Piccole Panda crescono

di Paolo Repetto, 13 marzo 2023

Negli ultimi tempi soffro di uno strano disturbo, che non saprei qualificare diversamente da “apparizione mentale”. È difficile da descrivere: in sostanza percepisco inquietanti segnali che arrivano da cose, persone, situazioni apparentemente normalissime, segnali che poi si amplificano e poco a poco aprono varchi e spalancano scenari assurdi e sconvolgenti.

Come stamane, ad esempio. Ho guadagnato verso metà mattinata il piazzale-parcheggio antistante il Bellavita, un “centro benessere” con sei sale cinematografiche, la piscina tropicale e un albergo a 4 stelle, oltre alla palestra che ogni tanto frequento per cercare di tenere assieme quel che rimane delle mie ossa. A differenza delle altre volte ho faticato a trovare posteggio, e mentre cercavo un buco ho cominciato ad avvertire una strana sensazione. Poi ho capito: stavo rasentando file di auto tutte uguali e anonime, una serie infinita di Panda color grigio-guardia di finanza (un colore non presente nella normale gamma Fiat), che occupavano ogni angolo del piazzale. Una volta sceso, la curiosità ha avuto il sopravvento e ho cominciato a contarle: quarantaquattro, come i gatti, e probabilmente qualcuna mi è sfuggita.

La cosa appariva singolare, perché dalle targhe si desumeva che erano auto tutte molto recenti ma non immatricolate in successione, ciò che escludeva l’apertura di un deposito decentrato della Fiat (d’altro canto, col sistema di produzione just-in-time gli immensi parchi macchine di un tempo non esistono più). Il mistero dunque si infittiva: fino a che, mentre dimentico dei miei esercizi mi aggiravo per il piazzale in preda ad un crescente turbamento, dalle porte dell’hotel ha cominciato ha sciamare una turba di persone d’ogni età, in maggioranza giovani, che indossavano o un giubbotto o una felpa grigi, di colore identico a quello delle Panda ma recanti sul pettorale destro una piccola scritta: Bofrost.

Allora ho realizzato. La Bofrost è un’azienda che distribuisce a domicilio prodotti alimentari, in particolare surgelati. Ho poi verificato: in catalogo ha veramente di tutto, dai primi piatti alle carni ai pesci e ai dolci, e non mancano i prodotti bio, quelli per vegani e vegetariani e quelli per celiaci e intolleranti a prescindere. Probabilmente tutti hanno già visto in giro i suoi furgoni frigo. Si trattava quindi di una convention aziendale (l’hotel è attrezzato di apposite megasale per le riunioni di massa), forse a livello nazionale, visto il numero dei convenuti. Ho dunque immaginato una normalissima riunione, di quelle in cui si presentano agli agenti i prodotti e si mettono a punto le strategie di vendita porta a porta, coordinati da esperti di marketing che sparano una banalità dopo l’altra. Tutto banalmente regolare, insomma.

E invece no. Mentre mi recavo svogliatamente nello spogliatoio non ho smesso di pensare e rimuginare. Intanto, mi sono detto, è abbastanza improbabile che l’azienda abbia convocato una convention nazionale a Spinetta Marengo, anziché, che so, a Rimini o in Versilia, che sono decisamente più equidistanti da ogni regione della penisola e nella stagione invernale praticano prezzi stracciati. Anche se l’hotel Diamante ospitasse questi eventi quasi gratis, magari per pubblicizzarsi, assicuro che è difficile trovare una “location” meno attrattiva (sempre che la scelta non sia voluta, per evitare ai convenuti ogni distrazione e obbligarli a socializzare tra loro e a non disertare gli incontri).

In secondo luogo, le auto là fuori non erano destinate al trasporto dei prodotti: per quelli ci sono i frigo-car, e nel posteggio non ne stazionavano. Quindi erano auto “di primo approccio”, una flotta nuova di zecca messa a disposizione dei venditori: e a dispetto della modestia dei singoli mezzi, vista tutta assieme suggeriva l’idea di un investimento tutt’altro che trascurabile.

Il primo dubbio mi è stato immediatamente risolto da un altro frequentatore dello spogliatoio, uno addirittura più svogliato di me ma informatissimo e sin troppo disponibile a condividere il suo sapere, che mi ha spiegato come Bofrost abbia aperto una importante filiale a Casale Monferrato, e come dunque quella riunione con ogni probabilità fosse riservata ai venditori dell’area occidentale del Nord Italia.

Il chiarimento, come si può immaginare, non ha fatto che aumentare la mia inquietudine. Due conti spiccioli mi hanno portato a pensare che in altri quattro o cinque grandi alberghi sparsi per la penisola si siano riunite altre torme di venditori, con rispettive vetturette grigie nuove di zecca. Il che ci porta ad una flotta di duecento e passa auto, un parco macchine che lo avesse a disposizione Putin avrebbe già completato l’invasione dell’Ucraina.

E qui cominciano i guai. Mentre pedalavo sulla fantascientifica cyclette che ti rileva oltre alle pulsazioni anche i cambiamenti di umore, con lo sguardo perso sull’enorme discarica che sta al di là della vetrata, l’apparizione si è lentamente insinuata. Ho iniziato a immaginare duecento Panda grigie che si sguinzagliavano lungo le arterie del nostro sistema stradale, risalendone anche le più sottili venuzze, quelle che portano a casolari isolati o a masi montani, guidate da omini della Lego grigio-vestiti che suonavano ad ogni campanello e ripetevano ogni volta più o meno a memoria la lezioncina appresa durante la convention, comprese le tecniche amicali ma professionali di approccio. Dopo pochi minuti quelle Panda erano diventate piccoli droni che si infilavano dovunque, seguiti a ruota da droni più grandi che sganciavano direttamente, come le cicogne, i prodotti surgelati. Mi stavo traghettando nell’incubo.

Mi ha risvegliato uno dei ragazzi che ci fanno da badanti nella palestra, chiedendomi se mi sentivo bene, dal momento che le pedalate più che gesti agonistici sembravano ormai lenti spasmi agonici. In compenso ero tutto sudato.

Piccoli panda crescono 02

Ora mi sono ripreso, ma l’impressione è rimasta. E, come al solito, per liberarmene tento di razionalizzare. Dunque: per prima cosa, come mai vado soggetto a questi fenomeni? Ho provato ad individuare cause prossime e cause remote. Tra le cause prossime potrebbe starci il fatto che la sera precedente avevo mangiato per la prima volta un Big Mac, un’esperienza che tutti dovrebbero fare nella vita, anche i più decisi negazionisti, perché racconta molto della nostra realtà odierna. Ma potrebbe giocare anche l’aver visto in tivù, sempre la stessa sera, Red Ronnie, un caso clinico che neppure la parodia di Crozza riesce a sdrammatizzare. Certe cose mi avvelenano il sangue, sono combattuto tra la pietà dettata dalla miseria umana e la rabbia contro Basaglia e i basagliani.

Per quanto concerne le cause remote, posso metterci il fatto di aver letto da giovane troppi Urania e più recentemente di aver frequentato troppo i complottisti, sia pure per combatterli, finendo per essere contagiato dal loro virus. Anche nei momenti di lucidità non riesco a liberarmi dalla malsana idea che persino dietro Mario Giordano possa esserci un progetto.

Non penso tuttavia che le mie allucinazioni non abbiano proprio alcun aggancio, per quanto confuso, con la realtà. Proviamo a vedere su cosa si basa la “strategia aziendale” di cui gli omini sono gli interpreti e le Panda i vettori. Non punta certamente sulla convenienza economica, perché i prezzi praticati sono decisamente alti: ad esempio, i famigerati “quattro salti in padella” cui ricorro anch’io nei momenti di depressione costano almeno il doppio che al supermercato. La pubblicità dell’azienda punta sulla presunzione di una superiore qualità, ma a certificare quest’ultima è solo l’azienda stessa; per i consumatori la scelta può venire solo da un atto di fede, perché, diciamolo chiaro, la maggior parte di loro (io compreso) non è più in grado dopo decenni di atrofizzazione delle papille gustative di distinguere un fungo da una melanzana, figuriamoci le sfumature di qualità di qualsiasi prodotto. La presunta qualità superiore è dunque solo una facile autogiustificazione offerta all’acquirente per digerire e legittimare il maggiore esborso.

La pista da seguire a mio giudizio è un’altra. Cosa ti vendono gli omini, assieme al prodotto? In cosa consiste davvero il “valore aggiunto”? Non c’è dubbio: è la sicurezza. E allora immagino motivatori ed esperti di marketing che dicono agli ascoltatori in divisa grigio-finanza: “Decantate la superiore qualità del prodotto, i modernissimi processi di sterilizzazione e di congelamento, la varietà, tutto quel che volete, ma soprattutto fate uscire ad un certo punto l’asso dalla manica. Ve lo portiamo direttamente a casa, non dovrete uscire, mettervi per strada, rischiare di imbattervi in pazzi in libera uscita, in terroristi islamici, in automobilisti ubriachi, in tossici fuori controllo, in portatori di covid, in cornicioni che crollano, in telecamere che vi spiano, e via così”. Probabilmente forniscono anche tabelle statistiche degli omicidi, delle rapine, degli incidenti stradali, da mandare a memoria e da snocciolare al momento giusto della conversazione, quando questa raggiunge il climax: ma lo sa signora quante persone vengono rapinate in ogni ora nel nostro paese?

Il che spiega tra l’altro la scelta del colore delle auto (e dei giubbotti): è un grigio “istituzionale”, rimanda alle forze dell’ordine. Quindi, da un lato rassicura, dall’altro mette anche in soggezione: è un ulteriore “incentivo” psicologico all’acquisto. Diciamo che scatta l’effetto “calendario dell’arma”.

Questo è dunque ciò che viene venduto, in parallelo con tutta una serie di altri prodotti d’ogni altro tipo, all’insegna del “noi garantiamo la vostra sicurezza”: dagli aspirapolvere e dai materassi alle vacanze virtuali, complete, oltre che di immagini, degli odori, dei suoni, dei cibi delle località più sperdute, da godersi evitando la fatica e il rischio di mettersi in viaggio. In questo panorama, davanti alla crescita travolgente del commercio on line il destino di aziende come la Bofrost parrebbe segnato: ma non è così. Il tocco di classe, la gratificazione in più offerta dalla Bofrost (e da tutte le ditte che operano in maniera analoga) è quella dell’appartenenza ad una comunità “reale”, e non solo virtuale, rappresentata in carne ed ossa dai promoters, che vengono a trovarti a casa, e magari scambiano anche due chiacchiere con persone che ne hanno raramente l’occasione, e sono ben felici di cogliere questa in piena tranquillità; una comunità tra l’altro a suo modo elitaria, perché può permettersi di spendere qualcosa in più anziché rincorrere le offerte speciali nei supermercati.

Non so chi ci sia a capo di questa azienda, ma non mi stupirebbe se tra qualche anno decidesse di “scendere” in politica. Anzi, no, in realtà c’è già sceso. E il suo esercito è già in moto.

Mi fermo qui, perché sento che sta per arrivare un’altra “apparizione”. O forse non è mai svanita del tutto la prima, anche una volta lontano dal Bellavita. E, a proposito, anch’io sono arrivato stamattina al parcheggio in Panda: ho la mia auto in carrozzeria e me ne hanno data una di cortesia. Ma è bianca. Red Ronnie direbbe che è un segno. Sono già un dissidente nei confronti del regime venturo.

Piccoli panda crescono 03

PS. Il pezzo non è corredato da immagini delle Panda aziendali perché stupidamente stamattina non le ho fotografate (ero troppo turbato) e cercando stasera nel sito dell’azienda non ne ho trovato traccia. Sono presenti solo i furgoni e le auto di rappresentanza, di classe decisamente superiore. Come temevo: è un’operazione segreta.

Pillole contro la bibliolatria

(confessioni di un libraio expat)

di Matteo Cavanna, 5 marzo 2023

La maggior parte dei libri attuali dà l’impressione
di essere stata fatta in una giornata
con dei libri letti il giorno avanti.
(de Chamfort, Massime e pensieri)

Mi ci sono voluti due anni per desacralizzare il libro. Dico desacralizzare perché quando ho iniziato a lavorare in libreria, dodici anni fa, avevo maturato un rapporto con il libro, con l’oggetto libro, per certi versi molto simile al rapporto che si intrattiene con il sacro. Un sentimento di soggezione e fascinazione. Un rispetto sconfinato. Qualsiasi libro, di qualsiasi natura fosse, romanzo o saggio, tascabile o libro d’arte. La spiegazione che ho dato di questo fenomeno sta nel fatto di non essere cresciuto coi libri, ma di averli scoperti in ambito scolastico. Da qui, il sentimento di soggezione. La fascinazione è venuta dopo, quando durante l’adolescenza ho iniziato a leggere libri che non erano in programma. Il retaggio scolastico ha prodotto in me l’idea che i libri fossero un sistema chiuso, riservato a una categoria specifica di persone, e che non avessero a che fare con la vita. Al contrario, l’esperienza adolescenziale mi ha fatto associare al libro una forma di apertura, un mondo che avesse a che fare con la vita, in cui potevo trovare storie e personaggi che mettessero in parole ciò che sentivo in modo confuso.

Pillole contro la bibliolatria 01

Due anni. Forse sono anche pochi, non lo so. Sta di fatto che in libreria mi sono imbattuto con una realtà editoriale che funziona con altre logiche. La produzione di libri è molto alta. Pensiamo che ogni anno, il solo mese di settembre, escono in Francia cinquecento romanzi. Troppi libri. Un sistema economico articolato supporta questo flusso produttivo, dalla pubblicità ai premi letterari. Il calendario editoriale francese prevede due momenti centrali: la Rentrée littéraire, a settembre, seguita dai premi letterari e dal periodo natalizio; e la Rentrée d’hiver, il mese di gennaio. Durante l’anno, ogni settimana ci sono delle novità. Un programma così ricco potrebbe sembrare una buona cosa, per certi versi lo è anche. Ma se scavassimo un po’ più a fondo cominceremmo a storcere il naso. Per farla breve, non credo che un’ampia scelta sia sinonimo di libertà di scelta. Anzi, spesso si risolve nel suo opposto e ci ritroviamo a leggere tutti gli stessi quattro o cinque libri ogni anno.

Pillole contro la bibliolatria 02

Ho consigliato libri per anni. Sono convinto che un buon libraio sia quello che, partendo da qualche informazione, riesca a individuare due o tre titoli che possono soddisfare il lettore. Soddisfare non significa assecondare. Ho sempre considerato il tempo della lettura come un tempo carico di aspettative. Non sopporto i libri che fanno perdere tempo. Una delle massime che ho seguito durante il mio lavoro la devo a Schopenhauer, il quale sosteneva che la sola maniera per leggere buoni libri è quella di non leggere quelli cattivi. Così ho sempre indirizzato i clienti seguendo questo criterio. Seguire questo criterio significa non seguire quello della logica di mercato, tenerne conto, certo, ma non seguirla. Questo mi ha creato alcune incomprensioni con la direzione della libreria, ma anche tante soddisfazioni coi lettori. E non solo, perché i risultati commerciali alla fine mi hanno dato ragione. Ma in fondo è una battaglia persa. Vale se appoggiata da una visione, una ricerca, altrimenti si è condannati a una forma silenziosa di ostracismo.

Cominciai a leggere perché la vita mi diceva no;
la lettura invece aveva la bontà di dire si…
(Robert Walser)

Se mi chiedo a cosa servano tutti questi libri, non ho dubbi: a cercare una risposta. A trovare il coraggio di alzarsi la mattina. È la mia personale spiegazione, quella che per il momento regge ancora il rapporto che ho con i libri. Diciamo che non provo più un rispetto incondizionato per questo oggetto: mantengo un rapporto condizionato. Dipende dal loro contenuto, dalla loro qualità. Sapendo poi che il settanta per cento dei tascabili invenduti finisce al macero per recuperare la carta e produrne di nuovi, non ho più esitazioni a buttare via un libro. Al contrario, se viene fatto consapevolmente, lo trovo un atto responsabile.

Ma ne riparleremo.