I colori di Vilhelm Hammershøi

di Paolo Repetto, 11 dicembre 2018

I colori di Vilhelm Hammershoi copertinaLa vita e la pittura di Vilhelm Hammershøi (1864 –1916) sono state definite una “Sinfonia in Grigio”. Non accade niente nell’una come non è accaduto nell’altra. Ha studiato. Si è sposato. Ha abitato in un appartamento. Lo ha dipinto. Si è spostato in un altro. Dipinto anche quello. E questo è tutto.

Niente bambini. Nessuna guerra. Niente avventure. Le sue immagini raccontano silenzi senza fine e una sorvegliatissima malinconia (o forse disperazione), della quale non ci è dato conoscere alcuna ragione reale.

Il pittore sembra trascorrere il tempo a fissare tristemente le sue quattro mura danesi, riposizionando all’infinito i suoi riferimenti – il divano, il pianoforte, il vaso, la moglie. Quest’ultima è ritratta quasi sempre di spalle, nella quotidianità delle occupazioni domestiche o mentre guarda dalla finestra in lontananza. È forse un modo per esorcizzare lo scorrere del tempo, che all’interno di quella casa pare in effetti essersi fermato.

Il risultato è claustrofobico, ma troppo educato ed elegante, troppo sorprendentemente chiaro e preciso per essere drammatico. È invece sconcertante. E bellissimo.

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Le Sinfonie in Grigio di Hammershøi

di Paolo Repetto, 11 dicembre 2018 – vedi Album I colori di Vilhelm Hammershoi

I colori di Vilhelm Hammershoi copertinaLa vita e la pittura di Vilhelm Hammershøi (1864 –1916) sono state definite una “Sinfonia in Grigio”. Non accade niente nell’una come non è accaduto nell’altra. Ha studiato. Si è sposato. Ha abitato in un appartamento. Lo ha dipinto. Si è spostato in un altro. Dipinto anche quello. E questo è tutto.

Niente bambini. Nessuna guerra. Niente avventure. Le sue immagini raccontano silenzi senza fine e una sorvegliatissima malinconia (o forse disperazione), della quale non ci è dato conoscere alcuna ragione reale.

Il pittore sembra trascorrere il tempo a fissare tristemente le sue quattro mura danesi, riposizionando all’infinito i suoi riferimenti – il divano, il pianoforte, il vaso, la moglie. Quest’ultima è ritratta quasi sempre di spalle, nella quotidianità delle occupazioni domestiche o mentre guarda dalla finestra in lontananza. È forse un modo per esorcizzare lo scorrere del tempo, che all’interno di quella casa pare in effetti essersi fermato.

Il risultato è claustrofobico, ma troppo educato ed elegante, troppo sorprendentemente chiaro e preciso per essere drammatico. È invece sconcertante. E bellissimo.



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Cercasi buen retiro

di Fabrizio Rinaldi, 8 novembre 2018, da sguardistorti 05 – 2018 Natale

È inevitabile, prima o poi capita a tutti. Se non avvenisse, sarebbe un preoccupante segnale di instabilità mentale. […] ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi– per Melville – in mare, per altri salire in montagna, andar per boschi, correre, sbronzarsi, drogarsi, fare yoga, rifugiarsi in un’amena baita o in una città lontana dove “dissetarsi” di cultura o immergersi nelle fragorose distrazioni di un villaggio vacanze su una spiaggia tropicale.

Escludendo le modalità autolesionistiche, quelle del turista della domenica e quelle dei modaioli, per il semplice motivo che non mi interessano, le altre sono tutte opzioni lecite ed auspicabili per cacciare la malinconia e regolare la circolazione. Si offrono alla mente nel momento in cui si prova la claustrofobica sensazione di essere saturi e di non riuscire più a reggere la personale fatica quotidiana imposta da una sequela di impegni, quelli di lavoro, quelli relazionali coi familiari (a volte si vorrebbe prendere una vacanza dall’essere genitore e marito) e quelli imprescindibili per continuare ad avere una vita sociale, sia fisicamente che – oggi in modo particolare – digitalmente.

È allora che un pensiero ribelle comincia a ronzare dentro: cresce un’irresistibile voglia di fuggire per rintanarci in un buen retiro dove rallentare il ritmo, perderci, rigenerarci, ritrovarci e, dopo un opportunamente lungo lasso di tempo, tornare al quotidiano baccano, magari con qualche idea differente per affrontarlo.

Per artisti e scrittori di professione questo spazio a volte coincide proprio con il luogo di lavoro: ma non è questo che indagherò.  Vorrei qui parlare di quei posti dove fisicamente avviene la diserzione dalla quotidianità, anche lavorativa. Ognuno ha il suo luogo prediletto: Lev Trotsky trovò il suo buen retiro nella casetta di Frida Kahlo, dove i due discutevano e amoreggiavano; Hitler nel “Nido dell’Aquila” , sulle Alpi, dove progettava invasioni con i suoi gerarchi; Stalin invece, nella sua dacia vicino alle montagne del Caucaso, giocava a scacchi con ospiti a cui era concesso di perdere. Wittgenstein si rifugiò in una catapecchia affacciata su un fiordo norvegese per ragionare sui problemi filosofici che lo tormentavano (è quella dell’immagine d’apertura), mentre George Bernard Shaw scrisse le sue opere teatrali migliori in un granaio rotante che d’inverno poteva girare verso il sole. Heidegger infine si ritirò dal mondo accademico – anche per espiare l’esser stato un filonazista – per rintanarsi in una baita nella Foresta Nera. Si potrebbe continuare all’infinito, elencando personaggi più o meno famosi e tormentati che hanno trovato in un qualche escamotage abitativo lontano dal quotidiano, ove raccogliere energie e idee, trovare risposte, riposo e pace.

La modernità, lo sappiamo, impone ritmi sempre più incalzanti, ai quali ogni tanto, è lecito tentare di sottrarci. L’allontanamento è giustificato, necessario e auspicabile se a tempo determinato (a volte bastano solo pochi minuti). Se divenisse continuativo non sarebbe più un’evasione, ma una prigione o un esilio: una sottrazione dalla realtà che a me sembra una palese manifestazione di codardia, messa in campo per evitarsi responsabilità.

Fin da bambini cerchiamo un luogo intimo dove rintanarci; quando non siamo più tali, tendiamo a ricreare quell’area privata della nostra infanzia dove avevamo tempo per fantasticare e sognare.

Concedersi un rifugio, che sia una stanza tutta per sé o un luogo lontano dal consueto, è una necessità in quanto ci si rigenera e si genera il nuovo. È lì che si alimentano le passioni creative (manuali, intellettuali o sentimentali) ed è lì che si osa ciò che alla luce del sole non ci permettiamo: collezionare mosce per un macellaio, piallare legno per il ragioniere, scrivere versi per un autista di autobus.

Che sia riparare la bicicletta, leggere un libro, dipingere, scolpire o scrivere queste righe, l’atto della creazione ha bisogno di uno spazio dove agire. La scelta del luogo denota l’utilizzo che se ne vuol fare: quello sperduto in mezzo al bosco, su un’anonima collina, avrà una funzione ben diversa rispetto al bungalow in una ridente località balneare, o al garage dove risistemare mobili antichi. Il tipo di tana corrisponde, ovviamente, alle individuali attitudini. Non è poi necessario né rilevante che questo luogo sia o meno spazioso, può essere sufficiente anche l’angolo di una stanza. È essenziale però che sia ben distinto dagli altri ambienti, in qualche modo personalizzato, e soprattutto che la sua esclusività sia riconosciuta e rispettata dagli altri.

Per vincere la rabbia e il vuoto che la rabbia crea, bisogna dimenticare […]. E per dimenticare bisogna avere un rifugio dove assentarsi prima di ripartire.
GIAN LUCA FAVETTO, Premessa per un addio, Enne Enne Editore 2016

Non è detto neppure che il rifugio debba essere sempre lo stesso, e rispondere al modello consueto (quattro pareti, una scrivania, ecc …). Molto più spesso è un luogo mentale: oggi lo trovo in una carrozza del treno mentre mi concedo la lettura di un libro che mi appassiona, questa sera me lo ricaverò davanti alla tv, per guardare un film che aspettavo da tempo, giovedì sarà su un tappetino durante la seduta di yoga. Ogni mattina poi è rappresentato dall’uscita nel bosco sotto casa, dove porto il cane a scaricarsi.

Una cosa un po’ diversa sono invece i rifugi “storici”, quelli in cui un tempo i viandanti trovavano ristoro mentre viaggiavano da un luogo all’altro. Potevano essere situati lungo una antica via del sale, su un passo che tagliava la cresta di una montagna o in una foresta. In genere erano locali molto spartani, che offrivano poco più di un giaciglio al coperto. Oggi invece il mercato impone ai loro gestori una ristorazione di qualità, connessione internet adeguata, servizi inappuntabili, sempre però in un’aura di sobrietà, sia pure solamente apparente. Questo certamente non è il mio ideale di buen retiro.

Siamo costantemente iper-collegati alle responsabilità del nostro ruolo lavorativo, siamo immersi in una palude di relazioni virtuali che uniscono tutti, lasciando però ciascuno isolato nella sua “postazione”: ciò di cui abbiamo bisogno è “sconnetterci” dagli altri, per riapprezzare il lato buono della solitudine e per allontanarci dal brusio continuo della tecnologia.

Si, la solitudine. Si possono apprezzare veramente i vantaggi di un buen retiro solo quando lo si vive nel perfetto isolamento. Diversamente, non si sfugge alla tentazione di rientrare nella quotidianità, si perde il senso per il quale si è lì.

Il buen retiro non va però confuso con l’isola di Peter Pan: deve essere una situazione, un luogo, imperfetto, sempre migliorabile: deve tendere ad una idealità che rimanga però tale. La pace perfetta è solo quella eterna, e non è di questo che sto parlando.

Come dicevo prima, il buen retiro è per antonomasia un luogo tranquillo, appartato, dove fuggire da tutto, rimanere eclissati per il tempo necessario a rilassarsi, indagare, pensare, ricaricare il corpo e il cervello: e ciascuno naturalmente lo immagina a proprio modo e a propria misura.

Anch’io ho un mio luogo ideale, caratterizzato da uno stile sobrio ed essenziale che alluda ai principi giapponesi del wabi-sabi: semplicità, modestia, imperfezione e transitorietà. Quindi: una scrivania, una stufa, una libreria con i testi prediletti, un comodo divanoletto dove riposare o affondare. Pochi ammennicoli e orpelli –non importa se assurdi – che restituiscano il carattere del proprietario. Gli oggetti assumono un’eccezione esclusiva nella misura in cui lottano fra loro per poter qui esistere: per entrare nella stanza preferita devono essere utili (anche solamente nell’eccezioni simbolica), funzionali quanto belli. Qui la bellezza deve regale piacere al proprietario e non concedere nulla ai canoni visivi di eventuali visitatori. Wittgenstein riassume le armonie presenti in queste parole: “Etica ed estetica sono tutt’uno”.

Anche le scelte di illuminazione hanno un loro perché. Va bene la sobrietà, ma la corrente elettrica è indispensabile, non fosse altro per alimentare il portatile (o la piallatrice). La luce deve essere diffusa, senza risultare eccessiva. Quindi un paio di lampade, una da terra che diffonda luce indiretta e un’altra da tavolo che illumini ciò che stiamo facendo.

Non può mancare una finestra sul mondo esterno, che lo inquadri però senza creare distrazioni dal pensiero meditativo o dall’azione manuale.

Il mio buon retiro prevede poi il rispetto di una ritualità ben precisa, sia nel raggiungerlo che nei comportamenti da adottare al suo interno. Il percorso di avvicinamento carica infatti il luogo di desiderio, induce un’aspettativa forte che si scioglie solo quando si apre la porta.

Dopo aver raggiunto il rifugio, occorre modificare il nostro habitus mentale. Ciò che accade all’interno è parte costitutiva dello spazio, o meglio è la declinazione di quello spazio in una dimensione temporale. Sono gesti scanditi da una precisa tempistica, per sgombrare la mente e arieggiarla: si lascia fuori dell’uscio tutto il superfluo e il profano, si entra in un’area “sacra” .

Il rituale concerne anche la consumazione di cibo e bibite. In un rifugio spiritualmente “rigenerante” non è consigliabile pranzare: al massimo è concesso un spuntino quando l’appetito potrebbe disturbare il pensiero. Sorseggiare un bicchiere di porto o un buon the è preferibile al caffè, almeno per me. È nelle giornate più calde è ammesso persino il chinotto.

Nel rifugio il tempo stesso si concede una pausa: è più frammentato nei singoli ticchettii, è dilatato nella percezione e diventa esclusivo di colui che s’immerge in questo spazio fisico e mentale.

Non possono naturalmente mancare gli strumenti creativi, che si tratti di un portatile, di un taccuino, di penne o di pennelli, di tele, di colori, di morse e di sgorbie, di fornelli , di viti e di bulloni. Tutto ciò che invoglia ad evadere è ben accetto.

So solo che qui tutto è silenzio,
niente più assilli e costrizioni,
qui mi sento bene e posso stare in pace
poiché nessun tempo mi misura il tempo.
ROBERT WALSER, Poesie, Edizioni Casagrande 2000

La colonna sonora sarà dettata dal silenzio. Si può occasionalmente ascoltare musica, ma è da ricercarsi soprattutto il silenzio. Il suo raggiungimento è parte fondante del nostro luogo prediletto.

L’uomo libero possiede il tempo. L’uomo che controlla lo spazio è solo potente. Nelle città i minuti, le ore e gli anni sfuggono, sgorgano dalla piaga del tempo ferito. Nella capanna il tempo si acquieta, si accuccia ai vostri piedi come un vecchio cane ubbidiente. A un certo punto non vi accorgete nemmeno più della sua presenza. Sono libero perché lo sono i miei giorni.
SYLVAIN TESSON, Nelle foreste siberiane, Sellerio 2012

È opportuno anche sapere quando è il momento di staccare. Nel senso che dopo un po’, che lavori o che si riposi, il nostro cervello ha bisogno di rivolgersi ad altro,  magari ad attività opposte a quelle fino ad allora praticate: se scrivevo, ora spacco legna; se dipingevo ora cucino; se ero impegnato in un’attività manuale ora scrivo un verso. Oppure – questo va bene sempre – conviene uscire per una passeggiata nei paraggi.

La scelta dell’isolamento, sia pure temporaneo, può spaventare. Impone di essere totalmente seri e sinceri con se stessi, esige coerenza ed intransigenza nel resistere alla forte tentazione di connettersi con il mondo esterno, costringe a ridisegnare degli equilibri che escludono le certezze, vere o presunte, sulle quali fondiamo la nostra quotidianità. Credo che pochi siano attrezzati mentalmente a viverla senza disagio, con naturalezza. Per molti è solo l’ennesimo scotto da pagare alle mode.

Il buen retiro è infatti oggi sinonimo di lusso: in fondo implica la possibilità di sottrarre tempo al lavoro o alla vita di relazione per soddisfare un proprio intimo desiderio, e se la prima “opportunità” con questi chiari di luna sembra sempre più realistica, la seconda si allontana altrettanto velocemente.

Per la maggior parte, noi siamo più soli quando usciamo tra gli uomini che quando restiamo in camera nostra. 
HENRY DAVID THOREAU, Walden o Vita nei boschi, BIT 1995

Comunque, ad un certo punto, dobbiamo chiudere alle nostre spalle la porta (fisica o mentale) del rifugio per tornare nella nostra realtà. Se ciò non avvenisse sarebbe un’insopportabile sconfitta e il venir meno di tutto il senso dello stare là. Non avremmo fatto tesoro del tempo e dello spazio che ci siamo concessi. Mi viene alla mente Oriana Fallaci, che dopo anni vissuti in prima fila a raccontare le guerre del mondo si è rinchiusa in un appartamento di Manhattan, uscendone solo con un rabbioso pamphlet (La rabbia e l’orgoglio) contro il mondo arabo alcuni giorni dopo l’11 settembre 2001. Penso abbia perso una buona occasione per cercare di comprendere gesti così disperati (non di giustificarli, naturalmente).

È il mio rifugio, tutti ne hanno, ne dovrebbero avere uno. Un luogo, un ricordo, un pensiero, un sogno, un angolo di casa. Non importa. Un luogo tutto loro, che nascondono dentro sé e non mostrano quasi mai a nessuno. E se lo fanno è importante. 
LUCA VIDO, I contorni delle cose, Ellin Selae 1993

Il rifugio può diventare invece una finestra vera, non virtuale, su un mondo che a volte ci appare sbagliato e ostile, ma è l’unico nel quale ci è concesso di vivere. Quindi dovremmo approfittare del nostro ritiro volontario per sforzarci di capire, e progettare semmai un’opposizione ostinata ma fondata sulla convinzione che è sempre conveniente accogliere piuttosto che allontanare.

Il buen retiro è anche il luogo ideale dove morire. Come il gatto cerca un luogo nascosto per vivere in maniera dignitosa la propria fine –e glielo detta il suo istinto – anche noi vorremmo ricevere la visita della Vecchia Signora nel nostro luogo preferito, giocare l’ultima partita a scacchi con Lei, sorseggiare un ultimo the e poi uscire, consapevoli che quello spazio è in fondo tutto ciò che vorremmo che restasse di noi.

Ma senza di noi quello spazio non esiste, e se esiste non ha più significato: forse ci vorrebbe allora un bel falò, che bruciasse il buen retiro con il nostro corpo dentro.


Collezione di licheni bottone

Quando guardo il Viandante …

di Fabrizio Rinaldi, 19 maggio 2017,

… sto ad osservare.

Quando i Viandanti iniziarono a camminare insieme, m’immedesimavo nella figura del nostro simbolo come colui che guarda il proprio futuro con paure e speranze, ma sicuramente con tanta voglia di attraversarlo quel bosco che, scendendo dalla roccia, m’attendeva nella nebbia, per poi risalire sulla vetta del Tobbio.

Nel bosco i rovi delle personali esperienze lavorative e sentimentali m’avrebbero scorticato la pelle, ma mi resero per lo più un viandante del pensiero e meno del cammino.

La fortuna, o forse un’intrinseca sicurezza nella modalità di incedere lungo il sentiero, mi ha concesso di incontrare anche alberi che hanno fornito il giusto legno per costruirmi il bastone che m’accompagna: un legno flessibile e chiaro. Ad un certo punto ho piantato nel terreno quel legno e sono nate le mie due betulle: a rispuntare tra la nebbia della vallata e risalire quel crinale del Tobbio che si vede all’orizzonte, mai avrei immaginato che non sarei stato solo, ma lo avrei fatto con moglie e figlie. Mai!

… sto ad ascoltare.

Quando ora ripenso al quel Viandante, mi scopro a soffermarmi su ciò a cui presta attenzione con l’orecchio, ancor più che su ciò che vede.

Per lavoro ascolto parole dette e sottese dei miei collaboratori cercando di dipanare problematiche educative, organizzative e di relazione.

Per contrasto e desiderio di una libertà di pensiero, ricerco orizzonti relazionali dove non debba intendere e intepretare frasi e azioni, ma sentire il rumore del bosco o – ancor più difficile da individuare – il suono del silenzio: quello raro che si ritrova tra amici veri e che ci accompagna durante le nostre ormai sporadiche camminate insieme. Quel silenzio che non è mai d’imbarazzo, ma di comunione di pensiero o che si deposita tra un racconto e l’altro, pensando alle riflessioni dette e cercandone un’altra da condividere.

Oppure cerco il silenzio come esperienza personale che aiuta a dipanare e convivere quotidianamente con il mancato raggiungimento degli orizzonti previsti, ad esempio quelli che ci eravamo dati all’inizio dell’avventura con Viandanti.

Mi godo questo attimo di solitudine e assenza di rumori e suoni, prima che l’inquadratura s’allarghi e accolga anche le sagome delle mie bambine che ansimando dalla stanchezza per raggiungermi, ridono di me per il vestito e il bastone da damerino.

Collezione di licheni bottone

Elogio della solitudine

di Fabio Marchelli, da Sottotiro review n. 5, novembre 1996

Perché scrivere di un non-valore? La solitudine è stata per lo più considerata una condizione da cui fuggire, a qualsiasi costo; evoca, infatti, immagini di tristezza, di vecchiaia, di emarginazione, di morte.

Succede che io sono diventato uomo quando ho imparato ad essere solo; altri quando hanno sentito il bisogno di accompagnarsi.     CESARE PAVESE

Rivendicando invece il diritto alla solitudine, in un’epoca di cultura teleinvasiva, nella quale la superficialità batte la grancassa e i cretini prevalgono, si vuole recuperare quest’ultima come valore, anche se spesso essa presenta degli inconvenienti. Ci mette infatti davanti a noi stessi senza filtri, e a volte l’immagine riflessa non è quella che avremmo voluto vedere. Ciò nonostante l’esercizio dello star soli affina certi meccanismi cognitivi che permettono una più puntuale osservazione del proprio Io, e quindi risulta particolarmente efficace per capire chi veramente siamo.

Ciò non può avvenire, invece, in un rapporto a due, nel quale si è costretti a recitare un gioco delle parti che viene via via rappresentato nella perenne commedia del mondo.

La solitudine deve diventare però una scelta libera e consapevole, non soltanto sul piano psicologico, ma anche su quello temporale, perché solo così non rischia di ridursi ad una sorta di solipsismo intellettuale, ad un ripiegamento fine a se stesso, non costruttivo. L’ideale della solitudine è invece l’ideale della vis, della fiducia nelle proprie capacità, del distacco dall’umano consorzio. È quello perseguito dal viandante (per antonomasia, colui che viaggia non per conoscere ma per conoscersi), legato all’idea di solitudine errabonda, che assimila e si appropria delle esperienze altrui nel breve spazio temporale di una sosta, lasciando in cambio una traccia, un ricordo; o dell’eremita, che si ritira dal mondo secolare non in una cella claustrale, soggetta ai riti abitudinari della regola, ma cerca, in simbiosi con la natura, il proprio dio; o ancora del bibliofilo, che sogna il silenzio della Biblioteca (con la B maiuscola) per potersi immergere, in perfetta solitudine, in quella ricerca spasmodica e minuziosa di libri e documenti sconosciuti che ha elevato a proprio modus vivendi.

Insomma, il solitario che sceglie di essere tale è colui che ricerca, che sperimenta su se stesso il senso della libertà, intesa come assenza di ogni costrizione o impedimento, anche e soprattutto sul piano sentimentale. Come scriveva Pessoa, o meglio uno dei suoi eteronimi, Ricando Reis: “Nessuno ama un altro, ama soltanto \ ciò che di sé c’è in lui, o che suppone”. Che cosa ama (o suppone) Reis? Ama il fanciullo che egli è, che lo costringe a tracciare percorsi, ad immaginare itinerari sempre nuovi, a segnare una fittissima rete topografica della “Baixa”, per avere un’eventuale via d’uscita, nel caso la vita, o nello specifico la propria amata, lo costringessero ad assumersi quelle responsabilità che lui aborrisce.

Dal mio quarto piano sull’infinito, nella plausibile intimità della sera che sopraggiunge, a una finestra che da sull’inizio delle stelle, i miei sogni si muovono con l’accordo di un ritmo, di una distanza rivolta verso viaggi a paesi ignoti, o ipotetici, o semplicemente impossibili”. FERNANDO. PESSOA