Ariette 14.0: Dai tempi di Noé

di Maurizio Castellaro, 11 gennaio 2023

Il Principato di Monaco consiste in 2 chilometri quadrati insensati in cui risiedono 40.000 persone asserragliate intorno al vecchio Casinò. Enormi colate di cemento violentano mare e terra, per dare spazio a boutiques esclusive, parcheggi sotterranei, ascensori scavati nella roccia. Poco più avanti, Cannes è un piccolo clone di Los Angeles. Ospita da oltre 70 anni il più importante festival della fabbrica dei sogni, ed esibisce al termine della sua Croisette un Casinò, yatchs arroganti e ville con 20 stanze e 20 bagni, che vende a decine di milioni di euro ciascuna. Solo a pochi chilometri nell’entroterra, in piccoli paesini come Vallauris, Vence, Saint-Paul, geni come Picasso, Matisse e Chagall sono stati attivi dopo la guerra per decenni, idolatrati da collezionisti di tutto il mondo, ricchissimi e forse ignari. Nella mia memoria vorrei riuscire a scindere il ricordo dello skyline di Montecarlo dal segno essenziale e spirituale che Matisse ha lasciato sui muri della Chapelle du Sainte-Marie du Rosaire di Vence. Allo stesso modo, vorrei riuscire a separare l’immagine della neve finta davanti al Casinò del Principato da quelle delle tele sublimi dipinte a Nizza da Chagall, e ispirate dal Cantico dei Cantici. Ma non ci riesco. Questi due ordini antitetici di immagini vanno tenuti assieme, perché li lega una connessione segreta, perché forse questi due livelli di realtà sono uno la verità dell’altro, in perenne e insostenibile tensione. E forse perché proprio la loro inscindibile antitesi senza sintesi ci ricorda che, se mai ci sarà salvezza per noi, essa passerà dalla ricerca della bellezza e della purezza in mezzo a ciò che bello e puro non è, e sarà comunque una salvezza individuale, e mai collettiva. È una storia antica, già vecchia ai tempi di Noè, quando ancora nel mondo la pioggia cadeva.

Ariette 14.0 Dai tempi di Noé 01

Il voto “nascosto”

di Marco Moraschi, 29 febbraio 2020

Gli effetti collaterali di comprare casa e rendersi indipendenti (economicamente) dai genitori che ti hanno cresciuto fin da bambino, si vedono, soprattutto inizialmente, nel grande numero di scelte che si è chiamati a compiere da quando si prende la decisione a quando poi questa sarà pienamente attuata. Con effetto immediato iniziano quindi le prime spese e i primi addebiti importanti sul conto corrente, contestualmente a tutta quella serie di oggetti che per necessità devono essere presenti in un qualunque immobile per poterlo chiamare “casa”. Nonostante io sia l’opposto di un accumulatore seriale è chiaro che certi oggetti sono imprescindibili: la cucina, i sanitari, il letto, i libri, solo per citare alcuni esempi. Mentre per alcuni si può attingere all’accumulo esagerato dei nostri avi, che hanno probabilmente sentito la necessità di mettere da parte in quanto hanno vissuto le ristrettezze economiche della guerra e degli anni della ricostruzione, altri dovranno essere acquistati nuovi, andando quindi ad alimentare l’economia del consumismo, che prevede che gli oggetti non debbano durare in eterno, ma siano presto scartati e gettati in discarica per essere sostituiti dal nuovo ultimo modello. Si rivela quindi più che mai necessario prestare molta attenzione nel momento in cui siamo chiamati alle urne. Alle urne? Sì, perché in fondo ogni volta che acquistiamo un oggetto stiamo esprimendo un voto: stiamo decidendo a chi devono andare i soldi frutto del nostro sacrificio, chi avrà quindi disponibilità e potere di spesa su un pezzo (piccolo) del mondo che viviamo, chi dovrà essere premiato per ciò che ha fatto e chi invece dovrà rimanere a bocca asciutta. Nello scegliere un prodotto piuttosto che un altro dovremmo non solo decidere sulla base della qualità, o (più spesso) del prezzo, ma anche e soprattutto informandoci prima su chi riceverà i nostri soldi. Non parlo ovviamente del singolo negozietto, che pure ha importanza, ma del marchio e della società che produce l’oggetto interessato. Stiamo comprando un telefono; voglio alimentare il commercio online o favorire i rivenditori fisici? Questo smartphone che costa poco sarà stato prodotto in accordo a tutte le normative per la tutela dell’ambiente? Sarà composto da materiali riciclati oppure sono stati sfruttati dei lavoratori per estrarre i metalli preziosi che lo compongono? L’azienda che lo produce in che modo si impegna a migliorare la qualità dei propri prodotti e a evitare che finiscano in discarica una volta dismessi? Mi fornirà assistenza durante la vita utile del prodotto oppure si dimenticherà di me una volta uscito dal negozio?

Mi rendo conto che non è affatto semplice poter rispondere a tutte queste domande ogni volta che facciamo un acquisto, ma sarebbe importante provarci il più possibile, non solo perché in questo modo probabilmente acquisteremo prodotti di migliore qualità, che dureranno quindi più a lungo, ma perché un pezzettino alla volta potremo essere determinanti per decidere come sarà il mondo di domani. Troppo spesso infatti deleghiamo alla politica le decisioni che noi non abbiamo il coraggio di prendere, e che infatti non prendono neanche i politici, perché sono votati da noi. Scegliere chi votare quando compriamo un oggetto è il modo più efficace che mi viene in mente per poter contribuire davvero e subito, seppur nel nostro piccolo, a plasmare la società che vorremmo, perché il denaro, che ci piaccia o meno, è il motore di tutte le cose. I flussi di denaro rappresentano lo strumento più democratico che abbiamo in mano tutti i giorni, non solo quando viene indetto un referendum o abbiamo in mano la matita copiativa alle urne. La democrazia del terzo millennio dovrà nutrirsi anche delle nostre (piccole) scelte economiche, perché se come singoli le ricadute delle nostre decisioni sono limitate, come comunità abbiamo in mano un grosso potere decisionale, che possiamo e dobbiamo usare al meglio. Ogni giorno acquistiamo beni di prima necessità e non solo, i quali vanno ad alimentare il business di grandi e piccole aziende che decidono se la strada che hanno intrapreso per aumentare il fatturato è quella giusta oppure devono cambiare rotta. Non è strettamente necessario che sia la politica a decidere di bandire la plastica monouso; se la nostra comunità, fatta da ogni singolo individuo, decide di non comprare più plastica non riciclabile, il mercato sarà costretto a spostarsi altrove, senza che nessun referendum o nessuna legge sia abrogata o approvata. Il portafoglio che apriamo ogni giorno deve ricordarci che ogni nostro piccolo gesto ha delle ricadute e per la legge dei grandi numeri, per quanto piccole siano, se moltiplicate per una popolazione di più di 7 miliardi di persone quelle ricadute diventano economicamente rilevanti e hanno il potere di cambiare le cose. Siate il cambiamento che vorreste vedere nel mondo diceva Gandhi, e comprate responsabilmente aggiungo io. Buoni acquisti!

Il piacer vano

di Giuseppe Schepis, da Sottotiro review n. 4, giugno 1996

Nella società contemporanea il mercato sembra essere rimasto l’unico sistema economico possibile. Al centro di esso – protagonista assoluta – la merce. Val la pena allora di tornare ad analizzare l’essenza della regina incontrastata del nostro tempo, rispolverando la teoria marxiana sul feticismo delle merci. Questa, a grandi linee, è nota a tutti, ma anche a rischio di essere pedanti è bene riprenderla brevemente per vedere se si siano verificati cambiamenti economici da quando è stata formulata ad oggi. Si parta dal fatto che la realizzazione di ciò che, in maniera molto generica, possiamo definire merce, è nata dalla necessità di soddisfare i bisogni che la specie umana, lungo la sua evoluzione fisica e culturale, si è trovata ad avere. Questi bisogni – i più svariati – possono essere sia di natura materiale che di natura intellettuale: non faremo da qui in poi differenze di merito dato che l’uomo, animale il cui intelletto è enormemente sviluppato, ha comportamenti appetitivi nei confronti di ambedue le categorie di “cose”.

Un oggetto dunque, qualunque sia la sua natura, ha un certo valore correlato alla sua possibile utilità per i membri della specie umana. Il suo valore è così legato alla capacità di soddisfare delle esigenze, ma si verifica – spesso – che oggetti capaci di uguali prestazioni abbiano un valore di mercato profondamente diverso. Possiamo lambiccarci più e più volte il cervello, senza riuscire a trovare nulla che li differenzi se non il valore di mercato e la complessità produttiva; nasce così il sospetto che queste ultime due grandezze siano strettamente correlate tra di loro e solo minimamente dipendenti dall’oggettivo valore della merce. Ma allora cosa dà alla merce il suo valore di mercato, se non direttamente la sua capacità di soddisfare bisogni come logica imporrebbe, e perché due oggetti con analoghe possibilità di utilizzo devono avere uno un dato valore di mercato e l’altro un valore magari superiore? L’arcano è facilmente risolto: per realizzare il primo occorrono meno ore di lavoro, si hanno minori scarti di lavorazione, necessitano un numero inferiore di Kwh di energia e simili. Il secondo oggetto, quindi, vale più del primo solo perché è stata necessaria alla sua foggia una maggiore quantità di “lavoro di produzione”. Così il feticcio del lavoro speso nella produzione diventa una delle qualità dell’oggetto e lo segue nel suo viaggio attraverso il mercato. Così la merce viene caricata di un significato sociale che nulla ha più a che vedere con il reale valore legato all’utilizzo e che esiste solo all’interno della società stessa. Senza le convenzioni sociali borghesi questo secondo valore sparirebbe di colpo, non essendo intrinseco agli oggetti. È già stato detto da voce ben più autorevole dei danni provocati dal verificarsi di questo, di come così l’uomo diventi funzionale ai bisogni della produzione e non viceversa – come sarebbe auspicabile e logico – la produzione funzionale al soddisfacimento dei bisogni umani. Si aggiunga che esiste un altro aspetto: il valore feticistico spesso riesce a nasconderci le qualità reali delle cose; il primo, che è semplicemente involucro, ci nasconde ormai l’essenza, aggiungendo inganno ad inganno e facendo sì che non si riesca nemmeno a cogliere appieno i benefici che un oggetto – fisico o intellettuale – può darci.

Tutto questo è reso poi ancora più devastante dal fatto che, massimamente nella società contemporanea, oltre ai bisogni reali se ne manifestano altri indotti dal sistema – che così tenta di autoalimentarsi – sempre in quantità crescente. Così la pubblicità veicolata in tutti i mezzi di comunicazione di massa è come ossigeno per il mercato: lo vivifica arrivando ad ogni cellula elementare (il cosiddetto consumatore), fino a far prosperare questo tumore maligno che con le sue metastasi sta sostituendo completamente quelle che dovrebbero essere le cellule sane – ben differenti – di un organismo degno del nome di società umana. È bene sottolineare che anche le risorse economiche spese nel pubblicizzare un prodotto diventano, schizzofreneticamente, valore feticistico aggiunto di questo.

Forse se riuscissimo a togliere le lenti deformanti che il mercato ci ha messo davanti agli occhi, apprezzando così solo l’essenza di ciò che ci circonda, potremmo arrestare il moto dell’ingranaggio in cui siamo presi e da cui rischiamo di essere dilaniati; spinti verso l’autodistruzione da un sistema per sua natura non regolato, rischiamo di far scomparire la nostra civiltà e di arrecare seri danni al pianeta che ci ospita.

Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni.
GIACOMO LEOPARDI