Maksim Gorkij

di Paolo Repetto, 2014

Maksim Gorkij non considerò mai le sventure della sua infanzia come un “utile apprendistato alla vita”, nemmeno col senno di poi, in quella rielaborazione in chiave epica che caratterizza spesso le narrazioni autobiografiche, e che non manca neppure nella sua. In qualche modo invece lo furono, e proverò a spiegare in queste pagine quanto influirono sulle sue idealità politiche. Maksim riuscì a sopravvivere, e ne venne fuori forgiato nel bronzo: ma non avrebbe augurato a nessuno questo percorso iniziatico. «Oggi, rievocando il passato, faccio fatica a credere che sia stato proprio così come è stato, e molte cose desidererei discutere e confutare, troppo piena di crudeltà mi pare la cupa vita della “razza irragionevole”. Ma la verità è superiore alla compassione, e io non racconto queste cose per me, ma per quell’angusto e soffocante ambiente di spaventose impressioni in cui ho vissuto» scrive nelle prime pagine dell’Autobiografia.

Era nato in una famiglia di artigiani non particolarmente poveri ma nemmeno agiati, attaccati ad ogni singolo copeco più che ai consanguinei. A cinque anni aveva perso il padre, e la madre lo aveva affidato ai propri genitori per potersi risposare; ma era morta a sua volta poco dopo. L’ingresso nella famiglia materna fu salutato con la fustigazione di un cuginetto: entro la prima settimana toccò anche a lui. Venne battuto dal nonno fino a svenire e rimase a letto febbricitante per una settimana. Era la prima di una lunga serie di lezioni che avrebbero potuto spezzare il suo carattere e abbrutirlo, e ne fecero invece un consapevole ribelle.

Il racconto della sua infanzia ha nulla da invidiare alle narrazioni dickensiane: un impasto di odi familiari, di violenza, di avidità e avarizia, di bambini picchiati a sangue per ogni minima mancanza e donne pestate per scaricare l’ubriachezza e la frustrazione. L’unica figura positiva in quel tetro panorama risultava quella della nonna Akulina, dalla quale ereditò il gusto del fantasticare e l’amore per le leggende popolari; ma nemmeno lei, e nemmeno il fatto di aver iniziato a lavorare già ad otto anni in un calzaturificio artigianale, gli evitarono di essere ad un certo punto buttato fuori casa dal nonno, un uomo violento, a suo modo tormentato e intelligente, ma indurito dalle difficoltà, e per di più un “dogmatico” imbevuto di un’ortodossia tutta formale, che gli disse senza tanti complimenti: “Caro Leksjei, non sei una medaglia che deve starmi attaccata al collo; qui non c’è posto per te, vattene tra la gente”. Gorkij, come lo stesso amato Dickens (“Dickens è rimasto per me l’autore davanti al quale mi inchino reverente. Egli era un uomo che comprese mirabilmente la difficilissima arte di amare gli uomini”), dovette quindi imparare molto presto ad arrangiarsi.

Cacciato di casa a dieci anni cominciò a vagabondare, facendo per strada i mestieri più disparati: il calzolaio, l’apprendista pittore di icone, il giardiniere, lo sguattero. Mentre lavorava come aiutante di cucina a bordo di un battello sul Volga ebbe però la fortuna di imbattersi nel cuoco filosofo Smuri, che invece di umiliarlo e tiranneggiarlo lo prese a benvolere e gli trasmise la passione per la lettura. In un terreno come l’animo di Maksim quel seme era destinato ad attecchire e a dare frutti eccezionali. A casa dei nonni Gorkij aveva imparato a compitare sul libro dei Salmi e su un salterio: da questo momento, partendo dalle Vite dei santi, divorò letteralmente le opere dei maggiori romantici e realisti russi e francesi, da Puskin a Balzac, da Gogol a Dumas, da Turgenev a Flaubert. E anche il Manifesto di Marx ed Engels. Scrive: “Prima di conoscere quel cuoco avevo odiato i libri e tutta la carta stampata, compreso il passaporto. Dopo i quindici anni cominciai a sentire un ardente desiderio di studiare, e a questo scopo andai a Kazan, pensando che là l’istruzione fosse impartita gratuitamente. E invece nulla”.

Per oltre dieci anni percorse in lungo e in largo l’immenso territorio tra il Don, il Volga e gli Urali, continuando a sostenersi con occupazioni saltuarie come fornaio, corista in una compagnia operistica ambulante, scaricatore di porto, giovane di studio presso un avvocato, casellante e custode di notte. L’irrequietudine fisica era lo specchio di quella spirituale: la coscienza di sé acquisita come autodidatta non gli consentiva di accettare il destino scritto nelle sue origini. Conobbe momenti di sconforto, nei quali non vedeva alcuno sbocco, e arrivò anche a tentare il suicidio: ma non si rassegnò. Continuava a leggere, provava a scrivere, filtrava le esperienze attraverso la lente della cultura. Poi, improvvisamente, la svolta. Nel 1892 un giornale di Tiflis pubblicò un suo racconto, Makar Čudra. Il racconto piacque, e quel piccolo successo gli cambiò l’esistenza.

Queste cose, e le molte altre che si possono apprendere dalla splendida trilogia (Infanzia, Tra la gente e Le mie università) dedicata da Gorkij al suo percorso di formazione, ci dicono per quale motivo lo scrittore simbolo dell’ortodossia culturale sovietica e del “realismo socialista” in realtà non sia mai stato del tutto “organico” ad alcun potere. La spiegazione è proprio nel difficile rapporto instaurato da subito con la vita. Chi cresce alla maniera di Gorkij finisce per indurirsi dentro, corazzarsi contro le emozioni: se non fa così non sopravvive. È portato a pensare: ce l’ho fatta io, significa che si può fare, e ad essere molto severo con gli altri, oltre che con se stesso, a non concedere attenuanti alle debolezze o spazio all’autocommiserazione. Tale atteggiamento implica una risposta individualistica al pessimismo sociale: non sono le riforme, le condizioni esterne, le appartenenze di classe, in poche parole tutto ciò che attiene alla sfera della politica, quindi del negoziabile, a fare l’uomo; è la sfera dell’etica a determinare la coscienza, ed è quest’ultima a muovere la volontà, quella di conoscere e quella di fare.

In qualche caso però, quando le varie vicissitudini sono assimilate attraverso un filtro culturale robusto, che le libera dalle scorie della contingenza personale per diluirle in una comune esperienza umana del dolore, il rigore etico può convivere con la compassione, con una partecipazione consapevole alle sofferenze dei propri simili. E questo atteggiamento ha in genere poco a che vedere con qualsivoglia disciplina di partito.

Gorkij comunque non sceglie la strada: letteralmente, ce lo sbattono. Questo va sempre tenuto presente, se si vogliono capire certe sue apparenti contraddizioni. Quando a posteriori rievocherà i tempi del vagabondaggio potrà magari gettarli sul piatto, per dimostrare di conoscere bene la realtà di cui sta parlando. Ma al momento in cui in quella realtà era immerso non se ne compiaceva affatto, e quando la racconta non ne ha alcuna nostalgia. “Perché racconto tali abominazioni Ma perché le conosciate, egregi signori:; perché vedete, tutto questo non è passato, non è affatto passato! A voi piacciono le scene paurose inventate, gli orrori raccontati con arte; le cose fantasticamente terribili vi eccitano piacevolmente. Ma io conosco ciò che è realmente terribile, l’orrore quotidiano, ed ho l’innegabile diritto di commuovervi in modo spiacevole con il racconto di tutto ciò, affinché ricordiate come vivete e di cosa vivete! Io amo molto gli uomini, e non voglio far soffrire nessuno, ma non si può essere sentimentali …”.

Gli anni di vagabondaggio sono pertanto vissuti nella costante speranza di raggiungere una condizione diversa, di liberarsi dallo spettro di quel lavoro fisico che nella situazione russa non poteva essere che degradante e umiliante. Non è la curiosità a spingerlo, ma la necessità, la voglia di riscatto: vuole dimostrare qualcosa a sé e agli altri, e capisce di poterlo fare solo attraverso l’istruzione e la conoscenza. La prima, quella che passa per i libri, se la conquista con una volontà di ferro; la seconda la trae affrontando le prove che la vita gli impone, anziché col rancore della vittima, con lo spirito di un involontario ma partecipe testimone. La sua università sono quindi i bassifondi di Kazan, quelli descritti nell’opera teatrale che consacrerà in patria e all’estero la sua fama (Bassifondi, appunto, da noi conosciuto come L’albergo dei poveri), i moli sui quali fatica come scaricatore, le bettole dove assiste a risse e a colossali ubriacature, e annota mentalmente storie e personaggi. L’essersene tirato fuori equivale ad una laurea a pieni voti.

Quanto infine alle origini, Gorkij non ha un legame diretto con la terra. La sua, per quanto povera, è pur sempre una famiglia di artigiani, che tutto si considerano tranne che paria contadini. Anche se nell’autobiografia gioca al ribasso, per crearsi delle credenziali proletarie (del padre dice che era un tappezziere, quando invece era stato anche amministratore di una piccola società di navigazione), le sue radici rimangono “piccolo borghesi”, o perlomeno affondano in quel terreno sul quale, a suo parere, all’epoca della rivoluzione si sarebbe dovuta coltivare la base della tanto invocata intelligencija tecnica. La presunzione di superiorità nei confronti del mondo contadino, passivo, inerte, analfabeta, reazionario per indole, lo accompagna per tutta la vita. Arriva a scrivere: “Per tutta la vita sono stato perseguitato dall’analfabetismo delle campagne …”. In effetti la chiusura della sua autobiografia (che avrebbe dovuto essere provvisoria) coincide proprio con un episodio tragicamente significativo. Dopo il tentativo di suicidio Maksim viene invitato a vivere a Krasnovidivo, un villaggio sulle rive del Volga, dove l’ucraino Michail Romas, conosciuto nell’ambiente della cospirazione studentesca a Kazan, e il pescatore Izot stanno cercando di organizzare i contadini e i proprietari di orti per strapparli dalle mani degli speculatori. Anziché aiutarli, i piccoli contadini locali, aizzati da quelli più ricchi e dai mercanti che li sfruttano, arrivano ad uccidere Izot e a bruciare l’isba dove Romas tiene le merci. Ucciderebbero lo stesso ucraino e Maksim, se questi non si dimostrassero disposti a vendere cara la pelle.

Malgrado questa esperienza, il battesimo rivoluzionario Gorkij lo riceve attorno ai vent’anni proprio dai narodniki (populisti). Entra nelle fila dei derevenščiki, gli agitatori legati a Zemlja i volia (Terra e libertà) che operano nelle campagne anche dopo il fallimento della andata al popolo, e svolge attività di propaganda tra i contadini. Ne trae solo la conferma di quanto già pensava: da quel mondo non ci si può attendere alcuna trasformazione. “Il contadino è zarista – gli aveva spiegato Romas – Aspetta il giorno in cui lo zar gli spiegherà il significato della libertà. E allora arrafferà chi potrà. Tutti aspettano quel giorno e ognuno lo teme, ognuno vive in apprensione dentro di sé: teme di lasciarsi sfuggire il giorno decisivo della distribuzione universale: e teme se stesso. Vuole molto e molto c’è da prendere, ma come prenderlo? Tutti aguzzano i denti verso la stessa cosa”.

In compenso viene quasi subito arrestato e schedato come sovversivo. Constata quindi, e sconta sulla propria pelle, quanto velleitaria sia l’idealità populista e quanto confusa sia la sua riorganizzazione in un partito, quello social-rivoluzionario, pesantemente infiltrato dagli agenti provocatori dello zarismo e pericolosamente incline allo spontaneismo. Si sposta quindi ben presto sul versante socialdemocratico, e quando all’interno di questo si delineano due diverse strategie rispetto alle potenziali alleanze, con la borghesia per un programma di graduali rivendicazioni democratiche o con le campagne per una lotta armata, anche a carattere terroristico, abbraccia senza alcuna esitazione la prima.

Ciò non significa che si risparmi. La sua fama, soprattutto dopo la pubblicazione di Bassifondi e di un’altra opera teatrale, Piccoli borghesi, si è rapidamente espansa. I suoi lavori vengono tradotti e portati in giro per l’Europa, ciò che gli assicura subito una dimensione internazionale, mentre in patria è un sorvegliato speciale. In dieci anni, gli ultimi dell’Ottocento, passa dall’indigenza all’agiatezza, dalla disperazione al successo. Sente di dovere qualcosa anche al destino, oltre che a se stesso, e paga il suo debito con un impegno crescente, che se richiama l’attenzione di Lenin tiene in allerta anche quella della polizia, tanto che nel 1901 finisce nuovamente in carcere. Viene rilasciato a furor di popolo, ma confinato in pratica in Crimea.

La detenzione e l’esilio sono quasi un percorso obbligato per l’intellettuale russo: Nekrasov, Dostoevkij, Korolenko, passano tutti per il carcere e la Siberia. Gorkij il carcere lo conosce un’ennesima volta, sia pure per poche settimane, durante la rivoluzione del 1905. Nello stesso periodo incontra anche Lenin. Tra i due nasce un rapporto stranamente altalenante: si stimano sul piano umano, ma non saranno mai d’accordo quasi su nulla.

Quando esce dal carcere Maksim si rende conto che per lui in Russia non è più aria: è un sorvegliato speciale, ha la polizia politica sempre alle calcagna. Elude quindi la sorveglianza e va ad infoltire l’ampia schiera di esuli socialisti, Lenin compreso, dispersi per tutta l’Europa. Può farlo senza patemi, è famoso ed è coperto economicamente anche all’estero. Compie dapprima un giro in Francia e in Inghilterra, poi si imbarca per l’America. È stato incaricato ufficialmente dai socialdemocratici di raccogliere fondi per aiutare i rivoluzionari in carcere o costretti all’esilio: ma è anche molto curioso di quel mondo che agli occhi degli europei personifica l’immagine stessa della libertà e dell’uguaglianza. Là lo aspettano tra l’altro gli intellettuali progressisti vicini al socialismo, come Mark Twain, o i militanti socialisti come Jack London. Il primo impatto è folgorante: “Qui si deve venire – scrive ad un amico – è una sorprendente fantasia di pietra, vetro e ferro … costruita da pazzi giganti, mostri che aspirano alla bellezza, anime tempestose piene di selvaggia energia”.

Dura poco. Ben presto il viaggio si rivela un fallimento: la stampa conservatrice lo attacca per essersi presentato non con la moglie (si era sposato giovanissimo con un’attrice appartenente ad una compagnia di girovaghi) ma con la nuova compagna, ancora un’attrice teatrale, Maria Gelabuskaija, cosa che contravviene alle leggi sull’immigrazione; gli intellettuali si stancano presto e nel giro di un paio di settimane lo abbandonano a se stesso; lo scrittore, dopo gli entusiasmi iniziali per il livello tecnico raggiunto dagli occidentali, comincia ad esprimere pareri sempre più impietosi sulla società americana. Prima che siano trascorsi sei mesi lo invitano a togliere il disturbo senza fare troppe storie, in quanto persona non gradita.

La vicenda irrita parecchio Gorkij, che si vendica appena tornato nel vecchio continente pubblicando un libretto velenoso (Le città del diavolo giallo) e che conserverà sempre un ricordo estremamente negativo dell’America. Per il suo esilio sceglie l’Italia, e più precisamente Capri, allo scopo di curare una affezione polmonare causata a suo tempo dal tentativo di suicidio. Nell’isola lo scrittore affitta una villa e ne fa la base per un esperimento di scuola di partito, non senza suscitare apprensione nelle autorità e ostilità nella popolazione (si teme che la presenza dei rivoluzionari tenga lontani i turisti più facoltosi). A Capri sono in effetti suoi ospiti quasi stabili Lunačarskij e Bogdanov, e vengono fatti arrivare semiclandestinamente gruppi di operai e tecnici socialdemocratici che dovrebbero costituire i quadri della sospirata intelligencija tecnica”. La cosa non funziona, anche perché Lenin, che è in guerra con Bogdanov per la leadership nel partito bolscevico, mette i bastoni tra le ruote (ma non avrebbe funzionato comunque, per un sacco di altri motivi).

Nel 1913, in seguito ad una amnistia concessa da Nicola II, Gorkij rientra in patria. Nel frattempo ha pubblicato La madre, destinato ad essere il suo romanzo più conosciuto e a diventare una sorta di lettura propedeutica obbligata per i proletari di tutta Europa. Di lì a poco è chiamato a schierarsi contro la guerra, e deve constatare come la solidarietà tra i vari socialismi nazionali valga zero, dal momento che messi con le spalle al muro tutti o quasi si sono arresi al nazionalismo (a favore della guerra si pronunciano persino anarchici come Kropotkin).

La rivoluzione del febbraio 1917 sembra finalmente muovere un primo passo nella direzione giusta. Gorkij però non è affatto tranquillo. Teme che gli eccessi favoriscano la controrivoluzione, e dalle pagine della Novaja Zižn’ dà vita ad una campagna per coalizzare le forze “di buon senso” e isolare gli estremisti (i bolscevichi). Questi lo ripagano con la stessa moneta. In una delle Lettere da lontano, datata 25 marzo 1917 e intestata “Come ottenere la pace”, Lenin scrive: «Si prova un senso d’amarezza a leggere questo scritto (la dichiarazione di Gorkij sulla necessità di una pace senza condizioni con i tedeschi), tutto imbevuto di pregiudizi filistei molto diffusi. L’autore di queste righe, durante i suoi incontri con Gorki nell’isola di Capri, ha avuto modo di metterlo sull’avviso e di rimproverargli i suoi errori politici. A questi rimproveri Gorki ha opposto il suo affascinante sorriso e una dichiarazione molto sincera: “So di essere un cattivo marxista. Del resto, noi artisti siamo tutti un po’ irresponsabili”. Non è facile obiettare qualcosa.

Gorki ha senza dubbio un talento artistico prodigioso, con cui si è già reso e si renderà ancora molto utile al movimento proletario internazionale. Ma per quale motivo deve intromettersi nella politica?».

A ottobre il colpo di mano di Lenin lo sorprende, anche se da Lenin si aspetta di tutto: o meglio, lo sorprende il fatto che abbia successo. E lo spaventa. Come le cose vadano a finire è raccontato proprio in Pensieri intempestivi, attraverso il dibattito che lo contrappone ai bolscevichi.

La piega presa dagli eventi lo costringe, sia pure a denti stretti, a collaborare col nuovo potere, in una posizione però politicamente defilata. Fonda la “Casa delle Arti”, che dovrebbe curare la formazione delle “avanguardie culturali”, e una casa editrice per offrire lavoro e protezione agli intellettuali che non hanno provveduto in tempo a salire sul carro dei bolscevichi. Negli anni del governo dei Commissari del popolo si prodiga per salvare la pelle a qualche amico, ma ne vede molti altri finire in carcere o assassinati.

Alla fine accetta il consiglio (in realtà, un ordine) di Lenin di tornare a curarsi in Italia. Ha davvero grossi problemi di salute, ma a preoccuparlo sono soprattutto quelli che potrebbero aggiungersi insistendo a fare la fronda nel cuore della guerra che si gioca in Russia tra le forze rivoluzionarie stesse, e che sta dando luogo ad un nuovo Terrore. Riesce a rientrare in Italia solo nel 1924, dopo un soggiorno in Germania, perché paradossalmente come “amico” di Lenin non è gradito; e qui rimarrà, questa volta a Sorrento, fino al 1928, tornandoci poi a più riprese per prendere boccate d’aria sino a 1932. Nel frattempo in Russia il potere è passato nelle mani di Stalin.

Per richiamarlo in patria vengono date a Gorkij ampie assicurazioni, sia politiche che finanziarie; gli si garantisce anche un ruolo centrale di organizzatore della cultura, malgrado molti degli uomini della cerchia di Stalin non lo abbiano in particolare simpatia. Il suo ritorno è celebrato da tutta la stampa, la cittadina in cui è nato viene ribattezzata col suo pseudonimo. A motivarlo sono anche considerazioni economiche, perché rischia di perdere i diritti per la sua opera in URSS, e le pressioni della sua ultima compagna, Marija Budberg, che è al soldo dei servizi segreti sovietici. Sulla decisione dello scrittore pesano però soprattutto la nostalgia e la sensazione che lontano dal suo popolo e dalla sua terra la vena si stia esaurendo. Inizia così un ambiguo rapporto anche con Stalin, giocato sull’equilibrio dei reciproci interessi.

Al contrario di quanto accadeva con Lenin, tra i due non c’è una intesa umana. È vero che ancora nel ‘31, dall’Italia, Gorkij scrive al georgiano: “La scorsa estate a Mosca, le ho esternato i miei sentimenti di simpatia e stima amichevole e profonda. Mi sia consentito ripeterlo. Non si tratta di complimenti, ma del naturale bisogno di dire a un compagno: io ho di te una stima sincera, tu sei un’ottima persona, un autentico bolscevico. Il bisogno di dire queste parole solo di rado può essere soddisfatto, lei lo sa benissimo”. Ma non tarda a ricredersi. Due anni dopo confida all’amico Bukarin:“Se ingrandissi alcune migliaia di volte una comune pulce vedresti l’animale più spaventoso della terra, che nessuno sarebbe abbastanza forte da dominare. Ma le smorfie più mostruose della storia producono simili ingrandimenti anche nel mondo reale. Stalin è una pulce che la propaganda bolscevica e l’ipnosi della paura hanno ingrandito fino a dimensioni impensabili”.

Eppure, su molti aspetti del decorso della rivoluzione, ad esempio sulla questione contadina, sulla necessità di spingere l’industrializzazione, sulla alfabetizzazione a tappeto, la pensano allo stesso modo. Nel ’29 Gorkij scrive: “I nostri lavoratori comprendono perfettamente lo scopo dei propri governanti. Ciò è testimoniato dal fatto che il popolo partecipa appassionatamente allo sviluppo della nazione. Chi coopera alla modernizzazione del paese, coopera al rafforzamento della libertà”. Questo spiega perché nell’estate del 1933, dopo aver guidato un gruppo di scrittori a visitare i lavori del canale tra il Mar Bianco e il Mar Baltico, si presti poi a ricavarne una pubblicazione propagandistica collettiva (Il canale Stalin) che descrive l’impresa in toni epici, sottolineando come l’opera sia stata compiuta in tempi da record (diavoli di uomini, non vi rendete neppure conto di quello che avete fatto!”) e tacendone il costo umano, la morte di decine di migliaia di deportati. Questi vengono anzi presentati come dei “deviazionisti” che hanno avuto nel lavoro forzato l’occasione di un riscatto (il che suona anche come un efficace monito per i visitatori). A proposito delle baracche dei detenuti, afferma addirittura che “non sembrano affatto prigioni […], in alcune stanze ho visto pure dei fiori”. Del resto, già nel 1929, dopo una visita al gulag di Solovetcky, aveva commentato che si trattava di “un nuovo tipo di istituzione, un grande esperimento, in cui a dei criminali è data la possibilità di trasformarsi in cittadini sovietici”.

Ciò che davvero lo entusiasma è però, almeno inizialmente, la politica culturale. Aveva già apprezzato e sostenuto la lotta all’analfabetismo ingaggiata dal Commissario all’Istruzione, il suo amico Lunačarskij, che in undici anni, dalla rivoluzione al ’29, aveva ridotto la percentuale degli analfabeti dall’ottanta al trenta per cento. Gli era preso invece un mezzo infarto quando nel 1923 la moglie di Lenin, la Krupskaja, aveva redatto una lista di proscrizione delle opere da eliminare dalle biblioteche, comprendente Platone, Kant e lo stesso Tolstoj (in tale occasione aveva meditato di farsi revocare la cittadinanza russa). Tanto più apprezza quindi le iniziative volute da Stalin: la creazione e la diffusione in milioni di copie di una biblioteca universale popolare da destinare ai lavoratori gli sembra la realizzazione più alta dei suoi desideri e degli scopi spirituali della rivoluzione. Questo lo porta ad assumere spontaneamente una posizione in perfetta linea con quella del potere anche per quanto concerne il ruolo degli intellettuali, e dei letterati in particolare: anzi, a dettare la linea lui stesso. Al congresso degli scrittori sovietici del ’34 dirà: “Il realismo socialista […] richiede all’artista una rappresentazione veridica e storicamente concreta del reale, nel suo sviluppo rivoluzionario. Con ciò, la veridicità e la concretezza storica della rappresentazione artistica del reale devono unirsi all’obiettivo del mutamento ideologico e dell’educazione dei lavoratori nello spirito del socialismo”, che tradotto in spiccioli significa: signori, lasciate perdere le vostre fantasie e mettetevi sotto a raccontare i nostri successi. “La letteratura sovietica[…] dev’essere organizzata come un insieme collettivo, come un’arma potente della cultura socialista […]. Il realismo socialista stabilisce l’esistenza di un’attività creativa il cui scopo è di promuovere ininterrottamente lo sviluppo delle preziose capacità individuali dell’uomo perché vinca le forze della natura, si conservi a lungo e in salute, per la grande felicità dell’uomo che vive sulla terra che egli, nel continuo aumento delle sue necessità, vuole trasformare in una splendida dimora per l’umanità riunita in una grande famiglia”. È quindi naturale che a Platonov, che gli ha inviato in visione un suo manoscritto, risponda: Ho letto il suo racconto: mi ha impressionato. Lei scrive con forza ed espressività, ma proprio per questo – in questo caso – ancora di più si sottolinea e si rivela l’irreale contenuto del racconto, al limite di una terribile fantasticheria febbrile”. Ovvero: ragazzo, cambia registro.

È anche naturale che a Stalin Gorkij come narratore piaccia: ma soprattutto gli serve. È l’autore russo del momento più conosciuto all’estero, rappresenta agli occhi del mondo una garanzia dell’impegno sovietico a promuovere la cultura nel paese, e di conseguenza la democrazia. Gorkij per parte sua si illude di poter essere utile alla causa di una umanizzazione del regime, di una maggiore attenzione nei confronti degli intellettuali. Quando però Stalin avverte che il prestigio dello scrittore, compromesso proprio dalla sua collaborazione col potere, è ormai appannato, e che da un Gorkij sempre più insofferente non possono venire altro che grane, non esita un istante a farlo liquidare. Non può permettersi di lasciare in vita un amico di Bucharin e Kamenev, che si accinge a eliminare. In più, se da vivo Gorkij sta diventando un problema, da morto può essere beatificato e diventare un’icona del regime. Maksim Gorkij muore quindi nel 1936, ufficialmente per complicazioni polmonari, in realtà avvelenato dai suoi stessi medici curanti. Tre mesi prima era stato assassinato suo figlio, Max Peskov.

Gli ultimi anni sono proprio quelli cui mi riferivo quando all’inizio parlavo del personaggio pubblico. Lo scrittore li vive in una sorta di prigione dorata. Non è libero di muoversi, di spostarsi: non ha più alcun contatto con la sua gente, con quel popolo che aveva abitato i suoi libri migliori: è circondato da una corte di parassiti, di intellettuali adulanti e arrivisti che cercano il suo patrocinio per avere incarichi e prebende, conservando nel contempo una patina di eterodossia. È spiato persino in casa: la sua corrispondenza verrà consegnata dalla Budberg alla polizia segreta, mettendo nei guai un sacco di persone che confidavano in lui. Presiede congressi nei quali si ripete stancamente il rituale dell’incensazione del regime e della professione di lealtà della classe intellettuale: vede anche il suo nome speso, senza neppure consultarlo, per avvallare attacchi feroci che preludono alla liquidazione di intellettuali scomodi o di avversari politici.

Questo non ne fa una vittima. È vero che dalle più recenti ricerche negli archivi sovietici sono uscite lettere indirizzate a Stalin molto critiche sulla politica culturale del regime; che in esse definisce i commissari politici voluti da Stalin stesso alla guida dell’Unione degli scrittori “degli ignoranti privi di principi, ipocriti e desiderosi di circondarsi di uomini ancora più insignificanti”; che difende autori come Babel, prima perseguitati e poi eliminati: ma non basta ad assolverlo dai troppi silenzi di comodo e da una pur relativa complicità. In Arcipelago Gulag Aleksandr Solženicyn racconta la sciagurata visita dello scrittore al campo di lavoro di cui egli stesso era malauguratamente ospite, condita di apprezzamenti per l’opera di rieducazione svolta dallo stalinismo (addirittura lo accusa di aver provocato in quell’occasione la morte di un detenuto). E d’altro canto ancora nel gennaio del 1936, pochi mesi prima della morte, Gorkij scrive: “Tra una cinquantina d’anni, quando le cose si saranno calmate un po’ e la prima metà del XX secolo apparirà come una stupenda tragedia e un’epopea del proletariato; allora forse l’arte, e anche la storia, chiariranno lo straordinario lavoro culturale di tanti semplici cekisti nei campi”. Il dramma è che lo pensa davvero, e il perché nutra questa convinzione cercherò appunto di spiegarlo più avanti.

Persino la sua morte viene usata dal regime come un’occasione autocelebrativa. Ai funerali partecipa una folla immensa, che segue il feretro non dell’uomo Maksim, ma del “massimo scrittore proletario”.

Ripeto, tutto questo non ne fa una vittima: ma nemmeno può far dimenticare ciò che Gorkij aveva fatto e significato per la cultura e per il popolo russi nei sui primi cinquant’anni, il coraggio delle sue denunce, la sincerità delle sue testimonianze, la sua partecipe difesa di tutti gli oppressi. È una fine ben triste, per uno che nei primi racconti aveva infuso, secondo Prampolini «con i suoi nuovi e insoliti eroi, i ‘bosjakì’ (letteralmente: piedi scalzi), nella grigia atmosfera feudo di Čecov un inebriante soffio di vita libera, sana, forte».

E proprio di questo andiamo a parlare.

 

Intellettuali e potere nella Russia di Lenin

di Paolo Repetto, 21 dicembre 2014

Tutto questo si compie in nome del proletariato e della rivoluzione sociale, e segna il trionfo dei nostri costumi bestiali, il sopravvento di quella barbarie asiatica che ci imputridisce internamente …

Maxim Gorkij ci va giù pesante. Scrive queste righe nel dicembre 1917, a poche settimane dall’assalto al Palazzo d’Inverno, sulle colonne del quotidiano Novaja Žizn’[1]. La situazione che si è creata in Russia dopo la vittoria dei bolscevichi non gli piace affatto. È sorpreso e indispettito, perché deve riconoscere che le valutazioni “tattiche” che più volte ha opposte all’avventurismo leninista si stanno rivelando clamorosamente errate, ma soprattutto perché ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un esito intravisto e temuto da tempo, che tuttavia ha colto i democratici russi assolutamente impreparati[2].

Tre mesi dopo la sorpresa ha già lasciato il posto alla desolazione: “La nostra rivoluzione ha dato libero sfogo a tutti gli istinti malvagi e selvaggi che si erano accumulati sotto la cappa di piombo della monarchia, e nello stesso tempo ha distrutto tutte le forze intellettuali della democrazia, tutte le energie morali del paese … è un simbolo, è veramente un’assurdità russa e, senza raccontarci storie, è vera e propria stupidità”.(16 marzo 1918)

La rivoluzione d’Ottobre ha in effetti scompigliato le carte del dibattito sulla “gestione della crisi”; ha posto gli intellettuali russi di fronte ad una situazione non solo inedita, ma addirittura fino a quel momento mai seriamente contemplata, quella di un “proletariato” (o almeno, delle sue forme organizzate) che prende il potere. Il governo dei Commissari del Popolo si rivela un interlocutore molto più concreto (e temibile) rispetto ai governi di coalizione borghese che lo avevano preceduto, nei confronti del quale diventa problematica tanto l’adesione incondizionata quanto la critica radicale, e non rimangono vie di mezzo. L’intelligencija, populista prima e socialdemocratica dopo, si era in qualche modo assuefatta al contradditorio nei confronti dell’autocrazia, ma ora si trova improvvisamente scavalcata dalla nuova realtà: una realtà della quale non riesce a cogliere i contorni, se non nei termini di una regressione autoritaria. “Vladimir Lenin introduce il socialismo in Russia col metodo di Necaev … costringendo il proletariato ad accettare la soppressione della libertà di stampa, Lenin e i suoi accoliti hanno reso perfettamente lecito il diritto, per i nemici della democrazia, di imbavagliare questa stessa democrazia. minacciando con la fame e con i pogrom tutti coloro che non sono d’accordo con il loro dispotismo, il tandem Lenin–Trockij legittima il dispotismo del potere contro cui le migliori forze del nostro paese hanno condotto una lotta così lunga e dolorosa”.

L’atteggiamento di Gorkij rispecchia dunque questo sconcerto, e ci offre paradossalmente una esemplificazione di quello sfasamento dell’intelligencija che lo scrittore stesso aveva più volte denunciato in passato. Gorkij interpreta gli avvenimenti recenti come un tentativo di forzare il naturale sviluppo storico della rivoluzione: nel farlo, parte da una valutazione pessimistica del potenziale qualitativo e quantitativo di “energia rivoluzionaria” presente in Russia, nonché della congiuntura internazionale, e si sofferma sugli aspetti antidemocratici che il tentativo leninista sembra comportare. In questo senso è più ortodossamente marxista di Lenin: ha anzi la convinzione (e lo ribadisce a più riprese sulla Novaja Žizn’) che l’esperimento in atto sulla pelle del proletariato sia destinato ad un tragico epilogo, e che aprirà la strada ad una nuova ondata controrivoluzionaria, sul tipo di quella seguita alla rivoluzione del 1905. “Lenin […] si stima in diritto di fare, col popolo russo, un esperimento crudele, votato in anticipo all’insuccesso […]. Egli non conosce le masse popolari; non ha mai vissuto col popolo, ma ha imparato, sui libri, come muovere le masse, soprattutto come eccitare furiosamente gli istinti delle folle”.

Non esiste ancora a suo parere in Russia un proletariato industriale in grado di assumersi in prima persona la responsabilità di gestire il potere (e qui concorda con Lenin, il quale però proprio per questo motivo ritiene che la gestione debba essere affidata alle “avanguardie” coscienti, in altre parole al partito). Meno che mai possono essere considerate affidabili le organizzazioni contadine.[3] Ciò comporta lo snaturamento della rivoluzione stessa, che perdendo il suo carattere essenziale di “rigenerazione culturale” rischia di risolversi in una carneficina “barbarica”, in un passaggio di poteri di tipo asiatico. «I signori commissari del popolo non capiscono assolutamente che quando lanciano gli slogan della rivoluzione “sociale” il popolo, spossato moralmente e fisicamente, traduce questi slogan nel suo linguaggio con le brevi parole: “Saccheggia, ruba, distruggi …”».

In questa situazione la minaccia controrivoluzionaria arriva per Gorkij da due fronti apparentemente antitetici: da un lato dalla retriva autocrazia zarista, che non sarà più presente come antagonista concreto, ma è ancora estremamente vitale ed operante nelle conseguenze fisiche e morali lasciate da secoli di repressione, di corruzione e di ignoranza coatta imposta al popolo; dall’altro è incarnata dal popolo stesso, nella sua stragrande componente contadina e sottoproletaria, che della natura asiatica conserva intatte le stigmate di bestialità e di pigra incapacità. “Sono stati i contadini a soffocare la Comune di Parigi: ecco ciò che occorre ricordare all’operaio …” (22 marzo 1918) In mezzo, nelle pieghe del gioco politico, ci sono anche coloro che Gorkij definisce “l’uomo a terra che alza la testa e che striscia silenzioso alle spalle”, i membri del partito Cadetto e la borghesia antidemocratica. “Sono persone intelligenti i Cadetti, non soltanto stanno attenti a non criticare troppo vivacemente l’operato del potere dei Soviet, ma danno addirittura prova di compiacenza nei suoi confronti. Sanno che il ‘comunismo’ dei Soviet compromette sempre più non soltanto le idee della socialdemocrazia, ma più in generale le speranze della democrazia radicale”.

A queste minacce è possibile opporre, secondo Gorkij, soltanto una operazione di risanamento a lungo termine, che preveda una diffusione intensiva e capillare della cultura, stimoli efficaci alla crescita industriale del paese e una realizzazione sempre più concreta delle libertà e del sistema democratico. Tradotto in spiccioli, significa: andiamoci piano.

Gorkij non crede nel miracolo di una transizione subitanea dal più retrivo dei sistemi autocratici alla realizzazione del socialismo; non si può, a suo giudizio, saltare a piè pari la fase dello sviluppo capitalistico avanzato, quindi la creazione di quelle particolari condizioni economiche che determinano a loro volta la nascita e lo sviluppo di una “cultura proletaria”. “Ho detto e ripetuto più di una volta che l’industria è uno dei fondamenti della cultura, che la riuscita dell’industria condiziona strettamente la salvezza del nostro paese, la sua europeizzazione, che l’operaio della fabbrica e dell’officina non rappresenta solo una forza fisica, non è un semplice esecutore, ma è anche una forza morale, un individuo capace di mettere in opera la sua volontà e la sua intelligenza. Egli è meno vincolato alle forze elementari della natura di quanto lo sia il contadino, il cui pesante lavoro passa inosservato e non lascia traccia …” (10 dicembre 1918).

Interpreta il marxismo e le leggi dello sviluppo sociale in chiave positivistica, mescolando gli influssi del “marxismo legale”[4], dell’ortodossia plechanoviana[5] e delle correnti più decisamente occidentalizzanti del pensiero riformistico russo dell’800. Si spinge anche oltre, sino a vaticinare l’avvento di una “religione positiva” marxista, fondata sulla crescita e sull’affermazione di un nuovo “sentimento” sociale, sulla fede nella scienza e nell’attività, sull’abbandono del “romanticismo soggettivo” in favore del “romanticismo collettivistico”. “Siamo arrivati al momento in cui il nostro popolo deve lavarsi, sbarazzarsi del fango della vita quotidiana accumulato nei secoli, schiacciare la sua pigrizia slava, rivedere tutte le sue abitudini e i suoi usi […]” (24 dicembre 1917).

Quella che per un certo periodo è stata da Gorkij stesso chiamata “la costruzione di Dio”[6] si presenta quindi come un’opera immane, nei tempi, nelle proporzioni e nelle ambizioni: suppone la fiducia più completa nelle potenzialità della mente umana e nel loro attuarsi, tradursi in tecniche, ma implica nel contempo un progetto a scadenza tutt’altro che ravvicinata, la paziente educazione del proletariato all’unanimità delle pulsioni e dei fini. Fino a quando questa condizione non si sarà realizzata, e proprio per consentire che si realizzi, è necessario un approccio realistico alla situazione. “Occorrono dei capi che non abbiano paura di dire in faccia la verità. Occorre essere severi ed impietosi non solo con il nemico, ma anche con gli amici. È detto nella Bibbia: “Rimprovera il saggio, e ti amerà” (6 maggio 1917).

Gorkij prospetta quindi una graduale “presa di coscienza proletaria”, l’instaurazione di un rapporto simbiotico tra proletariato e borghesia industriale che conduca al progressivo smantellamento della struttura di classe: e tramite di questo incontro deve appunto farsi l’intelligencija, alla quale è finalmente data l’opportunità, nelle condizioni create dalla rivoluzione di febbraio, di scendere dalle nuvole e di recitare un ruolo attivo nella ricostruzione della nazione. Dove per “intelligencija” si deve intendere qualcosa di radicalmente nuovo rispetto a quella che ne era l’identità ottocentesca, mentre il giudizio rimane critico, esattamente come per quella. “Il proletariato, nella sua massa, non è che una forza fisica, nulla più: esattamente come i contadini. Ben diversamente le cose stanno per l’intelligencija operaia e contadina, storicamente giovane: essa è senz’altro una forza attiva sul piano spirituale, e, come tale, oggi è staccata dalla massa, isolata in mezzo ad essa così come è isolata e staccata da tutta la massa dei lavoratori la nostra vecchia intelligencija abituata all’ergastolo…” (30 giugno 1918).

Il rimprovero per l’astrazione, o peggio ancora, per il “tradimento” degli ideali socialisti operato a parere di Gorkij dalla classe intellettuale russa, è ricorrente sulle colonne di Novaja Žizn’. Il suo rapporto con l’intelligencija è caratterizzato da una sorta di amore-odio, ed in esso si mescolano la delusione per il ruolo da questa ricoperto nel passato e la speranza in una riabilitazione futura. Gli intellettuali ottocenteschi hanno peccato, secondo Gorkij, di un egoismo cieco e individualistico, ed hanno piegato alle sterili ragioni della propria sopravvivenza parassitaria le successive ideologie libertarie, comprese quelle socialiste. D’altro canto, non ci si poteva attendere un atteggiamento diverso da una classe intellettuale priva di radici nel terreno dello sviluppo sociale concreto e completamente estranea alla realtà dell’unica forza progressista, quella proletaria. Le utopie “infantili e perniciose” che individuavano nel mondo contadino russo e nella sua primordiale ed incontaminata predisposizione collettivistica una via originale del socialismo russo non sono semplicemente frutto di un romanticismo ignorante, ma celano spesso la malafede. “Dirò sinceramente che coloro che parlano troppo del loro amore per il popolo mi sono sempre parsi loschi e sospetti. Io mi chiedo – e chiedo loro – chi amino veramente: questi contadini che hanno scolato tanta vodka da ridursi a bestie feroci e che prendono a calci nel ventre le loro mogli incinte? Quei contadini che svendono milioni di libbre di grano per comprare dell’acquavite, e lasciano morire di fame i loro cari? che sotterrano decine di migliaia di libbre di grano e le lasciano marcire senza darne a coloro che hanno fame? Quei contadini che arrivano a sotterrarsi l’un l’altro? quelli che organizzano dei cruenti linciaggi nelle strade e quelli che si compiacciono dello spettacolo di un uomo battuto a morte o annegato nel fiume? […] sono persuaso che non è normale amare il popolo così com’è, non più dell’accusarlo di essere come è, e non diverso” (29 maggio1917).

E ancora: “É a partire da questo materiale, da questa popolazione contadina ignorante ed inetta, che i sognatori e i letterati vogliono creare uno stato socialista nuovo, nuovo non solamente nelle forme, ma nella natura, nello spirito […]”(22 marzo 1918).

Solo la crescita del proletariato e l’affermazione di una cultura proletaria espressione diretta delle sue istanze, che si sta concretizzando finalmente nella nascita di una intelligencija operaia (Gorkij la chiama tecnica), ha fatto giustizia delle speculazioni giocate sul sentimento democratico e libertario della nazione russa. A “questa” intelligencija Gorkij si rivolge, perché diffonda il nuovo verbo rivoluzionario. “Un’aristocrazia in seno alla democrazia: ecco esattamente quello che deve essere il ruolo del movimento operaio nel nostro paese di mužik, ecco ciò che l’operaio deve avere la coscienza di incarnare” (10 dicembre 1918).

Insomma, la politica bolscevica, caratterizzata almeno inizialmente dall’apertura e dall’alleanza con le forze contadine, dall’inadempienza nei confronti dei risultati elettorali per la Costituente, dalla repressione e dall’intimidimento dell’imprenditoria industriale borghese, e infine da una marcata diffidenza e ostilità nei confronti dell’intelligencija scientifica, tecnica e letteraria, risulta nettamente antitetica alle speranze di Gorkij.[7] Di qui la polemica che ostinatamente lo scrittore porta avanti sulle pagine del suo giornale, e che lo pone in contraddizione con Lenin. Bisogna dare atto a Gorkij che, indipendentemente da come evolverà successivamente il suo atteggiamento, questa polemica la affronta con coraggio e con coerenza, avendo ben chiari i rischi che l’involuzione autoritaria comporta; e che chiarisce da subito la sua posizione. “Mi sento da tempo cittadino di un paese popolato per lo più di chiacchieroni e di sfaccendati, e tutto il tempo della mia vita non ha altro scopo che risvegliare in ciascuno dei miei compatrioti la capacità di agire. Da diciassette anni mi considero un socialdemocratico: per quelle che erano le mie possibilità ho servito i grandi progetti di questo partito senza però rifiutare il n mio aiuto agli altri, senza disdegnare alcuna azione che avesse un rapporto con la vita. Coloro che si fossilizzano sotto il peso della fede che professano non hanno mai avuto la mia simpatia. Posso in teoria ammirare la loro austera fermezza, ma non posso certamente amarli. Dirò di più: da qualunque parte io stia, mi sento un eretico” (n.6, 25 aprile 17).

La polemica antibolscevica presente negli articoli qui raccolti non si limita a porre in discussione le modalità di attuazione del cammino rivoluzionario, ma ne coinvolge le scelte di fondo. Le divergenze interessano tanto la prassi immediata che i fini ultimi del movimento, anche se l’itinerario individuato per arrivare alla meta può apparire in linea di massima lo stesso. Sia Gorkij che Lenin sono infatti profondamente convinti della necessità di forzare in Russia lo sviluppo del modo di produzione occidentale: a loro avviso solo esso può creare le condizioni per la presa e il mantenimento del potere da parte del proletariato, nonché l’accesso ad un livello superiore di sopravvivenza, al di sotto del quale un rinnovamento della società è impensabile. Ma questo rinnovamento, e implicitamente il processo che al rinnovamento deve condurre, non sono interpretati allo stesso modo.

Questo è il nodo dello scontro. “La natura del processo di crescita sociale non si riduce unicamente al fenomeno di lotta di classe, di lotta politica basata su di un rozzo egoismo degli istinti: a fianco di questa lotta inevitabile si sviluppa sempre più una forma di lotta per una esistenza diversa, superiore, la lotta dell’uomo contro la natura, e solo in questa l’uomo svilupperà fino alla perfezione le sue forze spirituali”. scrive Gorkij su Novaja Žizn’ il 30 aprile 1918, ribadendo un concetto che è presente in forma più o meno esplicita in ciascuno dei suoi articoli.

Lenin bada invece piuttosto al lato pratico: “Organizziamo la grande industria partendo da ciò che il capitalismo ha già creato: organizziamola noi stessi … Questo inizio, fondato sulla base della grande produzione, porta da se stesso alla graduale “estinzione” di ogni burocrazia, alla graduale instaurazione di un ordine – ordine senza virgolette, ordine diverso dalla schiavitù salariata – in cui le funzioni, sempre più semplificate, saranno adempiute a turno da tutti” (Stato e Rivoluzione). La rivoluzione ha il compito di accelerare questa crescita, ostacolata per il passato dai calcoli politici del regime e dalla elefantiasi della struttura burocratica: “Il capitalismo semplifica i modi di amministrazione dello stato, permette si eliminare le gerarchie e di ridurre tutto ad una organizzazione dei proletari in quanto classe dominante) che assume, in nome di tutta la società, ‘operai, sorveglianti e contabili” (ibidem). Dice come ha da essere la rivoluzione, non come deve trasformarsi il rivoluzionario.

Il motivo del dissenso è dunque, prima ancora che nell’obiettivo politico, nell’esito, o forse meglio nel presupposto, culturale. Per Gorkij non è concepibile una rivoluzione socialista o proletaria che preceda la creazione di un proletariato cosciente. In questo senso lo sviluppo del capitalismo, nella sua forma del liberalismo democratico borghese, è condizione necessaria. Si cercherà già in partenza di ovviare a qualcuno dei suoi inconvenienti più gravi, ma non è possibile prescindere dalla crescita di una classe imprenditoriale che incentivi e sia incentivata alla creatività tecnica, che arrivi finalmente a comprendere il valore della ricerca scientifica applicata e di tutta la scienza positiva. Solo in questo contesto economico la cultura è destinata a diventare la base stessa della continuità e della crescita produttiva, dando vita ad una intelligencija tecnica in grado di passare dal ruolo puramente esecutivo a quello direttivo.

Il momento realmente rivoluzionario, nel senso correntemente attribuito al termine, slitta praticamente ad uno stadio successivo alla conquista del potere da parte del proletariato: e non è più la rivoluzione contro la classe borghese, la quale appare piuttosto destinata ad una estinzione indolore, o meglio ancora ad essere gradualmente assorbita nella crescita del nuovo proletariato. Si tratta invece dell’attacco a fondo portato all’asianesimo rurale, all’individualismo indolente e reazionario delle campagne: e il linguaggio e la particolare disposizione di Gorkij lasciano aperti molti interrogativi sull’interpretazione più o meno coercitiva da attribuire al termine. È da credersi comunque che Gorkij si attendesse una ostinata resistenza da parte delle campagne, e che a questo riguardo fosse disponibile ad un intervento di coazione da parte dello stato rivoluzionario.

In sostanza, la “costruzione di Dio” non è per lo scrittore soltanto il disegno ultimo della rivoluzione, da perseguirsi una volta al potere, ma è insita nella rivoluzione stessa, ne è la base e la condizione: è la realizzazione di un modello nuovo di umanità, assimilabile al divino per la certezza nel valore delle proprie conoscenze e per la fiducia illimitata nella propria ragione. “Gli uomini debbono mettersi d’accordo per lottare contro la natura, onde impadronirsi delle sue ricchezze e sottomettere ai loro interessi le sue forze” (30 maggio 17).

Come abbiamo già visto, la valutazione di Lenin sul destino industriale della Russia è abbastanza simile a quella di Gorkij. Ma Lenin non condivide l’entusiasmo dello scrittore per le forme specificamente borghesi dello sviluppo: concetti come quello di incentivazione all’imprenditoria, di educazione tecnica e scientifica, di missione rigeneratrice dell’intelligencija, mantengono per lui un valore puramente strumentale e transitorio, rimanendo vincolati ad una situazione e ad una struttura che nascono già condannate. Anziché all’aspetto morale, Lenin bada prima di tutto a quello politico della rivoluzione, e ne fa un problema di pesi e contrappesi, di contingenze e di combinazioni esterne piuttosto che disposizione interna. Già partire dal 1902, dalla pubblicazione di “Che fare?”, ha rotto con il gradualismo socialdemocratico predicato da Plechanov, ed ha ipotizzato una transizione al socialismo che salti la fase dello sviluppo capitalistico compiuto. Sa che la classe operaia creata in Russia negli ultimi decenni dell’Ottocento dalla industrializzazione forzata, oltre che numericamente esigua, è ancora troppo giovane, priva di radici e di tradizione, per poter operare una piena presa di coscienza della propria condizione e delle proprie potenzialità rivoluzionarie, e quindi per darsi un’efficace organizzazione dal basso. L’unica alternativa sta per lui nella creazione di un partito fortemente centralizzato, con quadri addestrati a guidare, incanalare e frenare all’occorrenza lo spontaneismo delle masse proletarie. In questo progetto va anche intesa la sua progressiva rivalutazione del ruolo rivoluzionario dei contadini. Egli crede nei contadini come forza rivoluzionaria, anche se certamente non li considera depositari di modelli rivoluzionari. Sono una massa di manovra che non può essere trascurata.

Nei confronti di questa massa Gorkij manifesta invece come già abbiamo visto una vera e propria fobia: nelle campagne vive secondo lui “un contadiname ignorante e smidollato, mosso da un individualismo feroce, da proprietari”. Una rivoluzione che lo chiami ad un coinvolgimento attivo non potrà che liberarne gli istinti peggiori, e immancabilmente esso dichiarerà una guerra spietata alla classe operaia. Gorkij non nutre nemmeno fiducia nella possibilità di una sua “rieducazione”, se non nei termini brutali in cui sarà intesa dallo stalinismo.

E ancora: dalla diversa ottica, morale per l’uno, politica per l’altro, in cui la rivoluzione viene inquadrata, discende come abbiamo visto un’ulteriore divergenza, relativa all’atteggiamento nei confronti degli organismi democratici borghesi. Gorkij coglie essenzialmente il loro portato educativo: la democrazia parlamentare, sia pure nelle forme restrittive e mistificatorie del sistema capitalistico, è palestra di libertà, educa alla responsabilità individuale e sociale, al coraggio delle proprie opinioni ed al rispetto di quelle altrui: essa dà luogo ad una progressiva partecipazione delle masse al potere, proporzionale costantemente al livello della coscienza sociopolitica cui si sono elevate: soprattutto, offre all’intelligencija operaia e contadina l’opportunità di assolvere la propria missione preparatoria, lavorando il terreno sul quale dovrà germogliare la messe socialista.

Ben diversa è la posizione di Lenin: “Decidere una volta ogni qualche anno quale membro della classe dominante debba opprimere, schiacciare il popolo dal Parlamento: ecco la vera essenza del parlamentarismo borghese non solo nelle monarchie parlamentarti costituzionali, ma anche nelle repubbliche le più democratiche” (Stato e rivoluzione). L’eredità che lo interessa non riguarda affatto le forme rappresentative nelle quali si è strutturato il dominio del capitale. La necessità del passaggio attraverso lo sviluppo capitalistico è per lui puramente strumentale.

 

Anche su un altro aspetto, quello del ruolo dell’intellettuale nella rivoluzione, le posizioni dei due erano sembrate in un primo momento convergere. Tuttavia la convergenza era più apparente che reale, perché col tempo le differenze vengono alla luce, e sono connesse tanto alla funzione quanto al peso che attribuiscono al lavoro intellettuale. Il tema era stato affrontato oltre un decennio prima da Lenin, in un articolo (L’organizzazione del partito e la letteratura di partito) uscito proprio sulle pagine di Novaja Žizn’, al tempo in cui era edito come quotidiano ufficiale dei bolscevichi, nell’anno della prima rivoluzione russa (cfr. nota a pag. 5). In quel frangente si trattava di liquidare il fondatore del quotidiano stesso, il poeta Minskij, che in effetti venne estromesso dalla redazione, in quanto non “organico” al partito bolscevico. E il ruolo dell’accusa era ricoperto per l’occasione proprio da Gorkij, che nell’editoriale (Note sul filisteismo) dello stesso numero del quotidiano scriveva: “Cosa possono fare loro (gli intellettuali piccolo borghesi) nella battaglia della vita? Vediamo che fuggono con inquietudine e pavidità, rifugiandosi negli angoletti bui del misticismo o nei graziosi capanni dell’estetica costruiti in fretta con materiale rubacchiato: vagano tristi e disperati nei labirinti della metafisica e di nuovo tornano sugli stretti sentieri della religione ingombrati dall’immondizia di una secolare menzogna”. Stante il contesto, il riferimento andava chiaramente a Minskij, ma il giudizio coinvolgeva anche tutta quella parte del mondo intellettuale che non si era apertamente schierata contro l’autocrazia.

Nel suo articolo invece Lenin dettava delle regole più generali: “É fuori discussione che il lavoro letterario meno di ogni altro è passibile di un livellamento meccanico, del dominio della minoranza sulla minoranza. È fuori discussione che in questo campo è indispensabile assicurare la massima libertà all’iniziativa personale, alle tendenze individuali, la massima libertà del pensiero e della fantasia. […] Ognuno è libero di dire e di scrivere quello che crede senza la minima limitazione. Ma ogni libera associazione (il partito) è libera anche di espellere quei membri che si servono dell’etichetta del partito per la propaganda di concezioni contrarie al partito”. Col che la partita era già chiusa. Si andava dritti alla sostanza, senza ricorrere alla demolizione letteraria e morale utilizzata da Gorkij. “Ognuno è libero di dire e scrivere ciò che vuole, ma fuori di qui”.

Negli anni immediatamente successivi c’era stato l’avvicinamento di Gorkij ai “frazionisti”, ovvero a quella parte del gruppo dirigente bolscevico che subito dopo la rivoluzione del 1905, scottata dalla piega presa dagli avvenimenti, e più ancora dal disordine nel quale il movimento si era mosso, si proponeva di ripensare in profondità il senso e il verso da imprimere alla trasformazione. Si trattava di gruppi schierati su posizioni radicaleggianti e minoritarie, che sposavano l’idea di costruire una nuova società con le spinte ad un rinnovamento religioso diffuso all’epoca in tutta la cultura europea. In seno alla cultura russa questi fermenti venivano genericamente qualificati come “ricerca di Dio” e nell’entourage di Gorkij ne erano rappresentate le punte più significative. Ma la cerchia gravitante attorno allo scrittore era decisamente composita. Ne facevano infatti parte Bogdanov, propugnatore dell’empiriomonismo[8], gli otzovisti (richiamatori) come Ljadov, e i costruttori di Dio veri e propri, i bogostroiteli, raccolti attorno a Lunačarskij[9]. La loro tribuna era la rivista “Vpered”, che si trovò a polemizzare per il breve periodo della sua pubblicazione soprattutto con il “Proletarij”, organo della corrente bolscevica più ortodossa e soprattutto di Lenin. Gorkij aveva funzionato da collante tra questi diversi gruppi, che di fatto erano accomunati più dall’opposizione a Lenin che da sostanziali convergenze sulle finalità o sui metodi. Ne era stato anche il mecenate, ospitando a Capri, tra il 1906 e il 1909, nella propria residenza, un esperimento di “scuola di partito”. La cosa aveva infastidito parecchio Lenin, perché al di là delle divergenze ideologiche in gioco c’era in realtà la leadership del bolscevismo. Lo preoccupava soprattutto la presa di posizione di Gorkij, del quale aveva scarsissima considerazione sul piano politico, ma che ammirava su quello intellettuale e umano e che considerava prezioso per la causa, stante il suo prestigio letterario internazionale. Lenin, all’epoca in esilio in Svizzera, intervenne quindi un paio di volte direttamente a Capri, per contrastare quella che gli sembrava una palestra di deviazionismo, e nel 1909 oppose alle tesi di Bogdanov il suo “Marxismo ed Empiriocriticismo” (che peraltro a Gorkij non piacque affatto). Il saggio era concepito per demolire il prestigio dello stesso Bogdanov all’interno del partito, ma implicitamente stroncava anche le posizioni espresse da Gorkij in “Ispoved” (Confessione, 1908), romanzo nel quale lo scrittore così condensava la sua idea di una trascendenza sociale: “Dio è il buon popolo! L’innumerevole popolo del mondo! Ecco chi è Dio, il dio che compie i miracoli! Il buon popolo è immortale, io credo nel suo spirito, della sua forza faccio professione! È lui il principio della vita, il principio unico e indubitabile! È lui il padre di tutti gli dei, passati e futuri!” suscitando la reazione irritata non solo di Lenin, ma anche di Pleckhanov: “Come pubblicista Gorkij vale meno di niente”.

Nel periodo successivo l’esperienza dell’esilio italiano e i viaggi in Francia e negli Stati Uniti, dai quali peraltro era tornato disgustato, per aver incontrata una società “dominata dall’oro”, lo avevano portato comunque a mutare decisamente le sue opinioni: divenuto europeista convinto, aveva rivalutato il ruolo degli intellettuali e della cultura ‘borghesi’ e si stava facendo sempre più decisamente paladino della necessità di un progresso tecnico e di un riferimento alle istituzioni, ai metodi di lavoro e al modello di vita occidentali. E tuttavia, anche se la proposta del “marxismo mistico” come alternativa credibile al leninismo si rivelava sempre meno praticabile, Gorkij aveva continuato a cercare nella rivoluzione un significato eminentemente etico e religioso, nel senso di una religione dell’umanità, e non della divinità: ma alla sua concezione non erano del tutto estranei i valori spirituali tradizionali, e neppure certi aspetti ritualistici mutuati dalla liturgia e dal cerimoniale ortodosso, a dispetto dell’odio per i pope corrotti delle campagne. In fondo, a ben considerare, l’idealità della “costruzione di Dio”, materialisticamente declinata come rifiuto dell’individualismo, ma spinta sino alla negazione dei valori dell’individualità da un lato e al culto della personalità dall’altro, finirà poi per contrassegnare il “socialismo reale” degli anni trenta e quaranta.

Questa interpretazione evangelica o “cristiana” della rivoluzione fa si che Gorkij rifiuti il dogmatismo, l’autoritarismo, la gerarchizzazione dei poteri e la rigida disciplina ideologica, che potremmo definire tratti “cattolici”, di Lenin, ma nemmeno aderisca alla proposta “laica”, assolutamente antiautoritaria, collettivistica ed egualitaria di Bogdanov, scevra di ogni sacralità perché fondata su un rigoroso razionalismo, egualmente attenta e rispettosa per ogni attività, sia pratica che intellettuale, e fondata sulla partecipazione attiva di ciascuno. Gorkij in realtà pensa come Lenin, e come successivamente Stalin, ad un socialismo palingenetico, erede di tanti millenarismi, ma per la prima volta scientificamente fondato. Il problema è che all’atto della traduzione in pratica, il metodo scientifico si presta a interpretazioni diverse, e premia i più scaltri, i più cinici e i più organizzati.

Per questo, rientrato in Russia dopo anni di esilio, Gorkij si ritrova nell’autunno del 1917 a giocare un ruolo inverso. La fase convulsa della presa del potere dei bolscevichi pone problemi nuovi, oltre a cambiare la percezione e la prospettiva di quelli vecchi. Tutto ciò che prima stava a margine della teorizzazione politica, come potenziale effetto collaterale, ora irrompe prepotentemente a condizionare la sopravvivenza quotidiana. Sono derive che Gorkij giudica rovinose e alle quali cerca con i suoi interventi di fare argine. Vediamone alcune.

La prima, per riagganciarci subito a quanto sopra, riguarda proprio la possibilità di esprimere libere opinioni in un regime che bene o male si proclama socialista. Gorkij comincia col difendere la libertà altrui: “Io ritengo che imbavagliare il Rec e gli altri organi della stampa borghese per la semplice ragione che sono ostili alla democrazia sia un atto infamante per la democrazia” scrive il 12 novembre e ripete la denuncia il 1 maggio successivo, per la chiusura di altri giornali. Col Rec (Il Discorso) aveva cominciato a polemizzare da subito (25 aprile, e poi il 4 agosto), non appena Novaja Žizn’ aveva ripreso le pubblicazioni. Ma quando il quotidiano viene soppresso si schiera in suo favore, vuoi per sincero spirito democratico, vuoi forse ancora più perché intuisce che la prossima volta toccherà a lui. E infatti a partire dal dicembre gli attacchi portatigli della Pravda si infittiscono e diventano sempre più pesanti (dal n. 185 del 19 novembre al n. 127, 2 luglio 18). Altrettanto esplicita e decisa, del resto, è la reazione di Gorkij: «Mi hanno scritto: “Se criticate ancora il governo dei commissari del popolo, faremo interdire la Novaja Žizn’”. Ho risposto: “La Novaja Žizn’ continuerà a criticare il governo dei commissari del popolo come qualsiasi altro governo. Non abbiamo combattuto contro il dispotismo degli scrocconi e dei furfanti perché esso sia sostituito dal despotismo dei selvaggi della politica”» (18 gennaio 1918). E qualche mese più tardi: “Zinov’ev afferma che giudicando gli atti di crudeltà, di volgarità, ecc. commessi dal popolo io ’lecco i piedi ai borghesi’. L’espressione è volgare e manca di intelligenza, ma cos’altro ci si può aspettare da gente come Zinov’ev. Io non cesso di dire:

  1. a) che demagoghi come Zinov’ev corrompono gli operai
  2. b) che l’impudente demagogia del bolscevismo risveglia i bassi istinti delle masse e mette l’intelligencija operaia nella situazione tragica di essere straniera nel proprio ambiente
  3. c) e che la politica dei Soviet è una politica di tradimento nei confronti della classe operaia” (9 aprile 2018).

A metà luglio Novaja Žizn’ viene definitivamente zittito. L’“ognuno è libero di dire e scrivere ciò che vuole” viene applicato con la pesante estensione del “ma fuori di qui”, che non è più riferito al partito, ma all’intero paese.

 

Un secondo problema concerne la salvaguardia dei diritti più elementari dei dissidenti, quello alla vita e quello alla libertà. Già nei primi giorni dopo il colpo di mano bolscevico Gorkij denuncia l’arresto di Bernackij e di Konovalov (12 novembre) o di Cereteli (23 dicembre): col trascorrere dei mesi e i casi si moltiplicano, da quello dell’editore Sytin, (3 maggio) alla condanna di un semplice ragazzo diciassettenne a 17 anni di carcere per aver detto “io non riconosco il potere dei Soviet”, sino all’assassinio di Cingarev e Kokoskin (17 marzo). Come per la libertà della stampa, si batte indiscriminatamente per amici ed avversari: difende ad esempio a spada tratta V. L. Burcev, che fino a pochi mesi prima lo aveva duramente e lungamente attaccato dalle pagine della Russkaja Volja. A sua volta deve costantemente difendersi dall’accusa di voler proteggere i suoi colleghi intellettuali, e lo fa appellandosi da un lato ad un più generale senso di giustizia e rifiuto dell’arbitrio, dall’altro all’importanza fondamentale che ricoprono comunque gli intellettuali nella rivoluzione.

In questo senso Gorkij lamenta anche quasi quotidianamente la condizione nella quale, al di là delle persecuzioni poliziesche, la classe intellettuale è ridotta dalla spaventosa crisi economica, frutto di quattro anni di guerra e aggravata poi dal disordine rivoluzionario. Il suo primo editoriale, nel numero d’esordio di Novaia Zižn’ del 1 maggio 1917, è dedicato proprio al problema della cultura, e si conclude con questo appello: “La forza intellettuale è qualitativamente al primo posto tra le forze produttive di un paese. L’accrescimento più rapido possibile di questa forza intellettuale deve essere l’ardente aspirazione di tutte le classi della società”. L’appello evidentemente cade nel vuoto, perché un anno dopo è costretto a questa constatazione: “Vediamo che in mezzo ai servitori del potere dei Soviet ci si imbatte ad ogni istante nei concussori, negli speculatori, nei bricconi, mentre le persone oneste e capaci di lavorare sono obbligate a vendere giornali per le strade, a fare un lavoro fisico per non morire di fame”. Quelli che possono, perché innumerevoli sono i casi di inedia fisica dovuta alla mancata alimentazione cui sono ridotti eminenti scienziati, anziani che non hanno la possibilità di trovare sostentamento: “Ieri, ancora una volta, si è presentato ai miei occhi un orrore da incubo: un corpo di vecchia torturato dalla fame (la professoressa V.A. Petrova), coi pidocchi che brulicavano a migliaia nelle vesciche” (1 giugno 1918).

La mancanza di attenzione per la cultura gli appare come il segno più evidente che il percorso intrapreso non potrà condurre che al disastro. Certo, occorre capirsi anche su ciò che si intende per cultura. Per Gorkij la cultura è eminentemente, e soprattutto in un contesto come quello russo e in un frangente come quello della trasformazione rivoluzionaria, cultura scientifica. “La scienza è l’espressione più precisa e più assidua dell’aspirazione dello spirito umano alla libertà di creazione e alla felicità universale”. Senza gli scienziati e i tecnici la rivoluzione non avrà alcuna speranza di successo, o si trasformerà in qualcosa di completamente diverso da quello che si auspicava. “Bisogna fare qualcosa, lottare contro questo esaurimento morale e fisico dell’intelligencija, bisogna che si capisca che essa è il cervello del paese, e che questo cervello non è mai stato così prezioso e indispensabile come in questo momento”. Nel contempo Gorkij continua instancabilmente a battere il chiodo della necessità di educare una nuova intelligencija tecnologica. “La completa realizzazione degli ideali della cultura socialista non è possibile se non con lo sviluppo di una industria rigorosamente organizzata e aperta a tutte le tecniche. Perché l’industria raggiunga un grado indispensabile di sviluppo è necessaria la tecnica, e la tecnica non può essere creata che dalla scienza. Noi non sappiamo costruire le macchine: è assolutamente necessario che vi sia in Russia un Istituto di Meccanica Applicata … Noi non sappiamo trasformare le materie prime: occorre fondare un Istituto di Chimica […]” (30 maggio).

Ciò non significa, naturalmente, sottovalutare l’importanza formativa di ogni altra espressione culturale. Ma anche qui è necessario intendersi. A fianco della rivoluzione politica è cresciuto un movimento che intende sbarazzarsi di tutto il vecchio per fare posto a nuove modalità espressive, nell’arte, nella musica, nella letteratura. Gorkij ne prende assolutamente le distanze, cogliendoci molta presunzione ignorante (il colloquio col giovane poeta 21 maggio) “Io sono per Rostand, Dickens, Shakespeare, i tragici greci e le commedie gaie e intelligenti del teatro francese. Sono per questo repertorio perché conosco le esigenze spirituali delle masse operaie. La coscienza dell’odio di classe e delle diseguaglianze sociali è già abbastanza profondamente sviluppata in essa, ed ora essa vuol vedere e comprendere esempi di unità e di armonia umana, sente già che la coscienza dell’unità, dei sentimenti, delle idee, è la base della cultura dell’uomo, il segno di una tendenza universale verso la gioia, la felicità, la creazione del piacere sulla terra” (22 maggio 18). E nello stesso articolo le distanze le fa prendere anche agli operai, riportando il commento di un gruppo di lavoratori di fronte ad un dipinto in stile cubista nella cornice di scena di un teatro: “Togliete quella roba. Noi non ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno che venga sviluppato in noi l’amore per la natura, per i campi, per le foreste, per i larghi orizzonti pieni di vivi giochi di colore e di sole”.

Da un lato quindi vanno respinti gli eccessi del modernismo, dall’altra il passatismo di coloro che passando per il culto dell’arte popolare sono arrivati ad idealizzare il popolo: “Una certa parte della nostra classe intellettuale, che ha studiato l’arte popolare russa secondo i dettami tedeschi, è pervenuta in questo modo allo slavofilismo, al panslavismo, al messianismo, ed ha conquistato alla perniciosa idea dell’originalità russa l’altra parte degli intellettuali, europei per la razionalità, ma russi per la sensibilità. Ciò li ha portati ad una semiadorazione sentimentale per il popolo, cresciuto nella schiavitù, nell’alcoolismo, nelle oscure superstizioni della chiesa ed estraneo ai sogni dell’intelligencija” (16 marzo 1918).

Allo stesso modo va rifiutato anche il “populismo linguistico”, che si traduce nell’uso ostentato di una lingua plebea, gergale, contadina, operaia. Gorkij, al contrario, vuole una lotta “per la purezza e la chiarezza della nostra lingua, per una tecnica onesta, senza la quale è impossibile una ideologia netta”. Più tardi, all’epoca della teorizzazione del “realismo socialista” (che in realtà non teorizzò mai, ma che gli venne cucito addosso) liquiderà anche i formalisti.

Scostandosi alquanto, come abbiamo visto, dalle posizioni tenute sino alla prima rivoluzione, e in netto dissenso con il giudizio negativo espresso dai bolscevichi, Gorkij rivaluta in definitiva il ruolo e i meriti del vecchio intellettuale “borghese”. “La ribellione teorica e la lotta pratica che la nostra intelligencija ha iniziato e condotto eroicamente contro il vecchio modello di vita e di pensiero non erano ispirate da idee monarchiche o religiose, sedicenti umanitarie, ma erano anzi una reazione ad esse … continuare questa rivolta, fortificandola ed approfondendola, ecco qual è il compito sacro ed eroico dell’intelligencija” (22 maggio). E rispondendo a un lettore che chiede: “All’epoca della servitù, quando centinaia di contadini morivano di inedia, la coscienza esisteva? E in chi?” scrive: “Si, in quei tempi maledetti, mentre il diritto alla dominazione fisica sull’individuo si estendeva, la meravigliosa fiamma della coscienza ha brillato … Michajl Nadeždin ricorda senza dubbio i nomi di Radišcev e di Puškin, di Herzen …., l’immensa costellazione di tutti questi russi di genio che hanno fondato una letteratura eccezionale per la sua originalità, eccezionale perché era interamente dedicata alle questioni di coscienza ai problemi della giustizia sociale” (21 marzo 1918).

Ancora in un saggio del 1926 (V.I. Lenin) riaffermerà: “Sono su posizioni diverse da quelle dei comunisti sul problema della valutazione del ruolo dell’intelligentija nella rivoluzione russa”. Molto diverse, evidentemente, vista la fine fatta dalla gran parte dei rappresentanti di quest’ultima.

 

Un ultimo aspetto, tutt’altro che secondario, riguarda la persistenza di fondo e la trasformazione di facciata di una piaga che Gorkij lega all’azione distruttrice della vecchia autocrazia, e vede rinnovata dal nuovo dispotismo: il fenomeno dell’antisemitismo. Il 2 giugno 1918 riceve un pacchetto di libelli antisemiti, dove si parla di pidocchiume ebraico e si afferma che “soprattutto la nostra intelligencija è affetta da questi parassiti, quella che chiamiamo la società colta, educata dalla stampa giudaica” e che “i cittadini russi, dagli alti strati al sottosuolo, sono infetti dal cimiciaio ebraico, cioè dai principi d’eguaglianza e di fraternità di tutti i popoli e di tutte le stirpi”. Si tratta evidentemente di rigurgiti del vecchio antisemitismo reazionario: ma Gorkij ha già da tempo capito che la piaga sta infettando anche il nuovo regime. Un anno prima, quando ancora l’eventualità di una presa del potere da parte dei bolscevichi non era neppure contemplata, aveva scritto: “L’uguaglianza di diritti per gli ebrei è una delle più belle conquiste della nuova rivoluzione. Riconoscere agli ebrei gli stessi diritti di cui godono i russi ha lavato la nostra coscienza di una macchia vergognosa e cruenta d’infamia”. “In realtà – aggiungeva – “non abbiamo alcuna ragione di essere fieri: piuttosto potremmo essere contenti di aver saputo infine compiere un’azione onorevole sia sul piano morale che su quello pratico. Tuttavia … questa gioia non la si sente da nessuna parte: l’antisemitismo invece è ben vivo e prudentemente, poco a poco, eccolo raddrizzare la sua testa ignobile sibilare, lanciare le sue calunnie … L’idiozia è una malattia che non si può guarire con la suggestione: per colui che è affetto da questa malattia incurabile, una cosa è chiara: poiché si sono trovati sette bolscevichi e mezzo tra gli ebrei, la grande responsabile è la popolazione ebraica. Ne risulta che … ne risulta che il russo onesto e sano di spirito ricomincia a provare vergogna e angoscia per la Russia, per quel cupo imbecille russo che nei momenti difficili cerca invariabilmente il nemico da qualche parte fuori di se stesso, invece di frugare nell’abisso della propria stupidità” (1 luglio 1917).

Il problema era pertanto in quel momento quello dell’identificazione tra bolscevico anarchicizzante ed ebreo. Ora ribadisce: “L’ebreo è quasi sempre un lavoratore migliore del russo, ed è stupido prendersela, meglio piuttosto trarne esempio. Se alcuni ebrei riescono ad occupare le posizioni più vantaggiose e più redditizie nella vita, ciò si spiega con la loro predisposizione al lavoro, con la dedizione che mettono nel processo lavorativo, con l’amore per il fare e la capacità di ammirare il lavoro. Evidentemente, ci sono anche ebrei come Zinov’ev, Volodarskij ed altri la cui mancanza di tatto e la cui stupidità fornisce materiale per un atto di accusa contro tutti gli ebrei. Ma gli ebrei non sono tutti simili, e la lotta di classe non è meno aspra tra gli ebrei che in qualsiasi altro popolo”. Questo gli fa onore, perché proprio i due bolscevichi citati, Zinov’ev e Volodarskij, sono i più accaniti persecutori degli organi di stampa non allineati, e in particolare del suo. Malgrado ciò, dieci giorni dopo deve tornare sulla questione: “Mi si accusa di essermi venduto agli ebrei” (11 giugno 1918). Ancora non si parla di antisemitismo bolscevico, ma Gorkij non ha difficoltà a presagire che la malattia non tarderà a diffondersi anche tra coloro che hanno appena preso il potere. Anzi, alligna già nascostamente. Non soltanto l’idiozia è una malattia che non si può guarire: nel caso russo appare quasi una eredità genetica, trasmessa da una storia secolare di mortificazione culturale. Se non si cura quest’ultima, e il nuovo regime non sembra affatto intenzionato a muoversi in tale direzione, non è possibile alcuna altra profilassi preventiva.

 

Questo e molto altro il lettore troverà negli articoli qui riproposti. Ciò che invece mi sembra opportuno riprendere, sia pure in modo estremamente sintetico, sono le premesse e le fonti di questa polemica, il suo inserirsi in un dibattito che è sempre stato vivace in seno alla cultura russa; e nello stesso tempo credo vada sottolineato come non poche convinzioni dello scrittore, all’epoca apparentemente in contrasto con l’indirizzo politico del nuovo sistema, abbiano poi in realtà finito per trovare riscontro nelle scelte politiche e culturali dello stato sovietico.

[1] La storia di questo giornale è significativa. Venne fondato nel 1905 da Nicolaj Minskij, un poeta simbolista e decadente, creatore di una teoria, il “meonismo”, nella quale si mescolavano suggestioni nietzschiane e mistica orientale. Minskij attaccava la filosofia borghese “dell’adattamento a circostanze momentanee” e la religione “del comfort e dello sport”, e riteneva che le sue dottrine fossero almeno in parte conciliabili con la socialdemocrazia (anche se pensava che l’idea dei socialisti “non è che l’ideale borghese del benessere materiale”). Ai socialdemocratici chiese quindi di curare la parte politica, e a questi non parve vero trovare una tribuna, visto che non riuscivano ad ottenere nessuna autorizzazione a pubblicare. Nel comitato di redazione entrarono anche Gorkij, Lenin, Bogdanov e Lunačarskij, che presero subito in mano la situazione e diedero alla rivista una forte connotazione politica, estromettendo di fatto Minskij. Il giornale, posto sotto attacco dalla censura, aveva cessato le pubblicazioni dopo poche settimane, mentre Minskij e gli altri riparavano all’estero.

La testata venne poi riesumata nella primavera del 1917 (1 maggio), questa volta finanziata e diretta da Gorkij, con il contributo di un prestito del banchiere Grebbe e di Savva Morozov, già editore dell’Iskra di Lenin tra il 1900 e il 1905. In pratica era l’organo dei socialdemocratici “internazionalisti”, che mantenendo l’atteggiamento adottato agli inizi della guerra nei congressi tenuti in Svizzera spingevano per una pace immediata, senza annessioni né riparazioni. Auspicavano anche una collaborazione con le forze progressiste borghesi, per consolidare le conquiste sociali e politiche di Febbraio ed evitare il rischio delle controrivoluzione. Nel giugno del 1918 partirono dalla Pravda violenti attacchi contro il giornale, accusato di essersi venduto agli imperialisti, ai banchieri e ai borghesi e di essere diventato l’organo di punta del partito dei Cento Neri e dei Socialrivoluzionari di destra. Fu chiuso una prima volta, ricomparve dopo una settimana e venne definitivamente soppresso da Lenin nel luglio 1918.

[2] La decisione di passare all’insurrezione armata era stata presa dal Comitato Centrale bolscevico il 10 ottobre 1917, per prevenire la convocazione dell’Assemblea Costituente uscita dalle elezioni, nella quale si sarebbero trovati in minoranza. Su 703 deputati i bolscevichi erano 168 e i loro unici alleati, i social-rivoluzionari di sinistra, 39. I socialrivoluzionari avevano 380 deputati.

[3] Ad esse facevano invece riferimento i socialisti rivoluzionari, che costituivano una sorta di emanazione del populismo. Essi non negavano che il proletariato urbano dovesse giocare un ruolo politico predominante, ma ritenevano che la forza rivoluzionaria per eccellenza fosse costituita dai contadini.

[4]Marxismo legale” si chiamò il gruppo di Struve, Tugan-Baranovskij, Berdjaev, Bulgakov, formatosi nei primi anni ’90 dell’Ottocento nella polemica coi fondamenti teorici del tardo populismo. Fu successivamente liquidato da Lenin come “un passaggio dal socialismo piccolo borghese non al socialismo proletario … bensì al liberalismo borghese”.

[5] G. V. Plechanov è considerato il padre del marxismo russo. Già negli anni ’90 criticava la fiducia dei populisti nei contadini e auspicava la formazione di un partito di lavoratori. Riteneva però, in una interpretazione letterale di Marx, che la rivoluzione socialista dovesse essere preparata dallo sviluppo delle forze produttive e dalla loro organizzazione, e che questo sviluppo dovese essere opera del capitalismo. Al momento del colpo di mano di Lenin si trovò relegato all’ala destra del partito socialdemocratico.

[6] L’“Edificazione di Dio” era una versione religiosa del socialismo elaborata da Lunačarkij e condivisa da Gorkij nel periodo della collaborazione a Capri (1907-1909), con Lunačarkij stesso e con Bogdanov, per creare una scuola di partito (vedi pag. 15-16).

[7] In tal senso è allineato ai menscevichi di Martov, che diffidavano della bramosia di terra dei contadini e preferivano collaborare con la borghesia liberale.

[8] L’empiriomonismo di Bogdanov era una applicazione alle scienze sociali dell’empiriocriticismo di Mach e Avenarius. Questi consideravano come non verificabile, e come non appartenente quindi al dominio della scienza, tutto ciò che fosse esterno alla percezione umana. L’unica conoscenza non metafisica, per gli empiriocriticisti, si fonda sulla percezione e non sulla materia; quest’ultima in pratica è inconoscibile, quindi anche il materialismo rientra nell’ambito della metafisica. Ora, la realtà esterna non essendo altro, per Bogdanov, che il prodotto della attività organizzativa della esperienza collettiva, si poteva raggiungere una società senza classi diffondendo nel ceto operaio una cultura proletaria e trasferendo ad esso i mezzi di produzione.

[9] In Religione e Socialismo (1911) Lunačarskij sosteneva che gli epigoni di Marx, Engels e Plechanov in primis, avevano sviluppato solo gli aspetti razionali e scientifici del marxismo, mentre di Marx era importantissima anche la spinta etica al socialismo; Marx era anche un filosofo morale, e il marxismo doveva rappresentare una sintesi di scienza ed entusiasmo morale. I bolscevichi erano i veri seguaci di Marx: ma per arrivare al cuore del popolo russo avrebbero dovuto diffondere il marxismo come una vera e propria “religione”, nella quale Dio sarebbe stato costituito dalla rivoluzione stessa. Costruire, appunto, Dio.