Manuale di sopravvivenza (2)
di Paolo Repetto, 2004
Mi è stato chiesto di esprimere un’opinione sul futuro della sinistra, o meglio sulla possibilità che in futuro esista ancora una sinistra e, in caso affermativo, su quali potrebbero essere le sue prospettive e i suoi valori di riferimento. Ne ho approfittato per riordinare un po’ le idee e per aggiornarmi sugli interventi più significativi che hanno animato negli ultimi decenni il dibattito. Ho fatto qualche scoperta, come al solito tardiva, ma soprattutto ho trovato conferma di ciò di cui ero convinto da un pezzo: e cioè che il pensiero della sinistra non possa essere riformato, ma debba essere rifondato.
La riflessione che ne è scaturita non offre alcuna ricetta organizzativa e operativa: al di là del fatto che non ne conosco, credo convenga viaggiare per un tratto a ruota libera, prendendo le mosse da una rilettura critica dei presupposti sui quali si è fondato sino a ieri (e purtroppo continua per la gran parte a fondarsi) il pensiero della sinistra. Partire da un minimo di chiarezza su questi aspetti costituirebbe già un ottimo inizio.
Anche la critica dei presupposti teorici che vado a proporre non ha alcuna pretesa di originalità. Al di là delle modeste ambizioni di questo intervento, ritengo non ci sia bisogno di inventare nuovi schemi interpretativi della storia della modernità, e cioè della progressiva subordinazione dell’uomo e della natura alla logica dello sviluppo. Gli strumenti per una lettura in chiaro dello stato delle cose sono già disponibili da un pezzo (a partire almeno dalle analisi prodotte dalla scuola di Francoforte). Il fatto che la sinistra, tanto quella “ufficiale” quanto buona parte di quella “alternativa”, non ne abbia fatto uso, e li abbia anzi rifiutati, spiega perché oggi siamo qui a interrogarci non solo sulla sua essenza, ma sulla sua stessa esistenza.
Quando si affronta un tema così complesso vanno subito definiti i limiti e gli intenti della trattazione, e prima ancora l’accezione che si dà dei termini e dei concetti attorno ai quali ruota il discorso. Nel nostro caso si tratta del sostantivato “sinistra” e delle sue declinazioni.
In sostanza dobbiamo sapere di cosa parliamo quando parliamo di sinistra, o quanto meno dobbiamo accordarci su un minimo comune denominatore interpretativo. Io distinguerei del concetto di sinistra tre diverse fenomenologie:
• Una “reificazione” storica: la sinistra come grande movimento, in vario modo organizzato, che ha operato concretamente negli ambiti sociali e politici negli ultimi due secoli (ci faccio rientrare di tutto, dall’anarchismo alla socialdemocrazia).
• Una corrente di pensiero politico-filosofico: la sinistra come l’insieme delle idee che da sempre si sono proposte di realizzare in qualche modo una società più giusta. Anche qui parrebbe starci di tutto, ma non è così. Ad esempio, il millenarismo è qualcosa che non comprenderei nella corrente di pensiero di sinistra. È necessario dunque aggiungere che queste idee devono prefiggersi la realizzazione di un mondo migliore con le sole forze umane.
• Un’attitudine individuale etico-emozionale: la sinistra come disposizione dello spirito. Quale sia questa disposizione mi riservo di approfondirlo tra poco.
Esiste quindi un movimento storico di sinistra, che è il braccio operativo di un pensiero politico-filosofico di sinistra, che è il risultato della somma e del confronto di disposizioni etiche individuali. Io ho presentato queste fenomenologie in base a un criterio di visibilità, ma l’ordine andrebbe evidentemente invertito. Da una disposizione etica individuale nasce, attraverso il confronto con altri che partono dalla stessa disposizione, la formulazione di un pensiero politico, o l’adesione ad esso. Questo pensiero si traduce poi in una prassi storicamente e collettivamente agita.
Occorre pertanto partire dall’attitudine spirituale a sentire “a sinistra”. Credo che i valori distintivi di questa disposizione, quelli che hanno segnato e segnano ancora oggi una appartenenza a sinistra, siano:
• un atteggiamento sia emotivo che razionale di indignazione nei confronti di ogni forma di privilegio, di sopraffazione e di sfruttamento;
• il rifiuto di considerare l’ineguaglianza sociale come una fatalità o un portato naturale inestirpabile, e quindi la volontà di battersi per cancellarla o almeno alleviarla;
• la fiducia nella volontà e nella capacità degli uomini di mettere mano ad un miglioramento della società.
Ciascuno di questi valori è necessario per connotare l’appartenenza a sinistra, nessuno è di per sé sufficiente. E si tratta, come si può vedere, di connotazioni molto generiche. In effetti di questi valori sono e sono state possibili molteplici letture; la storia di queste letture è la storia stessa della sinistra, e l’esistenza di una sinistra oggi dipende proprio dalla capacità che avremo di modificare e di adeguare ai tempi l’interpretazione di questi valori. In questa sede, senza avventurarmi nella storia del pensiero di sinistra e delle sue reificazioni, farò riferimento solo alle linee generali che hanno lo informato, dando per scontata la conoscenza delle differenze, delle sfumature e delle contrapposizioni anche violentissime che ne hanno caratterizzato, nel bene e nel male, la vicenda.
Il concetto di Sinistra come posizione politicamente e socialmente connotata è coevo alla rivoluzione industriale (e per estensione, all’Illuminismo). Esso corrisponde al diffondersi di una coscienza laica e collettiva della intollerabilità delle diseguaglianze sociali, e di una conseguente volontà di rivolta finalizzata ad edificare “qui e subito” un sistema più giusto, senza attendere la mano di Dio. A monte di questa coscienza e di questa volontà ci sono il ribaltamento nella concezione della natura e del ruolo occupato in essa dall’uomo indotto dall’Umanesimo e dalla rivoluzione scientifica, e la ridefinizione dei rapporti tra gli uomini avvenuta nel passaggio da una comunità organica ad una società organizzata, con la trasformazione del modo di produzione e l’affermarsi di una inedita concezione del diritto e di una opinione pubblica. La richiesta di giustizia sociale e di egualitarismo non cresce tuttavia in opposizione o in alternativa al nuovo modello economico e sociale, bensì come variabile interna, come effetto collaterale (è significativo in proposito che i progetti di società utopiche, che cominciano a fiorire proprio all’inizio di questa trasformazione, si orientino da subito verso la soluzione urbana e industriale).
Tutta la storia della sinistra, fino ad oggi, è strettamente connessa a questo imprinting originario, all’essere frutto del grembo della rivoluzione industriale. Ciò ha implicato l’adozione da parte del pensiero progressista di una visione totalmente meccanicistica ed economicistica del mondo, di una considerazione dei rapporti tra gli uomini e del rapporto uomo-natura sotto le specie dei rapporti di produzione, di una concezione della vita, delle sue finalità e delle sue priorità subordinata all’ideologia della storia e del progresso. È senz’altro vero che la vicenda del pensiero di sinistra è costellata di presenze ereticali, soprattutto nell’area dell’anarchismo (ma non solo), di voci di dissenso, di tentativi di sganciarsi dalla logica della produzione e dello sviluppo: ma si è trattato per l’appunto di eresie, delle canoniche eccezioni rispetto ad una regola che ha informato più o meno apertamente tanto il pensiero marxista come quello social-utopistico, o liberal-sociale, o radicale, o anarchico.
Nella sostanza il pensiero di sinistra è stato eminentemente pensiero della crescita produttiva e dell’economicismo, né più né meno di quello capitalistico (anzi, attribuiva al sistema capitalistico la responsabilità di un rallentamento dello sviluppo). E sono convinto che le cose non avrebbero potuto andare altrimenti, che questo percorso fosse iscritto nei geni della sinistra come un vizio d’origine, a dispetto e in concomitanza con i valori fondanti di cui sopra.
Cerco di essere più chiaro. Se vogliamo riassumere in quattro righe la storia della sinistra possiamo dire che da un lato essa ha dato vita ad una tradizione di lotta e di combattività politica e sociale (con risvolti “umanistici” e civili notevoli) che mirava a riequilibrare il sistema capitalistico, mettendone in discussione gli esiti (diseguaglianza) ma non i presupposti (l’ideologia dello sviluppo); dall’altro, nelle sue componenti più organizzate politicamente e sindacalmente, ha svolto una funzione di ammortizzazione degli attriti, di contenimento e uniformazione dei dissensi, di trasmissione degli stimoli inviati di volta in volta da un sistema produttivo in costante trasformazione. Anche per quel che concerne le battaglie civili e sociali si è trattato essenzialmente di una funzione regolatrice, di un riequilibrio interno al sistema, e decisamente ad esso funzionale. Già al debutto, nel primo dramma ufficiale in cui la sinistra ha ricoperto momentaneamente il ruolo di protagonista, nella Rivoluzione francese, erano presenti tutti questi aspetti. Il terrore giacobino ha aperto la strada all’affermazione politica della borghesia, accelerando repentinamente la scomparsa della nobiltà, liquidando le sacche di resistenza del vecchio regime e spianando la strada alla modernizzazione. Nel contempo manifestava la sua consustanzialità al progetto capitalistico, ad esempio riformando il calendario in funzione della produttività, riducendo di due terzi i giorni non lavorativi. La faccenda ha continuato a funzionare così per i successivi due secoli, con un decorso endemico, rappresentato in primo luogo dalla creazione di un’area sempre più vasta di consumatori, attraverso la scelta di stampo economicistico di privilegiare tra gli obiettivi delle lotte la redistribuzione del reddito, e con periodiche esplosioni epidemiche, tipo il sessantotto, che hanno avuto il compito di attenuare il distacco tra realtà sociale e realtà produttiva, velocizzando le trasformazioni sociali e di costume necessarie a tenere il passo con la crescita economica.
Mi rendo conto che messa così la vicenda della sinistra può sembrare piuttosto squallida. Ma piaccia o meno è questa la nostra storia, anche a prescindere dagli svariati esperimenti di concreta attuazione del pensiero di sinistra, accomunati dal goffo e tragico tentativo di emulare e di sfidare il sistema capitalistico sul suo stesso terreno e al suo stesso gioco. E non è affatto squallida, perché a fronte delle risultanze oggettive di lungo termine c’è un immenso patrimonio di idealità, di sacrifici, di altruismo, di lucide analisi e di intuizioni anticipatrici, oltre che di concrete conquiste sociali e civili, che non va certo dimenticato e tanto meno ripudiato. Soltanto, questo patrimonio deve essere contestualizzato storicamente, rapportato alle realtà concrete delle epoche, delle aree e delle situazioni in seno alle quali e in contrapposizione alle quali è andato crescendo. Non possiamo più limitarci all’esegesi dei classici del pensiero di sinistra, canonici o eterodossi che siano, alla ricerca di conferme, di citazioni o di pezze d’appoggio: dobbiamo partire dalla critica di questo pensiero per individuarne le aporie, e liberare le braccia e la mente per nuove finalità e nuove forme di lotta.
La critica del pensiero di sinistra non deve dunque concernere i risultati, ma le premesse. Lo sviluppo che questo pensiero ha conosciuto sino ad oggi è stato legato alla necessità di operare di volta in volta dei riaggiustamenti di fronte alle trasformazioni sempre più veloci del modo di produzione industrial-capitalistico e ai loro effetti di ricaduta sul piano politico, sociale e culturale. Ma nell’ultimo mezzo secolo, e segnatamente nell’ultimo quarto, queste trasformazioni sono state di tale portata ed hanno determinato tali conseguenze da spiazzare completamente il sistema di valori della sinistra, che ha continuato a rapportarsi a modelli produttivi, sociali e istituzionali ormai superati. Nel volgere di pochissimi anni sono cambiati i referenti sociali, con le complicanze indotte dalla proletarizzazione di fatto (anche se non tradotta in coscienza, come avrebbe voluto Marx) dei ceti medi, dall’imborghesimento, almeno per quanto concerne le attitudini e le aspettative, del proletariato e dal ridimensionamento del peso politico qualitativo e quantitativo di quest’ultimo. È anche venuto meno il ruolo strategico della grande industria (e conseguentemente del gioco di forze interno ad essa) a favore di una imprenditoria diffusa e sfuggente ad ogni controllo, e sono cambiate le priorità nell’ambito economico, con il peso sempre più determinante assunto della produzione e circolazione di merce immateriale, e quindi con l’insorgere di nuove professionalità, di soggetti e di ruoli sociali assolutamente inediti, portabandiera di una filosofia dell’agire e dell’essere improntata alla velocità, al ricambio continuo, alla polarizzazione sul presente. Nel frattempo hanno ammainato la bandiera gli esperimenti di “realizzazione” del socialismo, lasciando la porta aperta all’assalto del capitalismo più selvaggio, si è affermata su scala planetaria l’economia di mercato, sia nei rapporti commerciali che in quelli interni alla produzione, ed è stato smantellato lo stato sociale là dove esisteva, mentre lo si è saltato a piè pari nei paesi di nuova industrializzazione. Hanno fatto infine prepotentemente irruzione problemi nuovi, dei quali ancora trent’anni fa non si sospettava minimamente la portata e l’urgenza, quelli ad esempio delle migrazioni di massa e della catastrofe ecologica. Tutto questo il pensiero di sinistra tradizionale non lo aveva affatto messo in conto, mentre quello più attento e sensibile ha dovuto scontare le scomuniche da parte dell’ortodossia economicistica da un lato e l’incomprensione da parte dei propri referenti dall’altro. In effetti, dopo due secoli di predicazione dello sviluppo, dopo che si è postulata la crescita produttiva illimitata come condizione necessaria per l’emancipazione, è dura andare a spiegare che ci si era sbagliati, e che la prospettiva auspicabile per il futuro non è un aumento del benessere materiale, ma una sua diminuzione.
Oggi però questa presa di coscienza non è più procrastinabile, pena l’estinzione stessa di un pensiero di sinistra. Come scrive Gorz, “Il socialismo del futuro sarà post-industriale e anti-produttivistico, o non sarà”. Proviamo dunque a focalizzare, proprio partendo dalla critica di alcuni presupposti tradizionali di questo pensiero, quelli che sono i nuovi problemi, le nuove situazioni delle quali la sinistra deve dare una interpretazione e le nuove domande alle quali dovrebbe cercare di dare una risposta.
Il primo dei pilastri da scalzare è quello della semplificazione economicistica, l’aver postulato cioè che tutti i comportamenti umani ruotino attorno ai valori economici, siano da questi determinati, e che la risposta alle aspettative umane possa venire dallo sviluppo economico, capace, previa un’equa redistribuzione dei beni, di assicurare benessere e abbondanza per tutti. La sinistra in genere non ha tenuto in gran conto il bisogno di “senso” che muove i comportamenti umani e che va ben oltre il raggiungimento del benessere materiale. È pur vero che questo bisogno di senso si fa urgente solo quando sono soddisfatti gli altri bisogni, quelli più istintivi ed immediati connessi al sopravvivere, e che il primo senso che si dà alla vita è implicito nella sua difesa e perpetuazione. Ma è anche vero che i comportamenti economici (per capirci, la produzione, l’accumulazione, lo scambio, il consumo) non differiscono nella matrice e nella finalità da quelli che potremmo genericamente definire culturali, sono dettati dallo stesso bisogno di darsi il maggior numero possibile di opportunità riproduttive. In altre parole: in quanto animali a riproduzione sessuata cerchiamo di garantirci una visibilità e/o una condizione di dominio che agevolino la trasmissione e la sopravvivenza dei nostri geni; in quanto specie umana, caratterizzata dalla coscienza della morte, conferiamo alla visibilità e al dominio valenze autonome, affidando alle nostre creazioni, culturali o economiche che siano, il compito di sottrarci al destino di mortalità, di rispondere in qualche modo all’angoscia indotta dalla consapevolezza della morte. Tutto ciò che è riconducibile a ad un’espressione “culturale”, ad esempio la religione, la politica, l’arte, ma anche l’economia (che può essere definita tale però solo quando l’agire funzionale alla sopravvivenza travalica la risposta alla necessità immediata – quando diventa cioè produttivo), si iscrive in questa ricerca di significato, collettiva ed unica per quanto concerne la domanda, ma estremamente diversificata ed individuale per ciò che attiene alle risposte.
Ora, fino a che rimane nei termini di una “liberazione dal bisogno” il comportamento economico è sostanzialmente mirato a creare un requisito di base necessario per accedere alle diverse opzioni di realizzazione: al di là di questi termini è una possibilità e una scelta come le altre. In un’ottica di sinistra il merito di queste scelte non dovrebbe essere discusso, se non nella misura in cui vanno creare situazioni di potere e a determinare rapporti di dominio o di sfruttamento: mentre deve rimanere centrale l’obiettivo, e chiaro il valore strumentale, della precondizione. È evidente che rapporti economici più egualitari inducono maggiori possibilità per tutti di “realizzarsi”, e quindi di trovare, o almeno di cercare, “il senso”; ma se questa chance viene riduttivamente esaurita con la possibilità di accedere agli stessi beni, e se i beni vengono identificati con le merci, si finisce per far assurgere a dignità di scopo quello che è solo uno strumento. Questa semplificazione risulta giustificata e necessaria fino a quando il problema più urgente è quello di dare a tutti pari opportunità di sopravvivere (ed è questo, non lo dimentichiamo, che la sinistra almeno negli intenti ha sempre perseguito); ma non può mancare, sul lungo periodo, di condizionare e di incanalare in una direzione obbligata e senza sbocco le aspettative rispetto al senso da dare all’esistenza.
La concezione prettamente economicistica ha insomma determinato una lettura fuorviante del tema dell’egualitarismo. Adottando come parametro assoluto quello dei rapporti di merci la sinistra ha finito per modellare su di esso il suo universo culturale e i suoi valori. La disuguaglianza, in questo contesto, non è mai stata intesa come “differenza”, ma come divisione gerarchica in classi, a seconda di chi possiede di più o di meno. Questo significa aver assunto in pieno la logica della civiltà capitalistica, all’interno della quale si postula un universo sociale omogeneo in cui le differenze sono di ordine puramente quantitativo, e dunque misurabili. La disuguaglianza è concepita soltanto come una differenza economica fra individui essenzialmente uguali, e questo corrisponde ad un preciso bisogno del sistema produttivo capitalistico, che vuole ogni attività svuotata di senso proprio, ridotta a una prestazione misurabile secondo la sua durata e la sua efficacia quantitativa e remunerata con un risarcimento monetario, che dia accesso al consumo di merci. L’alienazione di senso del lavoro fa dunque del denaro, ossia del potere di acquistare delle merci, il fine principale degli individui.
Ma questa, ripeto, è la logica del capitale. In un’ottica “di sinistra” i fini e i valori di riferimento non possono ridursi a quelli della remunerazione e del consumo. E allora non solo non è sufficiente, ma non ha alcun senso il rifiuto dell’ineguaglianza sociale, se mantenuto all’interno di una concezione che non contempli una naturale, sacrosanta, legittima differenza tra gli individui, e non implichi la possibilità di aspettative, reazioni e comportamenti diversi. Anche in questo caso è legittimo che la sinistra abbia cercato di rispondere storicamente prima di tutto alle aspettative collettive, riconducibili al denominatore comune delle pari opportunità di sopravvivenza: ma nel fare questo ha finito troppo spesso per confondere in un’unica condanna il diritto all’individualità con l’individualismo. L’individualismo è al contrario la negazione dell’individualità, in quanto suppone una scala verticale omogenea, parametrata su valori economici, utilitaristici o di dominio, che misura il prevalere, anziché fare spazio alle differenze. L’individualità è invece la realizzazione del diritto a libere scelte di vita, l’inveramento di quei diritti sociali fondamentali (alla salute, alla casa, all’educazione) che debbono consentire la “differenza”.
La sinistra ha dunque commesso, nel perseguire l’uguaglianza, un doppio errore: quello di adottare un paradigma solo economico, quantitativo, e quello di accettarne la formulazione capitalistica, le cui regole si basano da un lato sulla uniformazione degli scopi, cioè sulla spinta a consumare identiche cose e a vivere identiche vite, dall’altro sulla competizione interna e motrice di questo consumo, quindi sul necessario e continuo rinnovarsi della diseguaglianza per promuovere l’emulazione.
L’uguaglianza va invece concepita come un mezzo, una comune piattaforma di garanzia anche economica (ma sarebbe il caso di dire “sociale”) che assicura la reale condivisione del potere, la partecipazione attiva ed effettivamente democratica ai momenti decisionali; e dalla quale ciascuno può poi accedere alla propria specifica e differente condizione di individuo.
L’accesso a questa nuova dimensione passa attraverso il superamento della società del lavoro, ovvero del modello etico che ha costituito l’ossatura del pensiero della modernità, e segnatamente di quello della sinistra. “Occorre che il lavoro perda la sua centralità nella coscienza, nel pensiero, nell’immaginazione di tutti; bisogna… imparare a pensarlo non come ciò che si ha o non si ha, ma come ciò che facciamo” (Gorz). Coi chiari di luna che corrono bisognerà imparare a farlo al più presto, perché stiamo viaggiando verso un modello sociale ed economico nel quale il lavoro tende a diventare sempre più un “privilegio”, e sempre meno saranno coloro che potranno pensarlo come ciò che si ha. Ciò avviene paradossalmente dopo che per millenni l’idea di lavoro è rimasta associata alla condizione servile o schiavile, alla punizione biblica, mentre il privilegio delle classi dominanti consisteva appunto nella esenzione dalle attività economicamente produttive. La funzione “nobilitante” del lavoro è un portato dell’età moderna, dell’Umanesimo, della riforma protestante e della secolarizzazione di quest’ultima nello “spirito del capitalismo”: e uno dei frutti di questa rivalutazione sociale è proprio la sinistra. Sono occorsi comunque cinque secoli, e un enorme ricondizionamento ideologico “trasversale”, per far assurgere la produttività a scopo eminente dell’esistenza e a fonte primaria dell’identità sociale. Ed ecco che, proprio quando questa si è stabilmente iscritta come imperativo etico nel genoma di quasi tutta l’umanità, vengono nuovamente cambiate le carte in tavola e l’accesso al lavoro si restringe sempre più ad una “aristocrazia” di tecnici e di professionisti. Non si tratta dunque di rifiutare il lavoro, perché nella sua accezione corrente è ormai il lavoro a rifiutare gli uomini, ma di ridefinirne il significato e ridimensionarne la rilevanza esistenziale e sociale. Il lavoro non è una condanna, se non quando viene imposto e sfruttato, e nemmeno è la realizzazione o il riscatto, se ridotto a merce di scambio e finalizzato unicamente ad una remunerazione. È, tra le tante attività che l’uomo può esplicare, la più immediatamente necessaria, ed è quindi un dovere collettivo: ma solo in funzione degli elementari bisogni della sopravvivenza. Al di là di questo diventa valore di scambio, misurato sul rapporto tempo-salario; diventa cioè funzione non di una cooperazione vitale, ma di un meccanismo di accumulo. Ridefinire l’atteggiamento della sinistra nei confronti del lavoro significa sottrarre quest’ultimo all’ingranaggio della capitalizzazione e restituirlo all’ambito delle attività autonomamente gestite.
La strategia di questa riconversione è già dettata dal nuovo modello produttivo, che tende a rendere sempre più marginale e irrilevante la quota di lavoro umano necessario. Si tratta solo di fare di necessità virtù, opponendo una mutazione culturale alla mutazione tecnologica in corso. Si potrebbe ad esempio far leva (è la via proposta da Gorz, comunque una delle tante che andrebbero esperite) su una riduzione consistente dell’orario lavorativo (dove per consistente si deve intendere drastica, sostanziale), soluzione resa sempre più praticabile dall’aumento della produttività legato all’automazione, e parallelamente sul riconoscimento del diritto per tutti ad un reddito sganciato dal lavoro, o erogato a fronte di un impegno quantificato in un monte ore da prestarsi, a discrezione del lavoratore, nell’arco dell’intera esistenza. Ciò consentirebbe a ciascun individuo di riappropriarsi di un tempo da destinare ad una produttività autonoma, non imposta e non misurabile in termini retributivi dal sistema, ma non per questo socialmente meno efficace (si pensi ad esempio al tempo da dedicare alle relazioni e alle cure parentali, che oggi vengono delegate a terzi come servizio); ma soprattutto consentirebbe la creazione di una vita veramente comunitaria, a partire dalla partecipazione vera, attiva e non più delegata, alla vita politica.
Un’ipotesi di questo genere viaggia naturalmente sul filo dell’utopia, ma non è del tutto infondata. Di fatto oggi assistiamo ad un aumento esponenziale della produzione e insieme della disoccupazione, e ciò significa che la capacità produttiva è sempre più slegata dalla prestazione di lavoro. Sappiamo che la disoccupazione è un fenomeno socialmente destabilizzante, e che andrà comunque affrontato, da destra o da sinistra, con forme di assistenza sociale o di reddito minimo garantito; e sappiamo anche che già oggi una fetta sempre maggiore dei settori produttivi non produce merci ma offre servizi finalizzati a consentire la produzione, ovvero di supplenza per quelle attività che sono negate ai singoli dall’impegno totale nella produzione. Infine constatiamo, ad esempio attraverso fenomeni come quello del volontariato, come stia crescendo la consapevolezza che una vera realizzazione va ricercata al di fuori della sfera lavorativa, in attività autonome nelle quali ciascun individuo è in grado di esprimere il meglio di sé – e riesce paradossalmente anche in assoluto più produttivo. Tutte queste realtà, messe in riga e interpretate in maniera conseguente, configurano uno scenario potenziale non dissimile da quello che ho prospettato: ma a condizione che a gestire il futuro prossimo ci sia una sinistra che ha già elaborato, sulla loro base, modelli produttivi e sociali alternativi a quello dell’industrialismo.
Per poter elaborare questi modelli propri la sinistra dovrà però liberarsi anche dell’altro feticcio che ne ha condizionato pesantemente le scelte lungo tutti questi ultimi duecento anni, quello della cieca fede nel progresso e nello sviluppo. L’ideologia del progresso è l’anima stessa della modernità. Essa si è affermata nel corso del Settecento, ma affonda le sue radici nel pensiero rinascimentale, e ha preso le mosse dalla secolarizzazione dell’escatologia cristiana, dal trasferimento su questa terra delle aspettative di salvezza che in precedenza erano affidate all’intervento divino e alla dimensione trascendente. La nuova coscienza umanistica della “dignità” dell’uomo, e la conseguente rivendicazione del diritto di quest’ultimo a manipolare la natura, ad asservirla per mitigare o redimere lo stato di sofferenza e di precarietà derivato dal peccato originale, si è tradotta poco alla volta in una visione storico-finalistica della condizione umana, nel mito di un perfezionamento dell’umanità che può passare solo attraverso il compiuto dominio del mondo. Per condizione umana si è assunta naturalmente quella dell’umanità nel suo insieme, il che sottende che tutti gli uomini debbano essere concordemente e uniformemente protesi a questo risultato, debbano volere, anche quando non lo sanno, la stessa cosa: e che se non lo sanno, qualcuno debba loro spiegarlo e magari imporlo, sia esso un despota illuminato, o un governo liberale o una avanguardia rivoluzionaria.
Dei modi e dei fini di questo sviluppo sono state poi date letture differenti, più o meno attente ai suoi portati sociali, ma concordi nell’accettazione incondizionata: e così da sinistra lo sviluppo è stato interpretato economicamente come una precondizione e politicamente come una direzione, che doveva condurre alla società giusta ed egualitaria. Questa convinzione ha accomunato tutti, dagli utopisti del secolo dei lumi ai socialisti del primo ottocento: e più di ogni altro l’ha condivisa Marx, che pur intuendo la portata dell’alienazione connessa al lavoro nell’ambito del modo di produzione industriale ne sottolineava essenzialmente l’aspetto quantitativo, la sottrazione di valore economico. Anche per lui il problema non era quindi costituito dall’industrialismo e dai rapporti prettamente mercantili che esso ingenera, ma dalla razionalizzazione di questi rapporti, ferma restando la religione del lavoro e del progresso: religione che hanno continuato entusiasticamente a professare tutte le socialdemocrazie e tutti i socialismi reali del secolo scorso.
Oggi questo nuovo avvento non appare più così prossimo, anzi, è proprio scomparso dall’orizzonte. Si è cominciato, con estrema riluttanza, a capire che la crescita non potrà essere illimitata, e a dire il vero la sinistra è parsa l’ultima ad accorgersene. Ancora trent’anni fa il rapporto del MIT sui limiti dello sviluppo veniva liquidato come una grossolana falsificazione, un pretesto per arginare la pretesa del proletariato operaio di partecipare al banchetto del boom postbellico. Poi la crisi petrolifera e i primi sintomi del collasso ecologico hanno indotto a qualche cauto ripensamento, ad ammettere che forse quella di uno sviluppo senza limiti era una opzione un po’ esagerata: ma senza mai andare oltre il cambio dell’aggettivo, da illimitato a sostenibile, senza che insorgesse il dubbio che forse andava messa in discussione l’idea stessa di sviluppo. Ed è ancora questa la posizione della sinistra tradizionale: l’arroccamento a difendere l’indifendibile, a tenere posizioni faticosamente e inutilmente conquistate contro un assalto che ci si attende di fronte, dal nemico di sempre, mentre il vero pericolo si sta addensando alle spalle.
Ciò che sta accadendo oggi, che anzi è già accaduto, non ha più nulla a che vedere con lo scontro di classe. È in atto un fenomeno diverso, un attacco non più rivolto ad una delle parti in causa, ma all’umanità nel suo complesso. Siamo all’autonomizzazione della tecnica. La rivolta delle macchine paventata dalla fantascienza del secondo dopoguerra e da Odissea nello spazio si è consumata senza clamori, con modalità molto diverse da quelle che erano state ipotizzate, sotto gli occhi di tutti e senza che nessuno, o quasi, ne avesse consapevolezza. L’automazione e l’informatizzazione hanno reso il sistema produttivo sempre più indipendente dalla presenza umana, ma nel contempo gli hanno impresso un’accelerazione che lo ha sottratto ad ogni controllo. Come l’apprendista stregone il capitale non è più in grado di governare la forza che ha scatenato. Ne “L’occidentalizzazione del mondo” Serge Latouche sintetizza così il fenomeno e la ricaduta devastante della sua esportazione a livello dell’intero globo: “Quale potenza buona o cattiva impone l’unidimensionalità dell’esistenza e il conformismo dei comportamenti sulle rovine delle culture abbandonate? L’Occidente non è più l’Europa, né geografica né storica: non è più nemmeno un sistema di credenze condivise da un gruppo umano che vaga per il pianeta: proponiamo di leggerlo come una macchina impersonale, senz’anima e senza padrone ormai, che ha messo l’umanità al proprio servizio. Emancipata da qualsiasi forza umana che volesse arrestarla, la macchina impazzita prosegue la sua opera di sradicamento planetario. Strappando gli uomini dalla loro terra, fin nelle regioni più remote del globo, la macchina li scaraventa nel deserto delle zone urbanizzate senza tuttavia integrarli nella industrializzazione, nella burocratizzazione e nella tecnicizzazione senza limiti da lei promossa. La ricchezza, ormai priva di significato, si sviluppa all’infinito nel cuore di città senza frontiere”.
Quello che era lo strumento chiave per l’accumulazione e la valorizzazione del capitale, la tecnica, ha oggi per scopo principale il controllo della società e il suo dominio. L’apparato produttivo si è trasformato in vero e proprio apparato di controllo, che funziona fornendo agli individui, in un circuito chiuso nel quale ogni fase è puramente virtuale e totalmente gestita, una remunerazione per la produzione di beni e servizi condizionata e commisurata al consumo degli stessi prodotti. È quella che Alain Touraine definisce una tecnocrazia: il dominio di un sistema tecnico che si è emancipato da ogni finalità esterna, e che ha ridotto al proprio servizio anche coloro che ancora credono di esserne i padroni. In effetti il comando dell’espansione produttiva non può più essere disattivato, e questa si autoalimenta con un effetto volano. La produzione deve perpetuarsi non per rispondere ai bisogni, reali o indotti che siano, dei consumatori, ma perché è diventata essa stessa la finalità. E il tramite, lo strumento di questa autoperpetuazione diventa l’uomo, nella sua nuova specie non di faber, ma di consumatore. “Il consumo deve diventare una occupazione assimilabile ad un lavoro che merita un salario. Gli individui devono essere pagati in funzione del loro consumo di beni immateriali nella misura in cui questo consumo è anche una attività produttiva: l’attività con la quale gli individui si autoproducono da sé come i beni consumati esige lo siano. Le merci comprano i loro consumatori al fine che costoro si facciano, tramite l’attività di consumo, come la società ha bisogno che siano” (Gorz).
Di fronte a un quadro simile non ha più molto senso attardarsi a parlare di sviluppo sostenibile. Si può rigirare il concetto quanto si vuole, darne le interpretazioni più restrittive, ma nella dimensione umana sviluppo è sinonimo di crescita. Nel caso dell’umanità e dei suoi prodotti questa crescita non segue, e non ha mai seguito, i ritmi ciclici naturali: si è proiettata da sempre verso l’infinito, ha da sempre teso al dominio e allo sfruttamento del mondo intero, già solo col fatto di abitarne tutte le latitudini e gli ambienti. Non sappiamo quanto sia intrinseca alla natura dell’uomo e quanto invece debba a contingenze culturali (o meglio, lo sappiamo, ma non siamo in grado di valutare se si tratti di un “errore” della selezione), anche se è evidente che l’attitudine performativa ha caratterizzato alcune civiltà più di altre, e che almeno fino all’avvento della rivoluzione industriale l’incidenza ambientale della crescita è rimasta relativamente limitata. Quello che sappiamo per certo è che oggi il mondo naturale non può più sostenere alcun tipo di sviluppo, e che l’unica chance di sopravvivenza per l’umanità è quella di cambiare radicalmente modello di vita. Non basta quindi rallentare i giri, bisogna proprio spegnere il motore. Soprattutto, non bisogna illudersi che possano essere le stesse forze scatenate dalla rivoluzione industriale a toglierci le castagne del fuoco: la tecnologia è il problema, non è la soluzione. Questo non significa tornare alla preistoria o anche solo al Medioevo, ma certamente smantellare tutto il meccanismo dei bisogni indotti e liquidare l’ideologia del lavoro e del consumo come surrogati di senso: in pratica, mandare a gambe all’aria il sistema produttivo del capitale e porre fine al delirio autoreferenziale della scienza e della tecnica.
Per quanto irrealistico ciò possa apparire, non dobbiamo dimenticare che l’unica ipotesi sicuramente irrealistica è quella di una continuità dello sviluppo: ma anche che qualsiasi decelerazione oggi risulterebbe, oltre che inutile, altrettanto improponibile di una inversione di marcia. A dispetto dell’evidenza dei sintomi l’umanità, anziché scegliere tra l’adozione di una terapia d’urto o la rassegnazione a procrastinare almeno di un poco l’agonia, sembra rifiutare persino di prendere coscienza del male, e tantomeno di accettare le cure. Di fronte ad un atteggiamento del genere le valutazioni “realistiche” di fattibilità perdono ogni significato, ogni soluzione appare altrettanto improbabile, e tanto vale perseguire l’unica che avrebbe un senso. Quanto poi questa possa essere praticata, e come, se dovrà essere imposta dall’alto, da una sorta di “regime ecologico mondiale” generato dall’emergenza, o se avrà il tempo e il modo di maturare attraverso una coscienza collettiva simultanea, è un altro problema. Certamente sarà arduo convincere gli occidentali a rinunciare ad una buona fetta del benessere materiale cui si sono abituati, e le popolazioni del terzo e quarto mondo a farlo dopo averlo intravisto e prima ancora di averlo conosciuto. Forse sarà impossibile, o forse ci si arriverà a tempo ormai scaduto. Ma questo non significa che un pensiero di sinistra rifondato debba rinunciare a prendere posizione, anzi; esso può rifondarsi proprio e solo a partire da questa coscienza, dal coraggio di assumerla e di diffonderla, ma soprattutto di praticarla nel concreto, di darne quotidianamente esempio.
Se quindi da un lato occorre avere ben chiaro il disegno strategico, il risultato ultimo al quale si vuole pervenire, e ad esso commisurare di volta in volta le scelte tattiche possibili, i “programmi minimi” (in questo senso per l’immediato forse può ancora andare bene tutto, dallo sviluppo sostenibile alle soluzioni diversificate e localizzate, alla valorizzazione delle micro-economie, ecc…), senza dimenticare però che sono minimi, dall’altro è necessario prendere atto che l’unica arma per incrinare il modello di vita dominante è opporgliene subito concretamente un altro, dare visibilità a scelte alternative; e ciò non attraverso la conclamazione spettacolare, che le riassorbirebbe nel gioco del sistema, ma attraverso una prassi convinta e continuativa improntata al “come se”. Questo ha da essere considerato dal pensiero di sinistra il primo e il fondamentale gesto “politico”, perché riassume in sé un modello di partecipazione concreta e responsabile alla gestione politica, collettiva dei problemi e l’autonomia di una scelta di vita individuale e differenziante. (A scanso di equivoci, quando parlo di partecipazione concreta faccio riferimento naturalmente anche a quella produttiva, nei termini e nella misura di una produttività riconsegnata al suo originario scopo di garantire una dignitosa sopravvivenza. Le scelte che si collocano al di fuori di questa ottica, ad esempio quella del vagabondaggio e della vita di espedienti, sono in realtà scorie del sistema produttivo vigente, e non hanno nulla che vedere con una coscienza antagonista nei confronti del sistema stesso).
Il tema della partecipazione introduce un altro dei nodi non sciolti del pensiero della sinistra storica, che in questo contesto potrebbe apparire in qualche modo “collaterale”, ma che non può non essere affrontato: quello relativo al significato da dare alla democrazia. La forma di governo democratica nella sua accezione più ampia, che prevede il suffragio universale maschile e femminile, è quella che maggiormente si ispira ai principi egualitari. Almeno teoricamente la democrazia rappresenta anzi l’unica possibile e compiuta realizzazione, quella politica, dell’egualitarismo, dal momento che nel suo ambito ogni cittadino ha un eguale potere politico e conta per uno, come individuo, indipendentemente dal ceto, dal ruolo, dall’appartenenza religiosa o etnica, dal livello di istruzione, dal sesso. Che poi all’atto pratico le cose non stiano così, che l’uguaglianza politica si riveli spesso fittizia dipende da un sacco di altri fattori, ma non da un vizio di forma della procedura democratica. Il pensiero di sinistra dovrebbe pertanto essere democratico per antonomasia, e in effetti rivendica esplicitamente questa identificazione: ma in verità il feeling con questo modello politico non appare né storicamente né intrinsecamente così acquisito. Il motivo sta a mio parere nel fatto che dal pensiero di sinistra la democrazia è stata concepita quasi sempre come un punto d’arrivo, una meta subordinata all’esistenza di determinati rapporti economici, piuttosto che come uno strumento di crescita sociale e politica. Proprio questo automatismo identificativo, per cui la sinistra non ha mai messo in discussione la propria vocazione democratica, ma al tempo stesso ha continuato a rimuovere e procrastinare il problema di una compiuta realizzazione della democrazia, ha finito per impedirle una costante rimessa a fuoco del concetto e delle sue possibili declinazioni e derive.
Questo disamore, o se vogliamo questa mancanza di attenzione, hanno in effetti radici lontane. In qualche modo sono connessi al sospetto, da subito maturato e all’atto pratico, rispetto alle specifiche situazioni storiche, tutt’altro che infondato, che la democrazia si prestasse a mascherare e a rendere invisibile il sistema di potere del capitale, e che quindi i suoi aspetti formali, le sue regole fossero in qualche misura solo un apparato liturgico di facciata. Di fatto poi nessun regime ispirato alla sinistra ha mai tenuto in piedi quella che veniva definita come la “finzione” democratica: ma anche la sinistra d’opposizione, quella dei paesi capitalistici dell’occidente, ha finito nella sostanza, se non negli intenti, per accettare o addirittura per favorire lo snaturamento delle regole democratiche che è avvenuto con la riduzione della politica a scontro tra apparati e lobbies opposte (ma simili) e della rappresentanza a vera e propria farsa.
Insomma, a furia di darle per scontate le specifiche connotazioni sostantivanti della democrazia sono state in realtà dimenticate, e da concreto concetto politico essa è scaduta a marchio fittizio del quale hanno potuto fregiarsi e si fregiano indifferentemente anche i peggiori regimi, quale che sia, iperliberista o socialista, la loro ispirazione; ma soprattutto è stata oggetto di continui interventi di ingegneria politica per riadattarla ai nuovi scenari, ultimi dei quali quelli aperti dalla telematica e dalla informatizzazione. Tutto questo senza che da sinistra sia venuto qualcosa di più di rituali richiami ai suoi sacri valori, e di una pratica quanto meno disinvolta delle sue modalità rappresentative. (È emblematico di questo atteggiamento, in Italia, il ruolo riservato nell’intellighentia di sinistra a pensatori del calibro di Bobbio e di Galante Garrone, ultimi baluardi di una difesa letterale e sostanziale della democrazia, tollerati con qualche sbuffo come zii saggi ma un po’ noiosi, degni di rispetto ma fuori dal tempo.) Addirittura, qualcuno si è spinto a profetizzare una compiuta realizzazione della democrazia proprio col tramite della telematica, attraverso la connessione in rete di tutti i cittadini, finalmente messi in grado di ricevere un’informazione adeguata, di partecipare al dibattito interattivo e di esprimere in tempo reale il loro consenso o dissenso su ogni decisione politica. Il che fa nascere qualche dubbio sull’attenzione prestata dalla sinistra ai meccanismi di sudditanza sociale e psicologica innescati dalle più recenti tecnologie della comunicazione.
Un senso nuovo, e la strada per una concreta azione politica nell’immediato, la sinistra può trovarlo già in un atteggiamento diverso nei confronti di questo problema. Non ha la necessità di escogitare nuovi modelli politici, deve solo convincersi della bontà di quelli esistenti e della necessità di imporne una applicazione non solo formale, ma sostanziale. In primo luogo deve pertanto impegnarsi a ridare un corretto significato ad uno degli istituti portanti della democrazia moderna, quello della rappresentanza, e prima ancora a farlo proprio. È necessario infatti sgombrare il terreno dall’idea che la partecipazione possa esplicarsi soltanto attraverso la democrazia diretta. Anche se storicamente giustificata, perché indotta dal significato elitario che alla rappresentanza ha dato in origine il pensiero liberale, questa convinzione non è fondata. Certo, su un piano teorico la partecipazione effettiva di ciascun cittadino ad ogni singolo atto legislativo ed esecutivo non solo garantirebbe il rispetto letterale della regola madre della democrazia, quella della decisione maggioritaria, ma stimolerebbe maggiormente al confronto politico anche coloro che sono chiamati ad esprimersi. (È quanto vagheggiato nel concetto di vita activa formulato cinquant’anni fa da Hannah Arendt, nel quale viene riassunto il significato più alto dell’essere e dell’agire sociale. Ma la Arendt parla di partecipazione in un contesto già sganciato dal produttivismo e dalla coazione alla crescita, caratterizzato da un decentramento economico e amministrativo il più esteso possibile, nel quale la necessità di una attività lavorativa sia decisamente ridotta e l’educazione politica sia ben altra da quella odierna. La sua proposta va quindi letta in prospettiva, come un ideale di riferimento, quale in effetti appare negli intenti della pensatrice ebrea).
Sulla compatibilità invece della democrazia diretta con la realtà economica e sociale odierna possono esistere forti dubbi, per diversi motivi. Intanto perché nell’attuale sistema produttivo globalizzato lo spazio concreto per una politica economica e ambientale localistica, nel cui ambito dovrebbe principalmente trovare luogo e senso la partecipazione, si riduce praticamente a zero. In questo contesto i problemi sono sempre e comunque rapportati a strategie sovraterritoriali, anzi, sovranazionali, anche quando sembrano concernere solo aree specifiche, e rispetto ad essi non è consentita alcuna vera autonomia decisionale. Proprio questo, proprio la percezione di una sostanziale insignificanza di potere decisionale persino rispetto a scelte che concernono il proprio territorio, rischia di avere un effetto controproducente su quella educazione alla politica che attraverso la partecipazione si vorrebbe ottenere. È un rischio da correre, pena l’abbandono della politica ai “professionisti”, ma va corso coscientemente, prendendo quindi tutte le misure per scongiurarlo. C’è poi un pericolo più immediato, che in buona parte è già una realtà, quello di una democrazia formalmente partecipativa, ma in realtà teleguidata, di una videocrazia che scavalca il sistema rappresentativo e tende alla soluzione plebiscitaria: e proprio il nostro paese offre il modello più evidente di questa deriva, tanto che di fatto oggi la politica è determinata più dai sondaggi d’opinione (ecco qual è la versione informatizzata della democrazia rappresentativa) che dal confronto elettorale. In terzo luogo l’unico strumento di democrazia diretta tuttora vigente, quello referendario, appare soggetto, oltre che agli intrinseci limiti di utilizzo, che ne rendono la prassi comunque eccezionale, a tutti i rischi connessi nella situazione attuale al controllo dell’informazione e soprattutto della disinformazione. Rimane infine la constatazione che là dove sono state introdotte, almeno sulla carta, timide parvenze di decentramento decisionale (consigli di quartiere, ecc…), nella sostanza si sono soltanto aperti ulteriori spazi per una presenza ed un controllo sempre più capillari e proporzionalmente suddivisi dei partiti e delle forze politiche ufficiali.
Almeno per l’immediato, in presenza di queste condizioni, l’unica strada perseguibile è quella di un programma minimo, che contempli la difesa della lettera e della sostanza della democrazia, intesa come sistema misto, e che preveda il massimo di democrazia diretta per le tematiche locali e una compensazione rappresentativa per i problemi di carattere sovraterritoriale. Il problema non è quello della definizione di questi spazi distinti, che in qualche modo sono già stati sperimentati (e funzionano) in realtà molto eterogenee. Concerne invece l’effettiva modalità di rappresentanza: e qui si pone il primo, decisivo nodo da affrontare, quello del rapporto con la forma partito. Nella realtà attuale l’unica rappresentanza, o meglio gli unici rappresentati, sono i partiti. I cittadini come singoli o come gruppi non organizzati in questa forma sono assolutamente fuori gioco (escluse naturalmente le lobbies sovra e transpartitiche, che hanno poi in mano il potere effettivo). Non è dunque importante al momento chiedersi se la rappresentanza debba essere senza vincolo o imperativa, quanto prendere atto che oggi funziona sostanzialmente una rappresentanza imperativa rispetto alla disciplina di partito. Non esiste un solo rappresentante del popolo italiano (e credo di nessun altro popolo dell’occidente democratico) che sia stato eletto al di fuori del gioco delle candidature partitiche. Nati come strumenti organizzativi delle istanze e delle volontà di una parte della popolazione, i partiti si sono trasformati, soprattutto nel corso del secondo Novecento, e segnatamente quelli della sinistra, in organizzazioni burocratiche finalizzate solo alla propria perpetuazione. Il primo obiettivo deve quindi essere quello del recupero di una dimensione politica con la quale questi baracconi non hanno più nulla a che vedere, agìta col tramite di forme alternative di aggregazione o di mobilitazione e coordinata attraverso una struttura informativa diffusa: una dimensione politica che consenta di volta in volta l’aggregazione e il confronto sui singoli problemi, senza degenerare in apparati autoreferenziali. In questo senso, ma solo in questo, le nuove tecnologie mediatiche possono costituire uno strumento potente di democrazia: possono infatti agevolare la partecipazione diretta alla fase decisionale locale o primaria e il controllo costante sulla delega rappresentativa.
In sostanza, anche senza arrivare a postulare un mandato imperativo, è necessario pensare possibile una delega a rappresentanti svincolati dalla disciplina di partito, impediti allo scambio clientelare e alla perpetuazione (quando non all’ereditarietà) del loro mandato, responsabili, almeno per quanto concerne i comportamenti non corretti, di fronte ai loro rappresentati e nel caso alla giustizia, e operanti in un clima di totale trasparenza. So bene che non è facile, ma è certo che sarà anche impossibile se la sinistra manterrà l’atteggiamento attuale di sufficienza o di rassegnazione rispetto alla deriva procedurale. L’auto-rieducazione alla politica passa per l’attenzione a questi aspetti nonché, e torno a insistere sul concetto, per una prassi, per una esemplarità che non è poi nulla di speciale, non postula una vocazione al martirio, all’eroismo o all’automortificazione, ma implica semplicemente un rigore etico nello svolgimento delle proprie funzioni e delle proprie relazioni. Che poi è in definitiva, gira e rigira, il valore fondante di tutto questo discorso, quello imprescindibile, al di fuori del quale tutto diventa sproloquio vano e ipocrita.
Il tema dell’etica, insieme a quello della rappresentanza e del rifiuto della partitocrazia, pone anche il problema del rapporto con la realtà attuale dei movimenti, o almeno con quella di alcune forme “spontaneiste” che si richiamano, almeno nominalmente, alla sinistra. Se davvero si vuole riconnotare radicalmente la sinistra questo problema va affrontato una volta per tutte senza ambiguità. Nella misura in cui si ritiene impraticabile il modello partitico, che in quanto “organizzazione di massa” dell’agire politico ha rivelato la sua intrinseca tendenza alla burocratizzazione, e conseguentemente a divenire autoreferenziale e ad esercitare un controllo censorio rispetto ad ogni dissidenza, occorre ipotizzare forme alternative di coordinamento delle intenzionalità e delle prassi politiche individuali. Queste forme potrebbero assumere i connotati del movimentismo e dello spontaneismo, ad indicare momenti politici collettivi (e non di massa), di opposizione o propositivi, fondati su aggregazioni spontanee, orizzontali e per lo più temporanee, e suggerite da temi specifici e concreti piuttosto che da linee ideologiche o da strategie d’azione generalizzate. Guardando all’esistente possiamo già individuare svariate tipologie di questi movimenti, che spaziano dalle associazioni di volontariato, necessitanti un minimo di organizzazione stabile, alle aggregazioni semplici ed episodiche in risposta ad emergenze particolari. Nessuna di queste tipologie può essere assunta come un nuovo modello di riferimento, ma tutte assieme offrono una gamma di possibilità di partecipazione politica diversificata, individualmente responsabilizzante e nel contempo efficace.
L’esistente offre però anche altri fenomeni di aggregazione, dai quali occorre prendere le distanze. Mi riferisco ad esempio all’ambigua nebulosa dell’autonomismo e dei gruppi gravitanti attorno ai centri sociali, alle frange combattenti del movimento no-global, (disobbedienti ed altri), allo pseudo-anarchismo insurrezionalista, ecc… A tutti quei fenomeni cioè che danno voce ad un fanatismo ideologico di risulta o ad una elementare voluttà nichilistica di distruzione e di negazione, che hanno come unico riferimento e portato culturale il semplicismo degli slogan e che non differiscono per valenza sociale dalla tifoseria calcistica (anzi, spesso si arriva alla sovrapposizione) e nei metodi e nei fini dalle formazioni squadristiche della destra. La sinistra tradizionale prima e quella nuova, non organizzata, dopo, hanno continuato ad indulgere nei confronti di atteggiamenti che nulla hanno a che vedere con la volontà di costruire un mondo migliore. Lo hanno fatto per ragioni diverse; la prima perché in fondo le tornava comodo mantenere desto uno spauracchio chiassoso e inconcludente che giustificasse la propria funzione moderatrice; la seconda, che a lungo non è esistita come realtà visibile e minimamente organizzata se non in queste forme, perché esse assicurano bene o male la spettacolarità, la visibilità, e offrono un facile referente soprattutto alle generazioni adolescenziali. In pratica anche la nuova sinistra ha accettato le regole del gioco imposte dalla società dello spettacolo. Nel caso migliore comunque tutte le frange autonomiste, fricchettone, disobbedienti ecc… sono state viste e tollerate come espressione esasperata di certe istanze, come se l’incendiare auto o cassonetti avesse qualcosa a che fare con i valori di cui vorremmo essere portatori. Ma non possiamo continuare a raccontarci delle storie: questa non è partecipazione, è idiozia, aggravata dal fatto che si contrabbanda per militanza di sinistra, e va dunque chiamata col suo nome. La democrazia è tutt’altro, è quella situazione in cui nessuno gode di un potere o di una impunità superiore a quella altrui.
Mi accorgo di aver deviato su aspetti relativi piuttosto ai criteri della prassi e dell’organizzazione che non ai valori fondanti del pensiero della sinistra. Provo a tornare sul terreno di questi ultimi. La sinistra si trova ad affrontare oggi situazioni e problemi inediti, che non rientravano fino a ieri nel campo delle sue priorità o vi rientravano in maniera molto diversa: risulta pertanto impreparata ad affrontarli nella loro nuova fenomenologia e deve chiarire a se stessa a quali modelli interpretativi e a quali valori può fare riferimento. Il caso più clamoroso è quello del confronto e della possibilità di convivenza di culture diverse all’interno di una società globalizzata. Al pensiero di sinistra e alla sua tradizione è connaturata una notevole apertura nei confronti della diversità, anche se non sono mancate le eccezioni; è rimasto ad esempio a lungo ambiguo l’atteggiamento nei confronti delle conquiste coloniali (c’era da tenere in conto prima di tutto l’interesse del proletariato occidentale), e lo è a tutt’oggi quello nei confronti della diversità ebraica (esiste da sempre un antisemitismo di sinistra che si è alimentato nel tempo dell’identificazione tra ebraicità e capitalismo e si alimenta oggi di quella tra sionismo e imperialismo). La posizione si è fatta più aperta e decisa nel secondo dopoguerra, in concomitanza con la decolonizzazione, con le guerre di liberazione dei popoli africani e asiatici e con i venti rivoluzionari nell’America latina. La solidarietà con i popoli in lotta si è tradotta però in una ideologia, il terzomondismo, che equivocando spesso sulla portata e sul significato dei movimenti rivoluzionari e di liberazione finiva per proiettare dei fantasmi europei su realtà delle quali aveva capito ben poco e che nemmeno si sforzava di capire, per trasferire altrove speranze ed utopie che il mondo occidentale non permetteva più di coltivare. A brevi stagioni di entusiasmo, che duravano lo spazio della lotta, ha fatto seguito il più assoluto disinteresse per i problemi e per le soluzioni, in genere tutt’altro che entusiasmanti perché malamente ricalcate sui modelli dell’occidente, del ritorno alla “normalità” (cfr. i casi di Vietnam e Nicaragua).
Con gli anni novanta e con l’inizio dei flussi migratori di massa dal terzo e dal quarto mondo sono cambiati sia il gioco che il terreno. Oggi non è più possibile fare il tifo da spettatori, occorre confrontarsi con culture che appaiono veramente diverse, che non possono essere riassorbite tranquillamente e che mostrano la loro indecifrabilità ai metri di lettura occidentali. Il rapporto non è più con gli intellettuali dissidenti, più o meno europeizzati, ma con i genuini portatori di civiltà e costumi differenti. E le cose si complicano. Si complicano perché il pensiero di sinistra non è stato in grado di andare oltre ad una formulazione molto generica, molto buonista e politicamente corretta, che si riassume nella prospettiva di una società multiculturale. Questo concetto non è immune dai residui ideologici del terzomondismo degli anni settanta, ma nella continuità c’è stata una evoluzione: mentre allora si volevano delegare ai popoli del terzo mondo progetti di società ormai impossibili a realizzarsi in occidente, e quindi si guardava a questi popoli per quel che avrebbero potuto diventare, rappresentare in futuro, oggi le culture esotiche vengono viste per quel che sono, anche se la destinazione finale rimane la messa in discussione del modello occidentale. Si ripete né più né meno ciò che è già accaduto nel sei-settecento, quando il mito del buon selvaggio era coltivato in funzione critica nei confronti della società e dei costumi europei. Ora, di per sé la riscoperta e la rivalutazione di tutte le culture possibili e immaginabili, soprattutto quelle più perseguitate o in estinzione, da quella dei pellerossa a quella degli zingari, non può che produrre un effetto benefico di conoscenza, e se servirà anche a creare qualche dubbio e qualche imbarazzo rispetto al nostro stile di vita, ben venga: ma il confronto deve essere positivamente critico, non viziato dal relativismo o dall’accettazione incondizionata e polemica.
L’assunto teorico di massima del pensiero multiculturalista non fa una grinza, tutte le culture hanno eguali diritti ed eguale dignità, e su questo non ci piove (tra l’altro lo scriveva già Montaigne cinquecento anni fa, quindi non è poi un traguardo di consapevolezza così nuovo). Ma quando si passa dalla teoria alla prassi, all’applicazione concreta in un contesto globalizzato, le cose cambiano: perché la verità è che queste culture ora si trovano a convivere in spazi ristretti, mescolate e frammentate, e per poter coesistere senza conflitti devono trovare un modus vivendi. E se l’obiettivo di una società multiculturale è quello di salvaguardare le differenze culturali, di difenderle dall’assimilazione in un unicum indistinto, questo obiettivo può essere perseguito solo barricando in qualche modo tali differenze in roccaforti comunitarie, che si proteggono contro ogni comportamento non conformista che possa minarne la compattezza, e all’interno delle quali, proprio per la necessità di resistenza alla pressione esterna, diventa più forte il vincolo, la pressione del gruppo sul singolo, la determinazione eteronoma della sua volontà e della sua identità. Nulla marchia e condiziona così pesantemente un individuo come l’appartenenza ad una cultura o ad una etnia sulla difensiva. La tutela delle differenze, così intesa, non può avere come oggetto che il gruppo, e finisce in realtà per annientare la differenza e la dignità fondamentali, quelle del singolo. E non solo. «L’idea di un multiculturalismo liberale è totalmente illusoria, perché evita di misurarsi proprio con le norme più ripugnanti che, nelle culture “altre”, violano clamorosamente i diritti civili dell’individuo. Il multiculturalismo preso sul serio deve fare i conti non con il cous cous, ma con la lapidazione delle adultere e la poligamia, non con il velo ma con la clitoridectomia e con l’infibulazione. E magari con la pretesa che tali mutilazioni sessuali rituali vengano praticate negli ospedali pubblici, perché sono un “diritto” della bambina» (Flores D’Arcais).
Esiste dunque solo un criterio di massima al quale un pensiero di sinistra deve ispirarsi: la difesa dei diritti civili e il perseguimento della compiuta cittadinanza democratica per tutti. Se questo potrà avvenire in una società multietnica, che preserva talune differenze, o nel contesto di un meticciato culturale, che non necessariamente implica uniformità e appiattimento, non può essere oggetto di alcuna teorizzazione. Ciò di cui la sinistra deve prendere atto è che, al di là della sua incompatibilità con la difesa dei diritti individuali, il multiculturalismo appare già oggi sconfitto dai fatti, dalla uniformazione sostanziale di ogni cultura altra che abbia fatto irruzione in occidente alla logica della produttività e del consumismo, e rischia di tutelare proprio e solo quegli aspetti meno accettabili di cui parla Flores D’Arcais.
Provo a riassumere molto prosaicamente. Il confronto di culture avviene oggi in casa nostra, nei paesi occidentali. Bene o male questi paesi hanno elaborato un modello politico, che è quello democratico, e che a dispetto di tutte le sue carenze e delle derive e delle mancate applicazioni rimane quello migliore, o se non altro quello cui siamo abituati. Hanno sviluppato credenze religiose, costumi sociali e familiari, consuetudini e norme civiche. Hanno soprattutto elaborato una cultura del diritto. Molti di questi aspetti possono anche essere considerati transitori o relativi, ma la cultura della democrazia e del diritto sono irrinunciabili: e perché possa funzionare, questa cultura deve essere condivisa da tutti. Quindi all’apertura del confronto alcune regole di fondo debbono essere dettate, alcuni principi debbono essere difesi e, nel caso, imposti. Non si parte da zero, anche quando si costruisce una casa nuova: c’è un terreno e ci sono unità di misura e vincoli. Se si sceglie un determinato terreno si è soggetti a determinati vincoli, naturali o artificiali: e le unità di misura, per convenzionali che siano, valgono per tutti allo stesso modo.
Il tema del confronto tra le culture si intreccia a questo punto con quello della democrazia. Dobbiamo considerare la democrazia come un metodo politico universale, esportabile quindi al di fuori del suo ambiente occidentale di incubazione e di crescita, o come il frutto di una civiltà storicamente data, quindi di particolari condizioni ambientali e culturali (nella fattispecie, il valore attribuito al pluralismo, alla libertà e alla partecipazione), e pertanto come un modello applicabile solo ad una parte dell’umanità? Nel segno del rispetto delle diversità, ma più ancora di fronte ai fallimenti sostanziali delle sperimentazioni democratiche al di fuori dell’occidente, si sta delineando negli ultimi tempi anche a sinistra una posizione piuttosto scettica rispetto alla esportabilità della democrazia. Questa posizione afferma che per ragioni diverse – beninteso, storiche, ambientali, religiose ecc…, e assolutamente non biologiche e naturali – a certi popoli la democrazia è meno congeniale che ad altri, oppure che non tutti i popoli sono ancora idonei alle sue istituzioni. Può darsi che le cose stiano così, anzi, stanno così senza dubbio, basta guardarsi attorno. Ma non è affatto vero che in talune situazioni, di fronte ad esempio all’impellenza di risolvere i problemi della povertà, un regime non democratico risulti più efficace (si cita in genere a questo proposito il caso cinese, dimenticando che nella stessa area è corso con un certo successo l’esperimento democratico indiano, ed è consolidata da tempo la democrazia giapponese). Al di là di queste valutazioni, comunque, che tra l’altro privilegiano il metro della idoneità allo sviluppo, e sono quindi interne ad una mentalità che la sinistra deve rigettare, nulla può impedirci di pensare che un istituto come quello democratico sia in ogni caso più auspicabile delle tirannie dinastiche o tribali, delle dittature militari, dei regimi integralisti e sanguinari che costituiscono di fatto l’unica alternativa a quelli democratici, e che vada comunque propagandata. Ogni altra posizione, a mio giudizio, puzza davvero di quel razzismo che si vorrebbe imputare a chi ritiene la democrazia non un ennesimo portato dell’imperialismo occidentale ma uno strumento politico di valore assoluto, universale. Che poi non si debba confondere l’esportazione della democrazia, intesa come esemplarità di comportamento civico e politico da proporre, con l’imposizione, magari a suon di bombe, del modello di vita e di consumo occidentale, questo mi sembra sin troppo evidente.
Se la necessità di “unità di misura” vale per il rapporto tra culture diverse vale anche, e tanto più, per la quotidiana convivenza civile. L’insieme delle norme democraticamente espresse che regolamentano i nostri rapporti sociali costituisce la rete della legalità. Per la legalità purtroppo si può ripetere quello che già si è detto per la democrazia: sono concetti rispetto ai quali il pensiero di sinistra ha mantenuto un atteggiamento ambiguo. L’idea che la sinistra in genere ha della legalità è associata all’esperienza storica di una giustizia asservita a interessi particolaristici e amministrata in funzione oppressiva nei confronti dei deboli e degli sfruttati. Non meraviglia dunque che ogni richiamo alla legalità sia sempre stato accolto con sospetto, e che la sinistra stessa abbia propeso a farne un uso strumentale anziché assumerla a valore fondante. Ma anche in questo caso, come per i concetti di democrazia e di individualità, l’errore è stato di confondere una interpretazione del termine, anzi, una sua distorsione, con il suo reale significato. E soprattutto di portare avanti questa confusione anche quando le condizioni, almeno teoricamente, erano cambiate: col risultato di lasciare nel dibattito ideologico la difesa di quel valore, e quindi la possibilità di perpetuarne la distorsione, alla destra.
La legalità correttamente intesa è invece un altro dei principi irrinunciabili per la sinistra: perché è critica attiva e intransigente del potere e dei suoi abusi, quindi è salvaguardia per i deboli contro la prevaricazione dei forti, ed è una garanzia contro la traduzione della diseguaglianza economica in potere o in mancanza di potere, quindi è la condizione necessaria perché le differenze individuali possono mantenere una loro autonomia e un loro valore qualificante. La legalità è strettamente connessa all’eguaglianza, quella vera, quella che riguarda le chanches, ed è l’inveramento della democrazia. Quest’ultima ha un momento elettivo, di scelta, nel quale entra in gioco il consenso, e quindi il diritto e la possibilità di dissenso: ma ne ha poi uno applicativo, nel quale vige il principio del rispetto delle regole e delle decisioni legittimamente approvate. La dissidenza è quindi ammessa nella prima fase, dove può e deve essere espressa la propria opinione: ma quando lo svolgimento della prima fase è corretto nelle premesse (norme che non ledano la dignità e la libertà di nessuno, che non favoriscano le diseguaglianze e non creino o difendano vantaggi particolaristici) e nelle procedure, occorre adeguarsi. Quindi: riconoscimento della dissidenza, ma intolleranza verso la trasgressione. Ciò significa che su questo tema non si possono assumere posizioni relativistiche. Va da sé che la prima forma di illegalità da perseguire è quella di qualsiasi abuso del potere da parte di chi è delegato ad esercitarlo o di qualsiasi appropriazione dello stesso da parte di chi ci arriva per altre vie: ma é anche vero che esistono forme molteplici e non legalizzate di potere, forme più o meno organizzate, che in un regime di tolleranza troppo alta incidono sulla nostra esistenza. Se il compito della sinistra è pensare e realizzare una società che consenta all’individuo il massimo di libertà personale (non di licenza, ma di possibilità di scelte lecite e non dannose per gli altri) e di dignità, il suo primo compito è quello di combattere tutto ciò che a questa libertà e dignità si oppone: quindi ogni forma di ingiustizia. E un individuo, un cittadino si sente umiliato tanto dalle prevaricazioni del potere quanto da quelle dei balordi, tanto dal latrocinio in larga scala e dall’impunità legalizzata dei potenti quanto dalla violenza spicciola e quotidiana e dall’impunità dei prepotenti. L’idiota che ti sfregia l’auto o danneggia i beni comuni, il cretino che provoca incidenti perché guida ubriaco, il bandito che ti svuota l’appartamento o ti rapina, il mafioso che ti taglieggia, il marito o il padre violento, l’adescatore di bambini, ti offendono quanto il nepotismo, i privilegi e la sfacciata sopraffazione di coloro che detengono il potere. È evidente che il metro di valutazione della violazione deve tenere conto, oltre che dell’entità e dell’estensione del danno inferto, della responsabilità sociale del trasgressore, per cui la responsabilità aumenta con il livello di potere economico (perché è già insultante e antidemocratico il fatto che lo status economico si trasformi in un qualche potere sociale) o politico (perché la violazione viene da chi dovrebbe esercitare il potere proprio come custode delle norme) del trasgressore: ma è anche necessario convincersi che un mutamento della coscienza collettiva, una “educazione alla legalità” non può darsi là dove i comportamenti delinquenziali risultano impuniti e in definitiva vincenti. Quindi è necessario ripensare un atteggiamento che ha finito per essere giustificatorio per ogni tipo di trasgressione, per confondere la ribellione e la disobbedienza civile, che si esercitano nei confronti di leggi reputate non giuste ma chiedono leggi migliori da far rispettare, con una prepotenza che è invece irrisione di ogni norma e di ogni forma di legalità, e quindi di rispetto della dignità altrui.
Mi sembra quasi ridicolo a questo punto ribadire che tutto ciò non ha nulla che vedere con l’invocare uno stato di polizia e la repressione: invece non è ridicolo, è addirittura sintomatico. Non sto mettendo in discussione il diritto a ribellarsi a leggi ingiuste, alla violenza di un regime, a qualsiasi forma di dominio o di prepotenza, sto anzi invocando proprio questa ribellione, che si configura a mio giudizio semplicemente nell’esigere e nel perseguire una condizione generale imprescindibile perché ciascuno possa sentirsi libero e possa essere invogliato alla partecipazione: eppure ho la sensazione che per gran parte della sinistra questi argomenti conservino ancora un suono “reazionario”. Il che la dice lunga su quanta strada rimanga da percorrere al pensiero di sinistra per recuperare il senso concreto di termini come dignità e libertà.
È finita come temevo. La complessità del tema mi ha preso la mano e mi ha portato a mettere troppa carne al fuoco, col risultato di una trattazione fumosa e superficiale. Forse era inevitabile, come era inevitabile, stante l’assunto, che i problemi della sinistra venissero traslati in una dimensione ideale. Ma è pur vero che di idealità, di valori rifondanti intendevo parlare, e non di tattiche per una stentata e inutile sopravvivenza. E penso che al di là della confusione e delle lungaggini, una cosa almeno risulti chiara: in realtà questi valori possono essere riassunti tutti in uno solo, che è quello dell’atteggiamento etico. È quindi tempo di chiarire cosa intendevo, all’inizio di questa conversazione, quando parlavo di una disposizione etica a sinistra.
Per farlo devo aprire un inciso. Mi scuso in anticipo perché non sarà breve, e potrebbe anche apparire gratuito. Lo ritengo invece indispensabile per evitare ambiguità sui fondamenti di questa disposizione. Io non credo che la natura biologica dell’uomo comprenda delle premesse etiche. Non credo cioè che esista nel nostro corredo cromosomico un gene che ci suggerisce cosa è bene e cosa è male, se non nei termini e in funzione della pura sopravvivenza. Negli ultimi anni sono stati scoperti geni responsabili di reazioni e di attitudini di ogni tipo, ma dubito possa essere rintracciato qualcosa che sia responsabile in sé delle nostro sentire etico. Per un motivo molto semplice, perché etico è solo ciò che nasce da una possibilità di scelta; quindi l’unica predisposizione etica che ritengo si possa accettare è proprio la mancanza di una predisposizione, a meno di intendere come tale il fatto che l’uomo può dare risposte estremamente diversificate agli stimoli e alle situazioni ambientali. Non sto ad addentrarmi nel dettaglio biologico, anche perché significherebbe per me brancolare nel buio: mi limito a riportare alcune considerazioni di un biologo, Edoardo Boncinelli, che mi sembrano illuminanti e, almeno per quel che concerne il punto da cui partire, risolutive. “C’è […] un parametro da considerare, la vastità e la varietà delle scelte comportamentali. È questo il parametro della varietà e della gratuità delle scelte: gli organismi che noi consideriamo più evoluti hanno un repertorio di risposte comportamentali più vasto, cioè più variato e meno vincolato alla natura degli stimoli. Le loro risposte agli stimoli ambientali possiedono un grado crescente di gratuità, intendendo con questo termine la mancanza di un legame necessario tra uno stimolo e la risposta. […] La tavolozza delle risposte possibili si arricchisce progressivamente con l’aumentare della complessità delle specie, per lasciare sempre più spazio a ciò che possiamo chiamare libero arbitrio o più in generale libertà. La libertà degli individui di una data specie nasce dalla complessità dei loro circuiti regolativi, in particolare nervosi, che sottendono le loro scelte comportamentali. Quando, nel corso dell’evoluzione, questi circuiti hanno raggiunto livelli molto avanzati di complessità, è stato sempre più difficile per il patrimonio genetico di ogni singolo individuo regolarne tutti i possibili aspetti. Il genoma si è riservato il controllo di alcune risposte fondamentali, necessarie per la sopravvivenza, e ha organizzato le cose in modo tale che gli spazi lasciati liberi da questo controllo biologico potessero essere occupati dagli effetti dell’interazione tra biologia e ambiente, ambiente nel quale l’organizzazione sociale alla quale l’organismo appartiene diviene una parte sempre più rilevante. La libertà è il risultato di una certa quantità di indeterminazione biologica che emerge insinuandosi tra le maglie del controllo esercitato dal patrimonio genetico, anche se è comunque sostenuta da questo. Ogni specie gode del grado di libertà che le concedono i suoi geni.
Un altro criterio è quello della distanza della risposta dallo stimolo corrispondente. Nelle specie che noi consideriamo inferiori, ad ogni stimolo corrisponde una risposta pressoché immediata e largamente stereotipata. Molti degli stimoli che colpiscono un organismo più complesso, e in particolare un essere umano, non conducono a nessuna risposta immediata ma sembrano perdersi nei recessi del sistema nervoso. E molti comportamenti non sembrano o non sembrano essere risposte ad uno stimolo esterno, ma nascono da istanze originatesi nelle profondità più insondabili del sistema nervoso stesso. L’allontanamento progressivo dalla risposta dallo stimolo che l’ha generata, fino a rendere quasi impossibile rintracciare il nesso tra i due eventi, sono caratteristiche delle specie più complesse e raggiungono il culmine con l’uomo. Nel nostro caso l’esercizio della libertà e lo svincolamento progressivo delle risposte dagli stimoli possono giungere alle astrattezze del linguaggio, del pensiero, dell’arte o addirittura del suicidio […].
In definitiva: le nostre scelte sono il frutto, la possibilità indotta dall’enorme complessità dei nostri circuiti nervosi, dal fatto che tutta una serie di comportamenti adattivi sviluppati dalla nostra specie (ad esempio la stazione eretta, l’uso delle mani, ecc.) hanno moltiplicato in maniera esponenziale i conduttori di stimoli sensoriali e di risposte neuronali. Lo stimolo non arriva più immediato, ma mediato dal concorso o dalla memoria di un sacco di altri stimoli e di altre risposte. Queste ultime pertengono quindi ad una dimensione che non è più soltanto biologica, ma assomma l’impronta biologica a quella ambientale, cioè a quella culturale, e nemmeno è deterministicamente esaurita da queste due, perché è qualcosa di più di una semplice somma: l’astrattezza del linguaggio e del pensiero di cui parla Boncinelli come risultante dell’esercizio della libertà dalla risposta istintuale ha a sua volta come risultato una consapevolezza, quella della finitudine e della morte, e questo rappresenta il fattore discriminante dell’essere umani. Sta in ciò il fondamento dell’etica: alla consapevolezza angosciante della morte noi possiamo opporre non solo il comportamento di sottrazione estrema agli stimoli istintuali alla sopravvivenza citato da Boncinelli, cioè il suicidio, ma una vastissima gamma di altri comportamenti che, pur se dettati da tale consapevolezza, sono capaci di prescinderne. Possiamo cioè fare delle scelte indipendenti dai risultati che potrebbero venirne, fondate sul convincimento di una loro liceità e giustezza e utilità teorica che non è condizionato o addirittura non è mirato al riscontro pratico. Possiamo e dobbiamo, perché queste scelte non sono iscrivibili in alcun progetto di ordine naturale o provvidenziale. L’uomo non è il fine del mondo, non interpreta un disegno divino, e se ne esiste uno naturale vi ha un ruolo di comparsa indisciplinata, una sorta di momentaneo e trascurabile errore nel meccanismo della selezione. Non è il primo e non sarà l’ultimo. Il che magari non ci consola, ma ci dice quantomeno che la sfera dell’etica è completamente autonoma. Fine della parentesi.
Se è dunque possibile un comportamento etico perché abbiamo di fronte una varietà di scelte possibili in piena autonomia, e se l’etica è il momento fondante di ogni partecipazione, di ogni lotta, di ogni posizione relativa alla convivenza civile, non rimane che tentarne una definizione. Per etica io intendo un sistema di valori forti, capaci di guidare le scelte sempre in direzione di comportamenti individuali e di rapporti sociali improntati alla libertà e all’equità. Valori forti significa naturalmente idealità, non ideologie: significa sogni, modelli, stili consapevolmente assunti e responsabilmente applicati a se stessi, che possono anche essere condivisi, ma che vanno pensati e vissuti autonomamente. L’ideologia è invece la pretesa di erigere i nostri modelli di pensiero e di comportamento a valori assoluti, di far partecipi a forza gli altri del nostro sogno. «È possibile non limitarsi a coltivare il sogno di una società migliore, e pretendere invece di aver trovato la formula perfetta, e volerla attuare, solo se si parte da un profondo disprezzo per l’umanità in genere, se si percepisce quest’ultima unicamente nei termini della sintonia o della dissonanza col proprio progetto. Se si mette cioè l’umanità al servizio di un’idea, non l’idea al servizio dell’umanità. Chi ama gli uomini in fondo li accetta come sono, anche se non gli piace come si comportano, come si relazionano tra di loro, e se tutto questo gli comporta un profondo disagio, una sensazione di estraneità. Li accetta nel senso che prende atto dei loro (dei propri) limiti, e con questi coabita, ma sceglie di vivere nella tensione dell’utopia, operando “come se” una rigenerazione etica e sociale fosse possibile, pur nella perfetta coscienza che non lo è, né lo sarà mai. Chi ama gli uomini non è quindi così determinato a cambiarli, come lo è il riformatore; sperimenta su se stesso la sua riforma e ne paga con serenità il prezzo» (per una volta pesco da me stesso, Cfr. “Sul futuro delle nostre scuole”). L’idealità può dunque essere vissuta a prescindere dal fatto che sia condivisa, e consente di convivere e di confrontarsi con gli altri senza instaurare o accettare rapporti di dominio. Consente di essere aristocratici nel pensare e democratici nell’agire, autonomi nelle scelte e sociali nei comportamenti. Di applicare fattivamente quella formula di Camus nella quale si condensa tutto il vero significato dello stare a sinistra: solitaire, solidaire.
Quanto ai valori che sostanziano questa idealità sono naturalmente in primo luogo quei modelli comportamentali ispirati al senso della dignità, propria e altrui, che possiamo trovare già nel vangelo o nel buddismo, e che sono stati assunti a partire da Kant come fini a se stessi; ma a questi va aggiunto un nuovo imperativo, quello che scaturisce dai rischi e dalla realtà della deriva tecnologica, e che Hans Jonas ha così formulato: Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita sulla terra. Spogliata delle implicazioni ontologiche nelle quali Jonas va a cacciarsi, l’etica della responsabilità è un’etica dell’emergenza, che si pone come obiettivo, anziché il perfezionamento, la sopravvivenza immediata del genere umano. Questa attitudine nasce dalla semplice consapevolezza che fino a ieri l’agire umano aveva un peso trascurabile sulla futura idoneità del pianeta ad ospitare la nostra specie, mentre oggi le cose non stanno più così. Ogni nostro atto viene quindi ad assumere un significato ben diverso, in quanto ipoteca e condiziona la sopravvivenza dell’umanità intera. Di fronte a questa responsabilità non ci sono ricette precise, se non un richiamo di fondo al buon senso spicciolo, ad una attitudine illuministica, ma vissuta e professata con serietà e determinazione, nella coscienza che non rimane più tempo per ulteriori deroghe. Rispetto ai sogni di rivoluzione e di rigenerazione sociale dei quali il pensiero della sinistra ha continuato a nutrirsi può sembrare poca cosa: in realtà è esattamente ciò che nessuno, o quasi, di noi riesce di fatto a praticare, risucchiati come siamo nel vortice della coazione produttiva e consumistica. L’imperativo di Jonas andrebbe in questo senso integrato con una raccomandazione ad hoc per la sinistra occidentale: agisci nella consapevolezza di essere comunque un privilegiato, cosa che invece tendiamo troppo spesso a dimenticare. Avremmo potuto nascere in un’altra parte del globo, vivere in condizioni di miseria e di oppressione che neppure abbiamo il coraggio di immaginare, e saremmo in questo momento a porci problemi ben diversi, o ad affrontare gli stessi da un punto di vista completamente differente. Il principio responsabilità ricusa pertanto tutti gli alibi dietro i quali siamo soliti trincerarci. Non importa quanto irrilevante possa risultare, in positivo o in negativo, il comportamento di un singolo di fronte all’enormità del problema, quanto insignificanti possano apparire i suoi sprechi e i suoi consumi rispetto a quelli di altri: se vogliamo agire in perfetta autonomia il parametro non può essere costituito dalle scelte altrui. Ciò non toglie, naturalmente, che l’etica della responsabilità comporti anche un atteggiamento di controllo, di persuasione e di dissuasione nei confronti degli altri: che debba cioè tradursi, nel rispetto delle regole di una reale democrazia, in un atteggiamento politico, ovvero nel tentativo di rendere condivisibili e attuabili le scelte che noi riteniamo giuste.
In questo passaggio dall’assunzione di un comportamento responsabile alla condivisione di una responsabilità collettiva, da scelte che incidono in prima istanza solo sulla nostra vita a decisioni concernenti anche la vita altrui, diviene evidente come il richiamo al “buon senso” non sia una formuletta scipita per dire tutto e nulla. La realtà ci pone di fronte a dilemmi drammatici, rispetto ai quali il buon senso e la razionalità non sempre coincidono con l’adozione di criteri logici e conseguenti, soprattutto quando riguardano l’atteggiamento nei confronti di alcuni aspetti della ricerca scientifica e delle sue applicazioni sociali. Scelgo volutamente un caso limite, la cura delle malattie geneticamente trasmesse, che proprio per l’estrema delicatezza del tema si presta bene ad illustrare l’ambiguità della nostra posizione. Con l’aiuto della medicina sopravvivono e si riproducono, trasmettendo la loro malattia, milioni di individui che in condizioni diverse, in assenza cioè delle medicine fornite dall’assistenza pubblica, non sopravvivrebbero. Ciò implica di generazione in generazione un aumento geometrico dei portatori di malattie congenite, la cui assistenza lasciamo in eredità ai nostri figli. Implica cioè un problema per il futuro della nostra specie. Come lo affrontiamo? In linea di massima appaiono possibili tre opzioni. La prima è un’apertura di credito all’ingegneria genetica, che almeno teoricamente dovrebbe risolvere il problema alla radice, intervenendo direttamente sul genoma: ma questo significa far rientrare dalla finestra quella ideologia del progresso che avevamo cacciato dalla porta, l’idea cioè che possa essere esercitato un controllo sugli usi della scienza. E sappiamo che non è così. La seconda è dettata da quella disposizione di matrice cristiana che costituisce il fondamento dei valori occidentali. Ce la sentiremmo di condividere una qualsiasi iniziativa che negasse le cure indispensabili a dei bambini malati? Sia pure con un po’ di ipocrisia, perché nel frattempo continuiamo ad accettare quasi passivamente che muoiano di fame milioni di bambini sani, troviamo scandalosa a priori l’ipotesi. La terza è quella di lasciare che la natura faccia il suo corso, per non compromettere ed ipotecare le chanches di sopravvivenza delle prossime generazioni. Se fossimo conseguenti sino in fondo, e se la possibilità di accesso alle cure non costituisse uno dei fattori più eclatanti di diseguaglianza sociale, dovremmo scegliere quest’ultima: ma è evidente che una soluzione del genere ripugna alla nostra sensibilità e all’idea stessa di quel discrimine, umanitario appunto, che segna la nostra specificità di umani (non a caso l’eugenetica è sempre stata uno dei pallini della destra).
In quale direzione va quindi assunta la responsabilità, verso il futuro o verso il presente? Nello stallo della scelta, siamo disposti a correre il rischio di un uso “positivo” della scienza? Al di là del paradosso queste sono domande vere, alle quali il pensiero di sinistra dovrà dare delle risposte. E anche se è evidente che temi così complessi non possono essere schematizzati, la questione di fondo non cambia: occorre almeno assumere una linea di comportamento, perché il dilemma si ripropone per ogni ulteriore passo delle scienze e della tecnologia, e in particolare per le nuove frontiere dell’ingegneria genetica. Proprio nei confronti di quest’ultima, invece, la sinistra si muove in maniera incerta e contraddittoria: avvalla in alcuni casi la libertà di ricerca e di applicazione (la prima cosa che mi viene in mente è la fecondazione assistita eterologa), mentre oppone in altri un rifiuto pregiudiziale, magari giustificatissimo sul piano dei timori, ma pur sempre viziato dalla distorsione ottica del privilegio. L’esempio eclatante viene dalla questione degli o.g.m. in agricoltura. Dobbiamo ammettere che la loro introduzione ha di fatto reso possibile in vastissime aree dell’Asia una vera e propria rivoluzione verde, scongiurando il flagello millenario di periodiche carestie e di conseguenti ecatombi. Per contro, anche se non sappiamo ancora quali effetti collaterali comporterà sulla salute e sull’ambiente il loro utilizzo, già conosciamo benissimo i retroscena economici, il giro di interessi e il disegno politico ai quali risponde. Ora, accettare gli o.g.m. significa avvallare in qualche modo questi disegni e queste motivazioni, e correre un rischio concreto per il futuro dell’ambiente. Bandirli significa creare enormi difficoltà per la sopravvivenza immediata di miliardi di esseri umani. Non si scappa. E nemmeno è possibile continuare a ipotizzare improbabili alternative “dolci” o trincerarsi dietro soluzioni di compromesso che non sempre ci sono, e che comunque si limitano a procrastinare il problema. Qui il buon senso è più che mai necessario, nella fattispecie per “orientare” il principio di responsabilità, ma non è sufficiente senza un atto di volontà, senza una scelta coerentemente perseguita, che inevitabilmente finirà per penalizzare il presente o il futuro.
Questa attitudine etica difensiva, di conservazione anziché di trasformazione, o meglio ancora di trasformazione volta a preservare, fa riferimento ad un modello umano fino ad oggi tutt’altro che congeniale al pensiero di sinistra. Ed è questa probabilmente la principale novità con la quale esso dovrà rifare i conti.
Le religioni tradizionali e le loro versioni secolarizzate (le idealità e le convinzioni di palingenesi sociale, ad esempio il marxismo), offrendo ricette di salvezza (o di realizzazione) universali debbono fondarsi sul presupposto di una natura umana buona (anche se corrotta dal peccato, o condizionata dall’insieme dei rapporti sociali) o comunque modificabile, perfettibile (attraverso una rivelazione oppure una rivoluzione politica, una riforma sociale, una migliore educazione), e di una sostanziale identità per tutti delle motivazioni, dei fini e dei criteri di valutazione del proprio status rispetto ad una ideale felicità. In realtà, dalla teoria darwiniana noi abbiamo appreso alcuni fatti inconfutabili. In primo luogo la natura umana esiste, nel senso che i comportamenti e le inclinazioni sono geneticamente motivati e non, o almeno non solo, condizionati dall’ambiente sociale. Esiste e non è né buona né cattiva né modificabile, è semplicemente così, varia nella diversità morfologica e quantitativa delle attitudini, oggi si direbbe del software, unica nell’ascrizione ad un comportamento adattivo. Ciò significa che gli uomini sono tutti, chi più chi meno, competitivi, e con questo fatto un pensiero di sinistra rifondato deve finalmente confrontarsi: ma non significa affatto che la competitività debba risolversi in una guerra di tutti contro tutti, come peraltro la storia della civilizzazione ha già ampiamente dimostrato. Gli uomini non sono perfettibili, e nemmeno modificabili, ma la loro socialità e la loro capacità di cooperazione possono migliorare, a patto che si tenga conto della loro natura e che le opportunità di cooperare si traducano in benefici individuali reciproci.
Di questo deve tenere conto il modello etico della nuova sinistra. Non ci sono società ideali in attesa di essere realizzate, né dietro l’angolo né dall’altro capo della città: ma c’è con ogni probabilità ancora un margine di miglioramento possibile, e se pure non ci fosse ci si dovrebbe comunque comportare “come se”.
Come scrive Krippendorf, “l’impegno di sinistra è consapevole di non avere da realizzare alcun progetto, quanto piuttosto di dover confrontare la realtà con le sue possibilità migliori, nonché del fatto che ogni realizzazione, anche quella della migliore delle possibilità, non sarà mai motivo sufficiente per potersi dichiarare soddisfatti, quanto piuttosto oggetto di una critica rinnovata e più radicale. […] Al principio speranza viene a corrispondere il principio insoddisfazione, che costituisce la vera e propria fonte di energia della sinistra”.
E ancora a Krippendorf ritengo opportuno lasciare la parola conclusiva, per riassumere e chiarire in un paio di paginette quello che ho sinora tentato confusamente di argomentare.
La posizione di sinistra è fondamentalmente una posizione di critica, che pone in dubbio tutti i rapporti esistenti, adoperandosi per il loro dissolvimento, pienamente cosciente dell’impossibilità della realizzazione di tale scopo perché tutti i rapporti sociali tendono a consolidarsi, a istituzionalizzarsi, a irrigidirsi e in tal modo a trasformarsi in involucri e in diseguaglianze di potere. La posizione di sinistra è la posizione esistenziale di un insieme di modelli di comportamento e di orientamenti di vita che si lasciano ricondurre a un’articolabile insoddisfazione di principio nei confronti di tutto ciò che è stato raggiunto e di tutto ciò che esiste. Inconciliabile con essa è, in fondo, l’assunzione di cariche o di compiti direttivi o di guida in organizzazioni politiche orientate alla conquista del potere, perché ciò verrebbe a compromettere le sue funzioni critiche. Politicamente essere di sinistra significa comportarsi e orientarsi sulla base di principi che fanno riferimento non alla dimensione topografica orizzontale (“destra-sinistra”) ma a quella sociale verticale (“soprasotto”). L’orientamento o la motivazione indirizzati verso l’acquisizione di posizioni guida compromettono inevitabilmente i presupposti dell’unica legittima funzione dell’esistenza della sinistra, e cioè di fare luce criticamente su tutte le strutture gerarchiche allo scopo di modificarle.
La sinistra non ha utopie, ha invece una prospettiva. La rivelazione della confusione tra utopia e prospettiva, tra progetto e metodo, presente in larghi strati della sinistra di tutto il mondo, è una delle più importanti esperienze prodotte dal crollo del “socialismo reale”. Soltanto per coloro che con “sinistra” intendono la realizzazione di un progetto indipendentemente dalle differenze di concezione nel dettaglio, che si orientano sulla base della visione, dell’utopia di un ordine sociale di tipo socialista realizzabile, il crollo del socialismo realmente esistente ha costituito una delusione, anche nel caso in cui si fossero posti in modo apertamente critico nei confronti di quei regimi. Il socialismo come progetto di sinistra rappresenta una contraddizione in sé, come pure socialismo ed utopia. […] La trasformazione della prospettiva socialista nel progetto del socialismo reale, dell’ago della bussola per il superamento delle strutture di dominio in un’arma per la difesa delle fondamenta apparentemente già gettate dell’utopia realizzabile della ragione e della solidarietà, finì per condurre al dominio dell’astratto sul concreto, del partito sugli esseri umani e della ragion di stato su tutta la sinistra. […] Alla confusione, divenuta fatale, tra prospettiva ed utopia corrisponde la giustificazione del mezzo attraverso il fine, la distinzione tra tattica e strategia, l’impostazione strumentale dei metodi politici a vantaggio della dogmatica dei grandi scopi della società senza classi. A dispetto di ciò la sinistra è di per sé un metodo, e nient’altro che un metodo.
Il metodo politico di sinistra è la chiarificazione intellettuale (illuminismo) e non la fondazione di partiti. L’illuminismo è innanzitutto, e anche in ultima istanza, auto-illuminismo, non certo istruzione, didattica, trasmissione di sapere. È riflessione, non indottrinamento. L’organizzazione, in particolar modo quella di un partito, è in contraddizione con esso, sottrae ad esso, nonché ad un effettivo agire di sinistra, le proprie chances. L’illuminismo, quale metodo della politica di sinistra, è testimonianza, resa pubblicamente, di singoli individui, collegata, interconnessa e mediata attraverso i più variegati contesti; ma proprio e soltanto in quanto produzione non organizzata di analisi, giudizi ed opinioni può trovare, ovvero mantenere, la sua identità nell’articolazione di una critica e di una insoddisfazione permanenti. I partiti, anche quelli “più a sinistra”, si muovono necessariamente sul terreno dei compromessi tattico-strategici, della ricerca del compromesso tra quanto è ritenuto vero e giusto e il livello di consapevolezza degli elettori.
Un comportamento di sinistra, cioè basato su principi, significa il rifiuto di qualsiasi tattica finalizzata al raggiungimento di scopi strategici. Per la sinistra anche il più piccolo dei compromessi tattici contiene il germe dell’autoannullamento, perché per essa non è in gioco tanto il successo pragmatico quanto la verità della critica dell’esistente.
Non mi sembra il caso di aggiungere altro. Detto così è già tutto estremamente chiaro, e anche dannatamente impegnativo. Non rimane che augurare, per il bene di tutti, vita nuova e possibilmente lunga alla sinistra.
Delle idee espresse in questa conversazione sono l’unico responsabile. Ritengo però doveroso citare almeno alcune delle opere dalle quali ho tratto stimoli, suggestioni e, naturalmente, le citazioni.
Arendt, Hannah – Vita activa – Bompiani 1988
Boncinelli, Edoardo – Le forme della vita – Einaudi 2000
Boockhin, Murray – L’ecologia della libertà – Elèuthera 1984
Flores d’Arcais, Paolo – L’individuo libertario – Einaudi 1999
Gorz, Andrè – Sette tesi per cambiare la vita – Feltrinelli 1977
Gorz, André – La strada del Paradiso – Edizioni Lavoro 1984
Krippendorf, Ekkekart – L’arte di non essere governati – Fazi 2002
Poggio, Pier Paolo – La crisi ecologica – Jaka Book 2003
Revelli, Marco – La sinistra sociale – Bollati Boringhieri 1997
Revelli, Marco – Oltre il Novecento – Einaudi 2001
Rifkin, Jeremy – La fine del lavoro – Baldini & Castoldi 1995
Singer, Peter – Una sinistra darwiniana – Comunità 2000
Touraine, Alain – Critica della modernità – Il Saggiatore 1992