Un americano alla prova dei truck stop

di Paolo Repetto, 11 aprile 2024

Avevo in mente da un pezzo di riprendere il discorso su Bill Bryson, discorso che in realtà sino ad ora è rimasto limitato a brevissimi accenni nei consigli di lettura. Non l’ho fatto prima perché davo Bryson per scontato, conosciuto da tutti i frequentatori di questo sito, un po’ come Chatwin. Mi sembrava ci fosse in fondo poco da dire, se non rinnovare l’invito a leggere i suoi spassosissimi diari di viaggio, a partire dal celeberrimo Una passeggiata nei boschi.

Bryson non ha scritto però solo taccuini di vagabondaggio. Nella sua bibliografia trovano posto anche opere di tutt’altro genere, cose come Breve storia di (quasi) tutto, Breve storia della vita privata, Breve storia del corpo umano, e ancora, Vestivamo da Superman o Il Mondo è un teatro. Trattano argomenti molto diversi, ma sono unite tra loro e anche ai racconti di viaggio da un piglio e uno stile paragonabili solo a quelli di Mark Twain, da un approccio apparentemente scanzonato ma in realtà capace di cogliere i dettagli essenziali e davvero significativi di ambienti, persone, vicende.

Non sono sicuro che questa parte del suo repertorio di scrittura sia altrettanto conosciuta. Conto dunque di tornarci su, ma non ora: mi piacerebbe allargare un po’ più in generale il discorso alla divulgazione narrativa, che qui da noi non è molto praticata, e per farlo ho bisogno di maggiore concentrazione. Per il momento mi limito invece a proporre una selezione di pagine tratte da America Perduta, libro d’esordio del nostro, che già contiene tutto il Bryson che cerchiamo quando prendiamo in mano un suo scritto.

A me è capitato di rileggerlo a distanza di quasi trent’anni dal primo incontro, e a differenza di quanto accade in genere con la rilettura di testi che ti avevano entusiasmato in un periodo particolare della tua vita, perché direttamente legati ad esperienze o a stati d’animo che stavi vivendo (tre decenni fa ero ancora nel pieno della mia attività di girovago), non mi ha affatto deluso. L’ho riletto naturalmente con occhi nuovi, cercandovi cose che alla prima lettura potevano essermi sfuggite; e mentre all’epoca ricordo di aver provato soprattutto il piacere della scoperta di un’America profonda, quella sterminata e semi-sconosciuta che sta tra le due coste, questa volta vi ho trovato soprattutto delle conferme e delle spiegazioni.

Un americano alla prova dei truck stop 02

Insomma, uno che ha amato la storia degli Stati Uniti in tutte le sue sfaccettature, che si è svezzato coi fumetti e col cinema western, che si è nutrito nell’adolescenza dei libri di Twain, di London e di Steinbeck, e poi di Kerouack e di Salinger, nonché dei gialli di Chandler e di Hammett, non può, a dispetto di tutto ciò che ha poi appreso sulla politica sporca, sulle attività della CIA, o di tutte le evidenze della superficialità dell’american way of life, non conservare in fondo all’anima tracce del mito americano. E allora tanto più si chiede come un paese così grande e così ricco di tradizione democratica possa essere arrivato negli ultimi decenni ad affidarsi a personaggi come Bush jr e come Trump, e a ritrovarsi addirittura quest’ultimo quale probabile futuro presidente per la seconda volta.

Bene, in America perduta era già prefigurato quanto stava per accadere. Dopo quasi vent’anni di assenza (si era trasferito in Inghilterra ventenne, aveva iniziato a lavorare lì come giornalista, lì si era sposato e aveva preso casa) o perlomeno di fugaci rimpatriate, Bryson torna a vagabondare per gli Stati Uniti nei tardi anni Ottanta, intenzionato a ritrovare suoni, sapori e immagini della sua infanzia. Naturalmente non ci riesce, perché è cambiata l’America e soprattutto è cambiato lui: ma con un tragitto a doppio anello di oltre ventimila chilometri, a bordo della vecchia Chevrolet della madre, batte quella parte del paese che ancora non conosceva (e sulla quale aveva tanto fantasticato), oltre a ripercorrere le strade lungo le quali aveva invece viaggiato per le rituali gite familiari. Non riconosce la “sua” America, o meglio, la conosce adesso sia per come veramente era all’epoca che per come è diventata. Non si può dire che non gli piaccia, e neppure che ne sia entusiasta. Parrebbe far suo il giudizio espresso da Jack Nicholson in Easy Rider: l’America è un grande paese, peccato che ci siano gli americani.

Comunque, America perduta è uno di quei libri che non tollerano riassunti e analisi critiche: vanno letti e basta. A coloro che ancora non lo avessero fatto (ma anche agli altri), propongo appunto una serie di frammenti che dovrebbero fornire almeno un’idea di quel che si sono persi. Ho scelto quattro momenti di sosta, quelli destinati alla cena, al rilassamento dopo ore di guida e ad un bilancio della giornata. Naturalmente i locali frequentati sono quelli tipici del viaggiatore di lungo corso. A mio parere qui Bryson dà davvero il meglio: non racconta, non spiega, non dà giudizi, apre dei siparietti spassosissimi ma tutt’altro che fini a se stessi, perché rivelano dei suoi interlocutori (in questo caso, delle sue interlocutrici) molto più di qualsiasi tentativo di descrizione. E rende facile anche a noi percepire attraverso le reazioni scocciate, meccaniche o ossessive (non solo quelle degli interlocutori, anche le sue) quell’atmosfera pregna di monotonia, di solitudine e di distanza che sembra caratterizzare la vita americana, quella che già abbiamo conosciuto attraverso i dipinti di Hopper e soprattutto attraverso innumerevoli film on the road.

Non nascondo infine che sulle scelte ha influito anche l’aver riconosciuto nei modi di fare e di pensare di Bryson certi atteggiamenti propri di un amico col quale ho viaggiato ultimamente (e che già avete potuto conoscere proprio su questo sito). Immaginarlo seduto in quegli improbabili posti di ristoro in mezzo al deserto o in cittadine quasi fantasma ha raddoppiato il divertimento.

Ma non vado oltre: meglio lasciar parlare l’originale.

(i numeri di pagina si riferiscono all’edizione Feltrinelli Traveller 1993)

Un americano alla prova dei truck stop 03

pag. 54 Carbondale (Illinois)

[…] Malinconicamente e faticosamente arrivai al Pizza Hut, e una cameriera mi fece accomodare a un tavolo con vista sul parcheggio.

Tutti mangiavano delle pizze grandi come ruote di un pullman. Proprio davanti a me – non c’era via di scampo – un uomo super-obeso, sui trent’anni, si ficcava in bocca intere fette di pizza, come un mangiatore di spade. C’era una tale gamma di tipi e dimensioni di pizze, tali varietà che mi sentii quasi perso. La cameriera si avvicinò: “Ha scelto?”

“Ancora un momento”, replicai. “Per favore.”

“Non si preoccupi,” aggiunse. “Ritorno più tardi.”

Sparì, uscì dal mio raggio visivo, contò fino a quattro e poi riapparve. “Vuole ordinare?”, chiese.

“Se non le dispiace”, dissi “vorrei aspettare ancora un po’.”

“OK”, disse seccata andandosene. Questa volta contò forse fino a venti, ma, quando si rifece viva, io vagavo ancora nel mare magnum di possibilità e opzioni che il Pizza Hut offriva.

“È un po’ lentino, Lei, vero?” asserì vivace.

Ero imbarazzato. “Mi dispiace. Sono un po’ stordito. Sa … sono appena uscito di prigione.”

Stralunò gli occhi. “Non dirà sul serio?”

“Eh, si. Ho ucciso una cameriera che mi metteva fretta.”

Abbozzando un sorriso indietreggiò, e mi lasciò tutto il tempo di cui avevo bisogno per decidere. Alla fine optai per una pizza media, ai peperoni, con doppia porzione di cipolle e funghi. Una pizza che vi consiglio vivamente di assaggiare.

Un americano alla prova dei truck stop 04

pag. 165 Littleton (New Hampshire)

[…] Entrai nel ristorante, il Topic of the Town. Gli altri clienti mi sorrisero, la signora alla cassa mi mostrò dove appendere la giacca e la cameriera, una signora piccola e grassottella, si prodigò in tutti i modi per offrirmi il servizio migliore. Era come se avessero somministrato a tutti un meraviglioso tipo di tranquillante.

Quando la cameriera mi portò il menù, commisi l’errore di dire grazie. “Prego”, rispose lei. Una volta innescato questo meccanismo non c’è modo di fermarlo. Poi la signora pulì il mio tavolo con uno straccetto umido. “Grazie”, dissi. “Prego”, rispose. Mi portò le stoviglie avvolte in un tovagliolo di carta. Esitai, ma non riuscii a trattenermi. “Grazie”, dissi. “Prego”, rispose. Quindi arrivò con la tovaglietta con sopra scritto Topic of the Town, poi con un bicchiere d’acqua, poi con un posacenere pulito, poi con un cestino con i salatini nella loro confezione di cellophane e a ogni gesto ci scambiammo quelle formali gentilezze. Ordinai del pollo fritto speciale. Mentre aspettavo incominciai a essere a disagio perché i miei vicini di tavolo mi osservavano e mi sorridevano in modo inquietante. Anche la cameriera mi stava osservando, appostata vicino alla porta della cucina. In un certo senso era snervante. A ogni piè sospinto lei veniva al mio tavolo per riempirmi il bicchiere di acqua ghiacciata e per dirmi che avrei dovuto aspettare ancora un minuto per la mia ordinazione.

“Grazie”, dicevo.

“Prego”, rispondeva lei.

Alla fine uscì dalla cucina reggendo un vassoio grande come un tavolo, e iniziò a disporre i piatti davanti a me: minestra, insalata, un piatto di pollo, un cestino di panini caldi. Tutto aveva l’aria di essere appetitoso. Improvvisamente mi resi conto di avere una fame da lupi.

“Desidera qualcos’altro?”

“No, grazie. Va tutto benone”, risposi, impugnando coltello e forchetta, pronto a buttarmi sul cibo.

“Desidera del ketchup?”

“No, grazie.”

“Gradisce ancora un po’ di condimento nell’insalata?”

“No, grazie.”

“Ha abbastanza salsina sul pollo?”

Ce n’era abbastanza per annegarci un cavallo. “Sì, c’è molta salsina, grazie.”

“Che ne direbbe di una tazza di caffè?”

“Şul serio, sono a posto così.”

“È sicuro di non desiderare nient’altro?”

“Potrebbe andarsene fuori dalle palle e lasciarmi mangiare in pace?” avrei voluto rispondere, ma ovviamente non dissi nulla. Mi limitai a sorridere garbatamente e a rispondere: “No, grazie”, e quella dopo un po’ si ritirò. La donna rimase in piedi con la brocca dell’acqua ghiacciata in mano, senza però togliermi gli occhi di dosso per tutto il pasto. Ogni volta che bevevo un sorso d’acqua, si avvicinava al tavolo e lo riempiva fino all’orlo. Quando allungai la mano per prendere il pepe la cameriera fraintese la mia mossa e avanzò con la brocca in mano, ma dovette fare dietrofront. Dopo di che, ogni volta che lasciavo le posate per un qualsiasi motivo, le mimavo ciò che stavo per fare, per esempio “Sto per imburrare il pane”, tanto per evitarle di correre al mio tavolo con la brocca in mano. Nel frattempo le persone del tavolo accanto mi osservarono mangiare con un sorriso d’incoraggiamento. Friggevo dalla voglia di andarmene.

Quando terminai il pasto, la cameriera mi propose i dessert:

“Le andrebbe una fetta di crostata? C’è ai mirtilli, alle more, ai lamponi, alle more selvatiche, ai mirtilli bianchi, ai ribes rossi, ai ribes neri e all’uva spina”.

“Caspita! No, grazie, ho mangiato fin troppo”, dissi mettendomi le mani sullo stomaco. Sembrava che mi fossi nascosto un cuscino sotto la camicia.

“Cosa ne direbbe invece di un bel gelato? Abbiamo stracciatella, cioccolato speciale, cioccolato amaro, cioccolato bianco, bacio, cioccolato e menta, riso soffiato e cioccolato con e senza stracciatella.”

“Non ha del cioccolato semplice?”

“No, mi dispiace, non c’è molta richiesta.”

“Allora credo che non prenderò niente.”

“Che ne dice di una fetta di torta? Abbiamo…”

“Guardi, proprio no, grazie.”

“Caffè?”

“No, grazie.”

“Sicuro?”

“Sì, grazie.”

“Le porterò ancora un po’ d’acqua allora”, e scattò a prendere l’acqua prima ancora che riuscissi a dirle di portarmi il conto. Le persone del tavolo accanto osservarono la scena con interesse, e sorrisero come volessero dire: “Noi siamo completamente fuori di testa. Lei come sta?”.

Un americano alla prova dei truck stop 05

pag 176 Elmira (Stato di New York)

[…] Erano quasi le nove quando mi fermai in un motel alla periferia di Elmira.

Andai direttamente fuori a cena ma, poiché quasi tutti i locali che incontravo erano chiusi, finii per mangiare nel ristorante di un bowling in aperta contravvenzione alla terza norma di Bryson sul cenare in una città sconosciuta. Generalmente non credo nel fare le cose per principio e poi si tratta di un principio tutto mio ma ho elaborato sei norme riguardanti la cena al ristorante che cerco di non trasgredire. Eccole:

  1. Mai cenare nei ristoranti che espongono le fotografie delle specialità. (E se lo si fa, mai credere alle fotografie.)
  2. Mai cenare nei ristoranti rivestiti con carta da parati ruvida.
  3. Mai cenare nei ristoranti dei campi da bowling.
  4. Mai cenare nei ristoranti dove si sente ciò che dicono in cucina.
  5. Mai cenare nei ristoranti che offrono intrattenimento dal vivo, il cui nome contenga una delle seguenti parole: Hank, Rhythm, Swinger, Trio, Combo, Hawaiian, Polka.
  6. Mai mangiare nei ristoranti che hanno i muri schizzati di sangue.

Nella fattispecie il ristorante del bowling risultò abbastanza accettabile. Attraverso le pareti si sentiva il rimbombo smorzato dei birilli che cadevano, le urla delle parrucchiere e dei carrozzieri di Elmira che si divertivano. Ero l’unico cliente del ristorante. Per cui ero l’unico ostacolo tra le cameriere e la fine del loro servizio. Mentre aspettavo di essere servito, le ragazze sparecchiarono gli altri tavoli, tolsero posacenere, zuccheriere e tovaglie, cosicché dopo un po’ mi trovai a cenare solo, in una grande sala, con una tovaglia bianca, una candela baluginante in una lampada rossa, in mezzo a un’arida distesa di tavoli di laminato.

Le cameriere, appoggiate alla parete, mi osservavano mentre masticavo. Dopo un po’ iniziarono a bisbigliare e ridacchiare, sempre senza togliermi lo sguardo di dosso, cosa che trovai francamente scocciante. Avrei dovuto immaginarmelo, ma ebbi anche la netta impressione che qualcuno stesse girando un interruttore, perché la luce della sala si abbassava gradatamente. Alla fine del pasto riconoscevo il cibo al tatto e, a volte, dovevo abbassare la testa sul piatto per annusare. Prima ancora di terminare, quando mi fermai un secondo per bere un bicchiere d’acqua ghiacciata, nel buio dietro il lume di candela, la cameriera mi sfilò via il piatto e mi lasciò il conto sul tavolo.

“Desidera altro?”, mi chiese, con un tono che suggeriva che sarebbe stato meglio rispondere di no. “No, grazie”, dissi gentilmente. Mi pulii la bocca con la tovaglia, dato che il mio tovagliolo si era perso nell’oscurità, e aggiunsi la settima norma alla mia lista: mai andare nei ristoranti dieci minuti prima dell’orario di chiusura. Tuttavia, un pessimo servizio non mi dà mai fastidio. Non mi fa sentire in colpa se non lascio la mancia.

Un americano alla prova dei truck stop 08

pag. 263 Sonora (California)

[…] D’umore perfido, presi l’auto e andai a cena in città in un ristorante da poco. Dopo un bel po’ arrivò la cameriera a prendere l’ordinazione. Aveva un’aria volgare e la fastidiosa abitudine di ripetere tutto ciò che le dicevo.

“Vorrei un petto di pollo impanato”, dissi.

“Desidera un petto di pollo impanato?”

“Sì. E un contorno di patatine fritte.”

“Desidera un contorno di patatine fritte?”

“Sì. E desidererei anche un’insalata ben condita.”

“Desidera anche un’insalata ben condita?”

“Sì, e una Coca Cola.”

“Desidera una Coca Cola?”

“Mi scusi signorina, ma ho avuto una brutta giornata e se non la smette di ripetere tutto ciò che dico, prendo la bottiglia di ketchup e gliela rovescio tutta sulla camicetta.”

“Prende quella bottiglia di ketchup e me la rovescia tutta sulla camicetta?” A dir la verità non la minacciai col ketchup; per il semplice fatto che la signorina poteva sempre avere un fidanzato grande e grosso che mi avrebbe picchiato. Inoltre, una volta conobbi una cameriera che mi disse che quando un cliente era maleducato con lei, andava in cucina e gli sputava nel piatto. Da allora non sono più stato sgarbato con una cameriera e non ho più mandato indietro un piatto poco cotto (perché in questo caso è il cuoco a sputare) ma ero così di malumore che appiccicai immediatamente la gomma da masticare nel posacenere, senza incartarla in un tovagliolino come mi ha sempre insegnato mia mamma, e la schiacciai col pollice cosicché non sarebbe caduta svuotando il posacenere, ma avrebbero dovuto staccarla con una forchetta. E sapete una cosa – che Dio mi perdoni – mi tolsi una piccola soddisfazione.

Un americano alla prova dei truck stop 07

Appendice bibliografica

Per dare una parvenza di “servizio pubblico” a questo articolo lo arricchisco di una breve e personalissima bibliografia, dedicata ai libri di viaggiatori che hanno percorso gli States alla maniera di Bryson, o anche in altri modi, e hanno comunque raccontato in epoche diverse quegli spazi e quelle genti. La bibliografia sull’argomento sarebbe in realtà sterminata. Io segnalo qui solo alcuni dei testi che conosco direttamente, scritti da indigeni o da viaggiatori provenienti d’oltreoceano, e del cui valore posso farmi garante.

Luigi Castiglioni – Viaggio Negli Stati Uniti Dell’ America Settentrionale, fatto negli anni 1785-1787 – Classic Reprint, 2019

Paolo Andreani – Viaggio in Nord America – Scheiwiller, 1994

René de Chateaubriand – Viaggio in America – Pintore, 2007

Washington Irving – Viaggio nelle praterie del West – Spartaco, 2013

Alexis de Tocqueville – Viaggio in America. Stati Uniti e Canada (1831-32) – Humboldt Books, 2023

Alexis de Tocqueville – Quindici giorni nel deserto americano – Sellerio, 1989

Giacomo Costantino Beltrami – La scoperta delle sorgenti del Mississippi – Biblioteca del Vascello, 1983

Xavier Marmier – Lettres sur l’Amérique, 2 vol. – Felix Bonnaire, 1851

Henry David Thoreau – Una settimana sui fiumi Concord e Merrimack – La Vita Felice, 2020

John Muir –Mille miglia in cammino fino al golfo del Messico – Ed.dei Cammini, 2015.

Mark Twain – La mia avventura nel West – Mattioli 1885, 2018

Rudyard Kipling – Oltre la porta d’oro. Un viaggio negli Stati Uniti da costa a costa – Muzzio, 1996

Maksim Gorkij – L’America – Mastellone Ed., 1952

Knut Hamsun – La vita culturale dell’America moderna – Arianna, 2009

Jack London – La strada – Elliot, 2015

John Steinbeck – Viaggio con Charley – Rizzoli, 1969 (o Bompiani, 2017)

William Least Heat Moon – Strade blu. Un viaggio dentro l’America –Einaudi, 1989

William Least Heat Moon – Nikawa – Einaudi, 2000

Bill Bryson – Notizie da un grande paese – Guanda, 2017

Alex Roggero – La corsa del levriero. In Greyhound da Pittsburgh a Los Angeles – Feltrinelli 2002

Alessandro Portelli – Taccuini americani – Manifestolibri, 1991

Emanuela Crosetti – Come ti scopro l’America. Da Sant Louis al Pacifico con i leggendari Lewis e Clark – Exòrma, 2016

Un americano alla prova dei truck stop 06

Sfatare un mito: Atene è brutta!

ebdomadario logodi Vittorio Righini, 17 febbraio 2024

Mi si conceda un leggero intervento (meglio, un intervento leggero) in mezzo alle riflessioni più impegnate che compaiono qui sui Viandanti. Intanto siamo appena usciti da Sanremo (che ho evitato come la peste, al contrario di mia moglie, che sabato notte è stata sveglia sino alle quattro, e al mattino sembrava effettivamente una maratoneta al traguardo), e l’uscita dal tunnel mi induce appunto ad essere molto leggero, e a proporre riflessioni che mi ronzano nelle orecchie da un po’.

Tutto ha origine un giorno di oltre 20 anni fa, su un volo Milano-Atene. Nella fila di coda c’era un tipo che andava in vacanza a fine estate, e aveva cooptato alcuni conoscenti che se lo sarebbero sorbito per una o due settimane. Nella consapevolezza di essere il capo comitiva, ragliava ai subalterni: “Ricordate, ad Atene visita all’Acropoli da toccata e fuga e poi via, che la città fa schifo, e tutti a Santorini e poi a Mikonos”! Pensavo che il gregge fosse del suo livello, cinquantenne bancario palestrato, ma mi sbagliavo; c’era anche gente normale meno giovane. Le ruote si erano appena posate sulla pista che il tipo era già in piedi (quelli che hanno paura di volare di solito fanno così), aveva recuperato lo zaino e tentava, nonostante la riprovazione delle hostess e degli altri passeggeri, di raggiungere la porta di sbarco anteriore, senza darsela che ci avrebbero fatto scendere anche da quella posteriore. Quale occasione migliore per uno come me: mi sono girato verso lo sparuto gruppetto, e ho detto loro: “Siete in cattive mani, con quel tipo; Atene è bella, ricca di piacevoli sorprese e di tanta umanità, e si mangia bene; al contrario di Santorini e Mikonos, dove sarete in mezzo a file di cinesi ad ammirare il tramonto e mangerete molto male. Scusate se mi sono permesso, e buona fortuna”.

A quel punto ho puntato l’uscita posteriore e mi sono defilato, ma il dubbio si era insinuato in quelle menti, ne sono sicuro. Fuori dall’aerostazione ho incrociato il gruppo, e un tizio della mia età mi ha guardato e mi ha fatto ciao con la mano. Avete presente in Perfect Days il bambino che nei bagni pubblici di Tokyo saluta Hirayama con la manina? Ecco, così.

Nella penultima Pasqua greca che ho trascorso a Creta (quella del 2022) mi è successo un fatto analogo: un passeggero al mio fianco spiegava alla moglie che era una fortuna che il volo fosse quello diretto da Milano ad Hania e non facesse scalo ad Atene, tanto là non c’era nulla da vedere, a parte l’Acropoli che già avevano vista. Mi è sembrata una curiosa coincidenza, al di là del fatto che per andare a Creta anch’io preferisco fare un volo diretto, ma non certo per evitare Atene; e poi quella era la moglie, non un gregge di sprovveduti. Così mi sono fatto gli affari miei ed ho taciuto.

In questi giorni ho letto Atene nel Metrò, di Petros Markaris. Questo anziano scrittore è conosciuto per i romanzi del Commissario Charitos, ambientati appunto ad Atene. I primi episodi della serie sono piacevoli, abbastanza originali, e hanno portato una ventata di aria nuova, anche un po’ balcanica, nell’ambiente del romanzo giallo. Negli ultimi tre o quattro racconti invece l’autore ha smarrito l’ispirazione, le storie sono improbabili e da evitare.

Sgatare un mito Atene è brutta 02Di padre armeno, di madre greca, Markaris è nato nel 1937 a Costantinopoli – pardon, Istanbul. Nascere armeno-greco in casa dei turchi non dev’essere stata la migliore delle opzioni. Considerato un apolide fino alla caduta del regime dei Colonnelli, era riuscito a rientrare in Grecia solo nel 1964 ed è diventato un cittadino greco dieci anni dopo. Questo suo Baedeker è basato sulla descrizione di tutto il tragitto dell’Ilektrikò, trenino elettrico appunto, una sorta di metropolitana che viaggia prevalentemente in superficie, inaugurato nel 1869 e poi successivamente ampliato con nuove tratte, che dal porto del Pireo raggiunge a nord Kifisià, il quartiere più ricco di Atene, in ventiquattro fermate. Markaris si sofferma sui quartieri più interessanti, quelli dove è rimasta qualche traccia del passato, che spesso sono i quartieri degli immigrati, quegli stessi greci che nel 1922 furono cacciati dalla Turchia e mal accettati ad Atene. Costoro avevano ben presente il significato di possedere una casa, e infatti le successive generazioni hanno tenuto in piedi più o meno decorosamente le vecchie dimore costruite nella capitale con la prima immigrazione, mentre i greci, gli Elleni, hanno accettato la politica della permuta, e hanno rovinato l’immagine della città. La permuta, sostenuta dal governo di allora, guidato per molti anni dopo il 1974 dal PASOK, consisteva in questo: chi aveva una villetta con un pezzettino di cortile o giardino li permutava con uno o due appartamenti nei palazzoni tutti uguali che gli speculatori stavano edificando in quella zona, e dava il suo contributo ad imbruttire le vie e i viali di interi quartieri. Naturalmente la qualità di quei condomini era modesta, e oggi sono fatiscenti oppure sono già stati abbattuti e sostituiti da edifici moderni, perlomeno più funzionali.

Tutto ciò non impedisce ad Atene di conservare alcune zone davvero belle da vedersi e da vivere: zone in cui la cura della casa è evidente, la collaborazione col vicinato indispensabile per una vita dignitosa, l’assistenza e lo scambio di umanità una cosa normale; dove si possono ancora trovare vecchie taverne e bar, pur in costante diminuzione, e vecchi negozi, in via di essere scalzati dai supermarket, che le rendono comunque meritevoli di una visita, scendendo a una delle fermate dell’Ilektrikò.

Ora non sto a suggerire un quartiere piuttosto che un altro, è tutto scritto chiaramente nel libro di Markaris; ma io ho provato a visitare in parte alcuni dei luoghi che lui segnala, e ho provato davvero sensazioni simili a quelle descritte nel libro. Le mescite con cucina, per esempio, anche queste sempre più rare, ma se ne trovate una non mancate; il mio amico ateniese me ne ha fatta scoprire una in mezzo a un dedalo di viuzze del Pireo, dove non saprei tornare nemmeno col GPS. Di giorno è un negozio di alimentari, nemmeno troppo fornito. La sera si uniscono i tavoli, ci si siede e si mangia quello che è rimasto nel negozio, con un bicchiere di retsina o, spesso, di asprò (vinello terribile, con una punta finale di acidità che qui in Piemonte sarebbe da Codice penale), mentre, dulcis in fundo, qualcuno canta e suona un vecchio rebetiko con un bicchierino di ouzo a fianco.

Sgatare un mito Atene è brutta 03

Il rebetiko merita una pagina a parte: ho scritto vecchio perché non è antico, ha circa un centinaio di anni. È nato come forma di canzone che prevedeva nostalgia, amori complicati, racconti di vendette o della patria lontana, tra un bicchiere di retsina (quella vera, non quella di oggi) e una boccata di hashish, che ai tempi era permesso. Si canta accompagnati da un bouzouki, simile a un grosso e lungo mandolino (sotto i colonnelli era vietato portare il bouzouki in taverna o nelle cantine: allora i liutai inventarono il baglamas, un mini bouzouki sottile e lungo meno di 50 cm., sempre tricordo, così da poterlo nascondere sotto la giacca); ma possono esserci anche altri strumenti di accompagnamento, prevalentemente cordofoni.

Sgatare un mito Atene è brutta 04Vinicio Capossela, che ha pubblicato nel 2012 un album dedicato a questo genere, ha detto “Il rebetiko mi è sempre piaciuto perché fa male, perché è una musica che non ti vuole rendere migliore, ma solo te stesso. Ha una carica eversiva, si ribella a tutto quello che finisce per occultarci a noi stessi”. Una musica che andava presa sul serio. Per esempio, a volte si alzava un ballerino, che chiedeva di ballare uno zeibekìko: quello era un ballo solitario, nessuno poteva parteciparvi, perché era un mezzo per esprimere il proprio dolore, la sofferenza o la nostalgia. Ai tempi del regime, due poliziotti, per offendere un ballerino che era un simpatizzante di sinistra tenuto sotto controllo, ed era sceso sulla pista da solo, si misero a ballare al suo fianco e lo schernirono. Il giorno dopo erano entrambi morti.

Ricordo che una sera ero entrato ad ascoltare musica con un amico ateniese, ed ero stato colpito da un brano particolarmente orecchiabile. Gli chiesi di tradurmi in sintesi il testo, che in sostanza diceva così: “Lavoro tutto il giorno come una somaro, arrivo a casa la sera che riesco appena a mangiare tanto sono stanco, e mia moglie, che sta in casa tutto il giorno, comincia a lamentarsi che manca questo, manca quello, questo non va bene, l’altro non va bene… così, da qualche giorno mi sto chiedendo: ma chi me l’ha fatto fare di sposare una così”?

Certo è un ragionamento che non fa una piega. Come dargli torto.

Oggi il rebetiko è considerato Patrimonio Mondiale dall’Unesco, e una visita ad Atene rende d’obbligo entrare in una taverna dove lo si suona: ma state pure tranquilli, con gli euro al posto delle dracme anche i ballerini solitari si sono dati una calmata.

I palazzi sontuosi che costeggiano i grandi viali mostrano evidente l’influenza del modello architettonico berlinese di Ludwig Hoffmann. La ristrutturazione urbanistica voluta dal sindaco Mercouris nel 1908 ha cambiato il volto della città, e consente ancora oggi lunghe passeggiate in mezzo ad edifici eleganti come se ne trovano in molte altre capitali europee. Poi, di colpo, sul lato compaiono un vicolo, un acciottolato, case basse in mattoni e intonaco screpolato, il cortile di una vecchia taverna coi tavolini tutti sgangherati, un negozio di casalinghi, con scope di saggina e articoli in legno, il piccolo atelier di un pittore locale e un negozietto di LP usati. Un angolo di Costantinopoli.

Di fronte al mercato alimentare coperto, a metà della via Athinas, c’è una piazzetta con banchi di frutta, olive e chincaglieria usata, e in un angolo c’è una taverna, che da fuori non si individua se non lo si sa prima. Si scendono dieci pericolosissimi scalini, aggrappati al corrimano, e si entra in una vecchia cantina. Il pavimento è di un colore indefinibile, i tavolini in legno coperti da tovaglie di carta a quadretti non hanno una gamba uguale all’altra. Sul muro di fronte troneggia una fila di vecchie botti, spero vuote. L’oste è una vecchia sagoma che parla solo greco, ma capisce benissimo se provi a sfotterlo in un’altra lingua. Ti fa segno di avvicinarti e ti mostra dal vivo il menù: due gavettoni da caserma, una minestra di ceci, una di fagioli, eccezionali entrambe. Scegli e ti siedi, poi di secondo arrivano fresche sardine alla griglia. Vino asprò, tiepido. 18 euro. Voi direte: ma chi te lo fa fare: beh io ci torno tutti gli anni, ci ho portato anche Paolo e sua moglie. C’è vita, in quella cantina, storia, tradizione, e i piatti sono buoni. Certo, la zuppa di ceci ad agosto non è il massimo, e no, non c’è la 626, ma pazienza, purtroppo prima o poi arriverà.

Sgatare un mito Atene è brutta 05

La vecchina che vende fazzolettini di carta sulla scala che scende all’Ilektriko ha il vestito nero e il fazzoletto in testa, tipici di chi è immigrato dall’Asia Minore, dal Ponto, dalla Città (così chiamano Istanbul gli anziani greci). Le dai due euro e dici: “Tenga i fazzolettini, non ne ho bisogno”, ma lei si risente e risponde: “No, lei ha pagato e lei deve prendere un pacchetto”. Il blasone della povertà. Un musicista all’angolo della strada suona il bouzouki, le monete vanno nella custodia. Mi fermo sempre e do sempre qualcosa a chi suona, l’ho sempre fatto, anche sulla metro di Milano, perché è comunque tutta gente che in cambio di un’offerta ti dà musica. Trovo anche una ragazza che suona l’hang (l’hang è una specie di tamburo a mano in acciaio, accordato) e intreccia melodie armoniose e rilassanti; mi fermo mezz’ora, acquisto il suo cd autoprodotto, vorrei portarla a cena con la scusa che potrei essere suo padre (chi ha pensato nonno, peste lo colga), ma viene a prenderla il suo ragazzo, un bulgaro, pare. Entro in un negozio di dischi, in una galleria sotto un palazzo che secondo me potrebbe crollare da un momento all’altro e distruggere tutti quei vinili; compro un introvabile Vangelis Papathanassiou con Irene Papas a 14 euro: l’ho cercato per anni.

Sgatare un mito Atene è brutta 06Salgo al mio alberghetto (salgo è la parola giusta, odòs Emmanouil Benaki è una mulattiera in salita) sotto il Licabetto, poso gli acquisti e vado a piedi in un attimo al parco Lofos Strefi, dove in una taverna sotto gli alberi mi gusto birra e agnello alla griglia, euro 13,50. Il giorno dopo torno al Museo Benaki, forse il migliore ad Atene: c’è la mostra fotografica di Joan Eyre Monsell, lady Leigh Fermor, e compro il suo libro, perché mi rendo conto che la Musa era anche una brava fotografa.

Il giorno dopo prendo l’Ilektrikò e scendo (cioè vado verso sud) al Pireo. Mi fermo al Margaro, una taverna che ha tavoli sotto un bersò, dove fanno sempre e solo le stesse cose: gamberi, triglie e insalata greca, locale aperto dalle dieci del mattino alla mezzanotte.

La sera scendo a piedi dall’albergo, imbocco un viottolo pedonale ricco di alberi (Methonis) ed entro nella Taverna del Professore, perché sento suonare. Bevo birra, ascolto musica e parlo in italiano col Professore, un piccoletto anziano coi baffi che ha studiato a Roma, ed è finito quasi per caso nel 2018 in uno speciale del TG3 sulla musica e sulle taverne di Atene.

Quindi sfatiamo il mito, Atene è tante cose, belle e brutte, e merita sempre un’attenta visita.

P.S.: se volete visitarla con l’aiuto del Baedeker di Markaris, devo darvi un’avvertenza: l’autore, già nei romanzi polizieschi, è fissato coi nomi delle vie; si perde in descrizioni delle code che subisce in auto durante le sue indagini. È ovvio che, in un Baedeker come Atene nel Metrò debba per forza usare una valanga di nomi di vie, viali, piazze, e questo rende la lettura un po’ pesante. Insomma, è un libro per greco-compulsivi, greco-completisti o greco-fissati, categorie di cui sono un degno rappresentante.

Diversamente idioti

di Paolo Repetto e Vittorio Righini, 2 novembre 2023

Pubblichiamo un recente scambio epistolare tra due Viandanti. Non stiamo scivolando in una deriva autoreferenziale. È che spesso da questi scambi nascono delle idee, che vengono poi tradotte in pezzi da postare sul sito: ma questa volta si è preferito puntare direttamente sugli originali, perché si prestavano bene a mostrare come per venire alla luce le idee compiano talvolta strani giri. Non solo: più banalmente, ci sembra testimonino che pure attraverso la comunicazione digitale è possibile un confronto costruttivo. Con buona pace di Mc Luhan, non è sempre il mezzo a fare il messaggio. Qualche volta, se ai due capi del filo c’è gente che pensa con la propria testa, il mezzo rimane ciò che deve essere, uno strumento al servizio della conoscenza.

Diversamente idioti 02 Vincent-Munier-La-Panthere-des-neiges-est-un-hommage-a-la-Beaute

Niente scuse

di Vittorio, 27 ottobre

Diversamente idioti 02 Wilfred ThesigerCiao Paolo, ti scrivo anzitutto per ringraziarti di avermi procurato il bellissimo documentario su Vincent Munier e sulla sua caccia alle immagini del “Leopardo delle Nevi” (così si chiama, ma i francesi, vai a sapere perché, lo chiamano la Panthère des Neiges. Qui ci vorrebbe un consulto con un etologo di lingua francese, che sappia di cosa parliamo e che ci spieghi perché quello che noi – e Peter Matthiessen – chiamiamo leopardo, per loro è panthère). Grazie inoltre per avermi restituito l’autobiografia di Thesiger, che mi è sembrata si interessante come si dice, ma anche complessa come la vita che lui ha vissuto. Io, comunissimo mortale, ne ho letto solo una parte: le straordinarie esperienze raccontate ne La vita a modo mio mi hanno lasciato basito, ma anche intimorito dall’infi nità di luoghi e di persone a noi perfettamente sconosciuti, mai sentiti prima. Non che non sia abituato a leggere storie in paesi fuori dall’ordinario, anzi, sono la mia passione, ma Thesiger, che già mi aveva deliziato con Sabbie Arabe (Arab Sands) e con il meraviglioso Quando gli arabi vivevano sull’acqua (The Marsh Arab), in questa sua biografia mi fa smarrire in un universo troppo ignoto, soprattutto per la parte che si svolge in Eritrea, Abissinia, Dancalia, etc. E poi, diciamolo, è grande anche nei suoi difetti, primo fra tutti la caccia grossa. Certo, erano altri tempi, ma leggere di stragi di animali oggi rari o quasi estinti mi lascia sbigottito, benché io non abbia mai fatto nulla per proteggerli, se non dedicare loro un amorevole pensiero, e coltivi un’innata repulsione verso le armi. Insomma, mi si perdoni ma non riesco a leggere questa biografia mettendomi nei panni dell’autore.

Vengo però al dunque, al motivo principale per cui ti scrivo. Come ricorderai, all’inizio del nostro ultimo viaggio in Grecia, già in volo tu leggevi un testo piuttosto pesante, che hai presto giustamente abbandonato (le scelte errate del paio di libri da portarsi in vacanza ci puniscono severamente). Hai poi recuperato con il libro di riserva, quel Nero. Storia di un colore, di Michel Pastoureau, che ti ha accompagnato per qualche giorno. Un gran bel libro, immagino, che non ho letto ma che riesco ad immaginare, perché ho apprezzato l’originalità e l’enorme cultura dell’autore in un’altra opera, nella quale sui colori fa una panoramica completa.

Poi hai finito di leggere anche Pastoureau, e siccome il nostro era un finto viaggio culturale, in realtà una settimana di scazzo totale per riposare la mente e il corpo, sei rimasto senza carburante. Allora io, che avevo provveduto a portarmi il succitato Thesiger e, per rilassarmi, una trilogia di romanzi gialli di un autore che non conoscevo, ho lasciato questi ultimi in sospeso e te li ho passati, attaccandomi invece a Thesiger: ciò che mi ha permesso di arrivare quasi a fine settimana nel nostro viaggio alla ricerca delle fonti della Macedonia (forse, più che delle fonti, delle essenze; oggi dove mangiamo? che cosa mangiamo? cosa beviamo? queste erano le imprescindibili domande che ci ponevamo subito dopo l’ampia colazione). Tra l’Olimpo (un panettone in lontananza) e il Monte Athos (questa invece una vera montagna, una sorta di piramide visibile da gran parte della penisola Calcidica), le montagne del Pindo e i laghi di Prespa, abbiamo avuto la fortuna di fermarci su spiagge poco frequentate (metà settembre, nord della Grecia, da stare molto, molto tranquilli).

Diversamente idioti 03Poi, curioso di leggere questo nuovo autore di romanzi gialli, che tu avevi già divorato, mi sono approcciato alla Trilogia di Adamsberg (la prima trilogia), 8 o 900 pagine, non ricordo, tre storie, di un tale Fred Vargas. Ho letto questi tre romanzi. Mi sono piaciuti? non mi sono piaciuti? non ho una risposta sicura, e anche tu che li avevi già divorati non mi hai dato una risposta convinta. Certo però mi hanno incuriosito, e tornato in patria ho trovato (anche questo usato) la seconda Trilogia di Adamsberg. Comprata al volo, mille pagine. Il primo racconto mi ha entusiasmato, lo ammetto, uno dei più bei polizieschi o noir o come cavolo si definiscono questi racconti, quasi 400 pagine, titolo Sotto i venti di Nettuno.

Bene, mi sono detto, ho aperto una nuova strada di lettura: ora vediamo chi è questo Fred Vargas. Ho scoperto anzitutto che Fred Vargas è una donna, e questo è meglio: a me piacciono tanto la Alicia Gimenez-Bartlett e i suoi polizieschi catalani, ben venga dunque una autrice che posiziona il commissario Adamsberg a Parigi. Lei si chiama in realtà Frederique Audoin-Rouzeau, e Wikipedia mi dice che è ricercatrice di archeozoologia presso il CNRS francese ed esperta in medievistica. Una mente illuminata, che usa uno pseudonimo per firmare i suoi libri (con un cognome improponibile, meglio uno pseudonimo banale). Leggo la sua biografia e mi annoto i vari romanzi polizieschi, poi, poi… leggo che è anche autrice di un pamphlet intitolato La veritè sur Cesare Battisti, 2004. In questo testo, la figura di Battisti è portata ad esempio di intellettuale intelligente, non corrotto e assolutamente estraneo ai fatti che la giustizia italiana gli imputa. Secondo la Vargas Battisti è vittima di un governo alla Pinochet e di forze di Polizia corrotte che cercano un capro espiatorio, mandando in galera migliaia di innocenti. In quel periodo al governo c’era Berlusconi, certo non il politico a me più simpatico, ma l’accostamento a Pinochet mi pare inopportuno. Allora approfondisco, e vedo che la Vargas, insieme a molti altri intellettuali della gauche, ha anche firmato una petizione nella quale si chiede giustizia per il mirabile Battisti.

Ora, nel 2019 Battisti, in carcere in Italia, dopo l’estradizione concessa dall’ex presidente del Brasile Bolsonaro, la fuga in Bolivia e il successivo arresto, ammette il suo coinvolgimento nei quattro omicidi e nei tre ferimenti commessi durante gli anni di militanza nel PAC (Proletari Armati per il Comunismo), due compiuti personalmente e due in condivisione.

A questo punto l’Ansa a Parigi va a cercare la Audoin-Rouzeau (Fred Vargas) per chiederle cosa ne pensa, e lei risponde: l’ammissione di colpevolezza di Cesare Battisti per l’omicidio di quattro persone durante gli anni di piombo “non cambia nulla alle mie conclusioni di ricercatrice, lo ritengo ancora innocente”: “Non ho da presentare nessuna scusa – aggiunge – non ritengo di aver difeso un assassino, è l’ultima cosa che avrei fatto. Purtroppo è triste, perché mi prenderanno tutti per un’imbecille. ma è così”. Alla domanda se fosse stata messa al corrente che Battisti, oltre a riconoscere i quattro omicidi durante gli Anni di Piombo, avrebbe dichiarato, dinanzi ai magistrati, di aver mentito ai suoi sostenitori, compresi quelli francesi, Vargas ha risposto: “Le sue dichiarazioni non mi feriscono, mi lasciano indifferente, è possibile che abbia i suoi motivi, forse ci sono delle ragioni, non ne so niente, lo lascio libero di dire ciò che ha scelto di dire”.

Così, sono giunto alla conclusione che si, Fred Vargas Audoin-Rouzeau è una imbecille, perché fin da bambino mi hanno detto che chi non cambia mai idea è un’imbecille.

Diversamente idioti 08

Nulla di buono dal fronte occidentale

di Paolo, 31 ottobre

Caro Vittorio, la tua mail arriva opportuna, perché mi spinge a tornare su un tema che continua a ronzarmi in testa, ma che affronto ormai con sempre maggiore riluttanza. Per più ragioni: intanto per noia, perché sono cose che sto ripetendo da sempre: poi perché a questo punto dubito che sull’argomento ci sia ancora una effettiva possibilità di confronto; infine perché mi trovo a sostenere una causa che con uno straordinario ribaltone è stata fatta propria dal “pensiero di destra”, sia pure con tutte le ambiguità e la smaccata strumentalizzazione che lo caratterizzano. Mi riesce allora difficile mantenere chiari i distinguo, soprattutto se la controparte “di sinistra” ragiona per slogan ideologizzanti. Dubito insomma che valga la pena insistere: ma mi hai servito un assist, e allora ci provo ancora una volta. Cercherò di farlo almeno con altre parole.

Andiamo comunque con ordine, perché nella tua missiva ci sono molte altre cose che mi solleticano.

Diversamente idioti 04Intanto i libri, a partire da quello di Tesson e dalla sua titolazione. In effetti quella francese è la titolazione più fedele al nome scientifico del leopardo, che è Panthera uncia. Ma sul piano pratico, dato che il genere panthera comprende tutti i più grandi felini, dal leone alla tigre, al leopardo, al giaguaro, si prestano molto meglio all’identificazione spicciola i nomi comuni affibbiati alle varie specie. Tant’è che in inglese, in tedesco, in spagnolo, sempre leopard o leopardo rimane. Ora, uno penserebbe che i francesi, che vantano un grande naturalista come Buffon, abbiano mantenuto la terminologia scientifica (sia pure parziale, perché ad esempio quella completa del leopardo delle nevi è appunto Panthera uncia, e gli è stato riconosciuto lo status di panthera solo da poco: prima era uncia e basta) per puro spirito di esattezza, ma non è così. Sai benissimo che appena possono i nostri cugini rivendicano una totale autonomia culturale, rifuggono dalla globalizzazione linguistica e chiamano ad esempio ordinateur quello che in tutto il resto del mondo si chiama computer. Nel nostro caso tecnicamente hanno ragione, ma rischiano di creare confusione sul piano comunicativo, perché panthera definisce solo il genere, e non identifica la specie. Voglio dire che di primo acchito panthère des neiges potrebbe essere tradotto anche con leone delle nevi, tigre delle nevi, ecc. Allora, queste sottigliezze linguistiche possono sembrare assolutamente irrilevanti e pedantesche, ma a mio giudizio un loro rilievo lo hanno, e non solo per pignoli rompiballe come siamo tu ed io: l’imprecisione linguistica moltiplica in maniera esponenziale la confusione mentale già esistente: si parte dalle pantere e si arriva inevitabilmente a Babele.

Diversamente idioti 05Quanto a Thesiger, in effetti anch’io sono stato frastornato dal suo continuo andirivieni da un luogo e da un popolo all’altro. E sono rimasto interdetto davanti alla freddezza con cui ad esempio scrive, a chiusura di un capitolo, “Dopo cena sono uscito e ho ucciso un leone”. Va bene l’understatement inglese, e qui senz’altro Thesiger ci gioca, ma povera bestia, almeno gratifica la sua morte di un minimo di pathos. Per converso, lo stile british, asciutto, spocchioso, determinato fino al limite della cocciutaggine (oggi si direbbe “politicamente scorretto”), in realtà mi piace. Guarda con quale supponenza tratta gli italiani, e che ammirazione tributa invece ai dancali, agli etiopi, alle tribù più feroci dell’Abissinia. Potrà dare fastidio, ma non concede nulla alle “convenienze” o alle aspettative del lettore. C’è coerenza assoluta nel suo atteggiamento: il che non significa non cambiare mai idea, e quindi scadere nell’imbecillità, perché ad esempio nei confronti di alcuni popoli, o di alcuni personaggi, Thesiger la cambia eccome: ma le esperienze, le conoscenze o le constatazioni nuove le rubrica sempre con lo stesso stile. Per questo la ritengo una buona autobiografia: se c’è dell’autocelebrazione, e c’è senza dubbio, viene fatta scorrere tra le righe. In superficie c’è una narrazione secca, da viaggiatore medioevale.

E arrivo finalmente al tema che più mi interessa, quello cui accennavo prima. Mi limito in verità ad un abstract, perché l’argomento è complesso e scivoloso, e non può essere sviscerato in una mail. Ti anticipo comunque che il discorso non riguarda solo Fred Vargas. La Vargas, o come cavolo si chiama, può essere apprezzata o meno come giallista (personalmente non mi entusiasma), ma è senz’altro il perfetto esempio di una curiosa (e molto diffusa) tipologia umana. Applicando la tassonomia linneana la classificherei nella famiglia degli “antioccidentalisti”, nel genere “d’occidente”, nella specie “di sinistra (o orfani della rivoluzione)”. La caratteristica di fondo di questa tipologia è l’odio di sé che molti occidentali (e segnatamente quelli “più a sinistra”) hanno sviluppato, un po’ come si dice degli ebrei. Questo odio, questo “auto da fé” viene poi declinato in tutte le salse: politica, religiosa, filosofica, tradizionalista, progressista, ecc. Quella degli antioccidentalisti è infatti una famiglia molto allargata, che ultimamente ha trovato una sua nicchia ideologica nella post-modernità ma che ha un albero genealogico lungo e ramificato come quello degli Asburgo. E come tutte le famiglie che si rispettano si divide sulle opinioni e sulle aspettative, alcune almeno in apparenza diametralmente opposte, ma si ricompatta poi su una comune conclusione: che la civiltà occidentale, nel suo assieme o quantomeno a partire dalla modernità e dall’ illuminismo, è da buttare.

Occorre però distinguere l’odio di sé di cui parlo dall’occidentofobia che sta dilagando in tutto il mondo, in particolare in quello musulmano. In quest’ultima si combinano rancori di origine storica, (l’anticolonialismo e l’antimperialismo), rivendicazioni di specifiche identità culturali (ad esempio la Cina) e discutibili “risvegli” religiosi (l’islam e l’ortodossia russa): nella sostanza poi quello che ci sta dietro è uno scontro per la futura egemonia mondiale, orchestrato dai nuovi imperialismi militari ed economici. Gli interessi dei diversi attori sono decisamente contrastanti, ma per il momento sono tenuti assieme dalla identificazione di un avversario comune.

Diversamente idioti 06

Ti chiederai cosa c’entra tutto questo con la Vargas e con Battisti. C’entra eccome, anche se per stabilire la connessione occorre fare un giro largo (e non è questa la sede).

Gli anti-occidentali nostrani, infatti, non sono mossi dall’aspirazione a una rivincita, ma covano rancore per una profonda delusione. Che ha motivazioni diverse. Quelli “di destra” sono delusi perché l’ordine gerarchico che considerano naturale (la società tradizionale) è stato stravolto, quelli “di sinistra” perché quell’ordine non è stato rivoluzionato abbastanza. Nei primi c’è di fondo una concezione egoistica, conflittuale, dell’uomo: vale la legge del branco, nel quale emergono quelli fisicamente o intellettualmente più dotati e a ciascun individuo è assegnato un ruolo preciso, funzionale alla sopravvivenza e alla perpetuazione della “comunità”. A loro giudizio la responsabilità maggiore per lo sfaldarsi della società tradizionale è da attribuirsi al monoteismo (da cui l’antisemitismo e l’interesse per il paganesimo e le società politeistiche orientali).

I secondi sono invece eredi della convinzione rousseauiana che in origine la “natura umana” fosse buona, pacifica e altruista, e che il suo “lato oscuro” sia stato creato o almeno portato allo scoperto da un progressivo condizionamento ambientale (la cosa vale per l’intera umanità ma anche per ogni singolo individuo: in altre parole, nessuno nasce carogna di suo, e se lo diventa è colpa “della società”). Hanno nostalgia, insomma, del “buon selvaggio” e del paradiso terrestre che avremmo perduto per colpa del prevalere di una “ragione calcolante”, asservita alla pura crescita economica, individuale e collettiva. Le grandi imputate della deriva occidentale sono pertanto nel loro caso la scienza e la tecnica, dalle quali si generano gli strumenti politici, sociali ed economici del dominio. In sostanza, quali che siano le cause indicate, sia per gli uni che per gli altri i risultati della civiltà occidentale sono l’individualismo, la rottura con la natura, la volontà sfrenata di potenza, il capitalismo, l’imperialismo, il colonialismo, lo sfruttamento, etc., fino ad arrivare al disastro ambientale.

Le cose ovviamente non stanno così. In natura l’unica legge comune, al mondo animale come a quello vegetale, è quella della sopravvivenza, individuale o specifica. I mezzi per garantirsi quest’ultima sono la sopraffazione, nei confronti della natura o dei propri simili, o la cooperazione: la via che viene scelta dipende poi senza dubbio anche dalle condizioni ambientali o storiche. Ma l’egoismo o l’altruismo non sono iscritti in una “natura umana primordiale”, sono frutto di selezioni attitudinali verificatesi nel corso dell’evoluzione. E la selezione non agisce secondo i criteri di buono e di cattivo che noi abbiamo “culturalmente” elaborato, ma secondo quelli naturali dell’utile o del dannoso. L’idea di una natura buona corrotta poi dal progresso, dalla tecnica, dalle stratificazioni sociali, ecc …, è puramente consolatoria, serve soltanto a distrarre l’attenzione da una realtà di fatto che non vogliamo accettare: siamo animali e ci comportiamo, in linea di fondo, come tali. Ed è anche un’idea decisamente incoerente, perché predica il ritorno alla natura e nel contempo nega le leggi di natura. Per questo, se le cose non vanno come vorremmo in base a ciò che incoerentemente crediamo, dal momento che la nostra mente ha elaborato anche il concetto di causalità (ogni effetto ha una causa) dobbiamo responsabilizzare qualcuno, trovare un capro espiatorio.

Diversamente idioti 07

E qui tornano in ballo la nostra amica Vargas e il suo amico Battisti, ma entrano in scena anche altre vicende, molto più recenti, e altri protagonisti. Il rancore dell’occidentale occidentofobo di sinistra si esprime nella ribellione contro una civiltà che considera corrotta e colpevole di ogni sopraffazione, interna o esterna. Questa ribellione può rimanere su un piano puramente intellettuale di appoggio o scendere su quello pratico della violenza, e nel secondo caso l’ambiente intellettuale fornisce il brodo di coltura, le motivazioni e le giustificazioni, mescolando in un confuso coacervo la lotta di classe, le avanguardie rivoluzionarie, la sollevazione dei popoli non occidentali, il terrorismo ecologico o quello puro e semplice, ecc… In questo bailamme Cesare Battisti, un delinquente senza scrupoli e senza un briciolo di dignità, assurge a limpida figura di “resistente”, come colui che ha combattuto le storture della civiltà occidentale scientista, industrialista, capitalista, pseudo-democratica: e Hamas, un branco di scannatori allevati nell’odio, a simbolo della legittima resistenza contro l’avamposto del male. Quando dici che le dichiarazioni della Vargas la qualificano come un’imbecille hai perfettamente ragione, ma la sua imbecillità non è solitaria: l’appello del 2004 che tu stesso mi hai segnalato, dove si inneggia a Battisti come “uomo onesto, arguto, profondo, anticonformista … un intellettuale vero …” che ha operato “una straordinaria e ineguagliata riflessione sugli anni Settanta” è stato firmato dal fior fiore degli anticonformisti nostrani e d’oltralpe: Agamben, naturalmente, e Nanni Balestrini, Pennac e Cacucci, Loredana Lipperini e Christian Raimo, Massimo Carlotto e Gianfranco Manfredi, e un sacco d’altri. L’unico che a posteriori ha ritirato la sua firma è Roberto Saviano, che aveva firmato a quanto pare a sua insaputa, come i proprietari di attici prospicienti il Colosseo: “Mi segnalano la mia firma in un appello per Cesare Battisti …”. Il livello è questo.

Vedi, tu parli nella tua missiva di personaggi, Tesson e Thesiger, che sono rimasti fedeli alle loro idee per tutta la vita. Noi stessi, tu ed io, non siamo particolarmente flessibili per quanto concerne i nostri convincimenti. Ma come i due che tu citi abbiamo imparato dalla vita stessa che un conto sono le idealità, che possono indirizzare la nostra esistenza ma responsabilizzano e mettono in gioco solo noi stessi, e che in questo modo dal confronto con la realtà non possono mai uscire sconfitte, e un conto sono le ideologie, che invece tirano in ballo tutti gli altri, e finiscono solo per deresponsabilizzarci nei loro confronti e scaricare su di loro i nostri insuccessi. Come avrebbe detto Totò, chi persegue delle idealità è un uomo, chi si trincera dietro le ideologie è un caporale.

Non mi sembra però il caso di tirare ulteriormente in lungo quello che minaccia di diventare un comizio. Mi riservo semmai di argomentare più diffusamente le mie idee in una trattazione futura (in realtà ho già tentato di farlo ne La discesa dal Monte Analogo, ma ne è venuto fuori un pippone noiosissimo). Tu nel frattempo, vincendo una più che giustificata ripugnanza, prova a seguire fino a quando lo stomaco ti regge gli attuali dibattiti televisivi sulla vicenda israelo-palestinese, o fai un giro sul web cliccando semplicemente le voci Hamas, Gaza, Palestina, ecc … Capirai il mio imbarazzo, a trovarmi a condividere almeno in parte le opinioni di figuri come Capezzone o addirittura Paragone, e a dover sopportare le ambiguità o la cretineria palese di chi in nome di una “sinistra” viscidamente pacifista chiude gli occhi davanti all’ evidenza. Oppure, meglio, rileggiti un buon saggio su questi temi, ad esempio l’Elogio dell’Occidente di Franco La Cecla (Elèuthera 2016). Potrai farti un’idea molto chiara di ciò di cui sto parlando.

Ci risentiamo presto, spero.

Errare per necessità

di Fabrizio Rinaldi, 14 agosto 2023

Anni fa lessi la raccolta di racconti di Jürg Federspiel intitolata L’uomo che portava felicità, in cui erano tratteggiati dei personaggi incapaci di andare oltre i propri limiti, di comunicare il proprio vissuto. Immediatamente mi immedesimai nell’ussaro che, dopo la sconfitta subita ad Austerliz del 1805 contro i francesi, vagava nelle campagne innevate, alla ricerca del paese dove ritrovare ciò per cui aveva combattuto e perso.

Sono passati decenni, ma ancora oggi quella figura ieratica e solitaria che cavalcava sul lago ghiacciato, nella nebbia e incurante dei popolani che dalla costa lo avvertivano del pericolo di sprofondare, mi sta a pennello. Sarà tardo-romantica, sarà interpretabile in vari modi, ma mi ci riconosco ancora oggi.

Errare per necessità 02 L'uomo che portava felicità

Il mio non è snobismo nei confronti di una società che è diversa da come la vorrei: rivendico però almeno il diritto di non schierarmi da una parte o dall’altra, perché intravedo più torti che ragioni in tutte le posizioni che mi sono proposte. E invece, in sostanza, è questo ciò che viene richiesto: parteggiare sotto un vessillo, quale che sia; guardarmi dal manifestare un sacrosanto disinteresse; meno che mai dal coltivare un pensiero differente. Questo nessuno me lo chiede. Sembra che a pensare, anche a nome mio, siano deputati altri. Tutto ciò non mi appartiene. Tutto qui.

È pur vero che ho delle preclusioni a pelle, per cui di fronte a particolari situazioni i pori della cute si chiudono a qualsiasi dialogo: ammetto di non riuscire a comprendere idee e azioni di personaggi come Berlusconi (pace all’anima sua, ma non ai suoi imitatori, Renzi compreso), Salvini, Meloni, ecc …, con tutte le loro corti di politicanti, imprenditori, banchieri e faccendieri. Se anche dicessero e facessero cose condivisibili (tranquilli, non capita), rappresentano comunque l’antitesi del mio modo di pensare e vivere.

Ma anche con gli altri, l’empatia è decisamente bassa. Sembra che il loro gioco preferito sia quello di farsi le scarpe a vicenda e di attendere gli scivoloni altrui. Una guerra di logoramento che consuma soprattutto chi la conduce.

Errare per necessità 03

La schiacciante vittoria di Napoleone durante la battaglia di Austerliz confermò il predominio della Francia sulle potenze europee e la fine del secolare Sacro Romano Impero, con tutto ciò che rappresentava. Di qui lo smarrimento del mio ussaro, ma anche la sua volontà di ritrovare un senso, una causa in cui credere.

Oggi non c’è un Napoleone capace di mettere a soqquadro la società come si è evoluta nei secoli: chiunque vada al potere, tutto procede immutato (ovvero viaggia verso il disastro), mentre dilaga un individualismo incosciente e miope, per cui ogni singolo non riesce a vedere al di là di quelle che sono le sue immediate (e tutt’altro che naturali) esigenze.

Come lo scontro avvenuto ad Austerliz divenne volano per enormi cambiamenti politici e sociali, gli avvenimenti degli ultimi anni (dall’11 settembre alla guerra in Ucraina, dalle crisi economiche a quelle climatiche e – non ultima – quella sanitaria conseguente al Covid), avrebbero dovuto imporre drastici cambi di rotta, persuaderci a mettere in discussione i modelli sociali e i sistemi di relazione, a cercare di capire come potremmo sopravvivere senza annientarci. Invece rimaniamo scientemente immersi in un mare di futilità, fingiamo di non renderci conto della situazione in cui ci siamo cacciati, o l’accettiamo rassegnati, evitando di affrontare quella che non è più una remota eventualità, ma una minaccia imminente: la sostanziale estinzione del genere umano.

Mi si potrebbe obiettare che non è vero, che, se le classi politiche di tutto il mondo sono cieche e sorde, esistono però movimenti (come quello di “Ultima Generazione”) nati proprio da questa consapevolezza, che cercano di focalizzare l’attenzione su questo tema. Ma io mi riferisco a prese di posizione serie, fondate su una riflessione storica e sociale approfondita, non finalizzate solo alla visibilità mediatica: di proposte concrete che tengano conto, ad esempio, che la stragrande maggioranza della popolazione mondiale è già impegnata quotidianamente nella lotta per sopravvivere e quindi ha priorità diverse dalle nostre. Richiamare l’attenzione va bene, è necessario (anche se sulle modalità ci sarebbe da discutere), ma una volta che la si è ottenuta occorre avere qualcosa da proporre. Altrimenti tutto si risolve di volta in volta in girotondi, sardine più o meno in scatola o venerdì futuristi, che fanno dire “che bravi questi nostri ragazzi” e offrono momenti di folklore a una tivù onnivora e di eccitazione effimera ai media digitali, ma non progrediscono nella ricerca di soluzioni perseguibili.

Errare per necessità 05

In fondo la dopamina assunta attraverso l’uso compulsivo dei social, ci fa credere che ciò che affermiamo siano verità indiscutibili e condivise da molti. Nulla è più sbagliato perché le certezze non sono mai incontrovertibili, specie in un mondo in cui il ghiaccio sociale che calpestiamo si sgretola non solo per la “febbre” del pianeta, ma per i diritti sociali, i principi morali e gli sviluppi economici, tutti diventati precocemente avariati.

Pure la convinzione di una eterogeneità di pensiero è una chimera che si infrange contro la repentina mobilità d’opinione, senza particolari afflizioni o ripensamenti, rimpianti o rimorsi. È il gioco delle parti che impone un compulsivo cambio di casacca. Affermare convintamente oggi una cosa e domani l’opposto senza colpo ferire, è l’attestazione più potente della società destracentrica che viviamo (ma purtroppo non solo da quella parte lì). In fondo abbiamo appurato che Ruby Rubacuori è la nipote di Mubarak!

Errare per necessità 04

Ciò che vedo è che, mentre ad ogni scroscio di pioggia vengono giù le montagne e se non piove vanno a fuoco i boschi, non c’è alcuno sforzo di responsabilizzazione individuale: continuiamo a chiedere a parlamentari e a “managers” (impegnati a difendere i loro stipendi e profitti) di farsi carico del futuro nostro e del pianeta, ma in realtà badando a non sconvolgere le abitudini al consumo. Non mi pare che qualcuno sia in realtà disposto a rinunciare autonomamente a qualcosa.

Questo non significa che io abbia in mente delle soluzioni e sia in grado di metterle in pratica, almeno a livello individuale: ma so che non le ha nessuno, e soprattutto che nessuno sembra aver davvero intenzione di cercarle.

Rifiuto quindi di schierarmi sotto qualsiasi bandiera, per difendere la mia possibilità di “errare” convintamente, nel duplice senso di muovermi alla ricerca – magari sbagliando – e di confondermi, riprovando pure. Questa, a breve, lungo e lunghissimo termine resta la mia scelta per tollerare l’effluvio di inadeguatezza e incertezza che mi impregnano il cappello e il pennacchio rosso d’ordinanza.

Non voglio attendere l’arrivo della Waterloo per qualcuno. Anche perché ciò si ripete ormai ogni giorno e ne usciamo tutti egualmente sconfitti. Meglio allora rimanere ben ancorato alle briglie del cavallo e procedere senza sosta e ripensamenti, con passo spedito, affinché il ghiaccio sotto i piedi non si frantumi.

Alla via così, cercando “un paese. Un paese come il mio. Ho tutto il tempo al mondo, per trovarlo. Tutto il tempo al mondo”.

Magari non proprio tutto, ma un po’ ancora sì.

Collezione di licheni bottone

Prendi tre paghi uno

di Vittorio Righini, 23 giugno 2023

Anticipiamo la segnalazione libraria di Vittorio Righini per il mese di Luglio, nella certezza di offrire agli amici che ci seguono l’occasione di una piacevolissima lettura estiva. Vittorio ha un fiuto eccezionale per i piccoli gioielli che passano nel nostro ingolfatissimo panorama editoriale quasi inavvertiti: questo perché prima ancora del libro ama la sua scoperta, la ricerca e il ritrovamento. E sa come e dove cercare. Non aspetta le occasioni (il tre per uno): le crea. Come in questo caso.

La tipica formula da supermercato economico, ma in questo caso si riferisce a un libro che ho appena terminato, e che in realtà è composto da tre parti.

La prima parte è un magnifico libro di viaggio, La Strada dorata, nel miglior stile della letteratura inglese del genere, 220 pagine sull’esplorazione dell’Asia Centrale dal 1937 al 1939, con base Mosca e con tutti i relativi problemi della libertà di movimento nel triennio peggiore in URSS, quello delle purghe Staliniste e del terrore negli alti ranghi del potere moscovita.

L’autore lavora per il Ministero degli Esteri inglese, accreditato all’Ambasciata inglese a Mosca.

Di famiglia scozzese di alto rango (il primo tartan depositato è quello della sua famiglia), divenuto negli anni amico di Churchill, poliglotta, Maclean è più un curioso esploratore che un’agente speciale (cioè una spia). Quasi sempre scortato da uno o più agenti del NKVD, il Commissariato Popolare per gli affari interni sovietico, riesce spesso a eludere la sorveglianza, e visita la regione caucasica in un’epoca ostica agli stranieri. La racconta con semplicità e completezza, una chiarezza esemplare e anche con un certo umorismo. Uzbekistan, Khirghizistan, Kazakhistan, Azerbaijan, Georgia e altri che dimentico sono alcune delle tappe dell’autore. Questa prima parte lo colloca tra Peter Hopkirk e Patrik Leigh Fermor, proprio nel mezzo.

Prendi tre paghi uno 03

A pagina 221 ci si inoltra nella Sabbia d’Oriente, 100 pagine di guerra nel deserto, un anno di vita nel deserto, prevalentemente in Egitto, perché la base operativa degli Alleati è sempre stata Il Cairo. L’autore racconta, nella sua posizione di Capitano della SAS (lo Special Air Service, creato da David Stirling insieme ad alcuni ufficiali, tra cui il nostro), dei tentativi di incursioni sulla costa mediterranea dell’Egitto, in particolare a Bengasi e nelle oasi. Nonostante i risultati di queste incursioni non siano rilevanti, per non dire un mezzo fallimento, il racconto della vita nel deserto vale il libro. La mancanza di grandi successi militari e l’ambientazione mi ricorda Evelyn Waugh e la sua trilogia di guerra, ma questo scozzese riesce a scrivere in modo più immediato e più pragmatico, senza nulla togliere al pathos dell’azione. Waugh si sarebbe dilungato enormemente su un argomento simile (Waugh che, alla fine del libro, scopriremo essere un assistente del nostro scozzese, divenuto nel frattempo Generale nella ex-Jugoslavia).

Il nostro non si vanta, non è un Peter Fleming che si specchia nella bandiera inglese, nemmeno uno che si lamenta come Waugh. Scrive che il suo fallito attacco al porto di Bengasi, almeno, è riuscito a far spostare delle truppe italo-tedesche dalla zona dove l’Ottava Armata di Montgomery era maggiormente concentrata a preparare El Alamein.

Prendi tre paghi uno 04

La terza parte del libro è la più consistente, Guerra nei Balcani, 300 pagine nelle quali si esamina prima la storia della ex-Jugoslavia, poi l’invio del nostro (prima Colonnello, poi Generale) al quartiere generale di Josip Broz (detto Tito, perché in lingua slava ti-to, ti ta cioè  “tu fai questo, tu fai quello”, era il tipico commento del Maresciallo, che così si prese il soprannome). Io avevo, tra le tante lacune, in particolare quella della storia nei Balcani, e questo libro mi ha veramente chiarito moltissimi dubbi. Il nostro resta diciotto mesi, e si vede regolarmente con Tito, col quale instaura un rapporto di rispetto e di fiducia, e racconta molto del carattere di un personaggio molto discusso ai tempi ma anche molto poco conosciuto. Questa terza parte è un libro a sé stante, che anche da solo avrebbe meritato l’acquisto. L’unico vero difetto è che l’autore è troppo gentiluomo per dimenticare di citare qualcuno, anche un’umile inserviente, così la narrazione si riempie di nomi e cognomi soprattutto inglesi. Lettura consigliata insieme a un atlante (o a un computer con maps) per seguire gli spostamenti da località a volte totalmente sconosciute, almeno a me.

Prendi tre paghi uno 02FOTO COPERTINA: Passaggi a Oriente, di Fitzroy Maclean, Neri Pozza nella collana “Il Cammello Battriano”. Prima pubblicazione inglese: 1949; prima stampa italiana 2002.

Un breve click a proposito della mia copia: l’ho comprato perché lo aveva segnalato come un gran libro Roger Deakin; difficile da reperire, finalmente ne scovo una copia sulla baia, e le spese di spedizione sono ingenti. Poi guardo l’indirizzo del venditore: Castellazzo Bormida! Il mattino dopo sono in piazza a Castellazzo a ritirare il libro, pure scontato! Se non è fortuna questa.

Può una nuova traduzione arricchire un libro?

di Vittorio Righini, 1 giugno 2023

Può, certo. Ma non solo perché è migliore di un’altra. Se prendiamo ad esempio libri in lingua inglese, la principale lingua nel mondo (ma anche in quella francese, molto utilizzata), abbiamo l’imbarazzo della scelta tra tanti eccellenti traduttori italiani. Possiamo così valutare chi ci convince di più nella interpretazione di un testo classico, ma anche di un grande racconto di viaggio. Naturalmente questa capacità presuppone una conoscenza ben più che scolastica dell’inglese (o del francese). E questo vale altrettanto naturalmente anche quando si affronta la lettura del testo originale.

Io ho letto diversi libri in lingua inglese, ma ho sempre avuto l’impressione di perdermi qualcosa. Quando non capivo mi rifugiavo nei dizionari (una volta), e oggi, grazie alla tecnologia, mi aggrappo al web: rimango però sempre dell’idea che nel leggere in una lingua che non sia quella madre, almeno per quelli come me, spesso si perdono sfumature importanti. Ma non solo: se il libro che sto leggendo è un poco obsoleto (i libri tradotti dall’inglese che leggo io sono prevalentemente del secolo XX o più vecchi), a volte mi ritrovo con dei dubbi sull’interpretazione di quello che leggo.

Con le traduzioni i problemi sono altri. Quelle vecchie dall’inglese (diciamo quelle fino a metà del ‘900) sono spesso laboriose, a volte un po’ troppo pretenziose, a volte uno specchio del traduttore, a volte troppo British. Invece le nuove traduzioni, quelle della seconda metà del Novecento, sono molto più pragmatiche e realistiche, soprattutto nel settore della narrativa di viaggio. Così è anche per i vecchi libri in francese, che per quanto appaia più simile al nostro dialetto rispetto alle astruse disfonie linguistiche degli anglosassoni, resta una lingua che nasconde comunque molte insidie.

Comunque, ripeto, i problemi sono di altro tipo. Faccio un esempio: se voi, come penso tanti italiani, avete letto in passato Zorba il greco di Nikos Kazantzakis, sarete incappati nell’unica versione Italiana, uscita la prima volta nel 1955 con la traduzione – DALL’INGLESE – di Olga Ceretti Borsini. Quello c’era: una buona traduzione, s’intende, ma non dalla lingua madre. Il romanzo era stato pubblicato ad Atene nel 1946, ma ha avuto risonanza internazionale soprattutto grazie al film di Michali Cacoyannis e alla magistrale interpretazione di Antony Quinn, nel 1964. Si intitolava originariamente Vita e imprese di Alexis Zorbas, e a dire il vero in patria fu quasi ignorato: ma nel 1954 venne riscoperto in Francia ed esaltato come miglior libro straniero. Ecco quindi arrivare l’anno successivo la versione italiana, con il titolo semplificato di Zorba il greco, ma di seconda mano, perché basata sulla traduzione in inglese. Mondadori ha poi ripubblicato il romanzo nel 1966, negli Oscar, con la medesima traduzione, e io quello ho letto anni addietro, e riletto di recente.

Può una nuova traduzione arricchire un libro 02Ma qui comincia un’altra storia. Ad Atene, nel 2007, le edizioni Kazantzakis pubblicano il testo definitivo in greco, con il titolo abbreviato, Zorba il greco, utilizzato sia per il film che nel mercato internazionale.  Qualche anno dopo viene incaricato della traduzione in italiano il grecista Nicola Crocetti, nato a Patrasso nel 1940 da padre italiano e madre greca, residente a Milano da tantissimi anni, fondatore della Crocetti Editore, che tanti importanti libri di ispirazione balcanica (e non) ha pubblicato.

La Crocetti è sempre stata una piccola casa editrice, con limitate capacità di stampare tutti i titoli interessanti che arrivano da quelle aree, ma che si è sempre barcamenata decentemente. Poi, grazie al recente e fortunato incontro tra il titolare e il cantante Jovanotti, e la pubblicazione di un libro di quest’ultimo (Nicola Crocetti / Jovanotti – Poesie da spiaggia, maggio 2022), entrato subito nella top ten con molte decine di migliaia di copie vendute (caso più unico che raro, in Italia, per un libro di poesia), la piccola casa editrice ha ricevuto una iniezione di fondi coi quali ha potuto lanciare titoli davvero importanti che sino ad ora aveva tenuto nel cassetto, e, soprattutto, ha destato l’interesse dei giganti dell’editoria.

Recentemente ho quindi potuto leggere in quelle edizioni Addio Anatolia di Didò Sotiriù, considerato il libro “nazionale” greco, che racconta attraverso la storia di una famiglia la cacciata dei greci dalla attuale Turchia e la fine dell’ellenismo in un vastissimo territorio, dopo migliaia di anni; è stato definito il Guerra e Pace greco. Ho letto anche Capitan Michalis, Rapporto al greco e La mia Grecia, sempre di Nikos Kazantzakis, non tutti capolavori ma degni di lettura; Madre di cane di Pavlos Matesis, storia nuda e cruda di una madre greca che si adatta alla guerra grazie anche alla convivenza con un militare italiano invasore che le permette dignitosamente di sopravvivere; Tre Estati di Margarita Liberaki, il racconto del passaggio dall’adolescenza di tre sorelle in un tranquillo quartiere di Atene nella prima metà del Novecento. Ora ho in programma Il Lago, di Kapka Kassabova e Il Tredicesimo Passeggero di Ghiannis Maris, considerato il padre del romanzo poliziesco greco. E molti altri titoli si possono trovare sul sito http://www.crocettieditore.it, anche di autori non necessariamente greci o balcanici.

Nicola Crocetti cura inoltre da anni la rivista Poesia, il suo grande amore, che è di nicchia ma molto apprezzata dalla critica. Copio e incollo da Pangea: «Da sempre, Nicola Crocetti lavora perché la poesia sia per tutti. D’altronde, è un editore, non si è mai sognato – vezzo comune – di scrivere versi. Al contrario, ha tradotto moltissimi versi altrui. Per questo – lui direbbe: “suscitare un putiferio, cogliere tutti di sorpresa, incantare” – ha fondato una rivista di poesia, Poesia, l’ha voluta in edicola, a prezzo popolare, sbattendo il viso del poeta “in prima pagina”. Chi conosce Crocetti non ritiene un’incongruenza la sua corroborante schifiltosità – non sopporta la falsa poesia, l’incultura, la modestia verbale, la mancanza di disciplina – con la necessità di divulgare la poesia. Ha fede nella poesia a prescindere, è la sua ortodossia; a più di ottant’anni la sua giovinezza è ormai un canone, non ha nulla da perdere, nulla ha, evviva. Putiferio, sorpresa, incanto: parole che indicano una strategia, una poetica; sembra ovvio, a Crocetti, che un grande poeta sia un grande uomo, soltanto i miseri, d’altronde, possono spendere tempo per scrivere brutti versi».

Crocetti, nel 2019, ha poi dato alle stampe il gigantesco poema Odissea di Kazantzakis, 33.333 versi, da lui tradotto in molti anni di lavoro, e che riprende da un Ulisse annoiato a casa (Penelope si era troppo abituata a tessere?) e desideroso di nuove avventure, stavolta senza meta e senza fine; infine, nel 2020 – ed è qui che il cerchio si ricongiunge e arrivo dove volevo approdare – ha terminato finalmente la traduzione della versione integrale di Zorba. Nello stesso anno, Crocetti riceve un’offerta da Feltrinelli che gli garantisce, oltre alle dovute retribuzioni, la diffusione nazionale della rivista Poesia, diventata bimestrale e distribuita in libreria con la conseguente valorizzazione della piccola casa editrice milanese.  Feltrinelli apre inoltre a Crocetti l’accesso a molti autori, tra cui Ghiannis Ritsos, Rainer Maria Rilke, Mariangela Gualtieri, Adrienne Rich, Alejandra Pizarnik, Giorgos Seferis, Costantino Kavafis, Thomas Bernhard, Edna Sant Vincent Millay, il Nobel Odysseas Elitis e Nikos Kazantzakis: in cambio ottiene, con vari altri lavori, la prima traduzione in lingua italiana appunto dell’Odissea kazantzakisiana (considerata, almeno in Grecia, la singola opera letteraria più ambiziosa del XX secolo) e, appunto, la nuova edizione di Zorba tradotta da Crocetti.

Ecco dunque che nella collana “2 libri a € 9,90” compare nelle librerie Feltrinelli, a inizio 2023, Zorba il greco. La lettura di questa nuova edizione “definitiva” (e “definitivamente ben tradotta”) mi coglie impreparato. A volte devo confrontare il vecchio libro con questo nuovo, e le differenze si sentono, anzi pardon, si leggono. A volte son piccole sfumature, a volte ti accorgi di leggere un libro più aperto, più scorrevole, più agile e più simile al vero Zorbas come lo disegnava Kazantzakis. Ne esce un uomo libero, guidato dal carpe diem, dal “niente possiedo, nulla temo, credo solo all’istante”, che spesso comunica le sue sensazioni con la danza, perché a parole non ne sarebbe capace, o col suono del suo salterio. Per lui il denaro non conta, i preti non sono amici; e in certi punti questo libro è di una crudezza inaudita, ma sono sempre e solo l’uomo e la donna la causa di ciò. Si, anche la donna, che ha un ruolo estremamente periferico per la gente di quei tempi, ma che Zorbas, a suo modo, rispetta fino alla morte.

Può una nuova traduzione arricchire un libro 03Questo era dunque Alexis Zorbas. No, non posso dire di aver letto un nuovo libro, ma, pur conoscendo il finale, ho letto con estrema lentezza le ultime pagine.

Chissà in quante altre occasioni una traduzione non ne valeva un’altra…

Ritirate e ripartenze

I libri che non mi sono piaciuti (4)

di Vittorio Righini, 1 aprile 2023

Sylvain Tesson: uno scrittore sottovalutato. Scrivo oggi di un libro di Tesson che non mi è piaciuto, solo per trovare la scusa ed elencare tutti gli altri suoi libri, uno più bello dell’altro. D’altronde la rubrica si intitola “I libri che non mi sono piaciuti”, e devo onorare …

Il primo di febbraio 2023 è mancato all’affetto dei suoi cari Philippe Tesson, non più giovanissimo (era del 1928…). È stato un grande giornalista specializzato in teatro, editorialista televisivo di grande fama, direttore di Le Quotidien de Paris. Polemista intransigente e a volte discutibile, è stato un protagonista del giornalismo francese del secolo scorso. Ha lasciato i tre figli Stephanie, del 1969, Sylvian, del 1972 e Daphnè, del 1978. Bene, direte voi, ma qui ‘‘che c’azzecca?’’ (cit. Di Pietro, estikazzi). Beh, c’azzecca il figlio Sylvian, un cinquantunenne con una carriera di scrittore e viaggiatore di tutto rispetto, piuttosto sottovalutato in Italia ma osannato nel suo paese. Penserete, la solita grandeur, i soliti francesi pesanti da sopportare quando parlano di se stessi. Sarei perfettamente d’accordo sulla grandeur transalpina ma no, credetemi, Sylvian è veramente un grande.

L’ho scoperto molti anni addietro, con il libro: Baku, elogio dell’energia vagabonda. Un viaggio a piedi e in bicicletta dal Lago d’Aral al Mar Caspio, fino alla città costiera di Baku, poi la Georgia e la Turchia fino al Mar Nero seguendo le tracce degli oleodotti. Un viaggio che è anche un continuo interrogarsi sul valore dell’energia, sul suo significato, in qualunque forma essa si sviluppi. Mi sono piaciute le sue idee, il suo pensare, e il suo modo di rapportarsi con gli altri, non sempre semplice ma sempre esplicito.

Da quel libro ne ho poi letti altri, diciamo tutti quelli tradotti in italiano, e un paio, faticosamente, in francese. Il libro di maggior successo credo sia stato Nelle Foreste Siberiane, Sellerio, 2012, che narra un’estate trascorsa in solitudine in un capanno sul lago Bajkal, con due cani in mezzo al nulla.

Un libro ricco di riflessioni e pensieri, ispirato e interessante. Certo, nel capanno aveva una stufa a legna, con un fornello. Notevoli comforts in una località che solo per arrivarci in barca ci vuole una settimana … e niente linea cellulare, wi-fi, luce elettrica etc. etc.; se vi sembra una passeggiata, provate voi a starci un’estate, sul Bajkal; se poi vi piacciono le zanzare, allora sarete in paradiso…

Diverso invece, un libretto alcolico, è Beresina, Sellerio 2012, con l’autore che con amici compra un paio di vecchi sidecar Ural a Mosca e in piano inverno, carico di coperte e vodka, ripercorre il tracciato della ritirata di Napoleone, e il libro salta dalle sbronze giornaliere alla storia della ritirata da Mosca a Les Invalides del Bonaparte. Divertente, scorrevole, un po’ pazzo, il libro, come l’autore.

Ritirate e ripartenze 02

Beresina è l’ultimo libro del Tesson pre-incidente (anche se va in stampa dopo l’incidente); incidente che vede Sylvian impegnato a scalare una facciata di una casa, e a otto metri circa d’altezza la scivolata, la caduta e l’impatto, che per molti avrebbe significato morte certa. Invece si salva, con mesi e mesi di ospedale, cure, riabilitazioni ortopediche e fisioterapiche, e successive inibizioni in alcune delle cose che gli piacevano (il bere, su tutte, che gli causa crisi epilettiche, come si legge in Sentieri Neri). Quest’ultimo, scritto post-incidente, presenta un autore che, pur desideroso di rimettersi in moto soprattutto fisicamente, è destinato a una visione della vita più calma, più ponderata, riflessiva e interiore. Basta estremi, piccole e grandi follie, rincorse dell’impossibile. Tesson ritorna sulla terra, alla terra, con Sentieri Neri, una camminata faticosa e zoppicante da Tenda alla Normandia, con i chiodi nella schiena, la bocca storta per una paresi facciale non ancora risolta, un occhio fuori dall’orbita. Oggi i segni dell’incidente si vedono ancora, ma in modo molto più soffuso.

Ed eccoci, finalmente, al libro che non mi è piaciuto: nel 2018 esce Un’estate con Omero, con l’autore che si rifugia in una piccola stanzetta (una piccionaia, forse una piccola cappella nelle isole Cicladi) e riflette su Omero e sul suo messaggio. Se devo essere sincero, non mi sono innamorato di questo libro, che non porta nulla di nuovo. Anzi, la sua interpretazione presta il fianco ad alcune critiche. E ora sono a posto, ho denigrato quanto dovevo, e posso tornare a incensare. Infatti nel 2020 viene pubblicato in Italia La Pantera delle Nevi, e in questo caso vi copio la mia recensione del libro fatta come cliente a firma Giovanni su un sito commerciale nazionale (sono un Giovanni Vittorio, effettivamente): “Dopo un paio di libri non all’altezza, a mio modesto parere, scritti in una fase molto complicata della sua vita dopo il tremendo incidente del 2014, riconosco in questa ricerca della lentezza e della contemplazione il vecchio Tesson. Ci sono qui alcune delle sue perle, quelle frasi che hanno sempre caratterizzato questo autore, frasi da sottolineare a matita, o da riportare in un proprio taccuino. Poi, un’insolita vena romantica e nostalgica verso una donna perduta, e verso la madre. Bentornato, Sylvain, e speriamo che l’Editore si decida a stampare in italiano anche i tuoi primi libri’.’

Segnalo, per chi ama anche i libri di fotografia, lo stupendo Tibet: Mineral Animal del 2018, a firma Tesson per il testo e Vincent Munier per le foto. Un libro straordinario, costoso, ma con tutte foto in bianco e nero relative al viaggio di ricerca fotografica della pantera delle nevi, foto invernali, bianche e gelide, dettagliatissime.

Ritirate e ripartenze 03

E veniamo ad oggi: in Francia nel 2021 è uscito Un été avec Rimbaud, per ora nessuna traccia qui di una eventuale edizione tradotta. Ma Gallimard da mesi fa girare Blanc, un libro che mi interessa, ci interessa: una raccolta dei viaggi tra il 2018 e il 2021 di Tesson e Daniel du Lac, guida alpina e famoso scalatore, partendo da Mentone per tutto l’arco alpino fino a Trieste. Un viaggio all’insegna del bianco, in cui l’altitudine è la chiave della felicità. Dite che ci onoreranno di una felice traduzione italiana? mah, chi può dirlo, non ho mai capito perché traducono certi libri e certi no. E ne approfitto per ricollegarmi a quanto sopra: ho citato solo una piccola parte dei libri di Tesson, un po’ perché alcuni mi sono piaciuti meno (non ho detto che non mi sono piaciuti, ho detto che mi sono piaciuti meno – mi viene in mente lo sketch del trio comico in cui Giovanni dice: ‘‘mia mamma non sta tanto bene’’, e Giacomo corre a riferire: Aldo, la mamma di Giovanni sta male! Giovanni si incazza e ribadisce: HO DETTO: non sta tanto bene – scusate l’excursus).

Un po’ perché alcuni altri, che meriterebbero, non sono stati tradotti. (Su tutti L’Axe du Loup – De la Sibérie a l’Inde sur les pas des evades du goulag  – che si ispira a  Tra noi e la Libertà di Slawomir Rawicz, un gran bel libro che narra la fuga di 6 prigionieri da un gulag in Siberia, dei tre sopravvissuti arrivati in India, e che ha creato polemiche perché si è ritenuta impossibile la riuscita del viaggio (soprattutto da parte di Peter Fleming, che era un ricco tritapalle inglese con un poco di meglio da fare che scrivere libri mediocri e farsi gli affari altrui. Almeno suo fratello ci ha dato 007 …)

Io penso sia sempre meglio leggere il bellissimo I Fiumi scendevano a Oriente di Leonard Clark, col rischio che qualcosa se lo sia inventato, che un menosissimo ed inappuntabile diario di viaggio. E qui potrei fare alcuni esempi di autori italiani, ma non voglio scatenare una bufera. Non oggi.

Pillole contro la bibliolatria

(confessioni di un libraio expat)

di Matteo Cavanna, 5 marzo 2023

La maggior parte dei libri attuali dà l’impressione
di essere stata fatta in una giornata
con dei libri letti il giorno avanti.
(de Chamfort, Massime e pensieri)

Mi ci sono voluti due anni per desacralizzare il libro. Dico desacralizzare perché quando ho iniziato a lavorare in libreria, dodici anni fa, avevo maturato un rapporto con il libro, con l’oggetto libro, per certi versi molto simile al rapporto che si intrattiene con il sacro. Un sentimento di soggezione e fascinazione. Un rispetto sconfinato. Qualsiasi libro, di qualsiasi natura fosse, romanzo o saggio, tascabile o libro d’arte. La spiegazione che ho dato di questo fenomeno sta nel fatto di non essere cresciuto coi libri, ma di averli scoperti in ambito scolastico. Da qui, il sentimento di soggezione. La fascinazione è venuta dopo, quando durante l’adolescenza ho iniziato a leggere libri che non erano in programma. Il retaggio scolastico ha prodotto in me l’idea che i libri fossero un sistema chiuso, riservato a una categoria specifica di persone, e che non avessero a che fare con la vita. Al contrario, l’esperienza adolescenziale mi ha fatto associare al libro una forma di apertura, un mondo che avesse a che fare con la vita, in cui potevo trovare storie e personaggi che mettessero in parole ciò che sentivo in modo confuso.

Pillole contro la bibliolatria 01

Due anni. Forse sono anche pochi, non lo so. Sta di fatto che in libreria mi sono imbattuto con una realtà editoriale che funziona con altre logiche. La produzione di libri è molto alta. Pensiamo che ogni anno, il solo mese di settembre, escono in Francia cinquecento romanzi. Troppi libri. Un sistema economico articolato supporta questo flusso produttivo, dalla pubblicità ai premi letterari. Il calendario editoriale francese prevede due momenti centrali: la Rentrée littéraire, a settembre, seguita dai premi letterari e dal periodo natalizio; e la Rentrée d’hiver, il mese di gennaio. Durante l’anno, ogni settimana ci sono delle novità. Un programma così ricco potrebbe sembrare una buona cosa, per certi versi lo è anche. Ma se scavassimo un po’ più a fondo cominceremmo a storcere il naso. Per farla breve, non credo che un’ampia scelta sia sinonimo di libertà di scelta. Anzi, spesso si risolve nel suo opposto e ci ritroviamo a leggere tutti gli stessi quattro o cinque libri ogni anno.

Pillole contro la bibliolatria 02

Ho consigliato libri per anni. Sono convinto che un buon libraio sia quello che, partendo da qualche informazione, riesca a individuare due o tre titoli che possono soddisfare il lettore. Soddisfare non significa assecondare. Ho sempre considerato il tempo della lettura come un tempo carico di aspettative. Non sopporto i libri che fanno perdere tempo. Una delle massime che ho seguito durante il mio lavoro la devo a Schopenhauer, il quale sosteneva che la sola maniera per leggere buoni libri è quella di non leggere quelli cattivi. Così ho sempre indirizzato i clienti seguendo questo criterio. Seguire questo criterio significa non seguire quello della logica di mercato, tenerne conto, certo, ma non seguirla. Questo mi ha creato alcune incomprensioni con la direzione della libreria, ma anche tante soddisfazioni coi lettori. E non solo, perché i risultati commerciali alla fine mi hanno dato ragione. Ma in fondo è una battaglia persa. Vale se appoggiata da una visione, una ricerca, altrimenti si è condannati a una forma silenziosa di ostracismo.

Cominciai a leggere perché la vita mi diceva no;
la lettura invece aveva la bontà di dire si…
(Robert Walser)

Se mi chiedo a cosa servano tutti questi libri, non ho dubbi: a cercare una risposta. A trovare il coraggio di alzarsi la mattina. È la mia personale spiegazione, quella che per il momento regge ancora il rapporto che ho con i libri. Diciamo che non provo più un rispetto incondizionato per questo oggetto: mantengo un rapporto condizionato. Dipende dal loro contenuto, dalla loro qualità. Sapendo poi che il settanta per cento dei tascabili invenduti finisce al macero per recuperare la carta e produrne di nuovi, non ho più esitazioni a buttare via un libro. Al contrario, se viene fatto consapevolmente, lo trovo un atto responsabile.

Ma ne riparleremo.

Viaggi nel cuore di Creta (a piedi e senza assilli)

I libri che non mi sono piaciuti (3)

di Vittorio Righini, 1 marzo 2023

Il 27 luglio del 2007 venne pubblicato, per i paesi di lingua inglese, The Golden Step – A Walk Through the Heart of Crete. L’autore, Christopher Somerville, è un rispettabile autore di guide di viaggio (molto apprezzate soprattutto le sue Map Walks, che coprono su tutti i lati il Regno Unito, e sono sicuramente tra le più vendute ed apprezzate da migliaia di camminatori, britannici e non).

Viaggi nel cuore di Creta 01Ho una sua bellissima guida su Creta in inglese che consulto quando vado nell’isola e una sull’Irlanda (l’ho trovata in italiano). Nel 2009, per ragioni che sfuggono alla mia comprensione, dati i tempi biblici di traduzione dei libri inglesi in italiano, è uscito Lo Scalino d’Oro. Viaggio a piedi nel cuore di Creta, grazie alla EDT (siano benedetti da qualunque Dio di loro gradimento per la rapidità nel tradurre e presentare il libro).

Io colleziono libri sulla Grecia, preferibilmente in italiano (perché un po’ di inglese lo parlo, ma finché si tratta della guida di Creta non è un problema, mentre un Roumeli di Patrick Leigh Fermor in inglese, per esempio, mi occupa tempi biblici a volerlo leggere tutto).

Quindi, con gioia ho comprato Lo Scalino d’Oro pensando fosse più che altro una guida: invece mi sono ritrovato un diario di viaggio fatto col cuore, basato sulla necessità di levarsi per un paio di mesi dal lavoro e dalla routine, con la moglie che offriva il viaggio in solitario al marito alla condizione che la lunga camminata sulle creste di Creta non si traducesse in un’altra guida, ma solo in relax.

È un libro per chi ama Creta, certo, ma anche per chi non ne sa nulla e vuole solo leggere una bella storia vera: non è un romanzo e non è una vera guida, ma una esperienza. La particolarità, confermata dal Club Alpino di Creta, era che Somerville tentava per primo la traversata a piedi da solo da Creta est a ovest, per arrivare al Monastero detto appunto dello Scalino D’oro (Chrisoskalitissa), all’estremo ovest della grande isola. Somerville racconta il suo peregrinare, le genti, i luoghi, gli animali, il cibo, il vino, ma poco prima di arrivare è costretto dalla neve a scendere e fare a piedi un pezzo di costa, perché in alto non si può passare. È il primo camminatore che ha fatto il percorso, i cretesi del Club Alpino ne sono lieti, lui non se ne vanta, non è di fondamentale importanza, quel che conta è averlo fatto.

Con il libro in mano, dieci anni fa visito una piccola parte di Creta, utilizzando alcuni riferimenti al suo viaggio. Incontro un suo amico, che gestisce una taverna con camere. Gli spiego che sono lì dopo aver letto il libro, e con la voglia di salire sullo Psiloritis (Il Monte Ida), 2456 mt. soltanto, ma la montagna più alta di Creta, e la più bella. Tra me e il locandiere si instaura un’amicizia che nei giorni successivi mi renderà la vita ancora più agevole; lui mi tratta come se mi conoscesse da decenni, ceno al suo tavolo, vado a far commissioni con lui. Una sera gli chiedo, di fronte a un piatto particolare, se ha un pizzico di peperoncino. Scopro che non lo conosce, non sa cos’è. Tornato in Italia, prendo un pieghevole con fotografie delle varie specie di peperoncino, lo traduco in greco, aggiungo varie bustine di semi differenti e vari campioni freschi e pronti all’uso. Il pacchetto arriva e il locandiere mi manda una affettuosa mail di ringraziamento. Se nella zona di Thronos qualcuno oggi aggiunge del peperoncino alla carne, beh, potrei esserne responsabile.

Viaggi nel cuore di Creta 02

Nel marzo del 2017 viene editato un libro dal titolo: Rapporto a Kazantzakis. La traversata di Creta a piedi, di Luca Gianotti. Un noto sito di vendite online che tutti conosciamo lo presenta scrivendo: “Luca Gianotti ha percorso per primo l’isola di Creta a piedi in 29 giorni, camminando da Est a Ovest, attraversando le sue tre grandi catene montuose per poi camminare in riva al mar Libico”.

Naturalmente mi incuriosisco e compro il libro, che mi lascia del tutto indifferente; dello stesso autore è molto più interessante The Cretan Way, una guida in inglese dei sentieri di Creta che riporta le tracce GPS, ed è quindi certamente molto utile.

Viaggi nel cuore di Creta 03Ma tornando al Rapporto a Kazantzakis, nella bibliografia noto che il libro di Somerville è citato come tutti gli altri, ma solo nella versione in inglese del 2007. Mi permetto allora di scrivere all’autore, che cura un sito dedicato ai cammini e organizza viaggi a pagamento con accompagnatore per escursioni a piedi in molte località italiane ed estere, facendogli notare che il libro di Somerville è disponibile dal 2009 anche in italiano, e che avendo l’inglese fatto per primo questo cammino sarebbe giusto riportare nel sito anche questa informazione.

Apriti cielo: l’autore mi risponde che il primo ad aver fatto il cammino per intero è lui; Somerville verso la fine è sceso e per 10/15 km. ha camminato sulla costa e poi è risalito. Cosa che sapevo benissimo anch’io, ma quando c’è andato Somerville c’era la neve e sono stati quelli del Club Alpino locale a sconsigliare fortemente l’inglese a procedere nell’ultimo tratto (per evitare rischi a se stesso e anche ad eventuali soccorritori), mentre quando è andato Gianotti la stagione era differente.

Ho un carattere puntiglioso, e ho risposto a mia volta che quello mi sembrava un atteggiamento non corretto verso Somerville: ottenendo solo di essere tacciato di vedere il male ovunque. Quando sento queste risposte mi chiudo, e ho quindi immediatamente interrotto ogni rapporto epistolare con questo signore.

Nemmeno ho scritto a Somerville per dirgli che avevo fatto il paladino per la sua giusta causa … ho immaginato che all’inglese non poteva fregar di meno su chi è arrivato uno e chi due …

Ora, se qualcuno obietterà che vado cercando il pelo nell’uovo, stavolta avrà ragione. Ma io credo che la correttezza intellettuale, che è poi senza tanti giri di parole correttezza etica, vada salvaguardata già a partire dalle cose piccole e apparentemente futili. Altrimenti, come dicono quei mattacchioni dell’Accoglienza ligure, si comincia col fare il pesto con le noci e si finisce a letto coi consanguinei. O a fare escursioni a pagamento con accompagnatore.

Rumiz versus Boatti o Boatti versus Rumiz?

Nessuno dei due

I libri che non mi sono piaciuti (2)

di Vittorio Righini, 1 febbraio 2023

Un recente giorno d’estate chiacchieravo di libri con due amici al bar, un bicchiere di vino rosso in mano; caso più unico che raro, tutti e tre appassionati di narrativa di viaggio. Il ricercare questi libri porta alla conoscenza di autori che non sono solo e necessariamente scrittori di viaggio, prima di tutto perché la narrativa di viaggio, per essere efficace, comprende la Storia, con la S maiuscola. Nella loro bibliografia, questo tipo di autori ha titoli validi ed importanti di ben altro genere.

Un esempio italiano è Paolo Rumiz: dopo averlo conosciuto anni addietro con Tre uomini in bicicletta (con Altan e Rigatti, da alcuni considerato un ‘’libercolo’’, invece gentilissimo approccio a temi, problemi e luoghi vicini eppur complessi), l’ho poi apprezzato con È Oriente, La leggenda dei monti naviganti, Morimondo, ed altri ancora per arrivare all’ottimo Appia e soprattutto ad Annibale. Quest’ultimo (è del 2008, l’ho scoperto tardi) è un libro di storia, non di viaggi (sebbene Annibale viaggiasse parecchio, anche se spesso lo faceva d’obbligo …). Dovrebbero portarlo come testo nelle scuole, e anche lo studente più ostinato, mi permetto di rilevare, si appassionerebbe alla Storia, quella con la S maiuscola.

Rumiz versus Boatti o Boatti versus Rumiz 01

Tornando al bar, un amico mi suggeriva Il filo infinito di Rumiz, del 2019, libro che racconta di un viaggio di ricerca dell’autore nei monasteri benedettini d’Europa; in realtà lo possedevo ma non lo avevo ancora aperto. In cambio, gli suggerivo la lettura di Sulle strade del silenzio. Viaggio per monasteri d’Italia e spaesati dintorni di Giorgio Boatti. Il filo conduttore di entrambi, infatti, è la visita ai monasteri, italiani d’ogni vocazione in Boatti, anche stranieri ma solo benedettini in Rumiz. In realtà non potevo proporre un confronto tra due libri più diversi di questi. Paolo Repetto mi dice: sono agli antipodi. Verissimo. Una cosa li contraddistingue: entrambi non vanno a visitare per vocazione religiosa ma perché hanno il fondato sospetto che in questo tipo di eremi si possa trovare un orientamento nelle vicissitudini odierne, capirne di più, magari risolvere qualcosa, almeno con se stessi, se non con gli altri.

Per Rumiz è una navigazione interiore, come scritto sulla terza di copertina; una ricerca ostinata e preoccupata (a mio avviso anche un po’ ansiata); per Boatti, una ricerca col cuore in mano, senza troppo giudicare, solo vedere, narrare, forse intuire. Mi riesce facile preferire, in questo caso, Boatti a Rumiz; il secondo, che nei suoi ultimissimi libri definirei una pentola di fagioli in ebollizione, tende sempre di più ad esplorare l’io, in particolare il suo. A volte mi mette freddo, mi vien voglia di accendere il camino; mi raggela soprattutto la sua mancanza di entusiasmo, comprensibile certo con l’età, con l’esperienza, col disincanto. Forse mi sbaglio, forse sono io che non riesco a leggerla questa speranza, e se è così me ne scuso, sono io che non ho capito. Alla fine de Il filo infinito, insomma, ho più dubbi di prima, freddo, e voglio una bella minestra calda di ceci per rinfrancarmi.

Allora preferisco leggere libri di tono giornalistico, il giornalismo serio, che ti da una informazione, non la distorce ma ti lascia ampia scelta sulle somme da tirare. Meno poetico e colto di quello di Rumiz, ma più fruibile alla massa, a me quindi, è quello di Boatti. Che non devi accendere il camino, non ti devi sbattere a fare la minestra di ceci, che è davvero buona ma troppo “ora et labora” se la vuoi fare bene, e ti basta uno spaghetto aglio, olio e peperoncino.

Rumiz versus Boatti o Boatti versus Rumiz 04