Lode alle relazioni futili

di Fabrizio Rinaldi, 23 agosto 2020

Sul piazzale di casa un’enorme personaggio di Botero è sdraiato a prendere il sole e a guadarmi ogni volta che apro la porta d’ingresso.

In realtà è una catasta di legna, che avendo la forma di un annoiato grassone mi rammenta l’urgenza della sua messa a dimora in legnaia; dovrò farlo certamente prima delle piogge autunnali, ma sino ad ora l’estate afosa ha fiaccato ogni volontà.

L’inerzia dura già dalla primavera scorsa, quando la pandemia imponeva lo stare rinchiusi in casa. Inizialmente ero inebetito dalla situazione, dai dati del contagio e delle allarmanti immagini del coprifuoco, cui si aggiungeva un entusiasmo un po’ cinico per l’inaspettato e obbligatorio riposo. Lo stesso stato d’animo, in misura e in forme diverse, credo si sia diffuso un po’ in tutti.

Le attività lavorative consuete sono riprese dopo le prime settimane, anche se in modalità differenti (come nel mio caso), o si sono definitivamente chiuse per l’impossibilità di reggere situazioni economiche già precarie e rese definitivamente disastrose dalla pandemia. Per certi versi era quindi un esito già pronosticabile: la società odierna si fonda sull’equilibrio tra domanda e offerta, se uno dei due eccede, prima o poi il meccanismo s’inceppa.

Faccio un esempio: Ovada è una cittadina che si regge in piedi sulle pochissime piccole industrie non ancora affossate dalle ripetute crisi e dalla globalizzazione, su una campagna relativamente arretrata e su ben poco altro. Eppure, a fronte di circa 11 mila abitanti, nel 2019 contava ancora una sessantina di bar: un numero esagerato in proporzione agli abitanti. Ovada non è la Venezia del Piemonte.

Dopo tre mesi di chiusura forzata, molti non hanno rialzato la saracinesca, perché sconfitti dagli immutati costi d’esercizio o per l’insostenibilità economica delle nuove norme sanitarie. La stessa cosa è avvenuta per alcuni negozi di abbigliamento, in particolare per quelli più ambiziosi, che offrivano prodotti e praticavano prezzi alla portata delle sole star cinematografiche o dei super-manager. (Credo che l’ultima “celebrità” approdata ad Ovada sia stato Umberto Smaila, al tempo in cui facevano furore le tette delle conigliette di “Colpo grosso”, negli anni Ottanta). Questo mentre nessun imprenditore degno di nota si sognava di vedere questo territorio come una risorsa.

Ma anche molti artigiani hanno subito la stessa sorte. D’altro canto, non serviva essere fini economisti per capire che al primo scossone il castello costruito sull’illusione di un perpetuo benessere sarebbe crollato. Purtroppo la realtà ovadese non è riuscita nei decenni d’oro – e non riuscirà certamente ora, con i chiari di luna che ci attendono – a trovare una nuova identità, o a ritrovare quella antica. I nostri sembrano luoghi destinati al transito, placide colline dove trascorrere al massimo una notte (ma non di più) prima di approdare alla Liguria o alle Langhe.

Sta di fatto che cessato l’iniziale sbigottimento per il rapido diffondersi del virus, e venuta meno anche l’euforia per l’inattesa possibilità di oziare o realizzare ciò che da tempo si rimandava, sembra ora insorgere una generale inerte apatia, indotta dalla consapevolezza che questa situazione andrà avanti per un bel po’. La maggioranza si sta piano piano abituando a seguire gli accorgimenti per rallentare la diffusione del Covid, mascherina e distanziamento in primis, sia pure con diversa convinzione, ma non ha comunque testa per progetti che vadano oltre il giorno dopo. Molti hanno già optato per una fatalistica convivenza col virus, sperando che non li becchi o che lo faccia almeno in forma leggera. Qualcuno poi nega l’esistenza del problema o se ne frega, ma di questi non vale nemmeno la pena parlare, sono lo scotto (pesante) da pagare all’imperfezione e alla specificità umana: solo gli uomini possono essere stupidi.

Per quanto mi riguarda personalmente, constato che l’esigenza del distanziamento ha accentuato in me – ma credo di essere in buona compagnia – una preesistente difficoltà nello stare con gli altri. In effetti, non è che fino a mesi fa fossi un trascinatore di folle, che emergessi per acume o simpatia e che mi trovassi a mio agio nei momenti conviviali: ma sicuramente tolleravo meglio lo stare in mezzo agli altri (a piccole dosi, e in situazioni mediate sapientemente da mia moglie, che catalizzava su di sé le attenzioni). Ora avverto invece quanto sforzo mi costi il riannodare le relazioni con parenti, amici e colleghi: come se l’interesse fosse scemato, lasciando il posto ad una fatica – quasi fisica – a dialogare e manifestare un coinvolgimento.

Prima della clausura una constatazione del genere l’avrei risolta convincendomi che se quelle relazioni si erano concluse un motivo c’era, e che si trattava in fondo di una liberazione. Oggi, alla luce di questo forzato isolamento, devo invece ricredermi sulla loro importanza: in fondo sono esse a creare quell’humus sociale cui attingere nei momenti di solitudine, frustrazione e tedio, quelli appunto che l’attuale stato ci impone. Anche se si tratta perlopiù di legami utilitaristici, di circostanza o di sangue, tutti assieme intessono una sia pur fragile rete di sicurezza, all’interno della quale emergono poi – per dimensioni e resistenza – le poche ma solide funi principali dei rapporti profondi, quelli che davvero rendono la vita sensata.

Le relazioni “futili” riguardano, ad esempio, il fruttivendolo che ti mette una pesca in più nella borsa; il sino a ieri ignorato vicino, che ora mi parla del suo nuovo pavimento in cucina; il sorriso del pizzaiolo che non vedevo da mesi, in quanto anche la pizza mensile familiare era preclusa; la collega che dimostra interesse per le vacanze delle mie figlie, magari mentre sta pensando a come chiedermi le ferie o quale futuro lavorativo avremo (come se fossi un indovino). Bene, tutte queste effimere interazioni plasmano continuamente la personalità, in quanto generano esperienze.

Negli ultimi mesi anche queste relazioni apparentemente inutili si erano rarefatte, così come quelle importanti, in ragione del distanziamento. Purtroppo non hanno trovato in quel periodo adeguate sostitute che garantissero pari appagamento: non c’è social, media o videochiamata che possano rimpiazzare lo sguardo diretto, la postura dei corpi o il contatto fisico, in fin dei conti “la carne” dei nostri simili. Sia chiaro, non sono un caso Weinstein, ma ho aperto necessariamente gli occhi (come molti) su quanto esprimiamo di noi stessi con una stretta di mano, con lo sfiorare una spalla; persino nell’abbracciare e baciare diciamo molto di più di quanto potrebbero fare le parole.

Ci ho riflettuto. Fin da neonati capiamo come gira il mondo attraverso i sensi, in particolare con il tatto, e con quelli cerchiamo di stare al passo. Si sa che la sua privazione ha gravi conseguenza sulla salute, specie per gli infanti. Diventati adulti, escogitiamo altri linguaggi per comunicare le nostre intenzioni, riservando quello fisico solo alle persone più intime. Ebbene: questi mesi di privazione ci hanno dimostrato che siamo sì cresciuti, ma rimaniamo dei lattanti deprivati di un bisogno primario: il contatto fisico con i nostri simili.

Oggi abbiamo imparato che il virus infetta proprio attraverso queste interazioni, fisiche o sociali che siano. E lo si vede dall’incremento dei contagi di questi giorni, causato dalla spensieratezza (leggi “idiozia”) vacanziera. Quindi, senza relazioni il virus morirebbe, ma lo seguiremmo a ruota pure noi, poiché da esse dipendiamo e proprio esse ci caratterizzano. Dobbiamo inventarci una misura di mezzo.

Inoltre, la comparsa della pandemia ha sconvolto non solo i modi dello stare assieme, ma anche la percezione dello scorrere del tempo. Ne impieghiamo molto di più per realizzare ciò che fino a pochi mesi fa sbrigavamo velocemente, fagocitati in una corsa continua: dalla fila per fare la spesa alle interminabili call lavorative, dal cercare di metter giù due idee (come sto facendo ora) al sistemare la legna per l’inverno.

Le restrizioni esterne e lo smarrimento interno ingenerano, come dicevo all’inizio, l’apatia: una non-volontà che ci attanaglia perché le certezze sedimentate nelle nostre vite (e nelle generazioni precedenti) sono state spazzate via. Alla faccia di chi plaude incondizionatamente al rallentamento, però, questa non è una forma di serena tranquillità: nell’apparente stasi fisica e mentale, il nostro cervello cerca in realtà incessantemente una via d’uscita dal pantano, vorrebbe individuare differenti ed originali sicurezze. È vero che non sapendo quando e come ne usciremo viviamo in uno stato di perenne apprensione, e nella speranza di una veloce soluzione (il vaccino?) cui affidarci. Ma sappiamo ormai che una iniezione assolutoria non risolverà i problemi che ci portavamo dietro anche prima, e che hanno condotto a questa attualità.

Forse il grassone spiaggiato sul piazzale non è lì a spronarmi per la sistemazione della legna, ma semplicemente si gode il sole (e i ceppi si seccano), nella consapevolezza quasi mistica dello scorrere placido del tempo: ci attende un inverno lunghissimo, prima del ritorno della primavera. Le rondini non le porterà certamente il vaccino: ma almeno ora abbiamo la consapevolezza (coloro che ce l’hanno, naturalmente) che quello di prima non era il modo ideale di vivere. Forse è ora di assumerci la responsabilità di qualche significativo cambiamento.

Cambiare è sano, inevitabile e funzionale alla vita stessa. Possiamo negare l’evidenza della mutazione, ma avverrà comunque.

Quindi, caro grassone, goditi il sole perché, al primo temporale, ti sistemo io …

Collezione di licheni bottone

Riflessioni dalla quarantena

di Marco Moraschi, 19 aprile 2020

Di riflessioni sulla quarantena ne avrete probabilmente lette già di ogni sorta, d’altronde non è che ci sia poi molto da fare in casa per far passare il tempo: un po’ si fanno le pulizie, un po’ si guarda la televisione e un po’ ovviamente si legge, con alcune varianti in mezzo per chi, per esempio, abita in campagna e può dedicarsi, oltre alle pulizie della casa, anche a quelle del giardino. E di riflessioni ne ho lette molte anche io, sensate e meno sensate, le più belle le riporto al fondo di questo articolo nei link, ma prima vorrei contribuire anche io in qualche modo a evidenziare alcune cose. Ecco quindi le mie riflessioni in ordine sparso:

UNO. Per molti la medicina rischia di essere peggiore della malattia. L’isolamento forzato che stiamo vivendo da più di un mese inizia già a produrre i primi evidenti effetti sullo stato d’animo delle persone: ansia, depressione, paura, aumento delle violenze domestiche. Dove non ha colpito la malattia, rischia di colpire la “cura”. Coloro che non sono stati infettati dal coronavirus rischiano di essere afflitti da una malattia dell’anima forse con conseguenze ben peggiori: il distanziamento sociale colpisce indiscriminatamente giovani e anziani, sani e malati, ricchi e poveri. Speriamo che nella stanza dei bottoni prendano in considerazione anche gli effetti sulla mente, oltre a quelli sul corpo. Effetti sul corpo che peraltro sono presenti anche nelle persone sane in quarantena: attività fisica ridotta ai minimi sindacali (dal bagno alla cucina, dalla cucina al letto più tutti gli altri possibili percorsi tra le varie stanze) che si somma a un approvvigionamento calorico sicuramente superiore al necessario, visto che ci stiamo riscoprendo mastri pizzaioli, panettieri e pasticceri. I medici avranno da lavorare anche dopo l’emergenza coronavirus.

DUE. I medici e gli infermieri sono gli “eroi” di questo periodo. Come in ogni situazione di difficoltà sentiamo l’esigenza di trovare “eroi” e “nemici” che alimentino la trama del nostro romanzo. Il nemico è stato facile individuarlo e naturalmente è il “coronavirus”, tanto che si sprecano le metafore televisive sulla “guerra” che stiamo combattendo. Tutto d’un tratto sono stati dimenticati i migranti contro cui ci siamo scagliati in tempi “di pace”, buon per loro. Resistono saldamente invece altri “nemici pubblici” che abbiamo individuato: “la troika”, “l’Europa cattiva”, i “poteri forti”. Incredibilmente sta scalando le classifiche anche Bill Gates, per alcuni “mano sinistra” dietro la pandemia. Si accettano scommesse sui prossimi cattivi, le candidature potranno essere inviate con modalità che saranno rese note sul sito dell’INPS.

TRE. Abbiamo scoperto cos’è la noia, quella che prima sperimentavamo solamente in coda alle poste o in attesa in altri uffici, e che pensavamo si potesse facilmente riempire tirando fuori lo smartphone. Ora ci rendiamo davvero conto di quanto tempo abbiamo a disposizione ogni giorno e pur avendone molto, probabilmente ne sprechiamo più di prima, tra programmi televisivi scadenti e catene di whatsapp. Ah se avessi tempo “finirei di scrivere quel libro che avevo iniziato”, “raderei al suolo quella pianta in mezzo al giardino”, “imparerei il cinese che mi interessa proprio”. Ecco, ora avete tutto il tempo che desideravate, come mai non lo state (stiamo) sfruttando?

QUATTRO. Abbiamo anche scoperto quante cose avevamo prima senza saperlo. Un caffè al bar, una pizza con gli amici, una maglietta nuova comprata passeggiando per le vie del centro. Piccole cose, molto poco importanti nel complesso di una vita, ma che riempiono e arricchiscono lo scorrere del tempo con piccoli piaceri fondamentali. Ricordiamocene in futuro, perché purtroppo ci accorgiamo di ciò che abbiamo solamente quando lo abbiamo perso. Vale anche per le persone. Un genitore lontano, un figlio, un amico, persone cui prima (e ancora adesso) eravamo legati sentimentalmente, ma che magari ogni tanto ci facevano innervosire per dei piccoli gesti e che ora non possiamo più avere vicino. Mai come in futuro apprezzeremo di nuovo il calore di un abbraccio.

CINQUE. Ci serviva davvero tutto quello che avevamo prima?

SEI. E’ incredibile come serva una situazione di emergenza per tirare fuori il meglio da noi stessi. Ci siamo accorti di quante persone generose e disponibili ad aiutare gli altri ci sono nel mondo. Nonostante le brutte notizie in televisione, ogni giorno emergono gesti e segni di speranza dagli altri esseri umani che condividono con noi questo passaggio. Il pianeta Terra non è probabilmente un posto così brutto in cui vivere. Ricordiamocene.

SETTE. Stiamo finalmente imparando a usare gli strumenti digitali. Alla buon ora, dai che se ci impegniamo riusciamo a colmare il divario digitale del e nel nostro Paese.

OTTO. Siamo impreparati: giornalisticamente, politicamente, economicamente. A tutti i livelli si procede in ordine sparso. Viviamo nella dimostrazione del principio di incompetenza di Peter.

NOVE. Non abbiamo più una classe politica. Roba che Giuseppe Conte sembra perfino un grande statista in questa marmaglia. Fine della parentesi politica.

E’ tutto, per questa volta sono stato breve. Alla prossima lettera dalla quarantena. Buona permanenza in casa e mangiate responsabilmente.

Link:
https://medium.com/@bariccoale/virus-è-arrivato-il-momento-dellaudacia-4cba63fcb77d

https://viandantidellenebbie.org/2020/04/09/camera-con-vista-sul-futuro/

https://viandantidellenebbie.org/2020/03/12/effetti-collaterali/

 

Tempo incantato

di Thomas Mann, La montagna incantata, Corbaccio 2011, p. 171

In complesso si crede che il fatto di essere interessante e la novità del contenuto “facciano passare”, cioè accorcino il tempo, mentre il vuoto e la monotonia ne rallentino e ostacolino il corso. Ciò non è affatto vero. Può darsi che la monotonia e il vuoto allunghino e rendano noiosi il momento e l’ora, ma i grandi e grandissimi periodi di tempo li accorciano e volatilizzano addirittura fino all’annullamento. Viceversa un contenuto ricco e interessante può certo abbreviare e sveltire l’ora e magari anche il giorno, ma portato a misure più vaste conferisce al corso del tempo ampiezza, peso, solidità, di modo che gli anni pieni di avvenimenti passano più adagio di quelli poveri, vuoti, leggeri che il vento sospinge e fa dileguare. A rigore, dunque, quella che chiamiamo noia è piuttosto un morboso accorciamento del tempo in seguito a monotonia: lunghi periodi di tempo, se non si interrompe l’uniformità, si restringono in modo da far paura: se un giorno è come tutti, tutti sono come uno solo: e nell’uniformità perfetta la più lunga vita sarebbe vissuta come fosse brevissima.