Lettere ai nipoti orfani della politica

di Paolo Repetto, 10 febbraio 2023

Quando in uno scritto precedente (vedi Anni perduti) azzardavo che siamo ancora in grado (e in obbligo) di fare qualcosa per i nostri ragazzi, non avevo in mente i grandi progetti di riconversione ecologica del pianeta o di realizzazione della pace mondiale: o almeno, non mi riferivo direttamente a quelli. Ritengo che l’impegno a lasciare loro un mondo ancora passabilmente vivibile sia sacrosanto e imprescindibile, ma ad essere sincero nel momento stesso in cui lo ribadisco avverto una sensazione di impotenza, mi rendo conto di quanto irrilevante nel concreto sia il nostro singolo contributo. Possiamo adottare “buone pratiche” e proporle agli altri col nostro esempio, ma sono gocce infinitesimali rispetto all’oceano nel quale stiamo affogando. Purtroppo non sarà una impennata di buon senso a decidere del destino dell’umanità: noi in realtà lo stiamo solo affrettando, in una direzione dettata dalla nostra miopia e dalla nostra presunzione. La stessa impressione proviamo d’altra parte anche nei confronti di obiettivi assai più limitati, come potrebbe essere nello specifico italiano quello di non lasciare in eredità a figli e nipoti un debito pubblico spaventoso e una voragine nelle casse dell’INPS. In cuor nostro sappiamo che avrà la meglio l’egoismo generazionale.

E allora? I casi sono due: o accettiamo di considerare chiuso il discorso, rinunciando ad accodarci alla recita rituale degli slogan pacifisti ed ecologisti (che nell’adolescenza è ingenuità, nella maturità è ipocrisia), o proviamo ad individuare qualche azione alla nostra portata, praticabile da subito e anche singolarmente. Un’azione che abbia un valore intrinseco, per chi la compie come per chi la riceve, ma che non si esaurisca affatto in se stessa. Il classico insegnare a pescare, anziché distribuire pesci.

In questo senso, la cosa più urgente cui mettere mano è senz’altro la riabilitazione della politica agli occhi dei nostri ragazzi: della politica seria, s’intende, non dello spettacolo di burattini offerto nei salotti televisivi. Non possiamo permettere che identifichino la politica con Salvini e Berlusconi, e meno che mai con Putin o Biden. È un impegno che dovremmo assumerci subito, e quando scrivo “dovremmo” mi riferisco ad una categoria anagrafica particolare, alla quale appartengo da un pezzo, quella dei nonni. Non solo perché come pensionati disponiamo di tempo (ancora poco, purtroppo) che andrebbe speso anziché perso, ma perché nel bene o nel male abbiamo maturato esperienze che dovrebbero conferire – almeno a chi le ha digerite – una qualche credibilità: e soprattutto perché a quanto pare non ci sono altri con la capacità o la volontà di farlo.

Non lo possono fare infatti i nostri figli, che abbiamo cresciuto nel rifiuto e nel disprezzo della politica: un rifiuto certamente motivato dal puzzo di marcio che ristagna in quella dimensione, ma che è diventato una posizione di comodo, senza mai tradursi in una responsabilizzazione personale. E meno che mai poi lo possono le istituzioni, che si limitano a bandire periodicamente delle svogliatissime crociate all’insegna del “civismo”, puri manifesti di facciata per dare una parvenza di senso alla propria esistenza.

L’esempio peggiore (perché raccolto direttamente da chi è ancora è in fase di formazione) è offerto proprio dalla scuola. L’educazione civica è stata ultimamente reintegrata al rango di disciplina curricolare, con tanto di valutazione autonoma: ciò che di per sé ne nega il ruolo di ispiratrice di base e di scopo finale di ogni disciplina (a dispetto del fatto che tutte risultino ufficialmente coinvolte, in un calderone caotico nel quale ciascun docente annaspa a modo suo), ma soprattutto travisa completamente il concetto stesso di educazione. In più, tutto questo è stato fatto senza badare minimamente alla realtà del contesto nel quale si andava ad agire e senza prevedere alcuna azione correttiva concreta là dove quel contesto appare irrimediabilmente degradato. Si è finto di ovviare con un tratto di penna all’oggettiva impreparazione dei docenti, allo straripare nei media di proposte di comportamenti incivili, alla rottamazione di ogni valore portata avanti senza alcun distinguo dalla cultura post-moderna della spettacolarizzazione e del successo mediatico. Il risultato è che agli occhi della stragrande maggioranza degli studenti l’educazione civica si riduce ad un inserto particolarmente uggioso in quello che è già di per sé un mare di nebbia.

Meno che mai, poi, c’è bisogno di “scuole di politica”, nelle quali quest’ultima sia trattata come una professione. Anzi, va combattuto proprio questo distorcimento, perché nella realtà la politica è già interpretata così dalla maggioranza dei suoi praticanti, ma non certo nel senso di “un’etica della convinzione” o di “un’etica della responsabilità” come predicato da Max Weber. Al contrario, è considerata una scorciatoia per il successo, per il potere e per l’ascesa economica.

È contro queste interpretazioni che possiamo e dobbiamo ancora agire. Perciò, pur senza farmi soverchie illusioni, rimango convinto sia mio dovere di nonno e di cittadino trasmettere a un nipote le poche cose che ho imparato e che presumo di aver capito. Sono consapevole del rischio (anzi, della forte probabilità) di ribadire cose ovvie, di semplificare e banalizzare eccessivamente tematiche complesse. Ma è un rischio che ritengo valga la pena correre. Indirizzo allora le considerazioni che seguono a Leonardo e a tutti coloro che sento come nipoti spirituali, agli studenti di cui parlavo sopra e ai tantissimi come loro che sono certo esistano.

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Lettera a Leo (in pratica, un testamento)

Caro Leo, capisco il tuo desiderio di sentirti da subito un cittadino “attivo”, prima ancora che ti venga riconosciuto ufficialmente il diritto alla partecipazione formale (leggi: diritto di voto). La cosa non mi sorprende, perché un po’ ti conosco, anche se meno di quanto vorrei, e so che la vivi non come un’infatuazione o una stravaganza passeggera, ma mosso da un interesse sincero. Non solo: sulla situazione geopolitica mondiale sei indubbiamente molto più informato della gran parte dei nostri connazionali, segnatamente di quelli eletti a rappresentarci, quindi hai i numeri per mettere a frutto positivamente la tua sete di conoscenza e di partecipazione. Davvero non potevo sperare di meglio. E in qualche modo, attraverso te, vorrei continuare a partecipare anch’io.

Le considerazioni che ti propongo sono frutto di una militanza molto sui generis (nel senso che non ho mai voluto ufficializzarla, tesserarla, piegarla a ragioni di partito o di carriera né asservirla ad una ideologia), che va avanti da tantissimi anni, praticamente da quando ho cominciato ad avere consapevolezza di me, del mondo e del rapporto tra me e il mondo. In tutto questo tempo ho maturato alcune semplici convinzioni; giuste o sbagliate che siano, mi hanno dato una ragione per non sedermi a lato della strada aspettando un passaggio, e per continuare invece a camminare con le mie gambe, a scegliere con la mia testa ad ogni bivio. Ne abbiamo già parlato in qualche occasione, soprattutto ne ho scritto a più riprese: ora provo a ripensarne e a riassumertene alcune, sia pure in ordine sparso. (Ma intendiamoci subito. Anche se mi chiamo Paolo non pretendo di scrivere Epistole: prendi queste cose per quel poco che valgono. Potrebbero quantomeno fornirci materia per i prossimi incontri.)

Per cominciare, io credo che la politica non debba essere vissuta come una passione, e in questo mi dissocio da Max Weber (so che ancora non lo conosci, ma ne parleremo), il quale diceva che si può vivere “di” politica (la politica come professione) o vivere “per” la politica (la politica come passione). In realtà, i miei distinguo riguardano solo l’interpretazione da dare ai termini. Quanto al primo, l’idea di una militanza politica vissuta come professione proprio non l’accetto, a meno che non si voglia intendere “esercitata con professionalità”, ovvero con competenza. Quanto al secondo, va anch’esso interpretato in un significato restrittivo, a indicare la dedizione. Quando si parla genericamente di passione ci si riferisce ad un sentimento che è per l’appunto “passivo”, generato da impulsi che prescindono da ogni ragionevolezza e dei quali si subisce l’effetto sia fisico che psicologico. Quella politica deve essere invece una “disposizione”. Cerco di chiarire la differenza.

Perché la politica non deve essere vissuta passionalmente? Perché non è un fine ma un mezzo, un gioco (se così vogliamo chiamarlo) attraverso il quale si persegue un risultato (un ideale): e il gioco può risultare appassionante e divertente anche di per sé (o comunque per motivi privati, come l’ambizione, il tornaconto, ecc…, tutti ascrivibili a una qualche passione), ma nella misura in cui coinvolge anche altri, coi quali ci si può porre in competizione o in cooperazione, deve svolgersi secondo regole almeno comprese, e possibilmente accettate, da tutti: e dal momento che è finalizzato a realizzare uno scopo comune non può risolversi nella soddisfazione individuale. Voglio dire – così sgombriamo subito il campo da un grossolano equivoco nel quale purtroppo oggi sguazzano molti giovani, e non solo – che il comportamento politico è cosa ben diversa dal tifo sportivo o da altre affezioni similari che hanno per oggetto i protagonisti del mondo dello spettacolo: queste cose rientrano nel campo delle malattie sociali, trovano sfogo in momenti specifici e in luoghi deputati e si manifestano esibendo simboli (sciarpe, magliette, bandiere, ecc,,,) e seguendo rituali o mandando segnali particolari (gli applausi, i cori, gli slogan, i fischi, ecc…). Quello che tu vedi espresso nelle manifestazioni e nei cortei, appunto kefiah, magliette del Che, bandiere, striscioni, cartelli, non attiene alla politica ma alla partigianeria, e nella fattispecie odierna è il tributo pagato alla società dello spettacolo e alla cultura televisiva.

La politica la si fa invece nei comportamenti quotidiani, in ogni momento e in ogni luogo, a scuola, in casa, nei ritrovi, sul lavoro: è il modo di rapportarsi agli altri, ma anche alle cose, alla natura e alla cultura in genere. Non è una passione perché comporta l’esercizio costante della capacità razionale di mediare, di ascoltare gli altri e di farsi ascoltare dagli altri senza bisogno di urlare, di proporre argomenti (e non slogan), e di opporli a quelli altrui (senza ricorrere alle invettive). È una “disposizione” che suppone senz’altro una base biologica, una componente naturale (che definirei “attitudine”): ma questa viene temperata, orientata e controllata dalla razionalità. Con buona pace della definizione aristotelica, l’uomo diventa politico nella misura in cui cessa di essere semplicemente un animale istintuale.

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Si possono comunque distinguere diversi livelli di comportamento politico. Il primo, quello privato (che poi in realtà del tutto privato non è), coincide sostanzialmente con l’etica. L’individuo che persegue coerentemente i valori che egli stesso ha scelto a propria guida si dispone ad un comportamento “politico” nel momento in cui li confronta coi valori altrui (eccola, la “disposizione”). In realtà questo livello può essere considerato ancora pre-politico: è necessario, perché apre al confronto, ma non è sufficiente, perché non comporta automaticamente una volontà di mediazione. E soprattutto perché trova la sua ragion d’essere in una gratificazione personale: mi comporto eticamente per essere in pace con me stesso, soddisfatto di me.

C’è poi un comportamento “morale”. È quello per cui penso o agisco sulla base di parametri esterni, dettati da altri. A questi parametri, che sono i valori professati dalla comunità in cui vivo, posso conformarmi, ma posso anche non farlo, posso trasgredire. Magari proprio in coerenza con la mia etica (è il caso, ad esempio, dell’obiezione di coscienza). Ora, tutti questi sono già comportamenti politici. Del mio comportamento “morale” sono giudici gli altri: e in base ai criteri vigenti potrò essere approvato o, al contrario, essere giudicato immorale, o amorale. Va comunque direttamente ad operare sui rapporti collettivi.

Per inciso: non a caso si parla di una “etica protestante” – vedi ancora il nostro amico Max Weber –, perché per il protestantesimo è l’individuo ad assumersi la responsabilità di scegliere, e di una “morale cattolica”, perché per il cattolicesimo la scelta non c’è, è già stata fatta una volta per tutte ed è garantita dalla comunità.

Il comportamento compiutamente “politico” è infine quello per cui mi confronto con gli altri tenendo presenti le regole del gioco, al limite cercando un accordo per cambiarle, e provo a convincere i miei interlocutori della bontà e dell’efficacia delle idee che professo.

Insomma, per riassumere: eticamente rispondo a me stesso, moralmente rispondo agli altri, politicamente mi confronto con gli altri. E mentre eticamente posso (e devo) aspirare all’infinito, alla società perfetta (comportandomi “come se” questa fosse possibile), politicamente mi misuro invece con uomini, idee, istituzioni, tradizioni, condizionamenti ambientali e sociali che confliggono tra di loro e originano “imperfezione”, e devo agire quindi secondo una ragionevole coscienza e una disincantata conoscenza della società reale. Non potrò farmi guidare dalle emozioni e dai sentimenti (ciò non significa che occorre soffocarli, ma che vanno gestiti e controllati) e non dovrò predicare o imporre, ma discutere. Dovrò in sostanza evitare di pretendere dagli altri risposte che non possono dare. In proposito, l’immarcescibile Max Weber sostiene che politica ed etica sono inconciliabili, perché la politica si basa anche e soprattutto sull’uso della violenza: e a rigor di termini avrebbe ragione, ma poi consente anche lui che all’atto pratico si possa operare in politica seguendo l’etica “dei principi” (che tiene conto solo della bontà delle intenzioni) oppure l’etica “della responsabilità” (che valuta attentamente le conseguenze delle proprie azioni – e che è appunto quella di cui ti stavo parlando).

Cosa significa comunque che “devo” aspirare all’infinito? Allora: una società “politica” (quella che Aristotele chiamava politèia) presuppone che a confrontarsi siano dei soggetti passabilmente maturi e responsabili. In realtà noi sappiamo benissimo che non tutte le persone sono tali, vuoi per carattere (motivi biologici), vuoi per ignoranza (motivi culturali), vuoi per vicissitudini (motivi ambientali e sociali). In altre parole, sulla capacità degli umani di partecipare ad un agire politico collettivo influiscono sia la natura (l’eredità genetica), sia la cultura (l’eredità culturale), sia la ventura (la condizione esterna, il tempo e il luogo, in cui si trovano a vivere): la politica dovrebbe essere appunto il terreno sul quale si realizza una mediazione tra questi diversi influssi. Non sempre però lo è, perché – e questo è un mio parere, altri la pensano diversamente – la determinazione biologica del carattere rimane comunque fortissima, e se uno nasce stupido o carogna non c’è verso a cambiarlo, ma occorre senz’altro contenerlo. In questo caso occorre usare brutalmente la politica come uno strumento di difesa. Ne consegue che non dovremo mai attenderci la società ideale, e dovremo scendere a compromessi con noi e con gli altri: ma chi davvero è animato da una genuina volontà politica non deve mai rinunciare a pensare e ad agire come se questa società fosse possibile, pur rimanendo consapevole che persegue una direzione, e non una meta.

Ora, in questa prospettiva, esiste qualche tipo di società che più si avvicini a quella ideale? Sul piano della politica applicata, ovvero delle forme di governo, l’unico modello che sembra possedere questo requisito è quello democratico. Uno che per la democrazia non nutriva una gran simpatia, Winston Churchill, scriveva: “È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”. Un modo elegante per dire: al momento non ci sono alternative.

Il termine “democrazia” ha etimologicamente un significato ben preciso: è quella forma di governo nella quale la sovranità viene esercitata dal popolo. Ma al di là di questo, molto meno precisi sono invece i modi nei quali questa sovranità può essere esercitata, le istituzioni nelle quali si concretizza e persino chi e cosa si debba intendere per popolo. Non bisogna dimenticare che questo sistema politico è stato inventato (o almeno, formalizzato) in una pòlis nella quale i due terzi della popolazione (le donne e gli schiavi) non erano considerati facenti parte del popolo, non godevano di alcun diritto di “cittadinanza”. E neppure che l’idea di democrazia si è poi eclissata per i due millenni successivi, ed è tornata in auge solo da due o tre secoli a questa parte. Non si tratta quindi di un modello perenne e definitivo, ma di qualcosa che è soggetto a trasformazioni e potrebbe sparire già domani. In tal senso la democrazia come la intendiamo oggi, quella nella quale l’opportunità di partecipare è estesa a tutti, e viene collegata non solo al valore della libertà individuale ma anche quello della giustizia sociale, è un’invenzione decisamente recente.

Non sto ad elencarti quali siano stati i percorsi diversi e accidentati della democrazia moderna, né a decantarne i frutti. Li hai di fronte, li vivi tutti i giorni, puoi facilmente coglierne l’essenziale attraverso lo studio della storia contemporanea e la comparazione con la qualità della vita nelle aree del mondo governate da regimi non democratici. L’importante è non dare questi frutti per scontati o per acquisiti una volta per sempre.

A questo proposito, vediamo piuttosto di capire che pericoli corre la democrazia, da quali tarli è rosa all’interno e da quali agenti esterni può essere messa in forse. Ultimamente gli attacchi alla democrazia sono sferrati un po’ da ogni parte, da destra e da sinistra, con motivazioni originariamente diverse ma con diagnosi che spesso arrivano a coincidere.

Il pensiero di destra sostiene che il mondo pre-industriale (e pre-democratico) faceva perno sulla comunità, era cioè strutturato come un “organismo”, all’interno del quale le funzioni erano distribuite e accettate in ossequio a un ordine superiore (che rispecchiava quello naturale) e i rapporti erano appunto imperniati sulle gerarchie naturali. La democrazia sarebbe invece lo strumento e nel contempo il frutto di una “atomizzazione” sociale, che ha disgregato l’originale appartenenza “organica e comunitaria” e l’ha sostituita con una “organizzazione” delle individualità isolate, all’interno della quale i rapporti sociali sono impersonali, artificiosi, meccanici e freddi.

Il pensiero di sinistra sostiene al contrario che la democrazia liberale, quella in pratica che è nata e si è affermata in occidente, è una democrazia limitata, più formale che sostanziale, incapace di assicurare la giustizia sociale: uno strumento di facciata, insomma, per mascherare il totalitarismo capitalistico. Le contrappone formule piuttosto nebulose, che vanno dalla “democrazia diretta” (invocata – sia pure per ragioni e con finalità diverse – anche dal populismo di destra) a criteri alternativi di rappresentanza, e ritiene comunque che qualsiasi modello debba anteporre la promozione dell’uguaglianza a quella della libertà individuale.

Persino il pensiero liberal-moderato (quello rappresentato ad esempio da Tocqueville – parleremo anche di lui), pur ritenendo ineluttabile l’avvento di società democratiche, già due secoli fa metteva in guardia contro le loro possibili derive autoritarie, o contro i rischi di dissoluzione del tessuto sociale, ed anzi li prefigurava (la democrazia che si trasforma in demagogia, ecc…). La coscienza delle imperfezioni e delle fragilità della democrazia era quindi già ben presente sin dalle sue origini (e addirittura nel pensiero greco). Con una differenza: per i pensatori liberali si trattava di effetti collaterali (e quindi di studiare i possibili rimedi), per quelli odierni di destra o di sinistra si tratta di un difetto d’origine (che non può essere sanato, e quindi può essere superato solo modificando radicalmente il modello).

Negli anni più recenti ha cominciato a circolare una quarta posizione, non apertamente esplicitata ma sotterraneamente diffusa, dettata dalle urgenze economiche, demografiche e ambientali che si vanno profilando. Tale posizione auspica per l’intero globo un modello di “democrazia controllata”, vagamente ispirato a quelli dell’estremo oriente (quello cinese e quello sudcoreano, in particolare – ma in qualche modo era già presente in Rousseau): anche se il termine democrazia in questo caso è decisamente inappropriato, perché si tratterebbe in sostanza di una dittatura delle élites. La variante più gettonata è quella di un “governo dei tecnici”, che dovrebbe consentire domani di pianificare e imporre una “decrescita” controllata. È anche quella che ha maggiori probabilità di attuazione, perché mira a conciliare gli interessi di un capitalismo in difficoltà con i tentativi di ovviare all’emergenza ecologica e climatica (la cosiddetta economia green e i progetti di transizione ecologica ne sono già un esempio).

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Questo quarto modello rimanda direttamente ad un altro problema, quello dell’esportazione della democrazia tentata nella seconda metà del secolo scorso dall’Occidente, e rivelatasi fallimentare perché si è scontrata con situazioni politiche (conflitti interetnici, inadeguatezza delle classi dirigenti, ecc…) e con culture che hanno radici completamente diverse, sulle quali l’innesto si è rivelato impossibile. Ma soprattutto rimanda alla piega del tutto nuova che il problema ha preso, dopo essere migrato dalle aree ex-coloniali, o comunque sottosviluppate, alla patria stessa della democrazia: oggi non ci chiediamo più se è possibile “democratizzare” gli altri mondi, ma se è possibile far convivere nel nostro mondo la cultura occidentale con quelle degli immigrati provenienti da ogni parte del globo. Mutato così radicalmente il contesto, sono cambiati anche i modi del rapporto: le istituzioni democratiche, e quindi la mentalità e gli stili di vita che stanno loro a monte, non solo non sono esportabili, ma debbono essere difese là dove esistono, perché corrono un rischio serio di estinzione.

Sul tema della difesa della cultura occidentale e della democrazia sentirai le voci più discordanti. Non tutti in occidente sono convinti ne valga la pena, molti auspicano addirittura la cancellazione della “ipocrisia democratica” e di un modello di civilizzazione che si è macchiato del colonialismo, dell’imperialismo e di tutte le altre peggiori nefandezze. Se sei intelligente come credo avrai modo (spero che ti sia ancora dato) di renderti conto da solo di quanto siano insensate e davvero ipocrite queste posizioni. Chi le prende sa o dovrebbe sapere benissimo che gli è consentito farlo solo all’interno di questa civiltà “colpevole e decadente”, che altrove la sua voce sarebbe stata strozzata sul nascere, e non solo la sua voce. I cultori del mito del buon selvaggio che tra i selvaggi hanno scelto di vivere si contano sulle dita d’una mano, e l’hanno fatto sempre conservando posizioni di privilegio (non fosse altro per una soggezione dettata dal colore della pelle, o per particolari competenze e conoscenze proprie della cultura dalla quale “fuggivano”), e tenendosi aperta una porta per il ritorno. Come gli odierni frequentatori degli ashram indiani, si sono comprati la purificazione in valuta occidentale. Allo stesso modo i laudatori contemporanei dei modelli di civiltà antagonisti, quello cinese, quello islamico, quello russo-sovietico o russo-putiniano, ecc… si guardano bene dal trasferirsi altrove con armi e bagagli. Rientrano nei costi che solo la democrazia può permettersi, e sfruttano cinicamente lo spazio loro concesso.

Quanto alla convivenza in Occidente delle diverse culture, il problema è scottante. Ha cominciato a porsi nella seconda metà del secolo scorso, quando è iniziato l’afflusso verso l’Europa di migranti provenienti dai paesi ex-colonizzati, ed è stato affrontato con una disposizione mutevole di fronte al crescere delle ondate. Se in un primo momento si faceva conto su una spontanea assimilazione, dando per scontato che gli individui o i gruppi in ingresso, ancora relativamente ridotti, si sarebbero velocemente adeguati alle regole e ai costumi del loro nuovo paese, la portata raggiunta dall’esodo negli ultimi due decenni del secolo ha reso necessario ripensare le strategie di accoglienza.

Si è cominciato dunque a ragionare in termini di “integrazione”, che contempla la possibilità/necessità per un individuo di diventare pienamente membro di una comunità, e di contribuire semmai “dall’interno”, col suo portato culturale diverso, a cambiare la società, a farla crescere. Neanche questo modello ha funzionato, come dimostra il caso della Francia, perché le comunità dei migranti, una volta raggiunta una certa consistenza, hanno sviluppato o si sono lasciate imporre una forte coesione “difensiva” interna, che si è tradotta in rifiuto dell’integrazione.

Per un certo periodo ha di conseguenza prevalso l’idea del multiculturalismo: in sostanza, la società multiculturale è quella al cui interno la diversità culturale è riconosciuta, tollerata e se possibile incoraggiata. Anche in questo caso la politica adottata si è rivelata fallimentare (vedi i problemi che vivono oggi l’Inghilterra e i paesi nordici). Questo perché il riconoscimento unilaterale di diritti, non bilanciato dall’assunzione dalla controparte dei corrispettivi doveri, fa crollare tutti i presupposti su cui si fonda la democrazia.

E siamo all’oggi: non si può dire che l’Occidente non abbia mostrato nei confronti del problema un’apertura che solo il suo particolare modello di civiltà poteva consentire: ma la cosa non ha funzionato, vuoi per i pregiudizi e le resistenze che gli occidentali senz’altro ancora scontano, vuoi essenzialmente per il rifiuto all’incontro attivo e al dialogo opposto da culture che rifiutano di mettersi in gioco. Il sogno dell’incontro interculturale è svanito: quello che si prospetta, con buona pace del progressismo senza se e senza ma, è uno scontro sempre più aspro.

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Il che ci porta direttamente ad un altro tema molto “caldo”. La democrazia si fonda sul riconoscimento a tutti di una “cittadinanza”, ovvero di una serie di diritti individuali, ai quali fa però da contrappeso una serie di doveri nei confronti della collettività. Il mancato rispetto di questi ultimi mette in crisi il funzionamento dell’intero sistema, perché comporta in definitiva che i diritti altrui siano negati. Quando ciò accade si viola la legalità, cioè quell’insieme di regole che deve esistere per garantire una civile convivenza. Pertanto, sino a quando queste regole non vengano cambiate per comune accordo vanno rispettate da tutti, e fatte rispettare.

Lo statuto della cittadinanza dovrebbe fondarsi su queste semplicissime basi, al di là dalle “certificazioni” ufficiali e della condizione anagrafica (ius soli, ecc..). E almeno in teoria le cose stanno così; nella realtà però acca-de che la cittadinanza abbia finito per essere considerata o come una prerogativa ereditaria (sono cittadino per una pura condizione di nascita, e solo in ragione di tale condizione – così come un ebreo è tale solo se nato da madre ebrea) o come un diritto automaticamente acquisito da chiunque viva all’interno di determinati confini, in entrambi i casi prescindendo dal livello di adesione alle regole.

Qui si entra in un terreno molto delicato, quello delle diverse nature del diritto (diritto naturale – diritto positivo) e delle loro reciproche limitazioni, per cui non mi sembra il caso di avventurarci oltre. Preferisco semplificare mettendola così: nel mondo ideale, quello al quale, come dicevo più sopra, il nostro comportamento politico deve quanto meno tendere, il cittadino è colui che partecipa attivamente e responsabilmente alla vita politica: quindi alla elaborazione delle regole, alla loro applicazione e al loro rispetto. Non importa dove e da chi sia nato: la sua “cittadinanza”, i suoi diritti “politici” conseguono dal suo agire, gli sono riconosciuti previa valutazione di quest’ultimo. Parrebbe un automatismo logico, ma già su questa istanza di principio c’è chi storce il naso e vorrebbe il godimento dei diritti sganciato dall’adempimento dei doveri. Anche dando comunque per scontata l’equità dell’automatismo, quando lo trasferiamo dal mondo ideale a quello reale nasce un altro problema, quello di garantire che la valutazione sia equa. Sappiamo benissimo quanto le istituzioni che dovrebbero fornire questa garanzia siano screditate.

Quindi: poggiati i piedi per terra non dobbiamo per questo rinunciare a dare un senso più alto alla cittadinanza. Pur nella consapevolezza che la mia proposta presenta grossi limiti e pone diversi problemi io sarei per una sorta di cittadinanza a punti, un po’ sul modello di quella esistente nella Corea del Sud. Le infrazioni producono una decurtazione, e oltre un certo limite o nei casi particolarmente gravi una sospensione, temporanea o definitiva: mentre la partecipazione positiva (che non si misura solo nell’attivismo a livelli “istituzionali” di qualsiasi genere, a partire dall’assemblea condominiale e dalle associazioni di volontariato a salire sino ai vertici più alti, ma nella correttezza globale dei comportamenti) permette di reintegrare il punteggio. È solo un gradino, per di più controverso e scivoloso, ma bisogna pur cominciare a salirlo per riconferire alla cittadinanza una qualche dignità e credibilità.

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Infine, e poi ti prometto che chiudo, un ulteriore problema è rappresenta-to dalla sfiducia generalizzata nei confronti della democrazia rappresentati-va e dal miraggio di poterla superare con l’aiuto delle tecnologie digitali. Al modello democratico attuale si imputa di non avere tenuto il passo dei tempi, e in particolare di non essersi adeguato alle opportunità che le nuove tecnologie oggi offrono. Le modalità di rappresentanza sulle quali la democrazia si basa sin dalle origini (in sostanza, tutte le varie forme di parlamentarismo) sono considerate obsolete, non più in sintonia con un mondo che viaggia ad altri ritmi e sfrutta altre energie. Si è quindi diffusa la convinzione che le nuove tecnologie, prima tra tutte la possibilità di lavorare in rete, consentano una gestione e un controllo della cosa pubblica più diretti e più trasparenti.

Ora, la sfiducia nella democrazia rappresentativa è condivisa anche da chi molto idealisticamente propugna un ritorno alla partecipazione politica originaria (per intenderci, sul modello della pòlis greca), come la filosofa Hanna Arendt, ma in genere le motivazioni che la determinano sono meno nobili e profonde.

Si applicano alla politica i costumi del calcio, e anziché convenire che il problema non sta nella formula della rappresentanza (pur con tutto ciò di imperfetto che essa comporta), ma nel modo in cui sia i rappresentanti e che i rappresentati la applicano, si cambiano il modulo e l’allenatore. Come ho già scritto altrove, “è vero che oggi è garantita ai cittadini solo l’espressione di un voto, mentre ogni concreta possibilità di controllo e di intervento è delegata ad organismi di intermediazione che nel tempo si sono trasformati in feudi autonomi: ma è altrettanto vero che i cittadini non possono continuare a scaricare le loro responsabilità rispetto a questo esautoramento decisionale. La corsa a trasformare ruoli di servizio in ruoli di potere da parte delle istituzioni intermediarie è stata consentita dalla scarsa volontà di partecipazione dei cittadini stessi, dalla loro mancata assunzione di responsabilità civica”. Quindi, teniamoci la rappresentanza e cambiamo semmai i rappresentanti, o meglio ancora, cambiamo i criteri coi quali questi vengono scelti.  Non è necessario però dettare nuove regole: sarebbe sufficiente che i rappresentati si decidessero ad assumere un ruolo attivo, che implica anche l’essere disponibili a svolgere funzioni “politiche” in prima persona, anziché limitarsi a delegarle per amore del quieto vivere.

Quanto alla fiducia in una democrazia digitale, mi sembra davvero mal riposta. Si fonda infatti sul presupposto che l’accesso al cyberspazio sia egualmente libero per tutti. La rete è democratica, si dice. Il che, in linea teorica, è vero: tecnicamente ciascuno può avere accesso ad ogni informazione, stabilire contatti con chiunque, esprimere liberamente la propria opinione e il proprio voto. Ma nella realtà le cose stanno diversamente. Intanto, per quanto concerne l’informazione, chi si mette in rete lo fa partendo necessariamente dai propri valori e dai propri pregiudizi, quindi sa già cosa vuole trovare, e per farlo sceglie percorsi particolari, rinunciando in partenza ad altri itinerari. Può sembrare una cosa ovvia, lo è certamente, ma questo significa entrare in rapporto non con chiunque, ma quasi esclusivamente con chi già condivide gli stessi valori e gli stessi pregiudizi, e fa quindi gli stessi percorsi.

Il risultato è la nascita di “comunità virtuali” caratterizzate dall’unanimità di vedute e dall’assenza di un vero scambio, di un dibattito interno. Le comunità di rete sono totalmente autoreferenziali, stimolano un senso di appartenenza quasi settario e liquidano le differenze di opinione. Tocqueville aveva già previsto questa deriva due secoli fa: “Gli americani si dividono con grande cura in piccole associazioni molto distinte per gustare a parte le gioie della vita privata” scriveva ne La democrazia in America. “Ognuno di essi vede con piacere che i suoi concittadini gli sono uguali… io credo che i cittadini delle nuove società, invece di vivere in comune, finiranno per formare piccoli gruppi”.

Insomma, la realizzazione di una democrazia “immediata”, “veloce”, “semplice”, è una pura chimera populista, una menzogna subdola, perché asseconda la frenetica pulsione alla velocità, l’insofferenza per un meditato approfondimento dei problemi e l’illusione di partecipare attraverso le reti digitali alle decisioni su qualsivoglia tematica. D’altro canto, come funzioni la partecipazione mediatica abbiamo potuto verificarlo in questi ultimissimi anni: gli strumenti che dovrebbero garantire l’esercizio della democrazia si sono rivelati fragili e pericolosamente permeabili, e sono gli stessi che veicolano delle campagne massicce di disinformazione e di condizionamento, orchestrate addirittura a livello mondiale.

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Torniamo dunque al punto di partenza: quello che conta non sono i modi, i moduli o i modelli, ma una educazione politica di base che consenta ad ogni singolo soggetto di vivere il diritto come una quotidiana conquista e responsabilità. Tutto il resto è suppellettile.

Come vedi, caro Leo, di carne al fuoco ne ho messa molta. Spero solo, con questa lunga tirata, di non averti fatto perdere l’appetito. Ci sarebbe ancora molto altro da condividere.

Quindi, alla prossima

L’ignavia delle democrazie

considerazioni sull’attualità

di Carlo Prosperi, 28 febbraio 2022

Inutile girarci intorno: la politica è ancora (e da sempre) quella delineata da Machiavelli e regolata dalla forza o, meglio, dalla combinazione di forza e astuzia, di “lione” e di “golpe”. E il motto latino Si vis pacem, para bellum è più che mai di attualità. Dimenticato troppo presto da un’Europa imbelle ed, etimologicamente parlando, imbecille, illusa di poter fare a meno della forza per difendersi o fin troppo fiduciosa nella forza (l’ombrello) del “padrone” americano, paciosa e pacifista per ignavia, per calcolo o per paura. Chi non ricorda: “Meglio rossi che morti”? Eppure, la nostra mitizzata Resistenza ha richiesto il ricorso alle armi e il rischio della vita. Ci siamo illusi che bastassero le parole (del diritto, della diplomazia, della religione), il mantra del “volemosi bene” ad ogni costo e lo sviluppo dei traffici per imbrigliare le pulsioni della volontà di potenza, per stornare o per sedare gli appetiti dei popoli più agguerriti. La persuasione dei retori, la melassa verbale dei chierici, l’arte imbonitrice dei mercanti. E insieme l’evocazione dell’apocalisse dietro l’angolo, a mo’ di deterrente.

Bisognerebbe ricordare la ben nota risposta di Freud alla lettera di Einstein che sollecitava da lui un consiglio su come agire sulla mente umana per indirizzarla al rifiuto della guerra. Nella storia – secondo il padre della psicanalisi – i conflitti d’interesse tra gli uomini si sono generalmente risolti mediante la violenza, per eliminare o asservire il nemico, assecondando un’inclinazione pulsionale. Ebbene, due sono i tipi di pulsione: uno, Eros, tende alla conservazione; l’altro, Thanatos, tende all’aggressione e alla distruzione. Per quanto essi siano antitetici, anche il primo presuppone una qualche dose di aggressività, in quanto pure la pulsione amorosa mira ad appropriarsi dell’oggetto desiderato. Nondimeno, per infrenare in qualche modo la propensione alla guerra, non resta che incentivare quei legami tra gli uomini che creano amore e solidarietà; né questo basta a garantire la pace, giacché la comunità, fin dall’inizio, comprende elementi di forza disuguale: uomini e donne, genitori e figli, classi sociali diverse, diversi temperamenti. E ciò fa sì che non manchino mai motivi e momenti di competizione. La conflittualità convive così con l’amore. Non sempre armonicamente, non sempre pacificamente. Freud conclude pertanto che non c’è speranza di potere eliminare le inclinazioni aggressive degli uomini. Ed aggiunge che anche i bolscevichi speravano di sopprimere l’aggressività garantendo il soddisfacimento dei bisogni materiali e stabilendo l’uguaglianza tra tutti i membri della loro comunità, ma intanto avevano provveduto ad armarsi con il massimo scrupolo. E sappiamo che cosa ne è seguito.

L'ignavia delle democrazie 02

Ci siamo crogiolati nel benessere materiale, mentre altrove “i grandi Barbari bianchi” si preparavano ad affrontare “lunghe battaglie cruente”. Lo diceva Verlaine, più di un secolo fa; prima di lui Tacito, nella Germania, aveva inutilmente ammonito i Romani sul pericolo che incombeva su di loro. Noi ci siamo affidati alla diplomazia, abbiamo confidato nei “profeti disarmati”, ed ora ecco che i nodi vengono al pettine. Senza la forza non si difendono né i diritti né gli interessi. I trattati vengono stracciati, il lupo rimbrotta l’agnello di volerlo azzannare: un déjà vu impressionante. La storia stessa viene artatamente piegata dal prepotente a sostegno delle proprie ambizioni. Modeste all’inizio, almeno all’apparenza, ma si sa: l’appetito vien mangiando. L’orso ha prima ingoiato la Crimea, ora s’appresta a fagocitare il Donbass, domani punterà su Odessa … Già ha detto che per lui l’Ucraina è un’espressione geografica. La storia, come vediamo, si ripete. E l’Occidente parla di sanzioni, che dicono devastanti. Ma per chi? E poi la memoria è corta: le sanzioni non hanno fermato nemmeno l’Italietta di Mussolini, anzi, per certi versi, hanno contribuito a compattare la nazione attorno al Duce, a consolidarne il consenso. Peraltro, gli effetti più incresciosi delle sanzioni ricadono in genere sui più poveri …

La situazione attuale, mutatismutandis, ricorda molto quella del settembre 1938, sfociata nel disastroso accordo di Monaco. Contro Chamberlain, che lo sottoscrisse, inveì allora Churchill, bollandolo con le impietose parole: “Potevano scegliere tra il disonore e la guerra, hanno scelto il disonore ed avranno la guerra”. Per quanto terribile – mi viene da chiosare –, la guerra è meglio che arrendersi, sperando nella pace, a chi la guerra vuole a tutti i costi e la farà, senza chiederci il permesso per quanto pacifisti ci dimostriamo. Non ho mai provato grande simpatia per Churchill, che giudico cinico, ma è fuor di dubbio che aveva ragione: “il pacifista è quello che nutre il coccodrillo sperando che lo mangi per ultimo”. È ben vero che grandi sono le colpe dell’Occidente e, in particolare, degli USA, che, dopo aver illuso Tbilisi, ora ha fatto lo stesso lasciando balenare agli occhi degli ucraini un’impossibile adesione alla Nato. Biden ha già fatto rimpiangere Trump, ed è tutto dire. Frustrato della pessima e ignominiosa figura fatta in Afghanistan, ha cercato di rivalersi facendo la voce grossa contro la Russia, agitando davanti all’orso il drappo rosso della Nato, fomentando contro di esso il risentimento del popolo ucraino, aizzandolo a distanza, usandolo come cavia, in una versione aggiornata dell’”Armiamoci e partite!” di casa nostra. Un vero apprendista stregone. E sono convinto che a incoraggiare e a convincere Putin a invadere l’Ucraina sia stato proprio la disastrosa ritirata dall’Afghanistan, che ha dimostrato al mondo come gli Stati Uniti non si siano ancora ripresi dal trauma del Vietnam.

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Putin, maestro di provocazioni, ma di pasta ben diversa dal Giovannin Bongee di portiana memoria, di provocazioni non aveva bisogno per attaccare, ma se n’è servito per coonestare una decisione già presa e volta a restaurare, su nuove basi, l’impero sovietico. Non è un caso che le truppe russe stanzino tuttora in Bielorussia, donde aveva promesso di ritirarle in breve; non è un caso che siano intervenute nel Kazakistan, dove ovviamente sono state invocate dall’ineffabile Nazarbayev; ed ora entrano, sollecitate a pacificarlo, nel Donbass. Il solito copione, mille volte già sperimentato. Tutto per portare la pace. Oggi la guerra si chiama pace: quante volte l’abbiamo già sperimentato: in Ungheria, in Cecoslovacchia, in Afghanistan, in Iraq, in Serbia, in Kosovo e altrove! In fondo, anche il monaco medievale agiva così: quando non aveva pesci a disposizione per i giorni di magro, ricorreva ad analogo espediente, prendeva cioè un pezzo di carne e, tracciando su di esso un segno di croce, diceva: Ego te baptizo piscem.

Ma non è finita qui: questo, anzi, è solo l’inizio. La storia – dicevo – si ripete: al patto Ribbentrop-Molotov corrisponde quello tra Putin e Xi Jinping. E si può scommettere che, mentre la Russia sbranerà l’Ucraina, la Cina azzarderà un allungo su Taiwan. Si ripeteranno insomma i drammi della Polonia e della Finlandia. Come se tutto fosse già scritto. Parliamo tanto del caso, ma dietro il caso s’intuisce una logica – quella degli eventi – che ogni volta ci sorprende. Ma ciò dipende dal fatto che “la storia non è magistra di niente che ci riguardi”. O dal fatto che noi non vogliamo vedere, per non fare i conti con la realtà, con la sua granitica durezza.

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Qualcuno pensa davvero che la nostra democrazia sia davvero riformabile dall’interno? Quando la libertà diventa licenza, gli uzzoli diritti, l’irresponsabilità verso la comunità e il bene comune la norma, il relativismo nichilista la stella polare, dove si può andare se non alla deriva? La democrazia per funzionare dev’essere sana e forte: deve farsi rispettare. E questo da noi non avviene più. E troppi non sono più disposti ai sacrifici che la sua difesa comporta. Come se, vivendo nel migliore dei mondi possibili, non ci fosse più da preoccuparsi di alcunché. La democrazia – diceva qualcuno – è un plebiscito quotidiano, ma per molti oggi è una sinecura. Oggi le democrazie faticano (per usare un eufemismo) a immaginare una dimensione militare. I despoti, a differenza delle democrazie, sono disposti e non hanno remore a pagare in vite umane. Chi non era disposto ieri a morire per Danzica, non lo è oggi per Kiev, non lo sarà domani per Taiwan. Le dittature sanno che nessuno si azzarderà a contrastarle, se non a parole. Già in Siria, a parole, per Obama la linea rossa da non superare era l’uso delle armi chimiche. Assad, però, non esitò a superarla, e Obama non intervenne. L’Occidente, oggi, si limita ad ammirare la resistenza eroica del popolo ucraino, la incoraggia, ne auspica il prolungarsi, ma, a ben pensarci, sa che non riuscirà a frustrare i piani dell’aggressore. Tanto vale, allora, che finisca presto, prima che il bagno di sangue si espanda.

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Ad ogni piè sospinto inneggiamo all’Europa, ma dov’è l’Europa, la sua unità d’intenti, la sua lungimiranza? Dov’è la progettualità realistica, il respiro in grande, l’azione comune? Dove imperano gli egoismi, dove la gelosia prevale, non può esservi solidarietà. E là dove si rinunci alla sovranità, il cittadino non è motivato ad agire. La sovranità non si può delegare, non può diventare un processo burocratico o essere affidata ad una casta di tecnici o, peggio ancora, ad una élite di poteri forti. Manca un idem sentire, anche perché i valori storico-culturali che potrebbero fare da collante si sono diluiti nella fluidità delle società moderne, dove ognuno la pensa a suo modo e a suo modo agisce, senza saldi punti di riferimento, senza principi regolativi, senza coerenza e senza coscienza.

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Se la consideriamo con distacco, la realtà ci dice che i regimi da noi democratici esecrati, autocratici o dispotici che siano, a volte funzionano. Anche meglio della democrazia. Prendiamo ad esempio quel monstrum che è la Cina, dove il comunismo si è realizzato come capitalismo di Stato. Intanto, però, è riuscito a sfamare un miliardo e mezzo di persone e a consolidare un impero, eminentemente economico, evitando l’anomia, il caos e la disintegrazione con il classico binomio del bastone e della carota, all’occorrenza pure con il pugno di ferro; altrimenti non vi sarebbe riuscita. Noi che siamo affezionati alla democrazia, non ci avvediamo che essa – come ha ben spiegato Nick Land – è tirannia della maggioranza, e purtroppo, vista la composizione di ogni maggioranza, tirannia dei peggiori. La democrazia è legata all’espansione infinita dello Stato e non può che finire male. Spogliata da ogni retorica, è solo un sistema per depredare (nei casi migliori a turno) le minoranze del momento attraverso la redistribuzione delle tasse. Aspettarsi dalle volubili democrazie un modello di sviluppo sensato è insensato. Nella democrazia, conta il presente: bisogna depredare il possibile perché al prossimo turno il governo potrebbe toccare ad altri. Questo fenomeno predatorio riguarda la politica ma anche i gruppi sociali rappresentati dai partiti vincitori. Dice Land: “Mentre il virus democratico distrugge la società, le abitudini scrupolosamente accumulate e gli atteggiamenti di lungimirante e cauto sviluppo umano e industriale vengono sostituiti da un consumismo sterile e orgiastico, dall’incontinenza finanziaria e da un circo politico in stile reality show”.

Non so se la Russia ambisca ricalcare le orme della Cina, se ne sia in grado. Guardando alla storia, si direbbe di no. Ma intanto sembra che Putin, tappa dopo tappa, stia impeccabilmente realizzando il suo progetto di restaurazione imperiale. Qualcuno (e chi se non Trump?) lo ha addirittura definito un genio, e del grande dispiegamento di carri armati russi presentati come una forza di pace ha parlato con l’ammirazione dimostrata dal Segretario fiorentino per le gesta omicide del Valentino. O, per restare più vicino a noi, con la basita stupefazione che indusse Karlheinz Stockhausen a definire l’attentato alle Twin Towers come “la più grande opera d’arte possibile nell’intero cosmo”.