Conversazione semi-immaginaria sul tempo dove non siamo

di Marco Moraschi, 28 marzo 2021

“Mi sa che voi sulla terra sprechiate il vostro tempo a chiedervi troppi perché.
D’inverno non vedete l’ora che arrivi l’estate, poi d’estate avete paura che ritorni l’inverno. Per questo non vi stancate mai di viaggiare, di rincorrere il posto dove non siete…
dove è sempre estate.
Non dev’essere un bel lavoro.”
(La leggenda del pianista sull’oceano)

–    Sai, mi manca il Politecnico.
–    Sei impazzito?
–    Forse sì.
–    Perché dici così?
–    Non so, è una sensazione.
–    Ma scusa, quando facevi l’università non ne potevi più …
–    Si, si, hai ragione, me lo ricordo, però a distanza di tempo rimangono solo ricordi piacevoli. È un po’ come quando muore qualcuno, dicono sempre tutti che era una brava persona.
–    E cosa ti manca?
–    Gli amici, le pause caffè, i libri che leggevo al posto di studiare, …
–    Beh, sono cose che puoi ancora fare.
–    Lo so, ma non è la stessa cosa.
–    Perché?
–    Non lo so, ogni tempo porta via con se’ qualcosa di unico, qualcosa che anche se lo rifai in futuro non è più com’era prima …
–    Perché tutta questa malinconia? Non stai bene ora?
–    Si si, sto benissimo, sono felice della mia vita e ho tutto quello che mi serve, era solo una riflessione sui tempi passati.
–    Inizi a parlare come i vecchi.
–    Beh, lo sto diventando, ho già ventisei anni, quasi ventisette!
–    Ma smettila…
–    Com’è successo che all’improvviso abbiamo già ventisette anni?
–    Dev’essere la birra che hai bevuto ieri sera …
–    No, no, seriamente, ricordo i tempi del liceo, non ne potevo più e non vedevo l’ora di fare l’università, lì si che avrei finalmente scelto cosa studiare. A volte sogno ancora le interrogazioni di inglese!
–    A chi lo dici, io le versioni di greco!
–    Poi ho iniziato l’università e passata la novità iniziale sono emersi i nuovi problemi, gli esami che non mi piacevano, i professori, lo studio … e ho ricordato con piacere i tempi del liceo, non l’avrei mai immaginato!
–    Io invece mi ricordo benissimo sia l’università sia il liceo, non tornerei indietro per niente!
–    Nemmeno io, non credere! Poi quando facevo l’università pensavo che non ne potevo più di studiare, sarebbe stato molto meglio lavorare! E poi d’un tratto eccomi qui, tutto finito, liceo e università, e mi trovo a ricordare con piacere quei periodi. Comincio a capire i miei genitori, me lo dicevano spesso, “vedrai che poi rimpiangerai certi momenti”. Io in realtà non è che li rimpiango, però non mi sembrano più così terribili come mi sembravano allora … la nostra vita è sempre talmente proiettata in avanti che finiamo per non accorgerci di quello che abbiamo in questo momento.
–    Hmmm …
–    Sai, ho sbagliato. Il periodo del liceo è durato cinque anni e non ho sempre saputo apprezzarne gli aspetti positivi. L’università anche. Sono passati più di dieci anni in totale senza che quasi avessi il tempo di rendermene conto. Ora lavoro già da un po’, non voglio commettere lo stesso errore, perché stavolta la posta in gioco è molto più alta, saranno i prossimi quarant’anni della mia vita. Mi aiuterai?
–    Sì, ti darò un colpo sulla testa la prossima volta che inizierai un discorso così.
–    Promesso?
–    Sì, ti amo.
–    Anche io.
[…]
–    E adesso cosa fai?
–    Scrivo.
–    Quando litighiamo ti viene sempre l’ispirazione per scrivere.
–    Hai ragione, forse dovremmo litigare più spesso.

Le 4 regole del “buon ingegnere”

di Marco Moraschi, 22 novembre 2019

Sono un ingegnere. Non lo dico per vantarmi, ci mancherebbe altro. È un dato di fatto: dopo cinque lunghi anni di università ho discusso la tesi e indossato la corona d’alloro. Qualcun altro avrà scritto o scriverà “sono un biologo” oppure “un economista” o magari “un perito” o “un operaio”. Ciascuno di noi per poter “essere qualcosa” (come se un titolo potesse descrivere a pieno la complessità della persona umana) ha affrontato percorsi più o meno facili, più o meno lunghi, che l’hanno portato a dedicarsi a una qualche attività lavorativa nella sua vita. “Il lavoro nobilita l’uomo” diceva quel tale, qualunque lavoro (o quasi). Ma io sono un ingegnere ed è quindi di questo lavoro che voglio parlarvi. Perché dopo questi anni di studio intenso, di difficoltà, di arrabbiature, di fallimenti, ma anche di successi, di resilienza, di rimonte, ho imparato tante cose, moltissime anzi, ma non la più importante: come si fa a essere un ingegnere. Già. Ho appreso moltissime nozioni in questi anni, per esempio una delle più curiose è quella che un mio professore ha definito “il paradosso della lampadina”, di cui magari vi parlerò in futuro, o magari no, altrimenti poi penserete di essere ingegneri elettrici pure voi una volta scoperto il segreto. Ma ecco, il punto è che nessuno ci ha preparati al mondo del lavoro, a ciò che c’è fuori dalle mura universitarie. Ti chiamano “ingegnere!” e tu vorresti dirglielo che non ti senti ancora tale, perché devi imparare moltissime cose, ma loro niente, “Ing. Moraschi”. E quindi come si fa a diventare ingegneri? Secondo un amico professore e collega (è anche lui ingegnere) si diventa ingegneri “per davvero” dopo almeno 10 anni di pratica sul campo. Aspetterò dunque una decina di anni a vedere cosa succede, magari vi aggiorno su queste pagine se vi va. Ma nel frattempo? Nel frattempo posso provare a immaginare cosa significa essere ingegneri, un po’ come quando finito il liceo con grande sicurezza di sé si prova a immaginare come sarà e cosa si studierà all’università, scoprendo poi solo più avanti di aver sbagliato completamente le previsioni. Perché la vita è bella anche per questo: si fanno tanti programmi, si hanno tanti progetti per la testa e poi da un giorno all’altro si scopre che è tutto diverso da come lo avevamo immaginato. Lasciatemi quindi giocare a questo gioco e fingere con grande sicurezza di sapere cosa significa essere ingegneri “per davvero”.

La prima regola del buon ingegnere arriva dal Maestro Shifu in Kung Fu Panda 3: “Se fai solo quello che sai fare, non sarai mai più di quello che sei ora”. Essere ingegnere significa saper affrontare nuove sfide a cui non eravamo preparati avendo però a disposizione un metodo e un modo di ragionare efficaci. Significa che le difficoltà non previste e gli ostacoli che si incontrano durante il cammino ci sono di aiuto per crescere e diventare persone più mature e più capaci. Significa che anche se lì per lì temiamo di non sapere come affrontare una situazione, poco alla volta riusciremo a districare i fili della matassa perché è l’unico modo per diventare più competenti e imparare a fare cose nuove.

La seconda regola del buon ingegnere arriva da un altro Maestro di arti marziali (comincio a pensare che per essere bravi ingegneri occorra saper “picchiare duro” …), ovvero il Maestro Miyagi di Karate Kid: “Quando cammini su strada, se cammini su destra va bene. Se cammini su sinistra, va bene. Se cammini nel mezzo, prima o poi rimani schiacciato come grappolo d’uva. Ecco, Karate è stessa cosa. Se tu impari Karate va bene. Se non impari Karate va bene. Se tu impari Karate-Speriamo, ti schiacciano come uva.” Il mio relatore di tesi e coordinatore del corso di laurea in Ingegneria Elettrica, Prof. Aldo Canova, disse una volta ai neo-laureati che loro avevano scelto di diventare Ingegneri, non Ingegneri-Speriamo. La determinazione nel raggiungere gli obiettivi è uno dei passi fondamentali di chiunque si sia mai avventurato in un progetto di qualsiasi tipo: l’università, una sfida lavorativa, un viaggio, un sogno nel cassetto. Essere convinti che avremo successo è la prima regola per affrontare una sfida, perché indirizza le nostre azioni verso la vittoria e ci carica di energia positiva per affrontare la scalata. È un po’ come coloro che si lamentano di non aver mai vinto la lotteria, ma non hanno mai comprato un biglietto perché “intanto queste cose a loro non capitano” (detto questo, non giocate alla lotteria, è solo un esempio). Molto spesso le cose “capitano” se ci mettiamo nelle condizioni di farle capitare e se poi non “capitano” comunque non potremo rimproverarci perché ce l’avremo messa tutta.

La terza regola del buon ingegnere è simile alla seconda, ma merita di essere discussa a parte perché è stata istituita da una persona vera e non di fantasia come le prime due (peraltro il Maestro Shifu non è nemmeno una persona, ma un panda minore). Tale regola è stata pronunciata per la prima volta dal Presidente degli Stati Uniti d’America John Fitzgerald Kennedy il 12 settembre del 1962 davanti a una folla di quaranta mila persone: “Abbiamo deciso di andare sulla Luna in questo decennio e di impegnarci anche in altre imprese; non perché sono semplici, ma perché sono ardite, perché questo obiettivo ci permetterà di organizzare e di mettere alla prova il meglio delle nostre energie e delle nostre capacità, perché accettiamo di buon grado questa sfida, non abbiamo intenzione di rimandarla e siamo determinati a vincerla, insieme a tutte le altre”. Kennedy aveva appena detto all’umanità intera che le cose belle sono quelle difficili, perché quelle facili sono capaci tutti a farle. Sebbene la strada più semplice sia spesso quella che ci attrae di più, solamente davanti alle difficoltà possiamo dimostrare il nostro vero valore e le nostre capacità; dobbiamo quindi affrontare gli ostacoli non come imprevisto sul nostro cammino, ma come una possibilità che ci viene data per dimostrare agli altri che nulla ci spaventa e che siamo in grado di trovare una soluzione anche agli enigmi più complicati.

La quarta e ultima regola del buon ingegnere arriva finalmente da un ingegnere, e in particolare da Galileo Ferraris, fondatore della prima scuola di elettrotecnica in Italia, poi incorporata all’interno del Politecnico di Torino. Nel discorso di insediamento al Senato del Regno d’Italia, il 6 gennaio 1897, egli pronunciò le seguenti parole: “Lasciate che la mia mente, fissando nell’avvenire, si bei nella visione di una generazione non ad altro intenta che al bene del comune paese, non più divisa da lotte di partiti personali, ma da lotte di idee, le quali non lasciano traccia di amarezze nell’animo, come l’uragano non lascia alcuna traccia nel cielo”. La responsabilità che abbiamo sulle nostre spalle è quindi quella di dare vita a lotte di idee che come un uragano facciano pulizia dei pregiudizi, della disonestà, della presunzione di chi prende decisioni senza avere coscienza della propria limitatezza.

E forse quindi, dopo tutte queste regole, essere ingegneri non è poi diverso dall’essere persone qualunque dotate di un po’ di “buon senso” per capire che le sfide che ci troviamo ad affrontare vanno risolte sì con professionalità, serietà e determinazione, ma soprattutto, con grande umiltà.

P.S. Un grazie di cuore alla persona che mi ha insegnato queste “regole” durante gli anni di università, ovvero il Prof. Aldo Canova, volto amico all’interno del Politecnico e modello di ingegnere “per davvero” a cui aspiro (asintoticamente).