di Stefano Gandolfi, 10 ottobre 2022
Tag: turismo
Coincidenze
di Stefano Gandolfi, 5 ottobre 2022
Che “il mondo sia piccolo” è una delle più banali e scontate frasi fatte, tanto banale che nessuno vorrebbe mai usarla se non in caso di estrema necessità…come quando viaggi per un po’ di tempo e scopri che ovunque tu vada, e soprattutto qualunque tentativo tu faccia di scegliere una meta poco banale, poco appetibile per l’orda di “italiani erranti” in Lacoste e Timberland, non solo ti ritrovi fianco a fianco, in coda al check-in, in sala d’attesa, sull’aereo, sul traghetto, sul pulmino scassato nel posto più improbabile del mondo, un connazionale agguerritissimo pronto a spiegarti tutto, ma proprio tutto su ciò che stai per visitare, mangiare, comprare, fotografare, ma, spesso e volentieri, il connazionale è anche un concittadino, e, se le circostanze sono favorevoli (?), magari lo conosci pure.. e non è detto che ti stia particolarmente simpatico, forse anche ricambiato, e comunque sia ti ritrovi al primo scambio di convenevoli ri-immerso in una realtà che faticosamente pensavi di riuscire ad abbandonare per qualche giorno, una realtà da cui non cerchi di fuggire, beninteso, perché senno tu stesso saresti una patetica controfigura di Puerto Escondido, ma semplicemente desideri abbandonare per un po’ di tempo per far emergere energie vitali, positive, per cambiare prospettiva e punto di vista sulle cose, per il solo piacere di sintonizzarti su quanto ti circonda e con la curiosità di confrontarti con qualche cosa di diverso, e magari, perché no, anche con un discreto desiderio di mettere in discussione abitudini e consuetudini della vita quotidiana, metterti alla prova per vedere quanto sei in grado, anche solo per gioco e per poco tempo, di modificare il tuo comportamento.
C’è sicuramente un velato atteggiamento aristocratico e presuntuoso nel desiderio di non imbatterti in un tuo connazionale o concittadino in un viaggio importante, ma non tanto per l’orgoglio “ferito” di non essere l’unico “dei paesi tuoi” ad avere scelto quella meta e con quelle determinate modalità, perché oggi è ridicolo pensare che chiunque non possa, se vuole, raggiungere qualsiasi posto in qualsiasi momento: l’era degli esploratori è finita da un pezzo e, tutt’al più, solo la personale motivazione può spingere il viaggiatore verso mete relativamente meno battute..
No, non è questione di orgoglio e presunzione aristocratica, e non è nemmeno una questione legata agli italiani: probabilmente se fossi inglese, americano, giapponese, penserei la stessa identica cosa dei connazionali; la questione è un’altra.
Probabilmente il fatto di incontrare all’estero un connazionale, un compaesano, uno che parla la sua stessa lingua, per molte persone costituisce uno stimolo irrefrenabile a fare ciò che in patria non farebbe mai, ovvero attaccare bottone con uno sconosciuto, quasi come se fosse Stanley che incontra Livingstone, sicuramente con il sollievo di trovare un volto amico in una terra sconosciuta…e fin qui non ci sarebbe ancora (quasi) niente di male, perché, ripeto, qui non si parla di snobismo; il fatto è: di che cosa ti parla il tuo connazionale? Del suo approccio psicologico al viaggio? Delle emozioni che gli hanno fatto vibrare i neuroni di fronte ad un tramonto nella savana? Dello smarrimento provocato dall’immensità del vuoto pieno di vento della steppa patagonica?
No, il tuo connazionale ti esibisce trionfante davanti al muso il suo nuovo telefonino quadri-band col quale è riuscito a telefonare agli amici del bar (in Italia) e in anteprima assoluta, perlomeno per quanto riguarda l’altopiano tibetano, ti mette al corrente del nuovo centravanti acquistato dall’Inter e dell’aerodinamica del prototipo di Ferrari per la prossima stagione di Formula 1; se sei fortunato ti comunica anche il colore della nuova capigliatura di Valentino Rossi. Poi ti chiede se a Lhasa c’è un buon ristorantino dove mangiare gli spaghetti all’amatriciana, perché è da ben quattro giorni che mangia da far schifo, nient’altro che cucina tibetana (e già perché in Tibet capita di mangiare cucina tibetana!), alla fine, un po’ deluso perché non te ne frega niente né del campionato di calcio né del Motomondiale, si allontana sbiascicando qualcosa del genere: “che strani individui che si incontrano in giro per il mondo, non vedo l’ora di tornare dagli amici del Bar Sport!”
Il tuo connazionale all’estero (e, ripeto, non vorrei essere troppo severo verso gli italiani, probabilmente direi le stese cose di chiunque) è pervaso costantemente da una spasmodica necessità di riprodurre in ogni dettaglio, nei limiti del possibile ma spesso ben oltre questi limiti, tutti gli aspetti della sua quotidianità: il caffè ristretto alla mattina, la pausa-pranzo a mezzogiorno con abbiocchino e relativa pennica, la doccia prima di cena col rituale cambio d’abito che fa tanto chic a prescindere da dove ti trovi, la ricerca della Gazzetta dello Sport, anche se vecchia di giorni, non appena entra in un centro abitato.
Sembra quasi che il viaggio esalti, paradossalmente, ancora di più la ricerca del quotidiano, del familiare, del rassicurante e che ogni minimo cambiamento, ogni dettaglio diverso, ogni alimento e sapore differente dai nostri costituisca un fastidio, un peso che non si va ricercando, quasi un impiccio, un fardello da pagare e non un arricchimento, una scoperta…
Per taluni addirittura costituisce un ostacolo insormontabile che preclude totalmente il viaggio stesso: “io non posso partire perché sto male se non mangio la pastasciutta tutti i giorni a pranzo, se non bevo il caffè all’italiana, se non dormo nel mio letto, se non posso leggere la Gazzetta dello Sport, se non posso vedere il campionato di calcio (o, a scelta, il Motomondiale o il Festival di Sanremo o le ultime puntate di qualche serie televisiva).
Quello che decide di non partire tutto sommato dimostra ancora buon senso e fa un’efficace autoanalisi dei propri limiti e del proprio carattere, ma quello che parte??
Primi anni novanta, vacanze di Natale, Wurzburg, Germania appena riunificata, al termine della Romantichestrasse, la bellissima strada “romantica” di Baviera e Franconia che attraversa alcuni dei meglio conservati paesi medievali tedeschi nel paesaggio fatato invernale, percorsa in auto con gli abituali compagni di viaggio dell’epoca, i due amici Antonio e Katia.
Grande freddo, poca neve, l’inverno nordico che cala come una mannaia alle tre di pomeriggio e ti fa assimilare subito la consuetudine locale di fiondarti in un pub, all’uscita dal lavoro e prima del rientro a casa: appena dentro ti immergi in una sorta di sauna, caldissima, quasi soffocante, trovi a stento un tavolino, ti spogli di tutti gli abiti indispensabili per girare a piedi per ore a otto-dieci gradi sotto zero, quindi via il piumino, il pile o il maglione di lana, ti rimbocchi le maniche della camicia, sudi, ti senti tutti gli sguardi addosso, poi cominci a rilassarti, ti guardi attorno e vedi che ognuno fa gli affari suoi, tutti bevono enormi boccali di birra, tamponano i succhi gastrici con spuntini locali a base di wurstel, salsicce, omelettes di varia fattura, ogni tanto sostituiscono la birra con un bicchiere di vino, poi riempiono di nuovo il boccale … passano mezz’ora, un’ora così, uomini e donne, poi escono nel buio da notte fonda della giornata cortissima e si dirigono a casa, attrezzati a sostenere l’urto del clima gelido di gennaio.
A quel punto o ordini un succo di frutta e due noccioline … oppure ti adegui alle usanze locali, vagamente preoccupato per il carico calorico di questa merenda alla quale seguirà dopo alcune ore la cena, che oltretutto sarà il pasto principale della giornata.
Dopo una sosta in albergo, di nuovo per strada, a cercare un ristorante; nessuno in giro, i locali sono tutti a casa o al pub, turisti ben pochi, praticamente solo noi, o forse no.
Nel buio della notte invernale di Wurzburg incontriamo dei ragazzi di Modena:
– Sapete dove possiamo trovare un ristorante italiano?
– Veramente no, noi stiamo cercando un ristorante locale…
– Siete pazzi? All’estero si mangia così male!
– Forse, ma è anche vero che in un ristorante locale sanno cucinare bene i loro cibi, mentre se vi ostinate a chiedere lasagne o pizza, è molto probabile che non li sappiano preparare bene.
– Siete pazzi! Buona serata!
– Bè … buona serata a voi!
Finalmente troviamo un ristorante che ci suscita simpatia, entriamo, cominciamo a scrutare il menù, escludiamo le cose italiane, Augusta, Antonio e Katia si impegnano nella lettura per ordinare qualche buon piatto di carne e patate, io sono più fatalista e dopo pochi secondi decido di mangiare una misteriosa “chef salade”: la mia ordinazione sembra scatenare un grande entusiasmo nei camerieri, esce anche il cuoco dalla cucina per vedere in faccia colui che mangerà la sua specialità, sembra quasi commosso, forse non gliela ordina mai nessuno: fatto sta che mi arriva un monumentale piatto con tutto ciò che, alla rinfusa, rientra nella categoria “frutta e verdura di stagione” con aggiunta di fette di formaggio e di diversi tipi di affettati locali; superata la leggera inquietudine di accostare al palato simultaneamente prosciutto, fette d’arancio, emmental, kiwi, pomodori e quant’altro, il piatto è buono (qualcuno potrebbe contestarmi il fatto che comunque per me qualunque piatto sarebbe buono), gli ingredienti sono freschi e gustosi, la birra è fredda al punto giusto, tutto è OK, anche gli altri tre piatti sembrano soddisfacenti.
Appena ci apprestiamo a mangiare, entrano nel locale i ragazzi di Modena, non hanno trovato un ristorante italiano (o forse non ne hanno trovato uno di loro gradimento?), sono un po’ abbacchiati:
– Cosa mangiate?
– Io una chef salade, gli altri qualcosa di tipico …
– Siete pazzi!
– Non ci sembrano male …
– Siete pazzi, speriamo che facciano qualcosa di buono.
Si siedono rassegnati, quando noi siamo alla fine della cena li vediamo già alzarsi per uscire, ci passano accanto e ci salutano:
– Avevamo ragione noi, all’estero non sanno cucinare, le lasagne facevano veramente schifo!!
Per loro fortuna, dopo pochi giorni sarebbero tornati in Italia.
Per nostra fortuna, non li abbiamo più incontrati.
Il decretinatore
di Nico Parodi e Paolo Repetto, 13 novembre 2020
Non ce lo siamo inventato noi (magari così fosse! Faremmo più soldi di Zuckerberg). No, esiste davvero, e non è un elaboratore di piccoli quotidiani decreti ministeriali sulle misure di contenimento della pandemia (anche se, un qualche sospetto che qualcosa del genere esista … ), ma un oggetto molto meno sofisticato, la cui storia è ormai più che millenaria e la cui efficacia parrebbe testimoniata da una miriade di ex-voto: uno strumento che ridona la salute mentale.
Nella chiesa di Saint-Menoux, un villaggio del Bourbonnais, a metà strada tra Lione e Bourges (Francia profonda, tipo “cher pays de mon enfance”), un sarcofago in pietra conserva i resti di un eremita del VII secolo, di nome Menulfo (Menoux in francese) e di probabili origini irlandesi. Di ritorno da un pellegrinaggio a Roma, Menulfo decise di trascorrere in quei luoghi tranquilli e ameni gli ultimi anni della sua esistenza di anacoreta, e di beneficare gli abitanti con i suoi miracoli. È naturale quindi che questi ultimi, riconoscenti, gli abbiano dedicata una postuma devozione. Uno in particolare, lo scemo del villaggio, non rassegnandosi alla sua scomparsa e desiderando condividere ancora la presenza del sant’uomo, arrivò a praticare nella lastra laterale del sarcofago (pare con la complicità del curato locale, e ci azzardiamo a non dubitarne, per motivi che ci paiono ovvii) un foro, largo abbastanza da poterci infilare la testa. Col tempo, a furia di sniffare santità, sembra che il poveretto abbia riacquistato tutte le sue facoltà mentali (il che sarebbe confermato non fosse altro dalla pubblicità che fece alla cosa e dai riscontri, anche in termini economici, oltre che devozionali, conseguiti). Risultato : il villaggio, che prima si chiamava Mailly-sur-Rose, cambia nome, il luogo diventa meta di pellegrinaggi, al punto che vi sorge anche una abbazia di benedettini per onorare il culto e per accogliere le frotte di visitatori, e pare anche che goda di una speciale protezione divina, perché l’attuale chiesa, vecchia di novecento e passa anni, ha attraversato indenne (al contrario del convento benedettino) tutte le guerre di religione e le vicende belliche o rivoluzionarie che hanno insanguinato la Francia nel frattempo. Il sarcofago è ancora là, dietro l’altare (in realtà non è l’originale, ma una copia più tarda, comunque egualmente efficace) e la fama di san Menulfo come rigeneratore di cervelli si è consolidata. I francesi l’hanno battezzato la (o le) débredinoire, da bredin, che nell’idioma bourbonnais locale significa povero scemo (Abbiamo scelto di tradurlo con decretinatore con un po’ di malizia. Una delle ipotesi sull’origine del termine cretino lo fa discendere da chrétien).
Secondo la leggenda, e ancora oggi secondo la vulgata turistica, è sufficiente inserire la testa nel foro per ottenere immediati benefici. Nelle manchette pubblicitarie più recenti si sottolineano gli effetti ad ampio raggio della terapia (la cura ad esempio di emicranie e leggere depressioni), il che ipotizza una utenza molto più vasta. Probabilmente si è preso in considerazione il fatto che i cretini, se non sottoposti a trattamento sanitario obbligatorio, sono piuttosto restii a sapere o ad ammettere di esserlo, e questo spiega perché per accedere alla chiesa non ci sia una fila lunga come il cammino di Santiago, o perlomeno come quelle per il tampone rivela-covid. Nelle istruzioni per l’uso, poi, è inserita una controindicazione: non bisogna toccare con la testa i bordi del foro nel sarcofago, pena ottenere l’effetto inverso e rincretinire totalmente. Qualche dubbio sul fatto che ciò possa avvenire, ovvero di come si possa diventare più cretini di quando si decide di provare la terapia, rimane.
Il che ci porta ad alcune considerazioni:
a) la prima, per una associazione di immagini piuttosto che di idee, rimanda proprio al Covid. Se ricordate, nella primavera scorsa, all’inizio di questa disgraziata vicenda, si è scatenato un training autogeno collettivo a base di “andrà tutto bene” e di “ne usciremo migliori”. Il training parrebbe non avere funzionato, ad occhio e croce la situazione d’emergenza sembra avere piuttosto portato a galla tutti i nostri lati peggiori, e all’epidemia di covid se ne è aggiunta una di stupidità. Colpisce soprattutto il fatto che in molti casi persino le persone toccate direttamente dal contagio nella sua espressione più violenta non ne abbiano poi tratto alcun insegnamento, e nessunissimo miglioramento cerebrale. Trump è rimasto per qualche giorno sotto il casco dell’ossigeno, come avesse la testa infilata nel sarcofago di san Menulfo, ma non ne è uscito per nulla migliorato, al contrario. Forse toccava i bordi dello scafandro, in effetti ha un bel testone, o forse ci sono situazioni cui nemmeno la scienza medica o i santi taumaturghi sono in grado di recare soccorso.
b) Un’altra, meno naive e più cerebrale (quindi ve la risparmiamo, accenniamo soltanto) riguarda la rete immensa, fittissima e onnipervasiva che la Chiesa ha saputo costruire in duemila anni di storia, a base di apparizioni, reliquie, statue o quadri piangenti o sanguinanti, nicchie devozionali esclusive, mete di pellegrinaggio, acque o pratiche di risanamento fisico e/o spirituale, ecc. Abbiamo scritto “ha” ma avremmo dovuto scrivere “aveva”, perché nell’ultimo secolo sono comparsi concorrenti sempre più scafati e meglio attrezzati nella gestione dei nuovi strumenti di convincimento, e la chiesa ha visto restringersi come panni bagnati i propri spazi di controllo (anche se non li ha persi del tutto, e il culto di Padre Pio docet). A Saint-Menoux i pellegrini vanno ancora, ma coi bus turistici, e il foro nel sarcofago lo guardano con la stesso spirito col quale gli studenti (e i loro insegnanti) guardano le punte di pietra del museo preistorico o i gessi delle gipsoteche. Pochissimi però infilano dentro la testa: c’è il rischio di essere filmati e di finire immediatamente sui social, in pasto ai nuovi cretini certificati, quelli contenti e orgogliosi di esserlo, che dai miracoli sono esclusi per statuto.
c) L’ultima considerazione è una bazzecola di carattere letterario; concerne l’assenza di un qualsiasi accenno, nella formidabile “Trilogia del cretino” di Fruttero e Lucentini, a questo millenario spiraglio di speranza per una moltitudine di potenziali utenti. Ci è parso strano che spiriti arguti come i loro non ne avessero notizia. Ma poi abbiamo capito: la trilogia è una sorta di trittico alla Jeronimus Bosch, con visioni infernali in tutte e tre le tavole, e vuole offrire un quadro veridico della situazione italiana. Hanno già dovuto operare delle scelte difficili in un materiale strabordante di imbecillità esemplari. Non c’era spazio per l’importazione dall’estero. Per questo al decretinatore ne abbiamo dedicato uno noi.
Abbiamo infatti pensato che se appena appena un po’ funzionasse, sia pure solo per l’effetto placebo, a fronte del contagio esponenziale che sta moltiplicando negazionisti, complottisti, billionairisti, terrapiattisti, no-vax e compagnia sbraitante, con i soldi del MES si potrebbe cominciare a prenotarne una bella partita, possibilmente in pietra e con salma annessa, da mettere a disposizione di tutti, ma con priorità per le categorie più a rischio, a partire naturalmente dai parlamentari. Se invece il MES non lo vogliamo, si potrebbero organizzare treni come per Lourdes. E diverrebbe allora palese l’urgenza, per smaltire l’enorme traffico, di portare a termine l’alta velocità.