Culture diverse e reputazione

di Nicola Parodi, 19 maggio 2022, da un colloquio con Paolo Repetto

Per mantenere vitale e coesa una comunità, funziona meglio un meccanismo di esclusione o uno di inclusione? Ce lo siamo chiesti davanti ad un caffè, partendo dallo sfogo di Paolo (cfr. Rifiuti), dalle più recenti e allucinanti notizie di cronaca spicciola (donna che uccide i vicini di casa perché il loro cane abbaia, genitore che riduce in fin di vita l’arbitro di una partita di calcio tra ragazzini, ecc… ) e da una riflessione che portiamo avanti da un pezzo sulle norme riguardanti la “Privacy”.

L’argomento potrebbe sembrare marginale rispetto ai fenomeni citati da Paolo, ma in realtà è ad essi strettamente connesso. Le norme sulla “privacy” limitano infatti giustamente la diffusione di notizie riguardanti il singolo, ma hanno anche l’effetto di rendere difficile farsi un giudizio corretto sulla onestà e affidabilità dei propri concittadini. E non è un problema di poco conto, se è vero che tanto gli psicologi che i sociologi ritengono che la necessità di conservare una buona reputazione sia fondamentale per spingere gli individui a comportarsi in modo collaborativo, evitando il rischio di essere isolati ed esclusi dalla società.

Il controllo dei comportamenti dei singoli in una società, grande o piccola, non può essere ottenuto soltanto attraverso le leggi e con l’uso della “forza” per imporne il rispetto. Sappiamo, se non altro per esperienza diretta, che nei rapporti interpersonali quotidiani, ad esempio all’interno di un condominio, le nostre azioni sono regolate da una sorta di codice comportamentale riconosciuto da tutti (o almeno dalla gran maggioranza) che possiamo definire “buone maniere”. Il mancato rispetto di queste regole di comportamento, anche quando non è punibile dalla legge, comporta la riprovazione degli altri componenti del gruppo.

Occorre naturalmente distinguere tra le leggi, che hanno carattere vincolante per tutti i membri di una comunità, e a garantire il rispetto delle quali provvede l’istituzione, e le norme comportamentali non vincolanti che la comunità ha elaborato nel corso del tempo, che pur non essendo vincolanti necessitano comunque di una condivisione e determinano una forma di coesione. Ai fini del nostro discorso, però, la distinzione tra le norme vincolanti (le leggi) e quelle puramente consuetudinarie (i costumi) non è poi così importante. Importante è avere chiaro che in entrambi i casi si tratta di meccanismi che determinano esclusione o inclusione.

Inoltre, il “codice comportamentale” non va inteso come una serie di regole fissate una volte per tutte, ma come un criterio al quale queste regole devono ispirarsi nella evoluzione imposta dalle trasformazioni che progressivamente intervengono, per svariati motivi, all’interno di una società. Per fare un esempio, il “cedere la destra”, che era nel Seicento un costume di cortesia legato al riconoscimento di differenze gerarchiche, è divenuto nel Novecento una norma obbligata per regolamentare il traffico delle automobili (con l’eccezione scontata degli inglesi, che fanno storia parte, e fino all’avvento delle rotonde agli incroci). Il criterio sotteso a questo comportamento è quello della sopravvivenza del gruppo, ed è fondamentale che esso venga condiviso universalmente, pena il caos. Ciò vale naturalmente per tutti gli altri comportamenti sociali.

Quindi, in una società civile le regole vanno rispettate da tutti, e le consuetudini vanno quanto meno condivise, e possono essere cambiate solo se quelle che vanno a sostituirle risultano più funzionali alla coesione e alla sopravvivenza del gruppo. Ciò significa che un gruppo può permettersi gli innovatori, al di là delle resistenze opposte da quelle sue parti che dall’innovazione potrebbero ricavare svantaggi, ma non può tollerare i puri e semplici trasgressori.

Ci sono però dei problemi. Le società moderne hanno infatti codificato non solo le leggi da osservare, ma anche i diritti di cui l’individuo gode, che sono garantiti dallo stesso stato che impone il rispetto delle leggi. Questo avviene naturalmente là dove lo stato funzioni, quindi non sempre, o anzi, piuttosto raramente: ma in linea teorica le cose dovrebbero andare così. Il ragionamento teorico non tiene però conto del fatto che in alcune teste (ultimamente, in moltissime) sia maturata più o meno inconsapevolmente l’idea che i comportamenti positivi e cooperativi degli altri nei loro confronti siano “dovuti” (siano appunto considerati “diritti”), mentre i propri sono legati all’opportunità e ai vantaggi che possono derivarne. Ciò fa saltare il meccanismo della “reciprocità”, favorisce gli egoisti e sfavorisce gli altruisti, e mette in crisi processo di “auto-addomesticamento”. Il problema non sono dunque i diritti, ma l’ interpretazione in termini prettamente egoistici che dei diritti viene data da alcuni. Se questi alcuni diventano la maggioranza, finiamo nello stato in cui ci troviamo oggi.

La cosa è resa poi tanto più complessa in una società “globalizzata”. Il progredire delle scienze e dei commerci spinge verso la semplificazione e l’unificazione delle unità di misura, delle valute monetarie, dei linguaggi, mentre le dinamiche interne ai gruppi sociali spingono verso l’uniformità dei comportamenti e delle norme. In uno scenario di questo tipo la valutazione della “bontà” di un comportamento sociale suppone dunque un’unità di misura “comportamentale” il più possibile unica e condivisa, che compendi i valori funzionali alla sopravvivenza del gruppo espressi dalle diverse culture che sono a confronto. Questa valutazione non fa riferimento a valori presunti “assoluti”, ma a quelli attorno ai quali, in base alla loro funzionalità, si è coagulata la coesione del gruppo. In natura la scelta non è “morale”, tra il bene e il male, ma è strumentale, tra ciò che è utile alla sopravvivenza e ciò che non lo è.

Ora, le culture che vengono oggi a stretto contatto fino a ieri erano separate spazialmente da migliaia di chilometri e temporalmente da sfalsamenti di secoli (in alcuni casi, di millenni). Queste culture hanno fatto necessariamente riferimento, stanti le differenti condizioni ambientali e i singoli e distinti processi di “civilizzazione”, a valori diversi: di conseguenza anche i comportamenti che facevano acquisire buona reputazione erano diversi. Cerco di spiegarmi. Mentre non ci sono molti dubbi sulle differenze fra le condotte che creano buona reputazione per un camorrista e quelle che fanno di un contadino del Trentino un cittadino stimato, è molto più arduo stabilire cosa sia accettabile o meno quando le differenze non sono legate a comportamenti “delinquenziali”, ma attengono a prassi considerate normali in alcune culture. L’esempio che un tempo veniva più frequentemente citato è quello della immolazione sacrificale delle vedove in India, ma per rimanere nella nostra quotidianità e nei pressi di casa nostra potremmo considerare quello delle giovani figlie di immigrati pakistani uccise per non aver sottostato alle scelte matrimoniali loro imposte.

Che atteggiamento dobbiamo assumere di fronte e situazioni del genere? In fondo, per le famiglie pakistane si tratta di conservare una “reputazione sociale” in seno alla loro comunità. Queste pratiche se valutate in termini di coesione del gruppo, paradossalmente riescono socialmente “funzionali”. Lo cementano con la paura e la soggezione imposte al genere femminile (ma nel caso specifico dei matrimoni, vale anche per i maschi). E allora, per quanto schifati, dobbiamo, sia pure senza condividerle, almeno giustificarle?

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Qui vengono fuori le laceranti contraddizioni nelle quali si dibatte il pensiero occidentale. Se dobbiamo riconoscere pari dignità ad ogni cultura, il problema non si pone neanche. Accettiamo l’idea di società multiculturali, e finiamola lì. Il fatto è, purtroppo, che questo modello di società, là dove si è già spontaneamente realizzato, e mi riferisco a tutto l’occidente, compresi gli Stati Uniti, sta facendo acqua da ogni parte, perché la pari dignità è riconosciuta in realtà solo in una direzione.

Dobbiamo per questo giustificare tali situazioni, sia pure obtorto collo? Assolutamente no. Anche a prescindere anche dall’orrore morale del gesto (e questo rimane, quale che sia il valore che si vuol dare al termine “morale”), non possiamo farlo perché rispetto alla comunità più ampia che la globalizzazione va configurando oppongono una resistenza discriminatoria, e perché di fatto negano tutta la cultura del diritto individuale sulla quale la nostra civiltà si fonda.

Insomma, la scomparsa di un codice comportamentale condiviso determina in automatico lo sgretolamento del gruppo, che non dispone più dello strumento di controllo che ne garantiva la compattezza, e quindi la sopravvivenza.

E a questo punto entra in ballo anche la controversa questione della privacy. Tra i diritti cui facevamo cenno sopra quello alla privacy è il più recente e il più ambiguamente rivendicato, e va in direzione totalmente opposta rispetto al meccanismo di controllo sociale dal quale abbiamo preso lo spunto per queste righe.

È un argomento delicato: i confini fra l’interesse pubblico a conoscere per farsi un’opinione sui concittadini e il diritto di questi ultimi alla riservatezza sono difficili da tracciare. Ci limitiamo quindi ad alcune osservazioni spicciole.

Ultimamente, davanti alle misure ipotizzate per contrastare la diffusione del Covid-19, si è sbandierata da più parti la preoccupazione che tali misure non rispettassero le norme previste per la protezione dei dati personali, ovvero il diritto alla riservatezza. Non sto a mettere in dubbio tale diritto per i dati riguardanti la salute e le relazioni personali, o comunque per tutti i dati che, se divulgati, possono umiliare persone in situazioni di disagio, o peggio, se finiscono nelle mani sbagliate, possono essere usati in modo fraudolento. Voglio dire che siamo perfettamente consapevoli dei rischi comportati da una intrusione così profonda nel nostro privato, ma cerchiamo di inquadrare la situazione dal punto di vista più generale del funzionamento di ogni società animale, compresa quella cui volenti o nolenti anche noi umani apparteniamo.

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Davanti ad un’emergenza globale come quella creata dalla pandemia (a meno di voler credere che la pandemia sia un trucco escogitato dai “poteri forti”, ma qui si sconfina nella paranoia) le istituzioni demandate a salvaguardare la sopravvivenza di un gruppo (e a farlo letteralmente, nell’occasione specifica) e la sua compattezza non possono andare tanto per il sottile in tema di riservatezza. In un conflitto tra il diritto individuale e l’interesse collettivo chi si trincera dietro il primo in automatico si auto-esclude dal gruppo. Tutto ciò a prescindere dal fatto che in realtà i dati più sensibili, senza attendere l’occhio del Grande fratello istituzionale, già volano liberamente nell’etere attraverso il circuito dei social.

Ma forse una riflessione di questo genere è davvero prematura: non siamo ancora usciti dal Covid, non sappiamo quando e come ne usciremo, e meno che mai come ne usciranno i nostri diritti e i nostri meccanismi di inclusione-esclusione. Veniamo invece a situazioni più prosaiche, meno complesse e già definite, che pongono comunque il problema di quali altre informazioni riguardanti i nostri concittadini devono essere riservate.

Dopo l’alluvione che colpì Alessandria nel 1994, l’amministrazione comunale decise di non rendere accessibili i dati relativi ai rimborsi ottenuti dai cittadini che avevano subito danni. All’epoca (ricorda Nico) criticai dai banchi della minoranza quella scelta, sostenendo che rendere pubblici tali dati non equivaleva a pubblicare l’elenco delle elargizioni ai poveri fatte dalla Caritas; trattandosi di rimborsi statali era giusto che i concittadini fossero in grado di sapere e di farsi un opinione. Mi sembrava assurdo esigere che tutto ciò che ci riguarda non sia conosciuto dagli altri membri della comunità, quando poi da essa pretendiamo solidarietà e protezione. Forse che ci sentivamo meno liberi quando i giornali pubblicavano i nomi dei promossi nelle varie scuole, o l’elenco dei contribuenti con i dati delle somme pagate per le imposte comunali? Naturalmente l’amministrazione andò per la sua strada. Non solo: negli ultimi vent’anni sono anche scomparsi gli elenchi coi nomi dei promossi e quelli dei contribuenti.

A noi il dubbio rimane: il fatto che tutti potessero sapere quanto un vicino pagava di tasse e spettegolare in proposito aiutava a combattere l’evasione? Non lo sappiamo, non abbiamo una risposta certa, ma riteniamo che qualche riflessione in proposito andrebbe fatta. Forse dovremmo chiederci se tutte le soluzioni normative che egoisticamente ci sembrano “giuste”, perché rafforzano i nostri diritti, in realtà non mettano in crisi i meccanismi che hanno contribuito alla creazione di comunità “morali”. Il che non può che preludere al disfacimento di quelle comunità.

Ariette 8.0

Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». (n.d.r).

Salvatore

Ariette 8 02

di Maurizio Castellaro, 10 aprile 2022

Salvatore il siracusano mi ha appena augurato su whatsapp una buona Domenica della Palme inviandomi l’immagine di una bella colomba in arrivo con tanto di ramo d’ulivo e luce sacra. Sta cercando di trovare un lavoro. Nel suo cv ci sono scritte tante cose ma non che, capo degli ultras, da anni entra e esce di galera poiché ogni tanto gli capita di rompere qualche testa allo stadio. È un omone di 120 chili con le mani grandi come pale e il sorriso dolente, padre di 4 figli, il primo arrivato quando aveva 17 anni. Provo a mettermi un attimo nei suoi panni e sento che il gesto non è dettato solo dalla superstizione. Il mondo da sempre gira in modi che non comprende. La speranza che dopo la caduta possa sempre esserci una redenzione è un pensiero semplice e potente, capace di sostenere un progetto di rinascita, certo sempre fragile e provvisorio, perché lo sappiamo bene che il cuore umano è un guazzabuglio. Nella “Scuola di Atene” di Raffaello Platone e Aristotele incedono verso di noi, e con il loro gesto decisivo ci propongono risposte diverse alla stessa eterna domanda di senso. Ma alla fine dove la possiamo trovare oggi la verità? In un mondo ideale sovraumano, che da sostanza è divenuto forma e poi favola per bambini? Oppure in una natura retta da leggi matematiche e meccaniche, ormai lasciata ad arrugginire in qualche deposito dimenticato? Oggi noi interpretiamo il mondo con le teorie deboli della complessità, della statistica, della relatività. In due parole: più siamo arrivati a conoscere più ci siamo resi conto che il mondo gira in modi che non comprendiamo molto bene. Un guazzabuglio che somiglia al cuore di Salvatore, che spacca le teste ma augura Buona Pasqua, un guazzabuglio che assomiglia tanto alla realtà che abbiamo intorno a noi, e anche dentro di noi, se siamo abbastanza onesti da riconoscerlo. Ecco, forse sentirsi parte di questo guazzabuglio, imparare ad accettarlo per quello che è in base alla nostra natura, che è renderlo un po’ meno guazzabuglio di quel che pur sempre rimane, ecco, forse questo assomiglia ad un pensiero di pace.

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Altruista sarà lei!

di Nicola Parodi e Paolo Repetto, 10 dicembre 2020

Per l’evoluzione non è importante essere intelligenti,
ma agire in modo intelligente[1].

In un precedente intervento (“La morale e le favole”) Nico Parodi ha elencato una serie di “postulati” (che non sono verità rivelate, ma “strumenti affidabili di lavoro”), da usarsi come base di partenza per approfondire la riflessione sul “come siamo arrivati qui”. Sottolineo il “come”, in quanto il “perché” ci porterebbe subito su un piano delicato, nel quale gli strumenti indicati da Nico tendono a trasformarsi in armi ideologiche a molteplice taglio. D’altro canto, crediamo entrambi fermamente che il nostro problema (“nostro” è riferito a coloro che le domande fondamentali se le pongono, e aspirano ad una conoscenza che non sia solo di superficie) stia proprio nella inveterata confusione tra i due avverbi, quella a cui aveva cercato di ovviare già un paio di secoli fa il buon Kant: possiamo legittimamente sforzarci di capire “come” funzionano sia la nostra mente che il mondo in essa riflesso, ma se ci chiediamo il “perché” sconfiniamo nella metafisica. La confusione purtroppo permane, e non perché il monito di Kant non fosse chiaro, ma per la nostra ostinazione a cercare un senso e uno scopo là dove non esistono (e se esistessero sarebbero comunque al di fuori della nostra portata). Il senso, lo scopo, siamo chiamati a conferirlo noi, e possiamo farlo solo partendo da una conoscenza la più ampia e approfondita possibile dell’ambiente naturale in cui viviamo, dei fenomeni che lo hanno trasformato e che continuano a farlo, dei processi evolutivi che ci hanno condotti a diventare, da animali inconsapevoli, esseri che si pongono le domande.

Il compito di rispondere a queste ultime è demandato alla “scienza”, che è appunto l’attività conoscitiva indirizzata a decifrare il “come”. Ciò non toglie che tutte le possibili direzioni di ricerca siano comunque connesse a un retropensiero metafisico, ovvero che ad ogni nostra indagine sia sottesa la domanda sulla motivazione, prima ancora che quella sulla causa. Ma nel caso della scienza possiamo far conto su un buon margine di obiettività: la scienza indaga su fatti (situazioni compiute) o su eventi (situazioni in essere), non su delitti. E in natura non si trovano motivazioni, ma risposte adattive a stimoli o a trasformazioni (per quella organica) e relazioni di causa ed effetto (per quella inorganica). Dovremmo imparare ad accontentarci di conoscere e chiarire queste, e fermarci sull’orlo di quella presunzione che secondo i nostri progenitori (che sul “come” erano – giustamente – ancora parecchio confusi, ma sugli azzardi del “perché” avevano già le idee molto chiare) è costata a Lucifero e compagni la caduta.

 

Le considerazioni proposte nell’intervento precedente da Nico e in questo nostro sono frutto del dialogo serrato e stimolante che abbiamo avviato negli ultimi mesi, riprendendo una consuetudine risalente addirittura a cinquantacinque anni fa, quando sedevamo nello stesso banco al liceo. Le strade diverse che abbiamo poi percorso, le scelte di studio e quelle lavorative, i modi e i luoghi dell’impegno politico e sociale, ci hanno tenuti lontani per un sacco di tempo, ma ci hanno condotto alle stesse convinzioni, a maturare un identico sguardo sulla vita in generale e sugli uomini in particolare. Ho voluto sottolinearlo perché la cosa mi sembra emblematica: se hai introiettato la lezione kantiana puoi prendere i sentieri che vuoi, viaggiare a piedi, a vela o a motore, ma alla fine approdi comunque alla stessa spiaggia. Ed è confortante trovarti in buona compagnia. Ti ridà la carica per proseguire con nuova convinzione nel viaggio. (P. R)

È trascorso un bel po’ di tempo da quando stavamo nello stesso banco. Di quel periodo non è possibile, per noi che si arrivava da paesi ancora totalmente immersi nella cultura contadina, non ricordare la scoperta dell’esistenza di mondi culturali diversi e sorprendenti. Con la curiosità e la voglia di apprendere il nuovo propria degli adolescenti (di quel tempo?, ci si confrontava su tutto, senza timore di affrontare argomenti che andavano ben oltre le nostre competenze. Ora, avendo introiettato come dice Paolo la lezione kantiana, dopo oltre mezzo secolo di studi e letture che hanno almeno parzialmente colmato le lacune, torniamo ugualmente motivati, più carichi d’anni ma anche più ricchi di esperienze, a rivivere quel confronto. Le considerazioni che proponiamo ne sono il primo frutto. (N.P.)

Riprendiamo dunque il discorso là dove Nico lo aveva interrotto la volta scorsa (e quindi, quanto segue va letto avendo presenti i “postulati” che aveva individuati in “La morale e le favole”). Lo facciamo proponendo un’ulteriore considerazione, che non era stata anticipata perché proietta quelle precedenti in uno scenario nuovo, andando a verificarle nella realtà storica (per essere più precisi, nella preistoria). I “postulati” riguardavano l’idea di morale e il suo riflesso sulla cooperazione (ma anche sulla competizione) in seno ad un gruppo. Vediamo se e come trovano conferma nei fatti.

Da un certo periodo in poi (diciamo tra i quindici e i cinquemila anni fa) al nomadismo legato all’economia di caccia e raccolta si è progressivamente sostituita una stanzialità connessa alle prime forme di domesticazione delle piante. La transizione non è stata incruenta, e ha lasciato traccia nelle narrazioni mitologiche di tutti i popoli, a partire da quella biblica del conflitto tra Caino coltivatore stanziale e Abele cacciatore-allevatore nomade. Ora, la domanda che ci poniamo è se il passaggio all’agricoltura abbia migliorato le condizioni di vita e di salute dei nostri antenati[2], o se invece non le abbia addirittura peggiorate (come appunto sosterrebbe la Bibbia), incidendo in negativo anche sulla libertà e sull’equità. La risposta oggi più accreditata (dalla paleontologia, oltre che dalle Scritture) è la seconda, anche se il tema è ancora parecchio controverso, soprattutto perché il dibattito è troppo spesso falsato da coloriture ideologiche. I dati dei quali siamo in possesso ci dicono che il passaggio da una dieta mista, carnivora e vegetariana, ad una basata essenzialmente sui cereali provocò un forte abbassamento degli standard alimentari, con una serie di conseguenze negative evidenziate dagli studi antropologici: riduzione dell’aspettativa di vita, significativa diminuzione dell’altezza media, carenze vitaminiche, e quindi maggiore mortalità infantile, diffusione delle malattie infettive e delle patologie degenerative delle ossa. Insomma, un quadro tutt’altro che confortante, che spiega come mai per diversi millenni, malgrado la produzione agricola fosse in grado di supportare una densità maggiore di popolazione e di creare riserve per i periodi di carestia, il tasso di crescita della popolazione mondiale sia pressoché rimasto stabile. Diciamo che si può affermare senza troppe esitazioni che gli agricoltori avevano condizioni di vita peggiori dei cacciatori raccoglitori.

A noi qui comunque interessa vedere che conseguenze ebbe il passaggio all’agricoltura sulla “morale sociale”. Va chiarito che questo ha a che vedere molto marginalmente con la discussione tuttora vivace su un aumento o meno della conflittualità tra gruppi e dell’attitudine interspecifica alla violenza. Ci sembra scontato che una maggiore densità demografica crei più occasioni di conflitto, mentre i recenti ritrovamenti di fosse comuni che risalgono a trentamila anni fa e che contengono i resti di individui barbaramente trucidati stanno a testimoniare come anche quella dei cacciatori-raccoglitori fosse una cultura tutt’altro che pacifica. Per “morale sociale” intendiamo dunque quella che ispirava e regolava i rapporti all’interno dei singoli gruppi, fermo restando poi che poteva essere eventualmente estesa ad altri gruppi, attraverso vincoli matrimoniali o convenienze collaborative.

La cosiddetta “rivoluzione neolitica” è avvenuta gradualmente, in tempi diversi e con processi autonomi nelle diverse aree, innescati in genere dall’esaurimento delle risorse di caccia conseguente un eccessivo sfruttamento, il restringimento del raggio d’azione di ciascun gruppo o un significativo cambiamento del clima. Questa rivoluzione ha comunque stravolto le modalità di acquisizione del cibo e ha modificando in modo pesante i valori su cui si basava la collaborazione (come vedremo nei punti successivi). In sostanza, gli “strumenti morali” prodotti nel corso dell’evoluzione non erano più rispondenti ai modelli di distribuzione e di cooperazione che si accompagnavano all’avvento delle società agricole. Condizioni di vita come quelle determinate dal passaggio all’agricoltura mettevano a dura prova l’istinto collaborativo, anche se questo non è mai venuto meno del tutto, in quanto la cooperazione rimaneva comunque necessaria per difendersi dalle scorrerie dei nomadi o dall’espansionismo di gruppi rivali (ma anche, al contrario, per guadagnare nuovo spazio alla coltivazione), e per la conservazione e la trasmissione di particolari contenuti culturali. In sintesi: per centinaia di migliaia di anni sono stati selettivamente premiati dei comportamenti collaborativi (quelli di cui si parlava in “La morale e le favole”) che poi, al mutare del regime economico, non avevano più una ragione evolutiva di essere.

Il cambiamento cui ci riferiamo è comunque avvenuto da troppo poco tempo per lasciare tracce genetiche estese e profonde nell’umanità. La mutazione “culturale” originata dalla trasformazione dell’economia (con la divisione specialistica del lavoro, la nascita di reti commerciali e di convenzioni sui valori di scambio, lo sviluppo della proprietà privata) ha generato nel corso degli ultimi dieci millenni modelli sociali (gli insediamenti ad alta densità di popolazione, la struttura gerarchica, la creazione di élites) e istituzionali (amministrazione centralizzata, organizzazioni politiche) totalmente sconosciuti in precedenza alla specie. Ma al contrario di quelli culturali, che hanno viaggiato al ritmo di una accelerazione costante (e hanno conosciuto una vera impennata negli ultimi due secoli), i meccanismi evolutivi procedono silenziosamente e lentamente: potrebbero essere attualmente al lavoro per modificare la nostra predisposizione alla collaborazione, ma – a meno di interventi di ingegneria genetica, sui cui esiti nutriamo più timori che dubbi – avranno necessità di altre centinaia di generazioni per ridisegnare significativamente il nostro corredo cromosomico. Il che significa che stiamo per entrare, o meglio, siamo appena entrati in una fase di anatra zoppa, per dirla all’americana, con la natura e la cultura che spingono in direzioni opposte.

Il fatto è che l’incongruenza fra i nuovi modi di produzione e i vecchi meccanismi morali selezionati evolutivamente, oltre che creare attriti fra gli individui, può innescare un meccanismo che inverte il processo di “autodomesticazione”[3]. Non stiamo mettendo in dubbio il successo dell’agricoltura nell’aver permesso, nel tempo, una maggiore disponibilità di cibo (e cibo = energia: diventare consumatori primari consente di saltare un passaggio nella catena alimentare, un buon vantaggio, considerando che ogni passaggio nella catena comporta una perdita dell’energia del 90%), ciò che ha consentito l’aumento della popolazione e un avanzamento culturale altrimenti impensabile: ma intendiamo dire che il nuovo modo di produzione ha messo in discussione gli strumenti morali che regolavano i rapporti tra gli individui, e che il risultato di questa sfasatura è stato in molte parti del mondo la trasformazione di modelli basati sulla cooperazione altruistica e sulla sostanziale uguaglianza fra gli appartenenti al gruppo in un modello di società, quella che oggi conosciamo, nella quale l’equità nella distribuzione delle risorse lascia molto a desiderare (l’un per cento della popolazione mondiale detiene e sfrutta oltre il cinquanta per cento delle risorse). Questo induce un’altra serie di considerazioni:

  • Intanto ci permette di valutare l’efficienza o meno di organizzazioni socioculturali che contrastano con le radici biologiche dei nostri comportamenti morali. La crescita demografica umana era indubbiamente iniziata (sia pure con una progressione lentissima) già prima della comparsa dell’agricoltura, favorita dalla conquista di sempre nuove aree di sfruttamento a spese di altre specie o di rami collaterali dell’ominazione. Le regole morali avevano quindi dovuto essere integrate culturalmente, per rispondere prima appunto all’aumento della popolazione e alla conseguente organizzazione tribale e poi al mutamento del modo di produrre cibo e alla specializzazione delle attività. Nel corso di questo processo di “culturizzazione” della morale il senso dell’equità, che attraverso l’evoluzione selettiva si era connaturato tanto da manifestarsi spontaneamente nell’infanzia, è stato messo a dura prova dagli squilibri nella distribuzione dei beni e dalla difficoltà nell’isolare i profittatori. In sostanza, in una organizzazione che favoriva il cumulo delle ricchezze (terre, immobili, averi) e una polarizzazione verticale del potere, i prepotenti, anziché essere isolati e puniti, hanno trovato col tempo il modo di giustificare le loro angherie, e il meccanismo di premio/punizione in molte comunità ha cambiato di segno, ad esempio punendo chi non accettava l’imposizione.

 

  • Ciò non significa affermare che “prima” i rapporti all’interno dei gruppi fossero idilliaci. Semplicemente, si davano meno occasioni di competere e più motivazioni a cooperare. La “morale sociale” nasceva da queste condizioni, dalla selezione adattiva degli individui con maggiore attitudine alla collaborazione e alla reciprocità. Venute meno queste condizioni, le carte si sono sparigliate. In qualsiasi società si scontreranno sempre l’interesse del singolo individuo e l’interesse del gruppo. Le differenze individuali esistono; preso atto che ci sono individui più intraprendenti ed attivi o abili in certe attività e che queste sono qualità utili, non funziona correttamente un meccanismo sociale che non ne riconosca l’utilità per il gruppo. Ma la cultura di società complesse è frutto appunto della storia di quel gruppo e di tutti (o quasi) i suoi componenti; senza questi contributi nessuno, per quanto intraprendente ed abile, riuscirebbe in qualunque impresa che vada oltre una difficilissima sopravvivenza.
    L’oggettività del fatto che la cultura – e la sua conservazione – sono prodotto della società e non dei singoli, rende fragili le basi del presunto “diritto naturale” sul quale si basa il capitalismo. Detto molto schematicamente, questo diritto si fonda sulla convinzione che la ricchezza prodotta sia merito pressoché esclusivo delle capacità imprenditoriali soggettive (gli altri fornirebbero solo forza lavoro), il che legittimerebbe l’imprenditore a trattenere tutta la ricchezza prodotta. La maggior parte delle società moderne assegna la funzione premiale quasi esclusivamente all’arricchimento, dando scarsa o nessuna importanza ad altri possibili meccanismi; è senza dubbio più facile far agire gli uomini utilizzandone i vizi (interessi egoistici individuali, espressioni del conflitto fra interesse a riprodursi come singolo fenotipo e necessità di collaborare[4]) piuttosto che far leva sulle spinte alla collaborazione che si sono evolute nel tempo. Per questo è necessaria una discussione più che approfondita per capire fino a che punto un tale riconoscimento in positivo dell’individualità può essere accettato senza mettere in crisi gli “strumenti” morali collaborativi indispensabili al benessere del gruppo, dal quale dipende quello del singolo. Studiosi di neuroscienze e di scienze cognitive, con estrema cautela, iniziano ad interrogarsi/ci sul libero arbitrio e su quello che ne consegue, ad esempio in termini di giustizia e funzione della pena[5].

 

  • Quindi: la morale che utilizziamo si è storicamente strutturata in modo piramidale, con le parti più vecchie che sono sostanzialmente integrate nel patrimonio genetico. E allora non è sensato imporre norme che entrino in contrasto con le strutture morali più antiche. Nico ricorda che quando iniziò l’epidemia di AIDS c’era chi si poneva il problema della ricaduta che la paura del contagio avrebbe avuto sui rapporti sociali. I “progressisti” più radicali parlavano di istituire l’obbligo per tutti i genitori di mandare i figli a scuola in ogni caso, in nome di una morale “superiore”, per evitare discriminazioni nei confronti dei bimbi contagiati o figli di contagiati. Dal suo punto di vista la proposta era insensata, perché contrastava con l’istinto di protezione dei genitori, e nel caso fosse stata approvata era destinata a creare reazioni fero oci, oltre che la fuga da certe scuole. Riteneva anche che avrebbe indotto la maggioranza dei cittadini a punire politicamente qualsiasi schieramento la sostenesse.
    Un atteggiamento del genere è stato adottato, all’inizio dell’epidemia da coronavirus, dai “moralisti laici”, che censuravano ogni gesto che potesse sembrare discriminatorio nei confronti dei cinesi. Certo, la discriminazione spaventa per principio, ma in quel frangente chi se la sarebbe sentita di criticare una mamma con un bambino che incrociando un italiano di origine cinese, magari mai stato in Cina in vita sua, si fosse spostata istintivamente sull’altro marciapiede? Non si vuol dire che un gesto simile fosse razionale e corretto: stiamo solo prendendo atto che in quel frangente, e considerando anche il tipo di informazione confusa che arrivava (non che ora sia più chiara, ma abbiamo forse un po’ imparato a difenderci da soli: e infatti cambiamo marciapiede comunque, senza più fare discriminazioni su base etnica), era la risposta naturale, basata su una “morale sociale” ancestrale, ad un rischio per la sopravvivenza.

  • Uno dei prodotti culturali di maggior successo sono le credenze religiose e i culti comparsi nella preistoria e nelle successive epoche storiche, in risposta a esigenze e situazioni diverse. Secondo alcuni studiosi le religioni “moralizzatrici” sono nate quando le società avevano già raggiunto una popolazione ragguardevole: non hanno quindi contribuito alla nascita di società più numerose, ma sono piuttosto un portato di queste ultime. Questo significa che i caposaldi attorno ai quali si è poi articolato il nostro “sentimento morale” cooperativo risalgono a periodi precedenti quelli della comparsa delle religioni strutturate: e che queste ultime hanno semmai “consacrato” delle attitudini che erano già presenti negli umani pre-storici e che erano frutto dell’evoluzione naturale selettiva. In tal senso la predicazione cristiana dell’amore universale e il tabù induista dell’uccisione delle vacche sacre istituzionalizzano dei principi rispondenti, sia pure in maniera diversa, alle stesse finalità di sopravvivenza del gruppo. Non intendiamo comunque qui dare giudizi sull’utilità dimostrata in passato dalla religione, e consideriamo per quel che ci riguarda la tendenza religiosa un “effetto collaterale” dello sviluppo del cervello: ma vorremmo soffermarci a considerare se le religioni abbiano o meno ancora una funzione, in società che hanno raggiunto il livello culturale e tecnologico della nostra.
    Non c’è bisogno di essere degli appassionati di storia per richiamare alla memoria le guerre fatte o giustificate in nome della religione. Ne abbiamo purtroppo ancora testimonianza quotidianamente. In particolare, sono state molto attive in questo senso le tre religioni monoteiste, che con i loro libri sacri e le loro verità rivelate non accettano “l’empio orgoglio di Homo sapiens di decidere da sé nella vita collettiva e individuale”. È quindi indubitabile che le religioni hanno sempre pesantemente ostacolato la libertà di pensiero. Considerandole ora alla luce della funzionalità evolutiva, le religioni fondate sull’esistenza di una verità rivelata non funzionano più, sono diventate un ostacolo all’espandersi delle conoscenze, delle libere scelte e della convivenza cooperatrice. E quando affermano di non voler imporre nulla ai non credenti, lo dicono solo perché non sono più in grado di farlo.
    Ora, noi siamo però rimasti ancorati ad un concetto di difesa della libertà religiosa che ha avuto un senso fino a che la religione è stata in grado di imporre le sue verità. In quelle condizioni affermare che ciascuno aveva diritto di praticare la sua di religione, ovvero di credere a quello che riteneva giusto, era funzionale al libero pensiero e all’affermarsi della razionalità. Oggi, al contrario, permettere la divulgazione di credenze irrazionali mette a rischio la sopravvivenza dei principi su cui la libertà di pensiero si basa, i soli in grado di garantire la convivenza.
    E qui nasce un problema. Come la mettiamo allora con le religioni storiche? Mettere in discussione la libertà religiosa sembra infatti rappresentare una contraddizione, una violazione di quelle stesse libertà che si vuole continuare a garantire. Quindi di norma riteniamo che ogni professione religiosa vada rispettata, fatta salva naturalmente la clausola della reciprocità. Quando invece parliamo di fenomeni come quelli rappresentati dagli antievoluzionisti, dai no-vax, dai terrapiattisti, dai banditori di teorie le più strampalate, ma più in generale dalle varie “religioni laiche” che prosperano nel vuoto lasciato da quelle tradizionali, non abbiamo problemi a liquidare queste cose come idiozie, e come idioti pericolosi che andrebbero fermati i loro sostenitori: e un tale atteggiamento non lo consideriamo affatto liberticida. Questo perché in noi quello che abbiamo definito un “effetto collaterale” continua ad esercitare la sua influenza, e siamo almeno emozionalmente più vicini a chi cerca soluzioni del tipo religioso tradizionale.
    Per superare quella che può apparire una contraddizione è necessario dunque distinguere. In realtà le due cose, le religioni tradizionali e le nuove “religioni laiche” che si stanno affermando, pur nascendo da uno stesso bisogno di spiegazioni “metafisiche”, non sono affatto equiparabili: perché le prime, al netto delle strumentalizzazioni politiche ed economiche di cui sono state oggetto e malgrado il distacco dai fondamenti morali originari, rappresentano, o almeno hanno rappresentato, un rafforzamento dell’etica sociale, mentre le seconde preludono (ma potremmo ormai dire, conseguono) a un cambiamento sostanziale dei valori morali di fondo, ovvero al rigetto di quelli creati dall’evoluzione. Le prime in sostanza facevano leva sull’altruismo come cemento del gruppo (ciò che vale anche per le loro versioni secolarizzate, marxismo compreso), le altre favoriscono l’atomizzazione sociale e vellicano gli egoismi individuali. E quindi, mentre per le une, almeno in linea teorica, potrebbe anche essere ipotizzabile un ritorno alla valenza sociale originaria, proprio in ragione della loro decrescente rilevanza economica e politica (con l’eccezione dell’Islam, che costituisce un capitolo a parte), per le altre il discorso del ripristino di una “morale sociale” è chiuso in partenza.

 

  • Ma allora, alla luce di quanto abbiamo visto sin qui, del conflitto millenario tra una morale indotta dal meccanismo evolutivo e una di matrice essenzialmente culturale (cosa intendiamo in questo contesto per “cultura” dovrebbe ormai essere chiaro), in che direzione evolverà l’attuale modello “ibrido”? Senza voler giocare agli indovini, si possono almeno ipotizzare degli scenari. Il dato dal quale non possiamo prescindere è che non sono affatto venute meno le pressioni ambientali che avevano indotto lo sviluppo di una morale cooperativa. Dopo una breve stagione nella quale una parte almeno dell’umanità si era illusa di tenerle sotto controllo, o semplicemente se ne era dimenticata in nome delle “magnifiche sorti e progressive”, e aveva inaugurato una presunta “liberalizzazione” morale, quelle pressioni si ripresentano oggi nel formato globale: polluzione demografica, degrado ambientale, sconvolgimenti climatici, esaurimento delle risorse a causa di uno sfruttamento scriteriato, sono problemi che toccano ora direttamente e contemporaneamente più di sette miliardi di umani, e ai quali non si può ovviare come un tempo semplicemente spostandosi altrove. Il conto che la natura ci sta presentando è salato. A fronte di questo, le ipotesi prospettabili si riducono in linea di massima a tre.
    La prima, la più probabile perché in continuità diretta con ciò che già abbiamo sotto gli occhi, è che si continui a non prendere atto dell’evidenza, e l’umanità prosegua allegramente verso il baratro, applaudendo e ridendo come gli spettatori del teatro in fiamme raccontati da Kierkegaard. In tal caso gli scenari futuri non sarebbero molto diversi né da quelli mostrati in un sacco di libri (da L’ultima spiaggia a La strada) e di film (dalla saga di Max Mad a Equilibrium) del filone post-apocalittico, né da quelli immaginati quattrocento anni fa come originari da Hobbes, con un ritorno alla situazione dell’homo homini lupus, all’egoismo individuale di sopravvivenza precedente la nascita della morale.
    La seconda possibilità è che l’egoismo “culturale”, quello legato non alla sopravvivenza ma alla sopraffazione, abbia antenne talmente sensibili da cercare di ovviare all’imminente catastrofe con un riordino sociale forzato, dai costi umani altissimi, che implicherebbe la perpetuazione di un assetto fortemente gerarchico e cristallizzato. Parliamo di quella che oggi viene da molti preconizzata come una “dittatura tecnologica”, riconducibile al modello dell’alveare, che ha svariate possibili declinazioni, dall’eco-dittatura al modello cinese, e che in fondo ha costituito una costante nell’immaginario utopico. In tal senso avremmo il trionfo della componente culturale su quella evolutiva. Per l’umanità si tratterebbe non solo di una “fine della storia”, ma anche della fine del processo evolutivo, della sua storia naturale.
    Rimane la terza, senz’altro la più improbabile, che trova però un minimo di conforto in un dato biologico: il nostro cervello è plastico, e pertanto quegli stessi agenti che avevano spinto originariamente l’evoluzione di una moralità sociale, l’addestramento, la trasmissione di cultura, le pressioni esercitate attraverso i sensi di colpa, il desiderio di mantenere la reputazione sociale ecc., possono ancora essere determinanti, sia pure nelle mutate condizioni ambientali. D’altro canto, fino all’età di sei o sette anni il senso di equità sembra essere indipendente dalla cultura in cui si cresce, mentre gli effetti di quest’ultima iniziano a farsi sentire in età successiva. Si tratta quindi di dare un adeguato terreno “culturale” di applicazione a quel senso dell’equità che a questo punto possiamo considerare innato, di rafforzarlo attraverso le modificazioni che i fattori culturali cui accennavamo sopra sono in grado di produrre in un cervello ancora in crescita. Ciò significa che le scelte future in materia di moralità sociale si giocheranno sugli stimoli che le generazioni dei nostri nipoti riceveranno in questa fascia d’età. E le scuole di formazione religiosa, le società marziali e istituzioni similari hanno dimostrato quanto funzioni “addestrare” gli individui prima della maturità (ferma restando la differenza tra un semplice travaso di credenze e nozioni e l’educazione ad un atteggiamento cooperativo).
    Stiamo parlando in questo caso di una rivoluzione radicale, che riguarda tanto i modi quanto i contenuti della conoscenza. Ovvero dell’altra faccia dell’utopia, la rivoluzione “dal basso”, che parte dall’individuo stesso: quella che ancora con Kant era immaginata come una “uscita dalla minorità”, e che oggi assume piuttosto l’aspetto di un “rientro nella moralità”.
    Probabilmente siamo ormai fuori tempo massimo per sperare in una svolta del genere, perché la natura non aspetta i nostri comodi e perché i segnali che quotidianamente arrivano, politici e comportamentali di massa, parrebbero andare in un’altra direzione. Varrebbe comunque la pena provarci. Il cervello poi, in modo automatico, farà le sue scelte morali, perché non dobbiamo dimenticare che le stesse spinte “culturali” possono funzionare anche in direzione contraria. In aree geografico-sociali in cui esistono particolari subculture questi meccanismi culturali per la formazione di moralità hanno spesso prodotto risultati opposti.
    Dobbiamo allora anche chiederci se nelle società moderne funzionano ancora quei meccanismi di premio/punizione indispensabili alla conservazione del gruppo. E constatare che alcune scelte fatte in nome del progresso, e funzionali alla salvaguardia del diritto individuale, vanno in controtendenza. Le leggi sulla privacy, ad esempio (in linea di principio giuste e per alcuni aspetti encomiabili), contrastano con la funzione di guardiano della moralità sociale esercitata dal “pettegolezzo” e, se esasperate, producono danni. Anche alcune idee laiche, frutto dei lumi della ragione, rischiano di essere utilizzate per rafforzare il conformismo sociale con lo stesso meccanismo del dogmatismo di tipo religioso (il famigerato “politicamente corretto”).
    La stessa accresciuta stanzialità ha bloccato uno dei meccanismi con cui un gruppo poteva escludere gli individui che non rispettavano le regole. Nelle società pre-agricole se il gruppo si spostava chi era tendenzialmente non cooperativo non aveva altra possibilità che restare isolato, correndo i rischi conseguenti, o seguire gli altri adeguandosi alle loro norme di convivenza. L’aumento della concentrazione degli abitanti nelle grandi città, e ancor più la facilità degli spostamenti, hanno portato all’isolamento generalizzato degli individui, alla rarefazione dei rapporti sociali e quindi al mancato funzionamento del controllo sociale. Le norme indotte dalla crescente complessità della società più che rispondere al “senso di equità” servono a codificare diritti “difensivi”, di salvaguardia individuale, legati sia al modo di produzione che ai mutati rapporti fra persone. L’esplosione demografica eccede la capacità di gestione dei rapporti interpersonali costruita dall’evoluzione.

 

  • Anche altri meccanismi vitali, che agiscono sia negli unicellulari che negli organismi via via più complessi, in una società “progredita” come la nostra rischiano di produrre risultati che ostano al replicarsi della vita. Ci riferiamo alla “omeòstasi”, alla indispensabile capacità dei viventi di mantenere, generalmente attraverso meccanismi di retroazione, nello stato migliore i parametri vitali dell’organismo; caratteristica che, come sostiene Damasio, produce anche una “omeòstasi” sociale e culturale[6]. Gli esseri umani hanno tradotto le spinte vitali dell’omeòstasi in “ricerca della felicità”, e hanno addirittura inserito questa finalità nelle dichiarazioni di diritti universali e nelle costituzioni. Ma la ricerca della felicità, che serve a gratificare il “fenotipo”, confligge con la sua funzione biologica di quest’ultimo quale replicatore di geni, oltre che con gli interessi della società. Chi come noi vive nella parte del mondo economicamente più florida conosce svariati esempi di individui dalle elevate capacità culturali e morali che, per soddisfare le proprie aspirazioni, non si riproducono. In un mondo in cui Homo sapiens sapiens è rappresentato da un numero di individui superiore, a dir poco, di quattro o cinque volte a quello ottimale, questo potrebbe sembrare un fatto positivo: ma quale sarà l’effetto nel lungo periodo sulla conservazione e sul progresso della società? Quel che sembra certo è che il meccanismo della selezione si è inceppato, e che noi non siamo in grado di prevedere se ciò produrrà effetti positivi o negativi. Ma certamente i segnali non sono confortanti.
    La storia e la cronaca di questi giorni raccontano che non appena si manifesta una qualche emergenza spuntano i profittatori che cercano di lucrare sulle necessità altrui (il caso mascherine è solo l’ultimo, per il momento). C’è chi spiega il fenomeno, quando addirittura non lo giustifica gesuiticamente, con le leggi della domanda e offerta: ma questa interpretazione della correttezza dei comportamenti su base “mercantile” confligge con le intuizioni morali che si sono affermate evolutivamente. Ora, i profittatori ci sono sempre stati, sin dai tempi di Pericle. Ma almeno erano oggetto della pubblica riprovazione, e in qualche caso anche della mano della giustizia. Oggi i meccanismi di quest’ultima sono inceppati da una serie infinita di salvaguardie e guarentigie nei confronti del trasgressore, per non parlare del malfunzionamento e della corruzione, e l’opinione pubblica è talmente subissata da sempre nuove informazioni, vere o fasulle che siano, da dimenticare immediatamente o ignorare del tutto qualsiasi denuncia. Quel che è peggio, però, è che a queste situazioni ci stiamo assuefacendo, non ci sorprendono e non ci inducono allo sdegno, le liquidiamo con un po’ di disgusto e le rubrichiamo come quasi normalità. Il che significa che i tiranti morali che sostenevano una costruzione sociale durata millenni si sono allentati: e queste situazioni preludono di norma ad un crollo (anche qui, gli esempi sono freschi).

Ricapitolando. Sembra evidente che con l’aumento della popolazione e dopo l’avvento dell’agricoltura il modello di “strategia evolutivamente stabile” che ci ha accompagnato probabilmente per milioni di anni sia entrato in crisi.

Di intervenire a correggere i meccanismi evolutivi non se ne parla nemmeno (in realtà se ne sta parlando sin troppo: ci riferiamo all’ingegneria genetica): è un rischio inaccettabile, quand’anche fossimo in grado di correrlo, e davvero non sappiamo dove potrebbe condurre. Possiamo però almeno mettere in discussione quelle costruzioni culturali che essendo artificiali entrano in conflitto con la morale radicata nella nostra mente. Un esempio molto semplice e, soprattutto per gli italiani, di verificabilità immediata: condoni e iniziative analoghe provocano un deterioramento di quello che sociologi ed economisti chiamano “capitale sociale[7]” e sono perciò da rifiutare. E in positivo sarebbe semmai utile vagliare tutte le nuove norme alla luce della loro capacità di accrescere o distruggere “capitale Sociale”.

Sul futuro dell’umanità non ci pronunciamo. Ci sono sicuramente molti ottimisti, ma sembrano prevalere i pessimisti. Ad esempio, il premio Nobel Christian de Duve sostiene: «Quand’anche il nostro cervello – come è molto probabile – fosse perfettibile, le nostre società moderne non potrebbero fornire un’opportunità che consentisse alla selezione naturale di favorire i cambiamenti genetici pertinenti. Supponiamo, per esempio, che una combinazione promettente fosse presente nel genoma di Mosè, Michelangelo, Beethoven, Darwin, Einstein o chiunque altro; non ci sarebbe stata alcuna possibilità di propagare questa combinazione in forza di un qualche vantaggio evolutivo. Al contrario, le nostre società favoriscono semmai la tendenza opposta. […] Il cervello, che ha determinato il nostro successo, potrebbe anche provocare la nostra rovina, semplicemente per non essere abbastanza bravo a gestire le proprie creazioni.[8]» Ci trova perfettamente d’accordo.

 

NOTE

[1] Citazione a braccio, autore sconosciuto

[2] Marvin Harris – Cannibali e re – Feltrinelli

[3] Michael Tomasello – Storia naturale della morale umana – Raffello Cortina

[4] Richard Dawkins – Il gene egoista – Mondadori

[5] Antonio Damasio – Il sé viene alla mente – Adelphi; Stanislas Dehaene – Coscienza e cervello – Raffaello Cortina

[6] «In breve, la mente cosciente emerge nella storia della regolazione della vita – un processo dinamico sinteticamente indicato con il termine di omeostasi–, la quale ha inizio in creature unicellulari come i batteri o le semplici amebe, che pur non avendo un cervello sono capaci di comportamenti adattativi. Prosegue poi in individui il cui comportamento è controllato da un cervello semplice (per esempio i vermi) e continua la sua marcia negli individui il cui cervello genera sia il comportamento, sia i processi della mente (gli insetti e i pesci sono un esempio di questo livello). […]

La mente cosciente degli esseri umani – armata di sé tanto complessi e sostenuta da capacità di memoria, ragionamento e linguaggio ancora più robuste – genera gli strumenti della cultura e apre la strada a nuovi mezzi di omeostasi sociale e culturale. Compiendo un salto straordinario, l’omeostasi si guadagna così un’estensione nello spazio socioculturale. I sistemi giuridici, le organizzazioni politiche ed economiche, le arti, la medicina e la tecnologia sono altrettanti esempi dei nuovi strumenti di regolazione.

Senza l’omeostasi socioculturale non avremmo assistito alla drastica riduzione della violenza e al simultaneo aumento della tolleranza, tanto evidenti negli ultimi secoli. Né vi sarebbe stata la graduale transizione dal potere coercitivo al potere della persuasione che contraddistingue – a prescindere dai loro fallimenti – i sistemi sociali e politici avanzati. L’indagine sull’omeostasi socioculturale può attingere informazioni dalla psicologia e dalle neuroscienze, ma le radici dei suoi fenomeni affondano in uno spazio culturale. Chi studia le sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti, le decisioni del Congresso o i meccanismi delle istituzioni finanziarie può ragionevolmente essere considerato, indirettamente, alle prese con lo studio delle stravaganze dell’omeostasi socioculturale.

Sia l’omeostasi a livello fondamentale (guidata da processi non coscienti), sia l’omeostasi socioculturale (creata e guidata da menti riflessive dotate di coscienza) operano come amministratori del valore biologico. Le varietà dell’omeostasi – a entrambi i livelli, fondamentale e socioculturale – sono separate da miliardi di anni di evoluzione e tuttavia, sebbene in nicchie ecologiche differenti, perseguono il medesimo obiettivo: la sopravvivenza degli organismi. Nel caso dell’omeostasi socioculturale, quell’obiettivo si è ampliato fino ad abbracciare la ricerca deliberata del benessere. Va da sé che il modo in cui il cervello umano gestisce la vita richiede che entrambe le varietà di omeostasi interagiscano continuamente. Tuttavia, mentre la varietà fondamentale dell’omeostasi è un’eredità prefissata fornita dal genoma, la varietà socioculturale è un fragile work in progress responsabile di gran parte della drammaticità, della follia e della speranza insite nella vita umana. L’interazione fra questi due tipi di omeostasi non è confinata al singolo individuo. Dati sempre più numerosi e convincenti indicano che, nell’arco di numerose generazioni, gli sviluppi culturali inducono modificazioni del genoma.» Antonio Damasio Il sé viene alla mente – Adelphi

[7] «capitale sociale Insieme di aspetti della vita sociale, quali le reti relazionali, le norme e la fiducia reciproca, che consentono ai membri di una comunità di agire assieme in modo più efficace nel raggiungimento di obiettivi condivisi, come chiarito, per primo, da R. Putnam (Making democracy work: civic traditions in modern Italy, 1993).» Da Enciclopedia Treccani

[8] Christian de Duve – Alle origini della vita – Le Scienze

 

Lode alle relazioni futili

di Fabrizio Rinaldi, 23 agosto 2020

Sul piazzale di casa un’enorme personaggio di Botero è sdraiato a prendere il sole e a guadarmi ogni volta che apro la porta d’ingresso.

In realtà è una catasta di legna, che avendo la forma di un annoiato grassone mi rammenta l’urgenza della sua messa a dimora in legnaia; dovrò farlo certamente prima delle piogge autunnali, ma sino ad ora l’estate afosa ha fiaccato ogni volontà.

L’inerzia dura già dalla primavera scorsa, quando la pandemia imponeva lo stare rinchiusi in casa. Inizialmente ero inebetito dalla situazione, dai dati del contagio e delle allarmanti immagini del coprifuoco, cui si aggiungeva un entusiasmo un po’ cinico per l’inaspettato e obbligatorio riposo. Lo stesso stato d’animo, in misura e in forme diverse, credo si sia diffuso un po’ in tutti.

Le attività lavorative consuete sono riprese dopo le prime settimane, anche se in modalità differenti (come nel mio caso), o si sono definitivamente chiuse per l’impossibilità di reggere situazioni economiche già precarie e rese definitivamente disastrose dalla pandemia. Per certi versi era quindi un esito già pronosticabile: la società odierna si fonda sull’equilibrio tra domanda e offerta, se uno dei due eccede, prima o poi il meccanismo s’inceppa.

Faccio un esempio: Ovada è una cittadina che si regge in piedi sulle pochissime piccole industrie non ancora affossate dalle ripetute crisi e dalla globalizzazione, su una campagna relativamente arretrata e su ben poco altro. Eppure, a fronte di circa 11 mila abitanti, nel 2019 contava ancora una sessantina di bar: un numero esagerato in proporzione agli abitanti. Ovada non è la Venezia del Piemonte.

Dopo tre mesi di chiusura forzata, molti non hanno rialzato la saracinesca, perché sconfitti dagli immutati costi d’esercizio o per l’insostenibilità economica delle nuove norme sanitarie. La stessa cosa è avvenuta per alcuni negozi di abbigliamento, in particolare per quelli più ambiziosi, che offrivano prodotti e praticavano prezzi alla portata delle sole star cinematografiche o dei super-manager. (Credo che l’ultima “celebrità” approdata ad Ovada sia stato Umberto Smaila, al tempo in cui facevano furore le tette delle conigliette di “Colpo grosso”, negli anni Ottanta). Questo mentre nessun imprenditore degno di nota si sognava di vedere questo territorio come una risorsa.

Ma anche molti artigiani hanno subito la stessa sorte. D’altro canto, non serviva essere fini economisti per capire che al primo scossone il castello costruito sull’illusione di un perpetuo benessere sarebbe crollato. Purtroppo la realtà ovadese non è riuscita nei decenni d’oro – e non riuscirà certamente ora, con i chiari di luna che ci attendono – a trovare una nuova identità, o a ritrovare quella antica. I nostri sembrano luoghi destinati al transito, placide colline dove trascorrere al massimo una notte (ma non di più) prima di approdare alla Liguria o alle Langhe.

Sta di fatto che cessato l’iniziale sbigottimento per il rapido diffondersi del virus, e venuta meno anche l’euforia per l’inattesa possibilità di oziare o realizzare ciò che da tempo si rimandava, sembra ora insorgere una generale inerte apatia, indotta dalla consapevolezza che questa situazione andrà avanti per un bel po’. La maggioranza si sta piano piano abituando a seguire gli accorgimenti per rallentare la diffusione del Covid, mascherina e distanziamento in primis, sia pure con diversa convinzione, ma non ha comunque testa per progetti che vadano oltre il giorno dopo. Molti hanno già optato per una fatalistica convivenza col virus, sperando che non li becchi o che lo faccia almeno in forma leggera. Qualcuno poi nega l’esistenza del problema o se ne frega, ma di questi non vale nemmeno la pena parlare, sono lo scotto (pesante) da pagare all’imperfezione e alla specificità umana: solo gli uomini possono essere stupidi.

Per quanto mi riguarda personalmente, constato che l’esigenza del distanziamento ha accentuato in me – ma credo di essere in buona compagnia – una preesistente difficoltà nello stare con gli altri. In effetti, non è che fino a mesi fa fossi un trascinatore di folle, che emergessi per acume o simpatia e che mi trovassi a mio agio nei momenti conviviali: ma sicuramente tolleravo meglio lo stare in mezzo agli altri (a piccole dosi, e in situazioni mediate sapientemente da mia moglie, che catalizzava su di sé le attenzioni). Ora avverto invece quanto sforzo mi costi il riannodare le relazioni con parenti, amici e colleghi: come se l’interesse fosse scemato, lasciando il posto ad una fatica – quasi fisica – a dialogare e manifestare un coinvolgimento.

Prima della clausura una constatazione del genere l’avrei risolta convincendomi che se quelle relazioni si erano concluse un motivo c’era, e che si trattava in fondo di una liberazione. Oggi, alla luce di questo forzato isolamento, devo invece ricredermi sulla loro importanza: in fondo sono esse a creare quell’humus sociale cui attingere nei momenti di solitudine, frustrazione e tedio, quelli appunto che l’attuale stato ci impone. Anche se si tratta perlopiù di legami utilitaristici, di circostanza o di sangue, tutti assieme intessono una sia pur fragile rete di sicurezza, all’interno della quale emergono poi – per dimensioni e resistenza – le poche ma solide funi principali dei rapporti profondi, quelli che davvero rendono la vita sensata.

Le relazioni “futili” riguardano, ad esempio, il fruttivendolo che ti mette una pesca in più nella borsa; il sino a ieri ignorato vicino, che ora mi parla del suo nuovo pavimento in cucina; il sorriso del pizzaiolo che non vedevo da mesi, in quanto anche la pizza mensile familiare era preclusa; la collega che dimostra interesse per le vacanze delle mie figlie, magari mentre sta pensando a come chiedermi le ferie o quale futuro lavorativo avremo (come se fossi un indovino). Bene, tutte queste effimere interazioni plasmano continuamente la personalità, in quanto generano esperienze.

Negli ultimi mesi anche queste relazioni apparentemente inutili si erano rarefatte, così come quelle importanti, in ragione del distanziamento. Purtroppo non hanno trovato in quel periodo adeguate sostitute che garantissero pari appagamento: non c’è social, media o videochiamata che possano rimpiazzare lo sguardo diretto, la postura dei corpi o il contatto fisico, in fin dei conti “la carne” dei nostri simili. Sia chiaro, non sono un caso Weinstein, ma ho aperto necessariamente gli occhi (come molti) su quanto esprimiamo di noi stessi con una stretta di mano, con lo sfiorare una spalla; persino nell’abbracciare e baciare diciamo molto di più di quanto potrebbero fare le parole.

Ci ho riflettuto. Fin da neonati capiamo come gira il mondo attraverso i sensi, in particolare con il tatto, e con quelli cerchiamo di stare al passo. Si sa che la sua privazione ha gravi conseguenza sulla salute, specie per gli infanti. Diventati adulti, escogitiamo altri linguaggi per comunicare le nostre intenzioni, riservando quello fisico solo alle persone più intime. Ebbene: questi mesi di privazione ci hanno dimostrato che siamo sì cresciuti, ma rimaniamo dei lattanti deprivati di un bisogno primario: il contatto fisico con i nostri simili.

Oggi abbiamo imparato che il virus infetta proprio attraverso queste interazioni, fisiche o sociali che siano. E lo si vede dall’incremento dei contagi di questi giorni, causato dalla spensieratezza (leggi “idiozia”) vacanziera. Quindi, senza relazioni il virus morirebbe, ma lo seguiremmo a ruota pure noi, poiché da esse dipendiamo e proprio esse ci caratterizzano. Dobbiamo inventarci una misura di mezzo.

Inoltre, la comparsa della pandemia ha sconvolto non solo i modi dello stare assieme, ma anche la percezione dello scorrere del tempo. Ne impieghiamo molto di più per realizzare ciò che fino a pochi mesi fa sbrigavamo velocemente, fagocitati in una corsa continua: dalla fila per fare la spesa alle interminabili call lavorative, dal cercare di metter giù due idee (come sto facendo ora) al sistemare la legna per l’inverno.

Le restrizioni esterne e lo smarrimento interno ingenerano, come dicevo all’inizio, l’apatia: una non-volontà che ci attanaglia perché le certezze sedimentate nelle nostre vite (e nelle generazioni precedenti) sono state spazzate via. Alla faccia di chi plaude incondizionatamente al rallentamento, però, questa non è una forma di serena tranquillità: nell’apparente stasi fisica e mentale, il nostro cervello cerca in realtà incessantemente una via d’uscita dal pantano, vorrebbe individuare differenti ed originali sicurezze. È vero che non sapendo quando e come ne usciremo viviamo in uno stato di perenne apprensione, e nella speranza di una veloce soluzione (il vaccino?) cui affidarci. Ma sappiamo ormai che una iniezione assolutoria non risolverà i problemi che ci portavamo dietro anche prima, e che hanno condotto a questa attualità.

Forse il grassone spiaggiato sul piazzale non è lì a spronarmi per la sistemazione della legna, ma semplicemente si gode il sole (e i ceppi si seccano), nella consapevolezza quasi mistica dello scorrere placido del tempo: ci attende un inverno lunghissimo, prima del ritorno della primavera. Le rondini non le porterà certamente il vaccino: ma almeno ora abbiamo la consapevolezza (coloro che ce l’hanno, naturalmente) che quello di prima non era il modo ideale di vivere. Forse è ora di assumerci la responsabilità di qualche significativo cambiamento.

Cambiare è sano, inevitabile e funzionale alla vita stessa. Possiamo negare l’evidenza della mutazione, ma avverrà comunque.

Quindi, caro grassone, goditi il sole perché, al primo temporale, ti sistemo io …

Collezione di licheni bottone

Commentari a “Le regole del gioco”

di Lorenzo Solida, 26 aprile 2020

L’articolo di Marco, che ho apprezzato moltissimo, sia nella sostanza che nella forma in cui è scritto, con una prospettiva fresca e accattivante, prende lo spunto dal tema del gioco; trovo che questo parallelo sia molto appropriato. Il gioco è, infatti, per i bambini, ma più in generale per tutti i cuccioli di mammifero, una delle attività fondamentali tramite la quale conoscere il mondo intorno a sé e simulare, in un ambiente protetto e gestibile, una grande varietà di situazioni; osservando le conseguenze dei propri comportamenti e le reazioni degli altri partecipanti il gioco aiuta a sviluppare le relazioni causa/effetto e, in parte, anche il senso di giusto/sbagliato.

La prima delle condizioni individuate da Marco (conoscere le regole) mi ha condotto ad una riflessione sull’origine e sulla conoscenza delle leggi che ho deciso di condividere con l’autore.

tutti conosciamo le regole di base di una convivenza civile, […] sappiamo che non bisogna uccidere, pagare le tasse e poche altre regole fondamentali

Questo insieme di norme condivise in modo quasi implicito dalla maggior parte delle persone è ciò che generazioni di filosofi hanno definito “legge morale”. Una delle migliori spiegazioni della legge morale che mi vengono in mente, semplice e incisiva, è quella descritta nello sceneggiato televisivo “Mi ricordo Anna Frank” del 2010: in una scena, ambientata in un campo di concentramento nazista, un professore ebreo spiega ad un soldato tedesco: “Ognuno di noi, nel profondo della sua anima, sa bene cosa è giusto e cosa è sbagliato. È come se tutti avessimo una bussola dentro, una bussola segreta che indica a ognuno di noi la stessa direzione: è questa la legge morale di cui tanto parlano i filosofi”.

Sebbene la legge morale possa includere o meno determinati princìpi a seconda della cultura della quale rappresenta l’espressione, e dunque possa variare con il trascorrere del tempo o spostandosi geograficamente, molti dei valori sono ricorrenti e universali; che si parli dei comandamenti biblici, del diritto romano o della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani alcuni precetti sembrano riproporsi con regolarità.

È interessante osservare che la legge morale non è necessariamente legata ad una connotazione religiosa, è una definizione più filosofica. La tematica è infatti trattata sia da uomini di fede, come sant’Agostino, che fanno discendere la legge morale da un principio di ispirazione divina, sia da laici, come Cicerone e Kant, la cui visione è legata ad una dottrina del diritto naturale o giusnaturalismo.

La legge morale, tuttavia, soddisfa completamente il bisogno di direttive necessarie a regolare tutti gli aspetti delle interazioni umane? È evidente che la risposta è negativa, la presenza di molteplici punti di vista, oltre che la varietà della attività umane e l’aumento di complessità dei modelli sociali con il progredire della storia dell’umanità non possono essere gestiti da una manciata di precetti su cui abbiamo raggiunto (forse) una visione concorde.

Ecco dunque che nasce l’esigenza di una qualche forma di regolamentazione, di una fonte comune del diritto a cui attingere: a seconda del modello sociale può essere un sovrano che di volta in volta dirima le controversie, un consiglio di saggi a cui sono riconosciuti pieni poteri o, in tempi più recenti, un insieme di regole a cui attribuire il valore di legge.

Il patto sociale su cui si fondano le società democratiche si esplicita in una dualità diritti/doveri nei confronti delle leggi: da una parte il cittadino è tenuto a rispettarle, dall’altra esse costituiscono un baluardo contro il libero arbitrio di chi esercita il potere, sono la garanzia di poter essere chiamati a rispondere delle proprie azioni solo nei casi e nei limiti da esse stabiliti.

In merito a questo, la Costituzione italiana, all’articolo 54, recita (in modo un po’ autoreferenziale): “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi” e dispone inoltre, all’articolo 25 “[…] Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.

Questa importante garanzia fornita al cittadino, nota come principio di legalità formale, è ripresa anche dal Codice Penale (ripresa inteso come gerarchia delle fonti, non cronologicamente, poiché il Codice Penale attualmente in vigore, seppur modificato in alcuni aspetti, è stato promulgato nel 1930, antecedentemente alla Costituzione), che all’art. 1 prevede che: “Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”.

Il rispetto di una legge è, tuttavia, intrinsecamente legato alla sua conoscenza da parte del cittadino, che potrebbe, in buona o mala fede, addurre come scusante l’ignoranza dell’esistenza di una disposizione normativa; proprio per questo, fin dai tempi del diritto romano, è stato stabilito il principio “ignorantia legis non excusat”, la mancata conoscenza della legge non discolpa. Questo celebre brocardo latino è esplicitamente ripreso nel Codice Penale italiano, che titola uno dei primi e fondamentali articoli, il 5°, “Ignoranza della legge penale”; ma è fisicamente possibile orientarsi nella babele di codici, norme, decreti? A riprova del fatto che il problema esista e che sia sentito non solo dalle persone comuni, ma anche dagli addetti ai lavori, è la presenza, all’interno del corpus giuridico, di norme in contrasto tra loro, magari a causa della mancata abrogazione di articoli di vecchia promulgazione e oramai dimenticati.

Guardiamo un po’ di numeri per renderci conto dell’ampiezza del fenomeno: a giugno 2018, secondo il sito giuridica.net, il numero di leggi in vigore si aggirava intorno alle 111 000, stima basata sui risultati del portale Normattiva gestito dall’Istituto Poligrafico dello Stato! Una cifra enorme, che tuttavia prende in considerazione solo gli atti pubblicati in Gazzetta Ufficiale, a cui si deve quindi aggiungere la corposa attività legiferativa delle regioni e le delibere comunali: il numero esatto è difficile da calcolare, ma alcune stime si aggirano tra le 150 000 e le 160 000 leggi in vigore.

La domanda appare scontata e un po’ demagogica: è davvero necessario un simile corpus normativo? Sembrerebbe di no, almeno a giudicare dal numero di leggi in vigore in Francia, circa 7000, o in Germania, circa 5000.

 

Per completare il quadro occorrerebbe anche domandarsi quanto le leggi, anche quando si sia a conoscenza della loro esistenza, siano scritte in modo comprensibile da persone non dotate di una specifica competenza giuridica; propongo un esempio, in cui mi sono imbattuto non molto tempo fa: non una norma attinente ad un settore molto specifico, magari una problematica molto tecnica di natura finanziaria, ma il semplice Codice della Strada.

Supponiamo di essere proprietari di una bicicletta (pardon, velocipede) e di voler sapere come comportarci quando cala il buio: la risposta, tramandata oralmente e conosciuta da tutti, è naturalmente di accendere le luci che devono essere obbligatoriamente presenti sul veicolo. Però, siccome siamo persone scrupolose, abbiamo il desiderio di controllare se non esistano altre azioni da intraprendere (ad esempio indossare un giubbotto riflettente, oppure se ci siano limitazioni alla circolazione in area extraurbana) e decidiamo di controllare. Dall’articolo 68, comma 1c, apprendiamo che la bicicletta deve essere munita “anteriormente di luci bianche o gialle, posteriormente di luci rosse e di catadiottri rossi; inoltre, sui pedali devono essere applicati catadiottri gialli ed analoghi dispositivi devono essere applicati sui lati”. Il comma 2, subito sotto, ci rimanda alle indicazioni d’uso dei dispositivi luminosi: “I dispositivi di segnalazione di cui alla lettera c) del comma 1 devono essere presenti e funzionanti nelle ore e nei casi previsti dall’art. 152, comma 1”. Diligentemente, individuiamo l’articolo indicato e troviamo scritto (mi si perdoni la lunghezza del testo riportato): “I veicoli a motore durante la marcia fuori dei centri abitati ed i ciclomotori, motocicli, tricicli e quadricicli, quali definiti rispettivamente dall’articolo 1, paragrafo 2, lettere a), b) e c), e paragrafo 3, lettera b), della direttiva 2002/24/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 marzo 2002, anche durante la marcia nei centri abitati, hanno l’obbligo di usare le luci di posizione, i proiettori anabbaglianti e, se prescritte, le luci della targa e le luci d’ingombro. Fuori dei casi indicati dall’articolo 153, comma 1, in luogo dei dispositivi di cui al periodo precedente possono essere utilizzate, se il veicolo ne è dotato, le luci di marcia diurna”.

Veicoli a motore? Ciclomotori, motocicli, tricicli e quadricicli, ma nessun cenno alle biciclette (ah già, velocipedi) e la situazione non migliora consultando la direttiva europea indicata. Dunque, se circoliamo con una bicicletta durante le ore notturne, magari su una strada non illuminata, dobbiamo essere muniti di impianto di illuminazione, ma possiamo tranquillamente tenerlo spento!

Quello che trovo interessante non è solo la mutua incompatibilità delle disposizioni riportate, ma la struttura stessa degli articoli, infarciti di riferimenti incrociati che ne complicano la leggibilità e che conducono, a volte, a vere e proprie cacce al tesoro all’interno di labirinti legislativi degni di Dedalo.

Il problema è, come al solito, di non facile soluzione: da una parte occorre semplificare il corpus giuridico, al fine di renderlo noto e comprensibile a tutti i cittadini; dall’altra, soprattutto negli ordinamenti di civil law (in cui, a differenza di quelli common law, è la codificazione delle disposizioni normative e non il precedente legale a costituire la fonte del diritto) è necessario prevedere la presenza di disposizioni che, almeno in via teorica, coprano tutti i possibili casi che si possono verificare. La semplificazione normativa è quindi una strada che è certamente necessario intraprendere (e non solo come promessa elettorale, ma con atti concreti!), ma con la dovuta sensibilità e preparazione, per non rischiare di ottenere un insieme di norme ancora più confusionario e sconnesso di quello attuale.

Solo così, con piena conoscenza e rispetto delle regole da parte di tutti, si potranno giocare con soddisfazione le “partite” che quel grande torneo che è la vita continuerà a proporci.

 

Le regole del gioco

di Marco Moraschi, 19 aprile 2020

A quanti giochi sapete giocare? Giochi di carte, altri giochi da tavolo, giochi all’aperto, videogames, giochi di squadra, solitari. Sicuramente moltissimi e, se ve la cavate abbastanza bene, sapete anche che esistono alcune semplici regole, comuni a tutti i giochi, da rispettare:

  1. Tutti i giocatori devono conoscere le regole del gioco
  2. Tutti i giocatori devono rispettare le regole del gioco

Fine delle regole comuni. Perché il gioco funzioni è infatti necessario che tutti i giocatori ne conoscano le regole. Vi è mai capitato di “fare una mano” con le carte scoperte per insegnare a qualcuno come si gioca? O di accordarvi all’inizio della partita per sapere se gli altri giocatori usano il 3 o il 7 nella briscola? Bene, allora sapete cosa intendo. Se poi qualcuno bara, il gioco diventa molto meno divertente e probabilmente salta.

Inoltre sapete anche che in tutti i giochi alla fine qualcuno vince, mentre gli altri perdono, difficilmente vincono tutti. Il bello di questi giochi, però, è che esiste la possibilità di fare sempre partite nuove e quindi hanno tutti la possibilità di vincere e di giocare partite più fortunate e altre meno. Ora vorrei però segnalarvi un gioco al quale sto giocando da moltissimo tempo, diverso da tutti quelli di cui abbiamo parlato finora. Si chiama: società civile.

Anche in uno Stato, infatti, esistono delle regole specifiche e valgono sicuramente anche le due regole comuni a tutti i giochi di prima, ovvero:

  1. Tutti i cittadini devono conoscere le regole (leggi) dello Stato
  2. Tutti i cittadini devono rispettare le regole (leggi) dello Stato

Vivere “in società” con altri significa infatti darsi delle regole e rispettarle, per il bene di tutti, ovvero per fare in modo che, a differenza di tutti gli altri giochi, nel gioco dello Stato tutti possano vincere. La prima delle regole comuni è abbastanza rispettata: tutti conosciamo le regole di base di una convivenza civile all’interno dello Stato, magari non sappiamo bene cosa succede se non le rispettiamo, non conosciamo i commi o i codici del diritto, ma sappiamo che non bisogna uccidere, bisogna pagare le tasse e poche altre regole fondamentali. I problemi arrivano invece sulla seconda regola comune: non tutti infatti rispettano le leggi dello Stato. Ed è per questo che in tutti gli Stati esiste una magistratura, che vigila sul rispetto delle leggi e punisce i trasgressori. Con la nascita della magistratura a vigilare sul rispetto delle regole, ecco però che è nata una stortura nel gioco. Normalmente quando giochiamo a Monopoli, per esempio, sono gli altri giocatori che vigilano sul rispetto delle regole, e comunque noi tutti che giochiamo siamo coscienti che se decidessimo di imbrogliare toglieremmo tutto il divertimento del gioco a noi e ai nostri amici, perché la partita sarebbe truccata. In altre parole giocando con i nostri amici non imbrogliamo perché capiamo che è giusto così, non perché altrimenti i nostri amici se ne accorgono e ci facciamo una figuraccia. Ecco, nel gioco dello Stato purtroppo ci troviamo spesso davanti a questa situazione: rispettiamo le regole non perché siamo convinti della loro importanza o efficacia, ma perché altrimenti veniamo multati o processati. E ancora quando veniamo multati o processati, anziché prendercela con noi stessi che non abbiamo rispettato le regole, ci lamentiamo perché siamo stati beccati in fallo, che sarà mai per una volta, lo fanno tutti, perché non dovrei farlo anche io? La magistratura esiste quindi per fare in modo che la maggior parte dei cittadini non sia tentata di infrangere la legge e per punire i trasgressori, ma ovviamente non può vigilare costantemente su tutto e su tutti. Spetta quindi a noi rispettare le regole del gioco perché è giusto farlo, per i nostri amici e i nostri parenti, per tutti coloro che vivono in società con noi all’interno di questo gioco.

Bisogna pagare le tasse perché le tasse finanziano i servizi dello Stato (e non sono pochi) e sono fondamentali perché il gioco possa proseguire. Durante una pandemia non bisogna uscire di casa, non perché se mi fermano non so come giustificarmi, ma perché è giusto adottare un comportamento responsabile nel rispetto degli altri. Non bisogna rubare non perché altrimenti si va in prigione, ma perché in questo modo imbrogliamo e il gioco perderà tutto ciò che ha di bello. Eccetera.

Il bello del gioco dello Stato è poi che in ogni momento si possono cambiare le regole del gioco. Certo non possiamo cambiarle da soli e decidere, per esempio, che da oggi andiamo a lavorare nudi perché i vestiti sono una moda obsoleta, perché così facendo verremmo gentilmente accompagnati dai carabinieri in un ospedale psichiatrico. Ma pescando dalle carte della democrazia possiamo raccogliere firme, organizzare comizi e tavoli di discussione, portare una proposta in Parlamento e convincere gli altri che occorre cambiare una regola per rendere il gioco migliore e più divertente per tutti.

Vivere in uno Stato significa siglare un patto con chi “gioca” insieme a noi, aderire a delle regole comuni e decidere di rispettarle perché solo in questo modo il gioco dello Stato può funzionare. E voi avete mai giocato al gioco dello Stato?    

La società aperta e i miei amici

Ovvero: come trarre dalle esperienze di vita indicazioni (negative) sulla società possibile

di Paolo Repetto, 1999

Non so se tutti nascano ottimisti. Dal momento che sono un ottimista, credo di si, e credo che solo col tempo la gran parte degli umani cambi la propria attitudine rispetto al mondo, chi più chi meno, sulla scorta delle esperienze che ne ha fatto. Io sono una delle rare eccezioni. Ho più di mezzo secolo di vita alle spalle, tra l’altro piuttosto intensi (il mezzo secolo in generale, e la mia vita nello specifico), e continuo ad essere un ottimista. Ma sono un ottimista critico. E in questo caso l’ossimoro non ha funzione retorica, marca una specificità quanto mai importante.

È importante perché nel caso qualcuno riesca a mantenersi ottimista una volta superati i cinquant’anni si danno due possibilità: o è un idiota, o è un ottimista critico. L’idiota è colui che ritiene che in generale le cose vadano bene così. L’ottimista critico è colui che pensa che le cose così non vanno bene, che ci si può adoperare per farle andar meglio, ma che non bisogna dimenticare quanto il margine di miglioramento sia scarso. Differisce dal pessimista perché quest’ultimo ritiene che detto margine sia pari a zero. Sembra una differenza minima, invece è sostanziale, perché nel secondo caso non ha senso alcuno sforzarsi per un cambiamento, e si finisce per assumere lo stesso atteggiamento mantenuto dall’idiota: mentre nel primo si è motivati ad un ulteriore sforzo per moltiplicare quelle scarse probabilità e tradurle in pratica.

Oltre che dall’ottimista tout court e dal pessimista, l’ottimista critico differisce però anche da un’altra categoria: l’ottimista acritico. Quest’ultimo è colui che pensa che così come stanno le cose non vadano bene, che ci siano possibilità di migliorarle (tante o poche, non importa) e che attuando queste ultime le cose non andranno solo un po’ meglio, ma proprio bene. In sostanza è un potenziale idiota soddisfatto, che per perseguire il suo ideale di perfezione può comportarsi a volte come un idiota pericoloso.

Naturalmente ottimisti critici non si nasce: lo si diventa, per lo stesso processo che porta la gran parte a diventare pessimisti, e qualcuno ottimista acritico. Si debbono attraversare diversi stadi, ed è comunque una condizione alquanto instabile, sempre sul filo del rasoio, della caduta nel pessimismo da un lato o nell’acriticità dall’altro.

A vent’anni ero quasi un ottimista acritico. Credevo nella rivoluzione in generale, magari più in quella anarchica che in quella comunista. Era appena morto il Che, si cercavano gli eredi, in pectore mi sentivo tale, sentivo di avere carisma, forza fisica, resistenza al dolore, sprezzo del pericolo e intelligenza a iosa. Purtroppo avevo ancora un po’ di cose da sistemare a casa, prima, e dovevo per il momento soprassedere: ma, soprattutto, ero impegnato a dissipare le già scarse potenzialità di realizzazione di una mia normale vita sentimentale.

A trenta ero quasi un pessimista. Avevo visto i miei “compagni” del sessantotto sciogliersi come neve al sole, incamminarsi per le vie dell’Hare Krisna o delle Brigate Rosse, o più semplicemente dell’ ufficio, non ero ancora entrato di ruolo e avevo già due figli alle spalle, la Bolivia era più che mai lontana e gli orizzonti mi si stavano chiudendo attorno. Le poche esperienze politiche concrete mi avevano fatto conoscere la pochezza, quando non l’ipocrisia, della sinistra ufficiale, e la balordaggine di quella extra-parlamentare. Di lì non c’era da aspettarsi nessuna rivoluzione, nessuna società nuova.

A quaranta ero tornato insofferente. Basta però con la palingenesi del mondo, col riscatto dell’umanità, che a quanto pare non ne vuole affatto sapere; vedevo invece possibili una palingenesi e un riscatto miei, o di pochi eletti come me. Fu il periodo del “come se”: provare a vivere fingendo che le condizioni esterne, sociali, politiche, economiche, fossero almeno vicine a quelle ideali. Fu in quel periodo che riscoprii la più antica forma di solidarietà. Tanti saluti ai compagni: se qualcosa si poteva fare, lo si poteva fare con gli amici. Con quelli era possibile perseguire piccoli progetti, realizzare piccole cose, divertirsi, capirsi soprattutto. Si poteva vivere tra noi “come se” quel sodalizio fosse un piccolo microcosmo isolato dal mondo, protetto contro l’imbecillità dilagante.

Ma non è durata. Il mondo ha fatto irruzione con la sua realtà, il lavoro, gli impegni familiari, il naturale logoramento dei rapporti. Ne siamo stati tutti travolti. Neanche quella parodia di rivoluzione era possibile.

A cinquant’anni (suonati) mi è ormai difficile dire cosa sono diventato. La piega presa dalle cose esterne non mi induce certo all’ottimismo (Bush è il nuovo presidente degli Stati Uniti, Bossi è ministro in un governo voluto dalla maggioranza degli italiani, siamo in guerra contro l’Afganistan, con l’Islam e con mezzo mondo, Ciampi chiede un tricolore in ogni famiglia), e anche a titolo personale non va tanto meglio (ho una figlia in più, classi di studenti sempre più strinati da overdose di noia televisiva, tempo insufficiente per tutto). Ma sono anche consapevole che troppi dei valori ai quali mi aggrappavo, e che ho visto crollare con dolore, erano in realtà effimeri, contingenti, qualche volta addirittura fasulli; e in definitiva il loro crollo non mi pesa più di tanto. Credo sia invece importante difendere quei pochi che hanno retto all’usura dei tempi e dell’età, e magari rivalutarne altri, più semplici, dati in genere per scontati o volutamente sottostimati. Sono valori intimi, appartenenti alla sfera individuale piuttosto che a quella sociale. Valori a cui hanno sottratto peso e significato nel tempo la mistificazione letteraria, e poi cinematografica e mediatica, la banalizzazione pubblicitaria e consumistica, la strumentalizzazione religiosa e politica. Sono, ad esempio, i valori affettivi. Sembra, detto così, la riscoperta dell’acqua calda: ma anche l’acqua calda può diventare un valore, quando si sono dovute subire troppe docce scozzesi. Diventa un valore per il solo fatto che si impara ad apprezzarla, invece di darla per scontata, o di considerarla una debolezza per fisici non temprati.

È un tema ostico, questo degli affetti. Siamo talmente abituati a celarli, oppure a vederli parodiati, sviliti, anatomizzati nel demenziaio televisivo, che da un ritegno in qualche misura giustificabile siamo passati nei loro confronti alla vergogna e alla paura. Ci vergogniamo di provare, di dimostrare, persino di essere oggetti di affetto. E così, dopo aver più o meno ingenuamente sognato di cambiare il mondo, o anche solo di contribuire in concreto al suo miglioramento, oggi mi ritrovo a stilare amari bilanci su me stesso, sul mio vissuto, e mi accorgo di non essere mai stato in grado di rilassarmi per un attimo, di ascoltare, oltre quella della ragione, le tante altre voci che si levavano dal mio interno. Mi rendo conto che a furia di voler fare, anche nel mio piccolo, la felicità di tutti (o meglio, quella che secondo me avrebbe dovuto essere la felicità di tutti) ho finito per distruggere la già precaria serenità mia e quella di chi mi stava accanto.

E allora, dove sta l’ottimismo, sia pure critico? Beh, sta nel fatto che per intanto ho preso coscienza di essere anch’io, come tutti gli esseri umani, fragile e vulnerabile; di possedere un cuore e dei visceri che non marciano in sintonia col cervello, e che reclamano si dia loro ascolto; e soprattutto di potermi rapportare agli altri, finalmente, senza l’obbligo di offrire una adamantina esemplarità, e senza la pretesa che questa venga riconosciuta e in qualche misura ricambiata. È la coscienza, in sostanza, di un fallimento: ma è pur sempre una presa di coscienza, che può magari rimanere tale, e produrre solo rassegnazione, ma può anche tradursi nella volontà di rilanciare la sfida, con uno spirito e con un approccio diverso, e di non subire, ma costruire il futuro. Nei margini stretti, naturalmente, che mi saranno concessi.

E le indicazioni per la società futura? Devo in parte smentire la promessa del sottotitolo. Da questo angolo visuale non si traggono indicazioni di sorta: né su come sarà, né su come dovrebbe essere. Di certo c’è solo che non verrà realizzata alcuna società ideale, comunista, anarchica o democratica che si voglia. È anche probabile che quello riservato a miei figli non sia un mondo migliore rispetto all’attuale; ma questo lo hanno sempre pensato tutti, in ogni tempo, dai profeti biblici a mio nonno, e ho il sospetto che tale presunzione di negatività sia un espediente per tacitare il rammarico di non poterlo vivere, quel futuro. L’unica indicazione, quindi, riguarda non gli sviluppi auspicabili o deprecabili della società attuale, ma molto più modestamente quelli del mio impegno nei suoi confronti: che non verrà meno, ma sarà inteso, anziché a costruire improbabili e impopolari alternative, a difendere coi denti il piccolo spazio di libertà appena conquistato, quello di vivere senza reticenze e pudori i miei sentimenti.