Ariette 8.0

Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». (n.d.r).

Salvatore

Ariette 8 02

di Maurizio Castellaro, 10 aprile 2022

Salvatore il siracusano mi ha appena augurato su whatsapp una buona Domenica della Palme inviandomi l’immagine di una bella colomba in arrivo con tanto di ramo d’ulivo e luce sacra. Sta cercando di trovare un lavoro. Nel suo cv ci sono scritte tante cose ma non che, capo degli ultras, da anni entra e esce di galera poiché ogni tanto gli capita di rompere qualche testa allo stadio. È un omone di 120 chili con le mani grandi come pale e il sorriso dolente, padre di 4 figli, il primo arrivato quando aveva 17 anni. Provo a mettermi un attimo nei suoi panni e sento che il gesto non è dettato solo dalla superstizione. Il mondo da sempre gira in modi che non comprende. La speranza che dopo la caduta possa sempre esserci una redenzione è un pensiero semplice e potente, capace di sostenere un progetto di rinascita, certo sempre fragile e provvisorio, perché lo sappiamo bene che il cuore umano è un guazzabuglio. Nella “Scuola di Atene” di Raffaello Platone e Aristotele incedono verso di noi, e con il loro gesto decisivo ci propongono risposte diverse alla stessa eterna domanda di senso. Ma alla fine dove la possiamo trovare oggi la verità? In un mondo ideale sovraumano, che da sostanza è divenuto forma e poi favola per bambini? Oppure in una natura retta da leggi matematiche e meccaniche, ormai lasciata ad arrugginire in qualche deposito dimenticato? Oggi noi interpretiamo il mondo con le teorie deboli della complessità, della statistica, della relatività. In due parole: più siamo arrivati a conoscere più ci siamo resi conto che il mondo gira in modi che non comprendiamo molto bene. Un guazzabuglio che somiglia al cuore di Salvatore, che spacca le teste ma augura Buona Pasqua, un guazzabuglio che assomiglia tanto alla realtà che abbiamo intorno a noi, e anche dentro di noi, se siamo abbastanza onesti da riconoscerlo. Ecco, forse sentirsi parte di questo guazzabuglio, imparare ad accettarlo per quello che è in base alla nostra natura, che è renderlo un po’ meno guazzabuglio di quel che pur sempre rimane, ecco, forse questo assomiglia ad un pensiero di pace.

Ariette 8 03

Folletti burloni

di Paolo Repetto, 13 dicembre 2021

Folletti burloni 01L ’immagine d’apertura, che è quella utilizzata come sfondo per la copertina dell’edizione “magnum” di Fenomenologia dello spirito lermese, non riesce forse particolarmente accattivante, ma ha una storia: ed è questa storia a renderla significativa e a connetterla al titolo di quel volume. Provo dunque brevemente a raccontarla.

La cosa risale a una quindicina d’anni fa, proprio in questo periodo. A metà di una mattinata prenatalizia suona alla porta un rappresentante dell’azienda produttrice del Folletto, che balbetta timidamente di accordi presi con Mara per telefono e chiede di poter effettuare una dimostrazione della capacità aspirante del nuovo modello e della praticità delle sue applicazioni. Mara naturalmente se ne è del tutto dimenticata, per cui ci scusiamo e per non fargli perdere altro tempo lo informiamo di non avere in mente alcun acquisto: ma il tizio, un minuto signore di mezza età, privo delle più elementari doti di imbonitore ma animato da tanta voglia di fare, è così convinto della sua missione che non ce la sentiamo di deluderlo: gli consentiamo dunque di ripassare ogni angolo della casa e tutti i materassi. Quando termina è in un bagno di sudore, malgrado si sia in pieno inverno, e ci spiace davvero molto ribadirgli che non cambieremo i nostri piani di spesa. L’omino ripone mestamente tutto lo strumentario sfoderato, si schermisce quando lo invitiamo a pranzare con noi (nel frattempo è arrivato mezzogiorno), ma abbozza un sorriso e, quasi a prendersi una innocua rivincita, all’atto di uscire fa scorrere una pezzuola candida sul battente superiore della porta d’ingresso, ritraendola poi soddisfatto, per mostrarci come la polvere e l’untume si annidino nei punti più impensati. Con lo sporco – dice – non bisogna mai illudersi di avere tutto sotto controllo. Tiè.

Una volta congedato il poveruomo mi ritrovo in mano la pezzuola, prova fumante della nostra colpa: ma mentre sto per gettarla noto come l’impronta grigiastra che vi è stampata sopra disegni un’immagine misteriosa, molto delicata, che può essere letta in tanti modi: io ad esempio ci vedo un busto umano, Mara un ruscello gorgogliante tra le rocce. Stiro allora delicatamente la pezzuola, scovo una cornice vetrata di misura, scrivo con grafia appena decifrabile un nome (Roald Follett), una data e un titolo (Microaspirazioni 2004) sul cartoncino posteriore. Cinque minuti dopo la composizione fa la sua bella figura su un ripiano della libreria.

Caso vuole che la sera stessa siano ospiti a cena una coppia di amici impallati con l’arte, grandi frequentatori di mostre e di cataloghi, sempre molto attenti ad ogni piccola novità, ai quadri, ai disegni, alle statuine, insomma alle cianfrusaglie che ci divertiamo ad alternare sulle pareti o sui ripiani. Il caso in verità c’entra solo fino ad un certo punto, perché il resto lo creo io, avendo in mente proprio la loro visita.

Gli amici trovano dunque una casa tirata a lucido come mai prima, e in attesa di sedere a tavola cominciano come di consueto a guardarsi attorno. Non mi sono sbagliato. Il quadretto fa immediatamente colpo. Dove l’hai scovato, quando, quanto l’hai pagato. Non ricordo ora cosa posso aver raccontato, probabilmente sono riuscito a tenermi molto sul vago: sta di fatto che i due a fine serata se ne vanno riconfermati della mia capacità di scovare le cose più strane e interessanti. Tanto che torneranno alla carica, in seguito, più volte, per avere maggiori informazioni: fino a quando sventatamente Mara rivelerà alla moglie l’arcano.

Ho quasi perso un amico, ma ho avuto la riprova, una volta di più, che è assurdo oggi parlare di arte. Non esiste in realtà un’arte contemporanea. Esiste qualcosa che al pari di tutto il resto, dalla finanza alla politica, e persino allo sport e all’amicizia, rientra in una enorme bolla virtuale, nella quale l’unico criterio vigente è la legge del mercato. Non che avessi bisogno di conferme: in quell’occasione semplicemente mi ha divertito constatare quanto sia facile montare una farsa “artistica”. Ma è proprio questo il problema. Certo, l’amico è un ingenuo, sia pure in buona fede, perché crede nella funzione provocatoria dell’arte (e in quella distributiva del mercato): ma ho visto lunghe file di ingenui come lui soffermarsi pensierosi davanti alle pietre strappate al greto del Piota da mio fratello (vedi Pietre. Arte per fede, non per opere), e, se vogliamo “volare più alto”, intere scolaresche indottrinate da volenterosi insegnanti al cospetto delle “merde d’artista” di Pietro Manzoni. La mia pezzuola sporca potrebbe benissimo essere esposta nel Museo del Novecento accanto a quelle, 0 magari in uno speciale spazio dedicato all’Arte Preterintenzionale, col titolo: Tracce del tempo. Probabilmente incontrerebbe un gradimento maggiore. Se poi qualcuno spiegasse che quelle macchie sono tutto ciò che rimane del trascorrere delle stagioni , delle illusioni degli uomini, della tracotanza tecnologica, beh, allora saremmo al capolavoro assoluto.

Mi rendo conto che rischio di ricascare in argomenti usati a suo tempo da Hitler o da Kruscev per demonizzare le avanguardie: spero però si capisca che sto facendo un ragionamento diverso. Qui non è più un problema di avanguardie, che per antonomasia sono quelle che si mettono a rischio: a rischio oggi non c’è nessuno, se non il buon senso. E nessuno si scandalizza, e se scandalo c’è fa aggio, viene immediatamente monetizzato. Per favore, non raccontiamoci ancora che queste cose hanno un valore di rottura, di denuncia, che creano consapevolezza e inducono a riflettere: l’unico valore che hanno è quello attribuito loro dai galleristi e da tutta la fauna di critici e mezzani che ci campano sopra, gli uni e gli altri tutt’altro che ingenui, ma talmente coinvolti nel raccontarsela a vicenda da finire spesso col crederci davvero. Chiarito questo, poi, non è che si possa fare a meno dell’arte: ma forse il problema sta nell’uso dei termini. Anche ammettendo che non esista un canone universale (e già qui non sarei d’accordo), che tutte le manifestazioni della cultura umana siano soggette ad evoluzione e a a trasformazione, un qualche confine, un qualche parametro occorre ipotizzarlo, se si vuole che l’etichetta abbia ancora un senso. Oppure si stacca l’etichetta, e amen.

Voglio dire che il gesto artistico davvero innovatore, e coraggioso, dovrebbe essere proprio la “ridefinizione” di quell’ambito che un tempo si chiamava Arte: il che non significa, come sta accadendo, aprire i cancelli per lasciar entrare tutto, ma al contrario, chiudere i cancelli e tener fuori tutto quello che dichiaratamente persegue la “destrutturazione” dell’arte. Chiedo solo un po’ di coraggio e di onestà: se vuoi destrutturare l’arte, liberissimo di farlo, ma non mi esibire poi il certificato di cittadinanza artistica per vendere le macerie.

Questo primo passo è necessario, anche se non sufficiente: fuori gli imboscati. Il secondo è più complesso: bisogna decidere se non sarebbe il caso di coniare una terminologia nuova per una fenomenologia dello spirito umano (leggi: rifiuto delle competenze) totalmente inedita. Ma non è certo un problema mio.

A me resta solo da spiegare come mai ho scelto proprio quell’ immagine. È semplicissimo: quell’immagine non ha alcun valore “artistico”, ma la sua storia testimonia perfettamente come si manifesti lo spirito lermese. Che ama l’ordine, ma è capace anche di sdrammatizzare la persistenza di qualche angolo un po’ meno pulito: anzi, di incorniciarlo e di sorriderne.

P.S. Per la cronaca: il quadretto lo possiedo ancora, da allora è rimasto esposto sullo scaffale. E si fa sempre più interessante, perché è un’opera in divenire, che manifesta una tendenza entropica. Dopo tutti questi anni la polvere appiccicata alla tela ha preso a staccarsi e a depositarsi verso il fondo, e l’immagine risulta mano a mano più sbiadita. Funziona come il ritratto di Dorian Gray: col tempo l’immagine tende a svanire, e mi ricorda che è quanto sta accadendo anche a me.

Forse me ne sono accorto troppo tardi. Forse avevo in casa una vera opera d’arte. 

Conversazione semi-immaginaria sul tempo dove non siamo

di Marco Moraschi, 28 marzo 2021

“Mi sa che voi sulla terra sprechiate il vostro tempo a chiedervi troppi perché.
D’inverno non vedete l’ora che arrivi l’estate, poi d’estate avete paura che ritorni l’inverno. Per questo non vi stancate mai di viaggiare, di rincorrere il posto dove non siete…
dove è sempre estate.
Non dev’essere un bel lavoro.”
(La leggenda del pianista sull’oceano)

–    Sai, mi manca il Politecnico.
–    Sei impazzito?
–    Forse sì.
–    Perché dici così?
–    Non so, è una sensazione.
–    Ma scusa, quando facevi l’università non ne potevi più …
–    Si, si, hai ragione, me lo ricordo, però a distanza di tempo rimangono solo ricordi piacevoli. È un po’ come quando muore qualcuno, dicono sempre tutti che era una brava persona.
–    E cosa ti manca?
–    Gli amici, le pause caffè, i libri che leggevo al posto di studiare, …
–    Beh, sono cose che puoi ancora fare.
–    Lo so, ma non è la stessa cosa.
–    Perché?
–    Non lo so, ogni tempo porta via con se’ qualcosa di unico, qualcosa che anche se lo rifai in futuro non è più com’era prima …
–    Perché tutta questa malinconia? Non stai bene ora?
–    Si si, sto benissimo, sono felice della mia vita e ho tutto quello che mi serve, era solo una riflessione sui tempi passati.
–    Inizi a parlare come i vecchi.
–    Beh, lo sto diventando, ho già ventisei anni, quasi ventisette!
–    Ma smettila…
–    Com’è successo che all’improvviso abbiamo già ventisette anni?
–    Dev’essere la birra che hai bevuto ieri sera …
–    No, no, seriamente, ricordo i tempi del liceo, non ne potevo più e non vedevo l’ora di fare l’università, lì si che avrei finalmente scelto cosa studiare. A volte sogno ancora le interrogazioni di inglese!
–    A chi lo dici, io le versioni di greco!
–    Poi ho iniziato l’università e passata la novità iniziale sono emersi i nuovi problemi, gli esami che non mi piacevano, i professori, lo studio … e ho ricordato con piacere i tempi del liceo, non l’avrei mai immaginato!
–    Io invece mi ricordo benissimo sia l’università sia il liceo, non tornerei indietro per niente!
–    Nemmeno io, non credere! Poi quando facevo l’università pensavo che non ne potevo più di studiare, sarebbe stato molto meglio lavorare! E poi d’un tratto eccomi qui, tutto finito, liceo e università, e mi trovo a ricordare con piacere quei periodi. Comincio a capire i miei genitori, me lo dicevano spesso, “vedrai che poi rimpiangerai certi momenti”. Io in realtà non è che li rimpiango, però non mi sembrano più così terribili come mi sembravano allora … la nostra vita è sempre talmente proiettata in avanti che finiamo per non accorgerci di quello che abbiamo in questo momento.
–    Hmmm …
–    Sai, ho sbagliato. Il periodo del liceo è durato cinque anni e non ho sempre saputo apprezzarne gli aspetti positivi. L’università anche. Sono passati più di dieci anni in totale senza che quasi avessi il tempo di rendermene conto. Ora lavoro già da un po’, non voglio commettere lo stesso errore, perché stavolta la posta in gioco è molto più alta, saranno i prossimi quarant’anni della mia vita. Mi aiuterai?
–    Sì, ti darò un colpo sulla testa la prossima volta che inizierai un discorso così.
–    Promesso?
–    Sì, ti amo.
–    Anche io.
[…]
–    E adesso cosa fai?
–    Scrivo.
–    Quando litighiamo ti viene sempre l’ispirazione per scrivere.
–    Hai ragione, forse dovremmo litigare più spesso.

La giusta lentezza

di Fabrizio Rinaldi, 27 marzo 2021

Da mesi non riesco ad avere un pensiero degno di essere trascritto. Senz’altro importa solo a me, ma vorrei comunque spiegarne le ragioni.

In quest’anno pandemico la mia vita lavorativa ha subito dei cambiamenti sostanziali (e purtroppo sono in buona compagnia). Prima il mio orario era flessibile. Ora per svolgere il mio ruolo devo recarmi di buon mattino dove lavoro: quindi, abitando parecchio lontano, parto nel cuore della notte e torno per cena, per stramazzare nel letto subito dopo. Tempo per strizzarmi il cervello, praticamente zero.

Per molti le conseguenze del coronavirus sono state la perdita del lavoro (loro sì che avrebbero da sbraitare, ma la protesta è sopita dalle norme di sicurezza), l’innaturale stasi (resa possibile dalla cassa integrazione, che inibisce la creatività), lo smart working (che in realtà ha ben poco di “smart”). Per altri più “fortunati” – me compreso – si è trattato di uno stravolgimento dei ritmi lavorativi e biologici, che avrà, credo, anche delle conseguenze sulla salute.

Nell’epoca in cui è imposta una vita ritirata, molti si danno al jogging per evadere dalle mura domestiche; io invece mi ritrovo a fare una vita più sedentaria di prima (casa, auto, lavoro, auto e nuovamente casa), con conseguente incremento del mal di schiena e dei trigliceridi.

Durante l’ultima donazione di sangue la dottoressa ha evidenziato un aumento di questi ultimi, conseguenza delle nuove abitudini acquisite: i manicaretti cucinati in famiglia durante i week-end, non bilanciati dalle passeggiate per portar fuori il cane (troppo brevi, occorre fare attenzione a rimanere dentro i confini comunali – abbiamo imparato che essere in zona rossa comporta anche un divieto di scollinamento), stanno producendo un accumulo di zuccheri nelle mie vene. Lo sento in particolare quando non riesco a stare al passo di mio padre, quasi ottantenne, durante la potatura degli alberi, già squassati dal peso della neve invernale.

Nel fine settimana avrei la possibilità di mettermi al computer nelle ore a me più congeniali (dalle 3.00 alle 8.00 circa, quando tutti dormono e il cane russa pure), ma mi ritrovo a leggere l’ennesimo articolo sul Covid-19 o farmi ammaliare dalle sirene dei social.

Ho difficoltà a mantenere la necessaria attenzione su un argomento. La mente è come un uccello che vola da un albero all’altro, senza riuscire a sceglierne uno dove fare il nido. Il rischio è dimenticare come farlo e a cosa serve, e svolazzare senza un perché sino a sbattere contro il parabrezza di qualche auto.

Credo che questo disturbo sia una conseguenza della forzata immersione totale nel mondo digitale, dove tutto è frenetico. Ciò che comprendo, conosco o acquisto oggi sarà obsoleto già domani, e la “verità” del giorno dopo mi induce a credere che ciò che so e ho in questo momento sia errato o superato. Tutto l’apparato col quale mi confronto pare una macchina impazzita, che viaggia in accelerazione continua e deve capitalizzare quanti più “fruitori” possibili: al di là delle formule di rito, non c’è il minimo interesse a indurre un po’ di sana riflessione, a fare mente locale su ciò che, al di là del flagello pandemico, non funziona nel nostro modo di reagire, a stimolare un vero dibattito, e non delle vetrine per politici e virologi e imbonitori. Patisco particolarmente la cosa perché ho già dei problemi di mio nel metabolizzare ciò che apprendo, mi ci devo soffermare più di altri, non so fare il passo successivo se non sono del tutto convinto di quelli già fatti. Altrimenti non avrei scritto anni fa un pezzo intitolato “Io sono lento. Prego, si regoli di conseguenza”.

Credo comunque che tutti coloro che amano davvero scrivere, sia quelli che lo sanno fare che quelli che come me ci provano, siano accomunati dalla stessa sensazione: che tutto sia già stato scritto, o comunque che altri lo abbiano già fatto meglio. E non è un grosso incentivo a battere le dita sulla tastiera.

In effetti è vero, tutto è già stato scritto, da Omero in poi. Ma Omero non era me, e il mio vissuto non è lo stesso di coloro che sono stati prima e saranno dopo di me. E allora mi basta la consapevolezza, anche se non sono uno scrittore e neppure uno che mastica bene la materia, che si può scrivere anche solo per essere più lucidamente coscienti di quanto ci accade, per fissare sulla pagina eventi o sensazioni che altrimenti scomparirebbero con lo scorrere del tempo. Si può scrivere per non dimenticare troppo in fretta, per non lasciarsi risucchiare dalla velocità della macchina.

Stanno accadendo sin troppe cose in questo periodo. Siamo testimoni di qualcosa di epocale, e ce ne accorgiamo sino ad un certo punto (com’è forse naturale che sia, peraltro). Sentiamo parlare quasi solo di virus, di vaccini, di chiusure e di ristori. Ma la nostra quotidianità sta cambiando anche al di là delle mascherine e dei divieti, cambia sotto aspetti per i quali non abbiamo forse tutta l’attenzione dovuta, e cambia senza aver modo di esercitare sulla trasformazione il minimo controllo, senza darci il tempo per orientarci minimamente rispetto alle possibili direzioni future.

Né le urgenze della realtà vissuta né l’immagine che ne danno i media aiutano a farlo. Ci nutriamo di numeri: contagi, decessi, percentuali, curve. E rientriamo nel reale solo quando, sfortunatamente, queste cifre si traducono in persone.

È il caso della presenza fra gli oltre 100 mila morti italiani per Covid 19 di Ziad Zawaideh, mio medico per 35 anni. Ha contratto il virus pochi mesi dopo essere andato in pensione, e gli si è arreso solo dopo un lungo ricovero. Ho avuto altri amici e conoscenti portati via da questo morbo, ma la sua assenza mi tocca in modo particolare. Non che fossimo amici, ma era la persona sempre sorridente che mi accoglieva durante le rare mie visite nel suo ambulatorio, e con la quale scambiavo qualche battuta sulla disarmante realtà ambientale ovadese o sulla situazione del medio orientale, da dove proveniva. Ho una gran nostalgia di quel riso benevolo e della forte stretta di mano con cui ci accomiatavamo.

Ecco, Ziad mi ha soccorso anche adesso. Il suo ricordo mi ha fatto superare il blocco nei confronti della scrittura. Davvero stanno accadendo troppe cose. Ma di alcune è un obbligo dare testimonianza. Con i tempi giusti. Con un po’ di lentezza.

Collezione di licheni bottone

Ariette

di Maurizio Castellaro, 11 marzo 2021

Le “ariette” che postiamo a partire da oggi dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». Ben vengano dunque, se possono mitigare con un refolo di leggerezza un clima che per ragioni obiettive e per stanchezza di chi lo vive sta diventando davvero troppo pesante (n.d.r).

Ritorno a Tex

Non l’avrei mai detto, eppure mi sono ritrovato a comprare su Ebay 200 numeri di Tex per poco più di 100 euro. Per uno che ha avuto l’imprinting al fumetto western con Ken Parker (l’anti Tex per definizione) bisogna ammettere che deve significare qualcosa. Eppure è da un po’ che prima di chiudere gli occhi scelgo le storie di Aquila della Notte. Mi chiedo perché. Ken Parker è la vita vera, un personaggio che quando è ferito sta male davvero, che va a letto con le donne, che finisce in prigione. Berardi ad un certo punto l’ha pure fatto morire, vecchio e malridotto. Giusto così, in fondo. Ma noi? Noi continuiamo ad essere vivi. Anzi, con il tempo ci sembra di capire finalmente qualcosa, e vorremmo che la nostra vita non finisse mai. Allora finisce che ci si butta sull’illusione dell’eterno ritorno dell’identico. Sulla mira infallibile, la morale granitica, la logica inesorabile, la ricerca delle tracce, il salvataggio all’ultimo istante, la bistecca (enorme) e le patatine fritte (una montagna). Ma forse non è solo questo. Forse tornare a Tex per me è un altro modo per tornare al giardino segreto dell’infanzia, ai Tex che da bambino scovavo di nascosto nel comodino del nonno, accanto al vaso da notte (Mefisto, Yama, El Morisco…). Non è nostalgia. Credo piuttosto che sia una forma di manutenzione del legame con il bambino che continua a vivere dentro il mio corpo di uomo, e che con il sguardo sul mondo ingenuo ed ironico mi ha aiutato ad uscire vivo da più di un labirinto. Ne ho ancora bisogno di quel bambino, meglio tenermelo buono.

 

Tuoni e fulmini

Durante un incontro di gruppo il formatore ha chiesto di disegnare la storia del proprio percorso professionale, immaginandolo come una strada inserita in un paesaggio simbolico (curve, salite, montagne, blocchi, pericoli, discese, aiuti, cartelli, ecc.). Eravamo una ventina, e quasi tutti per rappresentare i 18-20 anni della nostra vita abbiamo disegnato sul percorso nuvolacce, tuoni, fulmini, pioggia battente. Poi, usciti da quella fase, partiva di solito un percorso più o meno accidentato, in cui il tempo migliorava di brutto: farfalle, arcobaleni, risorse e visioni. Consola l’idea che la vita abbia concesso a molti (e anche a me) di far quadrare in qualche modo i suoi conti. Ma uscendo dalla consolazione prospettica e retroattiva ho pensato che questo lusso di solito non è dato quando si ha vent’anni, specie se si sta sotto la pioggia, esposti a tuoni e fulmini, senza un’idea di futuro. Credo che per uscire vivi da quella palude si debba imparare ad accendere fuochi sott’acqua, trovare la luce delle stelle oltre le nuvole e capire quali sono i boccioli che per primi fioriranno. I più fortunati trovano maestri che lo insegnano. Gli altri invece, in qualche modo, imparano da soli.

 

Evoluzioni

Per secoli li hanno catturati e costretti con la violenza a salire sulle nostre navi. Oggi per fare un viaggio molto simile sono loro a mettersi in fila, pagando con tutti i soldi che hanno (e con quelli che non hanno ancora). È l’evoluzione del capitale, baby.

 

L’insopprimibile desiderio di lanciare meet

di Fabrizio Rinaldi, 3 dicembre 2020

I pellerossa pensavano che la macchina fotografica rubasse loro l’anima.
Io credo che la videocamera rubi a noi il cervello.

Un collega dice “mi lanci un meet” e non mi sorprendo più nell’aver afferrato ciò che vuole: l’avvio di una videoconferenza con lui.

GoToMeeting, webinar, Meet, classroom, Zoom, call, Skype … Un anno fa non avrei associato ad alcuno di questi termini il giusto significato, o almeno quello che abbiamo imparato nostro malgrado a masticare (sicuramente non a comprendere fino in fondo) a causa del distanziamento fisico da pandemia.

Il Covid-19 ci ha imposto di entrare alla velocità della luce nell’era digitale e di superare un deficit di conoscenze che relegava gli italiani fra gli analfabeti informatici (oltre che in altri campi). Ha spazzato via anni di stiracchiati corsi di formazione e di aggiornamento che servivano solo ad attribuire inutili crediti agli insegnanti e a far guadagnare qualcosa a chi li organizzava, ma non miglioravano di una virgola la nostra confidenza con gli strumenti digitali. In pochi mesi abbiamo imparato invece ad usarli con una disinvoltura da veterani. Lavorare in remoto da casa e avere i figli connessi agli insegnanti e ai compagni attraverso una webcam ha imposto di acquisire sul campo competenze che in epoca pre-Covid avrebbero impiegato decenni ad affermarsi.

Tutto questo ha però comportato anche dei radicali cambiamenti nella sfera delle relazioni sociali e lavorative, tanto che vediamo messi in forse anche diritti individuali che consideravamo intoccabili. Senza colpo ferire ci stiamo assuefacendo non solo all’uso della mascherina nella nostra quotidianità, ma anche al progressivo superamento di quei confini sociali e culturali che prima delimitavano la nostra sfera privata.

Bisognerebbe capire se stiamo ancora penetrando più in profondità in quest’epoca dominata dai media e, se sì, come e quando ci fermeremo. Siamo in condizione di usare – bene o male – i programmi informatici (termine ormai obsoleto e sostituito da “app”, anche se credo che pure questo abbia fatto il suo tempo), abbiamo appreso come avviare una call, come condividere schermi, come starci davanti (personalmente no, ma questo è un altro discorso): ma le implicazioni relazionali, sociali, esperienziali ed emotive sono ben lontane dall’essere comprese a fondo.

Viaggiare in aereo non significa saperlo guidare. Noi siamo in una condizione simile: usiamo il mezzo, ma non ne sappiamo quasi nulla, poiché non è interesse di chi lo costruisce istruirci su come evitare pericoli, su come evitare un eccessivo coinvolgimento e su come usarlo al meglio. Al produttore interessa solo che se ne faccia un uso massiccio. Soprattutto importa che si diventi dipendenti dal suo specifico prodotto, per evitare la trasmigrazione verso i concorrenti, e quindi offre semplificazioni e comodità a cui difficilmente sappiamo resistere. Siamo impigliati in una rete che sembra promettere libertà, ma che in realtà ingabbia tutto il nostro pensiero.

Un esempio: mia moglie recentemente ha smarrito il cellulare mentre eravamo per castagne. Lascio immaginare quanto fosse essenziale portarselo dietro in bosco dove quasi sicuramente non c’era segnale, e dove le probabilità di scivolare e perderlo erano maggiori che quelle di trovare qualche porcino. Ma la cosa che mi fa infuriare è che sono stato proprio io a insistere affinché lo portasse. Spesso la mia ragione trasgredisce al lockdown e se ne va a spasso per i cavoli suoi.

Ho ordinato un sostituito a basso costo e Amazon ce lo ha recapitato dopo soli due giorni (non fosse mai che ritrovassimo quello perduto o tornassimo a usare il vecchio telefonino, che faceva solo quello per cui era nato: ovvero, telefonare). Purtroppo, abbiamo constatato che essendo il nuovo acquisto prodotto della nota azienda cinese invisa a Trump, non aveva la possibilità di accedere alla piattaforma stellata di Google su cui mia moglie – e io pure – aveva salvato i numeri telefonici di una marea di persone. Il rischio era di perdere quei contatti, a meno di forzare il sistema operativo ed entrarci con qualche trucco: procedura che comunque, al di là della liceità, della quale francamente in questo caso non mi fregava proprio nulla, è tutt’altro che semplice. Alla fine, per comodità e per la mia insufficiente competenza, ho rimandato indietro il cellulare e ne ho preso un altro che costava un po’ di più ma permetteva di accedere a Google, e quindi di recuperare i numeri telefonici di persone che, in realtà, lei non chiama e loro neppure.

Quindi, anziché rassegnarci ad averli persi e ricominciare pazientemente a scriverli su una vetusta agendina, come si faceva fino a quindici anni fa, abbiamo speso di più per salvare dei contatti assolutamente inutili.

La scappatella della ragione s’è protratta stavolta un altro po’, e ha prevalso la coercizione all’acquisto.

Dovrebbe consolarmi il fatto che i più si sarebbero comportati allo stesso modo, ma trovarsi in una affollata compagnia non significa necessariamente aver fatto la scelta giusta (mi si potrebbe obiettare che forse la scelta sbagliata l’avevamo già fatta prima, quando abbiamo raccolto dei recapiti telefonici come si raccolgono i ciotolini bianchi al fiume, per caricare le tasche e dimenticarsene subito: ma anche qui entriamo in un altro discorso). In realtà, tutto questo è la dimostrazione di quanto siamo vittime consenzienti di un meccanismo pervasivo e persuasivo cui è difficile sottrarsi col doveroso e sano senso critico. In fondo la fidelizzazione del cliente-consumatore è un pilastro della moderna economia. L’impero Apple di Steve Jobs ne è un esempio.

Quindi, usiamo la tecnologia, ma non ne siamo padroni. Anzi, ne siamo schiavi. È vero anche che utilizzare il treno non significa saperlo guidare, ma il mezzo informatico è decisamente più invadente di una motrice (salvo l’esser sui binari…): grazie ai dati che io stesso metto in rete, chi mi profila conosce i miei interessi, le mie passioni, i miei punti deboli, più della mia consorte.

Una breve divagazione nel passato di un quasi nerd: il mio primo computer fu un Commodore VIC 20 che collegavo al televisore catodico di casa. Praticamente stiamo parlando del paleolitico paragonato ai più economici computer o cellulari di oggi. Non si poteva fare quasi nulla, se non scrivere una sequenza di comandi in linguaggio BASIC o in DOS con cui illudermi di avere il controllo di ciò che comandavo alla macchina: una piccola soddisfazione da “nerd”, che ho poi difeso negli anni successivi cercando di stare al passo con l’evoluzione informatica e masticando i linguaggi Pascal e C+. In realtà tutto si è velocemente complicato e la presunzione di piegare il software alla mia volontà si è sgonfiata: oggi per riuscire a provare quella stessa sensazione di potere sulla macchina devi essere uno “smanettone” super-esperto.

Forse sono solo invecchiato, e non riesco ad adeguarmi alla velocità del progresso digitale, mentre i millennials padroneggiano le app come facevo io allora col BASIC: ma sono quasi certo che anche loro nell’informatica attuale abbiano margini di manovra limitatissimi. Per molti l’unico modo di assaporare la sensazione di controllo è forzare i software, usarli senza pagare diritti d’autore, inoltrarsi in un mondo dove il rischio di divenire vittima di illeciti è molto elevato. Ma mentre si illudono di forzare il sistema, ne sono anch’essi vittime.

Torniamo però al tema dal quale siamo partiti, le videoconferenze e le lezioni a distanza. Questa possibilità sta rivoluzionando, oltre che le modalità, il concetto stesso dello stare assieme per un confronto costruttivo, avvenga esso attraverso una lezione, una riunione lavorativa o un corso di cucina o di yoga.

Le ripercussioni sociali ed emotive delle interazioni attraverso le call sono già state trattate in innumerevoli siti, programmi televisivi e libri (questi ultimi presto riempiranno intere sezioni nelle librerie), ma a monte c’è una questione sulla quale non ci si sofferma a riflettere mai abbastanza: siamo le prime generazioni alle quali il sapere non è più trasmesso attraverso i libri, ma molto più spesso attraverso i media.

Che seguano i quizzoni serali o i programmi di Paolo Mieli e Piero&Alberto Angela, i filmati su Youtube o i webinar su specifici argomenti, di fatto oggi i ragazzi – e non solo loro – costruiscono il personale zaino di conoscenze su mezzi che – per loro natura – sono strumenti di imbonimento. Questi devono offrire argomentazioni semplificate con soluzioni sommarie e soddisfacenti per il maggior numero possibile di utenti (come dicevo prima, chi li gestisce ci conosce meglio delle nostre mogli ed è contrario al divorzio mediatico).

In apparenza questi mezzi riversano su chi ne fa uso una valanga di nozioni e di idee, ad una velocità nemmeno lontanamente paragonabile a quella di un testo scritto. E alla fine lo “spettatore” o il “navigatore” ha anche l’impressione che quei concetti (e le scelte conseguenti) siano frutto della sua brillante intelligenza. Vedi l’esempio del telefono …

In realtà però quasi nessuno possiede gli strumenti per valutare criticamente quanto gli viene propinato. Anche se si oppone resistenza, cercando di diversificare le fonti e facendo la tara ai messaggi, prima o poi la comodità e la velocità di accesso all’informazione hanno la meglio.

Induce alla pigrizia anche l’impressione di volatilità estrema delle conoscenze affidate ad un supporto digitale dove nulla è fisicamente evidente, ma tutto è nel “cloud”. Una “nuvola di bit” verso cui, con i cambiamenti informatici (più che quelli climatici), si ha lo spiacevole presentimento che, presto o tardi, tutto evapori.

Ciò che si sta verificando oggi, tuttavia, fa emergere i limiti di questo modello comunicativo e informativo. L’uso massiccio imposto dalla pandemia fa sì che i nuovi media comincino a perdere una parte del loro fascino (come avviene di norma per tutto ciò che appare in qualche modo imposto) e mostrino la loro debolezza sul piano empatico. Quasi tutti, a causa di esigenze lavorative o scolastiche, siamo stati coinvolti con ruoli diversi in noiose lezioni o in interminabili riunioni in remoto. E ci siamo resi conto di quanto barbosi e infruttuosi siano questi momenti, anche quando sono gestiti con la massima abilità e destrezza. Sarà questione di farci l’abitudine, ma l’impressione oggi è che tutti i “connessi” non vedano l’ora di scollegarsi per bersi un caffè. È come assistere ad una rappresentazione teatrale in televisione anziché dal vivo.

Niente di peggio, poi, che illudersi che aumentando i contenuti si ottengano risultati pari a quelli di un incontro in classe o in ufficio: in realtà è la strada più diretta per stendere gli interlocutori. La comunicazione via web vuole semplificazioni, velocità, tempi da spot, pena l’indurre alla fuga o a farsi i cavoli propri di chi non è il momentaneo protagonista.

Forse è per questo che sta maturando una sempre maggiore cura del “dettaglio tecnico” della ripresa. Gli spazi nell’angolo visivo inquadrato dalla webcam appaiono organizzati secondo regole standard: una libreria colma di testi (probabilmente intonsi): una pianta e un oggetto che riconduca all’ambito familiare; i quadri, o in alternativa i primi capolavori del figlio di due anni. La ripresa è tassativamente ad altezza occhi, in favore di luce (quest’ultima non deve arrivare dal basso, per non evidenziare le borse sotto il bulbo, che dopo la quarta call di giornata sono diventate valigie). Ci stiamo mentalmente e inconsapevolmente adattando a dei modi e ad un mondo nuovi, guidati in tutto questo dal modello televisivo (i talk condotti attraverso il multischermo), che impone, oltre che le tecniche e le scenografie, anche la sua sostanziale inconsistenza: tante voci, poche o nessuna idea, scarsissima propensione ad ascoltare le argomentazioni altrui.

Ci abitueremo? È probabile. Ma checché se ne voglia dire, avverrà al prezzo di una ulteriore disumanizzazione. Non dobbiamo illuderci che una volta cessata l’emergenza (sempre che cessi) anche sul lavoro le cose torneranno come prima. Là dove è possibile le grandi aziende e le multinazionali stanno già riorganizzandone le modalità. Vuoi mettere, i risparmi che possono essere ottenuti riducendo i costi per gli spazi, le spese per gli spostamenti, gli sprechi per i tempi morti, azzerando gli incerti delle assenze per malattia e attivando una possibilità di controllo immediato e capillare sulle attività, in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo esse si svolgano?

Se poi chi lavora in queste condizioni – senza quel valore aggiunto di piccole consuetudini, la pausa caffè, lo scambio di battute o persino di pettegolezzi, i tic dei colleghi o i gesti e le posture rivelatori dello stato d’animo degli interlocutori, tutte quelle cose insomma che scaricano o abbassano la tensione e “umanizzano” il tempo lavorativo – nel giro di pochi anni si ritrova spremuto come un limone, c’è fuori una massa di disoccupati che premono, pronta a subentrargli.

E anche per quei lavori, come il mio ad esempio, per i quali il contatto, la presenza e il rapporto fisico appaiono imprescindibili, questi ultimi verranno ridotti allo strettamente necessario. Le modalità on line che anche noi stiamo sperimentando in questo periodo, così come stanno facendo tutte le scuole, sono un rimedio momentaneo, ma intanto prefigurano possibili scenari per un futuro nemmeno tanto remoto.

Non si tratta di essere tragici o di scorgere dietro tutte queste trasformazioni oscuri complotti, quando poi in realtà i primi complottisti siamo noi, che delle nuove tecnologie non sappiamo fare a meno neppure (e direi soprattutto) quando sono inutili. Si tratta di essere realisti e pragmatici nel vedere questi cambiamenti anche come un’opportunità ,e di non cercare consolazione nelle possibili benefiche ricadute in termini di inquinamento ambientale: che indubbiamente potrebbero esserci, ma a fronte di un prezzo salatissimo sul piano della salute mentale.

Per farla breve, la riflessione su quanto davvero accade nel mondo del lavoro e della scuola (ma anche in tutta la quotidianità), al di là degli entusiasmi progressisti e delle paure conservatrici, dovrebbe avventurarsi un po’ più negli abissi del suo significato. Quel che sappiamo per certo è che i vaccini in arrivo salveranno, si spera, milioni di vite, ma non garantiranno il ritorno ad una accettabile qualità. Quella dovremo cercare di garantircela noi, azzittendo ad esempio ogni tanto la televisione, arrestando il sistema o spegnendo la videocamera, e uscendo per castagne.

Ma senza cellulare, mi raccomando.

Intanto basta scrivere, lancio un meet e continuiamo lì …

Collezione di licheni bottone

Lettere dalla clausura

di Fabrizio Rinaldi, 17 marzo 2020

Il coronavirus costringe tutti a starsene a casa, questa volta in senso letterale. Non si tratta quest’anno (e probabilmente non solo questo) di scegliere se e dove fare le vacanze. A casa significa proprio “in casa”. È uno stravolgimento sino a ieri inimmaginabile delle consuetudini sociali e degli equilibri economici, alle cui ripercussioni non osiamo nemmeno pensare. E anche volendo, non saremmo in grado di farlo.

Viviamo in un limbo decretato da governanti ai quali nessuno avrebbe dato credito di una qualche capacità decisionale, ma che sono stati costretti a prendere provvedimenti unici a memoria d’uomo, e a renderli operativi con la minaccia delle sanzioni penali. Pare che i più abbiano capito la gravità della situazione, anche se naturalmente è scattata in parallelo la corsa degli idioti a trasgredire le regole, vanificando (speriamo poco) lo sforzo e il sacrificio di quanti le rispettano. Ma quelli, nel conto delle perdite c’erano già da un pezzo.

Per quanto mi riguarda sono ligio alla clausura. Approfitto anzi dell’occasione per starmene un po’ in panciolle: mi capita raramente, perché sono uno dei milioni di pendolari che quotidianamente escono all’alba e tornano al tramonto (e oltre).

Fino alla chiusura del servizio, avvenuta pochi giorni fa, ho praticato il lavoro in remoto, connettendomi con i colleghi in sede per proseguire con le giornate di progettazione già programmate. Ho così potuto confrontarmi con alcuni aspetti pratici di questa modalità lavorativa, che da noi sembra essere stata scoperta all’improvviso, nel momento in cui non rimanevano alternative:

  • lo smart working prevede degli strumenti, come pc, cellulare e l’indispensabile connessione internet, che non sono così scontati come crediamo, o almeno non sempre rispondono efficacemente ad un utilizzo lavorativo. La connessione, in particolare per chi come me vive in una zona isolata, è inadeguata rispetto alle esigenze di velocità e di continuità della mia attività (è come se ancora accendessi il fuoco nella stufa con la pietra focaia);
  • il mio è un lavoro soprattutto di relazione, di costante dialogo e confronto per arrivare a decisioni condivise con l’equipe. Stando davanti ad uno schermo, inviando mail e video, si assolve solo alle necessità pratiche e burocratiche. La relazione interpersonale, l’empatia necessaria a capirsi correttamente, scompaiono;
  • gestire il proprio tempo è una degli aspetti più difficili di questo momento di forzata clausura. È quanto mai complicato scindere il tempo lavoro da quello privato. Per farlo ho dovuto barricarmi in una stanza lontano dai familiari (un privilegio che molti non possono permettersi);
  • lavorare in remoto prevede persino energie in più per vincere il senso di colpa connesso allo stare a casa. Ci si prodiga a cercare di realizzare ciò che in sede sarebbe magari lecito procrastinare.

Dopo più di una settimana, ieri sono sceso ad Ovada per fare la mia consueta donazione di sangue. Essendo mattiniero, in genere sono il primo ad arrivare al laboratorio. Alle 7, invece, c’erano già tre persone, alle quali se sono aggiunte poi molte altre.  Alcuni erano alla loro prima donazione, rispondevamo alle richieste d’aiuto apparse anche in tv per supplire alla carenza di sangue. E questa volta non c’era il tornaconto della giornata libera dal lavoro, perché siamo tutti a casa. Il considerevole numero di nuovi donatori mi fa ancora sperare nella natura solidale dell’uomo.

C’era però una sostanziale differenza rispetto al clima solitamente affabile e moderatamente allegro (non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di quasi-liguri): si avvertiva che attraverso le mascherine tutti respiravano la gravità della situazione. Che chissà poi come se le erano procurate, le mascherine, essendo confinati in casa ormai da oltre una settimana … C’era un silenzio inquietante e un timore reciproco che mai avevo provato prima.

Questo virus sta in effetti profondamente mutando le relazioni interpersonali. I flash mob sui terrazzi, i video postati su facebook, i canti da una casa all’altra, dovrebbero farci provare un’inedita sensazione (dico dovrebbero perché queste cose mi appassionano poco): una “fratellanza” sociale che ci faccia sentire più vicini gli uni agli altri. Scopriamo anche di averli quei vicini di pianerottolo, coi quali normalmente non scambiamo neppure un saluto, mentre ora vorremmo – ma non possiamo – abbracciarli come amici fraterni. Mi chiedo però, finita l’emergenza, quanto durerà questa consapevolezza dell’essenzialità dei rapporti sociali. Dimenticheremo tutto come è successo già in passato o avremo colto l’occasione per cambiare?

A proposito di occasioni, lo stare a casa mi offre l’opportunità di fare ciò che procrastinavo da tempo. Non ho più scusanti cui appellarmi. Quindi, con i familiari, risistemiamo una vecchia credenza, tinteggiamo le pareti, tagliamo l’erba, potiamo gli alberi e chissà cos’altro c’inventeremo per far trascorrere le giornate.

Oggi più che mai, mi rendo conto del privilegio di abitare in campagna, in mezzo ad un bosco. Qui non ci sono le comodità offerte dalla città (servizi, stimoli sociali e culturali, ecc …), mentre spesso ci sono i disagi del vivere un po’ isolati: ad esempio la difficoltà nel muoversi (prima quando nevicava, ed ora sempre più per le frane); la costante manutenzione che richiede una vecchia abitazione e la cura del terreno attorno; la connessione internet inadeguata.

D’altra parte, le mie figlie si stanno godendo queste inaspettate vacanze sul prato e nel bosco. Mi auguro che ricorderanno questo periodo come quello in cui hanno potuto divertirsi fuori casa per quasi tutto il giorno. Provo invece pena per quei genitori, ma soprattutto per i loro figli, che trascorrono il loro tempo blindati in casa, magari in un palazzone di città, davanti ad un televisore, un pc o un cellulare.

E penso a chi la casa non ce l’ha perché vive per strada: che sguardi di disapprovazione avranno addosso, quale solitudine … O a chi si trova lontano dai familiari per esigenze lavorative e non può raggiungerli per le restrizioni imposte. Penso anche a chi in casa non vorrebbe proprio starci. Idealizziamo il focolare domestico come luogo protetto ove rifugiarci per ricevere e donare affetto e comprensione, fingendo di non sapere che la gran parte delle violenze avvengono proprio lì e che, per molti, la casa è proprio il luogo dove ci si sente più soli. E penso a coloro che abitano con familiari diventati estranei per una consunzione del rapporto, verso i quali provano, forse, l’affetto dovuto alla necessità di vivere assieme, magari con figli, che è cosa però ormai totalmente diversa dal sentimento che li legava anni prima.

Per molte di queste persone la forzata convivenza rappresenterà uno spartiacque, superato il quale dovrebbe esserci la svolta. Se così non fosse, sarebbe l’ennesima buona occasione mancata. Il coraggio a volte emerge dalle difficoltà imposte dalle circostanze. Raramente capitano circostanze così radicali come quelle attuali per portare dei cambiamenti sostanziali alla nostra vita.

C’è da chiedersi se anche i nostri governanti coglieranno l’occasione per cambiare registro nelle consuetudini dei rapporti politici ed economici mondiali.

In genere dopo un forte shock (ad esempio la crisi del 1929, i conflitti mondiali, ecc …), l’umanità tende a reagire favorendo – almeno all’inizio – dei miglioramenti nelle relazioni fra le nazioni e fra i loro cittadini. Quanto alle buone intenzioni corrispondano poi dei risultati, è discutibile. Si potrebbe dire che gli uomini non imparano mai nulla dalla storia, ma al tempo stesso è innegabile che la seconda metà del secolo scorso è stata, sotto questo punto di vista, molto diversa, in positivo, dalla prima.

Ora le generali linee di indirizzo per i cambiamenti auspicabili non sono difficili da identificare: sono state dettate ancora nel 2015 in un documento dell’ONU chiamato “Agenda 2030”. Se a quel pezzo di carta si ispirasse una politica condivisa da tutte le nazioni, la gran parte dei nostri attuali problemi sarebbe risolta, o almeno tenuta sotto controllo.

In sintesi, elenca 17 macro obietti (goals) da raggiungere entro quella data per avere dei significativi miglioramenti della vita sulla Terra e per tutti i suoi abitanti. In economica prevede di introdurre delle azioni capaci di generare un reddito comune e un lavoro proporzionato al sostentamento dell’intera popolazione mondiale. In ambito sociale, garantisce dei comportamenti affinché ci siano delle condizioni di benessere per ogni persona (sicurezza, salute, istruzione, democrazia, partecipazione, giustizia) equamente distribuite senza alcuna discriminazione (genere, classe sociale, età, disabilità, ecc …). Nel contesto ambientale, si vuole mantenere la qualità e riproducibilità delle risorse naturali.

I cambiamenti richiesti sono sostanziali e radicali, senza possibilità di rimandi perché il rischio è che non ci sia più un’ulteriore chance. Ma è evidente che questi mutamenti non possano essere affidati a politici la cui lungimiranza non va oltre la vittoria nelle prossime elezioni.

Persino in questo momento il contrasto fra le politiche nazionali e internazionali e i principi dettati del terzo goal dell’Agenda 2030, che si prefigge di “assicurare la salute e il benessere per tutti”, risulta più che mai accentuato. Ciascuno corre ai ripari nel suo cantuccio, e quand’anche il fine sia lo stesso, quello di tutelare la salute pubblica, le diverse modalità nel perseguirlo non solo mettono allo scoperto l’inesistenza di una qualsivoglia politica trasversale, ma rendono meno efficaci anche i provvedimenti adottati dai singoli stati. Su questo versante c’è quindi ben poco da aspettarsi.

Credo piuttosto che possano essere le azioni dei singoli – divenute nel frattempo collettive – ad indurre le aziende in primis e poi i governanti a cambiare rotta, a introdurre norme e leggi che vadano nella direzione di una differente organizzazione della socialità e della produttività. Ma non è certo cosa di domani.

Quanto sta accadendo non era del tutto imprevedibile. Bill Gates, ad esempio,  nel 2015 disse: “se qualcosa ucciderà 10 milioni di persone, nei prossimi decenni, è più probabile che sia un virus altamente contagioso piuttosto che una guerra”. Segno che, ad esempio, gli imprenditori più lungimiranti hanno cominciato a riflettere da un pezzo sui possibili costi della globalizzazione, magari anche solo in funzione dei propri interessi (non mi sembra però il caso di Bill Gates) e che l’economia capitalistica ha una coscienza delle falle e dei limiti del proprio sistema molto più lucida di quella diffusa nel mondo politico.

Coloro che ci governano, in ogni parte del mondo, non hanno evidentemente mai preso in considerazione l’ipotesi di una pandemia come quella attuale. Si è improvvisamente scoperto che non esistono protocolli di contenimento, accordi internazionali per lo scambio di informazioni e per la collaborazione nella ricerca, piani per isolare in tempo utile i focolai o per affrontare emergenze sanitarie straordinarie.

Di fatto ci troviamo appena all’inizio di un fenomeno che muta e muterà gli aspetti lavorativi e sociali. Per non parlare delle vittime …

Per avere un vaccino efficace ci vorranno mesi, se non anni, quindi non vedremo la luce ad aprile, maggio o giù di lì, come ci sforziamo di sperare, ma  dovremo restare a casa per molti mesi ancora. Poi le restrizioni saranno poco alla volta allentate, ma col timore costante di un nuovo incremento degli infetti. E in quel caso si ritornerà rapidamente al coprifuoco. La clausura stretta non potrà però durare ancora per molto. Al di là degli aspetti economici, è da prevedere che ad un certo punto anche i membri delle famiglie più unite non si sopporteranno più, e aumenteranno quindi gli episodi di fuga e le trasgressioni dei limiti imposti. Vanificando tra l’altro gli sforzi di contenimento.

Quando potremo finalmente mettere il naso fuori dalla porta di casa, probabilmente avremo una voglia matta di spostarci il più lontano possibile, da essa e da coloro coi quali l’abbiamo troppo a lungo e troppo strettamente condivisa. Avremo bisogno di bravi dietologi per aiutarci a smaltire tutto ciò che stiamo ingurgitando, gli avvocati divorzisti saranno impegnatissimi a comporre bene o male le dispute nate tra le coppie, e forse i rapporti sessuali occasionali diverranno una comune modalità di incontro.

Consoliamoci pensando che durante un’altra quarantena, quella dovuta alla peste che imperversò nel 1666, Newton elaborò le teorie scientifiche che cambiarono il modo di concepire il mondo. Chissà che non ci sia anche oggi qualcuno, barricato in casa da qualche parte, che sta escogitando qualcosa. Per intanto potremmo cominciare noi, a immaginare come sarà e a considerare come vorremmo fosse la nostra vita futura. Magari anche a predisporci al cambiamento.

Per quanto mi riguarda, mentre zappo l’orto noto che la primavera sta arrivando. Ho la fortuna di vederla comparire giorno per giorno, ora dopo ora, sotto casa. Anche questa, pensandoci bene, è un’occasione da non perdere.

Collezione di licheni bottone

Così fan tutti

di Marco Moraschi, 17 novembre 2018, da sguardistorti 05 – 2018 Natale

  1. Non ti precluderai delle porte a priori.
  2. Non prendere strade alternative.
  3. Ricordati di santificare lo stipendio.
  4. Onora il capo.

Questi sono solo alcuni dei comandamenti indiscutibili che fin da piccoli ci vengono messi in testa. Farai le elementari, poi le medie, poi sceglierai una scuola superiore che ti apra molte “porte”, farai una facoltà universitaria che ti dia molte opportunità e ti permetta di trovare lavoro, per raggiungere la stabilità economica, così potrai sposarti, avere due figli e potrai infine dire di aver raggiunto il successo. La vita, sotto questo punto di vista, appare dunque come una lunga scalinata, ripida e faticosa, fatta di soli sacrifici e decisioni prese per un bene più grande, un fine ultimo, quello di poter dire un giorno: “Ecco, ora sono arrivato”. È la pentola d’oro che ci aspetta in fondo al tunnel, la luce in fondo al buio, il successo contro la mediocrità. Il problema di questa visione del mondo, però, è che implica una certa idea di successo, un’idea nata dalla società dei consumi, in cui anche la vita diventa un bene da consumare, in cui bisogna sopravvivere e risparmiarsi per godere un giorno dell’agognata felicità che ci daranno uno stipendio a molti zeri, i benefit aziendali e una famiglia da Mulino Bianco. La verità, però, è che non è detto che esista la pentola d’oro, che tutti possano arrivarci e che una volta arrivati ci dia la felicità. La verità è che non esiste una soluzione a tutti i problemi, un equilibrio finale a cui puntare, perché tutto cambia e tutto scorre, tutti siamo diversi eppure tutti uguali, tutti abbiamo una maschera dietro cui nascondiamo i nostri sogni, le nostre paure, le nostre debolezze.

Vivere in funzione della pentola d’oro è una strategia che può essere efficace per qualcuno, per coloro che come il cardinale Melville in “Habemus papam” di Nanni Moretti sentono “di essere tra coloro che non possono condurre, ma devono essere condotti”. Continuare a rincorrere un obiettivo prefissato da qualcun altro non può che portare a un’atrofia delle capacità, in cui si vive in continua aspettativa, nell’attesa di un dopo che potrebbe anche non arrivare, e che, se arriverà, potrebbe coglierci impreparati, perché non siamo più abituati a correre, ma solo a rincorrere. L’attesa del dopo potrebbe rimanere per l’appunto solo attesa, un continuo inseguimento dettato dalle regole e dalle leggi esterne, dal “si fa così” e “si continuerà a fare così”, poco importa se lungo la strada perdiamo dei pezzi o seguiamo un percorso che non ci piace, il successo non aspetta. Ma come ha detto recentemente Marco Montemagno in un video: “Per il 99% del tempo non stai avendo una carriera, stai avendo una vita di merda”. Ecco quindi che in questo pensiero dilagante e a senso unico assumono particolare importanza i folli, coloro che non si uniformano alle leggi del mondo, ma che battono nuove strade e nuove vie. E se non vi piace la parola folli, possiamo semplicemente decidere di chiamarli persone intelligenti, perché l’intelligenza non segue le regole, i dogmi, gli schemi comuni. Le persone intelligenti sono quelle che si collocano sopra le regole e sotto la legge, in quello spazio stretto in cui l’aria è più fresca e meno viziata. Perché le regole sono dei limiti, spesso privi di significato, pura convenzione sociale, tolgono spazio alla creatività e all’entusiasmo e costruiscono cloni, unità indistinte e quasi invisibili nella massa di creature mediocri che camminano ogni giorno per le strade del mondo. Ecco quindi che la salvezza del genere umano è che ogni tanto qualcuno decide di uscire dagli schemi, di ribellarsi, di non uniformarsi, di fermarsi a metà della corsa e proseguire per un’altra strada. Sono i Davide e i Golia allo stesso tempo, gli innovatori, gli scomodi, coloro che non conoscono il “politically correct”, che non si lasciano sopraffare dalle opinioni altrui e non hanno paura di proseguire soli, che cercano un rimedio alla noia e lottano finché non lo trovano. Sono poeti, ingegneri, filosofi, sono coloro che sfuggono alla logica comune, che non possono essere racchiusi in una categoria ben definita, perché se non esistono regole non esistono categorie.

I folli sono spesso egoisti, perché agiscono soprattutto per sé stessi, perché spesso sono lasciati soli, perché cambiano tutto perché tutto cambi davvero. E se non ci sono regole, non ci sono dogmi, l’unica regola che possono trasmetterci, l’unico istinto che portano dentro e che può aiutarci a cambiare è che esiste un unico comandamento: il coraggio.

Per ribellarsi occorrono sogni che bruciano anche da svegli, occorre il dolore dell’ingiustizia, la febbre che toglie all’uomo la malattia della paura, dell’avidità, del servilismo. Per ribellarsi bisogna saper guardare oltre i muri, oltre il mare, oltre le misure del mondo. La miseria dell’uomo incendia la terra ovunque, ma è un fuoco sterile, che cancella e impoverisce. È un fuoco che odia ciò che lo genera, è cenere senza storia. Saper bruciare solo ciò da cui poi nascerà erba nuova, ecco la vera ribellione.”
STEFANO BENNI, Spiriti, Feltrinelli 2013

Links:

La Trappola della Carriera, Marco Montemagno: https://www.youtube.com/watch?v=ZI4gVrP5Ghg

Storia della mia vita – Ritratto di un Viandante, Marco Moraschi: https://marcomrsch.wordpress.com/2018/09/20/storia-della-mia-vita-ritratto-di-un-viandante/

Cambiare il mondo con un fucile a elastici, Massimo Mantellini: https://www.ilpost.it/massimomantellini/2018/11/16/cambiare-il-mondo-con-un-fucile-ad-elastici/

Blowin’ in the wind, Bob Dylan: https://www.youtube.com/watch?v=3l4nVByCL44



Valori e plusvalore

di Paolo Repetto, da Sottotiro review n. 8, gennaio 1998

C’è da chiedersi, a margine della lettura dell’articolo di Schepis (Il fascino discreto della borghesia), se sia ancora lecito oggi usare il termine “borghesia”, e soprattutto l’aggettivo che ne deriva, “borghese”. Probabilmente nel lessico storico-politico-sociale di questo secolo nessun altro lemma ricorre con altrettanta frequenza, e in contesti e accezioni altrettanto svariati. La qualificazione di “borghese” si è infatti allargata ad includere, prevalentemente in negativo, tali e tanti significati da perdere qualsiasi valenza connotativa: Questa neutralizzazione non è connessa soltanto all’abuso: la perdita di pregnanza di un aggettivo derivato corrisponde in genere o ad una effettiva obsolescenza o ad una perdita di contorno del sostantivo da cui deriva. Si usa quindi a sproposito l’appellativo “borghese” perché non si ha idea di cosa sia, e se esista, la borghesia.

Noi di “SOTTOTIRO” abbiamo la convinzione che i due termini non siano affatto obsoleti e che semplicemente vada fatto un po’ d’ordine nel loro utilizzo, o almeno vada definita l’accezione nella quale li utilizziamo. Ci proviamo, in forma necessariamente spicciola e schematica, magari rimandando ad una prossima occasione l’approfondimento.

Il termine borghesia è stato utilizzato tradizionalmente per esprimere:

  1. una categoria storica universale. In senso lato, estendendo a ritroso nel tempo l’uso del termine, la borghesia è da sempre la classe mercantile (artigianato, commercio, finanza) propria della città, che si contrappone a quella proprietaria-agricola delle campagne. Durante l’evo antico si sviluppa principalmente nelle città costiere, commerciali per antonomasia, in un’atmosfera che per la quantità dei contatti, lo sradicamento indotto dagli spostamenti, la necessità, ai fini commerciali, di un’apertura verso culture esterne risulta desacralizzata (con conseguente perdita di peso dell’autorità tradizionale aristocratica e sacerdotale). Oltre al ruolo sociale ed economico, quindi, ne riveste da sempre uno culturale, anti-tradizionalista e aperto alle innovazioni.
  2. una categoria storica particolare (occidentale). È la classe urbana che nasce nel Medio Evo in opposizione all’aristocrazia feudale, e che presenta le caratteristiche di cui sopra. Nel passaggio all’età moderna evolve sino a configurarsi come borghesia capitalistica o industriale, cioè come la classe che detiene il possesso dei mezzi di produzione e di scambio e ne capitalizza i guadagni. Essa si dilata sino ad inglobare, sia pure in posizione di subordine (piccola borghesia), le classi intermedie, quelle dei “colletti bianchi”, dei funzionari impiegati nei vari settori della gestione sociale ed economica (amministrazione pubblica, scuola, servizi, e quadri intermedi nelle aziende private). In questa fase la borghesia sviluppa una cultura del diritto (egualitaria) in sostituzione di una cultura della consuetudine (gerarchica). Questa cultura del diritto ha un carattere innovativo sino a quando si contrappone a quella tradizionale, ma diviene conservatrice e difensiva allorché le si oppone quella rivoluzionaria (quindi nell’800).
  3. una categoria culturale (lo spirito borghese). L’accezione in questo caso è quasi sempre negativa, tranne che nello specifico storico (quando cioè indica l’atteggiamento innovativo del sei-settecento). Anche in economia si preferisce parlare di spirito imprenditoriale, e persino “capitalistico” ha una possibile valenza positiva, mentre “borghese” suona ormai quasi come sinonimo di inerte e parassitario. Nei confronti della borghesia “grassa” marca l’assenza di stile, la superficialità dei valori, la grezza spettacolarizzazione di sé e dei propri consumi. Nei confronti invece della “piccola borghesia” implica un complesso di inferiorità, l’ansia di salire il gradino e la paura di scenderlo, la lacerazione tra l’avarizia scrutacentesimi e l’esigenza di apparire. La taccia di “borghese” viene usata con egual disprezzo da destra (in contrapposizione ad “aristocratico”) e da sinistra (in contrapposizione a “proletario”). Di fronte all’odierna eclisse del proletariato, o meglio alla scomparsa della sua coscienza e cultura, la categoria è “esplosa”, finendo per comprendere ogni forma di velleitarismo sociale ed economico, cioè ogni aspirazione a condividere modi e livelli di vita delle classi superiori.

Per quanto ci concerne, noi diamo ai termini borghesia e borghese i seguenti significati:

  1. la borghesia è l’espressione sociale del capitalismo industriale: come tale è una classe aperta, caratterizzata da una appartenenza che non segna (niente blasoni) ma che condiziona, perché tende comunque ad una perpetuazione endogena. In altre parole, tende a divenire condizione sociale ereditaria (cfr. figli di professionisti, industriali, funzionari, ecc…) alla quale è relativamente difficile accedere, ma che garantisce poi la possibilità di attestarsi.
  2. Le caratteristiche culturali della borghesia (lo spirito borghese) sono legate al modo di produzione industriale, costantemente innovativo e dinamico, fondato sul consumo rapido, sulla competizione. Questa classe non sarà mai pertanto portatrice di valori “radicati” e “forti”, dalla lunga durata e dal coinvolgimento profondo, ma piuttosto di idealità relativistiche, effimere e sempre in divenire, speculari alle necessità e alle modalità produttive. L’assenza di valori, nel significato forte del termine, non va dunque intesa come sintomo di una debolezza, e meno ancora di una decadenza, ma piuttosto come condizione ideale per un continuo adeguamento alla trasformazione capitalistica.
    Per quanto possa sembrare paradossale (dal momento che proprio al trionfo dello spirito borghese viene in genere associato il primato dell’etica rispetto alla morale), la borghesia non è stata in grado di produrre né un’etica (sistema di valori) né un’etichetta (stili di comportamento). L’etica, i valori, lo stile privato di vita, si sviluppano in società stabili. Costituiscono l’ossatura ideologica delle forme di potere (e di produzione). Dalla loro volgarizzazione e dalla loro reificazione discende l’etichetta, lo stile di vita pubblico, che a sua volta abbisogna di tempi lunghi per affermarsi. La borghesia non ha prodotto nulla di simile. O meglio, lo ha fatto, almeno nella fase di attacco, quando attraverso l’illuminismo ha elaborato il sistema del diritto borghese (fondato sulle libertà individuali – ivi comprese quelle alla proprietà, al commercio e all’imprenditoria) e il quadro delle istituzioni che esso regolamentano e che su esso si reggono (lo stato), ha creato un nuovo contesto politico e culturale di riferimento (la nazione) e prodotto strumenti extra-istituzionali di salvaguardia e di pressione (l’opinione pubblica), ed ha infine affidato al lavoro-dovere, al lavoro-realizzazione e alle realizzazioni – tecnologiche e capitalistiche – del lavoro il riscatto (attraverso l’idea di progresso) della perdita di senso dell’esistenza individuale e collettiva – della vita e della storia. Ma questi valori – libertà, nazione, stato, lavoro, progresso – che possono apparire quanto mai “forti”, si sono prestati da sempre non tanto all’abuso, che è una deriva, una negazione, e lascia comunque integra la sostanza del concetto, quanto ad interpretazioni ambigue e contraddittorie, e pur tutte legittimate da una intrinseca debolezza e duttilità, dal relativismo scaturente dal loro carattere convenzionale: così da poter essere piegati di volta in volta a rispondere alle trasformazioni indotte dal modo di produzione capitalistico. In questo senso parliamo di idealità o valori relativistici, e in questo senso va interpretato lo stato endemico di “crisi” – e la presenza costante di meditate e consapevoli posizioni di rifiuto – nel quale si è consumata o si consuma la loro affermazione.
  3. Sia “borghesia” che “borghese” conservano una valenza connotativa di classe anche nella nostra epoca, pur nella consapevolezza che i termini del conflitto sociale si sono decisamente modificati nell’ultimo mezzo secolo, e che sarebbe forse più corretto parlare di “mondo borghese occidentale” versus “terzo mondo proletario”. È vero che tutti noi occidentali partecipiamo, sia pure in diversa misura, di un benessere materiale diffuso e consentito proprio dallo sfruttamento e dal mantenimento sotto la soglia della miseria del resto dell’umanità: ma è anche vero che oltre alla diversità nella misura di questa partecipazione esiste ancora la possibilità di comportamenti e atteggiamenti sociali non assimilabili alla “borghesizzazione” a tappeto delle aspettative e dei bisogni. Non stiamo parlando, evidentemente, dei fenomeni di autoemarginazione, o delle scelte pseudo-alternative di soggetti ipergarantiti, ma semplicemente della possibilità di non farsi omologare ai parametri esistenziali della spettacolarità e del consumo. E abbiamo la presunzione di credere che le finalità e le modalità di realizzazione e circolazione di questa rivista ne siano una prova.

 

Addirittura!

di Antonio Cammarota, da Sottotiro review n. 8, gennaio1998

Il lettore si metta pure comodo e si rilassi: questa volta non è mia intenzione trattare esplicitamente argomenti come il duro lavoro manuale, la fatica, l’alienazione e l’abbrutimento implicito nelle attività fisiche più pesanti. Infatti queste situazioni, questi modi di vivere e di lavorare presentavano anche aspetti positivi: la socialità innanzitutto, e poi la solidarietà, la consapevolezza del comune patire. Il lavoro di fabbrica, ad esempio, determinava negli operai, con il passare degli anni, un senso di appartenenza al gruppo, alla classe sociale, finanche al luogo di lavoro e alla stessa azienda … Anche il nero lavoro nelle campagne, fatto di levatacce e di sudore, di freddo polare e di caldo soffocante, aveva un risvolto positivo: esso era principalmente il senso di appartenenza – valido per tutti – ad una comunità (in legittima contrapposizione con le altre comunità, ovviamente), ad un campanile, ad una serie di “mitiche” e antiche figure che stavano alla base del gruppo sociale stesso. Per le fabbriche e le campagne passava quindi (addirittura) una giustificazione, una legittimazione alla vita. Ebbene, oggi tutto questo non esiste più, o meglio, va scomparendo molto rapidamente, e nel giro di pochi anni fabbriche e campagne assumeranno volti e identità completamente nuovi. Ed è il post-fordismo (in particolare per le industrie) a segnare questo “salto di qualità” verso la disgregazione sociale definitiva, verso la solitudine, verso il nulla … Attenzione, però: questo breve e necessariamente scarno contributo alla riflessione non vuole essere – si badi bene – una melensa nostalgia del passato, un richiamo vuoto ad una mitica ed inesistente “età dorata del lavoro perfetto”. Nessuno rimpiangerà il lavoro dipendente duro e “maledetto”, il lavoro necessario ed alienante, gli infortuni, le morti. Nessuno rimpiangerà situazioni in cui gli uomini si spegnevano poco a poco sui luoghi di lavoro. È invece mia intenzione sottolineare il fatto che nella nuova trasformazione che il concetto di lavoro sta attraversando, tutto quel poco (o tanto) che di positivo si trovava nella vita della gente comune, nella vita lavorativa dei proletari (operai o contadini), va scomparendo. Nelle campagne le comunità di un tempo non esistono più. I pochi rimasti (già il fordismo aveva sconvolto la vita nelle campagne) hanno perduto, hanno smarrito quel senso di appartenenza, quel legame – unico – che avevano con la comunità. Il genuino campanilismo ha ceduto il campo ad un vuoto e cieco localismo leghista. Nelle fabbriche il padronato punta ormai direttamente sulla parcellizzazione definitiva del lavoro, sulla divisione del lavoro e su quella degli stessi operai in “esterni” e “interni”. Non più fabbriche, settori e reparti intesi nella accezione classica, ma ognuno per sé. Contratti nazionali che diventano personali. I vecchi legami di classe si spezzano per sempre: gli operai votano come i loro padroni e si scagliano contro nuovi nemici, quasi sempre fittizi. È la definitiva frattura, nelle città e nelle campagne, con un passato che ancora ci teneva legati (teneva legate cioè le persone “normali”) alla realtà: l’operaio era operaio tra gli operai, e così il contadino. Fabbrica o vigneto, macchina utensile o aratro il duro lavoro era anche professionalità, era realizzazione, era rappresentazione di sé (l’unica possibile, si badi bene!) sul palcoscenico della società. Il lavoro insomma era anche “significare”, dare sostanza, oltre che appartenere, ad un gruppo sociale. Ora che l’ultima pietra – ed è una pietra tombale – è stata posata non ci resta che osservare i vecchi campi vuoti e le decrepite mura delle fabbriche come se fossero vestigia archeologiche di un glorioso passato. Addirittura.