abbia un sacco di amici con sé”. C. O. Lovejoy

[5] Darwin stesso, ne “L’origine dell’uomo”, scriveva: “Le comunità che racchiudono il più gran numero di membri più simpatici gli uni agli altri, prosperano meglio e allevano il più gran numero di rampolli”.

[6]Perciò è necessario che io partecipi del suo dolore come tale, che io senta il suo dolore come di solito sento il mio, e che perciò io voglia direttamente il suo bene come di solito voglio il mio. Ma ciò esige che io mi identifichi in qualche modo a lui, cioè che ogni differenza tra me e un altro, sulla quale si fonda il mio egoismo, sia, almeno in un certo grado, soppressa.” Arthur Schopenhauer, Il fondamento della morale

[7] Il “ragazzo del Turkana”, trovato in Kenya, si spostava di continuo in cerca di cibo e di nuovi spazi in branchi di una trentina di individui, quindi in gruppi già socialmente complessi; lasciava dietro di sé accampamenti già organizzati e forse aveva già il dominio del fuoco (i primi focolari accertati risalgono a 1,5 milioni di anni fa, in Sudafrica)

[8] Infatti, i vocalizzi dei primati interessano prevalentemente le aree sottocorticali (giro del cingolo, diencefalo, tronco encefalico), mentre nell’uomo nella produzione vocale sono coinvolte le aree corticali, in particolare l’area di Broca nel lobo frontale sinistro e il lobo temporale.

[9] Michael Tomasello, Unicamente Umano. Storia naturale del pensiero, Il Mulino 2014

[10] Si ipotizza che nel corso dell’evoluzione la specie Homo habilis comunicasse attraverso una elementare forma di proto-linguaggio gestuale e che la specie Homo erectus fosse forse in grado di produrre atti motori mimico-gestuali, mentre la specie Homo sapiens presentava già strutture cerebrali (specialmente nelle aree dell’emisfero sinistro) che avrebbero consentito di sviluppare, assieme alle modalità di comunicazione gestuale, anche le prime articolazioni vocali (Michael Corballis, La verità sul linguaggio, Corbaccio 2009).

[11]Il linguaggio e l’abilità manuale si sviluppano insieme e questa evoluzione si riproduce nello sviluppo odierno dei bambini.” (A. Woods e T. Grant, La rivolta della ragione. Filosofia marxista e scienza moderna, AC Editoriale 1997)

[12] Dean Falk, Lingua Madre. Cure materne e origini del linguaggio, Boringhieri 2011. La Falk, antropologa e neuroscienziata, propone una spiegazione molto semplice dell’origine del linguaggio, rintracciandola nel rapporto madre/infante. Quando è impegnata nella raccolta la madre deve staccare dal proprio corpo il neonato, e per fargli comunque sentire la propria vicinanza comincia a fare dei versi e dei vocalizzi, e successivamente a parlargli.

[13] Robin Dunbar, Dalla nascita del linguaggio alla babele delle lingue, Longanesi 1998

[14] In pratica sarebbe intervenuta, in tempi evolutivamente recenti (30 o 40 mila anni fa), per motivi ancora sconosciuti, una vera e propria mutazione genetica che ha totalmente innovato il cablaggio del cervello. È anche quanto sostengono gli assertori della la teoria della mente modulare. J. A. Fodor (Mente e linguaggio, Laterza 2003) ha definito i moduli come “sistemi cognitivi funzionalmente specializzati”. Ma anche Steven Pinker (L’istinto del linguaggio, Mondadori 1998) sostiene che la facoltà umana del linguaggio è un istinto, un comportamento innato, sia pure modellato dalla selezione naturale e adattato alle esigenze comunicative dell’uomo.

[15] L’apparato di fonazione “moderno”, con la laringe posta sopra la trachea e con la conseguente possibilità di modulare una quantità enorme di suoni, è apparso circa 300.000 anni fa. Alcuni geni, per esempio il FOXP2, coinvolti nell’articolazione del linguaggio, hanno assunto la loro forma attuale non più di 200.000 anni fa. Ciò fa presumere che il linguaggio complesso sia effettivamente nato con l’Homo sapiens. Ma è probabile che non abbia raggiunto una compiutezza “grammaticale”, sia pure elementare, prima di trentamila anni fa.

[16] Tutto un filone della ricerca filosofica/psicologica/linguistica (la linguistica cognitiva) sostiene che i nostri stesso modi di apprendere, decodificare e interpretare la realtà, sono processi mediati dalle caratteristiche del nostro corpo, a partire dalle percezioni. Per un approfondimento vedi: Francesco Ferretti, Alle origini del linguaggio umano, Laterza 2010

[17] F. Ferretti, cit.

[18] Charles Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale (1872)

[19] Il problema in realtà è legato all’espressione “sopravvivenza del più adatto”, che Darwin peraltro non usò mai: “il più adatto” non è “il migliore di tutti”, non comporta una connotazione morale. In natura “il più adatto” è chi risulta vincente in particolari circostanze. E spesso chi sopravvive nella lotta per l’esistenza è, secondo i parametri etici oggi correnti, proprio il peggiore.

[20] Cfr, ad esempio, Il mutuo appoggio: fattore dell’evoluzione, Eléuthera 2020

[21] Introdotto dal biologo inglese William Donald Hamilton. La “fitness” considera il numero di discendenti prodotti da un singolo soggetto in relazione al numero medio di figli prodotti dai soggetti della popolazione cui appartiene. È positiva se il soggetto produce più discendenti rispetto alla media; è negativa quando il numero di figli è inferiore al valore medio.

[22] Questo modello è proposto, con sfumature diverse, dagli psicologi J. Haidt, Steven Pinker e Marc Hauser, e da ultimo anche dal biologo R. Dawkins.

[23] Steven Pinker, Tabula rasa, Mondadori 2014

[24] Sulla linea dell’origine “culturale” delle regole morali troviamo soprattutto gli etologi, da Konrad Lorenz ad Irenaus Eibl Eibensfeldt e a Franz De Waal.

Il lato sinistro della storia 2

(parte seconda)

di Paolo Repetto, 18 febbraio 2022

  1. Una immersione nella biologia

A questo punto, ad uno che di neuroscienze ha un’infarinatura men che dilettantesca il buon senso imporrebbe di fermarsi: ma se avessi tutto questo buon senso non mi sarei imbarcato in una simile avventura, e allora tanto vale procedere. Anche perché temo davvero di aver già dilapidato buona parte del mio patrimonio neuronale, e di dover sfruttare per tempo quel che ne rimane. Lo farò utilizzando le poche nozioni che possiedo sul funzionamento del nostro cervello, che ritengo comunque sufficientemente fondate, e semplificando il più possibile la descrizione dei processi. Spero solo di metterli in riga correttamente, partendo da quelli elementari (anche se darò per scontate le conoscenze di base delle neuro-scienze), e di non riuscire troppo noioso né del tutto insensato.

 

3.1 Emisferi

Il cervello umano è diviso nella sua parte anteriore (o neocorteccia) in due emisferi, destro e sinistro, che sono funzionalmente simmetrici (almeno in linea generale, come tutti gli altri doppioni anatomici, dagli arti ai polmoni, ai reni, agli occhi, ecc…), ma non identici. Le simmetrie riguardano, ad esempio, il controllo incrociato dei movimenti delle due metà del corpo: la corteccia motoria dell’emisfero destro governa i muscoli della metà sinistra, quella dell’emisfero sinistro i muscoli della metà destra. Per il resto i due emisferi sono caratterizzati da lateralizzazioni funzionali, ovvero da specializzazioni diverse.

L’emisfero sinistro è quello della mente cosciente, della linearità, della catalogazione, della memoria verbale e del ragionamento consecutivo, e ha un ruolo dominante nei processi linguistici, sia scritti che orali, oltre che nel calcolo matematico[1]. Consente una percezione analitica della realtà, coglie la successione degli eventi, li concatena, gestisce ed elabora le informazioni allineandole in un discorso sequenziale. Presiede insomma alla nostra coscienza temporale, quella che si allarga al passato e al futuro, e soprattutto raggruppa gli stimoli, in primis quelli visivi, in base alla funzione cui possono servire, elaborando una risposta pratica.

L’emisfero destro controlla invece la nostra parte subconscia, è concentrato sul presente ed è specializzato nelle capacità connesse allo spazio, come quelle artistiche: disegno, musica, canto, danza. Potremmo dire che vede il mondo a colori e presiede alla comunicazione gestuale, alla sfera emozionale. È sede dell’intuito e della memoria visiva, percepisce la realtà in modo globale e sintetizza le percezioni in una visione d’insieme, in schemi generali. Non privilegia le differenze e le distinzioni, ma le somiglianze.

In linea generale, quindi, l’emisfero sinistro è utilizzato preferenzialmente per analizzare gli stimoli ambientali e tenerli sotto il controllo di un comportamento standardizzato, mantenendo un’attenzione molto focalizzata, mentre quello destro è sensibile alle novità e agli stimoli minacciosi (ad esempio, i predatori), ai quali reagisce prevalentemente con risposte di fuga, ed è responsabile dell’espressione di emozioni intense. Questa lateralizzazione non è specifica del cervello umano. A un basso livello di specializzazione queste differenze erano già presenti nei primi vertebrati[2] e si sono poi accentuate nell’uomo in modi e misure diversi attraverso l’evoluzione.

Le attitudini che ho elencato sopra hanno una storia che si perde in un passato remotissimo e che è stata scritta da mutazioni adattive, intervenute a livello sia genetico che epigenetico: sono modelli percettivi, cognitivi e comportamentali affinatisi nei tempi e verificabili oggi sperimentalmente, con strumenti sofisticatissimi. Costituiscono ormai per la scienza un dato acquisito. Meno acquisite sono invece le cause della diversificazione: la spiegazione più plausibile è che l’aumento delle dimensioni del cervello assoluto abbia esteso la distanza tra i due emisferi, riducendone la cooperazione e definendone le asimmetrie[3]. Per quanto concerne poi lo sviluppo più accentuato del lobo sinistro, o quantomeno la concentrazione in questa area di alcune funzioni primarie, dipende probabilmente dalla differenza di flusso e di pressione sanguigna tra lato sinistro e destro nelle arterie carotidi, responsabili della circolazione a livello cerebrale[4]. Ma questo già esula dagli ambiti del mio discorso.

Va precisato comunque che se le specializzazioni dei due emisferi esistono, non esiste tra essi un confine netto: c’è invece uno scambio continuo di informazioni che passano attraverso il “corpo calloso”. In realtà nessuno dei due funziona mai in maniera totalmente autonoma. Piuttosto, ci sono momenti di dominanza dell’uno o dell’altro, in relazione al tipo di attività che il cervello è chiamato a svolgere. Se leggo, scrivo, discuto o faccio di conto la temporanea dominanza sarà dell’emisfero sinistro, se disegno, ascolto musica, guardo un’immagine o mi perdo nel sogno sarà di quello destro. E, soprattutto, occorre ricordare che tutto ciò che accade nella corteccia transita anche, o almeno è in stretta relazione, per la parte più antica del cervello, costituita dal tronco encefalico (o cervello rettiliano) e dal sistema limbico, che controllano le funzioni corporali essenziali e le risposte emozionali connesse alla sopravvivenza (e alla riproduzione). In sostanza, per quanto evolutivamente specializzati dobbiamo sempre fare i conti con l’eredità del cervello pre-umano dal quale siamo partiti. Con la crescita di volume di quest’ultimo, e nella fattispecie della parte occupata dalla corteccia, è aumentata però la discrezionalità nelle risposte, sempre meno vincolate ad imboccare una direzione obbligata.

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Viene spontaneo a questo punto chiedersi quali effettivi vantaggi comporti la specializzazione degli emisferi. Uno sta senz’altro nel fatto che la lateralizzazione consente di aumentare le capacità neuronali: svolgendo funzioni distinte, gli emisferi specializzati evitano inutili duplicazioni, con un gran risparmio di tessuto neuronale. Un altro è che la lateralizzazione impedisce che due impulsi assolutamente incompatibili si trovino in contrasto nell’elaborazione di uno stimolo, e impediscano o rallentino la risposta. I vantaggi, insomma, ci sono, e a quanto pare compensano ampiamente gli svantaggi (perché ci sono anche quelli).

Ora, i nostri progenitori non sono scesi dagli alberi con il cervello già strutturato in questo modo, ma sono diventati “umani” proprio attraverso il processo di diversificazione e specializzazione degli emisferi: e questo processo è stato consentito dal fatto che il loro cervello era una struttura plastica, che rispondeva adattandosi agli stimoli ambientali, e traeva vantaggio tanto dalle esperienze maturate quanto dalle mutazioni intervenute a livello genetico per banali errori di replicazione del DNA.

3.2 Camminare

Parto proprio di qui, dalla discesa dagli alberi. Semplificando all’osso, si può dire che tutto ha avuto inizio con l’acquisizione della deambulazione eretta. Sul come e quando (senz’altro più di tre milioni di anni fa, qualcuno ipotizza addirittura sei, subito dopo la separazione della linea umana da quella degli scimpanzé) e perché ciò sia avvenuto le teorie si sprecano: di sicuro c’è comunque che i nostri più remoti antenati non scelsero di camminare eretti per un primordiale calcolo di opportunità, ma furono necessitati a farlo dal puro istinto di sopravvivenza: e che il cambiamento della modalità di locomozione ha comportato, direttamente o come effetto collaterale, una radicale ristrutturazione anatomica[5].

È questo l’evento cruciale, perché i reperti fossili ci dicono che gli Ominidi sono diventati bipedi molto tempo prima di essere dotati di un cervello di dimensioni superiori rispetto a quello delle altre scimmie antropomorfe: che è stato quindi il bipedismo a favorire lo sviluppo cerebrale, e non viceversa[6].

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Non è il caso di fare tutta la storia delle trasformazioni anatomiche che tale evento ha determinato: devo però citare almeno le più eclatanti. La postura eretta ha creato innanzitutto le condizioni per la liberazione e specializzazione degli arti superiori. È vero che gli umani non sono gli unici a usare questi arti per scopi diversi dalla locomozione, ma le differenze funzionali, ad esempio nei confronti delle scimmie, sono sostanziali. Le “mani” delle scimmie sono geneticamente adattate a svolgere mansioni specifiche, quelle umane sono invece forme plastiche, che introducono una dimensione inedita nel regno animale, quella della “techné”, e quindi in sostanza quella del lavoro. Anche gli scimpanzé creano strumenti, puliscono ad esempio i famosi rametti per “pescare” nei termitai, ma questo è un comportamento accessorio, perché in realtà sono organismi così specializzati che possono tranquillamente sopravvivere anche senza i rametti. “Gli strumenti animali sono tali esclusivamente in virtù della loro efficacia di prestazione immediata (potenza); quelli umani lo sono in virtù della loro flessibilità d’uso (potenzialità).[7] L’uomo invece, senza il suo strumentario “culturale” (abiti per difendersi dal freddo, case e ricoveri per proteggersi dai pericoli, fuoco per difendersi, per riscaldarsi, per cuocere i cibi, per illuminare le tenebre, armi per la caccia, ecc…) non sopravvivrebbe.

Le mani dell’ominide sono dunque diventate disponibili per attività di tipo consapevolmente “tecnico”, come la produzione di utensili o la domesticazione del fuoco, per il trasporto della prole o del cibo per nutrirla, e anche come strumento principale di difesa, oltre che, per un lungo periodo, della comunicazione[8]. Volendo banalizzare, si potrebbe dire che sono diventate le “protesi” organiche della parte anteriore del cervello, in quanto sempre meno condizionate alla risposta meccanica e istintuale dettata dal tronco encefalico e sempre più soggette invece al controllo da parte della corteccia. Col tempo sono poi diventate il tramite per la creazione e l’utilizzo di vere e proprie protesi inorganiche.

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Lo sviluppo di ciascuna di queste attività a sua volta implicava ulteriori ricadute. Il trasporto, il combattimento, la necessità di dilaniare le prede, tutti questi compiti sono passati dalla bocca alle mani, e ciò ha modificato radicalmente le regole del gioco[9]. Il percorso è stato lunghissimo, e gli adeguamenti sono stati necessariamente lenti e graduali: se i canini dei nostri antenati, ad esempio, si fossero ridotti di dimensioni prima che questi avessero imparato a fabbricare utensili per combattere, essi si sarebbero trovati pressoché disarmati. La bocca si è dunque specializzata in altre attività, quella della masticazione e quella della fonazione, tramite un concorso di fattori apparentemente indipendenti ma in realtà strettamente collegati l’uno con l’altro[10].

In primo luogo, per equilibrare il peso della testa, che nella postura eretta si trova direttamente in cima alla colonna vertebrale, si è rivelato “adattivo” un graduale spostamento in avanti del foro occipitale, quello che mette in comunicazione la scatola cranica con il canale vertebrale. Ciò ha comportato che si riducesse il ruolo dei muscoli del collo per tenere la testa in posizione, e quindi anche l’area nella quale i muscoli si attaccano alla parte posteriore del cranio: e questa riduzione ha liberato a sua volta uno spazio che è rimasto disponibile per l’ampliamento del cervello, consentendo a quest’ultimo di espandersi anche anteriormente senza disturbare l’equilibrio[11].

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Ma la riduzione della massa muscolare del collo ha inciso anche sul funzionamento dell’apparato masticatorio, che per la seconda legge fisica delle leve è stato reso più efficiente (ed energeticamente meno dispendioso) dall’arretramento delle arcate dentarie sotto la scatola cranica, e quindi da una pressione delle mascelle esercitata verticalmente: cosa che ha aperto la possibilità di adottare diete alimentari diverse. In pratica, si sono create le condizioni perché l’uomo diventasse onnivoro.

Tali condizioni sono state poi pienamente realizzate più tardi (almeno un milione di anni fa), con la domesticazione del fuoco. Oltre a costituire un ottimo strumento di difesa contro i grandi predatori e contro il freddo, il fuoco consentiva la cottura dei cibi: rendeva cioè digeribili alimenti che non avrebbero potuto essere altrimenti consumati, e permetteva di assimilarli molto più rapidamente, ampliando considerevolmente la gamma della dieta e il suo potere nutrizionale, ma stabilizzando anche il livello di attenzione (lo sforzo della digestione intorpidisce le facoltà sensoriali: un leone sazio diventa più lento e distratto) e moltiplicando quindi le opportunità di sopravvivenza. Tra l’altro, l’accorciamento dell’intestino indotto dalla semplificazione del metabolismo e i tempi abbreviati di questa funzione significavano una riduzione in termini di consumo energetico da parte dell’organismo, e l’energia risparmiata poteva essere dirottata al cervello, che sotto il profilo energetico è particolarmente dispendioso[12].

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Non ultima tra le conseguenze, per importanza, è stata la discesa della laringe[13], che era posizionata originariamente più in alto, rispetto alla trachea, per consentire una migliore deglutizione del cibo. La masticazione più efficace e la minore durezza dei cibi cotti hanno comportato la riduzione del diametro del canale tracheale per il quale transitava il bolo, e lo slittamento della laringe verso il basso. Tutto questo complesso riassetto anatomico, operato attraverso il meccanismo della selezione, era funzionale ad adeguare ai cambiamenti di cui ho parlato sino ad ora gli apparati della nutrizione e della respirazione. Il fatto che le variazioni strutturali della bocca e della laringe siano poi risultate funzionali a rimodellare anche l’apparato fonatorio è una sorta di effetto collaterale. Eppure questo fattore imprevisto, intervenuto secondo le stime più caute tra i duecentomila e i trecentomila anni fa, è stato fondamentale per lo sviluppo del linguaggio[14].

Si può in effetti ipotizzare una ricostruzione del percorso abbastanza attendibile: “Ci sono prove che la lateralità manuale destra dell’uomo discende dai primati primitivi. Infatti la preferenza per la mano destra si manifesta in molte scimmie, comprese quelle antropomorfe, come gli scimpanzé, che di solito afferrano il cibo con la mano destra. Gli scienziati credono quindi che nell’uomo il controllo della parola e del linguaggio ad opera dell’emisfero cerebrale sinistro sia da collegare evolutivamente con la preferenza dell’uso della mano destra nel comportamento alimentare dei primati. L’uso della parola nell’uomo potrebbe essere riconducibile all’evoluzione della sillaba, cioè un’alternanza tra consonante e vocale. Se pronunciamo, per esempio, la sillaba “mama” iniziamo con il pronunciare una consonante sollevando la mascella e poi una vocale abbassandola…lo stesso movimento della masticazione! Gli scienziati quindi hanno ipotizzato che il movimento di masticazione, controllato dalla parte sinistra del cervello fin dall’evoluzione dei primi vertebrati, si sia evoluto nell’uomo nel movimento di vocalizzazione della prima sillaba ed è per questo motivo che il linguaggio umano è controllato dalle aree di Broca e Wernicke che si trovano nella parte sinistra del nostro cervello[15].

Col che, mi sono già spinto sin troppo avanti. Quelli che sto elencando sono comunque tutti esempi eclatanti di adattamento selettivo: ci dicono che l’organismo è in grado di riorganizzarsi costantemente in funzione della massima efficienza, e di attivare nuove funzioni adattando al bisogno vecchie strutture anatomiche[16].

Ma non è tutto: la riduzione dell’apparato muscolare di sostegno della testa e la trasformazione di quello masticatorio hanno comportato modifiche anche nella forma e nel peso di quest’ultima. Mentre in basso si creavano condizioni diverse per la fonazione, il cervello stesso veniva orientato a svilupparsi soprattutto in quelle zone (lobi temporali e lobi frontali) a struttura ossea più plastica che sono a diretto contatto con i muscoli facciali: zone nelle quali hanno trovato successivamente sede il controllo della parola e il pensiero logico.

La postura eretta determina infine l’assunzione di un ruolo primario della vista nella percezione. Nella savana gli spazi si dilatano immensamente e si sottraggono al tipo di esperienza eminentemente uditiva e olfattiva che veniva praticata nella foresta: ora è l’occhio a doversi adeguare per garantire il controllo del territorio e l’incolumità. Ma esercita anche un’altra funzione. Gli arti liberati dai compiti di locomozione vengono utilizzati tanto per difendersi che per modificare l’ambiente, e questo avviene attraverso un coordinamento sempre più sviluppato del meccanismo mano-occhio. Sono gli occhi a guidare le mani alla presa e alla manipolazione degli oggetti. Per sopravvivere nella savana è necessario velocizzare l’esecuzione di ogni gesto, sia di fuga che di attacco, e con l’aumento della velocità diventa essenziale il coordinamento tra agilità e precisione nel movimento[17].

Ciò significa che la percezione visiva induce una rappresentazione dell’ambiente in cui ci muoviamo di tipo essenzialmente pragmatico, e non semplicemente contemplativo. “Noi vediamo perché agiamo, e possiamo agire proprio perché vediamo”. Di ogni oggetto percepito cogliamo immediatamente le proprietà fisiche che ci consentono di interagire con esso, quindi lo traduciamo in potenziale motorio e di azione.

Il prevalere della percezione visiva non ha tuttavia conseguenze solo ai fini pratici, operativi. Determina anche il modo in cui noi “organizziamo” la rappresentazione mentale della realtà che ci circonda. I quattro quinti delle informazioni che il nostro cervello riceve arrivano dalla vista: e la percezione visiva coglie un quadro d’insieme strutturandolo spazialmente. Percepisce innanzitutto lo spazio, e in subordine percepisce il movimento come spostamento degli oggetti all’interno dello spazio. Non solo: il nostro campo visivo è determinato dalla posizione degli occhi rispetto al corpo. Vediamo lontano perché gli occhi sono posizionati molto in alto. L’orizzonte si allontana, il mondo diventa molto più ampio. Si rivelano nuovi scenari, spazi sconosciuti da percorrere, da scoprire e da occupare, e questi spazi sono pieni di cose da manipolare, di difficoltà ambientali da superare, di pericoli dai quali guardarsi, di presenze inedite alle quali rapportarsi.

Nella nuova realtà che la percezione visiva rivela, o entro il nuovo modo di percepire quella già conosciuta, la funzione uditiva viene ad assumere un ruolo diverso. Affina la sua organizzazione temporale, costringendo il pensiero ad articolarsi sia nei modi dell’acquisizione (a porre cioè le cose prima e dopo) che in quelli della esposizione, per rendere comunicabile agli altri quanto percepito. L’udito opera nel tempo, e quindi lavora immediatamente per sequenze. Per questo, come vedremo, il linguaggio è in stretta connessione con l’udito.

La comparsa della scrittura comporterà poi, molto più tardi, un altro rivoluzionamento nel rapporto tra i sensi, sovrapponendo alla “globalità” visiva la linearità “uditiva”. L’alfabeto è infatti composto da segni che corrispondono a suoni e che vanno ordinati secondo una certa linearità. Questo modifica ulteriormente la disposizione percettiva, per cui esiste una differenza fondamentale tra le culture alfabetizzate e quelle puramente orali. Ma non spingiamoci troppo avanti.

Piuttosto, per capire correttamente in quale cornice questi mutamenti sono avvenuti, dobbiamo considerare quanto la realtà ambientale con la quale si confrontavano i primi homo, e tutti i loro discendenti almeno fino al tramonto del medioevo, fosse diversa rispetto all’attuale. Oggi cogliamo un mondo in costante velocissimo movimento: la percezione preistorica e in sostanza anche quella antica si esercitava su movimenti lentissimi (ciò che spiega anche la capacità di avvertire, ad esempio, spostamenti astrali minimi). Di un ambiente immobile si coglie ogni minima mutazione (tracce sul terreno, un fruscio, ecc…), mentre di fronte ad un ambiente sempre in movimento si colgono solo le variazioni macroscopiche, e per poterlo mantenere sotto controllo lo si inquadra entro linee, figure e volumi geometrici. Attivando l’emisfero sinistro.

Ho cercato sin qui di rappresentare un effetto a cascata: a mano a mano che il cervello cresce[18] le sue diverse aree si differenziano e si specializzano: diminuendo ad esempio la capacità olfattiva (che oggi appare quasi totalmente atrofizzata) si restringe anche la zona corticale corrispondente, mentre quella auditiva, sempre meno utilizzata per percepire rumori e sibili, si abilita a decodificare suoni e linguaggio. Conseguentemente si incrementa proprio la zona preposta all’articolazione della parola (area di Broca) e alla sua ricezione e decodificazione (area di Werneke), che come abbiamo visto è anche quella che controlla le abilità manipolatorie, e più genericamente si sviluppano i lobi frontali.

Tutto questo avviene nel corso di milioni anni. Poi, circa centomila anni fa, la crescita sembra arrestarsi: l’anatomia e la struttura cerebrale dei primi sapiens sono in linea di massima già quelle attuali. Forse centomila anni sono uno spazio temporale troppo esiguo, se rapportati ad un percorso evolutivo prettamente biologico. O forse sono invece cambiati i modi stessi dell’evoluzione, condizionati dalle pratiche “culturali” degli umani e dalle modifiche che questi portano all’ambiente. È quanto vorrei chiarire.

3.3 Sopravvivere

Il percorso evolutivo che ho sintetizzato alla meno peggio non spiega nel dettaglio le cause e modi della lateralizzazione del cervello, ma può almeno farcene scorgere le premesse e cogliere la portata. Ma non è finita: volevo infatti arrivare ad indagare l’origine e la funzione del linguaggio. Devo perciò tornare nuovamente alla deambulazione eretta e alle sue immediate conseguenze.

Per ragioni aerodinamiche il bipedismo ha selezionato in positivo le femmine con i fianchi più stretti. Questa caratteristica consentiva loro di camminare meglio, di reggere a spostamenti più lunghi e di coprire quindi aree più vaste nell’attività di raccolta del cibo, ma soprattutto di fuggire più velocemente davanti ai predatori: in sostanza garantiva maggiori probabilità di sopravvivenza. Ma comportava anche grossi problemi al momento di partorire, perché la circonferenza cefalica dei neonati era incompatibile con un restringimento del canale vaginale, tanto più in presenza di un lento ma costante accrescimento delle dimensioni del cervello. A tale problema la specie rispose selezionando ulteriormente tra le femmine quelle con maggiore propensione al parto prematuro. Noi umani siamo dunque sin dall’origine frutto di un problema e di una soluzione che potremmo definire “innaturali”, e ci portiamo dietro il marchio di questa differenza, tanto che qualcuno (Gunther Anders, per la precisione) è arrivato a dire che l’uomo è figlio di un tragico errore della natura.

Il che è fondamentalmente vero, magari con qualche riserva per il “tragico”: ma è anche vero che il marchio è quello di un salto di qualità, quale che sia l’interpretazione che di questo salto si vuole dare. Vediamo perché.

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Nella specie umana il parto avviene sempre “prematuramente”, prima cioè che il nascituro sia perfettamente formato, ma soprattutto prima che l’ossatura del suo cranio si sia richiusa. Il neonato viene così al mondo in una condizione di assoluta “inadeguatezza” e la sua sopravvivenza dipende totalmente, per un periodo molto lungo, caratterizzato dalla persistenza di caratteri infantili e da uno sviluppo morfologico, fisiologico e nervoso particolarmente lento, dalla protezione e dalle cure parentali. In quello stesso periodo però il suo cervello continua a crescere, può espandersi anteriormente e rimane dotato di una particolare elasticità, risultando così disponibile all’apprendimento di tipo ambientale, “culturale”. E quanto appreso va a depositarsi, per processi epigenetici, influenze comportamentali o trasmissione simbolica, in aree diverse del nuovo spazio cerebrale conquistato[19].

Questo processo continua ad essere riassunto e ripercorso nelle prime fasi di ogni singola esistenza umana (l’ontogenesi ricapitola la filogenesi), perché al momento della nascita le aree del cervello connesse all’uso di strumenti e del linguaggio sono unite. La separazione avviene dopo i due primi anni di vita. Di lì in poi, in parallelo con l’acquisizione di abilità deambulatorie e manipolatorie sempre più complesse, il nostro cervello “specializza” i due emisferi e sviluppa in essi competenze diverse: in particolare, come abbiamo visto, le funzioni cerebrali deputate alla risposta motoria sono localizzate nell’emisfero sinistro, lo stesso nel quale hanno sede anche i centri responsabili del linguaggio e della abilità manuale. Insomma, l’immaturità, la “sprovvedutezza biologica” dell’animale umano di cui parla Arnold Gehlen, si risolve in un carattere indefinito e plastico, e tale presupposto genetico fa insorgere la necessità di rimedi culturali. Le lacune vanno colmate, le debolezze compensate. Questo fa sì che la somiglianza tra i comportamenti culturali umani e quelli non umani, a dispetto anche di evidenti continuità (sto pensando alle abilità “tecniche” degli scimpanzé, ad esempio) sia in realtà solo superficiale. Perché i primi sono indispensabili alla sopravvivenza, i secondi no.

Il bipedismo ha infatti rivoluzionato anche i comportamenti sessuali degli ominidi. Camminando verticali le femmine della specie homo nascondono la manifestazione dell’estro, che tra gli altri primati avviene attraverso un rigonfiamento o una coloritura particolare della zona genitale, oltre che tramite segnali olfattivi[20].

Questo fatto, associato ad altre trasformazioni fisiologiche e comportamentali femminili che sono andate consolidandosi nel tempo, ha favorito la nascita di rapporti più personalizzati tra individui di sesso diverso, facendo saltare le vecchie regole. In sostanza: in quasi tutti i primati l’accoppiamento durante i periodi di fertilità è riservato ai dominanti, i maschi alfa, mentre agli altri è precluso o consentito solo nei periodi in cui la femmina è infeconda. La scomparsa nella femmina umana dei segnali visivi dell’estro e la riduzione di quelli olfattivi ha disattivato tutto il sistema di controllo e di monopolio dei dominanti, offrendo anche agli altri maschi la possibilità di accoppiarsi e di trasmettere il proprio patrimonio genetico, e li ha indotti di conseguenza ad una diversa “assunzione di responsabilità” nei confronti dei propri discendenti, per assicurarne la sopravvivenza. In realtà, l’origine di quella che potremmo definire una “paternità responsabile” è legata alla “selezione per scelta sessuale” della quale parla già (sia pure con cautela) Darwin, ovvero alla preferenza accordata dalle femmine per l’accoppiamento ai maschi che garantivano maggiore continuità di presenza, capacità di procurare cibo e disponibilità a condividerlo. Ai più adatti, insomma, non solo a sopravvivere, ma a prendersi cura di una prole totalmente dipendente per un lungo periodo[21].

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La “condizione neotenica” costituiva oggettivamente un grave problema, per il neonato come per i genitori: ma l’astuzia evolutiva lo ha tradotto alla fine in un vantaggio[22]. Per affrontarlo dovettero infatti modificarsi anche i comportamenti parentali. Si creò dapprima un nuovo modello di legame di coppia, poi per una sorta di effetto alone, di abitudine alla convivenza continuativa, l’interazione non rimase limitata ai soggetti coinvolti nella riproduzione o nella cura della prole, ma si allargò per motivi di opportunità collaborativa agli individui più prossimi, segnatamente a quelli maggiormente portati alla socializzazione. Dalla vita animale del branco si passò a quella specificamente umana del gruppo, nella quale, come vedremo, oltre ai rapporti di collaborazione si sviluppano presto anche quelli di sfruttamento o di antagonismo.

Daniel Dennett riassume così la situazione: “È dallo stato di cronica indigenza di un corpo neotenico che sorge la necessità di stabilire legami emotivi, instaurare tradizioni storiche, tessere pratiche sociali […]. La mancanza di armi naturali di un corpo nudo e la plasticità di mani senza compiti percettivi prefissati si rivelano alla nascita come handicap insuperabili senza il sostegno, la collaborazione e il calore di altri umani adulti. L’animale umano costituisce infatti l’incarnazione per eccellenza della neotenia, quel fenomeno biologico che permette alla specie di mantenere anche in età avanzata i tratti morfologici dell’età infantile: una immaturità cronica che ci consente di apprendere fino agli ultimi giorni della nostra vita e che, al contempo, mette in costante pericolo gli equilibri raggiunti dalla nostra esistenza. L’essere umano è costretto a trovare nella precarietà della sua condizione una sicurezza labile e una stabilità sempre revocabile. Il nostro corpo ci permette di trovare percorsi individuali, di uscire dalle rigidità della programmazione istintuale, di evadere da una nicchia ecologica specifica. Per questa ragione vedremo che l’uso di strumenti nella specie umana riveste un valore biologico decisivo: è ciò che le consente di sopravvivere[23].

(continua, naturalmente)

Note

[1] Nel 93% dei destrimani, l’emisfero dominante nell’emissione di parole e di frasi è il sinistro, il 6% possiede meccanismi per il linguaggio nell’emisfero destro e l’l % ha il coinvolgimento di entrambi gli emisferi cerebrali nella produzione di parole. Nei mancini le cose stanno invece in questo modo: nella produzione del linguaggio il 70% rispetta la dominanza sinistra, mentre. solo il 17% vede dominante l’emisfero destro; nei rimanenti casi (13%) ambedue gli emisferi sono forniti di meccanismi della parola. L’area di Wernicke, comunque, una delle più importanti per la lingua, è sempre localizzata a sinistra.

[2] L’asimmetria cerebrale è presente in una varietà di specie diverse come rane, uccelli canori, rettili, topi, macachi, ecc. Tutte queste specie, compreso l’uomo, mostrano una dominanza delle strutture cerebrali di sinistra nel controllo della produzione di specifiche vocalizzazioni. Non è dunque il possesso del linguaggio verbale a determinare asimmetria tra i lobi cerebrali dell’uomo. Piuttosto, anche numerose specie di uccelli mostrano un uso preferenziale di un arto che è paragonabile alla dominanza manuale umana.

[3] La crescita delle dimensioni cerebrali è avvenuta per un incremento sia in altezza che di raggio della calotta cranica. Nell’homo di Neanderthal l’incremento riguardava soprattutto il raggio, mentre nel sapiens c’è stato un incremento maggiore dell’altezza. In linea teorica, con l’aumento del volume cerebrale, in particolare con quello della corteccia, le asimmetrie dei lobi temporali dovrebbero risultare ridotte: soprattutto nei destrimani, però, a livello del Planum temporale di sinistra (è l’area corticale appena posteriore alla corteccia uditiva, nel cuore dell’area di Wernicke) esse permangono molto marcate.

[4] Nell’uomo la carotide comune di sinistra origina dall’arco aortico; la destra è una delle biforcazioni dell’arteria anonima. Il flusso sanguigno proveniente dalle carotidi interne è rivolto in prevalenza alla cerebrale media, che ne costituisce la diretta continuazione. L’assenza di comunicazioni tra le carotidi interne dei due lati comporta la persistenza di minime differenze quantitative di flusso nelle cerebrali medie, che nelle parti iniziali hanno calibro identico a quello delle carotidi interne da cui si originano.

[5] Non sempre priva di inconvenienti, anche se vantaggiosa. Il cambiamento posturale e la nuova locomozione ne hanno creati diversi. Per distribuire meglio il peso del corpo sugli arti posteriori la pianta del piede s’inarcò, il tallone s’ingrandì, il tendine di Achille si allungò e le gambe diventarono più lunghe e più robuste delle braccia. Per mantenere l’equilibrio, comparvero le due curvature della colonna vertebrale che portano indietro il centro di gravità del tronco, ma sono spesso causa di mal di schiena. Anche i dolori della zona cervicale sono da imputarsi alla rotazione della testa all’indietro per mantenersi bilanciata sul collo. Le articolazioni del ginocchio e del femore sono diventate più soggette a usura, per il maggiore peso che sostengono. Per migliorare la postura e l’equilibrio sono anche cambiate la posizione e le dimensioni del bacino che ruotò all’indietro: mentre il cinto pelvico diventò più piatto e il pavimento pelvico si rafforzò per sostenere il peso e la pressione degli organi addominali, alla rotazione dell’anca conseguì il restringimento del canale del parto.

[6] I paleontologi Brian G. Richmond e William L Jungers  affermano che Orrion tugenensis, scoperto in Kenia nel 2001, aveva già andatura bipede oltre sei milioni di anni fa. Comunque, i fossili scheletrici, insieme alle orme di Laetoli, dimostrano senza alcun dubbio che già Australopithecus afarensis, aveva adottato, 3.5 milioni di anni fa, la postura eretta. I primi strumenti di pietra lavorata risalgono invece a circa 2,5  milioni di anni fa, e sono associati ai fossili di Homo habilis.

[7] Marco Mazzeo, Tatto e linguaggio. Il corpo delle parole, Editori Riuniti 2003

[8] Al contrario che nelle scimmie, che sono quadrumani, la differenziazione funzionale degli arti superiori negli ominidi è molto accentuata: per la prensione il rapporto è di due ad uno negli ominidi e di uno a quattro nelle scimmie antropomorfe.

[9]Nel pensiero occidentale la mano subisce uno strano destino. Per un verso nella nostra cultura, profondamente visiva e legata alla scrittura, la mano rappresenta lo strumento per verifiche ultime e accertamenti senza appello. «Toccare con mano» significa conoscere direttamente, andare a capire di persona, non lasciare spazio all’inganno. Per un altro verso, però, nella tradizione occidentale la mano sembra vivere una condizione di completa inferiorità rispetto alla vista: il tatto è senso del limite in un modo del tutto diverso. Proprio perché legata alla presa diretta e al contatto con la materia, la conoscenza manuale è considerata di solito approssimativa, grezza, poco efficace. La mano, secondo questa idea, non coglie un limite ma vive un limite: deve tastare per successioni un mondo che non conosce nella sua interezza e mai completamente. La mano è senso del limite perché ristretto è il suo raggio d’azione e deficitaria la sua forma di conoscenza.” (Mazzeo, cit)

[10] Anche quando l’andatura bipede si era ormai definitivamente affermata, il volume del cervello dei primi homo continuava a rimanere più o meno simile a quello delle altre scim-mie antropomorfe (sotto i 500 cc). L’accrescimento della scatola cranica è iniziato almeno un milione di anni dopo, in concomitanza con le prime tracce della lavorazione della pietra, datate circa 2,5 milioni di anni fa, e ha raggiunto il massimo circa 100.000 anni fa.

[11] Per dirla in termini più semplici: in un quadrupede il cranio è all’estremità di un asse orizzontale, quindi il suo volume e il suo peso non possono andare oltre un certo limite, pena uno squilibrio strutturale e uno sbilanciamento nei confronti del resto del corpo. In un bipede è invece posto in cima ad un asse verticale, quindi il peso scarica direttamente a terra, senza creare scompensi. Ergo: possibilità di uno sviluppo (quasi) illimitato del cranio, e del cervello da questo ospitato.

[12] Pur occupando solo il 2% del peso corporeo, il cervello umano consuma oltre il 25% del budget energetico di tutto l’organismo.

[13]Nell’Australopiteco, la laringe, organo situato alla fine della trachea e contenente le corde vocali, si trovava in una posizione più elevata nel canale respiratorio, permettendo così un maggiore spazio per la deglutizione del cibo ma impedendo l’articolazione dei suoni e, conseguentemente, il linguaggio. L’emissione di suoni che un australopiteco poteva produrre era probabilmente molto simile a un latrato. Il processo evolutivo ha dato vita a un mutamento genetico grazie al quale la laringe si è abbassata, il canale fonatorio si è allargato, la lingua è arretrata diventando più mobile e flessibile e favorendo così la modulazione dei suoni.” (A. Pennisi, A. Falzone, Il prezzo del linguaggio, Il Mulino 2010)

[14] Altri ricercatori segnalano tracce di una faringe di tipo moderno già in Homo ergaster, quindi quasi 2 milioni di anni fa, mentre un cranio di Homo heidelbergensis rinvenuto in Etiopia testimonierebbe che questa caratteristica aveva raggiunto l’aspetto attuale già 600.000 anni fa. In tal caso (tutto da verificare) un apparato vocale capace di produrre i suoni di linguaggio articolato sarebbe stato acquisito nella specie umana più di 500.000 anni prima delle più antiche testimonianze dell’uso del linguaggio dei nostri antenati.

[15] MacNeilage PF, Rogers LJ, Vallortigara G (2009), L’evoluzione del cervello asimmetrico, Le Scienze 493

[16]L’aumento incrementale del volume cerebrale negli ultimi due milioni di anni ha progressivamente accresciuto il controllo della corteccia sulla laringe, e fu quasi certamente insieme causa ed effetto del crescente uso della simbolizzazione vocale. […] il maggiore uso della vocalizzazione in epoche successive dell’evoluzione del cervello avrebbe inevitabilmente imposto una selezione sulla struttura del tratto vocale ad accrescerne in quello stesso periodo la controllabilità.” (Terrence Deacon, La specie simbolica, Fioriti 2001)

[17] La pianificazione dei movimenti balistici da parte del cervello, ad esempio, prerogativa dei primi ominidi, potrebbe aver facilitato lo sviluppo della corteccia cerebrale specializzata nella sequenza e coinvolta nell’ascolto del linguaggio parlato (area di Wernicke), promuovendo non solo il linguaggio, ma anche la capacità musicale e l’intelligenza.

[18] La capacità cerebrale passa da 800 cm3 nell’homo erectus a circa 1350 cm3 nell’homo sapiens sapiens in circa 700.000 anni. L’incremento del volume del cranio ha determinato il rimodellamento del cervello, con lo sviluppo della neocorteccia, in particolare dell’area di Broca, nella quale è riposta l’attività inerente il pensiero e il linguaggio dell’uomo moderno.

L’aumento del volume cerebrale aveva avuto però inizio già con homo habilis, che presenta una capacità cranica media di circa 760 cc. Il primo reperto che mostra chiari segni di un maggiore livello cognitivo, associato a una considerevole espansione della scatola cranica (fino a 1000 cc) e ad un’asimmetria tra i due emisferi, segno di un uso preferenziale della mano destra, è di circa 1,6 milioni di anni fa. Si tratta di un esemplare ben conservato, soprannominato il “ragazzo del Turkana”, trovato nella zona del lago omonimo, in Kenia.

[19] La definizione di Epigenesi, introdotta da Conrad Hal Waddington, potrebbe essere “tutti i processi di cambiamento durante il ciclo vitale di un organismo le cui istruzioni non siano contenute nella sequenza del DNA”. In altre parole, durante lo sviluppo noi acquisiamo delle informazioni dall’interazione fra i componenti di base dell’organismo (geni, proteine e altre sostanze) e fra questi e l’esterno, Le influenze comportamentali sono quelle riassunte nel termine di imprinting, processi di “canalizzazione” del comportamento che derivano da stimoli esterni nelle prime fasi di vita e addirittura a partire dalla nostra permanenza in utero. La trasmissione simbolica è quella che avviene appunto per via culturale. Le prime due modalità di informazione non vanno ad incidere sul DNA, ma agiscono a livello cellulare, e diventano ereditabili.

[20] C. O. Lovejoy ipotizza che la mutazione sia avvenuta con la comparsa di femmine prive dell’estro, e che questo apparente svantaggio evolutivo si sia poi risolto in una condizione vincente. (C.O. Lovejoy, Levoluzione degli ominidi. Preominidi e australopiteci, JacaBook, Milano 1989)

[21] Questo passaggio è raccontato molto bene in Luigi Zoja, Il gesto di Ettore, Bollati Bo-ringhieri, 2000

[22] Non esiste in realtà alcuna “astuzia dell’evoluzione”: quest’ultima non persegue remote o superiori finalità. Uso il termine a significare che i meccanismi selettivi non creano le condizioni migliori per la sopravvivenza, ma selezionano entro quelle esistenti le più favorevoli. Certe caratteristiche, positive in una particolare situazione ambientale, possano poi rivelarsi inutili o addirittura dannose in un altro contesto.

[23] Daniel Dennett, L’idea pericolosa di Darwin, Boringhieri 2004