Teoria e pratica del pentagonismo

(che non è una disciplina olimpica)

di Carlo Prosperi, 18 maggio 2023

Teoria e pratica del pentagonismo 02Di Juan Emilio Bosch non conoscevo né le vicende umane e politiche né le opere letterarie. Sono quindi grato all’amico Francesco M. Bonicelli Verrina, che per primo ha tradotto in italiano il breve saggio El pentagonismo como sustituto del’imperialismo (1967)[1], di avermi dato modo di colmare in parte questa mia lacuna e di approfondire il tema trattato dallo scrittore e politico dominicano. Il quale ebbe la triste ventura di vivere sotto la dittatura, non meno grottesca che feroce, del dittatore Rafael Trujillo Molina, alla quale si sottrasse viaggiando e trascorrendo lunghi anni in esilio, tra Cuba e Venezuela. Solo nel 1961, dopo l’attentato che pose fine all’abominevole tirannide di Trujillo, fin allora sostenuto dagli americani con la scusa che era sì un “bastardo” (un autentico son of bitch, per dirla con l’icastica espressione roosveltiana), ma era pur sempre il “loro bastardo”, rientrò in patria e, nel dicembre del 1962, vinse le elezioni diventando il primo presidente eletto democraticamente dopo trentun anni di dittatura.

Teoria e pratica del pentagonismo 03Bosch, contando di avere l’approvazione di Washington, subito dopo il suo trionfo elettorale promise di “trasformare la Repubblica Dominicana in una vetrina dell’America Latina” che sarebbe servita come modello della “democrazia rappresentativa”. Ma il tentativo di proteggere gli interessi nazionali da lui intrapreso si scontrò con quelli del movimento conservatore che godeva dell’appoggio degli Stati Uniti, timorosi di ogni novità sospetta che potesse intaccare il loro dominio su quello che fin dai tempi di James Monroe consideravano il loro “cortile di casa”. Tra le accuse mosse a Bosch c’era quella, infondata, di essere comunista. Così, dopo soli sei mesi, egli fu destituito e da allora smise di credere nella democrazia rappresentativa per vagheggiare l’idea di una “dittatura con l’appoggio popolare”. Fu proprio in questo periodo di amara disillusione che egli si sforzò di analizzare le cause del fallimento del modello democratico nei Paesi caraibici e il ruolo svolto in tutto questo dal capitalismo. Dopo Il pentagonismo sostituto dell’imperialismo, videro così la luce diversi studi sull’argomento: Tesi sulla dittatura con l’appoggio popolare (1969), Da Cristoforo Colombo a Fidel Castro (1969), Breve storia dell’oligarchia (1970) e Composizione sociale dominicana (1970). Negli anni successivi si dimise dal Partito Rivoluzionario Dominicano, del quale era stato uno dei fondatori negli anni d’esilio a Cuba, e diede vita al Partito della Liberazione Dominicana, che solo nel 1996, dopo vari tentativi, riuscì ad affermarsi, mandando alla presidenza Leonel Fernández.

Teoria e pratica del pentagonismo 04Convinto che “la mancanza di memoria più lieve può portarci su strade insospettabili”, Bosch continuò a riandare con la mente alla sua esperienza di governo e per primo intuì che alla base del fallimento c’era stato un errore concettuale derivante da un difetto nel valutare l’evoluzione storico-sociale. Si continuava a parlare di capitalismo e di imperialismo, senza rendersi conto che la realtà era nel frattempo profondamente cambiata. I formidabili progressi scientifici e – aggiungiamo noi – tecnologici non avevano solo prodotto, per dirla con John Kenneth Galbraith, una affluent society, moltiplicando a dismisura i consumi e il benessere economico degli americani, ma avevano altresì trasformato una società eminentemente individualistica in una società di massa. E tutto questo – si noti bene – senza che i cittadini se ne avvedessero, così che essi seguitavano a credere di vivere in una società di individui liberi. Mentre, in realtà, erano eterodiretti o, se vogliamo, telecomandati, dal momento che i nuovi mass media, a cominciare proprio dalla televisione ne condizionavano le idee, i comportamenti, i consumi. In questo la pubblicità giocò un ruolo di primo piano, giacché, sfruttando gli studi di psicologia delle masse, i “persuasori occulti” presero ad insinuarsi nella mente dei consumatori servendosi – a dire di Vance Packard – anche di messaggi subliminali alla stregua della psicologia usata dai governi per spingere al massacro migliaia di giovani nel conflitto mondiale.

Teoria e pratica del pentagonismo 05

Secondo alcuni storici – e Bosch sembra in effetti condividerne la tesi – a salvare definitivamente gli USA dalla grande depressione del 1929 non fu tanto il New Deal di Roosevelt, quanto l’enorme incremento che lo sforzo bellico impresse alla produzione americana. E che determinò la metamorfosi stessa del capitalismo, destinato ad un ipersviluppo che ne cambiò radicalmente la dimensione e i connotati. Tanto che in esso si riconoscono già i germi dell’odierno “turbocapitalismo”, caratterizzato dalla finanziarizzazione dell’economia e dalla “smaterializzazione” dovuta all’informatica e all’elettronica. Ora, il capitalismo, sia pure nelle nuove forme via via assunte, è sopravvissuto allo stesso imperialismo, del quale, secondo Lenin, avrebbe invece dovuto essere la fase suprema. C’è chi si ostina, nel caso degli USA e di altre grandi potenze, a parlare di imperialismo, magari qualificandolo come “economico” o “commerciale” (come è stato anche definito l’imperialismo “in salsa cinese”) o come “neo-imperialismo”, senza rendersi conto che siamo ora di fronte a una realtà affatto inedita, prodotta dal capitalismo ipersviluppato, che Bosch chiama “pentagonismo”.

Nel Pentagono ha infatti sede il quartier generale del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti d’America, in cui si concentra il potere militare nordamericano: un potere nato “dal ventre dell’economia di guerra” e che non può considerarsi costituzionale perché nella Costituzione politica della nazione non è menzionato. Un potere de facto, non de iure. Nondimeno, nella società di massa statunitense esso si è affermato indipendentemente dalla volontà cosciente degli elettori, fino a diventare, nel giro di pochi anni, preponderante rispetto a quello civile. Laddove il potere si misura in denaro, chi di più denaro dispone è inevitabilmente destinato a prevalere. È quanto si è verificato negli USA, dove il Pentagono è giunto a spuntare finanziamenti superiori a quelli del Governo federale. Questo non sarebbe potuto avvenire se l’apparato militare non avesse avuto il decisivo sostegno delle grandi corporations, che – come la guerra aveva dimostrato – alle ingenti commesse provenienti da quel settore dovevano il proprio ipersviluppo. Profittando del tracollo dell’imperialismo, il pentagonismo – che il presidente Eisenhower definì con preoccupazione “complesso industrial-finanziario” – pensò di raccoglierne l’eredità, ma – qui sta la vera novità – senza dovere conquistare dei territori coloniali e senza proporsi di sfruttarli economicamente. Dice bene Bosch: «Il pentagonismo non sfrutta le colonie: sfrutta il proprio popolo», e lo fa colonizzando la metropoli, costretta a finanziare gli interventi militari necessari per conquistare e mantenere posizioni di potere all’estero: ambito su cui il pentagonismo ha più voce in capitolo dello stesso potere civile.

Teoria e pratica del pentagonismo 06Un vasto complesso industrial-militare domina il Congresso” ebbe a lamentare Fulbright nell’ottobre 1967, e il senatore Eugene Mac Carthy, che guidava la campagna contro Johnson, ribatté: “Tutti noi al Senato stiamo tentando di mettere un qualche limite al potere del complesso industrial-militare che controlla la politica estera di questa nazione”. Segno che il rischio di una deriva antidemocratica e guerrafondaia era già avvertito. Almeno da una minoranza illuminata. Ma come poteva questa opporsi ad operazioni che sembravano avere benefici influssi sul benessere della nazione? “In un calcolo puramente matematico – annotava il Business Weech nell’aprile 1965 – il crescere della guerra ordinata da Johnson cambia le prospettive economiche per il meglio”. Era allora in corso la guerra in Vietnam e nei mesi successivi alla scalata delle operazioni belliche, quando la costruzione delle infrastrutture cominciava non solo sul territorio di Saigon, ma anche nei paesi vicini, e specie in Thailandia, una cospicua serie di industrie si giovò di un “atteso boom”. Con l’intensificarsi della guerra, si moltiplicò la richiesta di pneumatici, apparecchiature elettriche e elettroniche, armi, munizioni, carburanti, ecc. E si moltiplicarono di conseguenza i profitti delle imprese di costruzione, meccaniche, aeree, alimentari. Per le più grandi corporations d’America (Lockheed, Aircraft, Ford, Westinghouse, General Dynamics, ecc.), ma anche per l’industria giapponese produttrice di napalm, fu una vera manna. Si disse – ed è uno dei paradossi ricorrenti delle guerre moderne – che le compagnie petrolifere finanziassero persino i vietcong (Fortune, marzo 1966).

La vicenda vietnamita, a preferenza di quella domenicana, che pure lo riguarda da vicino, è assunta da Bosch ad esempio paradigmatico dei guasti del pentagonismo, non solo perché più nota, ma anche perché a tanto dispendio di vite umane e di mezzi non corrisposero risultati adeguati sul campo. Gli USA riuscirono anzi nell’impresa di perdere una guerra senza perdere una battaglia. Oltre a questo, allarmarono l’opinione pubblica sia interna sia internazionale. Paul Kennedy, nel suo classico studio Ascesa e declino delle grandi potenze (1987), riprendendo un concetto di Robert Gilpin, mise in guardia sulla “legge del costo crescente della guerra”, per la quale i costi del mantenimento dello status quo crescono più velocemente della capacità economica di sostenere lo stesso. A lungo andare, l’espansione del settore militare finisce quindi per danneggiare l’economia (come ha del resto dimostrato l’implosione dell’URSS).

Teoria e pratica del pentagonismo 08Forse, però, la parte più interessante del libro è quella dedicata alle motivazioni morali di volta in volta addotte dal pentagonismo. L’intervento militare non è mai giustificato da propositi dichiaratamente aggressivi, quantunque le guerre promosse o combattute dagli USA interessino ogni parte del mondo. Esse sono guerre preventive o volte comunque a soffocare presunti conati di sovversione (“dottrina Johnson”): guerre per “esportare la democrazia” o per combattere il terrorismo. A volte vere e proprie guerre per procura, qual è per certi versi quella attualmente in corso in Ucraina. Il pentagonismo ha così fatto degli USA “la polizia politica del mondo” (capitalista). E non c’è differenza in questo tra presidenze democratiche e repubblicane, perché, almeno nella politica estera, tutte, bon grè, mal gré, soggiacciono ai voleri del Deep State, cioè di quel variegato “complesso industrial-militare” che è per Bosch il pentagonismo. Mike Lofgren in The Fall of the Constitution and the Rise of a Shadow Government definisce lo Stato profondo come “un governo ombra” che opera al di fuori delle istituzioni rappresentative e “presta scarsa attenzione ai semplici dettami costituzionali”. Vi appartengono lobbies, massoneria, funzionari di Stato e apparati di controllo che decidono le nostre vite all’infuori del gioco democratico, ma il nucleo preponderante è costituito dall’apparato militare, che, in combutta con le multinazionali, le agenzie di rating, i mercati finanziari, le banche centrali e le banche d’affari, influenza (e spesso determina) gli indirizzi politici della nazione. In particolare, per quanto concerne la politica estera.

La politica estera statunitense dipende quindi fortemente dalla volontà degli apparati. Si è visto con Trump, quando ha provato ad avvicinarsi alla Russia. Da sempre alla ricerca di un rapporto più stretto con il Cremlino, l’ex presidente Usa ha tentato invano di stabilire un punto di contatto con Putin. Gli apparati statunitensi, memori ancora della Guerra Fredda con l’URSS, glielo hanno impedito. Ma Trump non è stato l’unico a recriminare sul Deep State, lo fece anche Obama quando lamentò che il Pentagono lo costrinse ad inviare altre truppe in Afghanistan, e addirittura Reagan quando disse che il Deep State stava frenando la sua battaglia contro i comunisti. Del resto, il cronista investigativo del Watergate Bob Woodward, in Peril, riferisce che il generale statunitense capo di stato maggiore dell’Esercito Mark Alexander Milley avrebbe istruito i vertici in carica al comando centrale militare, nella war room del Pentagono, “di non prendere ordini da nessuno senza il suo coinvolgimento”. La decisione di accentrare nelle mani del super generale tutti i poteri operativi militari sarebbe stata assunta (e quindi condivisa) durante una serie di vertici top secret tenuti da Milley con alti dirigenti della Cia, del Pentagono e in due contatti riservati avvenuti con Nancy Pelosi e Chuck Schumer, allora leaders democratici dell’opposizione, rispettivamente alla Camera e al Senato.

Teoria e pratica del pentagonismo 07Il merito principale di Juan E. Bosch è stato quello di metterci in guardia da questi apparati, neanche tanto segreti, che agiscono da Stato nello Stato, senza averne alcuna legittimazione. Non lo consolerebbe certo sapere che il fenomeno non è più soltanto americano, se è vero che anche il capo della Wagner Evghenij Prigozhin, nel recente manifesto Solo lotta leale. Nessun accordo diffuso sui canali Telegram ha denunciato la tentazione circolante tra i segmenti dell’apparato militare russo che mirerebbero a un compromesso con gli USA onde “preservare i confini esistenti il 24 febbraio 2023”. Queste, secondo Prigozhin, che guarda alla trascorsa grandezza imperiale, sarebbero élites che “lavorano per padroni diversi: alcuni per il governo esistente, altri per coloro che sono in fuga da molto tempo”. Paradossalmente, anche una sconfitta in Ucraina potrebbe “portare a cambiamenti globali nella società russa” e spingere la gente ad abbandonare questi esponenti dello “Stato profondo” pronti – per difendere il proprio benessere – a tradire gli interessi della Russia scendendo a patti con Washington e Kiev.

[1] JUAN EMILIO BOSCH, Il pentagonismo. Come il “Deep State” U.S.A. tiene in pugno il continente americano, OAKS Editrice, Sesto San Giovanni 2022.

Passati prossimi e futuri imminenti

di Stefano Gandolfi, 10 ottobre 2022

Andai nei boschi e … inciampai

di Fabrizio Rinaldi, 20 giugno 2021

C’è in tutti noi un limite alla tolleranza, superato il quale c’è chi spara, chi sbraita, chi fa finta di nulla e tira dritto divenendo indifferente: e poi c’è chi scrive. In questo ultimo caso non lo si fa per trovare altri che la pensino al nostro stesso modo, o per convincerli a farlo, ma per non sparare o per non mettersi a urlare. Io il limite l’ho toccato leggendo una frase semplicissima, apparentemente innocente, che recensiva l’ennesimo libro-fotocopia di Tiziano Fratus sugli alberi: “Venite a camminare nei boschi, le foglie vi insegneranno saggezza”. A quanto pare ho soglie di tolleranza basse.

Le foglie vi insegneranno la saggezza! No, non ne posso più dei professionisti della fitness naturistica, di chi celebra le proprietà salvifiche dello stare nei boschi, di chi propina cure antidepressive basate sul vivere nel verde, di chi crede al potere rigenerante dell’abitare nelle campagne, e lo fa dal teleschermo o ingolfando le librerie.

Io in mezzo alla natura ci vivo da sempre. Sono nato e cresciuto fra le colline dell’ovadese, sin da piccolo ho rastrellato campi, zappato l’orto, vendemmiato, sfrondato rami e sistemato balle di fieno nella cascina dei nonni. Divenuto adulto, ho finito per fare altro di mestiere, ma ho perseverato nel vivere in campagna piuttosto che in città, proprio per gli indubbi vantaggi di tranquillità, benessere e, non ultimo, di un costo della vita più vicino alle mie possibilità.

Un po’ dunque la campagna la conosco, e so per esperienza che queste cose sono in parte vere. So anche, questo per un po’ di semplice buon senso, che l’essere umano nella natura ci sta a suo agio da sempre (senza che qualche sapientone glielo spieghi), e so persino che ciò è possibile, tra l’altro, per la presenza nel sottobosco, nell’orto e un po’ ovunque nell’habitat naturale, del batterio Mycobacterium vaccae che, attivando il rilascio di serotonina, riduce l’ansia e favorisce il rafforzamento del sistema immunitario.

Ci vivo, ma non sono più saggio di chi abita nella metropoli solo perché distinguo l’acero dal pino. Le foglie rastrellate in autunno non mi hanno mai svelato il vero significato della nostra effimera esistenza. Sarò insensibile ai poteri sapienziali dell’ambiente naturale (che poi di “naturale” non ha più nulla) ma, pur riconoscendo i privilegi dello stare qui piuttosto che a Marghera o a Rovereto, non ne ignoro i costi in fatica fisica e scomodità.

Quindi mi sento in diritto di dire la mia. Che non è poi solo la mia. Se proviamo a domandare a chiunque viva di prodotti agricoli – ma “viva” davvero di questo e non sia un millantatore –, dirà che sì, vivere nel verde è delizioso, ma anche che “la terra è bassa”. Che cioè per ripagarti con uno stipendio appena appena dignitoso ti chiede una gran fatica. È bello vedere ex-direttori di banca o rampolli di buona famiglia che si reinventano come imprenditori agricoli di successo: sarebbe però interessante anche capire di quali risorse, e relazioni, hanno potuto disporre, e soprattutto se tutto questo ha ancora davvero a che fare col vivere nella natura.

Andai nei boschi e inciampai (3)Perché anche già soltanto a viverci, nella natura, è fatica. Dopo una nevicata, anziché fermarmi a rimirare romanticamente il paesaggio innevato, se voglio raggiungere il posto di lavoro in tempo o accompagnare le bimbe a scuola devo armarmi di pazienza, pala, turbina e … spalare, senza contare troppo su aiuti esterni. Arrivata la primavera è necessario porre rimedio agli effetti di neve, acquazzoni, frane e altre amenità più o meno naturali, andando a tagliare gli alberi stroncati dalle gelate e dal peso dei fiocchi, a liberare i fossi, a ripristinare il muretto di contenimento e così via.

Ci sono poi i disagi nei rapporti col “mondo esterno”, quello che sta là fuori. Ad esempio, la reale velocità di internet che posso raggiungere qui: di vedere l’ultima serie su Netflix certamente me lo scordo (non che mi interessi particolarmente, però ogni tanto un film …), ed è già un miracolo che le mie figlie siano riuscite a seguire le lezioni in DAD durante la pandemia, tra continue interruzioni di rete e voli funambolici dalla connessione della saponetta internet di casa all’hotspot del cellulare.

Le distanze per fare acquisti, necessari e superflui che siano, sono oggettivamente irrisorie. Ciò che non trovo qui vicino posso facilmente trovarlo, ordinarlo e averlo in pochissimi giorni attraverso Amazon. Ma se voglio andare oltre il facile acquisto e visitare ad esempio una mostra devo spostarmi di almeno 30-50 km. Per capirci: in questi giorni è uscito un documentario intitolato “Paolo Cognetti. Sogni di grande nord”, che mi intrigava molto: ci ho rinunciato, perché lo proiettavano solamente per pochissimi giorni, e solo in alcuni cinema di Genova e di Cuneo. Non proprio a due passi.

Peccato, perché prometteva bene: l’autore di “Le otto montagne” e il suo amico Nicola Magrin (bravo illustratore dei libri di Rigoni Stern, Levi, Terzani e molti altri) raccontano il loro viaggio a piedi in Alaska, citando la gran parte degli scrittori di viaggi e natura a me cari. Potrà sembrare una piccola rinuncia, ma io ci tenevo molto. Per un motivo molto semplice.

L’aver letto i moltissimi autori che dal Romanticismo in poi hanno trovato negli spazi naturali la loro ispirazione mi aiuta ad accettare i disagi e le fatiche dello stare qui. È confortante sapere che personaggi del calibro di London, Kerouac, Chatwin (beh, lui no: si sa che era refrattario allo sforzo), Thoreau, Emerson, Frost, Krakauer e gli italiani Calvino, Pavese, Rigoni Stern, Camanni, hanno provato la fatica dello stare in natura. A ragion veduta Leopardi scriveva: “O natura, o natura / perché non rendi poi / quel che prometti allor? Perché di tanto / inganni i figli tuoi?” (da “A Silvia”).

Mentre metto via la legna per l’inverno penso al “vecio” Rigoni intento a fare altrettanto. Quando squarcio la neve per raggiungere l’auto che ho lasciato prudentemente in cima alla salita lo faccio meglio se rivado ad una situazione simile raccontata nei fumetti di Ken Parker. Se grondo sudore a zappare mi viene in mente ciò che fece Thoreau nei primi mesi del suo isolamento: non lesse, ma piantò fagioli.

La cosa funziona: nel senso che se condivisi con i miei eroi anche i gesti più banali, i lavori più ripetitivi, acquistano subito un altro sapore. Ciò non toglie che i gesti occorra compierli e i lavori affrontarli. La saggezza, l’equilibrio, il benessere, vengono da quelli, e non dalle foglie. Quando sai che la terra è bassa ci cammini sopra in un altro modo: meno leggero, magari, ma più consapevole.

Quindi: venite pure a camminare nei boschi, ma assieme alle bibite e ai panini portatevi dietro tanto buon senso. Non sperate di vederlo colare dai rami delle piante. I boschi non insegnano nulla, ci offrono solo l’occasione di concentrarci un po’ di più su noi stessi. Lo dice anche Thoreau in Walden o vita nei boschi: “Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto”.

“Quanto essa, la vita, e non le foglie, aveva da insegnarmi”. È noi che dobbiamo interrogare, e i testi delle domande non ce li devono scrivere i nuovi guru naturisti. E se non siamo in grado di farlo da soli, allora ce li meritiamo.

Andai nei boschi e inciampai (5)

Thoreau descrive nel suo libro una esperienza di vita appartata, lontano dai rumori e gli odori delle città, ma non al punto da impedirgli di incontrare ogni tanto qualcuno con cui dialogare. Credo che questa sia la condizione che ho cercato anch’io nel luogo dove abito. Pur ammettendo una certa affinità con Dinamite Bla che, nei fumetti Disney, dal suo Cucuzzolo del Misantropo, caccia i seccatori con l’archibugio caricato a sale, mi reputo una persona accogliente, propensa all’ascolto e ad imparare dagli altri quando hanno qualcosa da insegnargli. In me convivono la propensione a un pensiero non conformista e una sensibilità ai temi ambientali, ma ritengo che questi debbano essere vissuti nel quotidiano, in un rapporto concreto, e quindi non idealizzato, con il luogo dove vivo: solo su questa base si possono fare scelte, personali e/o politiche, fondate e non velleitarie, per non divenire preda di inciviltà. In tal caso, dietro la porta non ho il fucile, ma – a ragion veduta – l’arco e le frecce. Non si sa mai.

Andai nei boschi e inciampai (2)

Tutto sommato sono ottimista. C’è una qualche speranza di essere per il futuro in buona compagnia: negli ultimi anni è comparsa un’innegabile attenzione per i cambiamenti climatici, una consapevolezza che non esisteva negli anni del dopoguerra e del boom economico. Per i più questa consapevolezza si ferma all’acquisto di prodotti bio o alla raccolta differenziata, ma certamente ci sono anche molti che provano davvero ad attuare scelte di minor consumo, magari non acquistando l’ultimo libro che parla delle interazioni bioenergetiche fra gli alberi, bensì provando a piantar pomodori invece che comprarli.

È una scelta complessa, e sicuramente elitaria, poiché non è concepibile una popolazione intera che viva in modalità “minimalista” (non in “decrescita felice” perché – a parer mio – i termini sono incompatibili), e spersa nelle campagne e sulle montagne perché in antitesi con un’economia basata sull’acquisto di scempiaggini.

Il vero salto di qualità comporterebbe divenire parte integrante della classe politica ed imprenditoriale, per incoraggiare dall’interno queste diversità: ma temo che per questo, sempre che sia poi realisticamente possibile, ci vorrà ancora qualche scossone.

La natura i suoi avvertimenti li dà, e da un bel pezzo. Sta a noi finalmente svegliarci dal torpore del “benessere” a buon mercato, e coglierli. Ma dobbiamo farlo con la nostra testa, senza abbracciare nuovi credi e religioni. I credi e le religioni nascono tutti con buonissimi intenti, ma finiscono poi inevitabilmente per creare delle chiese, un clero, dei dogmi, e per riaddormentare le coscienze. Qui si tratta invece, ad esempio, di volere e realizzare (in qualche caso, perché no, anche imporre) delle scelte di presidio “vero” del territorio, che non può essere demandato – e lo vediamo benissimo tutti i giorni –alle istituzioni, ai carrozzoni delle protezioni civili o alle giornate di pulizia dei fiumi o dei boschi, ma va gestito direttamente (e quindi, in qualche forma non assistenzialistica) proprio dalle comunità appartate territorialmente: questo non solo per garantire la cura costante di luoghi che oggi corrono verso lo sfacelo idrogeologico, con contraccolpi anche nelle città (vedi le inondazioni che immancabilmente avvengono alla prima pisciata del cielo), ma anche per innescare fiducia in un modello di convivenza differente e possibile.

Insomma, dobbiamo finirla di guardare alle scelte di vita appartate e rurali come ad esperienze “strane”, eccezionali, buone per i servizi televisivi dei programmi “verdi”, chiuse in se stesse e riservate a pochi eletti, o ad originali e un po’ strambi con l’archibugio sempre a portata di mano, che sopravvivono grazie alle melanzane coltivate nell’orto. La valorizzazione realistica e concreta (e non la spettacolarizzazione) delle micro-economie ancora esistenti o di quelle che stanno rinascendo e delle esperienze sociali a queste connesse può offrire grossi spunti di riflessione per ragionare su un’economia fondata su differenti paradigmi e su modi diversi di stare al mondo. Leggere la diversità sociale come un gesto artistico è né più né meno come marginalizzarla. Leggerla come una possibilità concreta, diffusa, terra terra, è un antidoto alla monocultura consumistica.

Non abbiamo bisogno di nuovi evangelisti. Sono sufficienti onesti divulgatori, che non traducono il linguaggio delle foglie, ma sanno fare quattro conti su costi e ricavi “globali” dei diversi tipi di rapporto con la terra, e sanno che la terra è bassa. Alla Carlo Petrini, per intenderci.

Andai nei boschi e inciampai (4)Collezione di licheni bottone

(Dis)obbedire

di Marco Moraschi, 22 aprile 2021

Accolgo l’invito di Paolo (in “Primavere perdute“) a riflettere ancora una volta su ciò che stiamo vivendo da ormai più di un anno. Facendo una rapida cernita, mi accorgo che da quando è iniziata la pandemia questa è già la quinta riflessione che scrivo sugli stessi argomenti: a dire la verità sono anche un po’ stufo di non trovare altro di cui parlare, ma è anche (purtroppo) inevitabile che sia così dal momento che questa è praticamente l’unica esperienza che abbiamo da oltre un anno, a parte quelle vissute sul lavoro o immaginate nei libri che per fortuna ci è ancora concesso leggere. È la quinta volta dicevo, ma incredibilmente sembra che ogni volta gli argomenti siano diversi dai precedenti e ci sia sempre qualche aspetto che la volta prima mi era sfuggito o sembrava diverso. In effetti molte riflessioni sembrano nuove semplicemente perché cambia il nostro modo di approcciarci agli stessi problemi: per fortuna siamo ancora capaci di fare tesoro delle esperienze passate nonostante l’eterno presente in cui ci troviamo e questo ci consente di affrontare ogni giorno uguale come se fosse un’assoluta novità. Sai che novità, direte voi. 

Un altro aspetto interessante è che le nostre opinioni maturano e la fortuna di averle messe per iscritto è che possiamo rileggere cosa pensavamo in un determinato momento del passato, trovandoci nuovamente d’accordo o sentendoci invece un po’ sciocchi. La verità, ancora una volta, è che questa situazione, lo abbiamo già detto, è totalmente inedita per le nostre vite e quindi ciò che ne pensiamo matura col tempo, mano a mano che i giorni si sommano gli uni con gli altri. Vorrei quindi proporvi un esercizio totalmente inutile: ho riletto tutto ciò che ho scritto da febbraio dell’anno scorso e mi sono segnato alcune frasi, per commentarle a posteriori, perché a distanza di tempo tutto sembra assumere un significato e una valenza diversi. In genere è un esercizio che si fa con i politici: si pescano frasi che hanno detto o scritto in passato e li si mette davanti al loro imbarazzo nel mostrare come hanno cambiato idea, anche se il vero imbarazzo è piuttosto non cambiare mai idea. Queste cose le ho scritte nei mesi passati, su qualcuna concordo, su altre no:

  • (Dis)obberire 02Per molti la medicina rischia di essere peggiore della malattia.” Lo penso ancora e questo è vero specialmente se si considerano i devastanti effetti delle chiusure generalizzate. Vorrei precisare una cosa però: non dobbiamo pensare che esista una mutua esclusione tra decidere di salvare l’economia o di salvare delle vite umane, né che queste siano le uniche due possibilità. Se, come sembra, questa pandemia ci accompagnerà per chissà quanto tempo ancora, dobbiamo trovare un’alternativa valida alla chiusura come unico mezzo per combattere la diffusione del virus. Non sono un medico né faccio parte del famoso comitato tecnico scientifico in qualità di “esperto”, ma mi rifiuto di credere che l’unica via sia quelle delle chiusure: vorrei semplicemente che si investisse di più nella ricerca di alternative, potenziando la sanità e al contempo elaborando dei protocolli affinché le attività possano riaprire in sicurezza. Badate, non è una questione puramente economica, è una questione di dignità: il mio lavoro mi ha salvato in questa pandemia, perché mi ha dato uno scopo, dei compiti e delle attività da svolgere quando tutto intorno era fermo e non si vedeva una via di uscita. Posso ritenermi molto fortunato, ma non è stato così per tutti purtroppo: chiudere un’attività non significa solamente togliere una fonte di sostentamento economico a chi su quell’attività campa (e non venitemi a parlare dei ridicoli indennizzi statali, buoni solo a far del debito), ma anche privare la vita di quelle persone di un pezzo importante del loro essere, perché quando sentiamo dire che “il lavoro nobilita l’uomo” è dannatamente vero.
  • Prima”. Continuiamo a sentire confronti tra com’era “prima” e com’è adesso. Vi dico la verità, a me di com’era prima non interessa nulla, perché quel prima è ormai andato e per certi aspetti dobbiamo augurarci che quel prima non torni mai più. La speranza è invece che ragionando su com’è adesso possiamo decidere (e non subire) come sarà il “dopo”, se mai ci sarà. Francamente, non nutro molta speranza.
  • Siamo impreparati: giornalisticamente, politicamente, economicamente. A tutti i livelli si procede in ordine sparso. Viviamo nella dimostrazione del principio di incompetenza di Peter.” Questa è una delle prime cose che ho scritto. Ahimè, si commenta da sola: è vera, e non è cambiato nulla. Cambiano i governi, cambiano le classi dirigenti, ma a tutti livelli l’incompetenza rimane salda al suo posto.
  • (Dis)obberire 03 ThoreauTutti i cittadini devono rispettare le regole (leggi) dello Stato”. Ve lo confesso, su questa ho dei seri dubbi e la colpa è mia che non ho ancora capito Thoreau. Perché in questo anno di decreti legge e DPCM ne abbiamo lette e sentite come si dice “di cotte e di crude”, e se sarà pur vero che “la libertà è coscienza del dovere”, la mia coscienza mi impone di non stare zitto di fronte all’assurdità di certi provvedimenti, suggerendomi che la vera libertà è scegliere deliberatamente di non rispettarli, non per nuocere a qualcuno, ma per evitare che essi stessi possano continuare a prendersi gioco della nostra intelligenza. Sono stato il primo ad accettare i sacrifici e anzi, a rendermi conto che la vera libertà era scegliere di essere dalla parte della responsabilità, ma l’immobilismo e l’irrazionalità di certe decisioni mi hanno decisamente stufato: non sto dicendo che da domani inizierò a uscire dopo le 10 di sera o a fare delle feste in casa, continuerò a non vedere gli amici, a rispettare il coprifuoco e a mettere la mascherina all’aria aperta, ma se un anno fa lo facevo con convinzione, adesso proseguo solamente per inerzia. La verità è che dopotutto non sono così coraggioso: uscirei volentieri a fare una passeggiata dopo le 22 pur di contravvenire a una norma idiota e lo farei nel pieno rispetto di alcune misure che invece ritengo efficaci, ovvero uscire da solo e indossando la mascherina. Ed è qui che entra in scena Thoreau e vorrei davvero che qualcuno me lo spiegasse, perché forse non l’ho capito: se mi comportassi come ho detto starei praticando quella forma di protesta definita come disobbedienza civile o sarei più idiota della norma stessa? Quand’è che la nostra insubordinazione smette di essere un gesto nobile e diventa invece prevaricazione? Siamo noi a decidere sulla base delle nostre convinzioni personali, oppure ci dev’essere un comune sentire affinché si tratti di disobbedienza civile? La pandemia ha scatenato in me queste domande, perché mi ha posto di fronte a delle scelte: prima non le avevo mai avvertite perché ero in pieno accordo con le leggi dello Stato, o quantomeno le leggi che conosco. Non mi sarei mai sognato di ammazzare qualcuno come forma di disobbedienza civile, ma ora che queste leggi (non tutte, sia chiaro) mi appaiono così distanti dalla logica, non so come comportarmi. Se ci siete, vi prego, aiutatemi, ci vediamo in piazza alle 22.

Link: L’insicurezza degli oggetti

Primavere perdute

(e un solo lungo inverno)

di Paolo Repetto, 9 aprile 2021

I remake sono già insopportabili al cinema, figuriamoci quando a riproporsi tale e quale è una realtà come quella della clausura coatta. In queste prime giornate d’aprile, infatti, quanto a numeri dei contagi e dei decessi, e a conseguenti restrizioni, siamo esattamente nella condizione di un anno fa. E andrebbe addirittura peggio, se terapie più mirate non contenessero bene o male le dimensioni della strage.

A non essere più lo stesso è invece lo stato d’animo col quale affrontiamo la pandemia. Forse siamo meno spaventati. Ma se avvertiamo una pressione minore è solo perché ci stiamo abituando, e se prendiamo le regole meno alla lettera è perché in realtà abbiamo introiettato e troviamo naturali le precauzioni elementari (parlo delle persone normali, naturalmente: gli idioti non fanno testo, anche se fanno danni). Soprattutto, la speranza che ci sorreggeva la primavera scorsa, per cui l’estate avrebbe posto fine all’incubo, quella è totalmente svanita. Adesso sappiamo che con la pandemia dovremo convivere ancora per molto, cosa che per quelli della mia età significa per sempre. Nemmeno i vaccini riescono a rischiarare il futuro (ultimamente lo hanno reso anzi ancora più cupo: perché non ci sono, o perché quelli che ci sono non sembrano funzionare granché).

Abbiamo una sola certezza: che nulla sarà più come prima. E dato che già prima avevamo un’idea molto confusa di come le cose andassero veramente, tendiamo a mitizzare quel recentissimo passato, a ricordarlo come un’età dell’oro. Non è solo frutto di una deformazione prospettica: in effetti, paragonata alla situazione che stiamo vivendo, quella di un anno e mezzo fa appare paradisiaca. Se allora navigavamo in acque poco tranquille, oggi siamo proprio in balia della tempesta. Stiamo perdendo d’un colpo tutte le sicurezze che secoli di “progresso” sembravano averci garantito.

Ora, a livello individuale questo sconquasso viene naturalmente vissuto in maniere molto diverse, a seconda delle condizioni oggettive, anagrafiche, di salute, di lavoro, di famiglia, o di ciò che effettivamente si è perduto: ma intervengono poi anche le differenti disposizioni caratteriali, per cui ciascuno è portato a leggere la situazione da un suo particolare angolo prospettico. E dato che ritengo abbia poco senso tentare sintesi di ampio respiro rispetto alla condizione nuova in cui siamo venuti a trovarci, e meno che mai azzardare dei bilanci, vorrei parlare proprio di questi atteggiamenti individuali. Nella fattispecie, come al solito, del mio: per cui è facile che ripeta cose già scritte in questi mesi. Ma lo metto in conto ad una sclerotizzazione tipica dell’età, e anche al fatto che d’altro non c’è in fondo molto da dire.

Allora, pur rimanendo consapevole che delle mie sensazioni e della mia attitudine non può fregare di meno a nessuno, provo a fare mente locale sulla particolarissima percezione che ho della tragedia e dei suoi anche più banali risvolti quotidiani: non fosse altro che per conservarne un po’ di memoria per i tempi in cui l’emergenza sarà alle spalle (sempre che arrivi a vederli), quando ciò che oggi mi sembra intollerabile sarà diventato normale: oppure per confrontare, già da subito, la mia percezione con quella altrui. Penso che non sarebbe male se un’operazione del genere la facessero tutti: aiuterebbe a mitigare i possibili (e molto probabili) eccessi di entusiasmo, e ad evitare di ripetere almeno un po’ degli errori che la pandemia ha messo drammaticamente in luce.

Partiamo dunque da ciò che sento di aver perso, iniziando dalle cose più serie, da quelle che non sono legate a semplici mie impressioni.

Primavere perdute 02

Ho (abbiamo) perso, ad oggi, quasi centoventimila vite. Questo dato tendiamo a rimuoverlo. È troppo grande, ci spaventa e non riusciamo a visualizzarlo. Oppure lo stemperiamo, dicendoci che si tratta delle vite di persone molto anziane (anche se non è vero). Siamo ridotti a pensare che a breve sarebbero comunque morte, e che in fondo avevano già vissuto una buona fetta di esistenza: cercando, o fingendo, di dimenticare che tutti moriremo comunque, prima o poi, e che in genere nessuno ha voglia che sia prima, o pensa di avere già vissuto più che a sufficienza. Non voglio fare il menagramo e pronunciare degli infausti memento mori, e nemmeno sono motivato dal fatto che tra gli anziani di medio periodo rientro ormai anch’io. Constato semplicemente che di fronte a certe cifre, che in tempi normali parrebbero spaventose, abbiamo maturato una quasi indifferente assuefazione. Io stesso, che pure da questa ecatombe continuo ad essere particolarmente turbato, non riesco ad andare molto oltre il dato numerico.

D’altro canto, è naturale che riusciamo a visualizzare solo le perdite prossime. E, come quasi tutti, ne ho anch’io di molto personali da piangere. Amici della mia generazione o più giovani di me, persone con le quali sino a dieci giorni prima facevo progetti. Nella mia percezione di queste perdite ha avuto un rilievo fortissimo l’assenza dei funerali. Loro sono stati defraudati del diritto ultimo che rimane a un defunto, quello di essere salutato dagli amici, e io sono stato defraudato di quello di salutarli. Può sembrare assurdo, ma se sto poco alla volta abituandomi alla loro scomparsa, non ho accettato affatto l’impossibilità di salutarli un’ultima volta. È come se le loro anime non potessero essere pacificate fino a quando in qualche modo non avrò dato loro un addio decente.

Queste perdite hanno cancellato molte consuetudini che avevo ritualizzato: le conversazioni davanti al caminetto o attorno alla tavola, le lunghe passeggiate urbane, il ritrovo ai mercatini o alle mostre, il semplice piacere di condividere in una telefonata scoperte, letture, aneddoti. Mi sono venuti meno dunque un sacco di riferimenti fissi, e lo dico sommessamente, consapevole che c’è chi con queste scomparse ha perso molto di più.

La sfera nella quale il Covid ha pesato maggiormente, anche quando non in maniera così brutale, è appunto quella delle amicizie. L’amicizia può esistere (e resistere) anche a distanza, ma si tratta di casi eccezionali. Di norma è legata alla possibilità di una consuetudine diretta. Mi riferisco al bisogno fisico e psicologico di vedere determinate persone, di portare avanti colloqui fatti a volte anche di poco o nulla, addirittura di silenzi, che riescono in presenza a loro modo eloquenti, del conforto difficilmente rappresentabile che danno certe prossimità. La clausura non mi ha fatto perdere delle amicizie, ma certamente me le ha fatte riconsiderare. Mi ha consentito di capire quali erano interinali e quali a tempo indeterminato, e il criterio di valutazione, se di criteri si può parlare rispetto ad un’amicizia, è stato proprio il bisogno della presenza fisica, di concertare o immaginare o fare cose assieme. Ricordo che nella prima fase pandemica si celebrava il soccorso arrecato dai social, dalle reti virtuali: ma non c’è voluto molto per rendersi conto di quanto questo surrogato sia fragile, insipido ed evanescente.

Anche le restrizioni negli spostamenti e negli incontri hanno naturalmente ridimensionato, in qualche caso azzerato, le vecchie abitudini. Per quanto abbia interpretato i divieti in maniera piuttosto permissiva, improntata al buon senso piuttosto che alla lettera (non è stato difficile, vista l’incredibile confusione delle normative che si sono succedute), ho forzatamente diradato o annullato riunioni conviviali, escursioni di gruppo, conferenze e occasioni svariate di incontro e di scambio: tutte le cose attorno alle quali, sia pure in maniera molto improvvisata e aperta, era ormai organizzata da qualche anno la mia vita. Mi mancano particolarmente i seminari di storia delle idee, perché in fondo erano la naturale prosecuzione di una attività didattica svolta per tutta la vita, con in più il piacere del confronto alla pari, della libertà assoluta nella scelta dei temi e nei modi della loro trattazione, ma soprattutto perché erano una miniera di stimoli e arricchivano senz’altro più me che non i miei uditori. Ho preferito non proseguire quelle attività on-line, da remoto, perché sono convinto che il loro vero valore risieda nell’empatia comunicativa che solo può crearsi in presenza, che si trasmette attraverso l’immediatezza sincera dei gesti, delle posture, degli sguardi.

Ciò nonostante ho continuato per tutto questo ultimo anno a immaginare argomenti per le future conversazioni, a concepire per ogni nuova suggestione la forma di una trattazione colloquiale, come facevo prima: ma riesce difficile quando non c’è una destinazione precisa, una scadenza da rispettare. E anche il mettere le cose per iscritto è un impoverimento, rispetto a quello che può emergere nel corso di una esposizione orale. Platone lo aveva già ben chiaro duemila e passa anni fa, quando negava alla scrittura una vera capacità maieutica. Insomma: avverto ancora più pesante la sensazione di aver accumulato tante cose delle quali vorrei fare partecipi altri, e che invece sembrano destinate all’inutilità.

Diversa è la situazione riguardo ai viaggi e agli spostamenti. A mancarmi, in questo caso, è piuttosto la possibilità di immaginarli, di programmarli, che non la loro concreta realizzazione. Si tratti di viaggi veri e propri o di semplici scappate di giornata, mi rendo conto che per me il motivo maggiore di piacere era l’idea di poterlo fare. Di decidere, prendere su e andare. Dopo una lunga stasi avevo ricominciato a sentir prudere le gambe, forse nell’inconfessata consapevolezza che i tempi per permettermi queste cose (così come tutte le altre) stringono: ora, costretto al tapis roulant fisico e mentale, sento già affievolirsi le forze e la voglia.

Tutto questo ha però niente a che vedere con il senso di soffocamento che sembra rendere impossibile la vita a buona parte dei miei connazionali (chissà come si sentirebbero se vivessero in Cina). Il fatto di non essere totalmente libero di muovermi o di incontrare gli amici non lo considero un attentato alla mia libertà. Penso al contrario che non dovremmo nemmeno aspettare che siano altri ad imporci delle limitazioni, dovremmo arrivarci per conto nostro. Questa è la vera libertà: essere consapevoli del rischio, per la salute nostra e per quella degli altri, che questi movimenti e questi incontri possono comportare. La libertà è coscienza del dovere, solo alla quale consegue legittimamente la rivendicazione del diritto: e dal momento che il mio primo dovere è di non recare danno a nessuno, l’espressione massima della libertà è proprio questa, sapere e potere agire in modo da non nuocere.

Quella che percepisco di meno, e la cosa può apparire paradossale, perché ho piena consapevolezza del disastro che si profila, è il disagio economico. Non è questione di miope egoismo: come pensionato godo per il momento di una situazione privilegiata, ma so perfettamente che è destinata a durare ancora per poco, e che chi non è stato ancora colpito lo sarà al più presto. A furia di scostamenti il bilancio si sporgerà oltre l’orlo e finirà rovinosamente a terra, e il debito qualcuno dovrà pagarlo. Rispetto a queste cose, a differenza che nei confronti del Covid, sono vaccinato: stanti le mie origini mi sto preparando da una vita ad una evenienza del genere. Non me la auguro, ma nemmeno vivo questa prospettiva nel segno dell’angoscia: sarebbe solo il ritorno ad una condizione di precarietà che ho già conosciuto, e che ho la presunzione di saper affrontare. Il problema vero è che ho figli e nipoti, e loro a questa condizione sarebbero del tutto impreparati. Questo mi preoccupa.

Primavere perdute 03

Qualcosa ho perso anche nei confronti della scuola. Non direttamente, perché con la scuola non ho mantenuto alcun rapporto o impegno diretto. Ma indirettamente constato l’accelerazione dello smottamento attraverso coloro che la scuola la frequentano, o chi vi è ancora impegnato, e trovo che sia devastante. Continuavo a coltivare l’illusione, pur sapendo benissimo che di illusione si trattava, che un qualche evento particolare, felice o drammatico che fosse, avrebbe costretto a mettere finalmente mano a un risanamento della scuola. Parlo di risanamento, e non di rinnovamento o di riforma, perché di queste ne abbiamo avute sin troppe, una più rovinosa dell’altra. Risanare la scuola significa per me riconferirle un ruolo, un prestigio, una missione. E questo può essere fatto solo attraverso la ridefinizione di quelle che sono le sue finalità, la revisione di quelli che sono gli strumenti e le strade atti a raggiungerli, il reclutamento di operatori che sappiano davvero usare questi strumenti e percorrere queste strade. Scopi chiari, criteri di valutazione certi (degli studenti come degli insegnanti), luoghi sicuri, tempi congrui.

Sta accadendo esattamente l’opposto. L’emergenza è stata affrontata con provvedimenti uno più insensato dell’altro (i banchi a rotelle!), con decisioni prese sempre sull’onda delle pressioni mediatiche, per mostrare che qualcosa si stava facendo, senza una volta dire chiaro e tondo come stanno le cose: e cioè che la didattica a distanza non è una opportunità ma una sciagura e che le riaperture a singhiozzo avevano l’unico scopo di tacitare i genitori sfiniti. Si sono confusamente raccontate favole alla Baricco sulla “nuova intelligenza digitale”, si sono reclutati insegnanti “di supporto” con compiti sempre più espliciti di assistenza al parcheggio, ci si è riempiti la bocca di termini inglesi per mascherare la fuffa concettuale. Il risultato è che si sono persi due anni scolastici, né più né meno come se le scuole fossero rimaste chiuse, e non si è profittato di questa pausa per fare un concorso decente che sia uno o per riparare almeno le falle dei tetti degli edifici. Banchi a rotelle e piattaforme digitali. L’unico valore in crescita positiva è rimasto quello dell’analfabetismo di ritorno.

Quella che non ho perso del tutto è invece la fiducia nella scienza, anche se devo fare un bello sforzo per continuare a nutrirla. E sono tra i non molti che sanno che dietro i pagliacci esibiti in tivù c’è un sacco di gente in gamba. Figuriamoci la considerazione che possono averne tutti gli altri, coloro che nemmeno immaginano esista una realtà al di fuori di quella raccontata dal teleschermo, e attraverso quello hanno assistito al balletto delle comparsate e dei contrapposti protagonismi. La vicenda dei vaccini è emblematica. È stata ridotta ad un problema di tipo prettamente industriale, di rivalità politiche ed economiche, e a nessuno sembra minimamente interessare il percorso scientifico che sta a monte di quelle fiale. Anche in questo caso, ciò che è frutto di una conquista, di un sapere, di un modello conoscitivo che non è quello degli sciamani o dei taumaturghi ayurvedici, è percepito come qualcosa di dovuto. Si contesta la scienza, ma ci si attende e si pretende che risolva poi ogni nostro problema, e si scalpita se tarda a farlo.

Stavo per scrivere, in conclusione, che ho perso definitivamente il Futuro. In realtà non è stata una gran perdita, non lo vedevo più da un pezzo: diciamo che la pandemia mi ha aiutato a metterci definitivamente una pietra sopra. Questo significa che ho perso soprattutto la voglia, un po’ in generale tutte le voglie. Per questo non mi pesano più di tanto le restrizioni, che come dicevo ho preso con filosofia: non soffro la mancanza di libertà, ma il fatto che di questa libertà non saprei che fare, e che se anche lo sapessi non avrei più voglia di farlo. Questa primavera non ho messo a dimora nemmeno un alberello, e neppure una piantina di rose. Mi sono limitato a una svogliata manutenzione di routine, in campagna e in casa. Mi rimangono il presente e il passato. Nel primo galleggio, nel secondo sono sempre più immerso, ma senza coltivare nostalgie: cerco di rimettere ordine nei ricordi consegnati agli scaffali, e ogni tanto ne risfoglio qualcuno. Non mi chiedo più che ne sarà dopo.

Ma non è così che voglio chiudere. All’inizio ho accennato alle banalità che ci danno il senso di una cesura totale col passato, e ho finito poi per parlare solo di cose serie. Invece le percezioni piccole ci sono, arrivano da dove meno te le aspetti. Mi limito ad un esempio, per non scadere come al solito nell’aneddotica.

In questo periodo ho dovuto frequentare con una certa assiduità lo studio del mio dentista. Lì la percezione di una perdita c’è naturalmente già in partenza, e riguarda tanto il tuo portafoglio quanto la tua bocca. Ma questo valeva anche prima del Covid. Il tocco nuovo, la sfumatura significativa, l’ho conosciuta invece nella sala d’aspetto. Non c’è più una rivista. Quei dieci minuti o la mezz’ora di attesa li riempivo con una scorpacciata di informazioni che solo in quella occasione o in altre simili (studi medici, parrucchiere, ecc…) ero in grado di procurarmi. Mi aggiornavo sui prezzi delle auto con Quattroruote (anche se un po’ in ritardo, perché le riviste erano sempre vecchie di almeno sei mesi), sui modelli più raffinati di doppiette o sovrapposti con Diana o con Sentieri di caccia, ma soprattutto sul gossip, sulle ultime disavventure di Al Bano o di Emanuele Filiberto attraverso Cronaca vera o Chi. Scomparse. Ho provato a portarmi un libro ma non funziona, lì non attacca. Il piacere era nei titoli dei reportage, nelle foto, e nella serialità. Da un anno e passa ho perso totalmente di vista Al Bano: non so se sia vivo o morto, o magari cresciuto, se si sia beccato il Covid o abbia fatto outing, se sia tornato con Romina. La nebbia assoluta. E questo dà la misura della mia distanza dal mondo, spiega perché ne capisco così poco.

Ma non basta. Recentemente ho avuto occasione di seguire, senza volerlo, in un altro studio medico (mi sembra ormai di non frequentare altro), la conversazione tra due signore che come me erano in attesa. Una volta si sarebbero immerse nella lettura, al più avrebbero commentato malignamente gli ultimi amori della Hunziker o la scollatura di qualche giornalista televisiva: invece, orfane delle riviste, stavano parlando delle trame del governo, della pandemia creata ad hoc per imbrigliarci tutti, del complotto dei vaccini. Non so se siano finite sugli ebrei perché nel frattempo era arrivato il mio turno. Sono uscito traumatizzato. Ho capito che ci stavamo davvero perdendo molto più di quel che temiamo, ma che il futuro, purtroppo, non ce lo siamo affatto perso. È quello e, a dispetto della rassicurante continuità delle beghe interne al PD, è già cominciato.

Primavere perdute 04

Se in un giorno di ordinaria epidemia Diderot e George Romero si incontrano ​in una villa abbandonata …

di Stefano Gandolfi, 22 novembre 2020

Così ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci diè.

Accidenti, Paolo. Che “sturm und drang” ho scatenato con una innocua passeggiata rigorosamente entro i confini del comune di Alessandria (vedi “Estetica delle macerie ed etica delle rovine“), studiata su carta escursionistica 1:25000 con accurata analisi dei limiti comunali per non rischiare multe da lock-down (guai ad entrare nei comuni di Pietramarazzi o Montecastello!), dopo aver escluso brutalmente tutti i territori a ovest-sud-est della città per tragica piattezza dei suddetti e aver trovato l’unica ancora di salvezza nei primi rilievi a nord, sopra Valle San Bartolomeo, gli arcinoti viottoli e sterrati nei pressi del maneggio e del ripetitore, battutissimi da pedoni, ciclisti e cavalieri, ancor di più in questi mesi nei quali il popolo italiano si è scoperto e inventato una vocazione allo sport outdoor! E dove si può provare l’ebbrezza di arrivare a ben 250 metri di altitudine sul livello del mare e di compiere, con opportune varianti, fino a 200-250 metri di dislivello. Perché come mi hai diagnosticato magistralmente, la mia indole di trekker d’alta quota mi porta in sofferenza dopo poche centinaia di metri piatti e orizzontali e il mio debito di ossigeno trova sollievo solo in quei minimi, insignificanti saliscendi che con molta e fervida fantasia mi trasportano sulle Alpi, sulle Ande, in Himalaya, beh, anche sul Tobbio, certamente!

Dunque, una semplice passeggiata, ma con sorpresa: i ruderi di Villa Garrone, ben nascosti nella fitta boscaglia che la circonda. Tu la hai già descritta con dovizia di particolari, quindi non mi dilungo su questi dettagli. Affascinante, misteriosa, inquietante quel tanto che basta da non desiderare più di tanto di essere lì di notte (ahh, mica per paura di presenze aliene e demoniache lovecraftiane, bensì molto più pragmaticamente per le possibili presenze umane che con ogni probabilità ne fanno sede periodica di raduni e consumo di sostanze terrene). Urbex: certo, anche passione e mania fotografica, da eterno ragazzino mai adulto quale sono mia nipote Fiorenza non ha faticato granché per contagiarmi con questa “insana” bizzarria, lei molto più avanti su questo terreno con incursioni in ville abbandonate, alberghi, terme, manicomi, edifici da archeologia industriale e tutto quanto è stato abbandonato dall’uomo. Quante ore a fantasticare con lei su una folle incursione a Prypiat, l’epicentro dell’esplosione di Chernobil (siamo poco normali? va bene, ce ne faremo una ragione!).

E poi comunque Poe, Lovecraft, Matheson, la cosiddetta letteratura di serie B sull’orrido, l’ultraterreno, sulle sudicie creature striscianti che riemergono dagli inferi, e anche G. Romero col primo mitico “Zombie” nel quale, con genio e intuizione a mio avviso insuperabile individuava in un ipermercato il fulcro dell’inizio della fine del genere umano, l’ultimo avamposto di una (inutile) resistenza con i segni già avanzati della rovina, del degrado, della marcescenza del contenuto consumistico ivi contenuto.

Sono partito col botto? Certo, anche perché nulla potrei aggiungere o discutere su quanto hai saggiamente esposto in merito alle macerie e alle rovine e quasi necessariamente (ma non forzatamente) devo iniziare da un punto di osservazione diverso, da buon fotografo devo fare un’inquadratura non banale e non scontata, e forse la chiave di lettura più utile al dibattito è quella relativa all’unico aspetto che forse non hai preso in considerazione, quello della natura.

La convivenza fra naturale e artificiale, il conflitto fra uomo e ambiente, lo scontro fra tecnologia e primordialità, l’inquinamento e la devastazione del pianeta in nome della scienza, del progresso e delle sorti magnifiche e progressive del genere umano, gli effetti collaterali terribili e forse irreversibili derivanti dai comportamenti dell’attuale dominatore del mondo (intendo l’uomo rispetto agli altri animali, non l’ex-presidente U.S.A.!), il negazionismo di Trump (eccolo) sui cambiamenti climatici, il menefreghismo della Cina e dell’India, l’ipocrisia di noi poveri e ininfluenti europei che taciamo sui 500.000 morti annui per cause da inquinamento e poi ci piangiamo addosso per i morti da COVID, legittimamente e inevitabilmente, beninteso: sono Medico, non eretico né negazionista, ho totale assoluta consapevolezza della attuale tragedia ed empatia umana per le vittime dirette e indirette, non voglio sottrarre nulla a tutto questo, semmai vorrei aggiungere anche altri problemi, altre cifre, altre criticità che spesso e deliberatamente vengono ignorate.

La natura, dunque. Certo. Ma anche l’uomo, perché no, solo declinato in qualche variante minoritaria, sconfitta, sparita dalla faccia della terra ma non per questo perdente. Sconfitta non dalle armi, ma dal raffreddore, dall’influenza, dalla sifilide a loro sconosciute e quindi senza alcuna difesa immunitaria, come successo agli Inca da parte dei civilizzatori cattolici spagnoli.

Cosa c’entra tutto questo con Villa Garrone? Ci arrivo subito.

Perù, tanti anni fa, ma potrebbe essere oggi. Cuzco, l’antica capitale incaica. Una strada, apparentemente secondaria, insignificante, un muro di un vecchio edificio, niente di rilevante, sembrerebbe. Poi te la fanno vedere. Una pietra con 12 angoli. Perfettamente incastrata, con perfetti angoli retti, e incernierata con altre 12 pietre, senza chiodi, viti, calce, cemento o quant’altro. 13 pietre squadrate a mano, con precisione millimetrica a sostenere da secoli il muro di una casa. Sopravvissuta a decine e decine di terremoti, mentre gli edifici costruiti dagli spagnoli e dai loro discendenti, regolarmente, ad ogni terremoto, crollavano.

Machu-Picchu, la capitale imperiale. Resti, certo, ma ancora perfettamente integri, solidi, neppure minimamente scalfiti dai terremoti. Archi e portali costruiti con una certa inclinazione e una certa angolatura che li mettevano al riparo dai sismi più apocalittici. Progettati dai loro ingegneri, apparentemente senza alcuna conoscenza scientifica, perlomeno quelle che intendiamo noi oggi.

Ti sembro forse in contraddizione con l’assioma (ovvio, viste le premesse che ho fatto) che la natura è dannatamente superiore all’uomo in ogni sua manifestazione? No, voglio solo dire che l’uomo ha saputo costruire meraviglie e con sistemi meravigliosi, che resistono nel tempo, non immortali ma sicuramente molto longeve. Ma gli uomini che hanno saputo fare questi prodigi, sono stati sconfitti, annientati, annichiliti da altri uomini che non sanno (quasi mai) costruire case antisismiche e che disprezzano completamente il rapporto con la natura.

E sono gli uomini che attualmente hanno il dominio sociale, economico, politico, militare sul mondo. E che abbandonano i loro manufatti alla rovina. A Machu-Picchu e a Cuzco non ho mai avuto un’estasi della rovina e del declino della civiltà umana, ma sempre e solo grande ammirazione per queste civiltà passate. A Villa Garrone tocco con mano il degrado, il declino, l’incuria della nostra civiltà. Non so che farci, sicuramente non sono oggettivo e parto prevenuto, ma questa civiltà della quale volenti o nolenti facciamo parte non mi sta simpatica; troppo arrogante, troppo presuntuosa, troppo convinta che l’armamentario scientifico, tecnologico che possiede e mette in campo sia superiore ad ogni legge della natura, che possa dominarla, modificarla a proprio piacimento senza preoccuparsi delle conseguenze e dei danni che invece provoca, senza peraltro nemmeno ottenere quei risultati millantati, visto che la durata media di tutte le moderne costruzioni umane è ridicolmente inferiore a quella delle costruzioni dei nostri antenati, a ogni latitudine e longitudine.

La povera Villa Garrone è probabilmente una vittima innocente di questi mie strali, ma come tanti altri edifici analoghi diventa per me simbolo di un modo di essere, di vivere, nel quale non si dà più valore a nulla, tutto diventa superfluo, obsoleto, sostituibile, perde valore con noncuranza e perde anche quel senso di legame emotivo, psicologico con gli affetti, con le persone, con le vite stesse che sono state vissute a contatto con questi manufatti.

Tutto può essere ricostruito con facilità senza minimamente preoccuparsi del significato economico, materiale ma anche e soprattutto psicologico del passato, recente o remoto che sia. Si distrugge tutto con voluttà, con violenza, per speculazione, per guadagno, per ingordigia, per costruire oleodotti, autostrade, ferrovie, aeroporti, centri commerciali (George Romero!!!!), tutte cose che a loro volta potranno tranquillamente essere demolite per qualcos’altro. Incessantemente. Si costruisce qualunque cosa e nulla di ciò che si costruisce ha alcun riferimento, contatto, compatibilità, plausibilità di avere un rapporto con l’ambiente in cui viene edificato: e questa estraneità, non appena viene a mancare uno qualunque dei motivi per cui ha senso che rimanga funzionante, fa sì che con grande velocità vada in rovina. Un impianto sciistico dove non nevica più, una miniera da cui non conviene più estrarre minerali o carbone, un albergo dove il turismo è scomparso, un ipermercato non più frequentato perché ne hanno costruito uno nuovo a mezzo chilometro di distanza, un grattacielo perché pericolante, una piscina, un palazzetto dello sport, un cinema, un teatro, un ospedale senza soldi per assumere e pagare i dipendenti, un ecomostro in riva al mare, e potrei continuare a lungo.

E la natura, o ciò che resta di essa, se lo riprende con altrettanta velocità. Lo ingloba, lo fagocita, lo assorbe completamente in spire di vegetazione, di boscaglia che si trasforma in foresta inestricabile. E si prende la sua rivincita. Una vittoria di Pirro, senza dubbio, ma come gli anglosassoni ci hanno insegnato, ci sono anche delle sconfitte gloriose, che danno senso all’inutilità (Mallory e la “conquista” dell’Everest…).

Provo simpatia per questa natura che, non appena l’uomo manda in malora qualcosa, se lo riprende. Ammiro la velocità e l’efficienza con cui lo fa, così come gli enzimi della digestione degradano il bolo alimentare. Rimango affascinato dalla trasformazione di una entità materiale in qualcosa di completamente diverso rispetto alla sua funzione originaria, al suo scopo, alla sua utilità.

Mentre mi aggiro circospetto e con cautela sui pavimenti e sulle macerie di Villa Garrone la mia fantasia vola a immaginare cosa sarà fra dieci, fra cinquanta, fra mille anni. Non provo malinconia, semmai una sorta di eccitazione all’idea della trasformazione, del divenire, del ritorno all’entropia dell’universo, allo sbriciolamento di ogni pezzo di pietra, di legno, di cemento, dei travi, degli infissi, dei vetri, dei cavi elettrici, e al pensiero di come tutto ciò rientrerà a far parte del ciclo degli elementi primordiali della natura, molecole, particelle organiche e inorganiche, atomi. E cosa, a loro volta, diventeranno e di quale organismo vivente faranno parte fra secoli e millenni.

Sono un rinnegato? Disprezzo il genere umano del quale faccio parte? Parteggio acriticamente per la natura vedendo in essa qualcosa di benigno mentre invece sa essere spietata e crudele come e più dell’uomo? No, certo. Però la durezza della natura non è voluta, non è sadica, non è criminale. È e basta, per motivi che a noi sono e devono essere sconosciuti o che forse non esistono nemmeno, è solo il corso delle cose. Distrugge e ricostruisce, con una logica e un’armonia inconcepibile. I più grandi capolavori della natura, i vulcani, le dorsali oceaniche, le montagne che tanto amiamo, sono espressione della mostruosa forza distruttrice e ricostruttiva, quando ammiriamo le forme aggraziate, poetiche, idilliache delle Dolomiti in realtà vediamo semplicemente l’erosione, la fatale inevitabile loro dissoluzione e scomparsa, ma ne rimaniamo affascinati e non proviamo certo angoscia né struggimento, perlomeno io! Quando ho visto da vicino l’Everest e gli altri ottomila himalayani ero ben consapevole di vedere il risultato di eventi geologici di tale potenza da non poter essere compresi dalla mente umana, seppure conosciuti e spiegati dalla scienza. Il ghiacciaio del Perito Moreno che si sgretolava, cadeva nel mare con blocchi delle dimensioni di grattacieli o di portaerei non mi ha intristito né reso malinconico, se non eventualmente per quanto ci sia di intervento umano nel determinare o accentuare il corso degli eventi, i cambiamenti climatici in primis. Ma questi fenomeni di per sé non mi creano angoscia. Panta rei.

No, non rinnego il genere umano e le sue opere, semmai questo tipo di umanità che ha preso il sopravvento, questo pensiero unico del profitto, del guadagno, il Dio crescita, il “potere distruttivo del capitalismo” (sic!), gli effetti collaterali ritenuti indispensabili per il benessere economico, salvo poi cercare maldestramente di correre ai ripari per i danni sulla salute, a curare il cancro, la leucemia, le patologie cardiovascolari, respiratorie e metaboliche da benessere, a giocare a guardie e ladri con la natura, a fare dei danni e poi “guardate come siamo bravi” a trovare dei rimedi che a loro volta, con un perfetto circolo vizioso, creano altri danni che richiedono ulteriori invenzioni per contrastarli; ma intanto l’economia gira, si creano i nuovi vaccini, si aspetterà la prossima epidemia per scoprire nuovamente che i comportamenti umani sono deleteri e dannosi (lasciamo stare le teorie complottiste: fin dal primo giorno dell’ epidemia continuo a sostenere che non è necessario pensare che qualcuno deliberatamente abbia creato tutto questo, è più che sufficiente la situazione ambientale, sociale di certe parti del mondo, l’antropizzazione, la promiscuità con altre specie animali in una elevatissima densità di popolazione, leggersi “Spillover” di d. Quammen che dovrebbe diventare libro di testo in tutte le scuole).

Potrei fare anch’io molte citazioni, mi limito a Tiziano Terzani e al suo struggimento per la devastante perdita di tutte le culture asiatiche spazzate via dal capitalismo e dal consumismo occidentale (aveva già capito tutto, la morte prematura perlomeno gli ha evitato l’amara consapevolezza di aver visto giusto). Questa Cina che coniuga il peggio del capitalismo ed il peggio del comunismo!, scartando come immondizia il suo immenso patrimonio culturale e quel poco che ci può essere di positivo nella civiltà occidentale, in termini di democrazia, tolleranza, rispetto dei diritti umani (ma che pena: l’Unione Europea non riesce nemmeno a farli rispettare all’Ungheria e alla Polonia, poi ci si indignava perché un po’ di anni fa il sindaco di Milano di allora aveva rifiutato la cittadinanza onoraria al Dalai Lama perché non faceva piacere al governo cinese!).

Non ne faccio una questione politica, sarebbe riduttivo, tu sai come la penso in merito, che si tratti di una posizione assolutamente trasversale che ha a che fare solo con il buon senso e con la lungimiranza del giocatore di scacchi che riesce a vedere non solo la mossa successiva, ma anche la successione di eventi fino alla sesta, settima, ottava mossa…

Certo, Villa Garrone c’azzecca poco con tutto questo sproloquio, sono sicuro che sia stata costruita con tutta la perizia, la competenza, le conoscenze del caso, con l’aspettativa di poter durare il più a lungo possibile, che potesse essere vissuta e abitata dalle generazioni successive, e mi immagino il dolore degli ultimi abitanti nell’essere costretti ad abbandonarla perché magari ne è rimasto uno solo vecchio, acciaccato e magari senza più la possibilità economica di mantenerla. Forse qualche erede esisteva pure, ma non gli interessava più perché ormai viveva in un edificio moderno e confortevole. Chi lo sa. Ma non è questo il punto.

Certo, sono affascinato da queste visioni, inquietato, stupito, ma non intristito, non provo nessuna malinconia. Vedo il corso degli eventi, il fluire del tempo, provo sollievo, come quando sono in cima a una montagna, per la consapevolezza della relatività di tutto ciò che sta sotto, della piccolezza e della precarietà della condizione umana, ma in un modo positivo, perché mi aiuta a ridimensionare e a dare la giusta dimensione e importanza alla sofferenza, al dolore, all’angoscia che sempre di più permeano l’esistenza nei pochi decenni di vita che ci vengono concessi. Penso con serenità alla transitorietà della vita, non perché la disprezzo, tutt’altro: perché la amo immensamente e voglio viverla il più intensamente possibile, ma sempre con la consapevolezza che in qualsiasi momento, qualsiasi evento può annichilire tutto. Non disprezzo quanto vi è di positivo nella scienza, sono ben contento che qualcuno mi abbia tolto il tumore dandomi un bel po’ di anni di aspettativa di vita, ma sono sempre più convinto che mi ritroverò addosso qualche altra rogna, anche peggiore, come “regalino” ed effetto collaterale di questa tecnologia alla quale siamo indissolubilmente legati e costretti ad accettare per sopravvivere.

Tornare all’età della pietra? a vivere in caverne con candele di cera o con un fuoco da mantenere sempre acceso per tenere lontane le bestie feroci? Ovvio che no. Pensare a una via di mezzo? Semplicistico, ma forse inevitabile. Smettere di chiamare Greta Thunberg “gretina”? potrebbe essere un piccolo, insignificante primo passo per l’uomo… riuscire a conciliare la necessità di sviluppo, di crescita economica, di benessere, di garantire lavoro e reddito a tutti con l’esigenza di garantire anche la salute? Non essere costretti a dare con una mano (il benessere materiale) e togliere con l’altra (il benessere fisico e mentale)? Utopistico. Forse… ma se diventasse inevitabile? Comincio a rompermi le scatole di tutti quelli che di fronte ad un discorso del genere lo troncano subito (anzi lo stroncano) con la famosa domanda retorica: “meglio morire di fame o di cancro?”. Perché il cancro si può sconfiggere, dicono. Non sempre e comunque non a costo zero (ne so qualcosa). E allora anche la fame si potrebbe sconfiggere, forse a costi minori se lo si fa con lungimiranza.

In definitiva vado a vedere e fotografare questi edifici, queste rovine, queste macerie semplicemente perché mi affascinano e le ritengo un buon soggetto fotografico, con una loro dignità artistica ed emotiva. Gli altri mille motivi per cui lo faccio li hai descritti magistralmente tu, mi identifico sicuramente in molte delle tue analisi. Ho ancora la curiosità per lo strano, l’imprevedibile, il disordinato, l’anomalo… e questo mi conforta perché la neurobiologia dice che possederla significa ancora essere giovani da un punto di vista biologico! Guardo avanti, e le rovine e le macerie del passato per qualche strano motivo mi stimolano ad un’immagine ottimistica del futuro.

Amo sempre di più la natura con tutte le sue possenti, maestose manifestazioni. Vorrei fotografare le eruzioni vulcaniche, i tornado, le tempeste, non per il gusto del catastrofico né per sentirmi onnipotente e sfidare la sorte (non ne ho più l’età da tempo!), ma solo per il fascino che provo di fronte ad eventi inconsapevoli, casuali, non voluti né creati, senza nessuna volontà di violenza, di crudeltà, di sopraffazione, di istinto sadico ed omicida. Forse per contrapposizione al fatto che nelle azioni umane tutti questi elementi sono ben presenti se non predominanti.

E allora ben venga la boscaglia che fra alcuni decenni avrà completamente fagocitato Villa Garrone. Se ci saremo ancora ne andremo a cercare qualcun’altra. Ma tu, per favore, non puoi venirci e farti fotografare in tuta da ginnastica, mi togli tutto il pathos alla scenografia ed alle suggestioni del luogo! Impara da tua figlia Elisa, perfetta modella chiaro-scura che emergeva tenuamente nei pochi raggi di sole filtranti fra le rovine, nel suo perfetto out-fit all-black! 

Estetica delle macerie ed etica delle rovine

di Paolo Repetto, 4 novembre 2020

Tutti gli uomini hanno una segreta attrazione per le rovine
Chateaubriand, Il genio del Cristianesimo
La storia futura non produrrà più rovine
Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo

Cammino con Stefano sulla cresta di una collina, nel cuneo di terra che separa ancora per un breve tratto Tanaro e Po, a nord-ovest di Alessandria. Davvero non te lo aspetti un posto così bello, a pochi chilometri da una città tanto piatta e grigia. Queste colline non hanno nulla di selvaggio, sono dolci e ordinate, completamente addomesticate dal lavoro umano lungo i secoli, e non susciteranno mai l’emozione del sublime: ma trasmettono l’idea di un rapporto armonioso con la terra. A me la natura piace anche così, mi piace vederci impressa l’impronta dell’uomo, quando è delicata, leggera.

Ma non sono qui per scoprire il paesaggio, negli ultimi tempi ho già imparato a conoscerlo bene. Cammino invece sulla scia della passione più recente di Stefano, quello per la fotografia di luoghi in rovina o abbandonati (che ha anche un nome, urbex, da urban exploration: inglese naturalmente). Mi incuriosisce. Sono quindi a rimorchio, è lui a guidare, perché ha in testa una meta. Conoscendolo, è probabile che questa meta sia a pochi passi da dove abbiamo lasciato l’auto, ma senz’altro ci arriveremo facendo il giro più lungo possibile e percorrendo l’itinerario più ondulato.

Infatti. Viaggiamo per tre o quattro chilometri su stradine o sentieri fangosi che corrono lungo i campi, fino ad arrivare ad una macchia di verde del tutto inselvatichito e apparentemente impenetrabile. Nel verde si apre però ad un certo punto un piccolo varco, impercettibile al passante distratto. Ci inoltriamo nel folto e all’improvviso, quasi magicamente, siamo di fronte all’edificio.

È una costruzione imponente, tre piani che vanno calcolati con le misure di un tempo, quindi alta ad occhio e croce almeno una dozzina di metri. Ma non è facile farsi un’idea globale delle dimensioni, perché l’edificio non è mai visibile da una sufficiente distanza. Dall’esterno della macchia risulta totalmente nascosto, malgrado l’altezza, dalle piante secolari che lo circondano. Quando si è dentro lo si può guardare solo dal basso. Non riesco a valutare lo stato del tetto, ma i muri perimetrali sono tutti ancora in piedi, e non si vedono crepe. Persino l’intonaco regge, tranne in qualche punto sulla facciata che guarda a settentrione e nel cornicione che aggetta. Tutto il resto, naturalmente, le cornici in muratura degli infissi e i fregi e gli infissi stessi, è in totale rovina. La costruzione è forse databile agli inizi del secolo scorso, magari anche alla fine di quello precedente: lo stile sta tra il Liberty e l’Art Dèco.

Entriamo con cautela, e all’interno lo stato di degrado è ancora più evidente. Calcinacci e vetri ovunque, l’intero soffitto di una sala crollato, tappezzerie a brandelli, vecchie stufe, sedie e tavoli disfatti. Rimane però ancora percettibile quella che doveva essere l’originaria ricchezza e bellezza degli ambienti: nei pavimenti alla genovese, nelle volte affrescate, nelle lunette che offrivano scorci montani o lacustri, in quel che rimane degli armadi a muro, ecc… Mi viene in mente per un attimo la Vill’Amarena di Gozzano: Bell’edificio triste inabitato!
Grate panciute, logore, contorte!
Silenzio! Fuga delle stanze morte!
Odore d’ombra! Odore di passato!
Odore d’abbandono desolato!
Fiabe defunte delle sovrapporte!

Il riferimento non è del tutto appropriato, ma lascia intravvedere quella che ha potuto essere la fase iniziale dell’abbandono (in verità mi viene in mente perché è una delle poche poesie che ancora ricordo, e mi ci aggrappo prima che la memoria sia ridotta come questa casa).

Non ci avventuriamo ai piani superiori perché anche le scale sono fatiscenti, una grossa crepa taglia a metà il primo pianerottolo. Meno che mai osiamo scendere in un buio piano interrato, dove non arriva luce da nessuna apertura. In realtà non credo sia poi così pericoloso, ma l’impressione è che ci si debba muovere con tutta la delicatezza possibile, per non contribuire ad accelerare lo sfascio. È una casa che incute un certo rispetto.

Stefano comincia sparare fotografie, è affascinato dalla rovina, che i raggi filtranti attraverso quel che resta delle persiane ammantano davvero di una malinconica poeticità. Io, dopo il primo momento di sorpresa, e dopo aver appagato la curiosità iniziale, sento invece montare dentro un sentimento che conosco bene. A differenza di Stefano, che è un positivista professo ma sotto sotto subisce un po’ il fascino della decadenza, io di fronte a queste cose sto male. Non accetto alcun tipo di degrado che non sia quello iscritto nei cicli naturali, perché quello non è degrado, è trasformazione. Questo edificio è invece una testimonianza culturale, è cultura che va a pezzi, e allora sento l’urgenza di intervenire, di impedire alla rovina di avanzare. È una vera e propria sindrome, che rasenta l’autismo: ovunque vada sono immediatamente colpito da quel che è fuori posto, che potrebbe essere migliorato, sistemato, recuperato (così come mi irrita profondamente, nelle persone, ogni comportamento caciarone e scomposto). Una volta a casa di un amico ho rimesso in piedi tutta una serie di anfore abbattute sparse per il giardino, per poi scoprire che erano state messe così ad arte (il senso devo ancora capirlo oggi). Dopo aver restaurato e ridipinto i settanta metri di staccionata che chiudono il giardino di mia figlia a Bournemouth, mi aggiravo per la città a verificare quante altre staccionate avrebbero avuto bisogno di un sano intervento (e sarei stato disposto ad operarlo gratis). Insomma, è una malattia, che però non si limita a un decorso passivo, ma a modo suo mi rende immediatamente operativo.

Anche in questo caso finisco subito a realizzare che si potrebbe intervenire qui, rinforzare là, recuperare materiali, ripristinare. Cerco di figurarmi come potrebbero essere i locali una volta restaurati, e come sarebbe possibile farlo con interventi minimi, puramente conservativi. Mentre Stefano continua a raccogliere immagini, ogni tanto coinvolgendomi anche, comincio a fare mentalmente i conti: un tot a metro per il tetto e per gli intonaci, un calcolo approssimativo per le decorazioni esterne e per gli infissi, una bella botta per il ripristino degli interni. Siamo, molto all’ingrosso, nell’ordine del milione di euro. E questo a condizione di mettere all’opera gente seria, ad esempio i muratori con i quali ho lavorato, fino a pochissimi anni fa, per recuperare la mia casa. Altrimenti la cifra raddoppierebbe, e il risultato sarebbe disastroso. Il tutto naturalmente evitando ogni intromissione delle varie sovrintendenze e degli svariati e altrettanto inutili altri organismi di controllo, oggi tranquillamente indifferenti davanti al fatto che un edifico del genere vada allo sfascio, ma che domani, casomai un folle decidesse di metterci mano, interverrebbero di corsa a imporgli i vincoli più stupidi e le direttive più insensate.

Lascio Stefano a finire il suo servizio e mi aggiro nei dintorni della casa: solo per scoprire che le sorprese non sono affatto finite. Come avrei dovuto immaginare, a pochi metri, ma assolutamente invisibile se non ci si avventura in un altro varco nella boscaglia, c’è un secondo edificio, molto più basso e meno elegante, alle spalle del quale è stato appoggiato in epoca relativamente recente un enorme porticato. Dal porticato si ha accesso diretto ad una cantina. Evidentemente era la residenza dei mezzadri, e deve essere stata abitata o utilizzata ancora per qualche tempo dopo l’abbandono della casa padronale: almeno sino a una quarantina d’anni fa, come testimoniano le botti in cemento e lo stato del tetto. Dalla piccola radura antistante la casa individuo poi quello che probabilmente era l’accesso principale alla villa: un vialone un tempo inghiaiato, fiancheggiato da platani enormi, che scende con dolce pendenza e perfettamente rettilineo per almeno duecento metri, sino ad immettersi nella strada comunale. Ho il sospetto che Stefano lo sapesse, e che saremmo potuti arrivare sin lì tranquillamente in macchina. Ma in fondo sono contento di essermi guadagnato almeno un po’ la gioia della scoperta. Che non cessa di rinnovarsi: dal lato opposto, dando le spalle alla casa, intravvedo un altro edificio ancora. Era la stalla-fienile. Dentro, in mezzo a cumuli di cianfrusaglie d’ogni tipo, ci sono ancora delle vecchie attrezzature per l’aratura con gli animali. Devo aggiornare i preventivi per il restauro, ma rispetto a quanto previsto per il corpo centrale qui sono bazzecole.

Ora la topografia del luogo si ricompone. Si accedeva alla villa dal basso, e la si scopriva mano a mano che si risaliva il viale, mentre i due edifici “di servizio” rimanevano nascosti sino all’ultimo. Il viale si interrompeva in uno slargo alla loro altezza, dal quale con due dolci rampe laterali si guadagnava il terrapieno su cui sorgeva la dimora padronale. L’effetto doveva essere di imponenza e di eleganza assieme.

Continuando a girovagare mi rendo conto che il parco alberato è molto più ampio di quanto immaginassi. In serata poi, tornato a casa, scopro sulla mappa satellitare di Google che in basso, proprio al confine del parco, c’è ancora un quarto edificio, del quale né io né Stefano ci siamo accorti. Tra l’altro, nella visione dal satellite l’assieme appare come un’isola verde in mezzo ai diversi toni del marrone dei campi che la circondano.

Bene, non ho dettagliato questa piccola esplorazione domestica per puro amore di racconto, ma perché mi ha spinto a riflettere molto e perché ancora oggi, il giorno dopo, non riesco a smettere di pensarci. E mi chiedo innanzitutto se, al di là della mia specifica sindrome da dio riordinatore, progetti di recupero come quello su cui fantasticavo ieri sarebbero poi davvero così insensati, anche prescindendo da tutti i fattori emotivi, valutandoli su un piano prettamente economico.

Dunque. Proviamo ad immaginare come potrebbero andare le cose in un paese normale. È difficile, perché intanto in un paese normale un edificio del genere non sarebbe in quelle condizioni, sarebbe già intervenuto qualcuno, qualche ente, qualche istituzione, per impedirne la rovina. Se da noi questo non avviene non è perché la cosa sia impossibile, ma perché siamo un popolo di idioti. E certamente, se ogni progetto lo parametriamo a quest’ultimo dato di fatto, allora possiamo abbandonare in partenza. Io sto ragionando per assurdo, ma in questo caso non è assurdo il ragionamento, quanto piuttosto il fatto che in questo paese non lo si possa nemmeno fare.

Allora, rimaniamo nella fanta-utopia (mi ci sono affezionato) del “paese normale”. Se fossi io il legislatore dopo un massimo di dieci anni di abbandono metterei i proprietari di fronte ad un aut aut: o lo tenete in piedi voi o lo cedete (per una cifra simbolica) alla comunità, che provvederà a farlo. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di espropriare: basterebbe tassare in maniera esponenzialmente salata gli edifici oltre un certo periodo di non utilizzo. Mi si obietterà che il problema sarebbe a questo punto che fare della miriade di edifici di cui lo stato si troverebbe ad essere proprietario, visto che non riesce nemmeno a manutenere le strutture pubbliche di sua pertinenza. È vero: ma io sto parlando di uno stato normale, il che esclude in partenza situazioni come quella italiana.

Comunque, continuando così non si va da nessuna parte. Devo confrontarmi con la realtà: proviamo a rimanere in Italia. Assumendo quello che ho calcolato per la “mia” villa come costo medio di ogni intervento (e credo di essermi tenuto largo, perché per almeno due terzi gli interventi potrebbero essere meno dispendiosi), per recuperare diecimila edifici o luoghi di un certo pregio sarebbero necessari dieci miliardi di euro. Può sembrare una bella cifra, un investimento colossale: e in effetti lo è, lo sarebbe in qualsiasi momento e lo è tanto più in questa nefasta congiuntura di pandemie e di crisi strutturali.

Ma guardiamo a ciò che abbiamo di fronte. Teoricamente l’Italia dovrebbe ricevere nei prossimi mesi un soccorso finanziario nell’ordine di oltre duecento miliardi (il famoso recovery fund). Il condizionale è d’obbligo, perché il soccorso è subordinato alla presentazione di un piano di investimenti credibile e concreto, cosa di cui si hanno mille ragioni per dubitare (detto tra noi, fossi l’Olanda o la Svezia o l’Austria non farei credito di un solo centesimo al nostro paese). Il rischio è che tutto ciò che saremo in grado di proporre si riduca a una serie di interventi di “tamponamento” a pioggia, vale a dire ad elargire soldi destinati a tacitare le proteste, legittime o meno, ma non certo a normalizzare il respiro della nostra economia. Al tempo stesso abbiamo milioni di persone inattive, in parte per una crisi che era già strisciante prima del Covid e che con la pandemia è esplosa, in parte perché l’idea di poter contare su un salario, che sia di cittadinanza o assuma la forma di qualsivoglia altra assistenza, dissuade molti dal cercarsi o dall’accettare un lavoro. E non mi si venga a dire che è un ragionamento “di destra”, perché è solo una fotografia realistica della situazione.

Il lavoro infatti, a volerlo vedere e organizzare seriamente dagli uni e a volerlo fare senza troppe scene dagli altri, ci sarebbe. Basti pensare a tutti gli interventi urgenti di risanamento ambientale, che quantomeno ci metterebbero in sicurezza rispetto agli eventi catastrofici che ad ogni stormir di pioggia devastano il nostro territorio. Sarebbe un investimento ripagato da un riscontro immediato, di tipo occupazionale e non solo, perché smuoverebbe la produzione e avrebbe una ricaduta contributiva sulle casse statali: ma la sua maggior resa verrebbe col tempo dai risparmi sullo stillicidio continuo di interventi d’emergenza. A questo naturalmente andrebbe data la priorità.

Anche quello che ipotizzo io è però un investimento che dà risposte concrete e immediate, oltre ad aprire a quelle a lungo termine. Attivando cantieri per diecimila interventi di recupero di questo tipo si creerebbero come minimo centomila posti di lavoro nel settore edilizio e si metterebbe in moto indirettamente un indotto che ne vale altrettanti. Una volta chiusi i cantieri, rimarrebbero attivi almeno ventimila posti per le attività di manutenzione e valorizzazione di quanto già recuperato, mentre potrebbero partire ulteriori progetti di risanamento “culturale”. Queste attività, se minimamente coordinate e inserite in circuito con altre forme di “offerta” (da quelle gastronomiche a quelle enologiche, dall’escursionismo alle più svariate pratiche di fitness, ci sta di tutto), una volta avviate potrebbero raggiungere facilmente l’autonomia finanziaria. A dispetto della nostra colpevole negligenza siamo ancora un paese ad altissima attrattiva turistica anche nel campo della cultura, e con uno sforzo intelligentemente mirato potremmo offrire quei percorsi alternativi ai grandi eventi, alle mostre-monstre, agli intruppamenti obbligati, che vengono invocati ogni volta che le nostre città d’arte arrivano al collasso, ma per i quali non è mai stato pensato alcun progetto serio.

Ora, mi si farà notare, tutta questa gente va comunque da subito pagata. Appunto. Ricordo che stiamo parlando di un settore nel quale da molto prima del covid una buona metà degli addetti stazionava in cassa integrazione, e la quota è aumentata con la pandemia; quindi si tratta in realtà di gente già pagata con soldi pubblici, e senza alcuna contropartita. Lo stesso vale naturalmente per i percettori del reddito di cittadinanza. Ci sono poi anche le spese per i materiali: ma teniamo presenti le sovvenzioni “di ristoro” che lo stato elargisce alle aziende messe in crisi dalla pandemia e dalle misure restrittive: con le stesse cifre si potrebbe acquisire già gran parte del fabbisogno. Anche in questo caso, sarebbero soldi destinati in parte a rientrare nelle casse dello stato e dell’ente previdenziale, sotto forma di imposte e di contributi. Rimane il tema scottante del tipo di occupazione offerta. Ma mi sembra sia giunta l’ora di mettere in chiaro come girano le cose. Non siamo in grado di creare “posti di lavoro” rispondenti a tutte le aspettative, siamo solo in grado di creare occasioni di lavoro, e dovremmo semmai poi assicurarci che questo si svolga in sicurezza, che sia adeguatamente retribuito, che crei a sua volta professionalità e conferisca quindi dignità. Non ha senso opporre che i nostri giovani, o anche i meno giovani, non sono “preparati” per questi tipi di attività. Nemmeno chi sbarca sulle nostre coste o arriva dall’est nel nostro paese è preparato, ma non tarda ad adeguarsi. Impareranno, e questo sarà per loro un valore aggiunto, oltre al fatto di guadagnarsi uno stipendio e poter fare progetti per il futuro. Se invece per quei duecentomila posti dovremo reclutare polacchi o senegalesi, ben venga allora anche l’immigrazione clandestina.

Sono scaduto nello sproloquio da allenatore da bar, di quelli che non saprebbero gonfiare un football ma disquisiscono dei moduli di gioco. Io però non voglio fare l’allenatore, altrimenti mi sarei dato alla politica. Voglio semplicemente dimostrare che una scelta del genere in Italia non si farà mai non perché impossibile, o insensata, ma perché ogni cosa, ogni idea, ogni progetto deve confrontarsi da noi con la vischiosità degli apparati, l’inossidabilità dei privilegi, le gelosie e le ripicche tra i vari enti, lo scaricabarile tra le diverse istituzioni, e non ultimo con una malintesa, ipocrita ed egoista concezione della libertà. Non ci vuole una gran fantasia ad immaginare il balletto dei bandi e degli appalti truccati e dei ricorsi, la sequela delle lungaggini e delle assurdità burocratiche, il gioco delle tangenti e degli interventi della magistratura, il veto a prescindere dei sindacati e degli ispettorati e delle associazioni di difesa dei chirotteri o delle piante spontanee, il traffico dei subappalti, tutta la polvere e la sporcizia insomma che un qualsiasi progetto qui da noi va a sollevare. Ma le cose sono complicate solo perché rese tali da una assoluta mancanza di senso dello stato, di onestà, di competenze, di buona volontà, ecc…: tutti vizi che non attengono al naturale ordine del mondo, ma solo a una particolare disposizione negativa che ci portiamo dietro. Non possiamo imputare il nostro perenne stato di emergenza al fato o ai complotti orditi alle nostre spalle dai poteri forti, ma solo alla nostra riluttanza ad assumerci, a qualsiasi livello, una qualsivoglia responsabilità, dalla nostra tendenza a sentirci sempre creditori nei confronti di tutti, della nostra meschina corsa a scovarci alibi per non fare nulla.

Con queste premesse è evidente che uno i progetti non dovrebbe nemmeno immaginarli. Forse farei meglio a restarmene nell’utopia del paese normale. O forse ci sono rimasto davvero, perché da ieri non faccio che parlare con gli amici di questa cosa, e oggi ne ho già sguinzagliati un paio in cerca di informazioni sulla proprietà. Avessi trent’anni di meno, e quattro soci armati di buona volontà, altro che recovery fund! Accoglierei in cima al viale la delegazione olandese, e si toglierebbero tanto di cappello.

***

Le allegorie sono nel regno del pensiero
quel che le rovine sono nel regno delle cose
Walter Benjamin

Dopo la visita alla villa abbandonata, sopiti un po’ gli entusiasmi restaurativi, mi sono trovato a riflettere su un tema di ordine più generale, che meriterebbe dunque un approccio più serio e ponderato: infatti ho qualche esitazione a trattarlo in questo contesto. Ma non sapendo se e quando potrò tornarci su, colgo almeno l’occasione per anticiparlo.

Constatavo, anche in rapporto alla nuova passione di Stefano, che stiamo tornando ad una “estetica delle rovine”, ciò che ci rimanda a quanto accaduto nella sensibilità occidentale un paio di secoli fa, verso la fine del XVIII secolo. Erano stati infatti Winckelmann e poi Goethe ad elaborare questa particolare teoria del sentimento del bello, ispirati non a caso proprio dai loro soggiorni in Italia (e sempre non a caso Winckelmann in Italia era stato ammazzato). Il riferimento era naturalmente alle rovine dell’antichità (stava nascendo l’archeologia classica, erano state da poco riscoperte Pompei ed Ercolano), che si rivelavano essenziali per ri-educare il gusto moderno alla bellezza: da esse si poteva inferire la forma originaria e pura delle opere greche e romane, e ciò, al di là dell’appagamento “sensoriale”, emotivo, doveva indurre alla ricerca, all’imitazione e alla riproduzione di quella bellezza. Non solo di quella artistica: quel mondo poteva darci lezioni sul piano giuridico, legislativo, sociale. Il neoclassicismo non era un moto di reazione agli sconvolgimenti rivoluzionari. Era figlio legittimo dell’Illuminismo. (“Le idee che le rovine suscitano in me sono grandiose”, scriveva Diderot , uno dei Maestri del mio personalissimo pantheon: e, nel mio piccolo, sembrano sortire anche su di me lo stesso effetto).

Ma quel figlio non era l’unigenito. La stessa antichità che alimentava il sogno neoclassico poteva ispirare anche altre fantasie, meno serene; il passato nel quale i classicisti identificavano un modello riproponibile per il presente poteva apparire come un mondo splendido e maestoso, ma irrimediabilmente perduto (si pensi a Piranesi: nelle acqueforti sulle antichità romane esprime la nostalgia per un mondo ideale, per un’epoca incomparabile, ma ormai chiusa e irripetibile: di fronte ai resti colossali dei Fori imperiali non si abbandona a una pacata contemplazione, è scosso da una forte emozione) e suscitare nell’artista moderno un senso di impotenza e di frustrazione (mi viene in mente L’artista commosso dalla grandezza delle rovine antiche, di Füssli. In quella sanguigna c’è davvero tutto il conflitto degli opposti sentimenti, commozione per la grandezza delle opere classiche e frustrazione per l’insostenibilità del confronto).

Del resto, anche gli illuministi non si sottraevano alla riflessione malinconica. Lo stesso Diderot aggiungeva: “Percorriamo le devastazioni del tempo, e la nostra immaginazione disperde sulla terra gli edifici stessi che abitiamo. Sull’istante, la solitudine e il silenzio regnano intorno a noi. Restiamo soli di tutta una nazione che non c’è più: ecco l’abc della poetica delle rovine. […] Tutto passa, tutto perisce. Soltanto il mondo resiste. Soltanto il tempo continua a durare. Io cammino tra due eternità. Ovunque io guardi, gli oggetti che mi circondano mi annunciano la fine, e mi mettono in guardia rispetto a ciò che mi attende”. Si riferiva soprattutto agli aspetti naturali (la roccia che sprofonda nella terra o la valle che si frantuma), ma anche, naturalmente, ai ruderi dei sogni umani.

Col Romanticismo si afferma, soprattutto nei paesi nordeuropei, il gusto per le architetture gotiche: si recupera insomma il passato di casa, un passato che si presenta, rispetto a quello classico, più irregolare e informe, e produce una fascinazione d’altro tipo, nella quale diventa dominante la sensazione di angoscia. Le rovine non sono più un raccordo tra passato e futuro. Raccontano qualcosa che non tornerà, che sta lentamente svanendo anche dalla memoria, e costringono a meditare sulla fragilità umana. I segni del tempo, la vegetazione e i muschi che le ricoprono parlano di una natura che si prende la rivincita sulla civiltà e la cultura. Shelley scrive nell’Adonais:

Su, vai a Roma, — che è insieme il Paradiso, la tomba,
e la città e il deserto; e passa dove le rovine s’ergono
come montagne frantumate, e le gramigne
fiorenti e le piccole selve profumate
vestono l’ossa nude della Desolazione …

Magari oggi la sua esortazione sarebbe più tiepida, anche se le gramigne a Roma fioriscono ancora. Le uniche montagne accanto alle quali si passa sono quelle dei rifiuti, e le piccole selve che crescono sui marciapiedi sono tutt’altro che profumate.

Nella pittura di questo periodo è Friedrich a esprimere perfettamente, in dipinti come L’abbazia nel querceto, l’estetica del fascino malinconico e dolente delle rovine. Altro che ponte sul futuro! Il futuro è plumbeo come il cielo contro il quale le mura e gli alberi tutti spogli e rinsecchiti si stagliano. E la processione che appena si intravvede nella fascia più bassa è diretta a un cimitero. Nel suo caso è una forte connotazione religiosa, e per di più luterana, a indurlo a usare le rovine come simbolo e come monito. Ma quel tipo di fascino, secolarizzandosi, tenderà facilmente a scadere, alla lunga, nel gusto per il fatiscente e il macabro: quello che caratterizzerà il decadentismo (e il cui prototipo potrebbe essere La rovina della casa Usher, di Poe)

E si arriva all’oggi, passando per il Novecento. Il secolo scorso ha prodotto in realtà molte più macerie che rovine, e la sensibilità nei confronti di queste ultime è ancora una volta mutata. Ho sottomano Rovine e macerie. Il senso del tempo, un libretto esile e densissimo, nel quale Marc Augé scrive: “Le macerie accumulate dalla storia recente e le rovine nate dal passato non si assomigliano. Vi è un grande scarto fra il tempo storico della distruzione, che rivela la follia della storia (le vie di Kabul o di Beirut), e il tempo puro, il tempo in rovina, le rovine del tempo che ha perduto la storia o che la storia ha perduto”. Credo voglia intendere che il cumularsi delle macerie prefigura un mondo senza rovine, nel quale il tempo sarà azzerato e che, per tale ragione, non avrà più storia. Per Augé il senso delle rovine non è storico né estetico, ma puramente temporale. La rovina è un frammento del passato ancora presente, e sottratto alla temporalità delle appartenenze, dell’uso, dei significati. Quindi “contemplare rovine non equivale a fare un viaggio nella storia, ma a fare esperienza del tempo, del tempo puro”.

Ma questo cosa significa? Significa che per Augé, illuministicamente, là dove c’è rovina c’è una possibilità, una indicazione di ripartenza: mentre là dove ci sono macerie il tempo viene non solo azzerato, ma abolito. Le rovine tendiamo a conservarle, le macerie possiamo solo rimuoverle, dobbiamo sbarazzarcene. Sottoscrivo in toto, anche dove dice: “Sulle macerie nate dagli scontri che inevitabilmente la storia futura susciterà, si apriranno nondimeno dei cantieri, e insieme ad essi, chissà, una possibilità di costruire qualche altra cosa, di ritrovare il senso del tempo”. A dispetto della mia disposizione congenitamente scettica, non mi sembra un ottimismo forzato e consolatorio: ricordo una immagine, credo sia della biblioteca di Sarajevo, incendiata e semidistrutta nel 1992 (con perdita dell’ottanta per cento del patrimonio librario), nella quale un ragazzo, in mezzo a tanta devastazione e desolazione, sfoglia un libro: e ho davanti quella odierna dell’edificio rimesso in piedi (e in funzione) seguendo esattamente le linee del vecchio progetto. Per quelle macerie, e attraverso quel ragazzo, la storia in qualche modo è ripartita.

A tornare ripetutamente, direi quasi ossessivamente, sul tema delle rovine, nella prima metà del ‘900, è stato Walter Benjamin. Benjamin scrive in un periodo che di macerie ne ha prodotte parecchie, tra le due guerre, ed è comprensibile che vi faccia costante riferimento. In un frammento che è diventato una delle pagine più citate (e abusate) della recente letteratura filosofica scrive (e così lo cito anch’io): “C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta che spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso è questa tempesta”.

Confesso che non mi ero mai soffermato a decrittare l’allegoria racchiusa in questa immagine, mi accontentavo dell’interpretazione più immediata e superficiale. La verità è che non riuscivo affatto a scorgerci tutto quello che Benjamin sembra vedere, e non mi rendevo conto che era lui quello da decrittare, e non Paul Klee. Anche perché il quadro era suo, l’aveva voluto fortissimamente e acquistato, l’ha portato con sé in tutte le sue peregrinazioni, sino all’ultimo, e aveva tutti i diritti di leggerlo come voleva. Forse la passeggiata di ieri mi ha chiarito le idee, e riesco anch’io a guardarlo con occhi nuovi.

La storia si allontana, sia pure camminando a ritroso, da ciò su cui fissa lo sguardo, dal passato. Questo passato può essere percepito come un ammasso di detriti, di macerie, e quindi come qualcosa da rimuovere, magari in maniera soft, diluendolo in tante diverse memorie, come sta accadendo oggi, oppure in modo violento e radicale, cancellandone ogni traccia (penso ad esempio ai roghi dei libri, da Qin Shi Huang a Hitler e all’ISIS, o ai calendari “rivoluzionari” che ripartono dall’anno zero). Per Benjamin invece l’angelo, ovvero il vero senso della storia, “vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto”. Qui il significato è ambiguo, e credo ciò dipenda dal fatto che una prima versione di questo brano era incentrata sulla vicenda personale di Benjamin, su un amore finito e rimpianto. Comunque, è verissimo. Per ciascuno di noi ad un certo punto della vita, quello in cui ci si volge indietro perché davanti rimane ben poco da vedere, le rovine della storia sono i fallimenti, le incertezze e le decisioni non prese, le cose non dette e non fatte, che avrebbero potuto cambiare il nostro destino, il nostro presente e il nostro futuro. Vorremmo poter tornare indietro e riscrivere tutto il libro. Ma il vento, che in questo caso è semplicemente l’inesorabile, naturale scorrere del tempo, volta le pagine che rimangono, e il cumulo che abbiamo alle spalle si innalza.

Se interpretata invece nel suo significato più esteso, quello poi scelto da Benjamin, l’immagine ci dice che in realtà l’unica via d’uscita, per non lasciarci trascinare dalla tempesta che chiamiamo “progresso”, è proprio quella di fermarci, tornare sui nostri passi e “risanare” il passato. Quando dice che la tempesta del progresso spira dal paradiso, Benjamin non intende che è suscitata da una volontà divina o da un fantomatico Spirito hegeliano: il paradiso di cui parla è quello terrestre – sta quindi alle spalle rispetto alla marcia del “progresso”, e non davanti –, e il vento soffia dalle porte che l’uomo ha lasciate aperte uscendone. Quel vento, quella tempesta nascono dalla colpa originaria, dalle scelte errate che l’umanità ha compiuto, che ha cumulato e sparso lungo il suo cammino (le rovine, le macerie) senza averle poi ricomposte. Gli occhi spalancati, la bocca aperta dell’angelo sembrano i tratti tipici di chi all’improvviso si è voltato indietro e si sta rendendo conto, pieno di sgomento, della catastrofe che sta lasciando alle sue spalle (e del fatto che la sua marcia lo allontana dal paradiso).

Quello che l’angelo vede non sono però macerie, ma rovine. Non è tentato di rimuoverle per correre incontro al futuro, ma di ricomporle, per costruire su di esse un futuro che dia senso anche al passato. Esattamente il contrario di quella idea di “progresso” che si fonda sul consumo rapido delle cose e delle idee, sulla rincorsa costante del “nuovo” e sulla forma più efficace di eliminazione delle scorie, che è quella di sotterrarle nell’oblio. L’angelo è fermo. Si è fermato per riflettere e per decidere, malgrado la tempesta lo spinga e non gli consenta di chiudere le ali. E già questo gesto di fermarsi è significativo: vuol dire che il “progresso” così irresistibile forse non è, irresistibile è solo la marcia del tempo, ma la direzione e il posso che vogliamo tenere possiamo ancora deciderli noi.

Per capire meglio la complessa interpretazione che Benjamin dà di questa allegoria riesce illuminante, a mio giudizio, un aspetto del suo carattere che di solito è considerato marginale, e che parrebbe avere poco a che vedere col tema delle rovine. Benjamin era un collezionista. Ma di quelli duri, per i quali la passione diventa quasi (o senza quasi) un’ossessione. Collezionava vecchi libri per bambini, quelli impreziositi dalle immagini di illustratori del calibro di Dulac e di Rackam, ma anche più antichi: e quanto il piacere del possesso fosse vera bibliomania lo dice il fatto che un elenco recentemente pubblicato di questi libri consta di trentasette pagine di titoli. Essendo io stesso un bibliomane patologico non posso che sentirlo vicino, e posso anche immaginare quanto debba essergli costato separarsene quando fu costretto all’esilio. La mania con-divisa mi aiuta però a comprendere anche qualcosa di più. I libri per l’infanzia, e le soprattutto immagini che li adornano, sono il primo (in qualche caso anche l’ultimo) tramite per accedere all’esperienza di una dimensione diversa, più “autentica” di quella reale, che si vive attraverso il gioco. Il bambino fa coi con i suoi giochi “un esercizio dell’inutile”. Parte dalla realtà e dalla concretezza di quei fogli di carta, delle parole e delle immagini che vi sono impresse, e ricombina il tutto a suo modo e a suo piacere, avventurandosi in mondi nuovi, nei quali non valgono regole e logiche e tempistiche prevedibili. (Benjamin era molto polemico con la pedagogia della sua epoca – e lo sarebbe anche con quella attuale – che voleva trasformare i libri per bambini in strumenti di indottrinamento etico e di irreggimentazione disciplinare. Non posso che essere d’accordo: se c’è qualcosa di insopportabile e di ipocrita sono i libri per l’infanzia “educativi” – non parliamo poi del tentativo di piegare all’istruzione i fumetti).

Ma giocare è in fondo anche quanto il collezionista fa con i suoi reperti: “toglie alle cose, mediante il possesso di esse, il loro carattere di merce …. e si trasferisce idealmente, non solo in mondo remoto nello spazio e nel tempo, ma anche in un mondo migliore, dove gli uomini, è vero, sono altrettanto poco provvisti del necessario che in quello di tutti i giorni, ma dove le cose sono libere dalla schiavitù di essere utili.” Aggiungerei che redime il mondo dal disordine, disponendo gli oggetti della sua collezione in un ordine spaziale e mentale che conferisce loro un valore diverso da quello d’uso o da quello di scambio. Cancellandone idealmente il prezzo conferisce loro una dignità. Benjamin scrive anche: “Materia in rovina: è l’innalzamento della merce allo stato di allegoria.” Che è perfettamente applicabile tra l’altro al mio modo di collezionare libri, pescandoli là dove già sono rovina, sui banchi dell’usato a un tanto al chilo, e facendoli rifiorire a nuova vita in un orizzonte di senso assolutamente fuori mercato. Con questo il cerchio si chiude.

Adesso mi riconosco perfettamente in questa immagine. Mi sembra rappresenti e riassuma nella maniera più nitida il mio modo di concepire la storia e il nostro essere nella storia. Mi riusciva difficile conciliare le due pulsioni apparentemente contrastanti che mi agitano dentro, quella verso il passato e quella verso il futuro. Pensavo di essere sulla strada giusta, ma mi mancava il conforto di un segnavia riconoscibile. Ora so che quelle due pulsioni possono coincidere, anzi sono un unico moto.

In sostanza, io voglio un futuro che in qualche modo riscatti, dia un senso al passato. Sento una responsabilità, un debito, non solo nei confronti di coloro che verranno, ma anche di coloro che mi hanno preceduto. Per questo, malgrado gli acciacchi, e a dispetto del senso di frustrazione che troppo frequentemente mi tenta, continuo a stare per aria. Ho trovato una corrente ascensionale che mi consente di librarmi senza sbattere le ali (non ne avrei più la forza) e di guardare indietro: le rovine che vedo, quelle che reggono all’erosione del tempo, sono la testimonianza degli sforzi che miliardi di altri, centinaia di generazioni, hanno compiuto guardando a me. Non riuscirò a destare i morti, non ricomporrò i cocci di ciò che stato infranto, ma ricordarli, quello almeno lo posso e lo devo fare. E credo che sino a quando qualcuno lo farà rimarrà aperta la strada per sfuggire alla tempesta abrasiva del “progresso”.

Il mio non è allora un comportamento autistico, ma un impegno etico. In parte ereditato, da una cultura contadina che non buttava nemmeno le unghie del maiale, in parte coltivato, mano a mano che ho cominciato a leggere la storia, anziché come una squallida e assurda tabella di massacri, come un diario della resistenza dell’umanità alla tragica e assieme straordinaria condizione che la natura le ha regalato.

E l’estetica? Me la sono persa per strada? No, semplicemente per me etica ed estetica coincidono. Il comportamento etico non può essere dettato che dalla percezione e dal riconoscimento del bello, in questo caso delle sue vestigia. Una emozione estetica altro non è che il segnale, la luce che si accende su qualcosa che vale, che ha e che dà senso, e va quindi preservato, difeso. Ma anche rispetto a questo atteggiamento vanno fatte delle distinzioni.

Oggi le rovine non sono più consumate solo dal tempo e dall’incuria o dall’indifferenza degli uomini, ma al contrario, dal soffocamento del turismo globalizzato. In un brevissimo saggio scritto a inizio Novecento, che si intitola proprio “La rovina”, e che senz’altro era conosciuto da Benjamin, George Simmel equiparava la rovina alla moda, nel senso che entrambe sarebbero caratterizzate dalla distruzione di ogni contenuto precedente per accedere a una nuova unità. Non sto a raccontare come ci arriva (peraltro, con un percorso un po’ ostico ma illuminante), mi intriga solo l’accostamento, perché in effetti l’interesse per le rovine è stato sempre condizionato, dai giorni del Gran Tour ad oggi, dal fenomeno delle mode. Un tempo era riservato ai rampolli delle famiglie nobili del continente settentrionale e d’oltremanica, poi è entrato a far parte dei consumi di masse sempre più allargate, e motivate sempre più da una necessità di omologazione. Non è nemmeno il caso che stia a ripetere ciò che è sotto gli occhi di tutti e aggiunga la mia ad un coro di geremiadi che fanno ormai parte anch’esse del gioco. Le rovine, così come le bellezze naturali, sono ridotte a elemento scenografico del grande spettacolo non-stop al quale siamo persuasi più o meno velatamente o sfacciatamente ad assistere e/o a partecipare.

Ma qui, nel caso specifico dell’esperienza da cui ho tratto pretesto per queste righe, non di rovine si parla, ma di macerie, e del tipo di fascino, e conseguentemente di disposizione, che inducono. Questo è un fenomeno relativamente nuovo. È già stato fagocitato dalla moda, oggi si direbbe che è diventato virale, e quindi è destinato alla transitorietà: ma non lo liquiderei così frettolosamente. Presenta infatti delle caratteristiche emblematiche dell’ambiguità sottesa ad ogni nostra modalità e finalità di conoscenza. Intanto è una forma di esplorazione, mirata non tanto alla scoperta quanto alla riscoperta. In questo senso, la pulsione esplorativa sarebbe in linea con l’atteggiamento etico di cui parlavo sopra. Cercare qualcosa che si sottrarrebbe, in quanto scarto, alla logica dell’utilità e della mercificazione, e ripartire da quello per immaginare la possibilità di altri mondi. “La rovina innalza le cose allo stato di allegoria”. Ogni scoperta però reca con sé un germe infettivo: produce contaminazione, modifica o addirittura distrugge l’oggetto stesso che l’ha motivata. Gli antropologi ne sanno qualcosa.

Nel nostro caso, di fronte alle macerie della villa, due diversi atteggiamenti possono indurre a fermarle nell’immagine fotografica: quell’immagine può diventare un ulteriore momento dello spettacolo, oppure può documentare qualcosa che non funziona e a cui occorre ovviare. In entrambi i casi quelle macerie diventano funzionali ad altro rispetto a ciò che realmente rappresentano. Ma qui si pone il discrimine tra una scelta estetica, che è di per sé etica, perché orienta il nostro agire, ed una estetizzante, che banalizza nella “spettacolarizzazione” ciò che si è fotografato. L’una ci dice di una volontà di continuità nel tempo, di lettura e recupero del passato in funzione del futuro, l’altra di una plastificazione museale destinata solo al presente, e a un presente esteso, puramente orizzontale, privo di profondità.

Naturalmente queste generalizzazioni hanno senso solo all’interno di una trattazione teorica. La mia esperienza con Stefano, ad esempio, le contraddice. Le sue emozioni, il suo entusiasmo sono assolutamente genuini: e li manifesta attraverso un mezzo che ama altrettanto genuinamente, e col quale riesce a mediare e a ricondurre ad unità quelli che parrebbero interessi sparsi. È anche lui un collezionista di immagini, tratte non dai libri ma dalle tante realtà ambientali e culturali che ha incontrato (l’altra sua passione sono i viaggi). L’elemento unificante è dato dalla costante ricerca della bellezza, intesa come la risultante del lavoro del tempo sui volti, sulle montagne, sui suk arabi, sugli animali africani o sui templi tibetani: di una bellezza che va sottratta alla svendita e al consumo in confezioni cellofanate, con tanto di bollino di conformità, e partecipata invece come condivisione emozionale attiva.

Lo stesso vale per le macerie. Anche nei loro confronti lo sguardo fotografico può essere caldo e partecipe, se a orientarlo c’è dietro un’intenzionalità etica. E questa non è necessario indossarla o metterla nello zaino quando si esce di casa come per partire in missione. Se c’è, se ci è congenita o se l’abbiamo maturata e coltivata, al momento giusto vien fuori. E magari riesce anche a far sì che le macerie diventino rovine, “si presentino – come scrive Augé – a chi le percorre come un passato che egli avrebbe perduto di vista, dimenticato, e che tuttavia gli direbbe ancora qualcosa.
Un passato al quale egli sopravvive”.

Lode alle relazioni futili

di Fabrizio Rinaldi, 23 agosto 2020

Sul piazzale di casa un’enorme personaggio di Botero è sdraiato a prendere il sole e a guadarmi ogni volta che apro la porta d’ingresso.

In realtà è una catasta di legna, che avendo la forma di un annoiato grassone mi rammenta l’urgenza della sua messa a dimora in legnaia; dovrò farlo certamente prima delle piogge autunnali, ma sino ad ora l’estate afosa ha fiaccato ogni volontà.

L’inerzia dura già dalla primavera scorsa, quando la pandemia imponeva lo stare rinchiusi in casa. Inizialmente ero inebetito dalla situazione, dai dati del contagio e delle allarmanti immagini del coprifuoco, cui si aggiungeva un entusiasmo un po’ cinico per l’inaspettato e obbligatorio riposo. Lo stesso stato d’animo, in misura e in forme diverse, credo si sia diffuso un po’ in tutti.

Le attività lavorative consuete sono riprese dopo le prime settimane, anche se in modalità differenti (come nel mio caso), o si sono definitivamente chiuse per l’impossibilità di reggere situazioni economiche già precarie e rese definitivamente disastrose dalla pandemia. Per certi versi era quindi un esito già pronosticabile: la società odierna si fonda sull’equilibrio tra domanda e offerta, se uno dei due eccede, prima o poi il meccanismo s’inceppa.

Faccio un esempio: Ovada è una cittadina che si regge in piedi sulle pochissime piccole industrie non ancora affossate dalle ripetute crisi e dalla globalizzazione, su una campagna relativamente arretrata e su ben poco altro. Eppure, a fronte di circa 11 mila abitanti, nel 2019 contava ancora una sessantina di bar: un numero esagerato in proporzione agli abitanti. Ovada non è la Venezia del Piemonte.

Dopo tre mesi di chiusura forzata, molti non hanno rialzato la saracinesca, perché sconfitti dagli immutati costi d’esercizio o per l’insostenibilità economica delle nuove norme sanitarie. La stessa cosa è avvenuta per alcuni negozi di abbigliamento, in particolare per quelli più ambiziosi, che offrivano prodotti e praticavano prezzi alla portata delle sole star cinematografiche o dei super-manager. (Credo che l’ultima “celebrità” approdata ad Ovada sia stato Umberto Smaila, al tempo in cui facevano furore le tette delle conigliette di “Colpo grosso”, negli anni Ottanta). Questo mentre nessun imprenditore degno di nota si sognava di vedere questo territorio come una risorsa.

Ma anche molti artigiani hanno subito la stessa sorte. D’altro canto, non serviva essere fini economisti per capire che al primo scossone il castello costruito sull’illusione di un perpetuo benessere sarebbe crollato. Purtroppo la realtà ovadese non è riuscita nei decenni d’oro – e non riuscirà certamente ora, con i chiari di luna che ci attendono – a trovare una nuova identità, o a ritrovare quella antica. I nostri sembrano luoghi destinati al transito, placide colline dove trascorrere al massimo una notte (ma non di più) prima di approdare alla Liguria o alle Langhe.

Sta di fatto che cessato l’iniziale sbigottimento per il rapido diffondersi del virus, e venuta meno anche l’euforia per l’inattesa possibilità di oziare o realizzare ciò che da tempo si rimandava, sembra ora insorgere una generale inerte apatia, indotta dalla consapevolezza che questa situazione andrà avanti per un bel po’. La maggioranza si sta piano piano abituando a seguire gli accorgimenti per rallentare la diffusione del Covid, mascherina e distanziamento in primis, sia pure con diversa convinzione, ma non ha comunque testa per progetti che vadano oltre il giorno dopo. Molti hanno già optato per una fatalistica convivenza col virus, sperando che non li becchi o che lo faccia almeno in forma leggera. Qualcuno poi nega l’esistenza del problema o se ne frega, ma di questi non vale nemmeno la pena parlare, sono lo scotto (pesante) da pagare all’imperfezione e alla specificità umana: solo gli uomini possono essere stupidi.

Per quanto mi riguarda personalmente, constato che l’esigenza del distanziamento ha accentuato in me – ma credo di essere in buona compagnia – una preesistente difficoltà nello stare con gli altri. In effetti, non è che fino a mesi fa fossi un trascinatore di folle, che emergessi per acume o simpatia e che mi trovassi a mio agio nei momenti conviviali: ma sicuramente tolleravo meglio lo stare in mezzo agli altri (a piccole dosi, e in situazioni mediate sapientemente da mia moglie, che catalizzava su di sé le attenzioni). Ora avverto invece quanto sforzo mi costi il riannodare le relazioni con parenti, amici e colleghi: come se l’interesse fosse scemato, lasciando il posto ad una fatica – quasi fisica – a dialogare e manifestare un coinvolgimento.

Prima della clausura una constatazione del genere l’avrei risolta convincendomi che se quelle relazioni si erano concluse un motivo c’era, e che si trattava in fondo di una liberazione. Oggi, alla luce di questo forzato isolamento, devo invece ricredermi sulla loro importanza: in fondo sono esse a creare quell’humus sociale cui attingere nei momenti di solitudine, frustrazione e tedio, quelli appunto che l’attuale stato ci impone. Anche se si tratta perlopiù di legami utilitaristici, di circostanza o di sangue, tutti assieme intessono una sia pur fragile rete di sicurezza, all’interno della quale emergono poi – per dimensioni e resistenza – le poche ma solide funi principali dei rapporti profondi, quelli che davvero rendono la vita sensata.

Le relazioni “futili” riguardano, ad esempio, il fruttivendolo che ti mette una pesca in più nella borsa; il sino a ieri ignorato vicino, che ora mi parla del suo nuovo pavimento in cucina; il sorriso del pizzaiolo che non vedevo da mesi, in quanto anche la pizza mensile familiare era preclusa; la collega che dimostra interesse per le vacanze delle mie figlie, magari mentre sta pensando a come chiedermi le ferie o quale futuro lavorativo avremo (come se fossi un indovino). Bene, tutte queste effimere interazioni plasmano continuamente la personalità, in quanto generano esperienze.

Negli ultimi mesi anche queste relazioni apparentemente inutili si erano rarefatte, così come quelle importanti, in ragione del distanziamento. Purtroppo non hanno trovato in quel periodo adeguate sostitute che garantissero pari appagamento: non c’è social, media o videochiamata che possano rimpiazzare lo sguardo diretto, la postura dei corpi o il contatto fisico, in fin dei conti “la carne” dei nostri simili. Sia chiaro, non sono un caso Weinstein, ma ho aperto necessariamente gli occhi (come molti) su quanto esprimiamo di noi stessi con una stretta di mano, con lo sfiorare una spalla; persino nell’abbracciare e baciare diciamo molto di più di quanto potrebbero fare le parole.

Ci ho riflettuto. Fin da neonati capiamo come gira il mondo attraverso i sensi, in particolare con il tatto, e con quelli cerchiamo di stare al passo. Si sa che la sua privazione ha gravi conseguenza sulla salute, specie per gli infanti. Diventati adulti, escogitiamo altri linguaggi per comunicare le nostre intenzioni, riservando quello fisico solo alle persone più intime. Ebbene: questi mesi di privazione ci hanno dimostrato che siamo sì cresciuti, ma rimaniamo dei lattanti deprivati di un bisogno primario: il contatto fisico con i nostri simili.

Oggi abbiamo imparato che il virus infetta proprio attraverso queste interazioni, fisiche o sociali che siano. E lo si vede dall’incremento dei contagi di questi giorni, causato dalla spensieratezza (leggi “idiozia”) vacanziera. Quindi, senza relazioni il virus morirebbe, ma lo seguiremmo a ruota pure noi, poiché da esse dipendiamo e proprio esse ci caratterizzano. Dobbiamo inventarci una misura di mezzo.

Inoltre, la comparsa della pandemia ha sconvolto non solo i modi dello stare assieme, ma anche la percezione dello scorrere del tempo. Ne impieghiamo molto di più per realizzare ciò che fino a pochi mesi fa sbrigavamo velocemente, fagocitati in una corsa continua: dalla fila per fare la spesa alle interminabili call lavorative, dal cercare di metter giù due idee (come sto facendo ora) al sistemare la legna per l’inverno.

Le restrizioni esterne e lo smarrimento interno ingenerano, come dicevo all’inizio, l’apatia: una non-volontà che ci attanaglia perché le certezze sedimentate nelle nostre vite (e nelle generazioni precedenti) sono state spazzate via. Alla faccia di chi plaude incondizionatamente al rallentamento, però, questa non è una forma di serena tranquillità: nell’apparente stasi fisica e mentale, il nostro cervello cerca in realtà incessantemente una via d’uscita dal pantano, vorrebbe individuare differenti ed originali sicurezze. È vero che non sapendo quando e come ne usciremo viviamo in uno stato di perenne apprensione, e nella speranza di una veloce soluzione (il vaccino?) cui affidarci. Ma sappiamo ormai che una iniezione assolutoria non risolverà i problemi che ci portavamo dietro anche prima, e che hanno condotto a questa attualità.

Forse il grassone spiaggiato sul piazzale non è lì a spronarmi per la sistemazione della legna, ma semplicemente si gode il sole (e i ceppi si seccano), nella consapevolezza quasi mistica dello scorrere placido del tempo: ci attende un inverno lunghissimo, prima del ritorno della primavera. Le rondini non le porterà certamente il vaccino: ma almeno ora abbiamo la consapevolezza (coloro che ce l’hanno, naturalmente) che quello di prima non era il modo ideale di vivere. Forse è ora di assumerci la responsabilità di qualche significativo cambiamento.

Cambiare è sano, inevitabile e funzionale alla vita stessa. Possiamo negare l’evidenza della mutazione, ma avverrà comunque.

Quindi, caro grassone, goditi il sole perché, al primo temporale, ti sistemo io …

Collezione di licheni bottone

Raccontare storie a colori

di Paolo Repetto, 21 maggio 2020

La storia non è soltanto ciò che è stato,
ma anche ciò che se ne è fatto
Marc Bloch, Apologia della storia

Durante una delle interminabili passeggiate alessandrine con Mario Mantelli, di ritorno dall’appuntamento rituale delle sedici al Libraccio (accadeva quasi sempre che mi accompagnasse sin sotto casa, e fossi poi io a riaccompagnare lui alla sua, perché non si poteva lasciare il ragionamento a metà) sentii parlare per la prima volta di Michel Pastoureau, del quale fino a quel momento ignoravo persino il nome (non aggiungo “colpevolmente” perché, insomma, non si può pretendere di conoscere tutto). Il tema quella sera era il significato simbolico dei colori, e in effetti su quell’argomento il suo “Medioevo simbolico” è oggi una Bibbia. Ma io, ripeto, non lo sapevo, e a non saperlo mi sentivo in quel momento davvero un po’ colpevole, perché sulle simbologie medioevali più di quarant’anni prima avevo fatto approfondite ricerche (dopo la scoperta del Medioevo fantastico di Jurgis Baltrušaitis mi si era aperto tutto un mondo, nonché un modo diverso di pensare la storia). Mi sono assolto solo quando ho verificato che gli studi di Pastoureau sono apparsi attorno all’inizio del nuovo secolo, quando ormai i miei interessi viaggiavano in altre direzioni.
L’importanza che Mario attribuiva a questi studi e l’ammirazione che tributava a Pastoureau mi hanno però spinto a tornarci su: in sostanza, sono andato a leggermi prima “Nero. Storia di un colore”, e poi “Medioevo simbolico”. Con enorme diletto, devo dire, e con altrettanto profitto. Ora, però, non ne farò qui la recensione: conviene che leggiate gli originali, se già non lo avete fatto. Ne prendo spunto, invece, per alcune riflessioni sull’insegnamento della storia, su quello “che se ne è fatto”, come scriveva Marc Bolch, e su quello che attualmente se ne fa. E parto necessariamente dalla mia esperienza didattica e più in generale dalle mie velleità di divulgatore.
Ho insegnato Storia (uso sempre la maiuscola quando mi riferisco alla disciplina di studio) per trentadue anni, ho scritto di Storia entro quello che potremmo definire il circuito “ufficiale” per un breve periodo, ho raccontato Storia (o storie) per il resto della mia vita. Lo sto facendo anche adesso. Questa esperienza mi ha lasciato la convinzione che la storia dalle nostre parti sia conosciuta poco o male perché coloro che dovrebbero raccontarla lo fanno in genere nella maniera sbagliata (non che altrove sia conosciuta molto meglio, ma questo avviene per altri motivi).
Questa affermazione potrebbe sembrare quanto meno opinabile: esiste oggi un’offerta ricchissima, addirittura esorbitante, di divulgazione storica, e quest’ultima viene praticata con tutti gli strumenti e su tutti i supporti possibili, dalla conferenza al racconto per immagini, documentario, cinematografico o informatizzato. Ma non è una questione di quantità: “quella” storia trattata come una “merce” culturale qualsiasi, venduta a pezzi come il muro di Berlino, truccata, imbellettata, sia pure, nel migliore dei casi, coi “documenti d’archivio”, insomma condita e precotta e confezionata per il pronto consumo come i quattro salti in padella, non è la stessa cosa di cui parlo io. Io parlo di “senso” storico, inteso naturalmente come sensibilità educata nel soggetto conoscente, e non di un significato intrinseco all’oggetto conosciuto.
Ho scritto sensibilità “educata” perché il primo approccio serio con la storia si ha a scuola: è lì che nasce, o muore, l’imprinting, e la nostra scuola in tal senso non è affatto attrezzata a preservarlo. Ne ho già trattato a più riprese altrove. Non che manchino gli strumenti didattici, anzi, ce ne sono a mio parere sin troppi, e si fa troppo affidamento sul loro ruolo. Ma paradossalmente questi strumenti, anziché contribuire a creare una atmosfera “speciale”, a coltivare un apprendimento che entri sottopelle e circoli in vena, adattano e livellano questo apprendimento ai modi della quotidianità, ad una percezione confusa e indistinta della realtà. Col risultato che la narrazione storica finisce per confondersi e assimilarsi alle altre infinite narrazioni che passano attraverso schermi, teleschermi e monitor.
Faccio un esempio banalissimo. Le scelte iconografiche che corredano oggi i libri di testo delle elementari, giustificate con l’intento di educare gli allievi ad un rapporto e a una dimestichezza precoci con le “fonti documentali”, ottengono l’effetto opposto. Il valore evocativo di un dagherrotipo d’epoca che ritrae Nino Bixio è infinitamente minore rispetto a quello che aveva un tempo la figurina disegnata di un garibaldino, o di Bixio stesso, con la sua brava camicia rossa: illustrazione che avrebbe potuto essere trasposta di sana pianta in uno dei fumetti di capitan Miki o di Tex, o presa da esso, e che rimandava alla dimensione dell’avventura (alimentando peraltro la voglia di andare più tardi a scoprire che faccia aveva davvero quel garibaldino, e di cercare quindi il dagherrotipo). È evidente che oggi le stesse immagini non evocherebbero più nulla, perché nessun ragazzino legge più Miki o Tex, ma ciò che è andato a sostituirle non ha assolutamente un altrettale potere di suggestione, e non potrebbe averlo anche se usato nel migliore dei modi: semplicemente perché su quel versante la mente dei ragazzini è già colonizzata da ben altri effetti speciali.
Il discorso deve dunque spostarsi sul fattore umano. Occorre riscoprire finalmente la centralità della famigerata “lezione frontale”. E qui il problema si presenta nel suo vero aspetto. Ciò che davvero manca sono gli insegnanti, i narratori capaci di trasmettere quel senso di “pervasione del tutto” che solo giustifica e rende possibile la vera conoscenza storica. Mancano perché coloro che si confrontano oggi con i ragazzi a loro volta la storia non la conoscono, o la conoscono male, o ne hanno una conoscenza parziale in termini quantitativi e partigiana in quelli qualitativi. La loro impreparazione è frutto di quarant’anni di improvvisate e raffazzonate riforme dei piani di studio, che hanno sconvolto la tradizionale scansione delle tappe dell’apprendimento per sostituirla con modelli completamente sganciati dalla realtà. La sgrossatura che un tempo era affidata alla scuola elementare, e che con tutti i suoi limiti offriva quantomeno l’idea di un percorso “storico”, di una cavalcata attraverso i tempi, ha lasciato il posto ad una pretesa approfondita “immersione” (l’intero terzo anno dell’odierna primaria dedicato alla preistoria, i due successivi alle civiltà classiche) che rompe i ritmi e ingenera nella mente dei ragazzini – abituata per altri versi ai tempi rapidi di comunicazione degli spot o a quelli frenetici dei videogiochi – un senso di saturazione e un sostanziale disinteresse. Contemporaneamente, il preteso ribaltamento del punto di vista eurocentrico, la pregiudiziale messa sotto accusa della civiltà occidentale e l’ambizioso proposito di trattare sullo stesso piano tutte le civiltà (delle quali chi insegna sa naturalmente ancor meno che della nostra) ha creato un approccio disordinato, velleitario e inversamente “negazionista”.
Chi si è formato in una babele didattica di questo genere non può non essere confuso e inadeguato. Intendiamoci: non sto dicendo che “un tempo” tutti gli insegnanti di storia fossero bravi a raccontarla, o obiettivi nella trattazione, e nemmeno che lo fosse la maggioranza: io stesso ho incontrato nel mio percorso scolastico dapprima una esposizione arida, noiosa e nozionistica, e successivamente una “imposizione” fortemente ideologizzata e altrettanto nozionistica, e ho anche pagato, in termini di valutazioni, i miei timidi tentativi di rendere il tutto un po’ meno insipido aggiungendo qualche grano di sale. Ma quegli insegnanti avevano comunque di fronte degli allievi che il nozionismo, per forza d’abitudine, erano in grado di digerirlo, e di cavarne quindi alimento anziché tossine. Anche quello meno bravo, se appena appena faceva un po’ il suo dovere, qualche plinto di fondazione riusciva a gettarlo. Poi ciascuno, in base alle sue capacità e alle sue disposizioni, ci costruiva sopra l’edificio che voleva. Oggi l’utenza è diversa, e non è certo con i giochini spettacolari offerti da nuovi media, coi quali gli allievi hanno una consuetudine ben superiore a quella dei loro docenti, che si conquista la loro attenzione. Con quelli, quando va bene, li si tiene buoni per qualche mezz’ora. Quindi non si scappa: o si reimpara a narrare, pur con tutti gli ausili e i supporti che si vuole, o si condannano le nuove generazioni all’ignoranza storica.
Naturalmente non mi sto riferendo alle capacità affabulatorie: quelle o si possiedono o no, anche se un buon allenamento può dirozzare o ammorbidire la tecnica di esposizione. Parlo invece di una disposizione mentale che in parte può essere un regalo di natura, ma per il resto va costruita. Ciò che maggiormente difetta, infatti, è la capacità di fare storia con tutto, e quindi di far comprendere ai ragazzi che tutto fa storia. Per rimanere nella metafora gastronomica di cui sopra, manca la capacità che aveva mia madre di costruire piatti appetitosi partendo sempre dagli stessi quattro ingredienti poveri di cui disponeva. Il che significa non essere onniscienti, ma avere la capacità di cogliere in qualsiasi ambito un potenziale di indagine, di chiarimento o di spiegazione storica. Che equivale a dire: di divertirsi e di abituare a un divertimento intelligente chi ti segue.
Conviene però a questo punto passare immediatamente agli esempi, per evitare di girare a vuoto tutto attorno e di strangolarmi da solo. E anche per spiegare il riferimento iniziale. Pastoureau entra in questo discorso perché i colori hanno fatto la loro parte di storia (e lui l’ha raccontata), ne sono stati testimoni e ne sono a loro modo anche motori. Vediamo come. Senza riassumere Pastoureau, ma sviluppando le indicazioni di metodo che ha fornito.
Quando si racconta agli allievi la vicenda della Riforma protestante è difficile appassionarli al dibattito teologico, al problema del libero arbitrio, della grazia o non grazia, della validità o meno dei sacramenti, ecc… Il che non significa che non si debba parlarne, al contrario: ma occorre farlo portandoli a toccare con mano le conseguenze tangibili, immediatamente visibili, delle diverse scelte. Questo lo si può ottenere, ad esempio, comparando la diversa presenza dei colori in un’opera fiamminga della seconda metà del cinquecento e in una del seicento: Brueghel e Rembrandt, tanto per andare sul sicuro. Credo non ci sia nulla che faccia immediatamente percepire il salto di mentalità meglio del passaggio dagli abiti variopinti e chiassosi de la Danza nuziale a quelli neri, uniformi, rigidi della Lezione di Anatomia. Il nero è negazione della varietà dello spettro cromatico, della diversità, della possibile coesistenza di differenti concezioni del mondo: quindi spiega la caccia alle streghe, le guerre di religione, le intolleranze reciproche, ecc … L’uniformità stessa del colore degli abiti rimanda immediatamente all’idea di “uniforme”, nelle accezioni sia sostantivale che aggettivata, e quindi all’operazione di intruppamento dei corpi e delle menti perseguita tanto dai riformatori come dai controriformisti, gli uni e gli altri avendo alle spalle i nascenti stati moderni. E l’associazione nella cultura occidentale del nero col demoniaco, con il pericolo, con la violenza, con il lutto, può magari anche aiutare a far comprendere fenomeni come quello del razzismo.
Allo stesso modo, un piccolo excursus sulle simbologie negative del rosso o del giallo può diventare intrigante, e al tempo stesso, se ben pilotato, sgombrare il terreno da pregiudizi popolari radicati. Quando è associato a tratti morfologici, come il colore dei capelli o della pelle, il rosso connota tradizionalmente una disposizione negativa. Sono rossi i capelli e la barba di Giuda, ad esempio, così come ricorrono nella pittura medioevale (e sopravvivono in quella successiva), ma anche quelli di numerosissimi personaggi biblici o mitologici, o dei reprobi dei poemi cavallereschi, fino a quelli della letteratura romantica, e oltre (il Rosso Malpelo di Verga). Ora, questa valenza simbolica negativa ha un’origine facilmente identificabile: presso quasi tutte le etnie del mondo, con la parziale eccezione dei popoli scandinavi, gli individui di pelo rossiccio rappresentano delle esigue minoranze, e sono quindi percepiti immediatamente come dei “diversi”, alla stessa stregua ad esempio dei mancini. Non a caso, nella rappresentazione iconografica (ancora Giuda) e letteraria i due attributi marciano spesso di conserva. Il rosso diventa quindi per antonomasia il colore che connota, in progressione negativa, una differenza, una anomalia, un pericolo, il male. Diventa il colore di Satana. E l’identificazione simbolica finisce alla lunga per prescindere dal suo movente originario, al punto da imporsi anche presso quelle culture (le nordiche di cui sopra) nelle quali la motivazione della differenza morfologica non ha senso.
Altrettanto intriganti e rivelatori sono poi i risvolti attuali di questo simbolismo. Perché ad un certo punto quello dei reprobi da simbolo infamante diventa invece vessillo di riscatto ed è adottato come bandiera, e questo malgrado il rosso rimanga convenzionalmente associato al pericolo e alla devianza (la bandiera rossa sulle spiagge, il segnale rosso dei semafori, la sottolineatura degli errori su questo computer, le zone rosse dei contagi, ecc). Anzi, è proprio il messaggio di pericolosità connesso al simbolo ad essere rivendicato (le camicie rosse dei garibaldini, l’Armata rossa – cui la reazione oppone naturalmente quelle bianche), e usato come un monito minaccioso da mandare ai nemici. Nello stesso modo in cui viene fatto proprio, e ribaltato nelle sue valenze etiche e politiche, il simbolismo connesso a tutto ciò che concerne la “sinistra”.
Anche qui, una passeggiata nell’iconografia, in particolare in quella sacra, si rivela particolarmente istruttiva. Si considerino ad esempio le trasformazioni avvenute nell’abbigliamento della madonna, nel quale a partire dalla Controriforma il rosso tende a cedere sempre più il posto al bianco, sino alla definitiva affermazione di quest’ultimo dopo il dogma dell’immacolata concezione. La madonna pellegrina che io stesso ho visto nei primi anni cinquanta transitare per Lerma, nel corso di un pellegrinaggio preelettorale che coprì palmo a palmo tutto il territorio nazionale, per esorcizzare il pericolo del fronte popolare, era rigorosamente ammantata di bianco e azzurro: il rosso campeggiava solo nei manifesti che proponevano l’immagine terrificante dell’orso bolscevico.
Dal canto suo, anche il giallo ha conosciuto una associazione simbolica negativa, solo appena più sfumata. Nell’iconografia medioevale, ma anche in quella successiva, è il colore del tradimento e della menzogna, come tale identificato non tanto nei tratti morfologici (ché, anzi, dopo le conquiste normanne il colore biondo dei capelli diventa il tratto distintivo della nuova nobiltà di spada) quanto nell’abbigliamento (dietro il quale, appunto, ci si nasconde). La veste di Giuda è spesso gialla, così come gialla è la stella identificativa degli ebrei, e tali sono molti capi di abbigliamento degli ebrei stessi, o dei buffoni di corte e dei saltimbanchi. In questo caso ad essere sottolineata è una diversità non “naturale”, ma sociale e culturale.
Come si vede, le potenzialità di sviluppo di un discorso di questo tipo sono infinite. Il filo principale può essere svolto, per esempio, partendo dai colori primari, pieni e nitidi, usati da Giotto e nella pittura francescana, passando per quelli opulenti del Beato Angelico e di Benozzo, risalendo a quelli più sfumati della pittura rinascimentale, che coincidono con la liberazione del pensiero da contorni troppo netti e marcati; e si dipana poi, dopo il barocco, con un ritorno al cromatismo vivace, alle tinte pastello nel Settecento, e successivamente con l’utilizzo di tonalità più cupe, e il ritorno al nero degli abiti, nel Romanticismo. Insomma, la storia della nostra civiltà può essere riassunta anche attraverso il filtro cromatico.
Per inciso, in un discorso di questo genere rientrano, naturalmente su un piano diverso, proprio le escursioni storico-antropologiche di Mario Mantelli nel mondo delle impressioni infantili: sia pure circoscritte apparentemente a un microcosmo provinciale, e ad un periodo molto particolare, ma allargate oltre che alle immagini e ai colori anche ai sapori e agli odori, raccontano l’educazione “sensoriale” prima che sentimentale di una intera generazione (tema sul quale Mario è tornato anche recentemente): e questo racconto vale più di qualsiasi dotta indagine o dissertazione per spiegare le scelte ideologiche o esistenziali dei nostri coetanei.

Ma la storia non è solo colorata: può essere anche “colorita”. E qui entra in gioco l’uso dell’aneddotica. Tutti i miei studenti ricordano ancora oggi che Cavour voleva prendere a calci nel sedere Vittorio Emanuele II dopo l’armistizio di Villafranca (storico: testimoniato da Costantino Nigra). Magari ricordano solo quello, e non le date di san Martino e Solferino, ma almeno sanno chi erano Cavour e Vittorio Emanuele, e che rapporti intercorrevano tra i due, e che è stato stipulato un armistizio a Villafranca, e che quindi in precedenza c’era stata una guerra, e perché questa guerra era stata combattuta. Sarei curioso di fare oggi un test a campione sugli studenti usciti dalla scuola secondaria da un paio di anni, per verificare che conoscenza hanno di quei personaggi e di quelle vicende. Lo stesso valore di chiodini nel muro della memoria possono assumere un sacco di altre informazioni, al limite del pettegolezzo, che riescono ad accendere l’attenzione per la loro curiosità e a mantenerla poi desta anche sui fatti essenziali cui sono collegate. Non si tratta di “banalizzare” la storia, cosa che accadrebbe se si raccontassero solo i pettegolezzi, ma di vivacizzarla un po’, di farla uscire dal recinto sacro della disciplina di studio e farla entrare in quelli dell’interesse e del divertimento.
Un discorso analogo vale per la proposta di approcci un po’ sfalsati e marginali rispetto a quello canonico e rituale. La Storia può essere raccontata ad esempio passando attraverso l’esame delle risorse, a partire da quelle alimentari per arrivare alla disponibilità di materie prime indispensabili al processo industriale. Sapere che nell’area mediterranea e mediorientale erano presenti in natura trentadue delle cinquantasei specie erbacee domesticabili ad uso alimentare, contro le undici delle Americhe, le sei dell’Africa subsahariana e dell’Asia orientale e le due dell’Australia, aiuta i ragazzi a capire le ragioni dei diversi tempi di sviluppo di queste zone, e il conseguente fenomeno della dominazione europea, molto più della conoscenza in dettaglio dei rapporti internazionali, o perlomeno consente di spiegare molto meglio questi ultimi. E così, un minimo di storia dell’alimentazione, quel tanto sufficiente a far comprendere che senza l’introduzione in Europa del mais e delle patate forse non ci sarebbe nemmeno stata la rivoluzione industriale, o sarebbe avvenuta in altri luoghi e con altri tempi, rende molto più semplice e chiara la situazione. Allo stesso modo, la sostituzione del petrolio al carbone come fonte energetica primaria spiega la decadenza dell’Europa, e la presenza solo in Africa di elementi come il litio o il coltan ci fa immediatamente intuire perché quel continente non abbia pace.
In definitiva: io credo che la strategia per riaccendere nei giovani, o almeno di una parte di essi, l’interesse per la storia passi in primo luogo per la segnalazione di diversi possibili percorsi: una segnalazione che, se gestita con criterio, scegliendo i momenti e profittando degli agganci opportuni, non confonde affatto le idee dei ragazzi, ma al contrario, apre le loro menti alla curiosità e all’autonomia di pensiero. Il resto, l’apertura agli “eventi”, la ricognizione dei “luoghi storici”, le conferenze dei professionisti della divulgazione, i supporti multimediali, tutto lo strumentario al quale oggi sembra affidarsi e ridursi la didattica, ha valore solo in quanto usato all’interno di questo piano, né più né meno di come lo avevano le carte geografiche appese ai muri delle nostre aule. Ma fin qui credo di non dire in fondo nulla che almeno teoricamente non sia già contemplato nelle linee di indirizzo periodicamente diffuse anche nella nostra scuola. Di nuovo, anzi, a dire il vero, di antico, c’è che questo progetto di riscatto presuppone da un lato, negli allievi, un sostrato essenziale ma solido di conoscenza degli eventi (leggi: nozioni, date, nomi, luoghi) e di competenze nel loro inquadramento cronologico; dall’altro, nei docenti, la capacità di non ridurre il tutto ad imbonimenti autoreferenziali o a pappine precotte. I percorsi possibili vanno suggeriti, assistiti, esemplificati quanto basta, ma lasciati poi aperti e incompiuti. Con le stesse cautele possono anche essere azzardati degli schemi interpretativi che consentano agli studenti non soltanto di guardare alla storia con occhiali diversamente colorati, ma anche di scegliersi particolari postazioni di lettura. Cito, per fare qualche esempio, quelli relativi alla contrapposizione per il passato remoto tra popoli nomadi e popoli sedentari, o tra civiltà particolaristiche “democratiche” e civiltà idrauliche dispotiche; per quello più prossimo, tra popoli che guardano alla terra e popoli che guardano al mare.
Ecco, suggestioni di questo tipo sono, come dicevo, materia estremamente delicata, e vanno trasmesse assieme alla consapevolezza che si tratta di possibili modalità di lettura della storia, e non di chiavi magiche che aprono al suo senso: e che ogni angolo prospettico va confrontato con gli infiniti altri, non per contraddirli o negarli, ma anzi, per trarne conforto e ulteriori stimoli. È una cosa meno facile di quanto possa sembrare: le idee forti, i modelli interpretativi ad alto tasso di assertività esercitano un’indubbia attrattiva sulle menti adolescenziali (e non solo su quelle), che hanno bisogno di spiegazioni semplici, di un “senso” all’interno del quale e in funzione del quale collocare gli eventi storici. Ma d’altro canto queste suggestioni “integraliste” sono una tappa obbligata nel cammino di chi va alla scoperta della storia. Importante è che non rimangano l’ultima: cosa che invece accade quando le alternative offerte non sono altrettanto seducenti.
Per chiudere torno dunque al colore e al mio sussidiario di terza elementare. In esso anche gli opliti di Leonida o i legionari romani erano rappresentati con figurine coloratissime, quanto attendibili nella ricostruzione dell’abbigliamento non so, ma senz’altro capaci di colpire la fantasia, tant’è che ancora le ricordo. In quello di mio nipote le figurine sono state sostituite da fotografie di statue o di monumenti classici, molto belle, per carità, ma tendenti a indurlo a pensare che gli uomini dell’antichità fossero di marmo e che Atene e Roma fossero imbalsamate in un sudario bianco. E come tali, ben poco vivaci e interessanti. Allo stesso modo, per riallacciarmi a quanto dicevo sopra a proposito dell’aneddotica, sono scomparsi dalla narrazione Muzio Scevola e Attilio Regolo, col risultato che della divisione in tribù e in curie, meticolosamente descritta, e dei comizi curiati o centuriati non ricorda già ora nulla, e nemmeno gli è rimasta traccia di quegli episodi simbolici che trasmettevano comunque l’idea di un certo modo di concepire il rapporto tra individuo e stato.
Quindi? Quindi l’argomento è troppo complesso per essere affrontato e liquidato in quattro paginette. Ma anch’io, che pure adolescente non sono più da un pezzo, ho conservato alcune idee semplici e forti, e approfitto di ogni occasione per ribadirle. Non devo argomentare e giustificare l’utilità dello studio della Storia, lo hanno già fatto moltissimi altri, a partire almeno da tremila anni fa, da quando una rudimentale coscienza storica è comparsa a connotare in maniera ancor più netta la “diversità” del genere umano. E neppure intendo entrare nel merito di “cosa” della storia si è fatto, altro tema dai risvolti infiniti. No, semplicemente volevo esprimere la mia preoccupazione per l’uso che se ne farà una volta che nella stragrande maggioranza degli umani quella coscienza storica si sarà atrofizzata: perché questo è il processo in atto, non so dire quanto sapientemente guidato o quanto irresponsabilmente accettato. La riduzione della Storia a spettacolo, a merce culturale, ne rappresenta oggi l’aspetto più fastidioso, in quanto più immediatamente visibile: ma dietro ci sono la sostanziale cancellazione della conoscenza storica, la sua perdita di profondità, il suo appiattimento sul presente, il leopardiano (ma già omerico) “trascolorar del sembiante”, e quindi la sua continua possibile riscrittura su richiesta (on demand, si usa oggi) dei nuovi committenti: dietro c’è un futuro senza conoscenza, e quindi senza coscienza storica.
Non posso assistere inerte a questa deriva, anche se di quel futuro ne vedrò poco. Credo sia doveroso ostinarsi a chiarire, a sé e agli altri, che le colorazioni con filtri speciali, del tipo di quelle operate sui vecchi film western, rovinandoli e falsandone completamente l’aura, così come gli interventi di restauro radicale, che cancellano quella patina del tempo che della storia è segno distintivo, non sono affatto dei rimedi, e la deriva anziché arginarla l’accelerano. Ridare colore alla storia non significa cambiare l’ordine degli eventi o ricalibrarne la rilevanza. Significa molto più semplicemente ricaricare lo sguardo che ad essa rivolgiamo di quello stesso stupore e di quella curiosità che l’hanno originata.

Economia di sottoscala

di Paolo Repetto, 6 aprile 2020

Uno degli effetti collaterali della quarantena domestica cui il coronavirus ci costringe, oltre al probabile aumento dei femminicidi e all’ulteriore deterioramento dei rapporti tra le generazioni, è senz’altro l’opportunità offerta ai grafomani di scatenare i loro più bassi istinti. Non mi riferisco qui ai socialpatici o ai blogger seriali, quelli non aspettano le epidemie per manifestarsi, ma a coloro che come me, dopo aver dedicato metà della giornata alla lettura e schifando le consolazioni televisive, non trovano di meglio che attaccarsi al computer e rifugiarsi nella scrittura.

Il problema è che qualsiasi argomento, in una situazione come quella attuale, perde quasi tutta la sua rilevanza: sono in quarantena anche loro. Non rimane allora che dedicarsi al vecchio proposito di mettere ordine tra le cose prodotte negli ultimi vent’anni, rimasto sempre inattuato per le urgenze continue di correre dietro a nuovi spunti. È un lavoro complesso, per chi soprattutto ha decine di file aperti da tempo immemorabile, dispersi su innumerevoli chiavette. È anche ingrato, perché impone di decidere cosa salvare e cosa buttare definitivamente, cosa è superato dagli eventi e cosa si è sottratto alla rapidissima obsolescenza che caratterizza ormai ogni prodotto, materiale e intellettuale. Ma è anche a suo modo gratificante, perché consente di riscoprire cose delle quali ci si era totalmente dimenticati e che non hanno del tutto persa la loro attualità.

A dire il vero non avevo atteso il virus per dedicarmi a questa operazione di recupero. Da qualche tempo ripropongo sul sito cose riemerse dall’oblio. Questo testimonia che non è la contingenza epidemica a motivarmi. La spiegazione è un’altra, è legata all’età. Non nel senso che questa mi induca nostalgie, ma per l’ossessione di riordinare, di mettermi “in pari”, fin che sono a tempo: e anche per l’anelito a un distacco progressivo e il più possibile indolore da un presente che a me, e purtroppo non solo a me, non sembra riservare un gran futuro.

Il convegno cui mi riferisco nel testo si è tenuto quasi dieci anni fa. Avevo destinato le mie riflessioni alla pubblicazione su InNovitate, un’onesta rivista novese che vivendo anche delle sovvenzioni provinciali ha giustamente storto il naso. Lo stesso ha fatto il mio amico assessore, e alla fine ho lasciato perdere senza troppi rimpianti.

Nel frattempo il mondo intero è cambiato, ma non la situazione alessandrina. Se possibile, è andata peggiorando. Per questo credo che qualcosa delle mie riflessioni abbia ancora senso. Sempre che in assoluto qualcosa abbia ancora senso.

***

Quanto capisco di economia lo dice il modo in cui amministro le mie finanze. Non ho mai coscienza precisa del loro stato, e l’ordine d’idee per cui il denaro costituisce un “valore” di per sé, sia pure di riferimento temporaneo, attorno al quale far ruotare scelte o previsioni, non mi appartiene. Ma non si tratta di un rifiuto motivato e consapevole: semplicemente, essendo cresciuto sino a vent’anni senza vedere l’ombra di una lira, mi sono abituato a farne a meno, e anche quando le cose sono migliorate il rapporto coi soldi si è attestato su un diffidente distacco. Quindi dietro questa mia ignoranza non ci sono pregiudiziali ideologiche: so che il denaro è necessario, mi sono sbattuto per arrivare a disporre almeno dell’indispensabile e qualche volta (è capitato molto raramente) anche del superfluo, ma non faccio conti sul mio portafoglio: mi è sufficiente poter far fronte ad eventuali spese senza accendere mutui o piani rateali. Queste ultime sono possibilità che nemmeno concepisco; l’idea di avere dei debiti non mi farebbe dormire.

Anche se tendenzialmente sono una persona “economa”, non ho dunque alcuna credenziale per entrare nel merito dell’attuale caos economico, e la cosa più saggia sarebbe che mi occupassi d’altro. Ma tant’è, visti i risultati conseguiti dai cosiddetti esperti, gli abbagli che hanno preso e che continuano a prendere, il fatto che esistono dieci diverse teorie economiche e che ognuna contraddice le altre, penso di poter azzardare qualche riflessione senza pormi eccessivi problemi. Del resto queste, come tutte le altre mie, rimarranno riservate alla cerchia degli intimi: le immagino come una sorta di messaggio in bottiglia da lasciare ai nipoti, perché possano un giorno confrontarle con la realtà che andranno a vivere. Chissà che non abbiano delle sorprese: e anche se queste sorprese non cambieranno loro la vita e non li aiuteranno a cambiare il mondo, potranno trarne almeno una lezione di sfiducia nei grandi esperti del settore e di fiducia nel buon senso comune, quando c’è.

La convinzione mi viene da un dibattito cui ho partecipato ieri e che aveva come oggetto le prospettive di sviluppo dell’economia alessandrina. Ho accettato l’invito di un amico che sta nell’ amministrazione provinciale perché ero incuriosito dall’accostamento: per me, se due cose appaiono poco accomunabili oggi sono proprio lo sviluppo e la provincia di Alessandria. Mi stuzzicava vedere come avrebbero fatto a coniugarle. Ho dunque dato l’assenso senza nemmeno conoscere il programma (che, in effetti, ancora non era stato stilato): pensavo si trattasse di un incontro di un paio d’ore, molto ristretto, quasi informale. Non mi aspettavo un carrozzone di un’intera giornata, con buffet incorporato (l’unica nota positiva), un teatrino dove tutti hanno voce e nessuno dice niente. Invece era proprio una cosa così, una parata che andava dal presidente della provincia ai sindaci dei centri principali, e a seguire annoverava gli esponenti della finanza, gli imprenditori, i sindacati, insomma la fauna consueta che anima questi spettacoli.

C’erano davvero tutti quelli che contano, o almeno, quelli che in casi come questo i conti dovrebbero saperli fare. Poi c’erano quelli come me, pura suppellettile. Noi dirigenti scolastici, ad esempio, (eravamo in tre) avremmo dovuto rappresentare le istanze, i problemi e le speranze del mondo dell’istruzione. Lascio immaginare l’entusiasmo. Il collega cui era toccata la pagliuzza più corta ha avuto a disposizione cinque minuti giusti giusti prima dell’ultima pausa caffè, e ha parlato in mezzo al disinteresse più totale.

Otto ore di “dibattito” hanno comunque portato alla conclusione che l’economia materiale e quella spirituale della provincia sono in uno stato disastroso. Forse sarebbe stato sufficiente un giretto per le vie di Alessandria, o un qualsiasi percorso sulle strade provinciali, o più semplicemente ancora considerare il parterre dei convenuti: ci saremmo risparmiati una noia mortale e la spesa per il buffet. Semmai, i dati impietosi con i quali si è aperto l’incontro, su saldo demografico, saldo commerciale, PIL assoluto e PIL pro capite, trend produttivi tutti di segno meno e industria e agricoltura in picchiata ormai da cinquant’anni, hanno fatto conoscere una realtà ancora più buia: l’area alessandrina è la più malmessa non solo a livello regionale ma anche nel confronto con tutto il Nord.

Di questo disastro sono state offerte nella seconda parte della mattinata spiegazioni sempre più articolate e complesse, che tiravano in ballo congiunture nazionali e internazionali, globalizzazione, rapporti tra stato centrale e periferie, ecc …: ma la più convincente era quella che rimaneva tra le righe, e veniva dalle figure stesse dei relatori, che erano in definitiva i responsabili delle politiche economiche locali degli ultimi trent’anni, quelli che il disastro lo hanno allegramente gestito passando da un fallimento l’altro. Ad ascoltarli si capiva benissimo perché ci troviamo oggi in questa situazione.

Nel pomeriggio si è finalmente approdati alla fase propositiva. Anche qui è venuto fuori un po’ di tutto, dalla riconversione industriale alla valorizzazione turistica, dal grande progetto logistico alla rete agrituristica, ecc … Nulla che non facesse crescere ad ogni quarto d’ora la voglia di uscire a fumarsi una sigaretta. La nuova parola d’ordine condivisa sembra essere comunque lo sviluppo di un “manifatturiero di qualità”. Su questo parevano essere tutti d’accordo: salvo poi perdersi nelle sfumature e nei distinguo per le diverse aree, e non offrire naturalmente alcuna indicazione concreta. D’altro canto, è già dura pensare alla conservazione di un manifatturiero qualsiasi, figuriamoci sviluppare quello di qualità. Soprattutto dopo che le attività di spicco che fino a ieri avevano caratterizzato il territorio e lo avevano in qualche modo reso famoso nel mondo (penso ad esempio alla Borsalino) sono state lasciate morire nell’indifferenza e nell’inerzia generale, e in particolare in quella degli stessi che stanno ora sul pulpito a lamentarsene, e che fino a ieri cullavano e sponsorizzavano il sogno del grande polo industriale (Italsider, Montedison, Michelin, ecc …).

In sostanza, il “manifatturiero di qualità” di cui questa gente sproloquiava altro non è che la riproposta, patetica e assolutamente poco convinta, di riciclare vecchie attività che o stanno scomparendo dallo spettro economico o sono state sviluppate altrove con ben diverse capacità organizzative e amministrative. Mi è toccato sorbirmi anche un tizio che vantava le rosee prospettive degli allevamenti di lumache e delle ciliege di Rivarone.

Mentre ascoltavo sconsolato queste scemenze mi è venuto in mente che proprio ieri si apriva a Trento il festival dell’economia. Intendiamoci, tutti questi festival, della letteratura, della filosofia, della scienza, sono chiaramente delle puttanate. Ma quello di Trento un senso, sia pure solo simbolico, mi sembra averlo. Trento ha vinto la sua scommessa economica puntando sul settore meno considerato in Italia: quello della cultura. Gli studenti universitari costituiscono oggi quasi la metà della popolazione cittadina. Si potrebbe dire che dipende dal fatto che la città gode di una posizione geograficamente avvantaggiata, perché vede al di là dei monti il mondo germanico e mitteleuropeo: ma allo stesso modo si potrebbe sostenere che l’estremo decentramento rispetto al resto del paese è uno svantaggio, e che comunque di una eguale situazione gode ad esempio Torino, che non ne ha però lo stesso ritorno. Di fatto, Trento costituisce un’eccellenza qualitativa e un esempio di come non sia necessario avere il petrolio sotto i piedi per sopravvivere: è sufficiente fare lavorare bene la materia grigia.

Scelte di investimento di questo tipo non possono certo essere fatte partendo dal nulla: ci vogliono particolari condizioni ambientali e logistiche, una solida tradizione alle spalle, una vita culturale attiva e diffusa, una rete di rapporti nazionali e internazionali. Ma quando queste condizioni non ci sono possono anche essere create: Trento sino a qualche decennio fa non le aveva, e Alessandria non le ha nemmeno in questo momento: ma per un certo periodo, negli anni sessanta-settanta, quando appunto aveva cominciato a manifestarsi la crisi del manifatturiero, in parte già esistevano e in parte potevano essere create. Basti pensare alla incredibile opportunità rappresentata dalla Cittadella. Avrebbe potuto diventare il maggior campus d’Europa, sfruttando al meglio i finanziamenti europei. Si è preferito abbattere un ponte storico e rimpiazzarlo con un “gioiello” di architettura futuristica che avrebbe dovuto diventare il “logo” della città, simboleggiare il raccordo tra passato e futuro, e che invece le sta come un pugno in un occhio (anche perché il passato lo si cancella e il futuro non si vede).

All’epoca comunque la scelta “strategica” è stata quella di puntare sui servizi. Per evidenti motivi: era il settore nel quale aveva più facile corso il gioco delle clientele e delle raccomandazioni politiche, la creazione di piccoli feudi personali o partitici, la gestione di denaro pubblico, ecc … Con un unico inconveniente: al primo accenno di crisi i finanziamenti per i servizi sono scomparsi, l’amministrazione provinciale non è più stata in grado di gestire né le strade né le scuole né alcun altro ambito di sua competenza, e il comune di Alessandria è stato il primo in Italia a dichiarare bancarotta.

Oggi chiaramente il treno è perso, e il danno non è solo economico: credo che mai da due secoli a questa parte l’offerta culturale della provincia sia scesa così in basso. Manca una qualsiasi locomotiva davvero trainante, e non può certo essere considerato tale lo spezzone di università decentrato in zona solo per dare un contentino e strappare qualche numero a Pavia e Genova. Questo spezzone peraltro non ha saputo nemmeno caratterizzarsi, come invece almeno in parte è accaduto per altre sedi periferiche (penso al livello raggiunto da Novara per quanto riguarda la ricerca scientifica, nel dipartimento di Biologia, ad esempio).

E tuttavia un qualche investimento in questa direzione potrebbe essere ancora fatto, senza guardare al ritorno economico immediato, ma puntando ad una preventiva riqualificazione culturale. Alessandria è una città che in questo momento non ha un teatro, non ha un museo di una qualche rilevanza, non ha una pinacoteca, non ospita alcuna istituzione culturale di prestigio. Quando ha tentato la strada dei Grandi Eventi lo ha fatto in maniera goffa, per non dire scriteriata, ospitando rassegne che non avevano alcuna attrattiva e soprattutto nessunissimo valore di ricerca o di conoscenza. Esemplare quella su Le Corbusier pittore (!), che ha lasciato un buco aperto ancora oggi nel bilancio cittadino senza favorire alcuna ricaduta, sia pure di semplice orgoglio o soddisfazione, nella cittadinanza. Al contrario, ha indotto giustamente a diffidare di ogni ulteriore iniziativa del genere. E questo quando a quaranta chilometri di distanza, ad Alba, la fondazione Ferrero riesce ad offrire ogni due anni, a costi enormemente inferiori, una rassegna a tema che richiama visitatori da mezza Italia, con l’accesso completamente gratuito ma con un enorme ritorno tanto economico che di prestigio sul territorio.

Un discorso analogo si può fare per l’agricoltura. La provincia ha visto moltiplicarsi, soprattutto nella zona collinare preappenninica, i terreni incolti. Le strutture di trasformazione, dalle cantine sociali alle varie aziende di settore, sono sparite: le prime in genere per gestioni delinquenziali, nepotistiche o partitiche, o semplicemente idiote, le seconde perché assorbite da grandi gruppi che le hanno poi liquidate in fretta, dopo essersi appropriati di marchi e brevetti. Non c’è stata alcuna capacità di promuovere eccellenze come quella del vino (col risultato che le nostre uve, proprio per la loro qualità, sono trasformate in altri distretti e sotto altre denominazioni) e di farne fiorire altre; persiste uno scollamento totale tra produzione e distribuzione, a vantaggio di una rete infinita di intermediari che sfruttano i buchi della filiera.

Potrei continuare fino a stasera, ma a questo punto non credo sia necessario aggiungere altra pena. Ciò di cui parlo è visibilissimo ad occhio nudo, lo si sperimenta nel numero di negozi chiusi nelle vie principali della città e nell’abbandono in cui versano le campagne circostanti. Passo allora direttamente a formulare la mia ipotesi, non per suggerire delle soluzioni, cosa per la quale chiaramente non sono attrezzato, ma per richiamare almeno ad una attitudine assieme realistica, sensata e coraggiosa. Lo faccio tenendo fermo che qualcosa nell’immediato occorre comunque fare, e quindi ben vengano le incentivazioni all’imprenditoria giovane (chissà perché però solo a quella giovane), le agevolazioni (ma anche qui, perché occorre parlare di agevolazioni, quando basterebbe rimuovere gli ostacoli e gli inghippi burocratici), i corsi di riqualificazione, insomma, a tutte quelle cose lì: non fosse che quelle cose lì le abbiamo già viste, sono le stesse adottate come farmaco ad ogni sintomo dell’aggravarsi della malattia, e le abbiamo sempre viste risolversi in un giro di scambi elettorali o di truffe legalizzate. Al di là di questo, anche nel caso di una gestione pulita e corretta, si tratta di una respirazione artificiale per la quale mancano ormai le riserve di ossigeno.

È evidente, almeno per chi davvero ritiene valga ancora la pena di guardare al futuro, che la direzione da prendere è un’altra. Intanto si dovrebbe finalmente parlare chiaro, rispetto a questo benedetto sviluppo: lo si voglia o meno, l’età delle vacche grasse è finita, e non tornerà tra sette anni. Non tornerà più. Non è necessario essere degli economisti o dei catastrofisti per capirlo. La torta delle risorse sfruttabili o producibili rimane quella, a dispetto delle mirabilie future che scienza e tecnica ci promettono. E gli aspiranti al pasto sono passati in meno di mezzo secolo da un miliardo ad almeno cinque, per il momento. I conti sulle porzioni sono presto fatti, comunque si vada a dividere. Ogni altra narrazione o è una fanfaluca criminale, sostenuta per egoismo economico o per meschini calcoli politici a brevissimo termine, o è pura idiozia. Occorre quindi rinunciare all’idea, condivisa dalla destra liberista e purtroppo, con ancora maggiore convinzione, da quel poco che rimane della sinistra, che la “crescita” economica sia imprescindibile, e prima ancora liberarci dalla convinzione che l’aumento del benessere sia da intendere in termini necessariamente materiali. Bisogna arrendersi all’ipotesi della “decrescita”, se così vogliamo chiamarla, infischiandocene delle mille sfumature che si sono adottate nell’interpretazione del termine e delle polemiche e dei distinguo che hanno sollevato, e cercando per quanto possibile di tradurla in scoperta del valore della sobrietà. Non in una “riscoperta”, in un ritorno ad uno pseudo-eden preindustriale, perché la sobrietà del passato non aveva parametri di abbondanza alle spalle cui guardare con rimpianto, ma poteva al contrario sperarli e fantasticarli per il futuro. Insomma, voglio dire semplicemente che la decrescita non va assunta come un “ideale” economico da perseguire (la fantomatica “decrescita felice”), ma va riconosciuta come la dura realtà con la quale già ci stiamo confrontando, e che volenti o nolenti dovremo digerire.

In una prospettiva di questo tipo si potrebbe ad esempio cominciare a verificare se la cultura si risolva davvero tutta in anti-economia, come sembrano pensare molti nostri governanti, o debba essere trattata come una merce qualsiasi all’interno di questo sistema economico, o se invece possa essere a sua volta il motore per una economia “altra”, che partendo da quasi zero, o dal segno meno, vada a ridimensionare il ruolo della finanza (che quando non c’è la possibilità di giocare su ricchezze virtuali si tiene ben lontana)

Rischio però di perdermi in considerazioni che stanno diventando anch’esse delle monotone litanie. Vorrei invece rimanere molto più modestamente sul terreno dell’altro ieri, nello spazio angusto di un’area che assiste inerte e indolente al proprio sfascio. Mi limito dunque a un campo che bene o male conosco e a esemplificare alternative molto terra terra, ma concrete.

Il primo settore sul quale intervenire con un cambio radicale di mentalità e di approccio è proprio quello della cultura. Prendo spunto dal caso negativo cui accennavo sopra, quello delle mostre-evento.

Ultimamente sono state proposte in Alessandria una serie di mostre a budget molto contenuto, che in qualche modo andavano nella direzione giusta. Cito a caso tra le più recenti, quella di Palatium Vetus dedicata al patrimonio iconografico della Cassa di Risparmio e quella sul pittore casalese Ugo Martinotti: ma solo per esemplificare come le occasioni ci siano, e come vengano regolarmente sprecate.

Allo stesso modo in cui odio i grandi “eventi” spettacolari (le mostre per comitive scolastiche o dopolavoristiche sponsorizzate da Sgarbi e i festival della chiacchera che imperversano anche nelle più remote vallate alpine), credo invece nel “piccolo è bello”.

Credo cioè in quelle iniziative che pesano poco o nulla sulle finanze pubbliche e possono invece spronare ad una partecipazione attiva, ad una “responsabilizzazione” di ritorno, chi ne fruisce. Nel caso della prima mostra che ho citato questo avrebbe potuto avvenire facendo scoprire agli alessandrini che la loro città non è poi così grigia e povera e scarsamente sensibile all’arte come vorrebbe sembrare, o quanto meno non lo è sempre stata: ma certamente per ottenere questo risultato sarebbe stato necessario prevedere degli orari di apertura decenti (è rimasta aperta due giorni, anzi, due pomeriggi) e un minimo di pubblicizzazione in forme diverse da quelle tradizionali, che arrivano solo a chi ha antenne speciali. Nulla di tutto questo è stato fatto. Si è accampata la mancata disponibilità di personale per garantire l’apertura e l’impossibilità di effettuare reclutamenti a tempo determinato (salvo poi, per la manifestazione nel cui ambito rientrava l’apertura-lampo, distribuire compensi a gruppi di guitti improvvisati che avrebbero dovuto mettere in scena “momenti” della storia alessandrina, e sono risultati soltanto patetici).

Nel caso della seconda, era l’occasione per aprire un discorso serio sulla produzione artistica locale, per avviare un “censimento” dell’arte alessandrina da articolare in un progetto di ricerca e in una programmazione espositiva di ampio respiro. Sono tornato a visitarla quattro volte, e mi sono sempre ritrovato praticamente solo. Anche in questo caso pubblicizzazione zero: sembrava si giocasse a tenerla il più nascosta possibile.

Questo atteggiamento l’ho riscontrato un po’ in tutte le manifestazioni artistiche e culturali alessandrine: le cose vengono gestite sempre da ristrette conventicole e sono destinate ad un uso quasi interno, offerte ad altre conventicole appena appena più larghe. Nessuno spazio alle novità, nessuno sforzo per identificare e utilizzare potenziali “risorse” culturali alternative presenti in loco: tutto deve passare attraverso i rituali iniziatici delle “giuste” frequentazioni, attraverso le manleve dell’establishment culturale. Avendo rapporti con le realtà culturali di altre provincie della nostra regione e di quelle adiacenti posso garantire che in nessuna ci si scontra con un analogo immobilismo, e che questo non è necessariamente imputabile a una diversa situazione economica. Anzi, mi sento di affermare che il degrado economica alessandrino è frutto della povertà culturale almeno quanto della crisi globale.

Ora, io non ho ricette miracolose e idee avveniristiche da proporre. Ma ho girato abbastanza mondo da rendermi conto che se intelligentemente valorizzato qualsiasi “oggetto” culturale ha immediatamente un ritorno economico.

Nella Foresta Nera, diversi anni fa, ho visitato un teatro barocco che era poco più grande della mia camera e altrettanto spartano nell’arredo. Era situato a margine del percorso di trekking, e a partire da una decina di chilometri prima una serie di indicazioni sempre più ravvicinate, in caratteri gotici, rendevano imperdibile il Barocktheater. L’ingresso costava un marco, cinquanta centesimi attuali: tutti i camminatori si fermavano, era la scusa buona per una sosta, dedicavano trenta secondi alla visita, si rifocillavano al fresco su una panchina vicina all’ingresso e riempivano le borracce alla fontanella. Poi si rimettevano in cammino senza rimpianti, perché in fondo al costo di un marco non potevano attendersi molto di più. Ho calcolato che in dieci minuti erano entrate almeno quindici persone, che fa novanta in un’ora. Se anche fosse rimasto aperto solo sei ore al giorno per otto mesi l’anno (ma il percorso è frequentatissimo anche d’inverno) lo stipendio per un addetto e il necessario per le manutenzioni erano garantiti. Edifici dal valore architettonico e storico almeno pari a quello (ma di norma superiore) in provincia ce ne sono decine: provate però a visitarne uno. Perlopiù sono in abbandono o prossimi a crollare, comunque rigorosamente chiusi, anche quando agibili. Provate ad esempio a visitare la Pinacoteca dei Cappuccini di Voltaggio, che ospita una raccolta di dipinti d’arte sacra della scuola secentesca genovese da fare invidia ai musei più importanti d’Europa. Dopo decenni di tiramolla è finalmente aperta al pubblico, gestita da volontari: ma per tre ore la settimana, tre mesi l’anno. Carenza di personale.

Lo stesso Palatium Vetus alessandrino è di per sé un gioiellino, e con le opere che ospita potrebbe diventare la tappa più significativa di un percorso di scoperta delle cose belle che Alessandria cela. Apre si e no una volta l’’anno. Non si è in grado di arruolare un paio di persone per gestirlo. In compenso si sono creati carrozzoni enormi, come il Museo dei Campionissimi di Novi, costo del biglietto d’ingresso pari a quello del Louvre per vedere una delle biciclette di Coppi, visitatori naturalmente quasi zero: o il palazzo delle esposizioni di Valenza, e l’Auditorium di Acqui, investimenti faraonici in opere che non solo risultano assolutamente inutilizzate, ma divorano annualmente centinaia di migliaia di euro per la manutenzione.

Si può fare qualcosa di meglio, atteso che fare peggio è senz’altro difficile? Si potrebbe, certamente. E senza grandi investimenti, usando e valorizzando con un po’ di buon senso e un po’ di fantasia l’esistente: ma per fare questo occorre cambiare alcune cose basilari. Ho provato recentemente, in qualità di dirigente di un istituto professionale per il turismo, a proporre un pacchetto turistico di una settimana da trascorrersi nel novese. Avevo individuato un’utenza nordeuropea, in ragione del fatto che a Novi ligure fa capolinea, non si sa bene perché, un treno proveniente direttamente da Amburgo. Ho provato ad immaginare un turista tedesco che oggi approdi a Novi. Cosa può fare, se non scendere, guardarsi attorno e affrettarsi a risalire per tornare a casa? In verità, volendo, gli si potrebbe offrire qualcosa di meglio: addirittura un percorso di una settimana dalla preistoria al futuro, partendo dal Parco naturale regionale e passando per le rovine romane di Libarna, per il giro dei castelli e delle pievi medioevali, per i palazzi barocchi del seicento e la quadreria di Voltaggio, per i luoghi storici delle campagne napoleoniche, per le architetture di Gardella. Il tutto condito da visite alle industrie dolciarie e ai produttori vinicoli del Gavi e del Dolcetto, per finire poi in gloria con lo shopping all’Outlet. Messo così, un soggiorno di una settimana a Novi, che nemmeno come misura di confino è mai stato contemplato, diventa un’avventura entusiasmante, e il treno potrebbe sbarcare fiumi di visitatori che del teatro barocco casalingo non sanno più che farsene.

Bene, ho proposto la cosa all’ente che dovrebbe occuparsi della promozione turistica della provincia. Prima di trovare un interlocutore che capisse di cosa stavo parlando, pur essendo costituzionalmente un ipoteso avevo già subito un paio di travasi di bile. Quando l’ho trovato mi sono sentito rispondere che se la cosa fosse stata così semplice ci avrebbero già pensato loro, e quando ho chiesto dove stavano le complicazioni mi è stato opposto che occorreva coordinare un sacco di realtà e agenzie diverse. Al che ho timidamente (insomma) ribattuto che la dozzina di persone vagolanti in quell’ufficio forse erano state assunte proprio per fare quello: ma ormai avevo la situazione ben chiara e poco altro tempo da perdere.

La condizione senz’altro necessaria, e credo anche sufficiente, per smuovere qualcosa, sarebbe smetterla di creare uffici parcheggio per figli o cugini di amministratori pubblici o di funzionari, e dare spazio a gente con un quoziente intellettuale superiore al confine di specie. Il che implica naturalmente anche un analogo repulisti al livello gerarchicamente superiore, quello appunto degli amministratori e dei dirigenti. Un primo risultato sarebbe quanto meno quello di evitare convegni assolutamente inutili che costano certamente molto più del tenere aperto un luogo culturalmente significativo.

So bene che la cosa appare utopica, ma che non rimanga tale dipende da noi, dalla nostra reale voglia di assumerci delle responsabilità: ciò che è avvenuto negli ultimi trent’anni nelle Langhe e in decine di altre aree, la gran parte delle quali senz’altro meno ricche di potenzialità che non l’alessandrino, sta a dimostrarlo. E comunque, questo voleva solo essere un elementare esempio dell’esistenza di alternative possibili.

Al convegno questo non l’ho detto. Non erano previsti spazi critici. E temo che se anche lo avessi fatto non avrebbe smosso un capello a nessuno. Perché la cosa peggiore di tutta questa faccenda è che della necessità e della possibilità di alternative era probabilmente consapevole una gran parte dei convenuti, ma “quel” tipo di alternativa, la formula “pochi soldi, un po’ di cervello e tanto impegno” non interessa a nessuno.

Noi siamo per il “manifatturiero di qualità”.

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Aggiornamento al 2020. Ho davanti i dati per settore più recenti sull’andamento dell’economia alessandrina nel 2019, comparati a quelli del 2018. Commercio -3,63%, turismo-2,89, industria -2,30, agricoltura -2,31, altri servizi -1,67, costruzioni -1,61. E ancora non si parlava di pandemie.

Negli ultimi trent’anni Alessandria è scesa dalla 59° all’83° posizione (su 107) nella graduatoria della qualità della vita delle province italiane. È il peggior piazzamento da quando queste graduatorie hanno iniziato ad essere stilate. Era 40° nel 1993. Nel 2017 e nel 2019 si è classificata ultima assoluta nella voce Ambiente e servizi (107), sul fondo per Demografia e Società (104), a metà classifica per Cultura e tempo libero (54) e per Giustizia e sicurezza (52), sotto la metà per Affari e lavoro (70). È incredibilmente diciassettesima per Ricchezza e consumi, ma visti gli altri indicatori direi che ci stiamo mangiando il capitale cumulato dalle generazioni precedenti (era 12° nel 2005).

Sopravvivono, in un limbo istituzionale, la Provincia come Ente (o almeno, i suoi uffici e funzionari e dirigenti) e la Giornata annuale dell’Economia. Invariati il buffet e i relatori, sia pure con etichette diverse. Assenti, più che giustificati, il “manifatturiero di qualità” e il sottoscritto.