Ritirate e ripartenze

I libri che non mi sono piaciuti (4)

di Vittorio Righini, 1 aprile 2023

Sylvain Tesson: uno scrittore sottovalutato. Scrivo oggi di un libro di Tesson che non mi è piaciuto, solo per trovare la scusa ed elencare tutti gli altri suoi libri, uno più bello dell’altro. D’altronde la rubrica si intitola “I libri che non mi sono piaciuti”, e devo onorare …

Il primo di febbraio 2023 è mancato all’affetto dei suoi cari Philippe Tesson, non più giovanissimo (era del 1928…). È stato un grande giornalista specializzato in teatro, editorialista televisivo di grande fama, direttore di Le Quotidien de Paris. Polemista intransigente e a volte discutibile, è stato un protagonista del giornalismo francese del secolo scorso. Ha lasciato i tre figli Stephanie, del 1969, Sylvian, del 1972 e Daphnè, del 1978. Bene, direte voi, ma qui ‘‘che c’azzecca?’’ (cit. Di Pietro, estikazzi). Beh, c’azzecca il figlio Sylvian, un cinquantunenne con una carriera di scrittore e viaggiatore di tutto rispetto, piuttosto sottovalutato in Italia ma osannato nel suo paese. Penserete, la solita grandeur, i soliti francesi pesanti da sopportare quando parlano di se stessi. Sarei perfettamente d’accordo sulla grandeur transalpina ma no, credetemi, Sylvian è veramente un grande.

L’ho scoperto molti anni addietro, con il libro: Baku, elogio dell’energia vagabonda. Un viaggio a piedi e in bicicletta dal Lago d’Aral al Mar Caspio, fino alla città costiera di Baku, poi la Georgia e la Turchia fino al Mar Nero seguendo le tracce degli oleodotti. Un viaggio che è anche un continuo interrogarsi sul valore dell’energia, sul suo significato, in qualunque forma essa si sviluppi. Mi sono piaciute le sue idee, il suo pensare, e il suo modo di rapportarsi con gli altri, non sempre semplice ma sempre esplicito.

Da quel libro ne ho poi letti altri, diciamo tutti quelli tradotti in italiano, e un paio, faticosamente, in francese. Il libro di maggior successo credo sia stato Nelle Foreste Siberiane, Sellerio, 2012, che narra un’estate trascorsa in solitudine in un capanno sul lago Bajkal, con due cani in mezzo al nulla.

Un libro ricco di riflessioni e pensieri, ispirato e interessante. Certo, nel capanno aveva una stufa a legna, con un fornello. Notevoli comforts in una località che solo per arrivarci in barca ci vuole una settimana … e niente linea cellulare, wi-fi, luce elettrica etc. etc.; se vi sembra una passeggiata, provate voi a starci un’estate, sul Bajkal; se poi vi piacciono le zanzare, allora sarete in paradiso…

Diverso invece, un libretto alcolico, è Beresina, Sellerio 2012, con l’autore che con amici compra un paio di vecchi sidecar Ural a Mosca e in piano inverno, carico di coperte e vodka, ripercorre il tracciato della ritirata di Napoleone, e il libro salta dalle sbronze giornaliere alla storia della ritirata da Mosca a Les Invalides del Bonaparte. Divertente, scorrevole, un po’ pazzo, il libro, come l’autore.

Ritirate e ripartenze 02

Beresina è l’ultimo libro del Tesson pre-incidente (anche se va in stampa dopo l’incidente); incidente che vede Sylvian impegnato a scalare una facciata di una casa, e a otto metri circa d’altezza la scivolata, la caduta e l’impatto, che per molti avrebbe significato morte certa. Invece si salva, con mesi e mesi di ospedale, cure, riabilitazioni ortopediche e fisioterapiche, e successive inibizioni in alcune delle cose che gli piacevano (il bere, su tutte, che gli causa crisi epilettiche, come si legge in Sentieri Neri). Quest’ultimo, scritto post-incidente, presenta un autore che, pur desideroso di rimettersi in moto soprattutto fisicamente, è destinato a una visione della vita più calma, più ponderata, riflessiva e interiore. Basta estremi, piccole e grandi follie, rincorse dell’impossibile. Tesson ritorna sulla terra, alla terra, con Sentieri Neri, una camminata faticosa e zoppicante da Tenda alla Normandia, con i chiodi nella schiena, la bocca storta per una paresi facciale non ancora risolta, un occhio fuori dall’orbita. Oggi i segni dell’incidente si vedono ancora, ma in modo molto più soffuso.

Ed eccoci, finalmente, al libro che non mi è piaciuto: nel 2018 esce Un’estate con Omero, con l’autore che si rifugia in una piccola stanzetta (una piccionaia, forse una piccola cappella nelle isole Cicladi) e riflette su Omero e sul suo messaggio. Se devo essere sincero, non mi sono innamorato di questo libro, che non porta nulla di nuovo. Anzi, la sua interpretazione presta il fianco ad alcune critiche. E ora sono a posto, ho denigrato quanto dovevo, e posso tornare a incensare. Infatti nel 2020 viene pubblicato in Italia La Pantera delle Nevi, e in questo caso vi copio la mia recensione del libro fatta come cliente a firma Giovanni su un sito commerciale nazionale (sono un Giovanni Vittorio, effettivamente): “Dopo un paio di libri non all’altezza, a mio modesto parere, scritti in una fase molto complicata della sua vita dopo il tremendo incidente del 2014, riconosco in questa ricerca della lentezza e della contemplazione il vecchio Tesson. Ci sono qui alcune delle sue perle, quelle frasi che hanno sempre caratterizzato questo autore, frasi da sottolineare a matita, o da riportare in un proprio taccuino. Poi, un’insolita vena romantica e nostalgica verso una donna perduta, e verso la madre. Bentornato, Sylvain, e speriamo che l’Editore si decida a stampare in italiano anche i tuoi primi libri’.’

Segnalo, per chi ama anche i libri di fotografia, lo stupendo Tibet: Mineral Animal del 2018, a firma Tesson per il testo e Vincent Munier per le foto. Un libro straordinario, costoso, ma con tutte foto in bianco e nero relative al viaggio di ricerca fotografica della pantera delle nevi, foto invernali, bianche e gelide, dettagliatissime.

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E veniamo ad oggi: in Francia nel 2021 è uscito Un été avec Rimbaud, per ora nessuna traccia qui di una eventuale edizione tradotta. Ma Gallimard da mesi fa girare Blanc, un libro che mi interessa, ci interessa: una raccolta dei viaggi tra il 2018 e il 2021 di Tesson e Daniel du Lac, guida alpina e famoso scalatore, partendo da Mentone per tutto l’arco alpino fino a Trieste. Un viaggio all’insegna del bianco, in cui l’altitudine è la chiave della felicità. Dite che ci onoreranno di una felice traduzione italiana? mah, chi può dirlo, non ho mai capito perché traducono certi libri e certi no. E ne approfitto per ricollegarmi a quanto sopra: ho citato solo una piccola parte dei libri di Tesson, un po’ perché alcuni mi sono piaciuti meno (non ho detto che non mi sono piaciuti, ho detto che mi sono piaciuti meno – mi viene in mente lo sketch del trio comico in cui Giovanni dice: ‘‘mia mamma non sta tanto bene’’, e Giacomo corre a riferire: Aldo, la mamma di Giovanni sta male! Giovanni si incazza e ribadisce: HO DETTO: non sta tanto bene – scusate l’excursus).

Un po’ perché alcuni altri, che meriterebbero, non sono stati tradotti. (Su tutti L’Axe du Loup – De la Sibérie a l’Inde sur les pas des evades du goulag  – che si ispira a  Tra noi e la Libertà di Slawomir Rawicz, un gran bel libro che narra la fuga di 6 prigionieri da un gulag in Siberia, dei tre sopravvissuti arrivati in India, e che ha creato polemiche perché si è ritenuta impossibile la riuscita del viaggio (soprattutto da parte di Peter Fleming, che era un ricco tritapalle inglese con un poco di meglio da fare che scrivere libri mediocri e farsi gli affari altrui. Almeno suo fratello ci ha dato 007 …)

Io penso sia sempre meglio leggere il bellissimo I Fiumi scendevano a Oriente di Leonard Clark, col rischio che qualcosa se lo sia inventato, che un menosissimo ed inappuntabile diario di viaggio. E qui potrei fare alcuni esempi di autori italiani, ma non voglio scatenare una bufera. Non oggi.

Pillole contro la bibliolatria

(confessioni di un libraio expat)

di Matteo Cavanna, 5 marzo 2023

La maggior parte dei libri attuali dà l’impressione
di essere stata fatta in una giornata
con dei libri letti il giorno avanti.
(de Chamfort, Massime e pensieri)

Mi ci sono voluti due anni per desacralizzare il libro. Dico desacralizzare perché quando ho iniziato a lavorare in libreria, dodici anni fa, avevo maturato un rapporto con il libro, con l’oggetto libro, per certi versi molto simile al rapporto che si intrattiene con il sacro. Un sentimento di soggezione e fascinazione. Un rispetto sconfinato. Qualsiasi libro, di qualsiasi natura fosse, romanzo o saggio, tascabile o libro d’arte. La spiegazione che ho dato di questo fenomeno sta nel fatto di non essere cresciuto coi libri, ma di averli scoperti in ambito scolastico. Da qui, il sentimento di soggezione. La fascinazione è venuta dopo, quando durante l’adolescenza ho iniziato a leggere libri che non erano in programma. Il retaggio scolastico ha prodotto in me l’idea che i libri fossero un sistema chiuso, riservato a una categoria specifica di persone, e che non avessero a che fare con la vita. Al contrario, l’esperienza adolescenziale mi ha fatto associare al libro una forma di apertura, un mondo che avesse a che fare con la vita, in cui potevo trovare storie e personaggi che mettessero in parole ciò che sentivo in modo confuso.

Pillole contro la bibliolatria 01

Due anni. Forse sono anche pochi, non lo so. Sta di fatto che in libreria mi sono imbattuto con una realtà editoriale che funziona con altre logiche. La produzione di libri è molto alta. Pensiamo che ogni anno, il solo mese di settembre, escono in Francia cinquecento romanzi. Troppi libri. Un sistema economico articolato supporta questo flusso produttivo, dalla pubblicità ai premi letterari. Il calendario editoriale francese prevede due momenti centrali: la Rentrée littéraire, a settembre, seguita dai premi letterari e dal periodo natalizio; e la Rentrée d’hiver, il mese di gennaio. Durante l’anno, ogni settimana ci sono delle novità. Un programma così ricco potrebbe sembrare una buona cosa, per certi versi lo è anche. Ma se scavassimo un po’ più a fondo cominceremmo a storcere il naso. Per farla breve, non credo che un’ampia scelta sia sinonimo di libertà di scelta. Anzi, spesso si risolve nel suo opposto e ci ritroviamo a leggere tutti gli stessi quattro o cinque libri ogni anno.

Pillole contro la bibliolatria 02

Ho consigliato libri per anni. Sono convinto che un buon libraio sia quello che, partendo da qualche informazione, riesca a individuare due o tre titoli che possono soddisfare il lettore. Soddisfare non significa assecondare. Ho sempre considerato il tempo della lettura come un tempo carico di aspettative. Non sopporto i libri che fanno perdere tempo. Una delle massime che ho seguito durante il mio lavoro la devo a Schopenhauer, il quale sosteneva che la sola maniera per leggere buoni libri è quella di non leggere quelli cattivi. Così ho sempre indirizzato i clienti seguendo questo criterio. Seguire questo criterio significa non seguire quello della logica di mercato, tenerne conto, certo, ma non seguirla. Questo mi ha creato alcune incomprensioni con la direzione della libreria, ma anche tante soddisfazioni coi lettori. E non solo, perché i risultati commerciali alla fine mi hanno dato ragione. Ma in fondo è una battaglia persa. Vale se appoggiata da una visione, una ricerca, altrimenti si è condannati a una forma silenziosa di ostracismo.

Cominciai a leggere perché la vita mi diceva no;
la lettura invece aveva la bontà di dire si…
(Robert Walser)

Se mi chiedo a cosa servano tutti questi libri, non ho dubbi: a cercare una risposta. A trovare il coraggio di alzarsi la mattina. È la mia personale spiegazione, quella che per il momento regge ancora il rapporto che ho con i libri. Diciamo che non provo più un rispetto incondizionato per questo oggetto: mantengo un rapporto condizionato. Dipende dal loro contenuto, dalla loro qualità. Sapendo poi che il settanta per cento dei tascabili invenduti finisce al macero per recuperare la carta e produrne di nuovi, non ho più esitazioni a buttare via un libro. Al contrario, se viene fatto consapevolmente, lo trovo un atto responsabile.

Ma ne riparleremo.

Viaggi nel cuore di Creta (a piedi e senza assilli)

I libri che non mi sono piaciuti (3)

di Vittorio Righini, 1 marzo 2023

Il 27 luglio del 2007 venne pubblicato, per i paesi di lingua inglese, The Golden Step – A Walk Through the Heart of Crete. L’autore, Christopher Somerville, è un rispettabile autore di guide di viaggio (molto apprezzate soprattutto le sue Map Walks, che coprono su tutti i lati il Regno Unito, e sono sicuramente tra le più vendute ed apprezzate da migliaia di camminatori, britannici e non).

Viaggi nel cuore di Creta 01Ho una sua bellissima guida su Creta in inglese che consulto quando vado nell’isola e una sull’Irlanda (l’ho trovata in italiano). Nel 2009, per ragioni che sfuggono alla mia comprensione, dati i tempi biblici di traduzione dei libri inglesi in italiano, è uscito Lo Scalino d’Oro. Viaggio a piedi nel cuore di Creta, grazie alla EDT (siano benedetti da qualunque Dio di loro gradimento per la rapidità nel tradurre e presentare il libro).

Io colleziono libri sulla Grecia, preferibilmente in italiano (perché un po’ di inglese lo parlo, ma finché si tratta della guida di Creta non è un problema, mentre un Roumeli di Patrick Leigh Fermor in inglese, per esempio, mi occupa tempi biblici a volerlo leggere tutto).

Quindi, con gioia ho comprato Lo Scalino d’Oro pensando fosse più che altro una guida: invece mi sono ritrovato un diario di viaggio fatto col cuore, basato sulla necessità di levarsi per un paio di mesi dal lavoro e dalla routine, con la moglie che offriva il viaggio in solitario al marito alla condizione che la lunga camminata sulle creste di Creta non si traducesse in un’altra guida, ma solo in relax.

È un libro per chi ama Creta, certo, ma anche per chi non ne sa nulla e vuole solo leggere una bella storia vera: non è un romanzo e non è una vera guida, ma una esperienza. La particolarità, confermata dal Club Alpino di Creta, era che Somerville tentava per primo la traversata a piedi da solo da Creta est a ovest, per arrivare al Monastero detto appunto dello Scalino D’oro (Chrisoskalitissa), all’estremo ovest della grande isola. Somerville racconta il suo peregrinare, le genti, i luoghi, gli animali, il cibo, il vino, ma poco prima di arrivare è costretto dalla neve a scendere e fare a piedi un pezzo di costa, perché in alto non si può passare. È il primo camminatore che ha fatto il percorso, i cretesi del Club Alpino ne sono lieti, lui non se ne vanta, non è di fondamentale importanza, quel che conta è averlo fatto.

Con il libro in mano, dieci anni fa visito una piccola parte di Creta, utilizzando alcuni riferimenti al suo viaggio. Incontro un suo amico, che gestisce una taverna con camere. Gli spiego che sono lì dopo aver letto il libro, e con la voglia di salire sullo Psiloritis (Il Monte Ida), 2456 mt. soltanto, ma la montagna più alta di Creta, e la più bella. Tra me e il locandiere si instaura un’amicizia che nei giorni successivi mi renderà la vita ancora più agevole; lui mi tratta come se mi conoscesse da decenni, ceno al suo tavolo, vado a far commissioni con lui. Una sera gli chiedo, di fronte a un piatto particolare, se ha un pizzico di peperoncino. Scopro che non lo conosce, non sa cos’è. Tornato in Italia, prendo un pieghevole con fotografie delle varie specie di peperoncino, lo traduco in greco, aggiungo varie bustine di semi differenti e vari campioni freschi e pronti all’uso. Il pacchetto arriva e il locandiere mi manda una affettuosa mail di ringraziamento. Se nella zona di Thronos qualcuno oggi aggiunge del peperoncino alla carne, beh, potrei esserne responsabile.

Viaggi nel cuore di Creta 02

Nel marzo del 2017 viene editato un libro dal titolo: Rapporto a Kazantzakis. La traversata di Creta a piedi, di Luca Gianotti. Un noto sito di vendite online che tutti conosciamo lo presenta scrivendo: “Luca Gianotti ha percorso per primo l’isola di Creta a piedi in 29 giorni, camminando da Est a Ovest, attraversando le sue tre grandi catene montuose per poi camminare in riva al mar Libico”.

Naturalmente mi incuriosisco e compro il libro, che mi lascia del tutto indifferente; dello stesso autore è molto più interessante The Cretan Way, una guida in inglese dei sentieri di Creta che riporta le tracce GPS, ed è quindi certamente molto utile.

Viaggi nel cuore di Creta 03Ma tornando al Rapporto a Kazantzakis, nella bibliografia noto che il libro di Somerville è citato come tutti gli altri, ma solo nella versione in inglese del 2007. Mi permetto allora di scrivere all’autore, che cura un sito dedicato ai cammini e organizza viaggi a pagamento con accompagnatore per escursioni a piedi in molte località italiane ed estere, facendogli notare che il libro di Somerville è disponibile dal 2009 anche in italiano, e che avendo l’inglese fatto per primo questo cammino sarebbe giusto riportare nel sito anche questa informazione.

Apriti cielo: l’autore mi risponde che il primo ad aver fatto il cammino per intero è lui; Somerville verso la fine è sceso e per 10/15 km. ha camminato sulla costa e poi è risalito. Cosa che sapevo benissimo anch’io, ma quando c’è andato Somerville c’era la neve e sono stati quelli del Club Alpino locale a sconsigliare fortemente l’inglese a procedere nell’ultimo tratto (per evitare rischi a se stesso e anche ad eventuali soccorritori), mentre quando è andato Gianotti la stagione era differente.

Ho un carattere puntiglioso, e ho risposto a mia volta che quello mi sembrava un atteggiamento non corretto verso Somerville: ottenendo solo di essere tacciato di vedere il male ovunque. Quando sento queste risposte mi chiudo, e ho quindi immediatamente interrotto ogni rapporto epistolare con questo signore.

Nemmeno ho scritto a Somerville per dirgli che avevo fatto il paladino per la sua giusta causa … ho immaginato che all’inglese non poteva fregar di meno su chi è arrivato uno e chi due …

Ora, se qualcuno obietterà che vado cercando il pelo nell’uovo, stavolta avrà ragione. Ma io credo che la correttezza intellettuale, che è poi senza tanti giri di parole correttezza etica, vada salvaguardata già a partire dalle cose piccole e apparentemente futili. Altrimenti, come dicono quei mattacchioni dell’Accoglienza ligure, si comincia col fare il pesto con le noci e si finisce a letto coi consanguinei. O a fare escursioni a pagamento con accompagnatore.

Rumiz versus Boatti o Boatti versus Rumiz?

Nessuno dei due

I libri che non mi sono piaciuti (2)

di Vittorio Righini, 1 febbraio 2023

Un recente giorno d’estate chiacchieravo di libri con due amici al bar, un bicchiere di vino rosso in mano; caso più unico che raro, tutti e tre appassionati di narrativa di viaggio. Il ricercare questi libri porta alla conoscenza di autori che non sono solo e necessariamente scrittori di viaggio, prima di tutto perché la narrativa di viaggio, per essere efficace, comprende la Storia, con la S maiuscola. Nella loro bibliografia, questo tipo di autori ha titoli validi ed importanti di ben altro genere.

Un esempio italiano è Paolo Rumiz: dopo averlo conosciuto anni addietro con Tre uomini in bicicletta (con Altan e Rigatti, da alcuni considerato un ‘’libercolo’’, invece gentilissimo approccio a temi, problemi e luoghi vicini eppur complessi), l’ho poi apprezzato con È Oriente, La leggenda dei monti naviganti, Morimondo, ed altri ancora per arrivare all’ottimo Appia e soprattutto ad Annibale. Quest’ultimo (è del 2008, l’ho scoperto tardi) è un libro di storia, non di viaggi (sebbene Annibale viaggiasse parecchio, anche se spesso lo faceva d’obbligo …). Dovrebbero portarlo come testo nelle scuole, e anche lo studente più ostinato, mi permetto di rilevare, si appassionerebbe alla Storia, quella con la S maiuscola.

Rumiz versus Boatti o Boatti versus Rumiz 01

Tornando al bar, un amico mi suggeriva Il filo infinito di Rumiz, del 2019, libro che racconta di un viaggio di ricerca dell’autore nei monasteri benedettini d’Europa; in realtà lo possedevo ma non lo avevo ancora aperto. In cambio, gli suggerivo la lettura di Sulle strade del silenzio. Viaggio per monasteri d’Italia e spaesati dintorni di Giorgio Boatti. Il filo conduttore di entrambi, infatti, è la visita ai monasteri, italiani d’ogni vocazione in Boatti, anche stranieri ma solo benedettini in Rumiz. In realtà non potevo proporre un confronto tra due libri più diversi di questi. Paolo Repetto mi dice: sono agli antipodi. Verissimo. Una cosa li contraddistingue: entrambi non vanno a visitare per vocazione religiosa ma perché hanno il fondato sospetto che in questo tipo di eremi si possa trovare un orientamento nelle vicissitudini odierne, capirne di più, magari risolvere qualcosa, almeno con se stessi, se non con gli altri.

Per Rumiz è una navigazione interiore, come scritto sulla terza di copertina; una ricerca ostinata e preoccupata (a mio avviso anche un po’ ansiata); per Boatti, una ricerca col cuore in mano, senza troppo giudicare, solo vedere, narrare, forse intuire. Mi riesce facile preferire, in questo caso, Boatti a Rumiz; il secondo, che nei suoi ultimissimi libri definirei una pentola di fagioli in ebollizione, tende sempre di più ad esplorare l’io, in particolare il suo. A volte mi mette freddo, mi vien voglia di accendere il camino; mi raggela soprattutto la sua mancanza di entusiasmo, comprensibile certo con l’età, con l’esperienza, col disincanto. Forse mi sbaglio, forse sono io che non riesco a leggerla questa speranza, e se è così me ne scuso, sono io che non ho capito. Alla fine de Il filo infinito, insomma, ho più dubbi di prima, freddo, e voglio una bella minestra calda di ceci per rinfrancarmi.

Allora preferisco leggere libri di tono giornalistico, il giornalismo serio, che ti da una informazione, non la distorce ma ti lascia ampia scelta sulle somme da tirare. Meno poetico e colto di quello di Rumiz, ma più fruibile alla massa, a me quindi, è quello di Boatti. Che non devi accendere il camino, non ti devi sbattere a fare la minestra di ceci, che è davvero buona ma troppo “ora et labora” se la vuoi fare bene, e ti basta uno spaghetto aglio, olio e peperoncino.

Rumiz versus Boatti o Boatti versus Rumiz 04

Sinistre immagini

di Fabrizio Rinaldi, 15 gennaio 2023

Vagando da un canale all’altro, l’altro giorno mi è apparso Cuperlo su Rete4. Era intervistato non so da chi, perché non frequento quel canale, ma soprattutto non so cosa dicesse (anche se non fatico a immaginarlo), perché la mia attenzione era concentrata su come si presentava ai telespettatori con l’intento di racimolare consensi uno dei candidati più autorevoli alla segreteria del PD. Dietro di lui non c’era l’ormai classica libreria coi libri, i ninnoli e i quadri che strizzano l’occhio allo spettatore, ma faldoni e fascicoli grigi e marrone con scritte a mano (chissà se era a casa sua o in qualche archivio segreto di Andreotti). Indossava una camicia bianca sotto un maglioncino beige pallido pallido e una giacca grigia, pendant con i faldoni sullo sfondo. Ora, va bene esser sobri e pacati, e volersi distinguere da chi indossava il giubbotto in pelle alla Fonzie (Renzi), ma non è il caso di personificare la tristezza più assoluta!

Senato: registrazioni al completo, mancano solo i 26 subentrantiCuperlo avrà detto pure delle cose sensate, ma mi rimane l’immagine di un uomo insipido, sbiadito, senza prospettive per un futuro diverso da quello attuale, senza proposte che vadano oltre la misera quotidianità del decidere se togliere o lasciare le accise sul carburante (che comunque è una scelta che al momento non gli compete). Umanamente potrei anche condividere ciò che pensa, ma mediaticamente è un disastro.

Sinistre immagini 03 BersaniUn’altra immagine della sinistra che mi viene alla mente è quella di Bersani al bar (forse quello di Happy days), dove, invece di confrontarsi con altri su cosa sia esser di sinistra, ha come unico interlocutore un calice di birra. È la perfetta raffigurazione di una dignitosa ritirata umana, che è tale anche politicamente, ma fa comunque tristezza.

È pur vero che c’è chi specula impietosamente, come un avvoltoio sugli animali morenti, nello scovare foto che esprimano al meglio le difficoltà e le debolezze del malcapitato personaggio pubblico, di turno: ma un politico avveduto dovrebbe porre molta più attenzione a come si propone rispetto a ciò che dice. Altrimenti è bene che resti nel privato e non ambisca ad occuparsi della cosa pubblica. Purtroppo è così che va il mondo attuale. “E tu non puoi farci niente! Niente!” (L’ultima minaccia di Richard Brooks). È passato il tempo in cui Moro andava in spiaggia con giacca e cravatta e Berlinguer si fermava a parlare agli operai di un cantiere col trench alla tenente Colombo.

Sinistre immagini 04 Moro    Sinistre immagini 05 Berlinguer

Eppure negli ultimi decenni ci sono state delle immagini iconiche che hanno alluso a un diverso futuro: Prodi in bicicletta, ad esempio, e D’Alema in barca. Lo so, vien da chiedersi come siamo messi, però almeno un tentativo di offrire una “visione” c’era. Il primo, interpretato anche da Guzzanti come il “semaforo fermo e immobile”, sotto l’aspetto sornione sapeva esser risoluto e avere un’idea, giusta o sbagliata che fosse (vedi la rocambolesca entrata dell’Italia nell’area euro). Il secondo era – ed è tuttora, anche se ufficialmente si è ritirato dalle scene, – il “baffo” più odiato dagli italiani, accusato di incoerenza per il fatto di possedere una barca (e non solo quella) nonostante si professasse comunista: ma almeno, anche se più in apparenza che nella realtà, quel baffo pareva essere alternativo all’infoiato, colluso, mediatico e trapiantato Berlusconi.

Sinistre immagini 06 Prodi

Se la sinistra tradizionale vuole avere una qualche futuro e non sparire (è sotto il 15% ed è in discesa, di contro all’oltre 30% di Fratelli d’Italia) deve individuare poche ma chiare idee che la identifichino, diciamo pure dei segni o dei “sogni”, sui quali costruire prospettive differenti da quelle offerte dalla Meloni, ma pure da Draghi, Conte o Renzi.

Ed è necessario che lo faccia immediatamente, per poterne trarre un minimo di indicazioni di principio. Quelle che non verranno certo da un congresso presieduto da fantasmi litigiosi, i quali quasi sicuramente convalideranno un’insipienza congenita. Coloro che si riconoscono (o no) nel PD di oggi (come pure in quello di ieri) vorrebbero vedersi proporre, alle prossime elezioni, un’idea per la quale valga la pena andare a votare per quel partito. Saranno anche solo sogni, illusioni, ma si vive pure di quelli.

Sinistre immagini 07 PD

C’è innanzitutto bisogno di chiarirsi su ciò che s’intende oggi per sinistra progressista, su quali obiettivi si possano concretamente perseguire, e di escogitare anche una comunicazione mediatica che sostenga quelle affermazioni. È essenziale tradurre i concetti in immagini, in simboli forti e riconoscibili affinché ci sia una reciprocità fra la parola e la sua raffigurazione. È inutile ostinarsi a credere che la genuinità delle idee sia sufficiente per ottenere consensi. Non piacerà ai talebani della sinistra dura e pura, ma le cose stanno così: serve saper comunicare efficacemente e chiaramente. E spesso non basta neppure quello.

Chi si ostina a pensarsi di sinistra si nutre di sogni che possano narrare una società più equa; di “barbari” che arricchiscano la nostra cultura ferma da decenni; di scelte economiche a lungo termine concretamente praticabili, nella consapevolezza che quelle attuali vanno sempre e comunque a discapito dell’ambiente, e spingono l’umanità verso il suicidio; di recuperare una solidarietà e un interesse comune che offrono l’unica vera via d’uscita. Sono i sogni a mantenere in vita la speranza.

E per cominciare, occorre fare pulizia nel proprio cortile, liberarsi di tutte quelle ipocrisie relative al genere, alla razza, alla pseudo-correttezza politica, che portano a far su alla rinfusa figure come Soumahoro, pur di sventolare una bandierina “progressista”. A riempire il Parlamento o gli uffici di Bruxelles di canaglie o di incompetenti ci pensano già tutti gli altri: almeno in questo la sinistra dovrebbe distinguersi.

Ciò non mi toglie la convinzione che ci siano ancora persone che perseguono delle idee per avere un mondo ben differente da quello attuale, senza però perdere la lucidità di inseguire delle chimere. Basta cercarle e avere il coraggio di offrire loro spazio e dignità, smettendola di tarpare le ali a chi ha ancora l’“intenzione del volo”, per dirla alla Gaber.

Sinistre immagini 08 candidati segreteria

Quel che vale per la politica vale pure per la cultura. E qui vengo al mio disaccordo sull’opinione espressa da Vittorio Righini nel pezzo I libri che non mi sono piaciuti, in cui critica il modo pacatamente ruffiano che ha Cognetti di scrivere i suoi libri.

Sinistre immagini 09 CognettiHo letto quelli precedenti a Le otto montagne e mi sembravano buoni. Un po’ “semplici” e immediati, ma ciò è una colpa? Non saranno capolavori, ma è vero che Cognetti è diventato un riferimento per coloro che si riconoscono in un certo modo di concepire il rapporto con la natura. Io mi sento perfettamente in linea con lui (ricordo un suo pezzo contro l’ennesima pista da sci), e non penso che questo sia cavalcare una moda e sfruttarla a fini utilitaristici. Semmai è un modo per veicolare messaggi un po’ differenti da quelli che vanno per la maggiore. I suoi testi non saranno il massimo di originalità e di profondità, ma, visti i tempi, che vengano pure queste mode i cui riferimenti sono London, Levi, Rigoni Stern, ecc…

Non dobbiamo star sempre lì a cercare il pelo nell’uovo… E che cazzo! Almeno quest’anno al cinema c’è stata la possibilità di vedere Le otto montagne, anziché i soliti cinepanettoni di Boldi, Checco e simili.

In fondo, nella mediocrità culturale attuale, Cognetti spicca per delle iniziative finalizzate a promuovere modi più rispettosi di stare in montagna e ha provato a fare qualcosa di diverso, impiegando i soldi vinti con lo Strega per sistemare un rifugio ad uso di amici e montanari.

Facce come la sua e quella dell’amico illustratore Nicola Magrin rappresentano un’ottima alternativa a quelle dei vari Calenda, Conte e compagnia bella. Dicono che, nonostante tutto, il sogno non “si è rattrappito”.

Sinistre immagini 10 Cognetti e Magrin

Collezione di licheni bottone

I libri che non mi sono piaciuti

di Vittorio Righini, 1 gennaio 2023

Un lettore, sono un lettore. Abbastanza compulsivo, una vita che leggo libri e più invecchio e peggioro fisicamente, più ho tempo in poltrona davanti al camino per farlo. Quindi, più che giudicare, ho almeno il diritto di dire cosa mi piace e cosa non mi piace.

Ma sono così tanti questi brutti libri che leggo? Sì, sono tanti; almeno un 30% di quello che prendo in mano, e oggi sono buono. Perché? perché aumenta in modo spropositato la possibilità di pubblicare un libro, io lo so per esperienza, ho deciso di fare un mediocre libro e l’ho fatto, me l’hanno pubblicato, chi l’ha letto mi ha detto che era piacevole … Amici? anche; incompetenti? Certo non è un capolavoro, il mondo poteva tranquillamente vivere senza il mio libro.

Una cosa ho capito, e voi certo prima di me: se vuoi fare un libro di successo, poco importa sia qualcosa di veramente interessante. Qualcosa di nuovo, qualcosa di originale: devi avere alle spalle una macchina pubblicitaria che ti possa supportare fino al successo, ecco, quello che conta.

I libri che non mi sono piaciuti CognettiCome nascono dal nulla star della musica, così succede con gli scrittori cult, specie negli USA. In Italia è diverso? non lo so, onestamente, ma facciamo un esempio: prendete Le Otto Montagne di Cognetti. Ditemi voi, che l’avete letto, cosa c’è di nuovo, interessante, curioso, originale in questa storia. C’è poco, molto poco. La storia è trita e ritrita, non sto a ricordarla, chi l’ha letto lo sa. Un rapporto umano che abbiamo già incontrato cento volte nelle nostre letture. Cognetti, nel frattempo, passava da una televisione all’altra, da una intervista all’altra. Diventa un’icona della montagna, da del tu a grandi alpinisti, si confronta con loro come fosse una marmotta nata sul Gran Paradiso. Provate anche a leggere un paio dei suoi libri precedenti, poi ditemi se siamo di fronte a dei capolavori. Accetterò con piacere il vostro punto di vista, e se mi accorgerò di aver avuto torto, mi cospargerò il capo di cenere.

I libri che non mi sono piaciuti La montagna viventeAll’opposto, La Montagna Vivente, di Nan Shepard; una donna (!!) scrive il suo libro verso la fine della seconda guerra mondiale; racconta le sue escursioni sulle montagne (montagne?) dell’altipiano del Cairngorm in Scozia negli anni 30’ e 40’ del secolo scorso, con la scalata di straordinarie vette alte ben mt. 1307! Eppure, è una zona freddissima, pericolosa e complessa.

Lei scrive bene, così bene che queste storie ignorano qualunque altitudine, sono storie a volte crude a volte no che toccano il cuore. Il libro è stato ristampato nel 2008, poi nel 2018 finalmente in Italia, da Ponte alle Grazie; grazie, Ponte alle Grazie.

Non c’è stata una accoglienza clamorosa; qualche bella recensione, nulla più. Chiaro, Anna Nan Shepard è morta nel 1981, non è più personaggio pubblico, ma all’estero ha ricevuto enormi riconoscimenti, su tutti il Guardian che lo considera il più bel libro su natura e paesaggio.

Io sono uno che preferisce uno scrittore che ha poco da dire ma scrive benissimo, a uno che ha una grande idea ma non la sa esporre; la Shepard scrive benissimo e dice molto, tocca il cuore. Cognetti no, scrive in modo normale, come scrivo io, dice poco e nulla di nuovo.

I libri che non mi sono piaciuti2

P.S.: Paolo mi ha chiesto di scrivere qualcosa ogni tanto sui Viandanti, voleva probabilmente risvegliare il mio spirito polemico; sotto Natale il mio spirito è evaporato, come l’alcol (una volta l’alcol si chiamava anche spirito) ma il polemico è rimasto.

Aria del Tobbio

(senza mascherina)

di Paolo Repetto, 5 ottobre 2020

La salita dice il vero
e s’illumina il pensiero
(da “Ottonari prosciolti”)

Torno sul Tobbio, per la prima volta dopo l’esplosione del Covid. In realtà c’ero già andato con Franco e Vittorio all’inizio dell’estate, per festeggiare l’uscita dal blocco, ma siamo incappati nella famigerata “nuvola di Tobbio”, quella che staziona sulla vetta anche in certe giornate limpide, col cielo completamente terso sino all’ultimo orizzonte. Dal momento che la prospettiva era di inzupparci da capo a piedi e cercare poi a tentoni la porta del rifugio, a tre quarti della salita abbiamo deciso di rinunciare.

Oggi invece sono tornato da solo. La giornata sembrava reggere, è previsto un peggioramento per fine settimana e con ogni probabilità per tutte le settimane successive, stante che siamo ormai entrati nell’autunno. Ho deciso così, su due piedi.

L’ho presa molto bassa (in realtà non avrei potuto fare diversamente: ma mi piace pensare di avere scelto io) e questo mi ha dato modo di lasciare libero corso a tutto ciò che mi attraversava la mente, oltre che di riconoscere pietre e passaggi e alberi lungo la salita. Non è cambiato granché, come sarebbe naturale, ma è stata rinnovata la segnaletica e sono comparsi dei cartelli che invitano a non cercare scorciatoie, a camminare sul sentiero. In un paio di punti sono stati innalzati persino dei piccoli steccati, a ribadire il divieto di passaggio. In effetti il sempre più diffuso malvezzo di “tagliare”, soprattutto in discesa, sta creando sui fianchi della montagna delle bruttissime ferite: si porta a nudo la roccia e viene impedita la crescita della vegetazione. Nella fascia più bassa il terreno è tutto una cicatrice, la gente ha fretta di riguadagnare la macchina. (Mentre considero mestamente queste cose mi sento però come la volpe della favola di Esopo: anch’io fino a qualche anno fa salivo e scendevo cercando di tirare linee dritte, e se non lo faccio più è in realtà solo perché ginocchia e polmoni non me lo consentono.)

Il sentiero continua ad essere molto sconnesso (e meno male!), non favorisce un ritmo costante ma impone continui cambiamenti di passo, scavalcamenti, saltelli da un masso all’altro. Ho cercato tuttavia di mantenere un respiro regolare, perché questo aiuta a distendere e a fissare anche i pensieri. Durante le sue escursioni Nietzsche si fermava ogni tanto per annotarli su un taccuino, io non avevo il taccuino e non mi sarei fermato comunque, per cui mi limiterò ora a cercare di ripescare dalla memoria ancora fresca qualche scampolo di riflessione. Alla mia età occorre economizzare anche la materia grigia, mettendo degli ideali post-it su tutto. Proporrò queste cose in sequenza, per esigenze di chiarezza, ma in realtà si sono susseguite e accavallate con un certo disordine, senza alcun apparente filo logico a tenerle assieme. Naturalmente, nel lasso di tempo intercorso tra la “produzione” e la trascrizione molte idee sono andate perse, mentre per altre, per dar loro un senso, ho dovuto tagliare e ricucire.

Provo comunque a ricostruire il doppio percorso, quello fisico e quello mentale.

1)    La prima cosa su cui mi sono trovato a riflettere, già dopo le rampe iniziali, è che alla partenza non avevo guardato l’orologio. Il ritmo delle mie camminate, e più in generale quello di tutta la mia vita, è sempre stato dettato dall’ossessione del tempo. Un po’ per carattere, un po’ per necessità oggettive, ho vissuto costantemente di fretta, come il coniglio bianco di Alice. Anche le escursioni in montagna o le semplici camminate erano condizionate da questo assillo. Ricordo un trekking di quarant’anni fa, in compagnia di mio fratello. Abbiamo percorso un tratto della Gran Randonnée della Corsica, considerata uno dei percorsi più impegnativi in assoluto, in nove giorni anziché nei quindici previsti dalla guida, raddoppiando quindi quasi sempre le tappe giornaliere. Non si trattava fare i fenomeni, avevamo a disposizione solo quell’intervallo di tempo e dovevamo sfruttarlo al massimo.

Oggi non ho evitato intenzionalmente di guardare l’orologio: mi sono proprio dimenticato, e così ho potuto fare a meno di consultarlo anche una volta in vetta. Non aveva importanza che ora fosse. Il paradosso è che ormai, malgrado il tempo a mia disposizione si accorci in maniera sempre più tangibile, e sono le lancette del mio corpo a dirlo, riesco a vivere con maggiore calma. Oddio, continuo a sentirmi in ritardo rispetto a un sacco di cose, dalle letture agli adempimenti più banali, ma non mi preoccupo più di tanto: si riduce il tempo, ma si ridimensiona anche l’importanza degli atti che compio (o che non compio). Evidentemente il cervello, come le gambe, ad un certo punto si adegua, sia pure con una certa riluttanza.

La diversa percezione del tempo è però solo un aspetto del cambiamento. Non è molto importante ciò che faccio, che penso, che scrivo, ma nemmeno lo è più ciò con cui mi rapporto. Voglio dire che la speranza di influire in qualche maniera significativa sulle realtà sociali o naturali che mi circondano ha lasciato il posto ad una rassegnazione “attiva”: che sia ininfluente o meno, faccio ciò che mi pare giusto qui e ora, indipendentemente dai riscontri. Libero il mio tempo futuro da aspettative e da impegni. Temo però che a una rassegnazione analoga, e nemmeno molto “attiva” stiano già approdando molti giovani che tempo da trascorrere, da riempire e da giustificare ne hanno ancora parecchio: e la loro non è una bella prospettiva.

Realizzo anche, ad un certo punto, che ho lasciato a valle la mascherina. Ma non credo ci saranno assembramenti nel rifugio. La mia era l’unica auto posteggiata all’attacco del sentiero. E comunque, mi sembra assurdo (e al tempo stesso significativo di quanto siamo cambiati in questi ultimi mesi) anche essermi posto il problema.

2)   Le vie della mente sono infinite come quelle del Tobbio, e molto più tortuose. Prima di incrociare il sentiero che sale da Voltaggio una bizzarra associazione di idee mi riporta al film visto un paio di sere fa, Miss Marx (il primo dal febbraio scorso). L’impressione a caldo non è stata positiva, lo premetto subito, l’ho trovato anzi piuttosto noioso. Tuttavia, a ripensarci, la ricostruzione storica, sia pure nella sua schematicità, nella sobrietà delle ambientazioni, è risultata efficace. Ne è venuta fuori una perfetta rappresentazione della distanza tra le idee e i progetti dei teorici della rivoluzione sociale e la realtà con la quale si confrontavano. Non so quanto la regista abbia consapevolmente cercato questo effetto, forse il suo intento era circoscritto ad evidenziare, attraverso la figura complessa e la vicenda tragica di Eleanor Marx, le contraddizioni tra l’impegno pubblico e le scelte private di una antesignana del femminismo. Ma per il modo in cui è narrata, e prima ancora nella sua verità storica, la vicenda si presta a diventare emblematica di un difetto di fondo non imputabile alla singola figura, alle incertezze del carattere di Eleanor: a non reggere sono tutto l’impianto teorico, e il conseguente atteggiamento, che supportano di norma la militanza rivoluzionaria, ostinatamente sganciati da quella che è la prosaica realtà della natura umana e dei rapporti sociali.

Ci sono sequenze molto eloquenti nelle quali le masse dei diseredati stanno confinate sullo sfondo, dietro i cordoni della polizia, mentre i “rivoluzionari” borghesi, le avanguardie pensanti, le arringano a distanza. Allo stesso modo la quotidianità di questi teorici, i loro rapporti interpersonali, la scelta e lo studio dei problemi, le discussioni, le risoluzioni, tutto ha un che di molto salottiero, si svolge in interni decorosi e tutto sommato “ovattati”.

La storia di Eleanor è poi doppiamente emblematica. La povera ragazza predica l’emancipazione e il riscatto femminile, ma rimane poi legata ad un uomo che la sfrutta e la tradisce, lui stesso personificazione dell’ipocrisia dell’intellettuale borghese, del radical chic, come si direbbe oggi. Eleanor in realtà non conosce affatto la miseria delle masse cui si rivolge, e quando viene a contatto con essa prova quasi più orrore che compassione. Lei stessa ha già alle spalle, in casa, una storia di ambiguità e menzogne che si cela dietro rapporti familiari apparentemente idilliaci (la vicenda del figlio illegittimo avuto da Marx con la donna di servizio, mai riconosciuto, e attribuito, per convenienza, ad Engels).

Insomma, mano a mano che mi approssimo al valico della Dogliola mi vado convincendo che forse il film così brutto non era, che mi ha infastidito solo perché sono un viscerale e non sopportavo di vedere una donna lasciarsi trattare in quel modo, senza la forza di venirne fuori. Ma proprio questo voleva ottenere l’autrice. E allora, devo ammettere che c’è pienamente riuscita.

3)   A quanto pare ho tenuto il ritmo giusto, perché l’ultimo tratto di sentiero, solitamente quello più fastidioso, quasi non lo avverto. I polmoni inviano regolarmente ossigeno al cervello, e questo tiene la direzione. Passo dunque in dissolvenza dalle immagini del film alle impressioni tratte da due letture recenti, che col film hanno molto a che vedere.

La prima di queste letture riguarda un testo singolare, Il socialismo degli intellettuali (1905), del quale sono venuto a conoscenza per puro caso. Anche l’autore, Jan Waclaw Machajski, un polacco, è rimasto per me un perfetto sconosciuto sino ad un paio di mesi fa, malgrado una traduzione italiana della sua opera sia stata ripubblicata proprio lo scorso anno, a più di secolo dalla prima comparsa, da una casa editrice anarchica. Ho dovuto prendere atto ancora una volta della mia disinformazione – mi accade ormai troppo spesso – perché le tesi che Machajski sosteneva nel 1905 sono molto vicine a quelle che io stesso ho maturato autonomamente da un pezzo. Machajski tra l’altro non spuntava dal nulla: aveva alle spalle un lungo percorso di agitatore politico in seno all’internazionalismo socialista, ma soprattutto l’esperienza di undici anni di deportazione in Siberia, nel corso dei quali aveva avuto tempo e agio di approfondire l’opera e il pensiero di Marx, cogliendone quelle ambiguità di fondo che poi avrebbe denunciato nella sua opera più famosa.

In sostanza, Machajski mette in discussione il ruolo di “guida rivoluzionaria” che il marxismo ortodosso riconosce all’intellighenzia, ai “lavoratori intellettuali”. Sostiene che l’intellighenzia costituisce una classe economica a se stante, che ha in fondo tutto l’interesse a perpetuare lo sfruttamento del proletariato. Detto in parole più semplici, ci vuol pure qualcuno che lavori per consentire a qualcun altro di pensare. A suo vedere il socialismo in generale e il marxismo in particolare sono nati per portare avanti gli interessi di questa classe, e la “socializzazione dei mezzi di produzione”, sottraendo il potere alla borghesia imprenditoriale e ai trust capitalistici, non farebbe altro che trasferirlo ad essa, lasciando sostanzialmente invariate le condizioni dei lavoratori. Ammetto che è una tesi decisamente rozza, e la sintesi che ne ho fatta io lo è ancor più, ma nella sostanza coincide sorprendentemente con quello che mio padre, che non aveva mai letto Machajski, e se per questo nemmeno Marx o Lenin, pensava in proposito. E che in maniera magari un po’ più articolata penso anch’io.

Può anche apparire una tesi pericolosa, perché sembra preludere e plaudire a quella “ribellione delle masse” di cui parla, con giustificato timore, Ortega y Gasset, o alla delegittimazione delle élites che tanto va di moda oggi. In realtà, Machajski dice semplicemente che tra ciò che pensa e vuole il proletariato e ciò che vorrebbero pensasse e desiderasse gli intellettuali c’è una bella differenza, e che questi ultimi tendono ad essere autoreferenziali al punto da infischiarsene o da essere irritati da questa differenza. Il che è tutto vero. Ho in mente come Marx liquidò un delegato degli operai inglesi al primo congresso dell’Internazionale, John Weston (un buon vecchio, un povero diavolo, un sempliciotto, un carpentiere!), confidando infastidito a Engels che “non è facile spiegare agli ignoranti tutte le questioni economiche che vi si raggruppano intorno” e “sono esitante, perché aver per avversario «Mr. Weston» non è proprio molto lusinghiero”. Piccolo particolare: a Londra “mr. Weston” (carpenter!) rappresentava le associazioni dei lavoratori, Marx solo se stesso. Non importa se poi nella polemica su prezzi e salari avesse ragione il primo o il secondo. È un problema di atteggiamento, lo stesso che ho riscontrato sempre, studiando la storia delle rivoluzioni o vivendo di persona quella parodia della rivoluzione che è stato il Sessantotto.

È un ritornello sul quale torno da un pezzo, e che non mi stancherò mai di ripetere. Nelle “Riflessioni sulla violenza”, uscito tra l’altro tre anni dopo il libro di Machajski, George Sorel diceva che “Gli intellettuali non sono gli uomini che pensano: sono le persone che fanno professione di pensare e che prelevano un salario aristocratico in ragione della nobiltà di questa professione”. Un salario integrato da un status sociale privilegiato, quello di detentori del sapere anche per conto terzi. Precisamente a questa fenomenologia dell’intellettuale si riferisce Machajski. Che naturalmente lo fa con un linguaggio e con delle argomentazioni usurati dal secolo trascorso, con un costante riferimento polemico alle posizioni della socialdemocrazia dell’epoca e alla realtà del movimento dei lavoratori che aveva sotto gli occhi. Per questo leggere “Il socialismo degli intellettuali” non è una passeggiata. Dice con chiarezza le stesse cose che in Miss Marx sono solo suggerite, ma tirandola in lungo per quasi trecentocinquanta pagine è ancor più noioso.

Eppure valeva la pena. É tutt’altro che un libro superato. In fondo ancora oggi devo sentir parlare di proletariato (sempre meno: ormai si preferisce la moltitudine) e di lavoro da Agamben, da Toni Negri o addirittura da Diego Fusaro, gente che se prendesse in mano una falce, un martello o una chiave inglese si farebbe del male, e che non ha mai conosciuto la precarietà. E devo vedere delegittimate le competenze da Maffesoli o dal suo emulo Baricco, con una interpretazione totalmente distorta del baconiano “sapere è potere”. Non avranno preso il potere, gli intellettuali, ma senz’altro hanno saputo difendere bene, e giustificare ancora meglio, i loro privilegi.

4)   L’altra lettura mi ha impegnato per quasi una settimana, anche se non è stata faticosa quanto la mole del volume (650 pagine) e soprattutto l’argomento avrebbero lasciato credere. Si tratta della biografia di Togliatti (Palmiro Togliatti, Mondadori 1974) scritta da Giorgio Bocca. Anche questa non era nella lista d’attesa delle mie letture, nemmeno in quella a scadenze remote. È arrivata al traino de Il provinciale, dello stesso Bocca, a sua volta occasionalmente scoperto ai primi di settembre nella baita in cui ero ospite di un amico. Di Bocca, per motivi che non sto ora a spiegare, non avevo una stima assoluta: ma queste due letture l’hanno senz’altro rafforzata.

Dunque, a leggere il Togliatti sono stato spinto più che dall’argomento, che sinceramente non aveva per me alcuna attrattiva, dalla curiosità di vedere come Bocca trattava il personaggio. E sono stato ampiamente ripagato.

Per Togliatti non ho mai provato la minima simpatia. Si tratta certamente di un sentimento preconcetto, che risale addirittura all’infanzia, complice mia madre, degasperiana di ferro, che vedeva il leader comunista come il fumo negli occhi. Anche mio padre, però, che negli anni del dopoguerra si era spostato da una militanza social-comunista piuttosto critica e disincantata ad un atteggiamento che definirei anarco-individualista, non era uomo da poter considerare senza ironia il culto tributato dai compagni al “migliore”. Ho ancora in mente una discussione orecchiata nella vecchia bottega di ciabattino almeno sessantacinque anni fa, che si svolgeva tra lui e un suo apprendista-lavorante, il buon Nanini (anche lui zoppo, secondo la tradizione per la quale i rivoluzionari più accesi sono quelli affetti da handicap fisici). All’esaltazione che Nanini faceva di Togliatti, e di riflesso di Stalin, mio padre oppose una sola battuta: “Credi che sarebbero capaci di riparare un paio di scarpe, di tirare su un muro o di potare un vigneto?” Non aveva letto Machajski, ma era arrivato alle stesse conclusioni.

L’antipatia ereditaria si è andata ancor più rafforzando quando ho cominciato a vedere immagini del “migliore” sui giornali, nei cinegiornali de “La settimana Incom” e in televisione, al telegiornale o nelle tribune politiche. Togliatti sprizzava antipatia da tutti i pori – e questo lo dice chiaramente anche Bocca. E giustamente si chiede come sia stato possibile, ad esempio, che milioni di persone ne abbiano sinceramente pianto la scomparsa e si siano strette attorno alla sua bara.

Ora, apparentemente questa risposta Bocca non se la dà, ma in realtà continua a suggerirla pagina dietro pagina. Lo fa attraverso una ricostruzione accurata, documentatissima, ben scritta, la cui lettura consente di andare ben oltre la vicenda del dirigente comunista.

È una risposta semplice e complessa al tempo stesso.

È semplice perché in fondo Bocca apparenta l’idealità politica ad una fede religiosa. L’una e l’altra promettono salvezza, la prima in terra, la seconda in cielo, ed è assodato le masse hanno bisogno di questo messaggio. In tal senso Togliatti e gli altri dirigenti comunisti, primo tra tutti naturalmente Stalin, hanno goduto della stessa presunzione di infallibilità della quale gode il papa, anche quando le loro decisioni e le loro azioni apparivano incomprensibili, contraddittorie o addirittura ripugnanti. Non c’era Togliatti in quella bara, a quel funerale, ma un’idea, un’idea in nome della quale un sacco di gente aveva sofferto, si era sacrificata, aveva operato.

E fin qui ci sta, è una risposta che avevano già dato molti altri. Ma questo è solo il quadro generale. La biografia intende raccontare ben altro. Intanto strappa il velo sulle lotte intestine, sia su quelle che hanno insanguinato per un trentennio l’URSS che su quelle poco meno cruente che hanno travagliato la vita dei vari partiti comunisti europei, e nella fattispecie di quello italiano. E ne viene fuori un vero viperaio. Ma nemmeno questa era materia del tutto nuova.

Quel che intriga davvero è invece il fatto che Bocca sembra giustificare, o almeno “comprendere”, ognuna delle scelte di Togliatti, arrivando alla conclusione che in fondo non avrebbe potuto agire altrimenti. Ma questo perché il difetto stava nella scelta di fondo.

Partendo dal presupposto che il primo vero obiettivo fosse la conquista del potere, che questa condizione sia imprescindibile per la transizione al socialismo, e che solo una grossa forza di partito può renderla possibile, così come solo una ferrea capacità organizzativa consente di reggere l’urto della reazione e scoraggiare le derive interne, non rimanevano altre scelte se non quelle compiute da Togliatti.

Tutti i risvolti negativi del personaggio, che Bocca non trascura di sottolineare e dei quali evidenzia senza fare sconti i tragici effetti, ai fini del raggiungimento di quello scopo si rivelano i più efficaci. Togliatti non ha tenuto le redini del partito per trent’anni (e che anni!) per un caso. Era il più adatto, dice Bocca. Ciò che non dice esplicitamente, ma lascia chiaramente intendere, è che il problema stava nell’aver scambiato i mezzi per i fini, la presa (e la conservazione) del potere con la realizzazione del socialismo, senza badare ai costi umani e alle aspirazioni reali delle masse, e trattando anzi queste ultime davvero come tali, spostandole ad arbitrio in una direzione o in un’altra.

Se Togliatti attraversa quasi indenne un mezzo secolo così burrascoso, e scampa ai pericoli interni ed esterni, e fa prevalere ogni volta il suo punto di vista, è perché antepone all’idealità l’efficienza: costruisce una macchina politica formidabile, la guida magistralmente e con freddezza: sa riconoscere i percorsi migliori ed evitare ogni ostacolo, o nel caso travolgerlo senza farsi distrarre dalle perdite. C’è un solo problema: ha perso di vista molto presto, o forse non ha mai conosciuto, i passeggeri ai quali doveva fare da guida, ha tassativamente imposto di non parlare al conducente, ma soprattutto ha dimenticato quale avrebbe dovuto essere la meta originaria.

5)   Io ho invece ben chiaro qual è per oggi la mia, e finalmente la raggiungo. In cima non trovo nessuno. Da ovest stanno arrivando un po’ di nuvole, mentre comincia a soffiare una brezza freddina. Sulla maglietta bagnata non è il massimo. Non credo che rimarrò molto. Fumo la rituale sigaretta, cambio la maglia e faccio un salto nel rifugio, per leggere il libro di vetta. Voglio accertarmi che Michele Magnone sia in salute e prosegua nelle sue salite quotidiane. Infatti trovo annotati ieri, e ier l’altro, e il giorno avanti, con i suoi simboli meteorologici consueti, e scorrendo indietro nei giorni di settembre vedo che non ne ha mancato uno. Nessun commento, nessuna indicazione dei tempi di percorrenza o dell’itinerario seguito. Presenza pura che aleggia e lascia impronta solo sul libro.

Michelino sale regolarmente il Tobbio da almeno quindici anni, per trecentosessantacinque giorni l’anno. Ha ormai stracciato tutti i record di perseveranza e certamente anche quello delle salite assolute, quindi non è questo a motivarlo. E nemmeno il fatto che circoli voce di queste imprese, che si sia creato un mito, che esista una piccola nicchia di suoi fans, anche di timidi emulatori, e che a questo punto non voglia deluderli. Credo piuttosto si tratti di un genuino bisogno fisico, psicologico e spirituale: di una dipendenza positiva. L’ultima volta che l’ho incrociato sul sentiero, qualche anno fa, era in forma perfetta: e ha un paio d’anni più di me.

Colpisce che nessuno, per quanto magari possa considerare la cosa un po’ bizzarra, pensi che a Michele sia saltata qualche rotella. Lo si è pensato di altri, che per qualche tempo han continuato a salire con la stessa regolarità, uno addirittura due volte al giorno. Ma la diagnosi scaturiva più dalle giustificazioni e dalle esternazioni che lasciavano nel libro di vetta che dalla pratica in sé. Michele non ha mai dato una spiegazione, non ha scritto un rigo di commento. A un tale che seduto a ridosso del muro della chiesetta gli chiedeva: “Come mai sale tutti i giorni?” ha risposto: “E lei come mai è salito oggi?” “Perché è bello”, ha ribattuto l’altro. “Vede che allora lo sa?” è stata la chiusura. Questa l’ho sentita con le mie orecchie. Mi sembra la migliore delle motivazioni. Togliatti non l’avrebbe condivisa.

Ripongo il libro di vetta e faccio un giro attorno al rifugio e alla chiesetta, guardando in basso in ogni direzione, casomai scorgessi salire Michele. Non di vede anima viva, cosa abbastanza rara in questa stagione. Gli unici rumori sono il sibilo del vento, che comincia a rinforzare, e il suono dei campanacci che arriva dai pratoni del Figne, dove pascolano le mucche. Decido di tornare a valle.

6)   Quando prendo a scendere si riaffaccia alla mente l’immagine di Eleanor Marx, forse per scacciare quella di Togliatti. Per una singolare coincidenza pochi giorni fa sono tornato a riflettere sulle singolarità dei comportamenti femminili, a seguito di una mail di Nico Parodi che mi segnalava un articolo dal titolo “Donne, non siate crocerossine”. In quell’articolo l’autrice constatava amaramente che troppe donne sono attratte dai maschi egoisti, narcisi, iracondi, e spiegava questo atteggiamento irrazionale con la propensione delle donne alla cura, frutto della selezione naturale che ha favorito il successo riproduttivo delle donne maggiormente dotate di questa attitudine. Insomma, il classico atteggiamento infermieristico: io ti salverò.

Nico ritiene però che se di selezione naturale vogliamo parlare bisogna farlo seriamente. E cita allora Dawkins, che offre questa spiegazione alternativa: “In una società in cui i maschi competono fra loro per essere scelti dalle femmine come i compagni migliori, una delle cose più positive che una madre può fare per i propri geni è fare un figlio che diventi a sua volta un maschio attraente. Se può assicurarsi che il proprio figlio sarà uno dei pochi maschi fortunati che una volta cresciuti prenderanno parte al maggior numero di copulazioni, avrà una folla di nipoti. Il risultato è che una delle qualità più desiderabili che un maschio può avere agli occhi di una femmina è, molto semplicemente, di essere sessualmente attraente. Una femmina che si accoppia con un maschio superattraente ha più probabilità di avere figli attraenti per le femmine della generazione successiva che le produrranno un gran numero di nipoti”.

Nico si (e mi) chiede quindi se la scelta femminile sia dettata dalla propensione alla cura o dall’influsso dei geni, che spinge la donna a cercare l’opportunità di generare maschi “copulatori”, capaci di garantirle una discendenza molto nutrita. (Secondo lui le donne propenderanno certamente per la prima possibilità, perché in fondo starebbe a significare una disposizione positiva: i maschi – lui scrive “i maschilisti” – per la seconda.

È una domanda che io stesso mi sono posto per almeno cinquant’anni, dai dieci ai sessanta (prima naturalmente non me la ponevo, dopo ho fortunatamente cessato di pensarci). Senza darmi mai una risposta credibile, con ogni probabilità perché ero sempre in qualche modo emotivamente coinvolto. Ho solo maturato la convinzione che questo atteggiamento sfugga al campo del razionale, e mi sono posto come uno spettatore ogni volta stupefatto.

Penso comunque che di fronte ad una cosa del genere tutti i maschi siano totalmente disarmati. Malgrado l’aiuto che può venire da Dawkins. E tuttavia, qualche riflessione ho provato ad azzardarla. Io credo esista davvero nelle femmine una “propensione alla cura”, giustificata se non altro dal diverso tipo di investimento che operano nella riproduzione. Che questa quindi sia una caratteristica originaria, di natura biologica. Credo anche però che tale caratteristica sia stata soggetta a “derive” culturali, provocate dagli innumerevoli mutamenti nei ruoli, sia pure solo di superfice, che si sono determinati soprattutto in occidente, per effetto ad esempio di fenomeni come il cristianesimo e la rivoluzione industriale (che a dispetto delle apparenze non sono stati fattori di emancipazione, o lo sono stati solo in un certo senso).

Voglio dire che la propensione alla cura si è “evoluta” in una propensione alla “guida”, nella quale interviene una scommessa. Si sceglie l’elemento meno affidabile, proprio per le sue caratteristiche spiccate di auto-affermazione, quindi di egoismo prevaricatore o meschino, e si cerca di mettergli un guinzaglio. In questo modo, se la cosa riesce, si ottengono due risultati: si fanno figli che a loro volta dovrebbero avere maggiori probabilità di risultare “attraenti” (e quindi moltiplicazione dei nipoti, successo “genetico”) e si soddisfa un bisogno individuale di autostima (Oliver Goldsmith lo sintetizzava in “Ella si umilia per vincere”). La donna crocerossina è a mio giudizio mossa soprattutto da questa seconda motivazione: “Io prendo un disgraziato, o uno stronzo, e ne faccio un uomo, a immagine di quello che io ritengo dovrebbe essere un uomo, ma che come già tale, visto che non mi lascerebbe margine d’azione, non mi interessa”.

È un’immagine semplicistica, ma penso non sia molto lontana dal vero. D’altro canto, è ciò che dice anche l’autrice dell’articolo. Credo tuttavia che questo atteggiamento vada, come si suol dire, “contestualizzato”. In effetti la possibilità di scegliere, nella società umana, le donne ce l’hanno realmente solo da un paio di generazioni. Prima il loro “umiliarsi per vincere” era solo una strategia di sopravvivenza in situazioni che erano loro imposte. Può essere che proprio per questo motivo abbiano affinato talmente le loro capacità di difesa da trovarsi oggi portate ad esercitarle anche in un contesto mutato: che vadano a cercarsi le grane per darsi conferma di un loro sotterraneo potere. Non lo so. Probabilmente una donna direbbe che sono tutte stronzate, prodotti di risulta di un maschilismo inveterato, e forse avrebbe ragione. Ma riesce oggettivamente difficile darsi spiegazioni diverse.

7)   Questo esercizio dissacratorio (Eleanor, Marx padre, Togliatti, gli intellettuali progressisti in massa, la sensibilità femminile) non può che rimandarmi quasi automaticamente al recente stupidissimo fenomeno dell’abbattimento dei monumenti. Non amo in maniera particolare i monumenti. In genere mi sono indifferenti, quando li noto è solo perché sono decisamente brutti. Mi è capitato di rado di trovarne interessante qualcuno, o di pensare che era doveroso. Ma se amo poco i monumenti, amo senz’altro meno chi li abbatte, persino quando il gesto può apparire giustificato da una particolare odiosità del personaggio. Ho sempre l’impressione che chi si affanna a picconare o a tirare corde e ganci sia pronto ad erigerne immediatamente un altro, a qualcuno o a qualche causa altrettanto esecrabile. E non è solo un’impressione. D’altro canto, suona particolarmente stonato il coro di chi a questo scempio ha plaudito in nome del “politicamente corretto”: Palmira era un’icona dell’imperialismo romano quanto Colombo o Cook o altri “scopritori” possono esserlo di quello occidentale, ma solo nel primo caso un brivido di orrore è corso nelle vene di chi pensa “progressivo”. E non mi risulta che qualcuno abbia invocato la decapitazione delle statue di Gengis Khan, del Saladino o di Shaka Zulu.

Abbattere o decapitare le statue non ha comunque a che fare con l’iconoclastia. Non c’è mai stata un’altra epoca altrettanto schiava delle immagini della nostra, e credo addirittura che nella gran parte dei casi, soprattutto per le scene cui ho assistito in televisione e che hanno monopolizzato per un paio di settimane i social, il movente reale per i partecipanti al sabba fosse proprio quello di essere immortalati in immagini “storiche”. Ha invece molto a che fare con l’imbecillità (e su questa c’è poco da dire, ha attraversato equamente ogni epoca, più o meno allo scoperto ma sempre onnipresente), ma soprattutto, nello specifico attuale, con un rapporto decisamente (e volutamente) distorto con la storia.

Partendo dal presupposto che la storia è stata scritta (e i monumenti sono stati eretti) dai vincitori, si procede, anziché a correggerla, a cancellarla. Solo però per riscriverne un’altra, che non dovrà fondarsi sugli elementi concreti, sulla documentazione “oggettiva” di cui siamo in possesso, sulle ricostruzioni che siamo in grado oggi di effettuare incrociando i dati, ma sulle diverse memorie che degli stessi avvenimenti hanno le varie parti in causa. Col risultato che ad un minimo di idea di “percorso” storico, inteso come successione di eventi che hanno esercitato la loro influenza nel tempo e nello spazio, che sono tenuti assieme non da una volontà divina o da un filo di superiore razionalità, ma da una più o meno esplicita causalità reciproca, che dunque per essere davvero compresi necessitano di una cifra di lettura unificata, sia pure con tutti i contrappesi e gli accorgimenti possibili, a questa idea temo dovremo presto rinunciare.

8)   Pensare a queste cose mentre si scende dal Tobbio mette a rischio di cadute, oltre che generare crisi di sconforto. Cerco allora di distrarmene badando a dove poso i piedi e riempiendomi gli occhi della vallata del Gorzente dall’alto. Inconsciamente però consulto anche per la prima volta l’orologio, e all’improvviso mi viene in mente che avevo programmato per fine mattinata un passaggio all’ufficio comunale, per rinnovare la carta d’identità, scaduta da un pezzo. Ho già la foto, il bollettino pagato e tutto quel che serve, devo cercare di concludere oggi. Allungo il passo, quindi, ma senza esagerare. Perché nel frattempo questa storia della carta d’identità e della fotografia ha destato un’altra folata di pensieri.

Intanto bisognerebbe ristabilire la correttezza dei termini. Quella che sto per rifare non è una carta di identità, ma un documento di identificazione. L’identità non può certo essere costretta in quel tesserino di nove per sei centimetri: ma nemmeno se fosse un volume di millecinquecento pagine. Il fatto stesso che ogni dieci anni uno debba rifarla è emblematico. Sarebbe più pertinente chiamarla “certificazione dello stato storico dell’identità”: ma nemmeno questa dicitura corrisponde al vero.

Provo a fare la conta dei dati che sono richiesti per rilasciare una carta d’identità (almeno, di quelli considerati nel documento cartaceo). Ti chiedono quando sei nato (dato storico) e dove, dove risiedi (dati geografici), di che sesso sei, quanto sei alto, quanto pesi, di che colore hai occhi e capelli (dati morfologici), se sei sposato o meno, che lavoro fai (dati sociologici) e se hai segni particolari. Altrove chiedono anche l’etnia e la religione, noi per il momento questi ce li risparmiamo. Sono dati disgiunti, di per sé neutri, che acquistano un senso solo una volta incrociati (sarebbe bizzarro un sessantenne zoppo, alto come Brunetta, che dichiarasse come professione la pratica sportiva della pallacanestro) ma nella sostanza poi di te dicono nulla. In buona parte debbono essere infatti costantemente aggiornati, e non solo quelli fisici: cambiano senz’altro con l’età il colore dei capelli, qualche volta il peso e dopo i sessanta persino l’altezza, ma spesso anche lo stato civile, la residenza e la professione. Oggi poi le cose si sono ulteriormente complicate, può cambiare anche il sesso. E lì hai voglia a definire una identità.

Siamo identificabili, ma non conoscibili. A quest’ultimo scopo sono molto più significativi i dati che non ci vengono richiesti, ma sottratti: di me, che pure non compaio sui social, c’è chi sa ormai praticamente tutto. Cosa leggo, qual è il mio orientamento politico, se pratico qualche sport, se ho qualche disturbo fisico o psicologico, tutto insomma quello che serve a vendermi qualcosa. Come apro una pagina su internet mi sbattono in faccia libri, trapani, compressori, scaffalature per libreria, offerte di abbonamento a riviste o a repertori on line. Credo leggano persino le cose che posto sul sito (e questo non mi spiacerebbe). Del peso, del colore degli occhi e dei capelli, del luogo di nascita possono fare benissimo a meno.

Il problema è che a breve l’ufficio di anagrafe farà a meno anche dell’elemento chiave della carta, la fotografia: siamo passando a fattori di identificazione invariabili, le impronte digitali o il DNA.

Questo mi spiace. L’immagine fotografica è senz’altro uno dei dati più mutevoli, quindi meno affidabili, ma nella fredda burocraticità della carta portava davvero qualcosa imparentato con l’identità. Credo che nessuno conserverebbe i documenti scaduti se fossero senza foto, mentre molti (io compreso) li conservano proprio per le fotografie.

Il primo documento d’identità mi è stato rilasciato a quattordici anni. Si chiamava certificato di identità personale, perché la carta vera era prevista solo per i maggiorenni. Ne ero orgoglioso, in qualche modo mi sembrava un riconoscimento del mio ingresso nel mondo degli adulti. Ero solo un po’ scocciato per via della fotografia. In effetti non sono mai stato molto fotogenico, e a quattordici anni lo ero ancora meno. Discorso diverso per la prima carta d’identità vera e propria. Lì la fotografia era venuta benissimo, stentavo persino io a riconoscermi. Ne ho fatto dei duplicati, ho continuato ad usarla per documenti di ogni genere per anni, passaporto, tessere sportive, abbonamenti ferroviari, tesserino universitario, fino a quando hanno cominciato a contestarmela perché sembrava quella di mio figlio. Una è finita addirittura nel documento per l’acquisto degli anticrittogramici, di vent’anni dopo. Ne conservo ancora qualche copia. La giocavo volentieri dopo i primi approcci, per sorprendere le amiche, che in genere esclamavano: “Ma guarda, come eri carino!” Le foto finite sulle carte d’identità successive avvalorano la mia tesi sull’ambiguità del concetto. Le ho ancora tutte: col ciuffo e l’aria sbarazzina, con i capelli lunghi, con taglio corto e baffetti alla Charles Bronson, con baffi alla Gengis Khan, con barba da antropologo, con baffoni nietzschiani, completamente sbarbato, con capelli a spazzola, con taglio da ergastolano. Tutta questa varietà non suggerisce qualcosa, non parla di una identità costantemente mutevole? Se le guardo tutte assieme mi scopro personaggio pirandelliano, uno e centomila (nessuno, per il momento, non ancora).

Mi spiace perché ultima foto è venuta piuttosto bene, quantomeno mi sembra restituisca abbastanza onestamente come sono in questo momento, forse qualcosina in più: e invece sul documento digitale verrà rimpicciolita sino essere in realtà indecifrabile. In compenso, al momento di rilevare le impronte si è scoperto che non una delle tre digitazioni che mi hanno chiesto di effettuare con l’indice destro ha dato un risultato compatibile con le altre due. Refrattario ad ogni tipo di identificazione, anche a quelle più sofisticate.

Ormai sono in fondo. Davanti alla cappelletta degli Eremiti, nel punto di attacco del sentiero, incontro una famigliola svizzera, padre, madre e due figlie piccole, massimo cinque e quattro anni. Dò loro qualche ragguaglio sulla lunghezza e sulle difficoltà del percorso, e li avviso che con le due bimbe non saranno in vetta prima di tre ore, il che, considerando che è quasi mezzogiorno, significa essere di ritorno a sera. Sorridono e ringraziano: ok, va bene così. Mi dico che con genitori di quella tempra vengono su per forza dei ragazzi svegli. Potenza degli svizzeri! Poi mi viene in mente che Emiliano mi ha preceduto lassù a cinque anni, salendo in poco più di un’ora, Chiara se l’è fatta da sola a tre anni e mezzo, sia pure mugugnando un po’, Elisa a dieci anni mi mollava a metà strada per non rallentare il suo passo. La mia parte, almeno in questo senso, l’ho fatta anch’io.

Un po’ di sentieri li ho fatti conoscere, a loro e ad altri. E vorrei che di me conservassero una foto che nei documenti non è comparsa mai. Di spalle, con lo zainetto e con la maglietta zuppa. Lì mi riconosco sempre.

Il catalogo è questo!

di Fabrizio Rinaldi, 13 settembre 2020

Come tutti gli uomini della Biblioteca, in gioventù io ho viaggiato;
ho peregrinato in cerca di un libro, forse del catalogo dei cataloghi […].
JORGE LUIS BORGES, Finzioni, Einaudi 1992

Ogni‌ tanto‌ è‌ doveroso‌ fare‌ ordine.‌ Capita‌ con‌ le‌ bollette‌ e‌ con‌ le‌ cianfrusaglie‌ di‌ casa,‌ ma‌ anche‌ con‌ le‌ aspirazioni‌ e‌ le‌ scelte‌ (e‌ qui‌ però è‌ più‌ dura,‌ perché‌ queste‌ in‌ realtà‌ non‌ trovano‌ mai‌ il‌ posto‌ giusto‌ nei cassetti ‌della‌ ‌vita).‌
Anche i‌ Viandanti‌ ‌delle‌ ‌Nebbie‌ di tanto in tanto ‌sentono‌ ‌la‌ ‌necessità‌ ‌di‌ ‌organizzare‌ ‌il‌ ‌‌materiale‌ ‌prodotto‌ ‌in‌ tutti questi ‌anni‌ ‌(quasi venticinque, un quarto di secolo):‌ ‌cataloghi‌ ‌di‌ ‌mostre,‌ ‌libretti,‌ biografie, ‌pensieri‌ ‌sparsi,‌ ‌estratti‌ ‌da‌ ‌convegni,‌ ‌riflessioni estemporanee,‌ ‌idee‌ ‌bislacche,‌ ‌consigli‌ ‌di‌ ‌lettura,‌ ‌riviste‌ ‌vive,‌ ‌morte‌ ‌o‌ ‌abortite,‌ ‌ecc‌ ‌…‌
Tempo fa era stato fatto un‌ ‌primo‌ ‌passo,‌ ‌fondamentale,‌ con ‌la‌ ‌creazione‌ ‌del‌ ‌sito,‌ ‌nell’intento‌ ‌di‌ ‌fare‌ ‌un‌ ‌salto‌ ‌di‌ ‌qualità‌ ‌(e soprattutto di ‌quantità)‌ ‌e‌ ‌di‌ ‌rendere‌ ‌fruibili questi materiali a qualche ipotetico lettore in più, anche a costo di sacrificare un po’ dell’iniziale “purezza” cartacea.
Si era in quella occasione adottata‌‌ ‌la‌ ‌suddivisione‌ ‌in‌ ‌Quaderni‌ ‌e‌ ‌in‌ ‌Album‌, trasferendo pari pari sul web quella che era l’impostazione editoriale precedente: che aveva senz’altro una sua dignità, nel senso che si presentava bene, ma che alla lunga si sta rivelando poco pratica per la consultazione, soprattutto per chi intenda cercare ‌nei‌ ‌testi‌ ‌dei‌ ‌Viandanti‌ ‌indicazioni e supporto per‌ ‌un‌ ‌suo‌ ‌personale‌ ‌itinerario.‌ ‌Mentre proprio questo vorrebbe essere lo spirito della nostra iniziativa.
In‌ ‌fondo‌ ‌leggere‌ ‌i‌ ‌testi‌ ‌dei‌ ‌Viandanti‌ ‌è‌ ‌un‌ ‌po’‌ ‌come‌ ‌salire‌ ‌sul‌ ‌Tobbio:‌ ‌si può‌ ‌partire‌ ‌dal‌ ‌Gorzente,‌ ‌da‌ ‌Voltaggio‌ ‌o‌ ‌dagli‌ ‌Eremiti,‌ ‌ma‌ ‌ci si può‌ ‌arrampicare ‌anche‌ ‌lungo i ‌ ‌canaloni o i crinali,‌ se le‌ ‌gambe‌ ‌reggono.‌ ‌Determinante,‌ ‌come‌ ‌sempre,‌ ‌non‌ ‌è‌ ‌arrivare‌ ‌in‌ ‌vetta,‌ ‌ma‌ ‌in‌ ‌quale‌ ‌modo ci si arriva.‌ ‌E‌ ‌si può sempre ‌scegliere‌ ‌di‌ ‌fermarsi‌ ‌a‌ ‌dieci‌ ‌metri‌ ‌dalla‌ ‌cima‌ ‌per‌ ‌tornare‌ ‌indietro‌, ‌e‌ ‌ricominciare‌ ‌da‌ ‌qualche‌ ‌altra‌ ‌parte.‌ ‌Magari‌ ‌il‌ ‌giorno‌ ‌dopo‌ ‌…‌
Così‌ ‌è‌ ‌per‌ ‌i‌ ‌testi‌ ‌del‌ ‌Viandanti‌ ‌delle‌ ‌Nebbie‌ ‌elencati‌ ‌nel‌ ‌file‌ ‌excel‌ ‌che‌ compare ‌‌in‌ ‌calce‌ ‌a‌ ‌questo‌ ‌pezzo.‌ ‌È‌ ‌organizzato‌ ‌per‌ ‌consentire‌ percorsi trasversali e pressoché infiniti, che possono essere intrapresi ‌selezionando ‌i‌ ‌testi‌ ‌per‌ ‌autore,‌ ‌per argomento, per successione cronologica, o‌ ‌anche‌ seguendo‌ ‌il filo delle parole‌ ‌chiave.‌
Ad‌ ‌esempio‌, ‌i molti‌ ‌testi‌ ‌sul‌ ‌viaggio‌ ‌o‌ ‌sull’arte‌ ‌ ‌sparsi‌ ‌in‌ ‌differenti‌ ‌“contenitori” possono essere singolarmente‌ ‌scaricati‌ (cliccando‌ ‌sul‌ ‌titolo‌ ‌si‌ ‌apre‌ ‌la‌ ‌singola‌ ‌pagina‌ ‌web‌ ‌ed‌ ‌in‌ ‌calce‌ ‌ad‌ ‌essa‌ ‌c’è‌ ‌il‌ ‌pulsante‌ ‌“download”)‌ ‌e‌ ‌riassemblati‌ ‌in libretti‌ ‌originali, personalizzati.‌

Naturalmente, un catalogo‌ ‌di questo tipo non‌ ‌è‌ ‌mai‌ ‌completo, ‌‌poiché‌ ‌di volta in volta continueranno ad essere‌ ‌‌inseriti‌ i ‌pezzi più recenti‌ e aggiornati quelli vecchi.‌
Questo ci auguriamo: ‌che‌ ‌il‌ ‌catalogo‌ ‌non‌ ‌si‌ ‌esaurisca‌ ‌mai‌, e‌ offra ‌sempre‌ ‌nuovi stimoli‌ ‌per‌ ‌intraprendere‌ ‌personalissime scarpinate sui‌ ‌sentieri‌ ‌dei‌ ‌Viandanti‌ ‌delle‌ ‌Nebbie.‌

Il catalogo è aggiornato al 31/12/2022, in formato excel o pdf.

Il download dell’articolo è scaricabile in pdf cliccando su

Collezione di licheni bottone

Quaranta dì, quaranta nott

di Vittorio Righini, 11 aprile 2020

Pratico la quarantena da anni. Sto bene in casa durante la settimana, leggo libri, ascolto musica, cucino, curo l’orto, taglio l’erba, guardo i documentari e rarissimi film, vado a far la spesa e poco altro. Nel fine settimana esco e faccio un giro con la mia vecchia Guzzi, oppure vado ai mercatini a comprar libri (virus trasmessomi da noto Professore di Lerma), oppure vado in trattoria. Quindi, apparentemente, questa quarantena non dovrebbe essere niente di molto diverso, sebbene mi manchino i mercatini, il giro in Guzzi e soprattutto le trattorie. Ma la differenza è subdola; la mia precedente quarantena era ricercata e gradita solitudine, questa è domiciliazione imposta. La permanenza in casa con la moglie dà l’idea della gag che gira sui telefoni: mogli in casa: 1 – percepite: 4. Tra l’altro, mia moglie lavora mezza giornata, quindi ho interi pomeriggi da passare con la gatta e il cane, diciottenne sordo, maleodorante, tremulo e con deambulazione ridotta. In compenso mangia e caga come un leone.

La casa è ubicata a sud, così al mattino conviene accendere il camino, per smorzare l’umidità, ma la vista sulla città ripaga del sacrificio: inoltre posso uscire e girare come voglio perché sono isolato sulla collina. Anche io penso che mi stiano fregando un anno, come scrive il Professore, perché temo che questa estate non andremo tanto in giro, o per niente, e lo faremo guardandoci in cagnesco uno con l’altro, a due metri di distanza. Invidio chi ha una piccola barca a vela, e potrà uscire senza avere contatti col prossimo. Ma la vedo dura: finché non ci sarà un vaccino non riusciremo a scrollarci di dosso l’odiosa idea di vedere nell’altro che abbiamo di fronte un covo di batteri.

Forse tutto questo ci farà bene: o almeno, ad alcuni di noi farà bene. Non sono totalmente pessimista, credo che dopo il vaccino saremo tutti di nuovo umani; certo, quelli che pensano solo a far soldi continueranno a farlo, ma quelli che sanno che la vita è anche fatta di tante piccole cose se le godranno di più, gusteranno di più ogni singolo momento, e tutti i sessanta minuti di ogni ora.

Ho attaccato la scorta di libri non ancora letti, e li sto smaltendo abbastanza in fretta. Però, se arrivato a metà stento, non sono questi i momenti in cui stentare. Abbandono, o sospendo. Mi è successo anche con un libro segnalato dal Prof, La fine è nota di G. H. Hall. Gli avevo chiesto di suggerirmi qualche giallo, qualcosa di leggero, me ne ha suggeriti tre: questo, il primo che ho affrontato, di giallo ha poco, ha tanto di grigio. È scritto in modo ineccepibile, ma è veramente noioso. Ora tenterò di finirlo, ma io volevo un giallo, non uno Steinbeck! Io volevo Poirot, Maigret, roba semplice e genuina con la quale star tranquillo, preso solo dalla ricerca del colpevole, non volevo leggere la descrizione di un lugubre villaggio del Nebraska o dintorni abitato da vari psicolabili, scritta da un Last Heat-Moon in crisi depressiva e senza ironia. Io volevo l’assassinooooo!

Alterno questa lettura, che devo doverosamente portare a termine per potermene veramente lamentare, dato che mi è stata consigliata, a L’ultimo treno della Patagonia, di Paul Theroux, uno che se la tira abbastanza, è simpatico come un peto, ma scrive bene e soprattutto fa un viaggio in treno da Boston alla Patagonia, tragitto molto interessante. Poi mi sono fatto un centinaio di pagine di A caccia di draghi, la conquista delle Alpi di Fergus Fleming. Questo sono certo che, prima o poi, decollerà, per ora è ancora abbastanza lento. Nel frattempo ho iniziato Le porte dell’Arabia, di Freya Stark che alterno a Arabia Deserta di C. M. Doughty, questo ultimo considerato da T.E. Lawrence la Bibbia del deserto, e consumato a forza di riletture da Wilfred Thesiger. Volevo iniziare anche La Via della Seta di P. Frankopan, ma mi sono reso conto di aver troppa carne al fuoco.

Ho appena terminato un piacevolissimo libro ritrovato, in questi giorni di clausura, in un baule in soffitta, dal titolo I Pescatori di Frodo, di W. Helwig, una edizione del 1942, che narra di un gruppo di pescatori che usavano la dinamite e che vivevano sulla costa orientale del Pelion, penisola greca. Una storia interessante. Come interessante è Itaca – l’isola dalla schiena di drago di L. Baldoni, un appassionato di Omero e dell’Odissea, che fa un viaggio ai giorni nostri nella piccola isola dello Ionio e riesce a parlare insieme di Ulisse e degli attuali abitanti: un libro un po’ particolare, che non consiglierei a tutti, ma che mi si addice. Ho terminato poi Suite Francese di Irene Nemirovsky, davvero un bel libro. Ho naturalmente sempre una copia di Mani, di P. L. Fermor, aperta in giro per casa, due pagine ogni tanto le rileggo volentieri.

In questa prigionia c’è anche un lato positivo ed è quello economico: non spendo, se non per il cibo. Niente benzina, autostrada, ristoranti, scarpe nuove. Solo qualche libro comprato su Internet: la Posta è celere come non mai, sembra strano ma il piego libri ordinario arriva in pochi giorni, prima di una raccomandata. E la mente vaga su Google maps alla ricerca del prossimo viaggetto, nella tarda estate, in Italia o in Grecia, of course. Ci vediamo lì.

 

Essenziali attributi per consiglieri di libri

di Fabrizio Rinaldi, 25 gennaio 2020

A chi sfida una qualunque platea pubblica (metropolitana, sala d’aspetto o parco pubblico che sia) col semplice gesto di aprire un libro e leggere, sarà capitato di sentirsi dire: Hai un libro da consigliarmi? Quando leggi? perché io non ho tempo per farlo. Magari il rompiscatole nel frattempo smanetta sul cellulare, gli occhi incollati allo schermo per giocare, vedere un filmato o “socializzare” con gente con cui, nella realtà, probabilmente non avrebbe voglia di bere nemmeno un caffè.

Le distrazioni mediatiche non sono lì per caso: hanno lo scopo preciso di impedire l’elaborazione di un qualunque pensiero che non sia connesso ai messaggi commerciali. Quindi chi legge sulle pagine di un libro anziché sullo schermo di uno smartphone crea disarmonia nel quadro. Suscita curiosità e inquieta anche un po’.

Ma il libro è anch’esso soggetto a leggi di mercato, le stesse che valgono per qualsiasi altra mercanzia. E queste leggi prevedono un acquisto, ovvero un esborso, non sempre (quasi mai) proporzionale al valore dei contenuti. Il problema vero nasce però dopo: se hai acquistato un libro si suppone che abbia anche desiderio di leggerlo (a meno di essere un bibliomane feticista). Ma per leggerlo è necessario dedicargli una buona disponibilità di tempo: e qui la cosa si complica, perché a differenza del lavativo qui di fianco, seduto sulla panchina col libro in mano, la gran parte dei potenziali lettori quel tempo ritengono di non averlo.

Quindi accade che in molti casi ci si limiti all’acquisto del volume desiderato, rimandandone la lettura a tempi meno zeppi di impegni, magari ad una vecchiaia da trascorrersi in panciolle, sulla sdraio. Dimenticando, o fingendo di ignorare, che il fiato del lavoro ci rimarrà sul collo fino alla fine dei nostri giorni.

Abbiamo così individuato due diverse modalità di rapporto col libro: quella del lettore e quella del compratore, che non sempre coincidono.

Le richieste di consigli di lettura rientrano nella ritualità del compratore di libri, piuttosto che in quella del lettore: si demanda infatti ad altri la scelta (sempre perché non ho tempo per sceglierli io), contando sul fatto che i testi vengano suggeriti tenendo conto delle predilezioni del richiedente. Cosa che, in realtà, difficilmente accade.

Di fronte ad una situazione del genere è difficile immaginare un ruolo per il “facilitatore di letture”. È una attività decisamente anacronistica, specie in un paese in cui leggere un quotidiano o un libro è ritenuta dai più una perdita di tempo, o un obbligo cui sottostare di malavoglia solo in età scolastica.

Una volta invece questo ruolo era importante. I primi suggeritori di letture erano naturalmente gli insegnanti e i genitori, quando andava bene (spesso no), ma poi quello più autorevole diventava il libraio di fiducia, che conoscendo i gusti e le aspettative dei suoi clienti li indirizzava verso le cose “giuste”.

Oggi, per la fauna in estinzione che prova ancora il desiderio di leggere, questo ruolo se l’è assunto Amazon. Il nostro profilo è tracciato e costantemente aggiornato nei suoi archivi digitali in funzione degli acquisti che abbiamo fatto o dei volumi che abbiamo memorizzato nei “desiderati”, e consente al famigerato algoritmo di anticipare i nostri desideri e proporre tutto ciò che potrebbe suscitare il nostro interesse.

L’unico, illusorio margine di autonomia che conserviamo è quello di visionare le recensioni scritte da altri lettori sulle riviste specializzate, su Anobii, su Amazon stesso o su siti ritenuti “intelligenti”. Sono questi i nuovi “consiglieri di libri”. Hanno assunto il ruolo che un tempo era degli amici, dei librai o degli insegnanti. Il problema è che lì troviamo per lo più delle conferme alle nostre ipotesi d’acquisto, perché anche le recensioni hanno la funzione di indurci a comprare quel libro.

È dunque necessario riabilitare la professione (gratuita e in declino) del “consigliere di libri”, la si eserciti a voce o tramite bit. E possiamo provare a farlo individuando alcune competenze e stabilendo alcune regole per un corretto esercizio.

  • Va innanzitutto tenuto presente che all’aspirante lettore, in realtà, interessa soprattutto conoscere i contenuti del libro indicato. Alla fine, probabilmente il libro non lo leggerà neppure (i consigli sono richiesti, ma difficilmente sono seguiti). È comunque opportuno saperlo presentare bene, non tanto per lo scopo che si potrebbe ottenere, ma per il semplice gusto di farlo.
  • È sempre bene suggerire i classici, tanto non li legge più nessuno. Quelli che millantano di averlo fatto, di norma si sono limitati a leggerne la trama su Wikipedia. Consigliare i libri del momento invece non è saggio: in genere il lettore che chiede suggerimenti ne sa più del consigliere, perché ha già spulciato sul web le varie recensioni (perlopiù lusinghiere).
  • Allo stesso modo, al lettore molto informato su un argomento o su un genere letterario non ha senso raccomandare testi che probabilmente conosce già. Invece è opportuno suggerirgli letture che si situino fuori dai suoi orizzonti ordinari e gliene facciano intravvedere di nuovi. È un azzardo, ma può anche creare la fama di suggeritore leggendario. E comunque, un risultato lo si ottiene: se il richiedente storce il naso ci si libera di uno scocciatore che impedisce a noi di leggere.
  • Sarà magari scorretto tranciare giudizi su ciò che legge chi chiede consiglio, ma visto che il parere – per lo più – è preteso, gratuito e alla fine non accolto, ci si può permettere di stroncare tutto ciò che consideriamo spazzatura. È anzi più che mai lecito in questo caso proporre testi che cozzano totalmente con le abitudini di lettura del richiedente: ad uno che legge Volo, consiglia Byron (magari scorgerà la luce).
  • Qualora il consigliato rimanga deluso, si deve perseverare nel parere proposto. Ai suoi fendenti di disapprovazione, è necessario rispondere con un tocco di ironia sulle lecite differenze di opinioni.
  • Come fa il medico, per esercitare la professione di suggeritore è necessario aggiornarsi continuamente: quindi leggere, leggere, leggere. Non ci sono scorciatoie. È l’unico modo per mantenere accesa la fiamma della curiosità letteraria (e non solo quella). Il paziente deve assimilare, quasi per osmosi, dalle parole del facilitatore non soltanto le coordinate del libro, ma anche l’emozione che s’è provata nel leggerlo. Anche se poi, come ogni buon malato, non seguirà le prescrizioni.
  • La responsabilità di un consigliere è grande: deve indicare la direzione di marcia verso un paradiso, letterario o utopistico che sia. Non può tradire la fiducia che gli è accordata, millantando saperi che non possiede, pena essere smascherato appena il richiedente pone delle domande intelligenti. Quindi, deve aver letto i libri che propone (sembra ovvio, ma lo è meno di quanto si creda).
  • È bene che il consigliere di percorsi letterari accetti a sua volta consigli da altri. Scendere ogni tanto dal piedistallo della conoscenza e mettersi nei panni del richiedente aiuta a conoscere altri percorsi letterari, magari inesplorati.
  • È consentito rifilare anche libri che non si sono apprezzati appieno, ma dei quali si percepiscono le possibili compatibilità col richiedente. È stuzzicante pensare che forse altri potranno gradirli. Capita un po’ come per alcune donne verso le quali si prova una rasserenante consolazione sapere che qualcun altro le possa amare.
  • L’ego smisurato del consigliere di libri a volte fraintende gli intenti di chi gli rivolge la parola, magari solo per attaccar bottone … I saputelli propinano subito un tomo sulla semiotica di Eco, quando – magari – la fanciulla cercava un approfondimento tangibile sul Kamasutra (forse questo è il sogno segreto di ogni consigliere maschio).
  • La donazione dei consigli di lettura non è vincolata a luoghi o situazioni deputati: poco importa se avviene durante una cena fra amici o attraverso un video su Youtube. L’importante è che assuma un carattere di esclusività e di originalità. Il gran maestro dei consiglieri di libri è colui che riesce a rendere la Bibbia accattivante per i suoi contenuti originali.
  • Scrivere è, oggi più che mai, un’operazione commerciale. La responsabilità della pubblicazione di cose dozzinali è da ripartire equamente tra chi scrive da cane e l’editore che gli dà voce. Ma anche chi questi testi poi li suggerisce è da denunciare per reati contro l’intelligenza. La vendetta del lettore deluso si abbatterà su questo impostore. Ma intanto ne va della credibilità dei tanti consiglieri onesti …

In sintesi: fare il promoter di letture intelligenti è un mestiere tutt’altro che remunerativo, che presuppone tuttavia molta responsabilità e coscienza. Tutte cose che qualificano chi continua a svolgere questo ruolo come un dotto o come un fesso, a seconda dell’ottica nella quale lo si inquadra. E tuttavia, non è un’attività ormai del tutto priva di senso.

Continuano ad essere ancora molti coloro che non trovano in alcun videogioco o film, sui social o nell’intrattenimento virtuale, quello stimolo ad un dialogo silenzioso e intimo che l’oggetto libro è invece ancora in grado di suscitare. Per incoraggiarli ci sarà sempre bisogno di qualcuno che li guidi in mezzo alle nebbie. Qualcuno che offra, lungo la strada, il ristoro di un Punto di vista.

Collezione di licheni bottone